Terza parte

1

È davvero il colmo dell’ironia pensò Odal, che usino la duellomacchina per torturarmi! Perché quella, indipendentemente da come la chiamassero, era tortura bella e buona.

Se ne stava seduto nell’angusto abitacolo, lo sguardo fisso alle pareti anonime, allo schermo vuoto, in attesa che cominciassero.

Il prezzo dell’insuccesso era davvero troppo pesante. Kanus aveva fatto di Odal la gloria di Kerak mentre tutto andava a gonfie vele, quando lui uccideva i nemici del Paese.

Adesso stava uccidendo lui. Non gli venivano provocati danni fisici. Non era neppure in arresto, dal punto di vista tecnico. Era stato semplicemente assegnato agli esperimenti nel quartier generale di Kor, il Ministero dei Servizi Segreti. E ora si trovava in quell’enorme castello di pietra, antico e triste, in cima a una collina, vero labirinto di sofferenze e di terrore all’interno, a causa della sete crescente di vittime di Kor.

Nella duellomacchina, l’illusione del dolore non era meno terribile che nella realtà. Odal si permise un sorriso ironico. Gli uomini che lui aveva ucciso erano morti prima nella loro fantasia e poi anche il loro cuore aveva cessato di battere.

Allora, siete pronto? disse, nella sua mente, una voce che arrivava attraverso i circuiti della macchina e i neurocontatti che gli stringevano la fronte e la nuca.

Oggi sonderemo un po’ più in profondità, nel tentativo di trovare la fonte dei vostri talenti extrasensoriali. Vi consiglio di rilassarvi e di collaborare.

Il giorno prima erano stati in tre a lavorare su di lui, dall’altra parte della macchina. Oggi erano in molti. Sei? Otto? Forse dodici.

Odal sentiva pensieri estranei e personalità sconosciute dentro la sua mente. Le mani gli si torcevano incontrollabilmente e il corpo cominciava a dolergli e a sussultare.

Stavano impadronendosi dei suoi centri nervosi, sconquassandoglieli. I muscoli si contraevano spasmodicamente, i nervi tiravano per il dolore, la temperatura corporea saliva, le orecchie ronzavano e, davanti ai suoi occhi, si sprigionavano fiamme rosse e stelle di una luce insopportabile. Ora i torturatori si spingevano più in fondo, scavando, smantellando inibizioni autoprotettive durate tutta una vita, protendendosi con una sonda incandescente nel centro stesso della sua personalità.

Odal sentì una voce terrorizzata gridare: Stanno inseguendo me. Stanno cercando di impossessarsi di me. Nasconditi! Nasconditi!

Era la sua voce.

Malgrado la vastità del locale, Leoh pensò che l’ufficio del primo ministro, con le sue decorazioni blu e oro, con il peso di tradizioni sorpassate e di ricordi inutili più grevi dei drappeggi pesanti che ornavano ogni porta e ogni finestra, sapeva di rinchiuso.

La riunione era stata breve e per niente spettacolare. Martine aveva invitato Leoh per un colloquio confidenziale, escludendo di proposito Hector. Una dozzina di collaboratori, uomini politici e amministratori, si affollavano intorno alla scrivania dove stava seduto il primo ministro, mentre questi ringraziava ufficialmente il professore per aver scoperto il tentativo di Kanus di servirsi della duellomacchina come di un paravento per nascondere i loro preparativi bellici.

— È stato merito del tenente Hector, non mio — insisté Leoh.

Martine agitò una mano, impaziente. — Il tenente è soltanto il vostro segretario. Siete voi l’uomo di cui Kanus ha paura.

Dopo, una chiacchierata di dieci minuti, Martine fece un cenno a uno dei suoi collaboratori che andò alla porta e introdusse un gruppo di fotografi. Il primo ministro si alzò e girò intorno alla scrivania per mettersi accanto a Leoh, torreggiando orgogliosamente sopra il vecchio, mentre i fotografi scattavano le loro foto. Poi, quando i reporter se ne andarono, la riunione si sciolse e tutti cominciarono a dirigersi verso l’uscita.

— Professor Leoh.

Era quasi arrivato alla porta, quando Martine lo chiamò. Leoh si girò e vide il primo ministro seduto dietro l’alta scrivania. Ma, al posto del gelido distacco di prima, sulla faccia aveva un sorriso cordiale.

— Per favore, chiudete e restate con me per altri dieci minuti — disse il generale.

Stupito, Leoh l’accontentò. Mentre avvicinava una poltrona, osservò attentamente Martine sfiorare con una mano il pannello delle comunicazioni sistemato sulla scrivania e aprire un cassetto. Poi sentì lo scatto leggero di un interruttore.

— Ecco. Ora siamo certi di esser soli. Quell’interruttore isola completamente la stanza. Non può sentirci neanche il mio segretario privato, adesso.

Leoh inarcò le sopracciglia.

— Avete tutto il diritto di stupirvi, professore, e io dovrei scusarmi umilmente. Ma ho dovuto assicurarmi che il nostro colloquio rimanesse strettamente privato.

— Questo colloquio? Allora, la riunione appena terminata con le altre personalità e i giornalisti…

Martine ebbe un ampio sorriso. — Kanus non è il solo che sappia nascondersi dietro una cortina di fumo.

— Capisco. Cosa volete dirmi, allora?

— Prima di tutto, fate le mie scuse al tenente Hector. Non è stato invitato per ragioni che vi appariranno giare tra un attimo. Mi rendo conto che è riuscito a strappare la verità ad Odal anche se sono convinto che non sapesse quello che stava facendo in quel momento.

Leoh trattenne un sorriso. — Hector ha un suo modo speciale di fare le cose.

Martine annuì e continuò, con sobrietà maggiore: — Ecco perché ho voluto parlarvi in privato: sono stato uno sciocco caparbio. Me ne rendo conto, ora. Kanus non solo mi ha superato in acutezza di ingegno, ma si è infiltrato profondamente nel mio governo. Quando ho saputo che Lal Ponte è un agente di Kerak… — La faccia del primo ministro era terrea.

— Che cosa avete intenzione di fargli?

L’altro alzò le spalle. — Non posso fargli niente. Odal l’ha accusato, ma non sono emerse prove durante le indagini. Comunque, sono certo che se Kanus dovesse conquistare l’Ammasso d’Acquatainia, Ponte verrebbe nominato primo ministro del governo fantoccio.

Leoh non rispose.

— Ma Ponte non è poi un gran problema. Lo si può isolare. Posso sapere tutto quello che avviene nel suo ufficio, attraverso uomini fidati che sono al di sopra d’ogni sospetto. Se ne starà seduto da solo alla sua scrivania, fino a che il soffitto gli crollerà in testa.

— Ma questo non è l’unico problema.

— No. E la situazione militare che costituisce la minaccia più diretta. Voi e Spencer avevate ragione: Kerak sta preparandosi rapidamente per un attacco, e la nostra difesa è troppo indietro rispetto alla loro preparazione, per permetterci di restare tranquilli.

— Allora l’alleanza con la Federazione…

— No, questa è impossibile — disse Martine, scuotendo la testa desolato. — Qui la situazione politica è troppo instabile. Io sono stato eletto con una maggioranza minima… grazie a onte. E pensare che l’ha fatto per volontà di Kanus! Eravamo tutt’e due pedine, professore!

— Lo so.

— Comunque Dulaq, Massan e tutti i loro predecessori hanno sempre respinto un’alleanza con la Federazione. Se cercassi di stringerla ora, il mio gesto verrebbe interpretato come un’ammissione di debolezza. Ci sono forti correnti in favore di Kerak, in questa amministrazione, e molti sono ancora ciechi e caparbi, come prima lo ero io. Mi manderebbero a spasso in una settimana con un’altra votazione, se cercassi di stringere un’alleanza con i Terrestri.

— E allora, che cosa potete fare? — domandò Leoh.

— Io posso farci ben poco. Ma voi potete molto. Io non posso chiamare in aiuto la Guardia Spaziale, ma voi potete mettervi in contatto col vostro amico Sir Harold e suggerirgli di chiedermi il permesso di far attraversare l’Ammasso a una flotta della Guardia Spaziale. Con una scusa qualsiasi. Esercitazioni, esplorazioni, scambi culturali: un pretesto qualunque, insomma.

Leoh si agitò, a disagio, sulla poltrona. — Dunque volete che io dica ad Harold di pregare voi…

— Esattamente. — Martine annuì, con vivacità. — E deve trattarsi di una flotta piccola, piccolissima. Tutti, in Acquatainia, devono essere convinti che le navi terrestri non vengono mandate qui per difenderci da Kerak, ma Kanus deve capire con altrettanta chiarezza che non potrà attaccarci senza uccidere uomini della Guardia Spaziale, e quindi senza tirare in ballo la Federazione.

— Penso di comprendere — disse il professore, con una smorfia. — Einstein aveva ragione: la fisica nucleare è molto più semplice della politica.

Martore rise amaramente.

2

Kanus se ne stava seduto, riflettendo in silenzio, con una espressione scontenta sulla faccia magra e pallida. Quasi tutti i membri del Gabinetto erano con lui nello studio enorme. Alcuni guardavano il loro capo troneggiare dietro la scrivania sapientemente elevata, altri cercavano di evitarne lo sguardo infuriato.

Finalmente il Duce parlò. — Avevamo già in pugno l’Ammasso d’Acquatainia, e abbiamo lasciato che un vecchio rudere universitario e un semideficiente della Guardia Spaziale ce lo strappassero di mano! Kor, mi avevate detto che il piano era assolutamente sicuro!

Il ministro dei Servizi Segreti si mantenne calmo. Solo il luccichio di sudore sulla testa calva e tonda come una palla da biliardo rivelava l’agitazione interiore. — Infatti lo è stato davvero, fino a che…

— Fino a che? Fino a che? Io voglio l’Ammasso d’Acquatainia, non scuse!

— E l’avrete — promise il maresciallo Lugal. — Non appena l’esercito sarà stato equipaggiato e…

— Non appena! Fino a che! — gridò Kanus. — Avevamo un piano di conquista, ed è fallito. Dovrei farvi gettare tutti in pasto ai cani! E voi, Kor… Si trattava di un’idea vostra, del vostro piano! Siete stato voi a scovare quel tipo capace di leggere nelle menti, quell’Odal. Avrebbe dovuto essere lo strumento della mia volontà. E invece è un fallito! Tutti e due avete fatto fiasco! Due volte. Potete dirmi una sola ragione per cui io debba permettervi ancora di appestare l’aria con la vostra presenza?

— Il governo di Acquatainia è ancora molto scosso ed è maturo per essere abbattuto — rispose Kor, pacatamente. — Gli uomini che vi vedono di buon occhio hanno raggiunto posti importanti nel governo. Inoltre, malgrado gli insuccessi del maggiore Odal, stiamo perfezionando una nuova arma segreta, un’arma tanto potente che…

— Un’arma segreta? — gli occhi del Duce si illuminarono.

Kor abbassò impercettibilmente la voce. — I nostri scienziati ritengono che sia possibile servirsi di un telepate come il maggiore Odal e della duellomacchina, per trasportare oggetti da un luogo all’altro coprendo qualsiasi distanza quasi istantaneamente.

Kanus rimase in silenzio per un attimo, poi domandò: — Anche interi eserciti?

— Sì.

— In qualsiasi punto della galassia?

— Ovunque si trovi una duellomacchina.

Kanus si alzò piano e teatralmente, e si avvicinò all’enorme mappa spaziale che occupava tutta una parete della stanza. Poi, abbracciando l’intera mappa con largo gesto della mano, urlò: — Dovunque! Posso colpire dovunque. Loro non sapranno mai che cosa li ha distrutti!

Saltellava letteralmente di gioia, pavoneggiandosi come un tacchino che fa la ruota.

— Ora niente potrà più fermarci — continuò. — La Federazione Terrestre cadrà davanti a noi! La galassia è nostra! Li faremo tremare solo al nostro pensiero! Si umilieranno solo a sentir pronunciare il mio nome!

I presenti annuirono, con un mormorio di approvazione.

All’improvviso i lineamenti di Kanus si irrigidirono nuovamente, e il Duce si volse di scatto verso Kor. — Questo è davvero un segreto, o qualcun altro sta compiendo ricerche affini? Che ne è di Leoh?

— Può darsi — rispose Kor con voluta indifferenza — che anche il professore stia lavorando in questo senso. Dopotutto, la duellomacchina l’ha inventata lui! Però non possiede un telepate allenato e preparato come il nostro Odal.

— Non mi piace dipendere interamente da quel fallito di Odal!

Un sorriso cattivo contrasse la faccia del ministro. — Non dipendiamo affatto da lui, Duce. Stiamo usandone il cervello. È semplicemente una cavia, niente di più.

Kanus gli ricambiò il sorriso. — Ora non sarà certo soddisfatto del suo compito, ritengo.

— Direi proprio di no.

— Bene. Fatemi vedere qualche registrazione dei suoi esperimenti.

— Con piacere, Duce.

In quel momento si aprì una porta in fondo alla stanza: Romis, il ministro degli Affari Esteri, entrò. Tutti piombarono in un silenzio di tomba, mentre i passi del nuovo venuto risuonavano sul pavimento di marmo. Alto, magro, impettito, si diresse senza esitare alla scrivania di Kanus, stringendo in mano una lunghissima relazione battuta a macchina. La sua faccia da patrizio era seria e grave.

— Ho notizie spiacevoli da darvi, Cancelliere.

Rimasero in piedi uno davanti all’altro, e tutti i presenti notarono chiaramente l’odio che esisteva tra i due. Kanus, basso, smilzo, bruno, lanciò un’occhiata fulminante all’aristocratico dai capelli d’argento.

— Dalla nostra ambasciata in Acquatainia — continuò Romis, gelido — comunicano che Sir Harold Spencer ha chiesto il permesso di porre temporaneamente la base per un viaggio di ricognizione della Guardia Spaziale su una delle stelle di frontiera dell’Ammasso d’Acquatainia. Una stella vicina alla nostra frontiera, naturalmente. E Martine ha acconsentito.

Kanus impallidì, poi si fece rosso di rabbia. Strappò di mano a Romis il rapporto e lo lesse rapidamente, dopo di che lo accartocciò e lo gettò sul pavimento. Per qualche momento non riuscì neppure a parlare, poi diede inizio alla sfuriata.

Un’ora e mezzo dopo, quando il Duce fu di nuovo in grado di connettere e di esprimersi in modo logico, i suoi ministri lo rassicurarono.

— I Terrestri rimarranno lì solo temporaneamente.

— È soltanto una piccola flotta, di nessun valore militare.

— È un debole tentativo di Martine e Spencer…

Sentendo pronunciare il nome di Spencer, il Duce esplose in un’altra sfuriata di mezz’ora. Finalmente s’interruppe, all’improvviso.

— Romis! Piantatela di guardare fuori dalla finestra, e ditemi che cosa pensate voi della situazione.

Il ministro degli Esteri staccò lentamente lo sguardo dal paesaggio e rispose: — Dobbiamo presumere che i Terrestri restino in Acquatainia indefinitamente. Se poi non lo faranno, tanto meglio. Ma i nostri piani devono essere fondati su questa ipotesi. Significa che non possiamo attaccare Acquatainia con forze militari.

— E perché no? — domandò Kanus.

— Perché i Terrestri entrerebbero immediatamente nel conflitto. Col pretesto di salvare dal pericolo la flotta da ricognizione, verrebbe mobilitata l’intera Guardia Spaziale non appena noi sferrassimo l’attacco. Quella base è soltanto una scusa per consentire ai Terrestri di saltarci addosso.

Il Duce aveva lo sguardo fiammeggiante. — Ho io un piano! — annunciò. Poi, volgendosi a Kor, soggiunse: — Dovete spremere al massimo quel trasferitore istantaneo. Voglio un apparecchio che funzioni, immediatamente! Avete capito?

— Sì, mio Duce.

Fregandosi le mani allegramente, Kanus disse: — Non sbarcheremo il nostro esercito nella capitale acquatainiana, ma conquisteremo l’Ammasso dall’interno! Compariremo dovunque esista una duellomacchina e conquisteremo tutto con la rapidità del lampo! Che la Guardia Spaziale pianti pure i suoi avamposti lungo la frontiera! Si divertiranno a togliere le ragnatele! Avremo in pugno l’intero Ammasso prima che Spencer si accorga che ci siamo mossi!

Scoppiò a ridere fragorosamente, e tutti i suoi aiutanti lo imitarono.

Tutti, eccetto Romis.

3

Il professor Leoh, stanco, era seduto sul sedile del banco di manovra principale della duellomacchina, mentre Hector lo guardava, scomodamente appollaiato sul bordo.

— Abbiamo energia sufficiente — disse il professore — i circuiti sono a posto, tutto sembra normale. — guardò il tenente, perplesso.

— Lo so. Soltanto che… Be’, non ci riesco, ecco tutto! — balbettò il giovanotto.

Leoh scosse la testa. — Abbiamo ricostruito esattamente le condizioni in cui avete effettuato il vostro primo balzo, ma adesso la cosa non funziona. Se tutto è perfettamente uguale, allora si tratta di voi.

Hector aveva un aspetto avvilito e imbarazzato.

— Cosa c’è, ragazzo mio? Cosa vi preoccupa? Non siete più voi dalla sera in cui avete catturato Odal.

L’altro non rispose.

— Sentite — continuò Leoh. — È molto difficile studiare i fenomeni psichici. Da secoli gli uomini conoscono esempi di soggetti che si sono teletrasferiti, o che si sono serviti della telepatia. Sono stati registrati migliaia di casi di spiritismo. Si credeva che fossero davvero gli spiriti a battere i colpi sul tavolino, anni fa. Ora io sono certo che si trattava di telecinesi: lo spirito, in realtà, era una persona piuttosto normale che, sotto una tensione straordinaria, lanciava oggetti per tutta la casa, mentalmente, senza neanche rendersene conto.

— Proprio come quando io sono passato senza saperlo da una cabina all’altra — disse Hector.

— Sì. Ora, io avevo sperato che la duellomacchina amplificasse le capacità psichiche che stanno in voi. Invece non funziona più.

— Forse non le possiedo veramente.

— Può anche darsi — ammise il professore. Poi, allungandosi sulla seggiola e puntando un dito tozzo contro il tenente, aggiunse: — Oppure qualcosa vi ha talmente sconvolto da seppellire e addormentare le vostre capacità, come se aveste girato un interruttore!

— Sì. Be’, ehm, si tratta…

— Di Geri? È un bel po’ che vi vedo insieme. Forse, se potesse venire… Dopo tutto era una delle condizioni che hanno determinato il vostro primo balzo, no?

— Non verrà di certo — disse Hector, desolato.

— Eh? Perché?

— Perché voleva che uccidessi Odal e io mi sono rifiutato. Così ce l’ha con me e non vuole parlarmi neanche al telefono.

— Cosa? Ma che storia è questa? Raccontate con ordine, figliolo!

Così il tenente spiegò tutta la faccenda.

Leoh si appoggiò contro lo schienale della sua poltrona, le mani intrecciate sulla pancia. — Ehmm… — disse. — È una cosa possibile, considerata la mentalità degli acquatainiani. Però da lei mi aspettavo qualcosa di meglio.

— Non vuole neanche parlarmi — ripeté Hector.

— Voi, però, vi siete comportato bene. Perlomeno, in modo conforme agli insegnamenti che vi hanno impartito alla Guardia Spaziale. La vendetta è un motivo sordido, e solo l’autodifesa può giustificare l’uccisione di un uomo.

— Provate a dirlo a lei!

— No, ragazzo mio — dichiarò il professore, alzandosi dalla poltrona. — Dovete dirglielo voi, e senza mezzi termini.

— Ma se si rifiuta di vedermi!

— Sciocchezze. Se l’amate, riuscirete a raggiungerla. Spiegatele il motivo per cui avete agito così. Se lei vi ama, vi accetterà per quello che siete e sarà orgogliosa di voi.

— E se non mi ama? — domandò il tenente con aria dubbiosa.

— Be’, conoscendo il temperamento degli acquatainiani, direi che potrebbe tirarvi dietro qualcosa.

Hector continuò a starsene appollaiato sull’orlo del tavolo, fissando il pavimento.

Leoh gli batté su una spalla. — Sentite, figliolo. Quello che avete fatto richiede coraggio, un coraggio autentico. Sarebbe stato facile ammazzare Odal e guadagnarsi la stima di lei. Anzi, la stima di tutti, per essere sinceri. Invece vi siete comportato nel modo che vi sembrava più giusto. Ora, se avete avuto il coraggio di far questo, a maggior ragione avrete quello di affrontare una ragazza disarmata.

Hector lo guardò, rabbuiato. — Ma supponiamo, supponiamo che non mi abbia mai amato. Supponiamo che si stesse semplicemente… Be’, servendo di me… perché uccidessi Odal.

Allora è meglio che vi liberiate di lei pensò Leoh. Ma, naturalmente, non poté dirlo ad Hector. — Non credo affatto che questo sia il caso — disse invece, piano. Poi soggiunse, tra sé: Per lo meno lo spero.


Sprofondato in un sonno pesante, Odal non sentì la porta che si apriva. Il sergente entrò nella cella spoglia e priva di finestre, e gli fece lampeggiare la torcia elettrica davanti agli occhi. Odal si mosse e distolse la faccia dalla luce. L’altro lo afferrò per le spalle e lo scosse rudemente.

Il maggiore si svegliò di soprassalto, spazzò via con un pugno la mano della guardia dalla sua spalla e prese l’uomo per il collo. Il sergente mollò la lampada e lottò per liberarsi dalla stretta del prigioniero, che lo soffocava. Per un minuto o due, rimasero avvinti in una rabbia silenziosa, nella luce spettrale della torcia elettrica cauta sul pavimento. Odal steso sulla cuccetta, il sergente che scivolava, lentamente, in ginocchio.

Poi Odal lasciò andare la presa. L’altro cadde in avanti, tossendo. Il maggiore tirò fuori le gambe dal letto e si alzò in piedi.

— Un’altra volta che dovrete svegliarmi, fatelo con più cortesia — disse. — Io non sono un delinquente comune e non intendo essere trattato come tale da uno come voi. E anche se la porta è chiusa dall’esterno, bussate prima di entrare. Chiaro?

Il sergente si alzò, massaggiandosi la gola, con un misto di rabbia e paura nello sguardo.

— Io eseguo gli ordini. Nessuno mi ha detto di trattarvi in modo speciale.

— Be’, ve lo dico io — disse Odal, secco. — E, fino a quando conserverò il mio grado, vi rivolgerete a me chiamandomi signore.

— Sì, signore — mormorò l’altro, cupo.

Odal si rilassò un poco, aprì i pugni.

— Siete richiesto alla duellomacchina, signore.

— Nel bel mezzo della notte? Per ordine di chi?

La guardia strinse le spalle. — Non me l’hanno detto, signore. Odal sorrise. — Benissimo. Uscite, mentre indosso l’uniforme. — E accennò agli indumenti sformati, ammucchiati in fondo alla branda.

Un solo meditec aspettava davanti alla duellomacchina, che torreggiava minacciosa nella penombra. Odal riconobbe nell’uomo uno degli inquisitori che aveva dovuto affrontare durante le ultime settimane. Senza parlare, il meditec gli fece cenno di entrare in una cabina. Il sergente si ritirò sulla porta che dava in una grande sala, mentre venivano sistemati i neurocontatti sul torace e sulla testa del maggiore. Poi il meditec uscì dal cubicolo, e chiuse la porta con decisione.

Per qualche istante non accadde nulla. Infine Odal sentì una voce risuonargli nella mente.

Il maggiore Odal?

Naturalmente rispose lui, fra sé.

Già, naturalmente.

C’era qualcosa di strano, qualcosa che non funzionava. Voi, voi non siete…

Io non sono la persona che vi ha messo dentro la duellomacchina. Esatto. La voce sembrava compiaciuta e preoccupata al tempo stesso. Quell’uomo è ai comandi della macchina, mentre io sono mezzo pianeta più in là, ma lui ha con sé un minuscolo ricetrasmettitore, e io sto comunicando con voi per mezzo di questo. Non è un mezzo di comunicazione ortodosso, ma probabilmente non potrà essere intercettato da Kor e dai suoi aguzzini.

Io vi conosco disse il maggiore. Vi ho già incontrato.

Infatti.

Romis! Voi siete il ministro Romis.

Sì.

E cosa volete da me?

Soltanto oggi ho saputo in quale situazione vi trovate. E sono rimasto molto scosso nel sentire che un coraggioso soldato di Kerak è stato trattato in questo modo.

Odal sentiva le parole formarsi nella sua mente, ma sapeva che quella era soltanto una vernice lucente che nascondeva un significato più profondo. Non rispose nulla, e aspettò che il ministro continuasse.

Vi maltrattano?

Il maggiore sorrise senza allegria. Non più di una cavia da laboratorio. Non credo sia peggio di sentirsi aprire il ventre senza anestesia.

La mente di Romis arretrò. Poi tornò all’attacco e disse: Forse ho la possibilità di aiutarvi.

Odal perse la pazienza. Non vi siete certo messo in contatto con me nel bel mezzo della notte e usando un procedimento tanto complicato, solo per chiedermi come sto! Qualcosa vi preoccupa molto, e credete che io possa aiutarvi.

Riuscite davvero a leggere nei miei pensieri?

Non come si legge una registrazione, ma so intuire le cose. E la duellomacchina amplifica questo dono.

Romis esitò un istante, poi domandò: Riuscite a intuire quello che ho in mente?

Ora fu Odal ad esitare. Era un trabocchetto? Guardò le pareti dello stretto cubicolo, e la porta che sapeva chiusa dall’esterno. Che cos’altro possono farmi? Uccidermi? pensò. Sento nei vostri pensieri un odio profondo per Kanus rispose finalmente. Un odio eguagliato soltanto dalla vostra paura per lui. Se fosse in vostro potere, voi lo…

Io… che cosa?

Finalmente Odal vedeva il quadro chiaramente. Lo fareste assassinare.

E come?

Da un ufficiale dell’esercito caduto in disgrazia, che abbia buone ragioni per odiarlo.

Voi ne avete dei buoni motivi! sottolineò il ministro.

Forse.

Forse? Come potrebbe essere altrimenti?

Odal scosse la testa. Non ho mai preso in considerazione il problema. Lui è il Duce. Io non l’ho mai odiato né amato, ma ho semplicemente ubbidito ai suoi ordini.

Il dovere innanzi tutto replicò il pensiero di Romis. Parlate come un membro dell’aristocrazia.

Come siete voi. Eppure desiderate assassinare il Duce.

Sì! Perché un membro dell’aristocrazia antepone la fedeltà per i Mondi Kerak all’ubbidienza a questo pazzo, a questo usurpatore del potere che ci distruggerà tutti, nobili e popolani, alla stessa maniera!

Io sono un figlio del popolo replicò Odal, con fermezza. Forse non abbastanza preparato per decidere quale sia il mio dovere. Certamente, ora, non ho possibilità di scelta.

Romis si ricompose. Ascoltatemi. Se acconsentite ad unirvi a noi, potremo aiutarvi a fuggire da questi esperimenti bestiali. Come vedete, alcuni dei principali collaboratori di Kor sono con noi, e anche qualche gruppo dell’esercito e della flotta spaziale. Se ci aiuterete, potrete essere ancora un eroe di Kerak.

Se riesco a uccidere Kanus e a sopravvivere pensò Odal, tra sé.E se non verrò assassinato a mia volta dai vostri amici.

Ma a Romis domandò: E se non accettassi di unirmi a voi?

Il ministro non rispose.

Capisco disse Odal. Ora so troppe cose perché mi si possa permettere di vivere. Sfortunatamente la posta è troppo alta per lasciare ai sentimenti personali di prendere il sopravvento. Se non acconsentirete ad aiutarci prima di lasciare la duellomacchina, il meditec e il sergente si occuperanno di voi. Hanno degli orni da eseguire.

Mi uccideranno disse Odal crudamente e daranno a intendere che ho cercato di fuggire. Sì. Perdonatemi la brutalità, ma questa è l’alternativa: unirvi a noi o morire.

4

Mentre Odal prendeva la sua decisione nel buio della mezzanotte di Kerak, nella capitale di Acquatainia era il tramonto.

Hector volava in larghi cerchi sopra la città, in un aeromobile preso a nolo, e che da molto tempo sarebbe stato pronto per il mucchio delle immondizie. Teneva gli occhi fissi sul pannello di comando davanti a sé, e se ne stava seduto, coi nervi tesi, al posto del. pilota. La cabina dei passeggeri era vuota.

Ogni tanto si ritrovava sopra uno dei quartieri cittadini dove il traffico aereo era più intenso, ma ignorava gli altri aeromobili e teneva il pilota automatico inserito sempre sulla stessa rotta, incurante dei pendolari che se ne tornavano a casa e gli lanciavano imprecazioni via radio, compiendo vere e proprie acrobazie per evitare il suo veicolo. Hector teneva spenta la sua radio, e ogni cellula del suo corpo era concentrata sullo schermo televisivo.

I dispositivi d’esplorazione erano puntati sulla casa di Geri Dulaq, alla periferia della città. Per quanto riguardava il tenente, non esisteva altro. I veicoli sfrecciavano sibilando presso la cabina chiusa e i piloti dalla faccia congestionata agitavano i pugni nella sua direzione, ma lui neanche h vedeva. L’aria entrava sibilando in quello che avrebbe dovuto essere un abitacolo sigillato. L’aeromobile gemeva e rantolava invece di ronzare e innalzarsi, ma lui non ci faceva caso.

Eccola là! Quando la vide attraversare il giardino attiguo alla casa, sentì come una scossa elettrica percorrerlo tutto.

Per un attimo si domandò se avrebbe avuto abbastanza coraggio, ma la sua mano aveva già spostato la leva, e l’aeromobile, rabbrividendo, aveva iniziato una discesa lamentosa.

Il sole rossastro di Acquatainia brillava dritto negli occhi di Hector, attraverso il tettuccio fotocromico che avrebbe dovuto schermare la luce. Socchiudendo gli occhi, il tenente riusciva a malapena a distinguere la massa minacciosa dell’edificio che gli veniva incontro. Si aggrappò ai comandi, aprì completamente le alette frenanti, si preparò all’atterraggio e lanciò il veicolo, in un turbine di polvere, proprio in mezzo all’aiuola di Geri.

— Tu!!! — esclamò lei, mentre il tenente spalancava il tettuccio.

Poi fece dietro-front e si rifugiò in casa. Hector fece l’atto di correrle dietro, ma le cinghie che lo fissavano al sedile non glielo permisero.

Quando si fu liberato dall’imbracatura e saltò a terra, inciampando, lei era già scomparsa. Ma la porta era ancora aperta. Il tenente se ne accorse e si tuffò a pesce.

Un servitore piuttosto anziano comparve sul vialetto che portava all’ingresso. Hector lo evitò, e si gettò verso la porta che ora, però, stava girando sui cardini: era proprio sulla soglia, quando il battente lo imprigionò contro lo stipite.

Dietro l’ingresso si udiva l’ansare di qualcuno che tentava di chiudere completamente, benché un braccio e una gamba del tenente fossero ormai dall’altra parte. Hector spinse con tutte le sue forze, ma inutilmente. Non può essere lei pensò. Puntandosi come meglio poteva con l’unica gamba, tentò ancora. La porta cedette lentamente, poi, all’improvviso, si spalancò: Hector perse l’equilibrio e finì addosso a un servo robusto che spingeva dall’altra parte. Tutti e due rotolarono sul pavimento di plastilegno dell’entrata.

Il tenente si alzò carponi e intravide Geri in cima all’ampio scalone curvo che dominava la sala principale della casa. Poi il servo gli piombò addosso e cercò di immobilizzarlo, ma lui riuscì a liberarsi dalla stretta e fu di nuovo in piedi.

— Non voglio farvi del male! — disse con voce rotta, tenendo però i pugni in una posizione minacciosa. In quell’istante altre due braccia lo afferrarono alle spalle, senza però molta forza. Si trattava del vecchio servitore. Hector se lo scrollò di dosso e fece qualche altro passo verso l’interno della casa, gli occhi fissi sul tipo robusto che ora se ne stava accasciato sul pavimento, guardando Geri con aria interrogativa.

Basta che lei faccia un cenno pensò Hector, e quelli mi saltano addosso tutti e due.

— Ti avevo detto che non volevo più rivederti! — gli gridò la ragazza. — Mai più!

— Io devo parlarti — gridò lui di rimando. — Bastano pochi minuti, ma… da soli.

— Io non… ti sanguina il naso.

Hector si passò un dito sul labbro superiore e lo ritirò sporco di un rosso appiccicoso.

— Oh, la porta! Devo averci urtato contro.

Geri scese i gradini, esitante, poi inspirò profondamente e arrivò fino nell’ingresso.

— Va bene — disse con calma ai servi. — Potete andare.

Il tipo corpulento sembrò esitare. Il vecchio azzardò un — Ma se…

— Non c’è pericolo — disse lei con fermezza. — Potete restare nella stanza accanto, se credete. Il tenente si tratterrà solo cinque minuti. Non di più — aggiunse, rivolta a Hector.

I due si ritirarono controvoglia.

— Hai rovinato i miei fiori — gli disse Geri, ma dolcemente, mentre le labbra si piegavano in un piccolo sorriso. — E il tuo naso sanguina ancora.

Hector si frugò in tasca. Lei gli porse un fazzoletto.

— Ecco qua. Ora ripulisciti e vattene.

— Non prima di averti detto quello che ho da dirti — rispose lui con voce nasale, premendosi il fazzoletto contro le narici.

Alza la testa, non macchiarmi il pavimento.

— È difficile parlare in queste condizioni!

Geri dovette ridere, sebbene controvoglia. — Be’, è colpa tua. Non si piomba nel giardino del prossimo come…

— Tu non volevi vedermi. E io avevo bisogno di parlarti.

— Che cosa devi dirmi?

Rizzando la testa, con uno scricchiolio penoso delle vertebre cervicali, Hector disse: — Be’, al diavolo! Geri, io ti amo! Ma non ho intenzione per questo di diventare un assassino prezzolato. E se tu mi amassi davvero, non lo vorresti neanche tu. Uno mica deve trasformarsi in una scimmia ammaestrata per far piacere alla sua ragazza! Io non sono…

I lineamenti di lei si irrigidirono. — Veramente ti avevo chiesto di fare una cosa che avrei fatto io stessa, se mi fosse stato possibile.

— Tu avresti ucciso Odal?

— Sì.

— Perché ha ucciso tuo padre?

— Esattamente.

Hector si tolse il fazzoletto dal naso. — Ma Odal non ha fatto che eseguire degli ordini. È stato Kanus a ordinare che tuo padre venisse assassinato.

— E allora ammazzerei anche Kanus se ne avessi l’occasione — sbottò lei, rabbiosa.

— Uccideresti chiunque avesse contribuito a far morire tuo padre?

— Ma certo!

— Anche i soldati, quelli che aiutarono Odal durante il duello?

— Certo!

— Tutti quelli che ebbero a che fare con Odal? Proprio tutti? Anche l’equipaggio della nave che lo portò qui?

— Sì! Tutti!

Hector allungò lentamente un braccio e le pose una mano su una spalla. — Allora dovresti uccidere anche me, perché l’ho lasciato andare. L’ho aiutato a sfuggirti di mano.

Lei aprì la bocca per rispondere, poi gli occhi le si riempirono di lacrime. Appoggiò la testa sulla spalla del tenente e scoppiò in pianto.

Lui le passò un braccio intorno alla vita. — Basta, Geri. Basta. Lo so che è terribile. Ma non puoi pretendere che io diventi un assassino come lui. Voglio dire che non è questo il modo di…

— Lo so, Hector — replicò Geri singhiozzando. — Lo so.

Rimasero per un momento abbracciati. Poi lei guardò in su, e lui la baciò.

— Mi sei mancato — disse la ragazza, piano.

Lui sorrise beato. — Io… Be’, anch’io ho sentito molto la tua mancanza.

Risero insieme, poi Geri tirò fuori un altro fazzoletto e gli tamponò il naso.

— Mi spiace per i fiori.

— Non fa nulla. Si… — Tacque bruscamente, guardando stupita verso la porta.

Girandosi, Hector vide un robot grande all’incirca come una gabbia da imballaggio, che suonava con aria solenne davanti alla porta aperta. L’unico foto-occhio sembrò illuminarsi alla vista del tenente.

— Voi siete il tenente Hector H. Hector, della Guardia Spaziale, pilota del veicolo parcheggiato nell’aiuola? — domandò tintinnando.

Hector annuì senza parlare. — Sono state fatte denunce contro di voi, signore: violazione delle norme di sicurezza di volo relative alla circolazione, mancata ricezione di appelli radio, schemi di volo non autorizzati, inosservanza del regolamento sulla quota minima in zona residenziale, atterraggio in area non autorizzata, violazione di domicilio, vie di fatto. Nel vostro interesse, astenetevi dal fare qualsiasi dichiarazione prima di aver consultato il vostro legale. Siete pregato di seguirmi, o sarà sporta ulteriore denuncia per resistenza alla forza pubblica. Grazie.

Il tenente impallidì, e le sue spalle si fecero spioventi.

Geri riuscì con fatica a reprimere un sorriso divertito. — Va’ pure, Hector. Mi metto subito in contatto con un avvocato. Se ti schiaffano dentro, verrò a trovarti. Sarà molto romantico.

5

Odal se ne stava nell’oscurità della duellomacchina, rimuginando tetramente. Continuare a far da cavia a Kor voleva dire sopportare la tortura di incessanti sondaggi del cervello e, infine, affrontare una morte terribilmente spiacevole. Unirsi a Romis significava compiere un tentativo per assassinare il Duce, tentativo che, riuscito o no, sarebbe costato la vita al traditore per via della guardia di Kanus. D’altra parte, rifiutare la proposta che gli era stata fatta da Romis significava la morte, e una morte immediata.

Tutti i salmi finivano in gloria. Odal rimase lì seduto a esaminare le alternative con freddo distacco, come se tutto stesse capitando a qualcun altro. Era quasi divertente vedere come gli avvenimenti si accavallassero con tanta prepotenza contro un uomo senza difesa.

Nella sua mente risuonò, imperiosa, la voce di Romis.

Non posso più continuare in questo collegamento senza rischiare di essere scoperto. Che cosa avete deciso?

Di starmene in vita il più a lungo possibile pensò Odal, sperando che quel pensiero non giungesse fino a Romis. Poi disse: Vengo con voi.

Lo fate di vostra spontanea volontà?

Davanti alla mente di Odal balenò il ricordo della guardia armata che lo stava aspettando fuori dalla porta. Di mia spontanea volontà rispose. Naturalmente.

Benissimo, allora. Restate dove siete e comportatevi come se niente fosse successo. Nei prossimi giorni, al massimo tra una settimana, sarete libero dalle mani di Kor.

Solo quando fu certo che il collegamento era stato interrotto, che il ministro e l’uomo ai comandi della macchina non potevano più udirlo, Odal si permise di pensare: Anche se raggirassi Romis e gli altri congiurata, diventerei di nuovo un eroe di Kerak!


Hector entrò, contento come una Pasqua, nella cabina della duellomacchina al braccio di Geri. Anche lei sorrideva.

— Be’, ora che siamo di nuovo riuniti e che avete pagato tutte le vostre multe, spero proprio che siate pronto spiritualmente a rimettervi al lavoro — disse Leoh.

— Basta guardarmi — rispose il tenente.

Cominciarono per gradi. Quel primo giorno Hector si limitò a trasferirsi da una cabina della macchina all’altra, ripetendo l’esperimento una dozzina di volte. Ogni volta il professore misurava il tempo impiegato per il trasferimento e il consumo di energia. Erano necessari, in media, quattro psicosecondi per compiere il balzo. E, secondo il calcolatore che Leoh aveva sistemato sui pannelli di comando, il consumo di energia era suppergiù uguale a quello dei motori di un astronave che spingessero una massa uguale al peso di Hector.

— Capite che significa? — domandò il vecchio ai due collaboratori.

Hector era di nuovo appollaiato sul banco di manovra, mentre Geri era seduta su una sedia accanto a quella di Leoh. Tamburellando pensoso, con le dita sul pannello di comando, il tenente rispose: — Be’, significa che possiamo spostare le cose con la stessa efficienza di un’astronave.

— Non proprio — corresse Leoh. — Possiamo trasportare materiale o gente con la stessa efficienza con cui un veicolo spaziale trasporta il suo carico, ma non è necessario sollevare anche lo scafo e i motori. La nostra nave, ossia la duellomacchina, può restare a terra. Solo il carico viene trasportato.

— E si può anche viaggiare alla velocità di un’astronave? — domandò Geri.

— Anche più in fretta, se questi esperimenti valgono — rispose il professore.

— Dunque, io viaggerei nel subspazio come un vascello spaziale? — chiese Hector. — O c’è un’altra risposta?

— Probabilmente ci sono arrivato — disse Leoh — ma si tratta solo di un’ipotesi. Non abbiamo idea di come la cosa funzioni, delle velocità che potete raggiungere, delle distanze che potete percorrere, sui limiti del fenomeno. C’è una montagna di lavoro da fare.

Nei giorni seguenti, Hector spostò oggetti inanimati, rimanendo seduto nella duellomacchina. Sollevò pesi senza toccarli, e trasportò perfino Geri da una cabina all’altra. Ma poteva effettuare trasferimenti solo nell’interno dell’apparecchio.

— Possiamo instaurare un sistema di trasporto interstellare — disse Leoh alla fine della settimana, stanco ma felice. — Però dovrebbe esserci una duellomacchina, all’altra estremità.


Il dolore era insopportabile. Odal gridava disperato nella sua mente: una dozzina di lance infuocate lo trapassavano. Il corpo sussultava spasmodicamente, braccia e gambe si torcevano senza possibilità di controllo, le viscere si contraevano e aggrovigliavano, il cuore martellava con un ritmo impressionante. Non poteva né parlare, né udire ma solo sentire il gusto del sangue in bocca.

Romis! Dov’è Romis? Perché non viene? Avrebbe detto qualsiasi cosa ai suoi inquisitori, pur di farli smettere. Ma quelli non gli facevano alcuna domanda. Non si interessavano ai suoi ricordi o alle sue confessioni.

Salta!

Trasferisciti nell’altra cabina. Tu sei un telepate ben allenato, e devi avere capacità di teletrasferimento latenti.

Non diminuiremo questa pressione fino a quando non ti sarai trasferito nella cabina accanto. Anzi, la pressione aumenterà se non farai quello che ti ordiniamo.

SALTA!

Seduto nella duellomacchina di Acquatainia, Hector si concentrava nel suo lavoro. Nella cabina accanto c’erano un fascio di carte, nastri e documenti che lui doveva provare a trasportare sull’altro emisfero del pianeta. Questo sarebbe stato il primo balzo a lunga distanza.

Non era facile concentrarsi. Geri lo stava aspettando, là fuori, perché Leoh lo aveva tenuto occupato tutto il giorno. Il pensiero di Odal gli attraversò la mente: Chissà cosa starà facendo ora? Lavorerà anche lui al teletrasferimento?

Provò una specie di fremito, come una scossa elettrica.

— Buffo — mormorò. Perplesso, levò i neurocontatti dalla testa e dal corpo, si alzò e aprì la porta.

I tecnici che stavano al banco di manovra rimasero a bocca aperta. Ci vollero ben cinque secondi perché Hector si accorgesse che indossavano uniformi kerakiane.

Un paio di guardie, pure allibite, non appena riconobbero sulla tuta di Hector l’emblema della Guardia Spaziale, impugnarono le armi.

Lui ebbe appena il tempo di esclamare: — Oh!… — che quelle lo abbatterono.

Ad Acquatainia, intanto, Leoh scuoteva la testa, osservando scoraggiato il fascio di documenti che Hector avrebbe dovuto teletrasferire.

— Niente — esclamò. — Non ha proprio funzionato.

Ma le sue tristi riflessioni furono interrotte da uno strillo di Geri. Alzò gli occhi e la vide stringersi contro il banco di manovra, gridando istericamente, incapace di controllarsi. Inquadrata sulla porta dell’altra cabina, era apparsa la figura alta e magra di Odal.


— Ma è fantastico — disse Sir Harold Spencer.

Leoh annuì, gravemente. Il vecchio scienziato era seduto alla sua scrivania, nello studio retrostante la duellomacchina. E, a giudicare dall’aspetto austero della cabina rivestita di metallo che faceva da sfondo alla sua immagine tridimensionale, Spencer doveva trovarsi su una nave saziale.

— È balzato davvero da Kerak ad Acquatainia? — Il Comandante aveva l’aria di non riuscire a crederci.

— In meno di un secondo — ripeté Leoh. — Quattrocento cinquanta anni-luce in meno di un secondo!

Spencer si rabbuiò. — Ma vi rendete conto di quello che avete fatto, Albert? Del significato militare di questo teletrasferimento? È certo anche Kanus ne è al corrente.

— Sì. E trattiene Hector in qualche angolo imprecisato di Kerak. Dobbiamo tirarlo fuori, se è ancora vivo.

— Lo so — replicò Spencer, lo sguardo fiammeggiante. — E cosa ne è dell’assassino kerakiano? Suppongo che gli acquatainiani l’abbiano impacchettato accuratamente.

— Non sanno ancora con esattezza che cosa farne — rispose il professore. — Dal punto di vista formale, non esistono accuse di omicidio contro di lui. Comunque, l’ultima cosa che vogliono è rimandarlo a Kerak.

— Perché è partito? Perché è tornato ad Acquatainia?

— Non so. Odal si rifiuta di rilasciare dichiarazioni. Si è limitato a chiedere asilo politico ad Acquatainia. Qui la maggior parte della gente è convinta che sia un altro trucco.

Spencer tamburellò con le dita sul ginocchio, pensoso. — Dunque, Odal è prigioniero in Acquatainia, ed Hector se ne sta in galera, o peggio, in Kerak. E io ho una flotta di ricognitori diretta verso la frontiera acquataino-kerakiana, per una missione che ora appare del tutto disperata. Kanus non ha più bisogno di lottare per entrare in Acquatainia: può piombare nel bel mezzo dell’Ammasso, dovunque ci siano duellomacchine.

— Si potrebbe chiuderle, oppure circondarle di soldati — propose Leoh.

— Non si può impedire a Kanus di costruire duellomacchine dentro gli edifici delle ambasciate o dei consolati di Kerak nell’Ammasso, o nella Federazione Terrestre. Soltanto con la guerra si potrebbe impedirglielo — disse Spencer, preoccupato.

— E la guerra è proprio quello che cerchiamo di evitare.

— Bisogna riuscirci a tutti i costi — tuonò l’altro — se vogliamo mantenere intatta la Federazione.

Ora Leoh cominciava a sentirsi preoccupato come il Comandante.

— Ed Hector? Che ne sarà di lui? Mica possiamo abbandonarlo! Kanus potrebbe ucciderlo.

— Lo so. Mi metterò in contatto con Romis, il ministro degli Esteri. Tra tutti quelli che circondano Kanus, sembra l’unico capace di dire la verità.

— E cosa farete, se rifiuteranno di consegnarvi Hector?

— Probabilmente offriranno di scambiarlo con Odal.

— Ma Odal non vuole tornare. E gli acquatainiani non vorranno cederlo. Se questi si tengono Odal, e Kanus si tiene Hector, la Federazione sarà obbligata a…

— … a minacciare Kerak di un intervento armato se non restituisce il tenente. Dio mio! Questo tenente potrebbe far scoppiare la guerra che cerchiamo con tutte le forze di evitare!

Spencer aveva l’aria terrorizzata quanto Leoh.

6

Il ministro Romis partì all’alba dalla sua villa di campagna, per la solita cavalcata mattutina. Seguì il sentiero solo fino a quando era visibile dalla villa, dove poteva esserci qualche spia di Kor, poi spronò la sua cavalcatura, addentrandosi nei boschi fitti. Salì per un pendio, e giunse a una piccola radura in cima a un poggio.

Al centro della radura aspettava un piccolo aereo-traghetto e, a fianco del portello, c’erano due guardie armate. Romis smontò in silenzio ed entrò nell’aereo, da cui uscì subito un uomo vestito in modo identico al suo, e suppergiù della sua medesima altezza e corporatura, che balzò sul cavallo e riprese la cavalcata.

Pochi momenti dopo, il veicolo azionava i motori ai quali era stato applicato un silenziatore, e usciva all’atmosfera di Kerak. Romis entrò nella cabina di comando e sedette accanto al pilota.

— È un’impresa rischiosa — disse questi. — Potrebbero individuarci da terra.

— La stazione di controllo più vicina è presidiata da amici — disse Romis, stancamente. — Per lo meno, erano tali l’ultima volta che ho parlato con loro. Bisogna pur correre qualche rischio in un’impresa del genere, e quello maggiore, a quanto sembra, è di vedere gli amici trasformarsi in nemici.

Il pilota annuì. Dodici minuti dopo il decollo, l’aereo-traghetto effettuava il rendez-vous con una nave spaziale orbitante, che portava l’emblema della flotta spaziale di Kerak. Un capitano alla faccia angolosa venne incontro a Romis nella camera stagna principale e lo guidò giù per uno stretto corridoio, fino a una piccola cabina sorvegliata. Entrarono.

Steso su una cuccetta ricavata nella paratia esterna e ricurva della cabina, vi era il corpo inerte del tenente Hector. Accanto, sedevano un meditec e una guardia addetti alla duellomacchina. Si alzarono e si misero sull’attenti.

— Nessuno degli uomini di Kor sa di lui? — domandò Romis con voce pacata, ma ferma.

— Nossignore — rispose il meditec. — Tutti gli inquisitori sono svenuti per la violenza dell’energia, quando Odal e il tenente hanno effettuato il trasferimento. Abbiamo potuto condurre qui il tenente senza che nessuno ci scoprisse.

— Speriamo — disse Romis. — Come sta, ora?

— Dorme come un angioletto, signore — rispose il meditec. — Abbiamo pensato che fosse opportuno drogarlo.

Il ministro annuì.

— Dietro mio ordine gli hanno somministrato parecchie dosi di siero della verità — disse il capitano. — L’abbiamo interrogato. Sarebbe stato sciocco sprecare un’occasione del genere.

— Giusto — disse Romis. — E che cosa avete appreso?

Il capitano si rabbuiò. — Assolutamente nulla. O non sa niente, cosa difficile a credersi, oppure… — continuò posando lo sguardo sul meditec — riesce a controllare l’effetto del farmaco.

Romis si rivolse ancora al meditec. — Siete certo che Kor non si è accorto della vostra fuga?

— Sissignore. Abbiamo seguito la strada normale, servendoci soltanto di uomini che sappiamo fedeli alla causa.

— Bene. Speriamo che nessuno dei nostri amici leali decida di cambiare bandiera.

— Come spiegherete la scomparsa di Odal? — domandò il capitano. — Al Duce la comunicheranno stamattina, no?

— Esatto. E io non dirò una parola. Kor crede che Odal, con questo meditec e la guardia, siano fuggiti attraverso la duellomacchina. Lasciamoglielo credere, così nessun sospetto cadrà su di noi.

— Benissimo — esclamò il capitano.

Qualcuno bussò alla porta. Il capitano l’aprì, e l’uomo che stava fuori gli porse un messaggio scritto. Il capitano lo lesse, poi lo passò a Romis, dicendo: — Il vostro collegamento tri-di è pronto.

Romis appallottolò il foglio con una mano. — È meglio che mi affretti, allora, prima che qualcuno riesca a intercettarlo. Ecco — disse porgendo la pallottola di carta al meditec — distruggetelo voi, personalmente.

Poi si diresse verso un’altra cabina che serviva da sala comunicazioni. Quando entrò col capitano, il tecnico delle comunicazioni si alzò, salutò ed uscì.

Romis sedette davanti allo schermo e premette un pulsante sul pannello che gli stava di fianco. Subito comparve sul video l’immagine corpulenta di Sir Harold Spencer, seduto a una scrivania di metallo, a bordo della sua nave spaziale.

La faccia del Comandante in capo era tesa. — Ministro Romis, stavo appunto per chiamarvi io, quando è arrivata la vostra comunicazione.

— Dall’espressione della vostra faccia — rispose Romis sorridendo — direi che voi siete già al corrente del motivo della mia chiamata.

Sir Harold non ricambiò il sorriso. — Siete un diplomatico in gamba, signore. Io sono soltanto un soldato. Veniamo al sodo.

— Ma certo. Un maggiore dell’esercito kerakiano è scomparso, e ho buone ragioni per credere che sia in Acquatainia.

— E un tenente della Guardia Spaziale — sbuffò Spencer — è scomparso, e abbiamo buone ragioni per credere che si trovi in Kerak.

— I vostri sospetti non sono infondati — rispose Romis freddamente. — E i miei?

Il Comandante della Guardia Spaziale si passò una mano sulla mascella, prima di rispondere. — Avete usato le parole io e miei, invece del solito plurale diplomatico. Questo significa, forse, che non state parlando per conto del governo di Kerak?

Romis guardò il capitano, che stava vicino alla porta, fuori portata delle telecamere. Questi aggrottò la fronte e, con un gesto, fece capire che il tempo volava.

— Si dà il caso — disse Romis a Sir Harold — che io non stia parlando a nome del governo, in questo momento. Se tenete in custodia il maggiore kerakiano, potrete apprendere da lui i particolari sulla mia posizione.

— Capisco — disse Spencer. — E dovrei dedurne che voi, e non Kanus con tutta la sua cricca, vi prendete cura del tenente Hector?

L’altro annuì.

— E volete scambiarlo col maggiore Odal?

— No, niente affatto. Il maggiore è più sicuro dove si trova, per ora. Non desideriamo affatto che adesso torni a Kerak. In seguito, forse. Tuttavia vogliamo assicurarvi che al tenente non verrà torto un capello, qualsiasi cosa accada qui a Kerak.

Spencer rimase in silenzio per parecchi secondi. Finalmente disse: — Se ho ben capito, presto ci sarà uno sconvolgimento nel governo di Kerak e voi terrete in ostaggio il tenente Hector per assicurarvi che la Guardia Spaziale non interferisca. Esatto?

— Siete stato piuttosto brutale — rispose il ministro — ma, in sostanza, le cose stanno così.

— Benissimo — disse l’altro — fate pure come credete. Però vi avverto: se per un motivo qualsiasi dovesse accadere qualcosa al tenente, vi troverete addosso tutta la Guardia Spaziale, con la stessa rapidità con cui le nostre navi possono raggiungere i vostri mondi. Non aspetterò l’autorizzazione del Consiglio Terrestre, né altre formalità. Vi schiaccerò tutti, uno per uno. Chiaro?

— Chiarissimo — rispose l’altro, congestionato. — Chiarissimo.


Leoh dovette percorrere in tutta la sua lunghezza il corridoio del Ministero della Giustizia fino a un ascensore che portava a un sotterraneo profondissimo, superare oltre quattro posti di blocco sorvegliati da una dozzina di uomini armati e sostare in una anticamera, dove due guardie sedevano vicino ad un dispositivo d’esplorazione tridimensionale. Finalmente, dopo essere stato fermato, fotografato, interrogato e invitato a mostrare la sua carta d’identificazione speciale, fu introdotto negli alloggi di Odal.

Era un appartamento confortevole, ricavato in un sotterraneo e costruito, in origine, per servire da rifugio al ministro di Grazia e Giustizia durante la guerra contro Kerak.

— Non si può dire che non vi sorveglino — disse il vecchio a Odal, entrando nella stanza.

Il maggiore kerakiano, che se ne stava coricato su una poltrona di velluto ascoltando un brano musicale, spense il registratore e si alzò, mentre la porta esterna si richiudeva con uno scatto alle spalle dello scienziato.

— Dicono che devo essere protetto — rispose — sia dalla plebe di Acquatainia, sia dall’ambasciata di Kerak.

— Vi trattano bene? — s’informò Leoh sedendosi su una sdraio vicino alla poltrona.

— Abbastanza. Ho musica, tri-di, cibo e liquori. — La voce di Odal aveva una sfumatura ironica. — Mi lasciano perfino vedere il sole una volta al giorno, quando faccio la passeggiata nel cortile della prigione.

Mentre Odal tornava a sedersi nella sua poltrona, Leoh lo guardò attentamente. Sembrava indifferente a tutto. Niente più sorrisi gelidi e maniere altezzose. La sua faccia era piena di rughe scavate dal dolore, ma non soltanto da quello. Forse dalla disillusione. Per lui il mondo non era più l’arena dei trionfi personali. Ora è assillato anche lui dalla nostra preoccupazione maggiore: quella di sopravvivere pensò lo scienziato.

Poi disse: — Sir Harold Spencer si è messo in contatto col vostro ministro degli Esteri, Romis.

Odal non fece una piega.

— Harold mi ha pregato di chiedervi da che parte state. La situazione è piuttosto confusa.

— Mi sembra semplicissima, invece. Voi avete me, Romis ha Hector.

— Già, ma cosa significa tutto questo? Kanus ha intenzione di attaccare Acquatainia? Romis vuole forse rovesciare Kanus? Harold fa il possibile per evitare una guerra, ma se dovesse capitare qualcosa a Hector, lui si tufferebbe a capofitto con tutte le navi spaziali che potesse racimolare. Da che parte state, voi?

Odal fu lì lì per sorridere. — Veramente, è quello che mi domando anch’io. Finora non sono riuscito a rispondere.

— Noi dobbiamo saperlo.

— Ah, sì? — disse il maggiore, protendendosi leggermente. E perché, poi? Io, qui, sono prigioniero. Non posso andare da nessuna parte.

— Non è indispensabile che lo restiate. Sono certo che Harold e il primo ministro Martine acconsentirebbero a liberarvi, se voi garantiste di aiutarci.

— Aiutarvi? E come?

— Prima di tutto — continuò il professore — recuperando Hector.

— Ritornare a Kerak? Ma sarebbe rischioso.

— Preferireste starvene qui al sicuro come prigioniero?

— Perché no.

Leoh si dimenò sulla sedia, a disagio. — Ho l’impressione che Romis potrebbe servirsi di voi, nel suo tentativo di rovesciare Kanus.

— Può anche darsi. Ma solo quando sarà pronto a colpirlo direttamente. Fino a quel momento, sarà felicissimo che io resti qui. Quando ne avrà bisogno, mi chiamerà. Che poi io ci vada o mi rifiuti di collaborare, è un’altra questione.

All’improvviso Leoh si trovò senza parole. Era chiaro che il maggiore non aveva intenzione di aiutare nessuno, tranne se stesso.

— Vi prego di ripensare a quello che vi ho detto — dichiarò alzandosi. — Sono in gioco molte vite, e voi potreste contribuire a salvarle.

— Perdendo la mia — disse Odal, alzandosi pure lui, correttamente.

Leoh si strinse nelle spalle. — Devo riconoscere che sarebbe possibilissimo.

— Voi considerate la vita di Hector più importante della mia. Io no.

— E va bene, è inutile discutere. Ma ricordate che sono in gioco miliardi di vite acquatainiane e kerakiane.

Leoh si diresse alla porta. Odal rimase in piedi davanti alla poltrona.

— Professore — chiamò d’un tratto. — Chi è quella ragazza, quella che si è tanto spaventata quando sono arrivato nella vostra duellomacchina?

Leoh si voltò. — Geri Dulaq — disse. — La figlia del defunto primo ministro.

— Oh… capisco. — Per un attimo, la faccia inespressiva di Odal sembrò mostrare qualcosa: disappunto, rincrescimento?

— Mi odia, vero? — domandò.

— Direi proprio di sì — rispose il professore. — E perché non dovrebbe?

7

Hector si grattò pensosamente la testa e disse: — Questo mi mette… Be’, in una posizione buffa.

Il capitano kerakiano annuì. — Tutti ci troviamo in una situazione estremamente delicata.

— Be’, supponiamo che, voglio dire… Come faccio a sapere se dite la verità?

Il viso forte e pieno di cicatrici del capitano si indurì, rabbiosamente, per un attimo. I due si trovavano sul ponte della nave spaziale orbitante, dove era stato portato Hector. Oltre la ringhiera protettiva, sul livello sottostante, c’era la sala controllo dell’enorme vascello. Il capitano dominò la sua rabbia e rispose con disinvoltura.

— Un ufficiale di Kerak non mente mai. In nessuna circostanza. Il mio superiore, chiamiamolo così, ha parlato col Comandante della Guardia Spaziale, come vi ho detto. E si sono messi d’accordo perché restiate qui in attesa di ordini. Sono disposto a lasciarvi circolare liberamente sulla nave, eccezion fatta per la sala controllo, il gruppo elettrogeno e le camere stagne. Credo di essere più che generoso.

Hector tamburellò con le dita sul tavolo dov’era distesa una mappa. — A quanto pare, non ho via di scelta. Sono un ibrido tra il prigioniero e il turista da scambio culturale…

Il capitano sorrise meccanicamente, cercando di ignorare quel dito che tamburellava in modo esasperante.

— … E resterò con voi — continuò il tenente — fino a quando non avrete fatto fuori Kanus.

— NON DITE UNA COSA SIMILE! — Per poco l’ufficiale kerakiano non balzò addosso a Hector, per tappargli la bocca con la mano.

— Oh! Non ne sa niente, l’equipaggio?

Il capitano si stropicciò la fronte con mano tremante. — Come… chi… cosa vi ha fatto pensare che avessimo in mente un’idea simile?

Hector aggrottò le sopracciglia, perplesso. — A dire il vero, non lo so. Piccolezze. Sapete, qualche parole pronunciata dalle mie guardie. E poi, se così non fosse, Kanus mi avrebbe già strappato il cervello, ormai. Invece, no. Sono trattato quasi come un ospite. Dunque, voi non lavorate per Kanus. Eppure portate le insegne di Kerak. Allora dovete essere…

— Basta, per favore! Non è il caso di entrare in ulteriori dettagli.

— Va bene. — Il tenente si alzò. — Posso passeggiare per la nave?

— Sì, con le eccezioni che vi ho detto. — Anche il capitano si alzò. — Oh, sì, c’è un’altra zona proibita: la sala dei computer. Mi hanno detto che ci siete stato, oggi.

Hector annuì. — La guardia mi ha lasciato entrare. Mi sgranchivo le gambe dopo colazione. La guardia insisteva perché facessi esercizio, voglio dire.

— Sciocchezze! Avete discusso di metodi di calcolo con uno dei nostri programmatori più giovani.

— Infatti, sono sempre riuscito bene in matematica, sapete…

— Vi prego! Non so che cosa diavolo gli abbiate detto, ma cercando di inserire i vostri cosiddetti miglioramenti nel programma del calcolatore, il tecnico ha fatto saltare tre circuiti logici e causato un arresto del computer durato parecchie ore.

— Oh, che buffo!

— Buffo? — sbottò il capitano.

— Volevo dire strano.

— Sono d’accordo con voi. Non avvicinatevi mai più ai calcolatori.

— D’accordo. Il capitano siete voi — disse Hector, con un’alzata di spalle.

Il giovane girò sui tacchi e si allontanò, lasciando l’altro furibondo. Non aveva salutato, non aveva aspettato che l’ufficiale superiore lo congedasse. Se ne era semplicemente andato, come un civile! E adesso fischiettava! A bordo della nave! Il capitano si abbandonò sulla seggiola. Quello del computer sarebbe stato il primo di una lunga serie di incidenti, ne era certo. Romis dovrebbe sbrigarsi pensò. È solo questione di temp:. quel diavolo di un tenente ci farà impazzire tutti quanti!

Il ponte era collegato a una serie di stazioni tecniche: la sezione per la navigazione, in quel momento ferma, essendo la nave parcheggiata in orbita, la sala comunicazioni, sorvegliatissima e, più interessante di tutte, la sala d’osservazione.

Qui Hector trovò una cabina di misura discreta, piena di schermi televisivi che sorvegliavano quasi ogni angolo all’interno della nave, e che guardavano anche all’esterno in varie direzioni. Siccome il vascello orbitava intorno al pianeta principale di Kerak, la maggior parte dei dispositivi di esplorazione esterni erano rivolti verso terra. Hector fece amicizia con gli uomini di turno. Malgrado avesse l’emblema della Guardia Spaziale sulla tuta, quelli sembravano accoglierlo più come un compagno di sventura oppresso dalla disciplina militare, che come un nemico potenziale.

— Quella laggiù è la capitale — disse uno di loro, seguendo con un dito.

Il tenente annuì, impressionato. — È là che si trova la duellomacchina?

— Volete dire quella del ministero dei Servizi Segreti? sull’altra faccia del pianeta. Ve la mostrerò quando ci passeremo sopra.

— Grazie — disse Hector. — Mi piacerebbe molto vederla.


Ogni mattina, Odal veniva accompagnato dal suo appartamento sotterraneo al cortile interno del palazzo di giustizia, per un’ora di sole e di movimento. Sotto lo sguardo indifferente delle guardie, girava innumerevoli volte intorno all’aiuola del cortile, oppure faceva piegamenti, flessioni e altri esercizi vari. Il tutto per rompere la monotonia quotidiana e impedire alle guardie di accorgersi di quanto fosse infelice e solo.

Romis pensava, non è uno sciocco. Non avrà bisogno di me fino a che tutti i suoi piani non saranno maturi, fino a quando non sarà giunto il momento di uccidere il Duce. Quello mi lascia qui fino a quel preciso momento e poi mi offre in cambio del tenente della Guardia Spaziale! Così Spencer mi rimanderà a Kerak troppo tardi perché io possa tradire il ministro degli Esteri!

Tutt’intorno al cortile c’erano alberi robusti, pungenti, e, al centro, sorgeva una pianta stupenda, enorme, con rigide foglie dorate che tintinnavano come campanelli ogni volta che la brezza le faceva ondeggiare. Quando Odal si rialzò, rosso e accaldato, dopo una serie di piegamenti, vide Geri seduta sulla panca che c’era sotto quell’albero.

Il maggiore si asciugò la fronte con un asciugamano, che poi si gettò su una spalla, e le si avvicinò lentamente. Non si era mai accorto di quanto fosse bella. La sua faccia sembrava calma, ma lui intuiva uno sforzo enorme per controllarsi.

— Buon giorno — le disse. Lei annuì, ma non rispose. Né un sorriso, né una ruga di preoccupazione. Lui accennò alla panca, e quando la ragazza annuì di nuovo, si sedette.

— Siete la seconda persona che viene a trovarmi — disse il kerakiano.

— Lo so — replicò Geri. — Il professor Leoh mi ha detto del colloquio e del vostro rifiuto di aiutare Hector.

— Avevo immaginato che foste venuta per questo — disse Odal, con un sorriso ironico.

Lei lo guardò voltandosi di scatto. — Non potete lasciarlo a Kerak! Se Kanus…

— Hector è con Romis. È abbastanza sicuro.

— Ma per quanto tempo ancora?

— Per quanto può esserlo ciascuno di noi.

— No — disse Geri — è prigioniero e corre un serio pericolo.

— Lo amate davvero?

— Sì — rispose lei, negli un luccichio di lacrime negli occhi.

Scrollando la testa con incredulità, Odal domandò: — Ma come fate ad amare quel borioso dalla lingua biforcuta…

— È più forte di voi! — sbottò lei, indignata. — E più coraggioso. Non vuole uccidere nessuno, neanche voi. Vi ha lasciato vivere, mentre tutti su questo pianeta, me compresa, vi avrebbero ammazzato volentieri.

Odal indietreggiò, involontariamente.

— Gli dovete la vita — disse la ragazza.

— E ora vorreste che io rinunciassi alla mia, per salvare lui!

— Naturalmente. È l’unica cosa decente da fare. Ed è quello che farebbe lui al vostro posto.

— Ne dubito.

— Chiaro! Non sapete cosa sia l’onore.

Lui la guardò, con più attenzione questa volta, cercando di sondare le emozioni vibranti nell’espressione e nella voce della ragazza.

— Mi odiate? — domandò.

Geri fu sul punto di pronunciare un sì, poi esitò.

— Dovrei farlo, ne avrei tutte le ragioni. Io… io non lo so. Voglio odiarvi!

Si alzò di scatto dalla panca e se ne andò in fretta, a testa bassa, verso l’uscita più vicina. Odal la guardò per un attimo, poi la seguì. Ma le guardie gli impedirono di avvicinarsi alla porta. Geri scomparve alla sua vista, senza neppure voltarsi indietro.

— Vigliacchi! — imprecò Romis. — Donnette senza spina dorsale e con le gambe molli!

Camminava su e giù per lo studio tappezzato di scaffali pieni di libri, nella sua villa, vomitando parole fredde e taglienti come lame di coltello. Seduto accanto al camino, un bicchiere decorato in mano, stava il capitano della nave spaziale dove Hector era tenuto prigioniero.

— Complottano per mesi e mesi — borbottò il ministro, più a se stesso che al suo interlocutore — discutono per giornate intere su ogni minimo particolare, strisciano intorno come serpenti, cercando di assicurarsi che il loro piano sia assolutamente sicuro. E poi, appena spunta il pericolo, che cosa fanno?

Il capitano portò il bicchiere alle labbra.

— Fanno marcia indietro! — tuonò il ministro. — Mettono la loro piccola vita corrotta al di sopra del bene dei Mondi Kerak. Permettono a quel mostro di continuare a vivere, temendo di essere uccisi.

— Ma cosa vi aspettavate da loro? — disse il capitano. — Non potete obbligarli a essere coraggiosi. I capi dell’esercito, forse sì. Ma quelli sono stati tutti arrestati. Famiglie intere. Gli uomini politici che vi sono amici hanno una fifa blu di Kor. È già molto che non vi abbia ancora arrestato.

— Non lo farà — disse Romis, con un sorriso strano. — Almeno fino a che non scoprirà dove si trova Odal. Teme il ritorno del maggiore. Sa che quell’assassino è ben preparato.

— Spencer non vi renderà Odal finché voi non gli consegnerete Hector. E una volta che quello se ne sarà andato, potete essere certo che Spencer volteggerà sopra di noi come un avvoltoio.

— E allora, che cosa devo fare? Uccidere Kanus con le mie mani?

— Non potete.

— E perché no? Credete che mi manchi…

— Vecchio amico, non perdete di vista il vostro obiettivo! Kanus è un mostro, d’accordo, ma circondato da altri mostri minori. Se cercaste di ucciderlo, ammazzerebbero voi.

— E con questo?

— Chi prenderebbe in mano il governo? Uno dei tirapiedi di Kanus, senza dubbio. Vi andrebbe di vedere Greber al potere? O Kor?

Romis rabbrividì. — Certo che no.

— E allora, toglietevi dalla testa l’idea di uccidere personalmente Kanus. Sarebbe un suicidio.

— Ma bisogna fermare Kanus! Sono certo che è deciso ad attaccare Acquatainia prima della fine del mese. — Romis si avvicinò al camino acceso e fissò la fiamma. — Ritengo che si debba chiedere la restituzione di Odal, anche se questo significa liberare il tenente e rischiare un’invasione da parte di Spencer.

— Ne siete certo?

— Cos’altro possiamo fare? Se riuscissimo a compiere l’attentato abbastanza in fretta, potremmo tenere Spencer lontano da Kerak. Ma se esiteremo ancora, ci troveremo in guerra con Acquatainia.

— Possiamo battere gli acquatainiani.

— Lo so — rispose il ministro. — Ma Kanus diventerebbe tanto popolare che non oseremmo più toccarlo. E quel pazzo attaccherà i terrestri. E tutto ci crollerà addosso!

— Ehmm.

Romis si voltò e affrontò lo sguardo del capitano. — Dobbiamo rendere Hector e riprenderci Odal. Subito.

— Bene. Per essere sincero, il tenente è stato un bel disastro sulla mia nave. Sta sconvolgendo tutto.

— E come fa un uomo solo a sconvolgere una nave?

Il capitano scolò rapidamente il suo bicchiere. — Voi non sapete chi sia quest’unico uomo — rispose, senza altri commenti.


Avvicinandosi alla nave spaziale nel suo aereo-traghetto personale, il capitano intuì che qualcosa non andava.

Non si vedeva niente di strano, ma la nave non gli sembrava normale. E la sua preoccupazione aumentò quando l’aereo entrò in una delle gigantesche camere stagne. Le luci di emergenza erano accese, ma erano debolissime. Il portello fu richiuso da due mozzi in scafandro spaziale, e ci vollero quindici minuti buoni per portare la camera stagna alla pressione normale, con l’aiuto di pompe ausiliarie.

— Cosa diavolo è successo? — tuonò il capitano a un giovane ufficiale tremante, uscendo dall’aereo.

— È… si tratta dell’energia, signore. Un’interruzione.

— Un’interruzione?

L’ufficiale inghiottì nervosamente. — Signorsì — rispose. — All’improvviso, in tutta la nave. Non c’è più neanche un briciolo di energia.

Il capitano rimase per un attimo in silenzio, poi sbottò: — Spalancate il boccaporto e fatemi salire sul ponte!

Gli uomini si precipitarono a eseguire gli ordini. Dopo qualche minuto, il capitano, l’ufficiale e le due reclute avevano abbandonato la camera stagna lasciando l’aereo senza sorveglianza.

Contemporaneamente, dalla cabina di controllo pressurizzata sbucò Hector. Era all’erta, ma sorrideva soddisfatto.

Dovrebbero trovare la causa dell’interruzione di corrente in un paio di minuti disse tra sé. E non appena si accenderanno le luci principali, io taglierò la corda.

Percorse tutta la camera stagna in punta di piedi, sistemando le pompe dell’aria inerti e il dispositivo di controllo del portello. Poi s’infilò nel minuscolo aereo-traghetto, ne sigillò l’apertura ed osservò il quadro di comando. Non dovrebbe essere troppo difficile… Così, a lume di naso!

Era stato facilissimo causare quel guaio. Gli era bastato discutere un po’ di tempo per convincere le guardie a permettergli di vagare da solo in certe parti dell’astronave. Aveva trascorso lunghe ore in sala d’osservazione, imparando a memoria la pianta dell’enorme vascello e riuscendo finalmente a individuare il proprio obiettivo… il Ministero dei Servizi Segreti, nel quale si trovava la duellomacchina.

Un’ora prima, aveva fatto una delle solite passeggiate dal suo alloggio alla sala comunicazioni. Le guardie, vedendolo seduto tranquillamente in mezzo a una dozzina di tecnici kerakiani, avevano allentato la sorveglianza. Lui aveva atteso un po’, quindi, senza dare nell’occhio, si era avvicinato alla scaletta che portava all’impianto di commutazione, sul ponte inferiore.

Li c’era mancato poco che mandasse a monte il suo piano, precipitando dal secondo gradino della scaletta. Per un bel po’ era rimasto a terra, lungo e disteso, immobile come se fosse morto. Finalmente si era arrischiato a dare un’occhiata su per la scala. Nessuno lo inseguiva. La sua scomparsa non era stata notata. Per alcuni minuti era al sicuro.

Aveva trovato in fretta quello che cercava: i conduttori provenienti dai gruppi elettrogeni principali e alle antenne di comunicazione. Preso uno degli elementi del circuito stampato da un apparecchio lì accanto, l’aveva usato per formare un ponte tra i serrafili dei conduttori di corrente e il circuito delle antenne. Secondo le leggi fisiche quello che stava tentando di fare era considerato impossibile, ma Hector, per un’esperienza precedente compiuta su un’altra nave spaziale, e il cui ricordo lo faceva ancora tremare, sapeva benissimo che avrebbe provocato quel contatto accidentale.

C’erano voluti circa quindici secondi perché i gruppi elettrogeni pompassero tutta la loro energia nel corto circuito. Era stata una cosetta tranquilla: niente scintille, fumo, esplosioni. Le luci e i motori della nave si erano spenti tutti simultaneamente. Certo era entrato in funzione l’impianto d’emergenza, ma quella debole illuminazione di fortuna e la confusione creata dall’equipaggio stupefatto e furente, avevano permesso a Hector di seguire abbastanza facilmente il percorso deciso in precedenza, che lo aveva portato alla camera stagna principale.

Ora se ne stava seduto nell’aereo del capitano, aspettando che l’energia tornasse. Le luci principali vibrarono leggermente, poi si accesero in pieno. Le pompe della camera stagna si svegliarono ronzando, il portello esterno si aprì. Hector premette l’acceleratore e il veicolo scivolò fuori dalla camera stagna, allontanandosi dall’astronave orbitante.


Il comandante kerakiano impiegò almeno dieci minuti per mettere insieme il mosaico delle informazioni: il contatto nell’impianto di commutazione, la scomparsa di Hector e la partenza non autorizzata del suo aereo personale.

— È scappato — mormorò, furente. — Scappato proprio quando stavamo per riconsegnarlo ai suoi!

— Cosa facciamo, signore? Se le pattuglie planetarie individuano il veicolo, il tenente Hector non sarà in grado di farsi identificare in modo soddisfacente, e quelli lo uccideranno!

A una prospettiva simile, gli occhi del capitano si illuminarono. Ma poi l’ufficiale tornò a più miti consigli. — No — disse — se quello crepa, tutta la Guardia Spaziale si riverserà su Kerak. — Rifletté un po’ e disse ai suoi ufficiali: — Ordinate a chi è addetto alle comunicazioni di trasmettere un piano di volo alla pattuglia planetaria. Dite che il mio aereo personale e una scialuppa stanno portando un contingente di uomini e ufficiali al Ministero dei Servizi Segreti. E fate preparare subito una delle scialuppe per la partenza immediata. Scegliete gli uomini migliori. Siamo in un bel pasticcio!

8

Odal camminava su e giù senza sosta, nella sua camera priva di finestre. Girava intorno alla poltrona, passava davanti alla porta sorvegliata e arrivava fino alla camera da letto, per poi tornarsene indietro e cominciare da capo.

Cercava di servirsi della sua mente come un computer imparziale per soppesare, valutare e calcolare un centinaio di fattori diversi. Ma tutti erano differenti, imponderabili. E da ciascuno di essi poteva dipendere la durata della sua vita.

Kanus, Kor, Romis, Hector, Geri…

Se me ne tornassi a Kerak, Kanus mi riserverebbe gli onori di un tempo? Io posseggo la chiave del teletrasferimento. Un modo nuovo e travolgente per invadere e conquistare una nazione. Oppure Kanus ha scovato qualche altro talento psichico? Mi considererebbe un traditore, una spia? O, peggio di tutto, un fallito?

Kor. Poteva riferirgli tutto quello che sapeva sul complotto capeggiato da Romis per uccidere il Duce, ma non era gran che. Lui, probabilmente, sapeva già quello e altro.

E Romis? È sempre deciso a rovesciare il Duce? Ha bisogno ancora di un assassino?

E il tenente della Guardia Spaziale, quell’idiota fischiettante? Comunque, è un teletrasferitore e, probabilmente, ha i miei stessi talenti. Io farei buona impressione a Leoh e a Spencer, salvandolo. Sarebbe rischioso, ma se lo faccio… farà buona impressione anche alla ragazza.

La ragazza. Geri Dulaq. Sì, Geri. Ha tutte le ragioni per odiarmi e, tuttavia, c’è qualcosa di diverso dall’odio nei suoi occhi. Paura? Rabbia? Dicono che l’odio sia molto affine all’amore

Lo schermo si illuminò, strappando Odal dalle sue fantasticherie. Il maggiore batté le mani e la parete sembrò dissolversi, rivelando la forma corpulenta di Leoh, seduto alla sua scrivania nell’edificio della duellomacchina. Questa era parzialmente visibile attraverso la porta socchiusa alle spalle del professore.

— Ho pensato che fosse il caso di avvertirvi — disse questi, senza tanti preliminari, la faccia rugosa contratta per la preoccupazione. — A quanto pare, Hector è fuggito dalle mani di Romis. Abbiamo ricevuto un messaggio da uno degli amici del ministro, che si trovava all’ambasciata di Kerak. Comunica che il tenente è scomparso.

Odal rimase immobile al centro della stanza. — Scomparso? Cosa significa?

Stringendosi nelle spalle, il professore replicò: — Secondo le nostre informazioni, Hector era tenuto prigioniero a bordo di una nave spaziale orbitante. È riuscito, chissà come, a fuggire con un aereo-traghetto. Probabilmente sta dirigendosi verso la duellomacchina di Kerak, la stessa da cui voi siete scappato. Non sappiamo altro.

— Quella macchina si trova al Ministero dei Servizi Segreti di Kor — disse Odal con calma. Ma la sua mente ripeteva frenetica: Kor, Hector, Romis, Geri! Poi soggiunse, a voce alta: — Va a buttarsi dritto in bocca al lupo.

— Voi siete l’unico che possa aiutarlo — dichiarò Leoh.

Geri… L’espressione della sua faccia… La sua voce: Non sapete neppure cosa sia l’onore.

— Va bene — disse Odal. — Tenterò.

Aveva creduto di sentirsi emozionato al pensiero di compiacere Geri, oppure turbato dalla prospettiva di tornare a mettersi nelle mani di Kor. Invece non provava niente. Le sue emozioni sembravano spente, o forse erano soltanto assopite.

Era notte fonda quando Odal, sotto buona scorta, arrivò alla duellomacchina. Tutto vestito di nero, aveva l’aria di un’ombra tetra contro lo sfondo bianco della camera.

Leoh gli andò incontro al banco di manovra e le guardie si allontanarono di alcuni passi.

— Mi spiace che ci abbiate messo tanto ad arrivare fin qui. Ogni minuto di ritardo può significare la morte di Hector. E la vostra.

Odal sorrise, rigido, al pensiero gentile.

— Ho dovuto discutere con Martine per due ore intere perché acconsentisse a rilasciarvi — continuò il professore. — E poi ho tirato giù dal letto Sir Harold. Vi assicuro che non era allegro.

— Se ricordo bene — disse il maggiore — al quartier generale di Kor dev’essere l’alba. Un’ora ideale per arrivarci.

— Ma la loro duellomacchina sarà in funzione? Non possiamo effettuare il trasferimento, se la macchina non è accesa!

— Può darsi di sì — disse Odal, dopo un attimo di riflessione. — Quando Kor faceva gli esperimenti su di me, cominciavano ogni mattina di buon’ora. E la macchina funzionava già in pieno quando arrivavo io. Probabilmente l’accendono sempre all’alba.

— C’è un solo modo per saperlo — disse Leoh, indicando la cabina.

Odal annuì. Era venuto il momento. Tornava a Kerak. Verso quale destino? Morte o gloria? Verso quale alleanza? Kor o Romis? Uccidere Hector o salvarlo?

E il quadro che gli si presentò mentre gli sistemavano addosso i neurocontatti e lo lasciavano solo in cabina, fu il viso corrucciato di Geri. Cercò di immaginare come sarebbe stato quando la ragazza sorrideva.


Era notte alta e c’era vento, quando Hector atterrò bruscamente in un burrone profondo a pochi chilometri dal Ministero dei Servizi Segreti.

Aveva volato a bassa quota e rapidamente, nella speranza di non essere scorto dai dispositivi d’esplorazione di Kerak. Ora, in piedi sul veicolo ammaccato, nella sferza del vento che gemeva rabbioso tra gli alberi scuri del burrone, fissò lo sguardo sulle torri buie dell’edificio che ospitava il Ministero di Kor, stagliate contro il cielo lucente di stelle.

Ha l’aria di un castello antico pensò Hector, senza sapere che lo era davvero.

Sparì ancora dentro il portello e, dallo scomparto apposito, prese una cintura a razzi e l’indossò. Poi tornò nella cabina di pilotaggio e staccò completamente la corrente elettrica.

L’aereo potrà servirmi ancora, se non riuscirò ad arrivare alla duellomacchina.

Gli ci vollero dieci minuti per ritrovare l’uscita nell’oscurità. Dieci minuti difficili, con tre cadute e una zuccata da commozione cerebrale. Ma finalmente fu di nuovo all’aperto. Inspirò profondamente, si voltò in direzione del castello e premette il pulsante della cintura.

Nel silenzio della notte tranquilla, il rumore lacerò i timpani. Hector si tappò le orecchie, mentre volava verso il Ministero, sferzato dal vento pungente. Forse non è il modo migliore per arrivare di sorpresa pensò. Ma i bastioni gli torreggiavano ormai davanti, avvicinandosi rapidamente. Interruppe l’afflusso d’energia e si fermò di colpo, cadendo sulla sommità quadrata della torre più alta.

Scosse la testa per schiarirsi le idee e liberarsi dal ronzio alle orecchie, poi si alzò in piedi. Non era ferito, e la piattaforma aveva una superficie di circa dieci metri quadrati. Una scala scendeva da uno degli angoli: Mi avranno sentito arrivare? si chiese Hector.

Quasi in risposta alla sua domanda, udì un rumore di passi che salivano. Si liberò dalla cintura a razzi, la sollevò con le due mani, e si piazzò in cima alla scala. Presto comparve la testa di un uomo che taceva di corsa gli ultimi gradini.

— Siete qui, Guardia Spaziale? Io… — disse lo sconosciuto. Hector lo colpì con la cintura, facendogli perdere i sensi prima che riuscisse a dire altro. Infilandosi sopra la tuta l’uniforme della guardia kerakiana, il tenente pensò: Come fa a sapere che sono della Guardia Spaziale? Forse l’ha avvisato il capitano della nave. Se è così, questa gente è contro Kanus.

Indossata la divisa, cominciò a scendere. Altre tre guardie lo aspettavano in fondo alla rampa, in un corridoio di pietra che scompariva nell’oscurità. La luce era bassa, ma Hector riuscì a vedere che i tre tipi erano grossi, robusti e armati di pistole. Sperò che non si accorgessero che lui non era il loro collega salito su per le scale pochi minuti prima.

Li salutò con un sorriso, agitando una mano, e continuò a muoversi, passando loro davanti per imboccare il corridoio.

— Ehi, siete voi il… — cominciò a dire uno di loro in kerakiano.

Hector si sentì morire. Capiva solo qualche parola di quella lingua, e non la parlava affatto. Continuò a sorridere debolmente e affrettò il passo.

Ma la seconda guardia diede di gomito al compagno e lo zittì. — Lascialo andare — disse. — Cercheremo di avvisare i compagni da basso, che lo facciano entrare nella duellomacchina e fuggire di là. Ma non lasciatevi vedere accanto a lui dagli uomini di Kor.

— Va bene. Però è meglio staccare i dispositivi d’esplorazione che sorvegliano le sale.

— Impossibile! Rischieremmo di mettere in allarme Kor in persona.

— È un rischio che bisogna affrontare. Altrimenti lo noteranno subito, con quell’uniforme più piccola di quattro misure!

Hector li aveva ormai sorpassati, domandandosi che cosa significasse quel bisbiglio, ma senza fermarsi.

Mentre voltava l’angolo del corridoio, vide un ascensore aperto; aveva l’aria nuova, rispetto alla pietra del muro. La cabina era accesa e in funzione. Hector vi entrò e, in lingua terrestre, rivolto al calcolatore che azionava il meccanismo, disse: — Livello della duellomacchina. — Poi chiuse gli occhi.

La voce del computer si fece sentire poco dopo. — Livello duellomacchina. Voltare a sinistra, poi a destra. — Il tenente riaprì gli occhi e uscì. Lì l’ambiente era più illuminato, ma nessuno era in vista.

Era come nel castello delle fate. Hector avanzava per i lunghi corridoi senza incontrare anima viva. Attraversò posti di blocco con grossi boccali fumanti lasciati sui tavoli, porte aperte che davano su camere spaziose con schermi televisivi spenti. Vide telecamere per esplorazione sistemate in alto sulle pareti dei corridoi, a distanza di pochi metri una dall’altra, ma tutte sembravano spente. Un paio di volte gli sembrò di udire il suono soffocato di uomini che lottavano, ma non vide mai nessuno.

Poi avvistò gli enormi cancelli verdi della sala dove veniva custodita la duellomacchina. Uno di essi era aperto, e Hector intravide la macchina stessa debolmente illuminata all’interno.

E ancora nessuno!

Il tenente si precipitò nel grande locale dal soffitto a volta e corse al banco di manovra. Cominciò a immettere l’energia, ma, all’improvviso, la stanza fu inondata da una luce accecante.

Da tutte le porte che si aprivano nelle pareti, irruppero guardie in elmetto bianco, pistola in pugno. Uno schermo grande si illuminò e un tipo furibondo, con la testa calva somigliante a una palla da cannone, urlò: — Eccolo là! Acciuffatelo!

Prima che Hector potesse muoversi, sentì una botta violenta che lo mandò a finire contro il banco di manovra. E, mentre si afflosciava sul pavimento e la coscienza lo abbandonava, udì Kor ordinare: — E ora arrestate tutti i traditori che l’hanno aiutato! Se resistono, uccideteli!


La testa di Hector ronzava. Il tenente non riusciva neppure ad aprire gli occhi, ma gli sembrava di essere in un piccolo cubicolo dalle pareti metalliche, con uno schermo vuoto che lo fissava. Aveva qualcosa intorno alla testa, qualcos’altro intorno al torace. Non riusciva a vedersi le mani: erano abbandonate in grembo, e la testa non si piegava abbastanza per poterle guardare. E neanche le mani si muovevano, malgrado la sua volontà.

Udì un suono di voci, ma non riuscì a stabilire se venisse dall’esterno o se fosse dentro la sua testa.

— Che cosa significa, niente? Deve pur avere qualche pensiero nella zucca!

— Sì, ministro Kor, ci sono dei pensieri, ma sono così confusi, scombinati… Non ho mai esaminato un cervello simile. Non capisco come faccia a tenersi ritto, e, tanto meno, a ragionare.

— È un telepate naturale — replicò la voce aspra di Kor. — Forse vi sta nascondendo i suoi pensieri.

— Malgrado le dosi massicce dei farmaci che gli abbiamo somministrato? Impossibile.

— Può darsi che non gli facciano effetto.

— No, questo non può essere. Le sue condizioni fisiche rivelano che le droghe lo hanno quasi completamente rincretinito.

Sì udì un’altra voce.

— Il dispositivo di controllo mostra che l’effetto dei farmaci sta calando. Il prigioniero comincia a riprendere conoscenza.

— Dategliene degli altri! — ordinò Kor.

— Altre droghe? Ma potrebbe essere pericoloso, fatale!

— Devo ripetervi quello che ho già detto? Il tenente è un telepate naturale. Se riprende conoscenza mentre si trova dentro la duellomacchina, può scomparire a volontà. E le conseguenze sarebbero fatali… per voi!

Hector cercò di aprire completamente gli occhi, ma le palpebre erano come incollate l’una contro l’altra. Dentro la duellomacchina! Se non riesco a riprendermi del tutto prima che quelli mi addormentino ancora… Le sue mani pesavano duecento chili l’una, e non riusciva ancora a muovere la testa, ma, attraverso gli occhi socchiusi, vedeva che lo schermo era debolmente illuminato, anche se privo di immagini. La macchina era accesa. Stanno cercando di analizzare il mio cervello pensò.

— Ecco la siringa, dottore — disse un’altra voce. — È piena.

Hector cercò, frenetico, di spazzar via le ragnatele che gli annebbiavano la mente. Concentrati su Acquatainia si disse. Concentrati! Ma sentiva ormai i passi avvicinarsi alla porta.

Allora la sua testa sembrò esplodere. E tutto il suo corpo si contorse e fremette violentemente per l’ondata di pensiero estraneo che si riversò entro di lui.

9

Odal era seduto nella duellomacchina di Acquatainia, pensando a Geri Dulaq. Un istante dopo capì che si trovava in Kerak, e che qualcun altro era nella macchina con lui. Hector! La sua mente era aperta, e Odal vi guardò dentro profondamente. Un lampo simile all’esplosione di una supernova fece tremare il maggiore in ogni fibra. Due menti esposte l’una all’altra, amplificate e unite intimamente dai circuiti della macchina, si fusero insieme inestricabilmente. Ogni nervo, ogni muscolo di entrambi i corpi si tese come se una scarica elettrica di centomila volt lo attraversasse.

Odal! pensò Hector. Riusciva a leggere nella mente del maggiore come nella propria. Anzi, in un modo strano, duplice, lui era Odal, se stesso e Odal contemporaneamente. E Odal, partecipando alla mente di Hector, divenne Hector.

Hector vede una lunga fila di cadetti marciare sfiniti nelle pesanti uniformi grigie, sudati, sotto il sole ardente e appesantiti da zaini enormi.

Odal sente il fremito di gioia di un ragazzo che vede per la prima volta un’astronave galleggiare maestosa in orbita.

Ora Hector corre lungo le strette vie di una città, in compagnia di una dozzina di altri ragazzi in uniforme marrone, roteando manganelli, urlando nelle tenebre della notte, fracassando le finestre e le vetrine di certe abitazioni o di negozi, dove pochi minuti prima è stato dipinto rozzamente un simbolo. E se qualcuno osa protestare, botte anche a lui.

Il maggiore vede un istruttore della Guardia Spaziale scuotere tristemente la testa di fronte ai tentativi di Odal-Hector di comandare l’equipaggio di una nave-scuola.

Ora, invece, è in piedi, sull’attenti, la faccia tesa in una smorfia feroce, mentre il Duce arringa un pubblico di mezzo milione di soldati e cittadini, nell’anniversario della sua salita al potere…

Ora insegue i ragazzi più grandi, cercando di convincerli a lasciarlo partecipare al gioco, ma quelli dicono che è troppo piccolo, troppo tonto e, soprattutto, troppo goffo.

E lui ingoia lacrime di rabbia e paura mentre il capitano, in un linguaggio quasi puerile, spiega lentamente perché i suoi genitori sono stati portati via, e dice che non gli piaceva quell’incarico, non gli piaceva mandare gli adulti dove si manda la gente cattiva. Ma papà e mamma erano stati cattivi. Avevano detto cose cattive sul conto del Duce. E, ora, lui deve diventare un soldato, difendere il Duce e uccidere tutta la gente cattiva.

Adesso gioca a palla in gravità zero con altri quattro cadetti, galleggiando nell’enorme palestra sferoidale con nervature di metallo, e ride, cercando di gettare la palla senza volarle dietro.

Ed eccolo che fracassa la faccia dell’aristocratico che chiama traditori i suoi genitori. Quella faccia sanguinante, sorpresa… La colpisce coi pugni, col manganello, coi calci, sino a ridurre al silenzio quell’individuo. Nessuno affronterà più l’argomento in sua presenza.

Ora è in piedi, tremante d’eccitazione e di paura, la pistola in pugno, desideroso di compiacere la ragazza che gli urla di uccidere, ma gli occhi fissi sulla faccia dell’uomo a terra… E si accorge che niente, assolutamente niente, può giustificare la soppressione di una vita umana.

E tempesta di mazzate la faccia da luna piena di Dulaq, riducendola in una poltiglia sanguinolenta, mentre gli altri cinque picchiano a morte. Ripete a se stesso che è un nemico, un nemico… Che se non l’uccide lui, il Duce troverà qualcun altro… Pensieri a metà, emozioni slegate, brandelli di ricordi… Il viso di una mamma, l’odore particolare della propria stanza da letto, il suono di risate. Il passato dimenticato, il passato sepolto, il calore del focolare a casa dopo una giornata trascorsa nella neve, la fragranza della pipa del babbo, il ronfare soddisfatto del gattino morbido tra le sue braccia…

Parte da casa con un saluto, e il padre non riesce a credere che suo figlio appartenga alla Guardia Spaziale. Via in macchina col capitano, via dalla casa ora vuota. E i corsi d’addestramento… seguiti con goffaggine, con difficoltà: promosso agli esami, ma sempre passando per il buco della serratura… Il migliore, il primo, il miglior studente, il miglior atleta, il miglior soldato. Sempre il primo… Impara che la vera missione della Guardia Spaziale è mantenere la pace… Impara a odiare, a uccidere, e soprattutto a vendicarsi contro Acquatainia.

I ricordi di tutta una vita si incontrano, si fondono, turbinano, si intrecciano, si allacciano. Scattano le sinapsi, gli equilibri chimici si alterano lievemente… Due vite, due storie, due personalità che si fondono insieme con una completezza mai eguagliata.

Hector-Odal, Odal-Hector, nel lampo di quell’istante in cui si incontrarono nella duellomacchina divennero per un attimo una sola, medesima persona.


E quando uno dei meditec notò l’oscillazione di corrente e spense la macchina, i due giovani tornarono a essere individui separati, ma diversi da prima. Nessuno dei due poteva più dirsi se stesso. Erano legati per sempre.


— Che c’è? — domandò Kor. — Perché la macchina ha consumato tanta energia?

Il meditec si strinse nelle spalle, avvolgendosi nella vestaglia bianca. — Il tenente è lì dentro, solo. Non capisco…

Il ministro si precipitò verso la cabina di Hector, furibondo. — Se si è riavuto ed è fuggito, io…

Tutt’e due le porte si spalancarono simultaneamente. Da una uscì Hector, lo sguardo chiaro, il busto eretto. Alto, snello e biondo, la faccia stranamente calma, quasi sorridente. Il tenente lanciò un’occhiata verso l’altra cabina.

Là stava Odal. Alto, biondo e snello come Hector, con un’espressione quasi identica sulla faccia: un’espressione consapevole, una soddisfazione che nessuno mai sarebbe riuscito a corrompere.

— Voi! — gridò Kor. — Siete tornato!

Per un istante rimasero tutti pietrificati: Hector e Odal alle estremità opposte della duellomacchina, Kor a metà strada tra loro, i quattro meditec ai quadri di comando e un paio di guardie armate appena dietro a Kor. Il pallido sole azzurrognolo di Kerak gettava la sua fredda luce mattutina attraverso l’unica finestra.

— Vi dichiaro in arresto! — disse il ministro ad Odal. — In quanto a voi, tenente, non è ancora finita.

— Invece, sì — disse Hector senza scomporsi, dirigendosi lentamente e con decisione verso il ministro dei Servizi Segreti.

Kor aggrottò i sopraccigli. Poi vide che anche Odal avanzava verso di lui, e fece un passo indietro, gridando alle due guardie: — Fermateli!

Troppo tardi. Come una macchina perfettamente sincronizzata, Odal e Hector si lanciarono sui due uomini e li fecero crollare, svenuti, prima che Kor potesse dire una parola. Raccogliendo la pistola di una guardia, Odal la puntò contro il ministro. Hector recuperò l’altra arma e tenne a bada i meditec, terrorizzati.

— Tutti nelle celle dei prigionieri! — ordinò il maggiore.

— Pagherete con la vita! — gridò Kor.

Odal gli piantò la pistola tra le costole. — Tutti si crepa prima o poi. Ci tenete a morire adesso?

Il ministro impallidì. Tremando, uscì dalla sala e si diresse verso le celle.

Là c’era una guardia di servizio che riconobbe in Odal un seguace di Romis e aiutò il maggiore e il tenente a rinchiudere il gruppetto in cella. Poi i tre uomini si affrettarono verso lo studio di Kor.

— Prendete voi questa pistola — disse Odal alla guardia, mentre si precipitavano su per una scala di pietra. — E se incontriamo qualcuno, dite che ci state accompagnando dal ministro per essere interrogati.

L’uomo annuì. Hector nascose la sua arma sotto la tuta.

— Abbiamo solo pochi minuti prima che qualcuno scopra Kor nella cella — disse il maggiore. — Dobbiamo raggiungere Romis e uscire di qui.

Li fermarono due volte nei corridoi, ma li lasciarono sempre passare. L’ufficio di Kor era vuoto: a quell’ora mattutina i suoi collaboratori non erano ancora arrivati.

La guardia accese il comunicatore sulla scrivania di Kor, mentre le dita gli tremavano leggermente al pensiero di trafficare con gli apparecchi personali del ministro.

Romis, ancora mezzo addormentato, comparve sullo schermo. Riconobbe Odal e spalancò gli occhi, stupefatto.

— Cosa???

Hector fece un passo avanti. — Sono fuggito dalla vostra nave — spiegò in fretta — ma Kor mi ha acciuffato mentre cercavo di uscire dalla duellomacchina. Odal è tornato da Acquatainia. Abbiamo messo temporaneamente sotto chiave il ministro. Se avete intenzione di agire contro Kanus, questa è la mattina giusta. Abbiamo solo pochi minuti a disposizione.

Romis sbatté gli occhi. — Ma… avete rinchiuso Kor? Siete al Ministero dei Servizi Segreti?

— Sì — disse Odal. — Se avete soldati di cui potete fidarvi, portateli qui subito. Libereremo tutti i prigionieri che ci sarà possibile, ma avremo bisogno di un buon numero di armi e soldati per presidiare questo edificio contro l’esercito privato di Kor. Se riusciamo a tener duro qui e ad arrivare a Kanus, credo che la maggior parte dell’esercito passerà dalla vostra parte. Forse potremo vincere senza spargimento di sangue. Ma dobbiamo agire rapidamente!

10

Seduto sul letto, gli occhi fissi sulle due teste bionde apparse sopra lo schermo presso il capezzale, Romis lottava per mettere ordine tra i suoi pensieri.

— Benissimo. Mando subito tutte le unità su cui posso contare a presidiare il Ministero dei Servizi Segreti. Forse voi potete mettervi in contatto con qualcuno che conoscete nell’esercito, maggiore Odal.

— Sì — disse lui. — Molti ufficiali sono qui, in arresto.

Romis annuì. — Chiamerò il maresciallo Lugal. Credo che verrà con noi.

— Ma bisogna arrivare a Kanus prima che lui faccia scattare il grosso dell’esercito — disse Hector.

— Sì, sì, naturalmente. Kanus si trova nel suo rifugio di montagna. Non è ancora l’alba, là. Probabilmente dorme.

— C’è una duellomacchina, lassù? — domandò Odal.

— Non lo so. Può darsi. Si dice che recentemente ne abbia installato una per uso personale.

— Va bene — disse Hector. — Forse possiamo teletrasferirci.

— Prima bisogna liberare i prigionieri al Ministero e assicurarsi che l’edificio sia ben difeso — precisò Odal.

— Giusto — convenne Hector.

— C’è molto da fare — disse il maggiore al ministro degli Esteri. — E non si può perdere un secondo.

— Sì — convenne Romis.

L’immagine tridimensionale scomparve, lasciando lo schermo grigio e morto. Romis scosse la testa, come per scacciarne un sogno.

Potrebbe essere una trappola pensò, una manovra insidiosa di Kor. Ma il tenente era lì, e quello mica collaborava con Kor! Oppure non era il tenente? Non poteva essere un sosia?

— Trabocchetto o no — disse forte Romis — un’occasione come questa non ci capita più… se è autentica.

Istantaneamente prese una decisione; tre telefonate, e in tre minuti la cosa era fatta. O avrebbe liberato Kerak da un mostro, oppure avrebbe mandato a morte parecchie centinaia di brave persone, compreso se stesso.

Balzò dal letto, si vestì rapidamente e ordinò un aeromobile. Poi aprì il tiretto del tavolino da notte e prese una piccola pistola.

Il maggiordomo si affacciò alla porta. — Il veicolo è pronto, signore. Desiderate un pilota?

— No — rispose lui, infilandosi l’arma nella cintura. — Andrò da solo. Se non vi chiamerò per mezzogiorno, aprite la nicchia che sta dietro il mio letto, leggete le istruzioni che contiene e cercate di mettervi in salvo insieme con gli altri. Addio.

Prima che il maggiordomo, attonito, potesse aprir bocca, Romis gli passò davanti a passi lunghi e si precipitò verso l’aeromobile.


Kanus fu svegliato bruscamente da un servitore terrorizzato.

— Cosa succede? — grugnì il Duce, mettendosi lentamente a sedere sull’immenso letto circolare. Il sole aveva. appena sfiorato i picchi lontani coperti di neve, visibili attraverso l’enorme finestra della camera.

— Una… una chiamata del ministro dei Servizi Segreti, signore!

— Non startene lì come un tonto, passamela!

Il servo toccò un quadrante istoriato vicino alla porta, e subito una sezione della parete sembrò dissolversi nell’immagine granulosa e confusa di Kor. Il ministro era seduto sopra una dura panca, in una cella di pietra malamente illuminata.

— Cosa succede? — domandò Kanus. — Perché mi avete svegliato?

— È accaduto, mio Duce — disse Kor quietamente, pacato. — I traditori sono passati all’azione. Sono qui, rinchiuso in una delle celle…

— Cosa? — gridò Kanus, rizzandosi di scatto.

L’altro sorrise. — Quei pazzi credono di poter vincere, catturando me e presidiando il Ministero dei Servizi Segreti. Però hanno dimenticato alcuni particolari: per esempio, il suo comunicatore tascabile, con cui ho intercettato le loro chiamate. Romis sta recandosi al vostro palazzo, con l’intento di uccidervi.

— Romis! E voi siete prigioniero!

Alzando le mani in un gesto tranquillo, l’altro continuò: — Non è il caso di allarmarsi troppo, mio Duce. Finalmente si sono svelati. Li schiacceremo.

— Chiamerò l’esercito — disse Kanus, eccitato.

— Alcuni settori dell’esercito potrebbero rivelarsi infedeli a voi — rispose il ministro. — Tuttavia la vostra guardia personale dovrebbe bastare a fermare i traditori. Se poteste mandare un paio di divisioni a riconquistare la sede del Ministero, e far tenere sotto sorveglianza la vostra duellomacchina privata, nel rifugio, dovrebbe essere tutto risolto. Romis sta gettandosi tra le vostre braccia, e sarà facile metterlo fuori combattimento.

— Arrivano attraverso la mia duellomacchina?

— Soltanto due: Odal e il tenente della Guardia Spaziale.

— Li farò tagliare a pezzi! — tuonò Kanus. — E anche Romis!

— Certo. Ma prima sarebbe importante riconquistare il Ministero dei Servizi Segreti e liberare me. E poi, voi dovreste tenervi pronto a trattare con gli elementi dell’esercito e della flotta spaziale che rifiutassero di ubbidire ai vostri ordini.

— Traditori! Traditori dappertutto! Li farò ammazzare!

Kanus diede un pugno al pulsante di comando a capo del letto, spegnendo il video. Poi comincio ad abbaiare ordini al servitore tremante che se ne stava ancora immobile, accanto alla porta. Entro pochi minuti fu pronto, e si precipitò lungo il corridoio che conduceva alla sua duellomacchina privata.

Una squadra di guardie gli venne incontro sulla porta della sala dove stava l’apparecchio.

— Spegnete la macchina — ordinò. — E se qualcuno vi compare dentro, portatelo immediatamente da me!

Il capitano delle guardie salutò.

All’improvviso comparve un servitore. — Mio Duce, è arrivato il ministro Romis.

— Accompagnatelo nel mio ufficio. Subito!

Kanus si incamminò a lunghi passi verso lo studio, passò tra le due guardie armate che stavano ai lati della porta e piombò nell’interno della stanza. Romis lo aspettava, in piedi presso la finestra.

— Traditore! — urlò Kanus, alla vista del diplomatico. — Assassino! Guardie, prendetelo!

Allibito, Romis afferrò l’arma che aveva alla cintura, ma le guardie erano già dentro, le pistole spianate.

Romis esitò. Allora le due guardie si tolsero l’elmetto, rivelando due teste bionde, due facce magre e sorridenti.

— Siamo arrivati attraverso la vostra duellomacchina, più in fretta di quanto poteste pensare — disse Odal a Kanus. — È stato facilissimo attaccare gli uomini davanti a questa porta e indossare le loro uniformi.

— Siamo usciti proprio quando arrivava la squadra delle vostre guardie, e siamo arrivati qui pochi attimi prima di voi — soggiunse Hector.

Kanus si sentì mancare le ginocchia.

Romis si rilassò, e abbandonò le braccia lungo i fianchi. — È tutto finito, Cancelliere. Siete destituito. I miei uomini hanno occupato il Ministero dei Servizi Segreti, e il grosso dell’esercito è contro di voi. Potrete evitare uno spargimento di sangue terribile, ordinando ai vostri soldati di arrendersi e di non sparare contro i loro concittadini.

Kanus tentò di gridare, ma non ci riuscì. Con gli occhi dilatati di un pazzo, si gettò tra Odal e Hector, e raggiunse la porta.

— Non sparategli! — urlò Romis. — Dobbiamo prenderlo vivo, per evitare una guerra civile.


Kanus corse ciecamente attraverso le sale e i corridoi che portavano alla duellomacchina. Senza dire una parola alle guardie allibite, premette mezza dozzina di pulsanti sul quadro di comando e si tuffò in una delle cabine. Si piazzò i neurocontatti in testa e sul torace, poi inspirò profondamente, a lungo. Il cuore martellante rallentò il battito, che si fece più regolare. Le palpebre si chiusero. Il corpo si rilassò.

Era seduto su un trono d’oro massiccio, in fondo a una sala lunghissima. Una folla di persone era allineata lungo le pareti ricoperte di arazzi, e le donne più elle della galassia, languide e ingioiellate, sedevano ai suoi piedi, su gradini coperti di cuscini. Sull’ultimo gradino, se ne stava inginocchiato Sir Spencer, malconcio, cieco, con l’uniforme imbrattata di sangue e sporcizia. Cieco… No, cieco no! Kanus voleva che fosse in grado di vedere, voleva guardare negli occhi il Comandante della Guardia Spaziale, mentre lui descriveva dettagliatamente al vecchio come sarebbe stato ucciso, lentissimamente.

E ora il Duce galleggiava nello spazio, solo, indifeso contro il vuoto e le radiazioni, ma perfettamente a suo agio. I soli gli passavano accanto mentre lui volava maestosamente attraverso la galassia, la sua galassia, la sua conquista personale. Vide un pianeta sotto di sé. Lo trovò sgradevole, e tese una mano verso di esso. Le città furono subito avvolte dalle fiamme: Kanus udì le grida degli abitanti che imploravano misericordia. Ridendo, li lasciò arrostire.

Le montagne si cesellavano da sole, diventando statue gigantesche di Kanus il Conquistatore, Kanus l’Onnipotente. In tutta la galassia, gli uomini si inginocchiavano per adorarlo.

Lo temevano. Anzi, lo amavano. Era il loro Condottiero, e lo amavano perché era onnipotente. La sua parola era legge per la natura. Poteva fermare la gravità, eclissare stelle, donare la vita o toglierla.

Stava eretto davanti ad una moltitudine in ginocchio, sorridendo ad alcuni, rabbuiandosi alla vista di altri che non gli piacevano. Questi si piegavano e contorcevano come foglie aggredite dalla fiamma.

Ma c’era qualcuno che non si inginocchiava. Un tipo alto, dai capelli d’argento, che camminava deciso verso di lui.

— Dovete arrendervi — disse Romis gravemente.

— Morite! — gridò Kanus.

Ma Romis continuava ad avanzare. — Le vostre guardie si sono arrese. Siete nella duellomacchina da più di due ore, ormai, e quasi tutto l’esercito si rifiuta di obbedirvi. I Mondi Kerak vi hanno ripudiato. Kor si è suicidato. Qua e là sono in corso dei combattimenti, ma voi potete farli finire arrendendovi a me.

— Io sono il padrone dell’universo! Nessuno può stare ritto al mio cospetto!

— Voi siete malato — disse Romis, inflessibile. — Avete bisogno di aiuto.

— Vi ucciderò!

— Non potete farlo… Non potete…

Tutto cominciò a sbiadire, a restringersi, a confondersi nelle tenebre. Non c’era altro che grigiore, e la figura grave, inesorabile di Romis in piedi davanti a Kanus.

— Avete bisogno di aiuto. Vi aiuteremo.

Kanus sentì le lacrime riempirgli gli occhi. — Sono solo e… ho paura!

Con un’espressione mista di pietà e di disgusto sul viso, Romis allungò una mano. — Noi vi aiuteremo. Venite con me.

11

Il professor Leoh lanciò un’occhiata al suo video da polso e si accorse che mancavano soltanto quattro minuti al decollo.

— Speriamo che riesca ad arrivare prima della nostra partenza — diceva Geri ad Hector. — Gli dobbiamo… be’, molto.

Hector annuì, e in quel momento scorse un piccolo aeromobile che compiva larghi cerchi sopra la loro testa. Il veicolo atterrò dolcemente non lontano dall’aereo-traghetto fermo davanti a loro. Dall’abitacolo uscì la figura snella di Odal.

Hector gli si precipitò incontro, e i due uomini si strinsero lungamente la mano, ridendo.

— Non mi ero mai accorto prima — disse Leoh alla ragazza — di quanto si somigliano. Sembrano gemelli.

Odal indossava di nuovo l’uniforme azzurra, Hector era in abiti civili, tunica e calzoncini corti.

— Scusate il ritardo — disse il maggiore a Geri. — Ma volevo portarvi un regalo di nozze e ho dovuto frugare tutta la galassia per scovarlo.

Le porse una piccola scatola di plastica piena di terra, con una minuscola foglia azzurrina appena spuntata.

— È l’albero dell’eternità — spiegò il maggiore. — Sono diventati rarissimi. Impiegherà un secolo per giungere a maturità, ma una volta cresciuto sarà più alto di qualsiasi altro albero che si conosca.

Geri gli sorrise accettando il dono.

— Volevo donarvi una nuova vita — continuò Odal — in cambio di quella che avete data a me.

— Anche noi avremmo voluto offrirvi qualcosa — disse Hector. — Ma col trambusto del matrimonio e tutto il resto, non abbiamo avuto praticamente il tempo di respirare. Però vi manderemo un ricordo da Marte.

Chiacchierarono ancora per alcuni minuti, poi l’altoparlante chiamò Hector e Geri alla nave.

Mentre Odal, in piedi accanto a Leoh, guardava i due allontanarsi, domandò allo scienziato: — Avete intenzione di tornare a Carinae?

— Sì — rispose il professore. — Hector mi raggiungerà tra qualche mese, con Geri. Abbiamo una gran mole di lavoro da fare. Peccato che non veniate anche voi. Ora che sappiamo che il teletrasferimento è possibile, dobbiamo scoprire come funziona e perché. Finalmente potremo aprire la strada alla vera colonizzazione delle stelle!

Guardando Geri salire sull’ascensore che portava al traghetto, Odal disse, pensoso: — Credo sia meglio che io stia alla larga da loro. E poi, ho i miei impegni a Kerak. Romis mi sta insegnando le arti del governo pacifico e rispettoso della legge, come quello che avete voi nella Federazione Terrestre.

— Avrete un bel lavoro da fare, per rimettere ordine dopo la confusione scatenata da Kanus!

— Forse vi interesserà sapere che l’ex Duce viene sottoposto attualmente a un trattamento psiconico nella duellomacchina. La vostra invenzione, professore, sta trasformandosi davvero in un mezzo di utilità terapeutica.

— Già, ne ho sentito parlare — disse il vecchio. — Infatti può essere impiegata per qualcosa di meglio che non i duelli. Pensate un po’ a quello che ha fatto per voi e per Hector: non avrei mai pensato che due uomini potessero venire uniti in modo così drammatico.

Fu Odal a sorridere, questa volta. — Vi assicuro che ho imparato molte cose in quell’attimo, là nella macchina, con Hector.

— E anche lui. — Nella voce di Leoh risuonò una nota di rimpianto. — Tuttavia preferirei che fosse ancora quello di un tempo. È così… così maturo, ora. Niente più sbadataggini. Non lo sento neanche più fischiettare. Tra qualche anno sarà un personaggio importante. Forse un giorno o l’altro lo faranno Comandante della Guardia Spaziale. È completamente cambiato.

E guardò Hector e Geri che agitavano la mano in segno di saluto dal portello del traghetto. Questo si richiuse all’improvviso, e il braccio del giovane rimase bloccato fuori. Un uomo dell’equipaggio si precipitò a riaprire, lanciando un’occhiata furiosa al tenente della Guardia Spaziale, rosso di vergogna.

Leoh scoppiò a ridere. — Be’, forse non è completamente cambiato, dopotutto! — disse con un sospiro di sollievo.

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