Dulaq si lasciò trasportare dalla scala mobile fino al livello superiore, riservato ai pedoni, poi scese e si affacciò al parapetto. La città si stendeva tutt’intorno a lui. Ampie strade piene di gente affaccendata, marciapiedi pedonali, viali riservati alle auto, aeromobili che luccicavano tra gli alti edifici sfavillanti di luci.
In un angolo imprecisato della grande città c’era l’uomo che Dulaq doveva uccidere. O che forse avrebbe ucciso lui.
Sembrava tutto così reale! I rumori del traffico, il profumo degli alberi che costeggiavano i viali, e persino il calore del sole rossastro che gli scaldava la schiena mentre lui guardava la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi.
È un’illusione, pensò Dulaq, un’abile allucinazione creata dall’uomo. Un’invenzione della mia fantasia, ampliata da una macchina.
Eppure, sembrava tanto reale.
Reale o no, bisognava trovare Odal prima del tramonto, doveva scovarlo e ucciderlo. Quelle erano le condizioni del duello. Dulaq tormentò con le dita la tozza bacchetta cilindrica che portava nella tasca della tunica: era l’arma che aveva scelto. La sua arma. L’aveva inventata lui. E quello era l’ambiente che aveva scelto lui: la sua città, affaccendata, rumorosa, affollata. La metropoli che conosceva e amava fin dall’infanzia.
Si voltò a guardare il sole. Era a mezza strada verso l’orizzonte. Restavano ancora tre ore per trovare Odal. E una volta che l’avesse trovato… doveva ucciderlo, o essere ucciso da lui.
Certo, nessuno resta ferito davvero. È questo il pregio della macchina. Un individuo può regolare un conto e sfogare la propria carica di aggressività senza che lui o l’avversario riportino un danno fisico o mentale.
Dulaq si strinse nelle spalle. Era un uomo pingue, con la faccia da luna piena e le spalle leggermente spioventi. E aveva una missione da compiere. Una missione spiacevole, per un uomo civile… Ma il futuro dell’Ammasso d’Acquatainia e le alleanze di questo con i limitrofi sistemi stellari dipendevano dalla riuscita di quel sogno sintetizzato elettronicamente.
Si voltò e percorse il viale sopraelevato, meravigliandosi per la violenta sensazione di realtà che provava a ogni passo. I bambini gli passavano accanto correndo e andavano a schiacciare il naso contro la vetrina di un negozio di giocattoli. Seri uomini d’affari camminavano dignitosamente, ma senza perdere una sola occasione di sbirciare le ragazze che incontravano.
Ho una fantasia meravigliosa, pensò Dulaq, sorridendo.
Poi ripensò a Odal, al guerriero biondo e gelido contro cui si stava battendo. Odal, esperto in ogni genere di armi, dotato di grande forza e di fredda precisione, era un vero e proprio strumento incapace di emozioni, al servizio di uno spietato uomo politico. Ma come poteva essere pratico della bacchetta cilindrica se l’aveva vista solo un attimo prima dell’inizio del duello? E come poteva conoscere quella metropoli se aveva passato la maggior parte della sua vita negli attendamenti militari, sugli squallidi pianeti di Kerak, a sessanta anni-luce da Acquatainia?
Odal si sarebbe trovato svantaggiato, e avrebbe tentato di nascondersi tra la folla. Bisognava soltanto trovarlo.
Le condizioni del duello limitavano i due contendenti ai marciapiedi riservati ai pedoni, nel quartiere commerciale della città. Dulaq, che conosceva a fondo la zona, cominciò a cercare con metodo, tra la folla, un uomo alto, dagli occhi azzurri e i capelli biondi.
Finalmente lo vide. Solo dopo qualche minuto di cammino lungo il viale principale aveva individuato l’avversario, che passeggiava calmo su un marciapiede, al livello sottostante. Dulaq si precipitò giù per la rampa, si fece strada tra la folla, e vide nuovamente il suo uomo. Alto, biondo, inconfondibile. Lo seguì, silenziosamente, agilmente, senza affrettarsi. Aveva a disposizione tutto il tempo che voleva. Dopo un quarto d’ora la distanza che divideva i due si era ridotta da cinquanta a cinque metri.
Infine Dulaq si trovò proprio dietro la sua vittima. Strinse la bacchetta cilindrica e la tirò fuori di tasca. Con un rapido movimento la puntò alla nuca dell’uomo e cominciò a premere il pulsante che avrebbe liberato una scarica mortale di energia.
L’uomo si voltò di scatto. Non era Odal!
Dulaq balzò indietro, allibito. Impossibile! L’aveva visto in faccia. Era lui… Eppure, quello era un estraneo. Dulaq ne sentì lo sguardo fisso sopra di sé, mentre si allontanava rapidamente.
Uno sbaglio, pensò. Sei troppo preoccupato. Per fortuna si tratta di un’allucinazione, altrimenti la polizia automatica ti avrebbe già arrestato, a quest’ora!
Eppure aveva avuto la certezza che quell’uomo fosse Odal. Si sentì percorrere da un brivido. Alzò gli occhi e vide il suo avversario sul viale sopraelevato, nel punto preciso in cui si trovava lui stesso pochi momenti prima. I loro sguardi si incrociarono e le labbra di Odal si schiusero in un gelido sorriso.
Dulaq si affrettò su per la rampa, ma quando raggiunse il livello superiore l’altro se n’era già andato. Però non poteva essere lontano.
Lentamente l’allucinazione si sgretolò in un incubo. Dulaq aveva individuato Odal tra la folla ma se l’era lasciato sfuggire. L’avrebbe ritrovato, ma scoprendo ancora che si trattava di uno sconosciuto. Più volte sentì addosso il gelido sguardo dell’avversario, ma appena si girava vedeva soltanto la folla anonima.
Le ombre cominciarono ad allungarsi: il sole stava tramontando. Dulaq sentiva il cuore martellargli in petto e il sudore gocciolare da ogni centimetro quadrato della pelle.
Eccolo! Sì, era proprio lui, e senza possibilità di errore! Dulaq si fece largo a gomitate tra la folla e si diresse verso un tipo alto e biondo, che se ne stava appoggiato tranquillamente al parapetto del viale principale della città. Era Odal, quel maledetto Odal, sorridente e sicuro di sé.
Dulaq strinse la bacchetta e si avvicinò ansante al punto in cui l’altro se ne stava immobile, le mani in tasca, guardandolo impassibile.
L’Ammasso di Acquatainia, simile a un portagioielli principesco pieno di centinaia di stelle, era poco lontano dalle frontiere della Federazione Terrestre. Più di mille pianeti orbitavano intorno a quelle stelle, e il principale, Acquatainia, vantava la più grande città dell’ammasso dove c’era l’università più antica di tutte. E, nell’università, c’era la duellomacchina.
Nella sala di un bianco atroce in cui era sistemata la macchina, c’era, in alto, una piccola tribuna. Prima che vi venisse installata l’apparecchiatura, il locale era servito da aula. Ora le file dei banchi degli studenti, la pedana con la cattedra e tutto il resto erano scomparsi. Nella sala c’era soltanto la macchina: una collezione mostruosa di pannelli, banchi di prova, gruppi elettrogeni e circuiti d’associazione. Due cabine ospitavano i duellanti.
Nella tribuna, completamente vuota durante i duelli comuni, stava un gruppetto di giornalisti privilegiati.
— Il tempo è scaduto — disse uno di questi. — Dulaq non l’ha acciuffato.
— Già, ma neanche Odal ha beccato Dulaq.
Il primo giornalista strinse le spalle. — Ora Dulaq dovrà battersi contro Odal, alle sue condizioni.
— Aspettate, stanno uscendo.
Nell’aula, Dulaq e il suo avversario abbandonavano le rispettive cabine.
Ad uno dei cronisti sfuggì un fischio soffocato. — Guardate la faccia di Dulaq! È terrea.
— Non ho mai visto il primo ministro così sconvolto.
— E guardate un po’ quell’assassino stipendiato da Kanus… — Il reporter si voltò verso Odal. Stava davanti alla sua cabina e chiacchierava tranquillamente con i secondi.
— Ha l’aria di quello che si sta divertendo.
Uno dei giornalisti si alzò. — Devo fare una telefonata. Tenetemi il posto.
Si fece strada tra i colleghi e, attraverso la porta sorvegliata, raggiunse il piano inclinato che girava intorno al muro esterno dell’edificio. Si diresse quindi verso la telecamera tridimensionale portatile che il governo acquatainiano aveva permesso di installare perché gli inviati della stampa potessero trasmettere i loro servizi.
Il giovanotto parlò col gruppo dei tecnici per alcuni minuti, poi si piazzò vanti alla telecamera.
— Emile Dulaq, primo ministro dell’Ammasso d’Acquatainia e capo della coalizione contro il cancelliere Kanus, dei Mondi Kerak, è stato battuto nel primo tempo del duello psiconico contro il maggiore Par Odal, di Kerak. Ora i due antagonisti si stanno sottoponendo ai controlli psicofisici, prima di ricominciare il duello.
Quando il giornalista tornò al suo sedile in tribuna il duello stava per cominciare.
Dulaq stava in piedi tra un tappo di consiglieri, davanti ala mole torreggiante e impersonale della macchina. Di fronte a lui Odal, con i padrini.
— Non è necessario affrontare il secondo tempo immediatamente — stava dicendo uno dei consiglieri al primo ministro. — Aspettate domani. Riposatevi e calmatevi.
Senza rispondere, Dulaq rivolse uno sguardo interrogativo al meditec, che si teneva un po’ discosto dal gruppetto.
Il meditec, uno dell’équipe addetta alla macchina, puntò un dito verso di lui. — Il primo ministro ha superato felicemente i test. È in grado di ricominciare, secondo le norme del duello.
— Ma potrebbe anche ritirarsi per una giornata, no?
— Se il maggiore Odal acconsente.
Dulaq scosse la testa con impazienza. — No. Voglio continuare subito.
— Ma…
L’espressione del primo ministro si fece dura, e i consiglieri si trincerarono dietro un silenzio rispettoso. Il meditec capo riaccompagnò Dulaq in cabina. Odal, all’altro capo della macchina, lanciò un’occhiata agli acquatainiani, rise senza allegria, ed entrò nel proprio cubicolo.
Dulaq sedette e cercò di sgombrare la mente. Intanto i meditec gli sistemavano i neurocontatti intorno alla testa e sul torace. Terminato il loro compito gli uomini si ritirarono e lui rimase solo in cabina, lo sguardo fisso al grande video che gli stava davanti. Lo schermo cominciò a illuminarsi debolmente, poi splendette di una serie di colori che si fondevano gli uni agli altri mutando e turbinando. Dulaq si sentiva come attratto da questi: gradualmente, irresistibilmente, completamente immerso.
Le nebbie si diradarono lentamente e Dulaq si ritrovò in mezzo a una pianura immensa, desolata e spoglia. Non un albero, non un filo d’erba; soltanto rocce nude e squallide, che si stendevano in tutte le direzioni fino all’orizzonte, e il cielo di un giallo riarso e tormentoso. L’uomo guardò ai suoi piedi e vide l’arma scelta da Odal: una clava primitiva.
Con un senso di paura afferrò la clava e l’osservò. Poi scrutò la pianura. Niente. Non un albero, non una collina, non un arbusto dietro cui nascondersi.
E lontano, all’orizzonte, un uomo alto e snello, che stringeva una clava come la sua. Avanzava lentamente, ma deciso, verso di lui.
La tribuna della stampa era quasi vuota. Il duello sarebbe durato più di un’ora e la maggior parte dei giornalisti era fuori, occupata a trasmettere frettolosamente le opinioni personali sulla sconfitta di Dulaq che si era battuto nell’ambiente e con l’arma scelti da lui stesso.
Poi accadde un fatto curioso.
Sul quadro di comando principale della duellomacchina, si accese una sola luce rossa. Il meditec capo la fissò sorpreso e premette tutta una serie di pulsanti. Apparvero altre luci rosse. L’uomo girò un interruttore.
Uno dei giornalisti si voltò verso il compagno. — Ehi, che cosa succede laggiù?
— Dev’essere finito… Sì, guardate, stanno aprendo le cabine. Qualcuno ha vinto.
— Ma chi?
I due guardarono attentamente, mentre i colleghi si affrettavano a riempire di nuovo la galleria.
— È Odal. Ha l’aria soddisfatta.
— Credo che significhi…
— Dio mio! Guardate Dulaq!
L’Ammasso di Carinae, pur essendo a più di duemila anni-luce di Acquatainia, si trovava ancora dentro i confini della gigantesca Federazione Terrestre. E il professor Leoh, inventore della duellomacchina, stava appunto tenendo lezione nell’università di Carinae quando seppe del duello di Dulaq. Uno dei suoi assistenti, contravvenendo temerariamente alle regole, si era permesso di interromperlo sussurrandogli la notizia.
Leoh annuì severamente, terminò la lezione in fretta e seguì l’assistente per recarsi nell’ufficio del rettore. Saliti sul sentiero scorrevole, rimasero in silenzio mentre questo li trasportava tra i gruppi di studenti che passeggiavano nel giardino, sotto le piante in fiore del campus.
Leoh, calvo e pingue, era il decano dei professori dell’università. Sempre sorridente, aveva uno sguardo lucido e vivace. Tuttavia, mentre lasciava il sentiero per entrare nell’edificio dell’amministrazione, non sorrideva affatto.
I due uomini salirono nell’ascensore e stavano per entrare nello studio del rettore quando Leoh domandò all’assistente: — Avete detto che si trovava in una condizione di stupore catatonico quando l’hanno estratto dalla macchina?
— Lo è tuttora — gli rispose il rettore dalla sua scrivania. — Completamente fuori del mondo reale. Non vede, non parla e non sente. Un vegetale vivente.
Leoh si lasciò andare sulla sedia più vicina e si passò una mano sulla faccia. — Non capisco. Non era mai accaduto mente di simile con la duellomacchina.
— Non capisco neanch’io — disse il rettore. — Ma capire è compito vostro. — E mise in quelle parole un leggero risentimento, forse involontario.
— Be’, per fortuna l’università non c’entra. Proprio per questo ho costituito la psiconica come società finanziaria indipendente. — Leoh rise e soggiunse: — Il denaro, naturalmente, era solo una considerazione secondaria.
Anche il rettore abbozzò un sorriso. — Naturalmente.
— Suppongo che gli Acquatainiani mi vorranno parlare — esclamò Leoh, tanto per dire qualcosa.
— Sono sullo schermo televisivo della tri-di, e vi aspettano.
— E tengono aperto un canale su una distanza di duemila anni-luce? — disse Leoh, piuttosto sbalordito.
— Siete l’inventore della duellomacchina e il capo della Società per Azioni Psiconica. Siete l’unico uomo che possa dir loro che cosa non ha funzionato.
— Be’, forse è meglio che non li faccia aspettare.
— Potete parlare da qui — disse il rettore, facendo l’atto di alzarsi.
— No, no, restate — esclamò Leoh. — Non c’è alcun bisogno che ve ne andiate. E neanche voi — aggiunse, rivolto all’assistente.
Il rettore premette un pulsante: la parete in fondo allo studio si illuminò un attimo, poi sembrò dissolversi. Infine apparve uno studio di Acquatainia, affollato di uomini dall’aria preoccupata. Alcuni erano in abito civile, altri in uniforme militare.
— Eccomi, signori — disse Leoh.
Gli Acquatainiani risposero tutti insieme, ma, dopo alcuni secondi di confusione, si girarono verso un loro connazionale in abiti borghesi, alto, dall’espressione intelligente e decisa, con una barba nera accuratamente regolata.
— Io sono Fernd Massan, facente funzione di primo ministro di Acquatainia. Naturalmente vi rendete conto della crisi che sta attraversando il nostro governo a causa di quel duello, vero?
Leoh socchiuse gli occhi. — Mi rendo conto che ci sono state difficoltà con la duellomacchina installata nel vostro ammasso. Le crisi politiche non rientrano nel mio campo.
— Ma la vostra duellomacchina ha messo fuori combattimento il nostro primo ministro! — esclamò uno dei generali.
— E in un momento delicatissimo — incalzò un membro del governo — nel pieno dei contrasti con i Mondi Kerak!
Massan lo zittì con un cenno. — La duellomacchina — disse Leoh con calma — non è altro che un dispositivo elettronico, non più pericoloso di un apparecchio tridimensionale. Permette a due uomini di condividere un mondo che creano insieme. Possono fare tutto quello che vogliono, in quel mondo fantastico. Anche comporre una contesa nel modo più violento, senza che nessuno dei due ne riporti un danno fisico maggiore di quello che riporterebbe in un sogno normale. Gli uomini possono usare la duellomacchina per sfogare la loro aggressività, la loro tensione, il loro odio, senza nuocere a se stessi e alla società. Il vostro governo ha sperimentato una di queste macchine e ne ha approvato l’uso in Acquatainia più di tre anni fa. Vedo tra voi parecchie persone alle quali io stesso ho dimostrato il funzionamento dell’apparecchio. Le duellomacchine si diffondono in vaste aree della Federazione Terrestre, nonché in altre nazioni. Come Acquatainia, per esempio. Sono certo che molti di voi le hanno usate personalmente. Anche voi, generale. Me ne ricordo.
Il generale arrossì. — Questo non ha niente a che vedere con la faccenda in questione!
— Lo ammetto — disse Leoh. — Ma non capisco che cosa c’entri una macchina terapeutica in una crisi politica.
— Lasciate che vi spieghi — esclamò Massan. — Il nostro governo sta conducendo negoziati delicatissimi con le nazioni stellari limitrofe, che riguardano il riarmo dei Mondi Kerak. Mai sentito parlare di Kanus di Kerak?
— Vagamente. Deve essere una specie di leader politico.
— Già, e della specie peggiore. Ha creato una dittatura sui Mondi Kerak e ora sta cercando di armarli per spingerli alla guerra. Questo è decisamente contrario al Trattato di Acquatainia, stipulato solo trent’anni terrestri fa.
— Capisco. Il Trattato fu firmato al termine della guerra Kerako-Acquatainiana, vero?
— Una guerra vinta da noi — precisò il generale.
— E ora i Mondi Kerak vorrebbero riarmarsi e riprendere le ostilità — disse Leoh.
— Esatto.
Il professore si strinse nelle spalle. — E perché non vi rivolgete alla Guardia Spaziale? È una faccenda di sua competenza. Che cosa c’entra tutto questo con la duellomacchina?
— Lasciatemi spiegare — disse Massan, con pazienza. Fece un cenno al suo aiutante e, sulla parete alle sue spalle, si illuminò un’enorme mappa stellare tridimensionale.
Leoh riconobbe immediatamente la spirale della Via Lattea. Dall’orlo della galassia, dove stavano il Sole e la Terra, verso l’interno, nel suo cuore ricco di astri, si stendeva la Federazione Terrestre. Migliaia di stelle e miriadi di pianeti. Sulla mappa di Massan il territorio della Federazione era segnato in verde chiaro, e poco più in là della sua frontiera, c’era l’ammasso dorato di Acquatainia. Attorno a questo si leggevano nomi che Leoh conosceva solo vagamente: Safad, Szarno, Etra… Un puntolino come una capocchia di spillo rappresentava Kerak.
— Né l’Ammasso d’Acquatainia, né le nazioni vicine — disse Massan — sono mai entrate nella Federazione Terrestre. E neanche Kerak, d’altra parte. Dunque la Guardia Spaziale può intervenire soltanto se tutte le nazioni interessate sono d’accordo. Naturalmente Kanus non acconsentirebbe mai. Vuole il riarmo.
Leoh scosse piano la testa.
— In quanto alla duellomacchina — continuò Massan — Kanus l’ha trasformata in un’arma politica.
— Ma questo è impossibile! Il vostro governo ha approvato leggi severissime riguardo all’uso di queste macchine. Possono essere impiegate soltanto per definire contese personali. Sono completamente al di fuori dei confini della politica.
Massan scosse la testa con tristezza. — Mio caro professore, le leggi sono una cosa, gli individui un’altra. E la politica è fatta di individui, non di parole registrate su un nastro.
— Non capisco — mormorò Leoh.
— Poco più di un anno terrestre fa, Kanus ebbe una questione con una nazione limitrofa: Safad. Pretendeva che questa firmasse un trattato commerciale particolarmente favorevole per lui e il ministro del commercio di Safad si rifiutò energicamente di cedere. Allora uno dei negoziatori di Kerak, un certo maggiore Odal, si lanciò in una discussione personale col ministro e, prima che qualcuno si fosse reso conto di quello che succedeva, i due si erano sfidati a duello. Odal vinse e il ministro si dimise affermando che non se la sentiva più di lottare contro la volontà di Odal e di Kerak. Non era psicologicamente in grado di farlo. Due settimane dopo, era morto. Suicidio, apparentemente. Ma io ho i miei dubbi.
— È molto interessante — disse Leoh.
— Tre giorni fa — continuò il generale — il maggiore Odal ha trascinato il primo ministro Dulaq in un’aspra discussione personale. Ora Odal è addetto militare all’ambasciata kerakiana di Acquatainia. La discussione si è fatta così accesa, davanti a un gruppo di invitati a una festa all’ambasciata, che Dulaq non ha potuto fare a meno di sfidare Odal. E adesso…
— Ora Dulaq è in stato di shock, e il vostro governo vacilla.
— Il nostro governo resisterà e l’Ammasso di Acquatainia non permetterà mai il riarmo dei Mondi Kerak — dichiarò il generale, irrigidendosi. Poi, abbassando la voce, continuò: — Ma senza Dulaq, le nostre alleanze con le nazioni limitrofe potrebbero rompersi, tutti i nostri alleati sono molto più deboli di noi. Kanus potrebbe esercitare pressioni su ciascuno di loro individualmente e assicurarsi che non facciano nulla per impedire il riarmo del suo paese. Acquatainia, da solo, non potrebbe fermare Kanus.
— Ma se Kerak vi attacca, potrete chiedere aiuto alla Guardia Spaziale e…
— Non sarebbe tanto semplice. Kanus si papperebbe le piccole nazioni, una alla volta. Può colpire e conquistare una nazione prima ancora che riusciamo a rivolgerci alla Guardia Spaziale. Resteremmo tagliati fuori completamente, senza un solo alleato. Allora colpirebbe anche Acquatainia e forse cercherebbe di rovesciarci dall’interno. E l’eventuale vittoria su Acquatainia avrà l’effetto di un aperitivo che mette voglia di una selvaggina più. grossa: Kanus deciderà di conquistare i Paesi della Federazione Terrestre. Niente lo fermerà.
— Dunque si serve della duellomacchina per appagare le sue ambizioni — mormorò Leoh. — Bene, signori. A quanto pare, non mi resta che partire per l’Ammasso d’Acquatainia. Sono io il responsabile della duellomacchina, e se qualcosa non va per causa sua, farò tutto il possibile per sistemare la faccenda.
— Non chiediamo niente di meglio — disse Massan. — Grazie.
L’immagine proveniente da Acquatainia svanì, e i tre uomini riuniti nello studio del rettore si ritrovarono di nuovo davanti a una parete solida.
— Be’ — disse Leoh, con un sospiro di disappunto — a quanto pare devo cedervi un’aspettativa per un periodo di tempo imprecisato.
Il rettore si rabbuiò. — E, a quanto pare, ve la devo accordare — brontolò — anche se l’anno accademico non è neppure a metà.
— Mi spiace davvero — disse Leoh. Poi, con un largo sorriso, soggiunse: — Il mio assistente potrà continuare il corso per il resto dell’anno, senza alcuna difficoltà. E forse riuscirà perfino a fare lezione senza che nessuno lo interrompa!
L’assistente arrossì dal colletto alla radice dei capelli.
— Dunque — borbottò Leoh a se stesso — chi diamine sarà mai questo Kanus? E perché sta cercando di trasformare i Mondi Kerak in un arsenale?
Il Cancelliere Kanus, Duce Supremo dei Mondi Kerak, se ne stava affacciato al parapetto del suo balcone ammirando il precipizio che scendeva a strapiombo ai suoi piedi e le montagne accidentate che aveva davanti.
— Ecco le forze che forgiano le azioni degli uomini! — disse rivolto al gruppetto di ufficiali e consiglieri. — I venti che ululano, le montagne possenti, il cielo aperto e la potenza oscura delle nubi.
I presenti annuirono, con un mormorio di approvazione.
— Proprio come le montagne si elevano sulla meschinità delle pianure sottostanti, così noi ci eleveremo sopra il destino comune degli uomini — continuò Kanus. — Questi, come terrorizzati dalla forza della tempesta, tremeranno e si piegheranno alla nostra volontà.
— Distruggeremo il passato — disse uno dei ministri.
— E vendicheremo il ricordo della disfatta — aggiunse Kanus, voltandosi a guardare i suoi seguaci. Kanus era il più piccolo dei presenti: basso, mingherlino, dal colorito malaticcio. L’uniforme militare sgargiante, così grande, troppo carica di trecce d’oro e di medaglie, stonava maledettamente indosso a lui. Ma Kanus aveva uno sguardo acuto e penetrante e una voce possente che attirava l’attenzione.
Superato il gruppetto, si fermò davanti a un giovanotto alto, biondo e snello che portava un’uniforme militare azzurra. — E voi, maggiore Odal, sarete uno degli strumenti principali nei primi passi della conquista!
— Desidero soltanto servire il mio Duce e i miei Mondi — replicò l’altro, inchinandosi rigidamente.
— E lo farete. L’avete già fatto — disse Kanus, raggiante. — Già gli Acquatainiani si dibattono disperatamente, come un serpente a cui abbiano tagliato la testa. Senza Dulaq non hanno più un cervello che li diriga. In quanto alla parte che avrete voi in questo trionfo… — Fece schioccare le dita e uno dei consiglieri gli si avvicinò, porgendo un cofanetto d’ebano. — Vi offro questo pegno della stima dei Mondi Kerak e della mia alta considerazione.
Porse il cofano ad Odal che lo aprì e ne tolse una spilla tempestata di pietre preziose.
— La Stella di Kerak — annunciò Kanus. — Questa è la prima volta che viene conferita per meriti non acquisiti sul campo di battaglia. Ma la cosiddetta civilissima duellomacchina dei nostri avversari è diventata il nostro campo di battaglia, no?
Odal sorrise. — Sì, signore, proprio così. Grazie infinite. Questo è il momento più bello della mia vita.
— Per adesso, maggiore. Per adesso. Ve ne saranno altri, in seguito, ancora più sublimi. Entrate. Abbiamo molti piani da discutere. Altri duelli, altri trionfi.
Entrarono tutti nello studio enorme e fastoso di Kanus. Il Duce attraversò la stanza riccamente arredata e sedette alla sua scrivania sopraelevata, mentre gli altri si sistemavano sulle seggiole e sui divani dislocati qua e là. Odal rimase in piedi vicino alla soglia.
Kanus fece scorrere le dita sul quadro di comando situato sul piano della scrivania e una mappa stellare tridimensionale apparve sulla parete. Al centro si vedevano le dodici stelle dei Mondi Kerak, su un lato stava l’Ammasso di Acquatainia, ricco e possente, la forza politica ed economica più imponente in quel settore della galassia. E ancora più in là si scorgeva il lembo estremo della Federazione Terrestre. Per metterla tutta intera sulla mappa, sarebbe stato indispensabile rimpicciolire Acquatainia e rendere microscopico Kerak.
Col dito puntato verso l’enorme carta geografica, Kanus cominciò una delle sue inevitabili arringhe parlando di obiettivi politici e militari. I Mondi Kerak erano già unificati sotto il suo dominio e l’avrebbero seguito dovunque. Le alleanze politiche costruite dalla diplomazia acquatainiana dopo l’ultima guerra cominciavano già a tentennare, ora che Dulaq era scomparso dalla scena. Kerak, invece, cominciava a riarmarsi. Un’azione politica presso la Lega di Szarno avrebbe portato quelle industrie belliche allo stesso livello delle industrie di Kerak. Poi sarebbe stata la volta di un’alleanza diplomatica con il Dominio di Etra, che stava tra l’Ammasso di Acquatainia e la Federazione Terrestre. Isolati così gli Acquatainiani, si sarebbe passati alla conquista militare di Acquatainia.
— Una mossa improvvisa, una rapida, decisiva serie di attacchi, e gli Acquatainiani crolleranno come un castello di carta: anche se la Guardia Spaziale volesse entrare in azione, la vittoria sarebbe già nostra prima che riuscisse a intervenire. E, con le risorse di Acquatainia a nostra disposizione, potremo sfidare qualsiasi potenza galattica. Perfino la Federazione Terrestre!
I presenti annuivano sorridendo.
Forse hanno già sentito molte volte questa storia pensò Odal. Per lui era diverso: quella era la prima volta che ne aveva il privilegio. Se chiudeva gli occhi o guardava soltanto la mappa stellare il piano sembrava bizzarro, esagerato, perfino impossibile. Ma se fissava Kanus, lasciando che quello sguardo scuro, quasi ipnotico, gli si appuntasse sopra, allora anche le fantasie più deliranti del Duce sembravano non solo eccitanti, ma inevitabili.
Odal appoggiò una spalla alla parete rivestita di pannelli e guardò gli altri uomini presenti nella stanza.
C’era il grasso vice-cancelliere Greber che lottava disperatamente per rimanere sveglio, a causa del vino bevuto durante e dopo il pranzo. Invece Modal, che sedeva accanto al collega sul divano, aveva lo sguardo attento; evidentemente stava pensando al vantaggio che ne sarebbe venuto a lui, ministro dell’Industria, quando il programma di riarmo fosse stato in pieno svolgimento.
In disparte, sopra un altro divano, stava seduto Kor, capo del Ministero dei Servizi Segreti, diretto superiore di Odal. Kor parlava pochissimo, ma quando lo faceva riempiva di terrore i disgraziati a cui parlava. Era un individuo di una crudeltà inimmaginabile.
Il maresciallo Lugal, decisamente annoiato quando Kanus parlava di politica, cambiava improvvisamente espressione non appena venivano affrontati argomenti militari. Il maresciallo aveva un unico scopo nella vita: vendicare la disfatta umiliante subita dal suo esercito nella guerra contro Acquatainia. Ma non si rendeva conto, e Odal lo sapeva, che non appena avesse riorganizzato e riequipaggiato le armate, Kanus l’avrebbe mandato in pensione per mettere al suo posto uomini più giovani. Uomini fedeli non soltanto all’esercito o ai Mondi Kerak, ma al Duce stesso.
E, attento a ogni sillaba, a ogni gesto del Duce, c’era il piccolo Tinth. Nobile di origine, allevato con un’educazione artistica, studioso di filosofia, aveva rinunciato alla sua eredità per unirsi alle forze di Kanus. Sua ricompensa era stato il Ministero dell’Educazione, e molti erano gli insegnanti che soffrivano sotto di lui.
Infine Romis, ministro degli Affari Esteri, diplomatico di carriera, era uno dei pochi che erano al governo prima dell’avvento di Kanus e che aveva resistito fino a quel momento. Era evidente che detestava il Cancelliere, ma era utile ai Mondi Kerak. Il corpo diplomatico non era mai sceso a compromessi riguardo al trattato commerciale di Safad, e non avrebbe ottenuto nulla senza il lavoro di Odal con la duellomacchina. Era solo questione di tempo: il maggiore era convinto che prima o poi Romis avrebbe ucciso Kanus, o viceversa.
Il resto dell’uditorio era fatto di politicanti da quattro soldi, di facinorosi trasformati in guardie del corpo e di pochi altri parassiti che erano col Duce fino dai tempi in cui lui teneva i suoi discorsi politici nelle cantine e percorreva i vicoli secondari per non incappare nella polizia. Da allora, Manus aveva fatto molta strada. Dall’oscurità di origini ignote era giunto all’abbagliante altezza di Cancelliere dello Stato.
Denaro, potere, gloria, vendetta, patriottismo… Ciascun uomo presente in quella stanza aveva le sue buone ragioni per seguire il Cancelliere.
E quali sono le mie? domandò Odal a se stesso. Perché lo seguo? So leggere nella mia mente con la stessa facilità con cui leggo in quella degli altri?
C’era il dovere, naturalmente. Lui era un soldato, e Kanus era il capo di un governo legalmente eletto. Una volta al potere, tuttavia, Kanus aveva dissolto il governo e cristallizzato la sua posizione in quella di dittatore assoluto dei Mondi Kerak.
C’era da guadagnare comportandosi bene sotto Kanus. Il Duce ricompensava generosamente, quando era soddisfatto. La Stella di Kerak portava con sé una pensione annua capace di risolvere facilmente tutti i problemi di una famiglia. Ma io non ho famiglia! pensò Odal, sarcastico.
E si diventava anche potenti, in un certo senso. Usare la duellomacchina in quel modo particolare, colpire un uomo fino ad annientarlo, individuare i punti deboli della sua personalità e sfruttarli opponendo la sua mente ad altre, trasformando una torre d’orgoglio ghignante in un cane bastonato e senza difesa… non era potenza, quella? E non passava inosservata, su Kerak. Odal veniva già facilmente riconosciuto per le strade. Soprattutto le ragazze sembravano affascinate da lui, ora.
— Il fattore più importante — stava dicendo Kanus — e non lo sottolineerò mai abbastanza, è costruire un’aura d’invincibilità. Ecco perché il vostro lavoro è importante, maggiore Odal. Dovete essere invincibile perché rappresentate la volontà dei Mondi Kerak! Siete lo strumento della mia volontà e dovete trionfare sempre: il fato del vostro popolo e del vostro Cancelliere riposa completamente sulle vostre spalle, ogni volta che entrate in una duellomacchina. E avete fatto onore a questa responsabilità, maggiore. Ve la sentite di continuare?
— Me la sento, signore — gli rispose lui con vivacità. — E lo farò.
Kanus lo guardò, raggiante. — Benissimo, tanto più che il vostro prossimo duello, e tutti quelli che seguiranno, saranno all’ultimo sangue.
L’astronave avrebbe impiegato due settimane per compiere il viaggio da Carinae all’Ammasso d’Acquatainia. Il professor Leoh passava il tempo controllando la duellomacchina acquatainiana per mezzo di un collegamento tridimensionale diretto. Il governo dell’Ammasso aveva messo a disposizione i tecnici e il tempo necessari per compiere quel lavoro.
Trascorreva le ore libere in compagnia degli altri passeggeri. Si trattava per lo più di persone ricchissime che si permettevano il lusso di compiere viaggi e di individui che viaggiavano per conto del governo a spese di quest’ultimo. Il professore era un tipo socievole, amava la conversazione e aveva un notevole senso dell’umorismo; era particolarmente apprezzato dalle donne giovani, avendo raggiunto l’età che gli permetteva di rivolgere loro le sue attenzioni galantemente, senza farle sentire in pericolo. Tuttavia rimaneva spesso lunghe ore nella sua stanza, solo con i suoi ricordi. In quei momenti gli era impossibile non tornare col pensiero alla strada che aveva percorso.
Albert Robertus Leoh, libero docente in fisica ed elettronica, laureato in tecnologia del computer, inventore del sistema di comunicazione tridimensionale, studioso di psicologia, professore di psicofisiologia, fondatore della Società per Azioni Psiconica, inventore della duellomacchina…
Durante gli anni della sua gioventù, con l’entusiasmo sbrigliato dell’inesperienza, Leoh si era votato al servizio del genere umano, ad estenderne le colonie e a diffonderne la civiltà in tutta la galassia. Il secolo di amare guerre galattiche era terminato quando lui era ancora bambino, e ora le varie società umane erano unite attraverso le stelle in una coalizione più o meno pacifica di nazioni.
Due grandi forze lievitavano in quelle società umane, due forze che tendevano verso mete opposte. Da una parte c’era la spinta a esplorare, a raggiungere nuove stelle, nuovi pianeti, ad espandere le frontiere della civiltà umana, fondando nuove colonie e nuovi mondi. Contro questa tendenza si ergeva la consapevolezza di trovarsi in una condizione fortunata giacché, sui mondi civilizzati dall’uomo, la tecnologia aveva eliminato la fatica fisica e, quasi completamente, la povertà stessa. L’impulso ad allontanarsi dalla frontiera veniva pertanto soffocato dagli agi della civiltà moderna.
Il risultato era inevitabile: i mondi civili si facevano sempre più sovraffollati, simili a isole brulicanti di umanità sparse in un vasto oceano di spazio tempestato di atolli deserti. Spesso si dava la colpa al costo o alle difficoltà dei viaggi interstellari. Le navi spaziali erano davvero costose e il loro fabbisogno di energia era tremendo. Potevano essere impiegate per lavoro, per il piacere dei più ricchi, per le necessità del governo ma non era possibile usarle per il trasporto di intere colonie di agricoltori e operai. Solo i gruppi dei coloni più decisi e meglio organizzati potevano permetterselo. Il resto dell’umanità accettava le comodità e la sicurezza offerte dalla civiltà e viveva nelle città traboccanti di gente, sui pianeti sovraffollati.
La vita di questi uomini era condizionata alle esigenze dei mondi vicini e dai loro governi. Una quantità sempre maggiore di individui stipati in uno spazio sempre uguale portava a una libertà sempre minore: sognare, correre, procreare diventavano tutti privilegi controllati dallo Stato.
E Leoh aveva contribuito all’instaurarsi di quella situazione.
Vi aveva contribuito con il pensiero e il lavoro. Il sistema di comunicazioni interstellari era soltanto un particolare notevole, in una lunga carriera di realizzazioni.
Lui aveva già quasi raggiunto l’età in cui gli scienziati possono ritirarsi volontariamente, quando si era accorto di quello che aveva fatto con i suoi colleghi. I loro sforzi per rendere la vita umana più ricca e più piacevole erano riusciti soltanto a renderla meno difficile e più amara. Con l’aumento delle comodità materiali si era avuto un aumento di disagio spirituale che si manifestava in neurosi, in delitti violenti, in aberrazioni mentali. Dopo generazioni e generazioni scoppiavano per la prima volta tra le nazioni interstellari guerre assurde, provocate unicamente dall’orgoglio. Esteriormente la pace della galassia sembrava abbastanza sicura, tranne per alcune esplosioni di minore importanza, ma, sotto la superficie levigata della civiltà umana, covava il fuoco di un vulcano. Le azioni di polizia della Guardia Spaziale aumentavano con un ritmo che non lasciava pensare a niente di buono. Conflitti meschini scoppiavano continuamente tra i popoli che sembravano aver trovato da tempo un equilibrio stabile.
Quando Leoh si era accorto della sua parte in tutto questo, si era sentito diviso tra due emozioni: un profondo senso di colpa e il bisogno di fare qualcosa per ricostruire, almeno in parte, l’equilibrio dell’uomo.
Così era uscito dal settore della fisica e dell’elettronica per entrare in quello della psicologia e, invece di andare in pensione, aveva chiesto di intraprendere i nuovi studi come un novellino qualsiasi. Per accontentarlo era stato necessario stiracchiare non poco le norme rigide della Federazione ma, trattandosi di un uomo della levatura di Leoh, nessuno aveva osato opporsi. Così Leoh era ridiventato studente, poi ricercatore e, infine, professore di fisiopsicologia.
Ed era nata la duellomacchina, una combinazione di elettroencefalografo e calcolatore automatico. Si trattava di un apparecchio fantastico, capace di amplificare la fantasia dell’uomo fino a consentirgli di perdersi in un mondo creato da lui. Leoh l’aveva ideata come dispositivo capace di liberare gli uomini dall’aggressività e dalla tensione nervosa, in tutta sicurezza. Naturalmente gli psichiatri e gli psicotecnici l’avevano adottata per curare i loro pazienti, ma il professore, intuito subito che come macchina per duellare l’apparecchio psiconico poteva prevenire turbe e disordini mentali, aveva convinto molti governi ad installare le duellomacchine a questo scopo.
Quando due uomini avevano su un argomento divergenze di opinioni tanto profonde da spingerli a un’azione legale, potevano definire la questione nella duellomacchina, invece che in tribunale. Invece di attendere passivamente che il meccanismo della legge definisse i loro problemi, potevano lasciare alla loro immaginazione di sbrigliarsi liberamente e risolvere la contesa nel modo violento che desideravano, senza provocare alcun danno a se stessi o agli altri. Sulla maggior parte dei mondi civilizzati, il risultato dei duelli, debitamente controllati, veniva accettato con valore legale.
La duellomacchina permetteva di sfuggire temporaneamente alle pressioni della vita civile, ma era un apparecchio troppo potente per permetterne l’uso indiscriminato. Perciò Leoh aveva salvaguardato la sua invenzione fondando la Società per Azioni Psiconica e assicurandosi una licenza esclusiva della Federazione Terrestre per la fabbricazione, la vendita, l’installazione e la manutenzione delle macchine. Tra i suoi clienti annoverava le organizzazioni legali e sanitarie dei vari governi. Quanto alle sue azioni, sotto l’aspetto legale doveva risponderne alla Federazione e, sotto quello morale, alla propria coscienza.
Le duellomacchine avevano avuto successo. Lavoravano proprio come aveva previsto l’inventore, anzi meglio. Ma Leoh sapeva che si trattava solo di un palliativo: era come riparare temporaneamente una diga erosa in continuazione dall’acqua. Sarebbe stato molto più utile rompere lo status quo, spingere la gente a protendersi verso le stelle deserte e inesplorate che riempivano la galassia, trovare il modo di convincere gli uomini a lasciare le comodità offerte dalla civiltà e a cercare le emozioni e la libertà di nuove terre.
Leoh stava appunto cercando la soluzione a quel problema quando lo aveva raggiunto la notizia del duello di Dulaq. Si era precipitato attraverso anni-luce di spazio, augurandosi che la duellomacchina non dovesse rivelarsi un insuccesso.
Il volo finì dopo quindici giorni. L’astronave entrò in orbita di parcheggio intorno al pianeta principale dell’Ammasso d’Acquatainia e i passeggeri furono traghettati sulla superficie.
Il dottor Leoh fu accolto sulla piattaforma di atterraggio da una delegazione ufficiale, guidata da Massan, in sostituzione del primo ministro. Ci fu uno scambio di saluti formali ai piedi del traghetto mentre gli altri passeggeri si avvicinavano per guardare, curiosi e perplessi. Mentre sostava sulla scala mobile che conduceva all’ingresso privato del padiglione riservato agli uffici dello spazioporto, Leoh commentò: — Come probabilmente saprete già, durante queste due settimane ho già controllato la vostra duellomacchina per mezzo del tridimensionale e non ho trovato guasti.
Massan si strinse nelle spalle.
— Forse avreste dovuto controllare la macchina di Szarno, invece.
— La Lega di Szarno? La loro duellomacchina?
— Già. Proprio stamattina l’assassino assoldato da Kanus ha ucciso un uomo, con quella macchina.
— Volete dire che ha vinto un altro duello — precisò Leoh.
— Non avete capito — disse Massan, tetro. — L’avversario del maggiore Odal, un industriale che si era permesso di criticare Kanus, è stato veramente ucciso nella duellomacchina. È morto!
Uno dei vantaggi di essere Comandante in Capo della Guardia Spaziale disse il vecchio a se stesso, è che si può visitare qualsiasi pianeta della Federazione.
Rimase in piedi sulla sommità della collina, a contemplare l’altipiano erboso del Kenia. Quello era il suo paese natale, il suo mondo: la Terra. Il quartier generale della Guardia Spaziale sorgeva nel cuore di un ammasso stellare assai più vicino al centro della Federazione, ma la Terra era il luogo che il Comandante desiderava più di rivedere, a mano a mano che invecchiava.
Un aiutante, che l’aveva seguito tenendosi a rispettosa di stanza, interruppe all’improvviso le sue fantasticherie.
— Signore, un messaggio per voi.
Il Comandante guardò di traverso il giovane ufficiale. — Non avevo dato ordine di non essere disturbato?
— Il vostro capo di stato maggiore vi ha inviato questo messaggio, signore. Viene dal professor Leoh, dell’università di Carinae. Personale e urgente — rispose l’ufficiale.
Il vecchio brontolò tra sé, poi si arrese. L’aiutante posò una piccola sfera di cristallo sull’erba, davanti al superiore. L’aria sopra la sfera cominciò a vibrare e a splendere.
— Qui parla Sir Harold Spencer — disse il Comandante.
Le vibrazioni sembrarono prendere forma solida: il professor Leoh stava seduto a una scrivania e guardava Spencer.
— Harold, che piacere rivedervi — disse alzandosi.
Lo sguardo corrucciato del Comandante si ammorbidì e la faccia bovina si distese in un largo sorriso. — Albert, vecchio stregone! Come vi permettete di interrompere la prima visita che faccio a casa dopo quindici anni?
— Non vi tratterrò a lungo — disse il professore. — Volevo solo informarvi di qualcosa.
— Avete detto al mio capo di stato maggiore che era urgente — borbottò Sir Harold.
— Lo è. Ma non si tratta di un problema che richieda molta fatica da parte vostra. Non ancora. Siete al corrente dei recenti sviluppi politici sui Mondi Kerak?
— So che un barbaro di nome Kanus si è installato come dittatore — disse Spencer con una smorfia. — È uno che va in cerca di guai. Ho chiesto al Consiglio di permetterci di schiacciarlo prima che ne combini qualcuno di grosso, ma il Consiglio, lo sapete già, aspetta sempre che scoppi l’incendio per poi supplicare la Guardia Spaziale di fare qualcosa.
— Siete sempre lo stesso — dichiarò Leoh ridendo.
— Be’, non ero io l’argomento della nostra conversazione. Cosa volevate dirmi, di Kanus? E voi, che cosa state facendo? Perché vi interessate di politica? Avete intenzione di cambiare ancora professione?
— Niente affatto — rispose Leoh, ridendo. — A quanto pare, Kanus ha scoperto il modo di usare la duellomacchina per conseguire vantaggi politici ai danni dei suoi vicini.
E spiegò come si erano svolti i duelli di Odal con Dulaq e con l’industriale di Szarno.
— Allora Dulaq è completamente invalido e l’altro poveraccio è morto? — La faccia di Spencer si rabbuiò. — Avete fatto bene a chiamarmi. Questa situazione potrebbe diventare presto intollerabile.
— Sono d’accordo con voi, ma Kanus non ha commesso alcuna infrazione alla legge né rotto alcun accordo interstellare. Si sono semplicemente verificati due spiacevoli incidenti, entrambi in favore del dittatore.
— E voi credete davvero che si tratti di incidenti?
— Certo che no! La duellomacchina non può causare alcun danno fisico e mentale, a meno che qualcuno non l’abbia manomessa.
Spencer rimase un attimo in silenzio, considerando la notizia. — Benissimo. La Guardia Spaziale non può agire ufficialmente, ma nulla mi impedisce di inviare qualcuno all’Ammasso d’Acquatainia, in missione speciale, per servire di collegamento tra noi.
— Bene. Penso che questo sia il modo più efficace di affrontare la situazione, attualmente.
— Sarà fatto.
— Grazie infinite — replicò Leoh. — Ora tornate a godervi la vostra vacanza.
— Vacanza? Ma, questa non è una vacanza. È il giorno del mio compleanno.
— Ah sì? Be’, congratulazioni. Io cerco sempre di non ricordare il mio.
— Allora dovete essere più vecchio di me — rispose Spencer.
— Può darsi.
— Ma non è probabile, vero?
Risero allegramente tutti e due e si salutarono. Il Comandante della Guardia Spaziale scorrazzò su e giù per la prateria fino al tramonto, godendosi la vista di tutto quel verde e delle lontane montagne purpuree che conosceva fin dall’infanzia. Al crepuscolo comunicò all’aiutante che era pronto a partire.
L’ufficiale premette un bottone che aveva sulla cintura. Poco dopo un aeromobile a due posti arrivò silenziosamente, sorvolando l’estremità lontana della catena montuosa. Spencer salì a bordo faticosamente mentre l’ufficiale aspettava in silenzio. Quando il Comandante ebbe sistemato la sua mole nel sedile, il giovanotto girò in fretta intorno al veicolo e vi saltò dentro. Poi l’aeromobile si diresse velocemente verso la nave planetaria che li stava aspettando in un campo vicino.
— Non dimenticate di assegnare un ufficiale al professor Leoh — borbottò Spencer al suo aiutante.
Quella notte stessa, mentre la nave di Sir Harold effettuava il rendez-vous con l’astronave in attesa, il giovane ufficiale dettò l’ordine al corriere automatico che lo proiettò immediatamente al più vicino centro comunicazioni della Guardia Spaziale, su Marte.
L’ordine fu analizzato, catalogato automaticamente e trasmesso quindi al comandante del distaccamento della Guardia Spaziale più vicino all’Ammasso d’Acquatainia, sul sesto pianeta orbitante intorno alla stella Alfa Perseo. Qui l’ordine fu di nuovo analizzato automaticamente e avviato, attraverso il quartier generale di zona, agli archivi del personale.
Gli archivi automatizzati scelsero tre dossier, i cui dati corrispondevano ai requisiti richiesti dall’ordine.
Le tre microcartelle e l’ordine stesso apparvero poi simultaneamente sullo schermo inserito nella scrivania dell’ufficiale della Guardia Spaziale incaricato del reclutamento personale, su Alfa VI Perseo. L’ufficiale lesse l’ordine, esaminò i dossier e premette un pulsante che gli fornì un rapporto aggiornato sul curriculum e sulla situazione di ciascuno dei tre uomini in questione. Uno aveva diritto a una licenza, dopo un lungo periodo di servizio. L’altro era figlio di un amico personale del comandante locale e il terzo era arrivato da poche settimane, direttamente dall’Accademia della Guardia Spaziale.
L’ufficiale scelse il terzo uomo ed inserì il dossier e l’ordine di Sir Harold nell’apposita apparecchiatura automatica. Dopo di che se ne tornò al film di danze primitive che stava gustando prima che la pratica arrivasse sulla sua scrivania.
La stazione spaziale orbitante intorno al pianeta principale d’Acquatainia serviva anche per effettuare il trasferimento dei passeggeri dalle navi stellari a quelle planetarie, da luogo di villeggiatura, da stazione meteorologica, da laboratorio scientifico, da centro di comunicazioni, da osservatorio astronomico, da luogo di cura per le allergie e le affezioni cardiache, nonché da base militare. Era una città di notevoli dimensioni, con i suoi mercati, un governo autonomo e un sistema particolare di vita.
Il professor Leoh era appena sceso dalla rampa di sbarco della nave stellare proveniente da Szarno. Il viaggio era stato inutile, ma lui lo aveva fatto ugualmente sperando di poter trovare qualche guasto nella duellomacchina che era servita a uccidere un uomo. Mentre passava attraverso i rivelatori e gli apparecchi di controllo della dogana sentì un brivido lungo la schiena. Che tipo di dente erano, i Kerakiani, per uccidere deliberatamente un essere umano, per progettare la morte di chi apparteneva alla loro stessa specie? Erano peggio dei barbari: erano selvaggi.
Mentre usciva dalla dogana e prendeva la strada mobile che conduceva alle navi traghetto planetarie, provò un senso di infinita stanchezza. Il trambusto dei viaggiatori e dei turisti lo infastidiva, malgrado la plastica antisuono di cui era rivestito il corridoio della strada scorrevole. Decise quindi di rivolgersi all’ufficio comunicazioni, nel caso fossero arrivati messaggi. L’ufficiale che Sir Harold gli aveva promesso una settimana prima ormai doveva essere arrivato.
L’ufficio comunicazioni consisteva in una piccola cabina con la stampatrice dell’unità di uscita di un calcolatore, ed era affidato a una graziosa ragazza dai capelli neri. Automazione o no, pensò Leoh, nessuna macchina può sostituire il sorriso di una bella ragazza!
Un giovanotto magro, dalla faccia ossuta, se ne stava appoggiato al banco dell’ufficio informazioni e cercava di attaccare discorso con la ragazza. Aveva i capelli biondi e ricci, gli occhi azzurri e limpidi. Indossava pantaloni sportivi che non gli andavano certo a pennello e una tunica. Una piccola borsa da viaggio era posata sul pavimento, ai suoi piedi.
— Così, avevo pensato… ehm… che forse qualcuno sarebbe potuto venire a spasso con me per un poco — stava dicendo alla ragazza. — Io… ehm… non sono mai stato qui, su Acquatainia, voglio dire… prima d’ora…
— È il più bel pianeta della galassia — disse la ragazza. — Ha città bellissime.
— Già… ehm… insomma, pensavo che voi, forse… ehm…
Lei sorrise, gelida. — Io lascio raramente la stazione. Ci sono tante cose da dire e da fare, qui.
— Oh…
— Voi commettete uno sbaglio — interruppe Leoh. — Con la fortuna di avere un pianeta così bello, perché, in nome degli dèi e della logica umana, non scendete a godervelo? Immagino che non siate più andata a contemplare le bellezze naturali e le città di cui avete parlato, dal giorno in cui avete cominciato a lavorare alla stazione.
— Santo Cielo, avete ragione — disse lei, sorpresa.
— Vedete? Voi giovani siete tutti uguali. Non arrivate mai al di là del vostro naso. Dovreste tornare sul pianeta, signorina, e rivedere il sole. Perché non fare una visitina all’università e alla capitale? Spazio e verde in abbondanza, sole e una quantità di giovanotti a vostra disposizione.
— Può anche darsi. Chissà… — disse la ragazza, sorridendo.
— Domandate di me, quando verrete all’università. Sono il professor Leoh. Vi presenterò a qualche studente.
— Diamine, grazie, professore. Verrò il prossimo week-end.
— Bene. Dunque, niente messaggi per me? Nessuno mi sta aspettando?
La ragazza si girò e inserì alcune chiavi nel pannello di controllo del calcolatore. Una fila di luci lampeggiò brevemente per alcuni istanti.
— No, signore. Spiacente — disse, rivolta a Leoh.
— Bah. È strano. Comunque grazie, e arrivederci per il week-end.
Lei salutò con un sorriso, e il professore si voltò per uscire dalla cabina. Ma il giovanotto magro fece un passo verso di lui, inciampò nella borsa da viaggio e barcollò per alcuni metri prima di ritrovare l’equilibrio. Leoh si voltò e vide sulla faccia dello sconosciuto un’espressione buffa, mista di indecisione e curiosità.
— Posso esservi utile? — domandò, fermandosi al limite della strada mobile.
— Come… come avete fatto, signore?
— A fare che cosa?
— A convincere la ragazza a visitare l’università. Io le parlavo già da una mezz’ora, e quella neanche si era degnata di guardarmi!
— Be’, ragazzo mio — disse il professore, scoppiando a ridere — prima di tutto vi eravate troppo accalorato e questo lasciava capire che ci tenevate troppo. E poi, io ho un’età in cui ci si può permettere di essere paterni. La ragazza era in guardia contro di voi, non contro di me.
— Credo di capire.
— Sì. — Leoh indicò la strada scorrevole. — Suppongo che qui dovremo dividerci.
— Oh no, signore. Io vengo con voi. Ossia, voglio dire… siete il professor Leoh, vero?
— Sì. E voi siete… — Il professore esitò. Questo tipo sarà mica un ufficiale della Guardia Spaziale?
Il giovanotto si irrigidì, e, per una frazione di secondo, Leoh credette che volesse salutarlo militarmente. — Sottotenente Hector, signore. In missione speciale, dall’incrociatore SW4-J188, base di Alfa VI Perseo.
— Capisco — disse Leoh. — Ehm, Hector è il nome o il cognome?
— Tutt’e due, signore.
Dovevo immaginarmelo! pensò lo scienziato. Poi, a voce alta, soggiunse: — Bene, sottotenente, raggiungiamo il traghetto prima che parta senza di noi.
Presero la strada scorrevole. Mezzo secondo dopo Hector ne scese con un balzo e si precipitò di nuovo verso l’ufficio comunicazioni per recuperare la borsa da viaggio. Poi si gettò ancora all’inseguimento di Leoh, urtando almeno sette cittadini allibiti e rischiando di spezzarsi tutt’e le gambe mentre balzava sulla strada mobile. Atterrò sul ventre, lungo disteso tra due sentieri scorrevoli che si muovevano a diversa velocità, e solo, con l’aiuto di una vecchia signora riuscì a rimettersi in piedi e a tenersi ritto accanto al professore.
— Mi spiace di aver causato tanto trambusto, signore.
— Niente, niente. Non ci ho fatto caso. Vi siete fatto male?
— No, ehm… non credo. Sono un po’ confuso. — Rimasero sulla strada scorrevole, uno accanto all’altro, attraversando in silenzio la stazione congestionata e dirigendosi verso il luogo dove i traghetti se ne stavano ormeggiati. Salirono su una delle navi e si sedettero.
— Da quanto siete nella Guardia Spaziale, sottotenente?
— Da sei settimane, signore. Tre le ho passate a bordo della nave stellare che mi portava alla base di Alfa VI Perseo, una alla base planetaria di laggiù e due a bordo dell’incrociatore… l’SW4-J188. L’equipaggio lo chiamava Vecchio Secchio di Lardo per via del capitano, credo. Oh, ci sono volute sei settimane perché mi venisse assegnato un incarico. E pensare che ho fatto quattro anni di Accademia.
— Ci avete messo quattro anni per terminare l’Accademia?
— È il tempo regolamentare, signore.
— Sì, lo so.
La nave si staccò dagli ormeggi. Un attimo in caduta libera, poi i motori si accesero e la mancanza di peso sparì dalla cabina dei passeggeri.
— Dite un po’, sottotenente, come mai vi hanno scelto per questa missione?
— È quello che vorrei sapere anch’io, signore — disse Hector, assumendo un’espressione preoccupata. — Stavo preparando un programma per l’ufficiale di rotta, sull’incrociatore. Quella è un po’ la mia specialità. Riesco a preparare programmi per calcolatori abbastanza bene, tutto mentalmente. La matematica era il mio cavallo di battaglia, all’Accademia.
— Interessante.
— Sì. Be’, comunque sto lavorando a quel programma quando il capitano in persona sale sul ponte e comincia a darmi vigorose strette di mano, dicendomi che sarò mandato in missione speciale ad Acquatainia per ordine espresso, niente po’ po’ di meno, del Comandante in Capo. Aveva l’aria raggiante. Il capitano, voglio dire.
— Probabilmente era contento che vi assegnassero un compito tanto fuori dell’ordinario — disse Leoh con molto tatto.
— Io non ne sono proprio sicuro — rispose l’altro con franchezza. — Credo che lui mi considerasse… be’, una specie di problema difficile da risolvere. Mi cambiava mansioni praticamente ogni giorno, a bordo.
— Bene — disse Leoh, cambiando argomento — che cosa ne sapete di psiconica?
— Di che cosa, signore???
— Ehm… elettroencefalografia?
Hector aveva l’aria di non saperne niente.
— Di psicologia, forse? — suggerì Leoh. — Fisiologia? Molectronica del computer?
— Sono discretamente bravo in matematica.
— Sì, lo so. Avete, per caso, ricevuto una preparazione qualsiasi in relazioni diplomatiche?
— All’Accademia della Guardia Spaziale? Signornò.
Il professore si passò le dita fra i capelli radi. — E allora perché diavolo la Guardia Spaziale vi ha scelto per questo lavoro? Sottotenente, confesso di non capire bene il meccanismo delle organizzazioni militari.
Hector scosse la testa con tristezza. — Non lo capisco neanch’io, signore.
La settimana fu di una lentezza snervante per Leoh, ugualmente diviso fra il noioso controllo dei vari elementi della duellomacchina e la fatica mentale di inventare i trucchi più svariati per tenere Hector il più possibile lontano dall’apparecchio.
Hector, certo, era pieno di buona volontà e il professore, a dire il vero, era a corto di gente che sapesse sbrogliare complicati problemi matematici. Ma era anche decisamente troppo goffo, sventato, chiacchierone. E fischiettava tutto il giorno. Impossibile fare un lavoro costruttivo con lui attorno!
Forse lo giudichi troppo severamente si disse Leoh. Forse la delusione che ti ha dato la macchina ha scosso un po’ la tua obiettività.
Il professore sedeva nell’ufficio che gli Acquatainiani gli avevano riservato nel retro dell’ex aula universitaria che ora ospitava la duellomacchina e poteva scorgere la sua creatura attraverso la porta socchiusa del suo studio. Quest’ultimo faceva parte di una serie di uffici che prima servivano al personale fisso addetto alla macchina. Ora tutti avevano abbandonato al completo l’edificio per deferenza nei riguardi di Leoh, o forse per gelosia. Il governo d’Acquatainia aveva trasformato i cubicoli in alloggi per il professore e il sottotenente.
Leoh si abbandonò sulla poltrona dietro la sua scrivania lanciando un’occhiata al fascio di carte su cui erano registrati i dati relativi al funzionamento della macchina, durante le sue ultime prestazioni. Quel giorno, di buon mattino, aveva preso gli encefalogrammi di alcuni casi clinici di catatonia e li aveva inseriti nei circuiti d’ingresso della macchina. Questa li aveva rigettati immediatamente, rifiutandosi di elaborarne i dati attraverso gli amplificatori e i circuiti di associazione. In altre parole aveva riconosciuto nei tracciati encefalografici qualcosa di nocivo agli esseri umani.
E allora, cosa è accaduto a Dulaq? si domandò Leoh per la millesima volta. Non poteva essere stato un errore ella macchina. Dalla mente di Odal doveva essere partito qualcosa che aveva sopraffatto Dulaq.
Sopraffatto? si chiese Leoh. Questo è un termine terribilmente non scientifico!
Ma il suo monologo fu interrotto dal rumore della porta principale del salone e dal fischiettare stonato di Hector che riecheggiò sotto il soffitto a volta. Leoh sospirò e ricacciò in fondo alla mente i pensieri che lo preoccupavano. Cercare di seguire un filo logico in presenza di Hector era un’impresa disperata.
— Siete in casa, professore? — gridò il giovanotto.
Hector si chinò per passare attraverso la porta aperta e sprofondò nel divano.
— Tutto bene, signore?
Leoh si strinse nelle spalle. — Veramente, non direi. Non riesco a trovare alcun guasto nella macchina. E non riesco neppure a farla funzionare male.
— Be’, questa è una buona notizia, no? — osservò l’altro allegramente.
— In un certo senso — convenne Leoh, sentendosi conquistare dall’ottimismo illimitato e gratuito del giovanotto. — Ma, vedete, questo vuol dire che i sicari di Kanus possono farle fare quello che non riesce a me.
Hector considerò il problema. — Ehm… Sì, forse avete ragione.
— Avete riportato la ragazza alla sua nave senza incidenti?
— ’Gnorsì — replicò Hector, scuotendo la testa. — Sta proprio tornando all’ufficio comunicazioni della stazione spaziale. Mi ha detto di ringraziarvi perché si è divertita molto.
— Bene. Siete stato gentile ad accompagnarla in giro per il campus. Così me l’avete tenuta fuori dei piedi.
— Oh, è stato un vero piacere portarla a spasso — disse l’altro ridendo. — E poi… Era un mandar fuori dai piedi anche me, no?
Il professore alzò di scatto i sopraccigli, stupito.
Ridendo, Hector continuò: — Posso sembrare goffo, professore, e certamente non sono uno scienziato. Ma non sono neanche completamente fesso!
— Mi spiace che abbiate avuto quell’impressione.
— Oh no, non dispiacetevi… Non intendevo rattristarvi. Be’, capisco come possa esservi sembrato… Insomma, so benissimo di esservi d’impaccio. — E si alzò per andarsene.
Leoh gli indicò un’altra volta il divano. — Rilassatevi, ragazzo mio. Sono rimasto seduto qui tutto il pomeriggio domandandomi cos’altro potessi fare e, bene o male, proprio ora sono giunto a una conclusione.
— Sì?
— Ho deciso di lasciare l’Ammasso d’Acquatainia e di tornare a Carinae.
— Cosaa??? Ma non potete! Voglio dire…
— E perché no? Qui non concludo niente di buono. Quello che hanno fatto Odal e Kanus è, fondamentalmente, un problema politico, non scientifico. Prima o poi l’équipe che si occupa della macchina scoprirà i loro trucchi.
— Ma, signore, se non ci riuscite voi a trovare una risposta, come faranno loro?
— Francamente non lo so. Ma, ve l’ho già detto, questo è un problema politico più che scientifico. Sono stanco, deluso e sento il peso degli anni. Voglio tornarmene a Carinae e trascorrere i prossimi mesi nella meditazione di problemi meravigliosamente astratti, come quel riguardanti, per esempio, i sistemi di trasporto istantaneo. Di Kanus se ne occuperanno Massan e la Guardia Spaziale.
— Oh! Ero proprio venuto a dirvi questo. Massan è stato sfidato a duello da Odal.
— Cosaa???
— Questo pomeriggio Odal si è recato al Palazzo del Governo, ha attaccato briga con lui proprio nel corridoio principale, poi lo ha sfidato.
— E Massan ha accettato?
Hector annuì. Leoh si allungò sulla scrivania e agguantò il telefono. Dopo alcuni minuti, persi tra un carosello di segretari e aiutanti, la faccia scura e barbuta di Massan apparve finalmente sullo schermo.
— Sicché avete accettato la sfida di Odal — esclamò il professore, senza tanti preamboli.
— Ci incontreremo la settimana prossima — rispose l’altro, gravemente.
— Avreste dovuto rifiutare.
— Con quale pretesto?
— Nessun pretesto. Un rifiuto chiaro e tondo, basato sulla certezza che Odal, o qualcun altro di Kerak, ha manomesso la macchina.
Massan scosse la testa, avvilito. — Caro il mio scienziato, voi non capite la situazione politica. Il governo di Acquatainia è più prossimo a disgregarsi di quanto io sia disposto ad ammettere pubblicamente. La coalizione di nazioni stellari che Dulaq aveva costituito per neutralizzare Kerak si è frantumata e Kerak sta già riarmandosi. Stanotte Kanus ha annunciato che annetterà Szarno e tutta la sua possente industria bellica. Questo pomeriggio Odal mi ha sfidato.
— Credo di capire…
— Già. Il governo d’Acquatainia è paralizzato finché non si saprà l’esito del duello. Non possiamo intervenire nella crisi di Szarno finché non sapremo chi sarà a capo del governo la settimana ventura. E, in verità, già parecchi membri del gabinetto appoggiano apertamente Kanus e sostengono che si dovrebbero stabilire relazioni amichevoli con lui, prima che sia troppo tardi.
— Ragione di più per rifiutare di battersi — insisté Leoh.
— Ed essere accusato di vigliaccheria durante le riunioni di Gabinetto? — Massan scosse la testa. — In politica, mio caro signore, l’apparenza di un individuo ha lo stesso valore, e a volte anche maggiore, della sua sostanza. Come vigliacco sarei presto messo da parte. Ma forse, come vincitore di un duello contro l’invincibile Odal, oppure come martire, potrei servire a qualcosa di utile.
Leoh non rispose.
— Ho rimandato l’incontro di una settimana — continuò Massan — cioè per il periodo più lungo che mi è stato possibile. Spero che in questi sette giorni riusciate a scoprire il segreto di Odal. La situazione politica potrebbe precipitare da un momento all’altro.
— Smonterò la macchina e la ricostruirò, molecola per molecola — promise Leoh.
Quando l’immagine di Massan svanì dallo schermo, il professore si rivolse a Hector. — Abbiamo una sola settimana per salvargli la vita.
— E per impedire lo scoppio di una guerra — aggiunse il giovane.
— Sì. — Leoh si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò lo sguardo nel vuoto.
Hector strascicò i piedi, si stropicciò il naso, fischiettò stonato qualche brano di una canzone notissima e, finalmente, esplose:
— E come farete a smontare la duellomacchina?
— Eh? — Leoh si strappò bruscamente alle sue fantasie.
— Come farete a smontare la duellomacchina? — ripeté l’altro. — Insomma, voglio dire che è un lavoro troppo gravoso per riuscire a finirlo in una sola settimana.
— È vero, ragazzo mio. Ma forse noi due, riunendo i nostri sforzi, ce la faremo.
Hector si grattò la testa. — Be’, signore. Io non sono molto… All’Accademia, i miei voti in meccanica…
— Non è necessaria la conoscenza della meccanica, ragazzo mio — disse Leoh sorridendo. — Siete stati educati alla lotta, no? Ebbene, dovremo lottare mentalmente.
Fu la settimana più strampalata della loro vita.
Il piano di Leoh era semplice: controllare la duellomacchina spingendola ai limiti delle sue possibilità con duelli continui.
Prima i due uomini si limitarono a esercitare i loro muscoli mentali. Leoh aveva usato parecchie volte la macchina in passato, ma solo per controlli di ordinaria amministrazione, mai in veri e propri duelli contro un altro essere umano. Per Hector, invece, era un’esperienza completamente nuova.
Cominciarono, dunque, col giocare a nascondino. Uno dei due sceglieva un posto, si nascondeva e l’altro si dava da fare per scovarlo. Vagarono così attraverso giungle e città, percorsero ghiacciai e distanze interplanetarie senza mai abbandonare le cabine della macchina.
Poi, quando Leoh fu sicuro che quest’ultima era in grado di riprodurre e amplificare con grande fedeltà schemi di pensiero, cominciarono a battersi con duelli facili, tirando di scherma con fioretti spuntati, coadiuvati dall’équipe acquatainiana che forniva un aiuto preziosissimo nel controllo e nell’analisi degli incontri. Leoh combatteva malissimo perché ne sapeva ben poco di scherma e i suoi riflessi erano molto più lenti di quelli del suo avversario. La duellomacchina non alterava le conoscenze o le capacità fisiche di un individuo, le proiettava semplicemente nel sogno che lui divideva con un altro uomo, poneva l’abilità e la scienza di Leoh contro quelle di Hector. Poi tentarono con altre armi: pistole, raggi sonici, granate, ma usando sempre la precauzione di immaginarsi dentro una tuta protettiva. Strano a dirsi, malgrado Hector fosse allenato nell’uso di tutte le armi, Leoh vinceva quasi sempre gli incontri. Quando tiravano a un bersaglio il professore non era certo il più veloce e preciso dei due ma, quando poi si trovavano faccia a faccia, vinceva sempre, inspiegabilmente.
Leoh cominciò a rendersi conto che la macchina proiettava qualcosa di più dei pensieri di un individuo: ne proiettava la personalità.
Ora lavoravano notte e giorno, restando chiusi nelle cabine più di dodici ore al giorno e rasentando l’esaurimento insieme col personale addetto alla macchina. Quando mandavano giù un boccone, tra un duello e l’altro, erano nervosissimi e stremati. Generalmente finivano per addormentarsi nello studio del professore, mentre discutevano i risultati ottenuti durante la giornata di lavoro.
Pian pianino i duelli si fecero più seri. Ora Leoh spingeva i meccanismi al massimo, diventando sempre più esigente ad ogni incontro. Pur sapendo con esattezza che cosa voleva, spesso doveva fare uno sforzo per ricordarsi che i duelli erano del tutto immaginari.
Quando poi questi diventarono pericolosi e le allucinazioni ampliate artificialmente sfociarono nel sangue e nella morte, Leoh si accorse di vincere con frequenza sempre maggiore. E, mentre una parte della sua mente analizzava le cause del successo, l’altra cominciava a gustare la vittoria.
Hector, invece, mostrava i segni della tensione. E, se lo sforzo fisico richiesto da quell’applicarsi senza interruzione era davvero considerevole, gli effetti psicologici causati dal restare continuamente ferito e ucciso erano infinitamente più gravi.
— Forse dovremmo smettere per un po’ — propose Leoh il quarto giorno.
— No, sto bene.
Il professore lo guardò. Hector aveva la faccia scavata e gli occhi cerchiati. — Ne avete abbastanza — disse pacatamente al giovane.
— Per favore, non interrompete — supplicò Hector. — Io non posso fermarmi, ora! Datemi la possibilità di fare meglio, vi prego. Sto migliorando. Vi ho tenuto testa a lungo due volte, nei duelli di oggi pomeriggio, e anche stamattina. Per favore, non smettete proprio adesso che sono battuto ignominiosamente.
— Volete continuare? — Il professore gli sgranò tanto d’occhi in faccia.
— Sissignore.
— E se dicessi di no?
Hector esitò. Leoh intuì che stava lottando contro se stesso. — Se diceste di no — rispose infine l’ufficiale con voce spenta — sarebbe no. Non me la sento più di discutere con voi.
Il vecchio rimase in silenzio per qualche secondo. Infine aprì un tiretto della scrivania e ne estrasse una boccetta. — Ecco, prendete una capsula di questo sonnifero. Quando vi sveglierete proveremo di nuovo.
Era l’alba, quando ricominciarono. Leoh entrò nella duellomacchina deciso a lasciar vincere Hector e gli riservò la scelta delle armi e dell’ambiente. Hector scelse un ricognitore monoposto per orbite planetarie. Le armi erano dei normali raggi laser.
Eppure, malgrado il suo desiderio cosciente, Leoh riprese a vincere. I veicoli dovevano girare a spirale intorno ad un pianeta senza nome, e le rotte si intersecavano almeno una volta in ciascuna orbita. Si trattava di valutare la posizione orbitale dell’avversano e di programmare il proprio ricognitore in modo da trovarsi dietro o di fianco all’altro duellante al momento dell’incontro. Solo così sarebbe stato possibile puntare le armi contro il nemico prima che lui si voltasse.
Non sarebbe dovuto essere troppo difficile per l’ufficiale, che aveva il bernoccolo del calcolo mentale intuitivo. Nonostante questo Leoh mandò a segno il primo colpo. Hector aveva pilotato il veicolo egregiamente portandolo in un’ottima posizione per sparare, ma li aveva mancato il bersaglio. Invece lo scienziato, che manovrava in modo goffo e inesperto, riuscì a colpire al fianco il ricognitore del sottotenente.
Nei tre percorsi seguenti il professore azzeccò altri due colpi. Il veicolo di Hector ormai era mal ridotto. Quando incrociarono nuovamente, Leoh precedette il suo giovane antagonista e lo prese di mira coi lancialaser. Poi esitò, la mano posata sul pulsante.
Non ucciderlo più disse a se stesso. La sua mente non potrebbe sopportare un’altra sconfitta.
Invece la sua mano, ribellandosi alla volontà, cominciò a premere il pulsante: ancora un po’ e le armi avrebbero sparato.
Ma in quell’attimo di esitazione l’ufficiale aveva fatto compiere una virata al suo veicolo malandato, prendendo a sua volta di mira Leoh. Una scarica bruciante fece tremare da cima a fondo lo scafo del professore. Leoh premette a fondo il pulsante, senza rendersi conto se l’avesse fatto volontariamente o no.
Una raffica investì il ricognitore del sottotenente, ma non lo fermò. I due veicoli puntavano diritti uno contro l’altro. Leoh cercò disperatamente di evitare la collisione, ma Hector non desistette, ripetendo esattamente tutte le manovre dell’avversario.
L’impatto fu inevitabile, e i due veicoli esplosero.
Leoh si ritrovò bruscamente nella stretta cabina della duellomacchina, freddo e bagnato di sudore: gli tremavano le mani.
Uscì dal cubicolo e respirò profondamente. Il sole caldo inondava il locale e le pareti bianche brillavano per il riverbero. Attraverso i finestroni Leoh poteva vedere gli alberi, gli studenti più mattinieri e le nuvole del cielo.
Hector gli si avvicinò. Per la prima volta, dopo tanti giorni, il giovane sorrideva. Non aveva proprio l’aria allegra, ma sorrideva.
— Be’, questa volta mi è andata bene — disse.
Leoh ricambiò il sorriso, un po’ scosso. — Sì. È stata un’esperienza notevole. Non ero mai morto, prima d’ora.
— Be’, non è poi così terribile. Però fa una certa impressione.
— Sì. Ora capisco.
— Proviamo un altro duello?
— No, adesso no. Andiamocene da qui per un po’. Avete fame?
— Da morire!
Combatterono parecchi altri duelli nella giornata e mezza che seguì. Hector ne vinse tre. Era tardo pomeriggio e Leoh decise di smettere.
— Potremmo farne ancora un paio — disse l’ufficiale.
— È inutile, ormai — replicò il professore. — Ho tutti i dati che mi servono. Domani Massan si batterà contro Odal, a meno che non riusciamo a fermarli. Abbiamo molto da fare, prima di domani mattina.
Hector si sprofondò nel divano. — Come volete. Nei sette giorni passati mi sembra di essere invecchiato di altrettanti anni!
— No, ragazzo mio — disse il professore gentilmente. — Non siete invecchiato. Siete maturato.
Era quasi notte, e l’auto si fermò sul suo cuscino di aria davanti all’ambasciata di Kerak.
— Sono tuttora convinto che sia un errore andare a ficcarsi là dentro — dichiarò Hector. — Non potevate chiamarlo alla tridimensionale?
Leoh scosse la testa. — Non offrite mai al rappresentante di un governo straniero la possibilità di dire restate un momento in linea. Nel frattempo quelli fanno capannello e decidono tutti insieme che cosa bisogna rispondervi. Novantanove volte su cento va a finire che vi passano a un altro dipartimento o vi collegano con un registratore acceso, che ripete sempre lo stesso messaggio. Spiacente…
— Però — disse Hector — è un po’ come metter piede in territorio nemico.
— Non oserebbero mai farci del male.
Il giovanotto non rispose, ma aveva l’aria poco convinta.
— Sentite un po’ — disse il professore — ci sono solo due persone al mondo in grado di far luce su questa faccenda: una è Dulaq, ma la sua mente rimarrà chiusa per chissà quanto tempo, e l’altra è Odal, che la sa lunga anche se finge il contrario.
Hector scosse la testa, scettico, ma Leoh strinse le spalle e aprì la portiera del veicolo. Il giovane non poté far altro che uscire anche lui, seguendolo lungo il vialetto che portava all’ingresso principale dell’ambasciata. L’edificio si alzava grigio e desolato nel crepuscolo, circondato da una siepe tagliata con cura. L’entrata era fiancheggiata da due alberi sempreverdi, dritti e austeri come sentinelle.
I due uomini furono ricevuti da un’impiegata che aveva un’aria sciatta, come se l’avessero spedita a quella scrivania all’ultimo momento e senza preavviso. Chiesero di Odal e furono introdotti in un salottino. Dopo qualche minuto, con grande sorpresa di Hector, la ragazza li informò che il maggiore h avrebbe subito raggiunti.
— Vedete — osservò Leoh sorridendo — quando si viene di persona non hanno il tempo di liberarsi di voi.
Hector lanciò un’occhiata tutt’attorno al locale privo di finestre e contemplò la porta massiccia, solidamente chiusa. — Dev’esserci un bell’andirivieni, là dietro — borbottò. — Forse stanno escogitando qualche sistema per liberarsi di noi in modo definitivo.
Leoh stava per rispondere, quando la porta si aprì e Odal entrò nella stanza. Indossava un’uniforme militare azzurra, con i distintivi del grado sulle spalle e la Stella di Kerak sul petto.
— Professore, sono davvero onorato — disse con un inchino. — E il signore…?
— Sottotenente Hector, della Guardia Spaziale — rispose lui con un’incisività che sorprese Leoh.
— È qui per aiutarmi — spiegò il professore. — Tiene il collegamento con il Comandante Spencer.
— Capisco — commentò Odal. E fece cenno ai due visitatori di accomodarsi. Hector e Leoh sedettero su un divano di velluto, mentre Odal prendeva una seggiola rigida e si piazzava di fronte a loro. — Allora, perché siete venuti?
— Desidero che rimandiate il duello che dovrebbe aver luogo domani col ministro Massan — rispose Leoh.
La faccia di Odal s’illuminò di un sorriso tirato. — Massan ha acconsentito?
— No.
— E allora perché dovrei farlo io?
— Per essere franco, maggiore, ho il sospetto che qualcuno stia manomettendo la macchina usata nei vostri duelli. Per il momento diciamo pure che voi non ne sapete niente. Vi chiedo soltanto di rimandare qualsiasi incontro fino a quando non saremo venuti a capo di questa faccenda. Le duellomacchine non devono diventare strumento di assassinio politico.
Il sorriso di Odal svanì. — Spiacente, professore, ma non posso accontentarvi. In quanto a manomettere gli apparecchi vi posso assicurare che né io, né alcun cittadino dei Mondi Kerak, ci siamo mai permessi di toccarli senza la debita autorizzazione.
— Forse non afferrate bene la situazione — insisté Leoh. — La settimana scorsa abbiamo controllato minuziosamente la duellomacchina qui in Acquatainia, e abbiamo capito che le sue prestazioni possono essere molto influenzate dalla personalità e dall’atteggiamento dei contendenti. Voi avete duellato parecchie volte, e l’esperienza acquisita vi dà un deciso vantaggio sui vostri avversari. Per di più siete anche militare di carriera. Nonostante tutto sono convinto che nessuno possa uccidere un uomo nella duellomacchina… in circostanze normali. L’abbiamo dimostrato con i nostri esperimenti. Se l’apparecchio non viene manomesso, non può causare un danno fisico reale. Però voi avete già ucciso un uomo e ne avete rovinato un altro. Dove finirà questa storia?
Odal rimase impassibile, ma un lampo si accese nel suo sguardo. Quando parlò la sua voce era pacata ma tagliente come una lama d’acciaio affilata. — Non mi si può rimproverare il fatto di avere più esperienza di altri — replicò. — E io non ho assolutamente manomesso la macchina.
La porta della stanza si aprì e comparve un tipo piccolo e tarchiato, con la testa tonda come una palla da biliardo. Indossava un abito da passeggio scuro per cui fu impossibile, ai due visitatori, indovinare che mansioni espletasse all’ambasciata.
— I signori desiderano qualcosa? — domandò l’individuo.
— No, grazie — disse Leoh.
— Del vino Kerak, forse?
— Be’…
— No, grazie. Credo che sia meglio di no, signore — disse con fermezza Hector. — Grazie lo stesso.
L’uomo si strinse nelle spalle e sedette accanto alla porta. Odal si girò verso Leoh. — Signore, ho anch’io i miei impegni — disse. — Massan e io ci batteremo domani. Impossibile rimandare.
— Benissimo — replicò il professore gentilmente. — Mi permetterete, almeno, di mettere un apparecchio speciale nella vostra cabina, per controllare l’incontro? Faremo lo stesso con Massan. Lo so che in genere i duelli sono strettamente privati e che voi avreste tutto il diritto di rifiutare la mia richiesta, però moralmente…
Sulla faccia di Odal tornò il sorriso. — Volete controllare i miei pensieri, registrarli e vedere come mi comporto durante l’incontro? Interessante.
L’uomo alla porta si alzò e disse: — Se i signori non desiderano nulla…
Odal si girò verso di lui. — Grazie, non ci occorre niente — dichiarò.
Gli sguardi dei due uomini si incrociarono per un istante: il tipo dalla testa pelata fece un cenno impercettibile ed uscì.
Il maggiore rivolse nuovamente l’attenzione a Leoh. — Spiacente, ma non posso accettare un controllo del genere.
— Ma…
— Mi spiace di dover rifiutare. Ma, come avete osservato voi stesso, non c’è alcuna legge che possa obbligarmi ad acconsentire alla vostra proposta. Devo rifiutare. Spero che capirete.
Leoh si alzò lentamente dal divano. — No, non capisco. Ve ne state lì seduto a discutere di leggi mentre tutti e due sappiamo benissimo che avete deciso di assassinare Massan domani. — Con voce piena d’ira trattenuta, il professore continuò: — Avete trasformato la mia invenzione in un’arma mortale, ma avete anche trasformato me in un nemico! Scoprirò quello che avete fatto e non avrò pace fino a quando voi e quelli della vostra razza non sarete finiti nell’unico posto che fa per voi: sul pianeta dei pazzi.
Hector andò alla porta e l’aprì. Poi lui e il professore uscirono, lasciando Odal solo nella stanza. Dopo pochi minuti tornò l’uomo vestito di scuro.
— Ho appena parlato col Duce, alla tridimensionale, e ho ottenuto il permesso di alterare leggermente i nostri piani.
— Alterare, signor Kor?
— Nel prossimo duello, non quello di domani, vi batterete contro il professor Leoh — disse Kor. — È il primo che deve morire.
La nebbia turbinava profonda e impenetrabile intorno a Fernd Massan, che scrutava inutilmente attraverso la visiera del casco.
Non avrei mai creduto che un’allucinazione potesse sembrare tanto reale, pensò alzando lentamente un braccio e sistemando con cura sulla fronte il rivelatore a raggi infrarossi.
Dopo la sfida di Odal il mondo vero gli era sembrato del tutto inconsistente. Per una settimana aveva compiuto le solite azioni, ma si era sempre sentito come in disparte, come una mente che guarda il proprio corpo da una certa distanza. Gli amici e i collaboratori, che la notte prima del duello si erano radunati in un silenzioso e funereo gruppo, gli erano sembrati fuori della realtà.
Ora, invece, in quel sogno artificiale si sentiva vivo e vibrante. Ogni situazione era solida, stimolante. Sentiva il sangue pulsargli nelle vene. In un luogo imprecisato, tra la nebbia, c’era Odal nascosto. E il pensiero di doversi scontrare con l’assassino lo riempiva di uno strano piacere.
Massan serviva da molti anni il suo governo sui pianeti ad alta gravità, ricchi ma inospitali, dell’Ammasso d’Acquatainia. E si era scelto proprio quell’ambiente: una gravità schiacciante, con pressioni mortali. Un’atmosfera composta di ammoniaca e di idrogeno legata da radicali liberi di zolfo e da altre sostanze chimiche mortali. Un terreno solido, fatto di ghiaccio, che si erodeva e si sbriciolava rapidamente. Venti furiosi e impetuosissimi, capaci di sollevare una montagna di ghiaccio e di lanciarla lontano, attraverso il pianeta. Oscurità, insidia, morte.
Massan era incapsulato in un apparecchio protettivo monoposto: per metà tuta corazzata, per metà veicolo. Un sistema interno, a sospensione liquida, rendeva sopportabile la gravità quattro volte superiore a quella normale; tuttavia la protezione era ingombrante e permetteva di muoversi soltanto lentamente, anche con l’aiuto di servomotori.
L’arma che Massan aveva scelto era di una semplicità incredibile: una capsula di ossigeno da tenersi in mano. Ma in un’atmosfera composta di idrogeno e ammoniaca l’ossigeno poteva esplodere da un momento all’altro.
I duellanti portavano molte di queste bombe assicurate agli scafandri. La difficoltà stava nel gettarle alla distanza giusta. Non era facile riuscirci senza avere anni di esperienza.
I due contendenti si trovavano sopra un iceberg dalla sommità frastagliata, che veniva trascinato vorticosamente dalle correnti infide di un oceano di metano e ammoniaca. La montagna di ghiaccio si stava sgretolando rapidamente, e la sua completa distruzione avrebbe segnato la fine del duello.
Massan avanzava sul terreno accidentato, mentre le pinze e i rulli della tuta-veicolo si adattavano automaticamente alle asperità, e concentrava tutta l’attenzione sul rivelatore a raggi infrarossi che stava sospeso davanti alla sua visiera.
Un blocco di ghiaccio, grosso come una testa d’uomo, attraversò l’atmosfera fuligginosa: scendendo con la ripida inclinazione caratteristica sui pianeti ad alta gravità urtò contro la sua spalla. Il colpo fece perdere l’equilibrio a Massan prima che i servomotori si riadattassero e lui ritrasse il braccio dentro la manica dello scafandro per tastare la saldatura interna. Era ammaccata, ma non incrinata. Una perdita sarebbe stata tragica, fatale.
Poi, all’improvviso, ricordò: Posso venire ucciso solo direttamente dal mio antagonista! È una delle regole del gioco.
Tastò di nuovo, attentamente, la saldatura della spalla per assicurarsi che non perdesse. La duellomacchina e le sue norme sembravano tanto remote e insostanziali, in quell’inferno gelato e urlante.
Cominciò a ispezionare attentamente l’iceberg, deciso a trovare Odal e a ucciderlo prima che la loro isola galleggiante si disintegrasse. Esplorò ogni sporgenza, ogni crepaccio, ogni pendio, percorrendo la montagna di ghiaccio da un’estremità all’altra.
Ma il tempo passava, in fretta. Anche con l’aiuto dei servomotori e delle unità di propulsione, muoversi sul ghiaccio contro il vento ruggente era un’impresa faticosa. Tuttavia Massan continuò ad avanzare, lottando contro la paura sempre crescente che lo assaliva nel constatare che Odal era del tutto introvabile.
Poi il rivelatore captò un impercettibile tremito d’ombra. Qualcosa, o qualcuno, si era nascosto fulmineo dietro una sporgenza del ghiaccio, sull’orlo estremo dell’iceberg.
Massan avanzò cautamente lungo la base del pendio. Strappò una delle bombe a ossigeno dalla cintola e la strinse nella mano destra. Proseguendo sempre lungo la base si fermò, eretto, sulla striscia sottile di ghiaccio che correva tra la parete e il mare ribollente. Non vide nessuno.
Forzò al massimo la portata del rivelatore e puntò i dispositivi di esplorazione verso la sommità del blocco ghiacciato.
Eccolo! La figura scura di un uomo si delineò sullo schermo del detector. Contemporaneamente udì un boato sordo e subito dopo rombi e schianti che si facevano sempre più forti e minacciosi. Massan guardò in su e vide una piccola valanga di ghiaccio rotolare verso di lui. Quel demonio aveva fatto esplodere una bomba sulla sommità dell’iceberg!
Massan cercò di ritirarsi ma era troppo tardi. La prima scheggia gelata rimbalzò sul casco senza fargli male, però le altre gli fecero perdere l’equilibrio e i servomotori non ebbero il tempo di farglielo ritrovare. Barcollò ciecamente per alcuni istanti, mentre una quantità di ghiaccio sempre maggiore gli franava addosso. Infine precipitò nel mare ribollente.
Rilassati ordinò a se stesso. Non perdere la testa. Lo scafandro e i servomotori ti terranno a galla. Non puoi crepare per un incidente! Dev’essere Odal in persona a darti il colpo di grazia!
Sul retro dello scafandro c’erano i razzi d’emergenza. Un tocco a un pulsante sulla cintura li avrebbe azionati e, se riusciva ad orientarsi, i razzi lo avrebbero rilanciato sull’iceberg. Si torse leggermente e, col rivelatore a raggi infrarossi, cercò di valutare la distanza che lo separava dalla montagna di ghiaccio. Era difficile perché lo scafandro sobbalzava moltissimo nelle correnti vorticose.
Decise infine di accendere i razzi: avrebbe regolato i comandi per la distanza e l’orientamento quando fosse stato sospeso in aria.
Ma non riuscì a muovere la mano.
Tentò ancora. Tutto il braccio destro era come bloccato, non poteva spostarlo di un millimetro. E non riuscì a muovere neppure il sinistro. Qualcosa o qualcuno gli immobilizzava le braccia. Non riusciva neppure a sfilarle dalle maniche.
Si dibatté, cercando di liberarsi dalla stretta. Niente da fare.
Poi lo schermo del rivelatore fu sollevato lentamente dalla finestra del casco. Qualcosa vibrò sull’elmetto. Qualcuno stava staccando i tubi dell’ossigeno.
Urlò e cercò di liberarsi. Inutile. Sibilando i tubi si staccarono. Massan sentì il sangue pulsare nelle vene e si divincolò disperatamente.
Adesso veniva spinto verso il fondo. Urlò ancora e cercò di liberare il corpo dalla stretta, ma le acque spumeggianti sommersero la visiera del casco. Ormai era sott’acqua e qualcuno lo teneva fermo. E ora, ora stavano staccando la visiera.
No! Non fatelo! Il mare di ammoniaca e metano irruppe attraverso l’apertura.
È soltanto un sogno! gridò Massan a se stesso. Soltanto un sogno! Un sogno! Un…
Il professor Leoh fissava, senza vederla, la tavola da pranzo. Hector l’aveva convinto a recarsi al ristorante, e poi era andato al telefono per chiedere ai meditec le ultime notizie sulla faccenda di Massan che poche ore prima era stato estratto dalla duellomacchina privo di vita.
Leoh sedeva con le mani abbandonate in grembo, la mente perduta dietro pensieri che correvano in direzioni diverse. Odal aveva espresso il suo rincrescimento con notevole faccia tosta, poi era tornato all’ambasciata di Kerak sotto una buona scorta di guardie in borghese. Il governo dell’Ammasso di Acquatainia stava letteralmente andando in frantumi, e nessuno voleva assumersi la responsabilità del comando per non esporsi ai pericoli che avrebbe comportato quell’incarico. Un’ora dopo il duello le truppe di Kanus erano sbarcate su tutti i maggiori pianeti di Szarno: l’annessione era ormai compiuta.
E che cosa ho fatto, dopo il mio arrivo qui? si chiedeva Leoh. Niente. Assolutamente niente. Me ne sono stato lì seduto come un vecchio professore sonnolento, gingillandomi accademicamente con la macchina mentre uomini più giovani e più vigorosi l’hanno usata per raggiungere i loro scopi.
L’avevano usata. Un frammento d’idea faceva capolino dietro quella parola. Era qualcosa di nebuloso, a cui ci si doveva accostare con cautela per non farlo svanire. Usata… Usata… Leoh giocherellò con quella parola per alcuni minuti, poi rinunciò, con un sospiro di rassegnazione. Dio mio, sono troppo stanco anche solo per pensare!
Concentrò l’attenzione su quello che lo circondava, sulla sala da pranzo affollata. Era davvero un bel posto, arredato con oggetti di cristallo e legno autentici e tende di stoffa. Niente di sintetico. E c’era l’odore di cibi deliziosi, il mormorio soffocato della conversazione discreta. Camerieri, cuochi e inservienti erano uomini in carne e ossa, non i soliti robot che si trovavano ormai in quasi tutti i ristoranti. Improvvisamente Leoh si sentì commosso dalla premura con cui Hector aveva cercato di distrarlo e… dallo stipendio che veniva corrisposto ai sottotenenti della Guardia Spaziale!
In quell’istante vide il giovane che ritornava verso il tavolo. Ma prima di approdare alla sicurezza relativa ella sua sedia, Hector urtò due camerieri e inciampò in una poltroncina.
— Che cosa hanno detto? — domandò il professore.
— Non sono riusciti a rianimarlo — rispose l’ufficiale con voce sorda. — Emorragia cerebrale, secondo i meditec. Dovuta a shock.
— Shock?
— Così hanno detto. Qualcosa deve aver sopraffatto il suo sistema nervoso.
— Non ci capisco più niente — disse Leoh scuotendo la testa. — Tanto vale che creda alle loro parole. Non sono vicino a una risposta più di quando arrivai cui. Forse avrei dovuto ritirarmi alcuni anni fa, prima di inventare la duellomacchina.
— No!
— Sì, invece. Questo è il primo vero problema intellettuale contro cui mi sono trovato a lottare in tutti questi anni. Trafficare con le macchine non è difficile: si sa dove si vuole arrivare, e basta obbligarle a funzionare correttamente. Ma questo… Credo di essere troppo vecchio per occuparmi di un rebus come questo.
Hector si grattò il naso, sopra pensiero, poi rispose: — Se non siete in grado di risolvere il problema, signore, avremo certamente una guerra. Questione di mesi, di settimane, forse. Kanus non si accontenterà di essersi beccato il gruppo di Szarno. Vorrà prendersi anche l’Ammasso d’Acquatainia… e dovrà lottare per conquistarlo.
— Entrerà in gioco la Guardia Spaziale, allora.
L’altro si protese sulla sedia, nello sforzo di chiarire il proprio punto di vista. — Ma ci vorrà del tempo per mobilitare la Guardia Spaziale. Kanus può muoversi molto più rapidamente di noi. Certo, potremmo gettare nella mischia un gruppo d’assalto. Ma l’esercito di Kerak se lo inghiottirebbe in un battibaleno. Io non sono un uomo politico, ma so che accadrà così. Be’, Kerak si beccherà l’Ammasso d’Acquatainia e distruggerà il gruppo d’assalto della Guardia Spaziale, poi scoppierà la guerra tra la Federazione e Kerak. E sarà una guerra grossa, perché Kanus potrà attingere alle risorse di Acquatainia.
Leoh aprì la bocca per rispondere, poi si fermò, gli occhi fissi all’entrata della sala da pranzo. All’improvviso il chiacchierio sommesso dei commensali si era gelato e i camerieri erano rimasti immobili tra i tavoli. Nessuno mangiava, beveva, conversava più.
Hector si girò e vide Odal sulla porta del locale, nella sua uniforme azzurra.
A poco a poco ciascuno tornò a occuparsi dei fatti propri, evitando di guardare il maggiore kerakiano che, un sorrisetto sulle labbra, si dirigeva al tavolo di Hector e Leoh.
I due si alzarono e gli rivolsero un saluto convenzionale. Poi Odal sedette accanto a loro, senza essere stato invitato.
— Che cosa volete? — domandò il professore, brusco.
Prima che l’altro potesse rispondere, il cameriere incaricato del loro tavolo si avvicinò, voltandosi in modo da girare le spalle al maggiore, e disse con voce ferma: — Il pranzo è pronto, signori. Devo servirlo ora?
— Sì — rispose Hector prima che Leoh potesse aprir bocca. — Il maggiore se ne va subito.
Odal sorrise di nuovo. Il cameriere si inchinò e partì.
— Ho ripensato alla nostra conversazione della scorsa notte — disse Odal al professore.
— Sì?
— Mi avete accusato di essermi battuto in modo sleale.
Leoh inarcò le sopracciglia. — Veramente ho detto che qualcuno si comportava slealmente…
— Un’accusa è un’accusa.
Leoh non rispose.
— Ritirate quello che avete detto o mi accusate ancora di assassinio premeditato? Sono disposto ad accettare le vostre scuse e a permettervi di lasciare Acquatainia indisturbato.
Hector si schiarì la gola rumorosamente. — Questo non è il posto adatto per le discussioni — disse. — E poi… ecco il nostro pranzo che arriva.
Ignorando Hector, Odal tenne fissi i gelidi occhi azzurri su Leoh. — Mi avete sentito, professore? Volete partire? Oppure…
Hector sferrò un gran pugno sul tavolo e balzò su dalla sedia, proprio mentre il cameriere arrivava con un vassoio carico di antipasti e minestra. Si udì un gran fracasso: una zuppiera, due insalatiere, diversi bicchieri, panini, formaggi assortiti e altre ghiottonerie si riversarono sopra Odal.
Il maggiore balzò in piedi, imprecando con violenza nella sua lingua. E tutto il ristorante scoppiò in una fragorosa risata.
Allora, tornando a esprimersi in un terrestre stentato, Odal urlò: — Stupido idiota maldestro! Testa di rapa di un bastardo, faccia da paesano…
Impassibile, Hector fece schizzar via una fogliolina d’insalata dalla manica della sua tunica, mentre Odal schiattava di rabbia.
— Maldestro può anche darsi — disse il sottotenente, ridendo. — In quanto allo stupido e al resto non sono d’accordo. Mi avete insultato gravemente.
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo di Odal. — Capisco. Non stavo parlando con voi. Chiedo scusa. — E si voltò di nuovo verso Leoh, che pure si era alzato in piedi.
— Eh no, non basta! — disse Hector. — Non… uhm… non mi piace il tono in cui mi avete chiesto scusa. Voglio dire…
Leoh alzò una mano, quasi per raccomandare al giovane di dominarsi.
— Vi ho chiesto scusa — disse Odal, rosso di rabbia. — Mi sembra più che sufficiente.
Hector fece un passo verso di lui. — Potrei rivolgervi una fila di insolenze — chiarì — oppure insultare il vostro Duce o qualcosa del genere… ma questo mi sembra più immediato. — Afferrò la caraffa dell’acqua che stava sul tavolo e la rovesciò sulla testa del maggiore.
I clienti raccolti nella sala scoppiarono in un’omerica risata. Odal impallidì. — Avete deciso di crepare — disse tra i denti, asciugandosi gli occhi gocciolanti. — Ci batteremo prima che la settimana sia terminata. E non avrete salvato nessuno. — Poi si voltò e uscì senza aggiungere altro.
Tutti si alzarono in piedi, applaudendo. Hector scosse la testa e rise.
— Ma vi rendete conto di quello che avete fatto? — disse Leoh, allibito.
— Stava per sfidare voi…
— Mi sfiderà lo stesso, dopo che voi sarete morto.
— Può darsi — rispose l’ufficiale, stringendosi nelle spalle. — Probabilmente avete ragione. Ma, se non altro, avremo guadagnato un altro po’ di tempo.
— Quattro giorni. — Il professore scosse la testa. — Mancano quattro giorni alla fine della settimana. E va bene, venite. Abbiamo molto da fare.
Hector lasciò il ristorante ridendo di cuore. Poi cominciò a fischiettare.
— Si può sapere perché siete così allegro? — brontolò Leoh.
— È per voi, signore. Quando siamo entrati qui, voi eravate quasi sconfitto. Ora avete ricominciato a lottare.
Il professore lo fissò. — A modo vostro, ragazzo mio, valete davvero qualcosa… mi sembra — dichiarò tra i denti.
Alla chiamata radio del portiere, il loro veicolo uscì dalla rimessa dov’era stato parcheggiato e salì la rampa che portava all’ingresso del ristorante. Pochi minuti dopo Hector e Leoh sfrecciavano attraverso la città, mentre le ombre della notte si addensavano.
— Un uomo solo — mormorò il vecchio, con aria pensosa — è sopravvissuto a un duello con Odal.
— Dulaq — disse Hector. — Ma è esattamente come se fosse morto, dato che non può fornire alcuna informazione.
— È sempre nelle stesse condizioni?
Hector annuì lentamente. — I meditec — disse — pensano che con l’aiuto dei farmaci, le cure, eccetera… tra qualche mese potrebbero forse rimetterlo in sesto.
— Troppo tardi. Abbiamo solo quattro giorni.
Leoh rimase in silenzio alcuni minuti, poi disse: — Chi è il parente più prossimo di Dulaq? Ha moglie?
— Uhm, credo che sua moglie sia morta. Ha una figlia, però. Molto carina. Mi sono scontrato con lei all’ospedale un paio di volte.
Leoh sorrise nel buio. L’espressione del giovanotto mi sono scontrato con lei probabilmente andava presa in senso del tutto letterale.
— Ci sarebbe un modo per sapere da Dulaq che cosa accadde durante il duello — disse il professore. — Ma è assai pericoloso. Forse fatale.
L’altro non rispose.
— Andiamo, ragazzo mio — incalzò Leoh. — Cerchiamo la figlia e parliamogliene.
— Stasera?
— Adesso.
È davvero una ragazza carina, pensò Leoh mentre spiegava a Geri Dulaq quello che aveva intenzione di fare. La sua interlocutrice sedeva tranquilla e composta nell’ampio soggiorno della casa dei Dulaq. Il lampadario scintillante gettava riflessi di fuoco sui suoi capelli castani. La ragazza era seduta rigidamente per la tensione e teneva le mani intrecciate con forza in grembo. La faccia, che normalmente doveva avere un’espressione gioiosa, adesso era grave e seria.
— Ecco tutto — concluse Leoh. — Sono convinto che sia possibile usare la stessa duellomacchina per esaminare i pensieri di vostro padre e scoprire che cosa è avvenuto durante il duello col maggiore Odal. L’esperimento potrebbe forse contribuire a far uscire Dulaq dal coma.
— Ma potrebbe anche procurargli uno shock mortale, vero? — disse lei, piano.
Il vecchio annuì, in silenzio.
— Allora, professore, sono spiacente di dover rifiutare — dichiarò la ragazza, senza esitazioni.
— Comprendo i vostri sentimenti — rispose Leoh — ma spero vi rendiate conto che, se non riusciamo a fermare Odal immediatamente, potremmo trovarci davanti a una guerra, e milioni di uomini morirebbero.
— Lo so — annuì Geri. — Ma qui è in gioco la vita di mio padre. Kanus farà la guerra comunque, indipendentemente da quello che deciderò io.
— Può darsi — ammise Leoh — può darsi.
Hector e il professor Leoh tornarono ai loro alloggi, nel padiglione che ospitava la duellomacchina, ma non dormirono bene quella notte.
Il mattino seguente, dopo una prima colazione poco allegra, si ritrovarono nella camera dalle pareti candide, davanti alla mole intricata e impersonale della macchina.
— Vi andrebbe di esercitarvi un po’? — domandò il professore.
Hector scosse la testa, tetro. — Più tardi, forse — rispose. Nell’ufficio di Leoh squillò il telefono. Tutt’e due si precipitarono a rispondere e sullo schermo apparve la faccia di Geri Dulaq.
— Ho appena ricevuto la notizia — disse senza fiato. — Ieri sera non sapevo che il sottotenente Hector aveva sfidato Odal a duello.
— L’ha sfidato per impedire che assassinasse me — rispose Leoh.
— Oh! — esclamò la ragazza, profondamente colpita. — Siete un uomo coraggioso, Hector.
Il sottotenente assunse una dozzina di espressioni diverse, ma non disse una parola.
— Non vorreste, per caso, riprendere in considerazione le vostre decisioni? — domandò il professore a Geri Dulaq. — Forse la vita di Hector dipende da questo.
Lei chiuse un attimo gli occhi, poi disse: — Non posso. Prima di tutto, sono responsabile della vita di mio padre. Mi spiace. — La sua voce lasciava trapelare un profondo tormento.
Leoh e la ragazza si scambiarono ancora qualche frase banale, mentre Hector se ne stava sempre muto come un pesce. Poi la conversazione finì.
Leoh passò il pollice sul ricevitore dell’apparecchio telefonico, dopo si rivolse al compagno. — Ragazzo mio, credo che fareste bene a correre all’ospedale per controllare le condizioni di Dulaq.
— Ma perché?
— Non discutete, figliolo. Potrebbe essere d’importanza vitale. Dategli un’occhiata. Di persona. Niente telefonate.
Hector lasciò l’ufficio e Leoh sedette alla sua scrivania, in attesa. Non c’era altro da fare. Dopo un po’ si alzò e uscì. Passò davanti a una decina di edifici del campus universitario e raggiunse lo steccato decorativo che segnava il termine del gruppo principale di padiglioni. Poi, ignorando gli studenti che passeggiavano lì intorno, percorse tutto il campus, cercano di calmare l’agitazione che lo rodeva.
Mentre si avvicinava di nuovo al padiglione della duellomacchina vide Hector venirgli incontro con aria distratta e, una volta tanto, senza fischiettare. Leoh tagliò attraverso i prati per raggiungerlo più in fretta.
— Be’?
L’altro scosse la testa, come per snebbiarla.
— Come sapevate che lei era all’ospedale?
— La saggezza dell’età. Che cosa è successo?
— Mi ha baciato. Proprio qui, al centro della…
— Risparmiatemi l’ubicazione, grazie — tagliò corto il professore. — Che cosa ha detto?
— Mi sono scontrato con lei nel corridoio. Abbiamo… ehm… cominciato a parlare. Sembrava molto preoccupata per me. Era sconvolta. Un tipo emotivo. Sapete? Dovevo avere l’aria abbattuta. Insomma, non sono poi tanto coraggioso! Ho fifa, e probabilmente si vedeva.
— Avete risvegliato il suo istinto materno.
— Non credo che si tratti… ehm… proprio di quello. Be’, ha detto che se io ero disposto a rischiare la mia vita per salvare la vostra, lei non poteva più pensare solo a suo padre. Ha detto che, in fondo, lo faceva per egoismo, perché lui è l’unico suo parente. Non credo che ne fosse proprio convinta, comunque l’ha etto.
Ormai erano arrivati ai loro alloggi. Leoh afferrò Hector per un braccio e gli evitò una collisione con la porta semiaperta. — Ha acconsentito a lasciarci introdurre Dulaq nella duellomacchina?
— Più o meno.
— Eh?
— I meditec non permettono assolutamente che venga trasportato, specialmente per riportarlo qui. E lei è d’accordo.
— E va bene — replicò Leoh. — Tanto meglio. Preferisco che quelli di Kerak non ci vedano introdurre Dulaq nella macchina. Troveremo un’altra soluzione.
Si misero immediatamente al lavoro. Leoh preferì non informare del suo piano l’équipe dei tecnici, così lui ed Hector dovettero lavorare tutta la notte e la maggior arte del mattino seguente. L’ufficiale non capiva quasi niente di quello che stavano facendo ma, sotto la guida del professore, riuscì a smontare parzialmente la rete centrale della macchina, a inserire alcuni dispositivi elettronici che Leoh aveva messo insieme con parti di ricambio trovate nel seminterrato dell’edificio e a ricostruire poi il tutto facendolo sembrare esattamente come prima.
Negli intervalli, quando non era costretto a sovrintendere ai lavori, Leoh aveva costruito una cuffia piuttosto voluminosa e un dispositivo di comando che poteva stare nel palmo di una mano. Quando finalmente il professore rivelò a Hector le sue intenzioni, il sole del tardo mattino entrava a fiotti attraverso le finestre.
— Si tratta di una semplice improvvisazione tecnologica — disse Leoh all’ufficiale. — Abbiamo inserito un ricetrasmettitore a bassa frequenza nella macchina e questa cuffia è un ricetrasmettitore portatile per Dulaq. Ora lui può starsene nel suo letto d’ospedale e, contemporaneamente, entrare nella duellomacchina.
Soltanto tre membri del personale ospedaliero, di piena fiducia, vennero informati del piano di Leoh. Non ne rimasero entusiasti.
— È uno spreco di tempo — disse lo psicotecnico capo, scuotendo vigorosamente la testa dalla folta criniera bianca. — Non potete aspettarvi che un paziente che non ha avuto alcuna reazione positiva all’effetto dei farmaci e alle cure reagisca alla vostra macchina!
Ma Leoh non si lasciò convincere, e Geri Dulaq insisté perché l’esperimento venisse effettuato. Finalmente i meditec acconsentirono.
A due giorni dal duello tra Hector e Odal, si cominciò a sondare la mente di Dulaq. Geri rimase al capezzale del padre, mentre i tre meditec sistemavano il voluminoso ricetrasmettitore sulla testa del paziente collegandolo anche agli elettrodi dell’attrezzatura ospedaliera per il controllo delle condizioni fisiche. Hector e Leoh erano, invece, presso la duellomacchina e si tenevano in comunicazione telefonica con l’ospedale.
Eseguito un ultimo controllo dei comandi e dei circuiti, il professore chiamò per l’ultima volta il gruppetto di persone che aspettavano ansiosamente nella camera di Dulaq. Quindi tornò presso la macchina, seguito da Hector. I loro passi risuonarono nel silenzio assoluto della sala.
— Io — disse lo scienziato al sottotenente avvicinandosi ad una delle cabine — stringerò in mano il comando di emergenza, in modo da poter interrompere il duello istantaneamente. Tuttavia, ricordate che dovete essere pronto ad agire con rapidità se qualcosa non andasse. Seguite attentamente le mie condizioni fisiche: vi ho già mostrato quali strumenti dovete controllare sul pannello di comando.
— Sì, signore.
— Va bene, allora. — Il professore annuì e inspirò profondamente.
Poi entrò nella cabina e sedette. Hector lo aiutò a sistemare i neurocontatti, poi lo lasciò solo. Leoh si appoggiò all’indietro e attese che si determinasse l’effetto semi ipnotico. Si sapeva che Dulaq aveva scelto l’ambiente della città e la bacchetta cilindrica per arma, ma, ad eccezione di questo, tutto era sigillato ermeticamente nella mente del poveretto, incapace di comunicare. Avrebbe potuto, la macchina, superare quella barriera?
Lentamente, la nebbia immaginaria eppure tanto reale avviluppò Leoh. Quando si diradò, il professore se ne stava fermo su un marciapiede pedonale sopraelevato, nel centro commerciale della città. Per un istante tutto fu immobile.
Ho stabilito il contatto?, pensò Leoh. Con quali occhi vedo? Con quelli di Dulaq o coi miei?
Poi intuì. E provò un senso di meraviglia attonita, quasi divertita, per la realtà dell’illusione. I pensieri di Dulaq!
Libera la tua mente, disse a se stesso. Guarda. Ascolta. Resta completamente passivo.
Divenne uno spettatore che vedeva e udiva il mondo attraverso gli occhi e le orecchie del primo ministro acquatainiano, e che partecipava al suo incubo. Provava confusione, frustrazione, apprensione e terrore sempre crescente scorgendo, di quando in quando, Odal comparire tra la folla… solo per trasformarsi subito in qualcun altro e fuggire.
La prima parte del duello terminò, e Leoh fu improvvisamente sconvolto da tutta una serie di pensieri e stati d’animo confusi. Poi, lentamente, i pensieri si fecero più chiari.
Vide una pianura immensa, completamente vuota. Non un albero, non un filo d’erba: soltanto una distesa rocciosa e nuda che si allargava in tutte le direzioni fino all’orizzonte, sotto un cielo giallo e tormentoso. Ai suoi piedi c’era l’arma scelta da Odal. Una clava primitiva.
Mentre raccoglieva la clava, condivise il senso di terrore che aveva afferrato Dulaq. Lontano, all’orizzonte, poteva vedere l’uomo alto e magro che gli veniva incontro stringendo un’arma uguale alla sua.
Leoh, suo malgrado, si sentiva eccitato. Aveva superato la barriera eretta nella mente di Dulaq! Questi stava rivivendo la parte di duello che aveva causato lo shock.
Avanzò con riluttanza incontro a Odal. Mentre si avvicinavano uno all’altro, la figura del suo avversario sembrò suddividersi e moltiplicarsi. Ora erano in due, tre, quattro, sei. Sei Odal, sei immagini di lui riflesse in uno specchio, tutte armate di clave massicce che avanzavano decise contro di lui! Sei assassini alti e biondi, con sei sorrisi gelidi sulle facce attente!
Inorridito, travolto dal panico, Leoh cominciò a fuggire cercando di sottrarsi ai sei avversari che lo inseguivano con le clave alzate, pronti a colpire.
Le loro gambe, giovani e agili, riducevano rapidamente la distanza. Una botta sulla schiena fece cadere Leoh. Poi uno degli assassini lo disarmò con un calcio.
Un attimo dopo i sei assassini gli furono tutti sopra e sei braccia robuste si abbassarono di scatto più e più volte, senza pietà. Dolore e sangue, un’agonia delirante punteggiata dai terribili tonfi sordi delle clave che colpivano la carne e le ossa fragili, ancora, ancora, all’infinito.
Tutto scomparve.
Leoh aprì gli occhi e vide Hector chino sopra di lui.
— State bene, signore?
— Credo… credo di sì.
— L’apparecchio ha raggiunto l’indice di pericolo tutt’ad un tratto. Voi stavate… be’, stavate urlando.
— Lo credo bene — disse Leoh.
Tornò nel suo ufficio, appoggiandosi al braccio di Hector. — È stata una bella esperienza — mormorò, stendendosi sul divano.
— Che cosa è successo? Che cosa ha fatto Odal? Che cosa ha causato quello shock a Dulaq? Come…
Il vecchio lo zittì con un cenno della mano. — Una domanda alla volta, per favore.
Si abbandonò di nuovo sul divano e raccontò dettagliatamente i particolari del duello.
— Sei Odal! — mormorò Hector, appoggiandosi allo stipite della porta. — Sei contro uno!
— Proprio così. E si può capire facilmente come un tipo che si aspetti un duello formale, corretto, possa essere completamente demolito dalla perfidia di un simile assalto. E la macchina amplifica ogni impulso, ogni sensazione. — Leoh rabbrividì.
— Ma come ha fatto? — domandò il sottotenente.
— È quello che mi sono domandato anch’io. Abbiamo controllato più volte la duellomacchina. Non c’è assolutamente modo di farci entrare sei sicari, a meno che Odal…
— A meno che?
Il vecchio esitò. Infine rispose. — A meno che Odal sia un telepate.
— Telepate? Ma…
— Lo so che sembra inverosimile, ma esistono casi di telepatia ben documentati.
— Certo, ne abbiamo sentito parlare tutti — disse Hector, rabbuiandosi. — Telepati naturali. Ma sono così imprevedibili; voglio dire, come può…
Leoh si piegò in avanti e appoggiò il mento sulle mani intrecciate. — Le specie terrestri non hanno mai sviluppato poteri telepatici né qualsiasi altro talento extrasensoriale, tranne in casi eccezionali. Non ne hanno mai avuto bisogno, grazie al sistema di comunicazione tridimensionale e alle navi spaziali. Ma forse gli abitanti di Kerak sono diversi.
— Sono esseri umani come noi — rispose il sottotenente. — E poi, se avessero, ehm, poteri telepatici… be’, non credete che se ne servirebbero abitualmente?
— Naturale! — esclamò Leoh. — Odal sfoggia la sua abilità soltanto nella duellomacchina!
Hector sbatté le palpebre.
— Supponiamo che Odal sia un telepate naturale — spiegò il professore — come decine di terrestri hanno dimostrato di essere. Possiede un talento capriccioso, difficile da controllare. Una capacità, insomma, che in realtà non serve a molto. Poi entra nella duellomacchina e questa amplifica i suoi pensieri. E anche i suoi talenti. Capite? Fuori della macchina, non è niente più di un normale indovino ambulante. Ma la duellomacchina dà ai suoi talenti naturali l’ampiezza e la riproducibilità che non avrebbero mai potuto raggiungere da sé.
— Capisco.
— Così non dovrebbe essergli stato troppo difficile fare in modo che cinque compagni dell’ambasciata di Kerak presenziassero, per così dire, al duello. Può darsi che anche loro fossero telepati naturali, ma non è indispensabile.
— E quelli mettono semplicemente in comune cinque altre menti con la sua? Cinque uomini che compaiono all’improvviso nel duello? Una bella porcheria! — Hector si lasciò cadere sulla sedia dietro la scrivania. — E ora che cosa facciamo?
— Ora? — Leoh ammiccò. Be’, supponiamo che, prima di tutto, si vada all’ospedale a dare un’occhiata a Dulaq.
— Ah, sì, mi ero completamente dimenticato di lei. Anzi, di lui voglio dire!
Il professore formò il numero telefonico e la faccia di Geri apparve, impassibile, sul picco schermo.
— Come sta? — sbottò Hector.
— È stato troppo per lui — disse la ragazza con voce atona. — È morto. I medici hanno cercato di rianimarlo, ma…
— No! — gemette Leoh.
— Mi… mi spiace davvero — mormorò Hector. — Vengo subito. Aspettatemi.
E mentre Geri interrompeva la comunicazione il sottotenente schizzò fuori dell’ufficio. Il vecchio fissò lo schermo buio per alcuni minuti, poi si stese sul divano e chiuse gli occhi. Si sentiva improvvisamente esausto, fisicamente e spiritualmente. Si addormentò e sognò uomini morti e morenti. Talvolta era Odal ad ucciderli, tal’altra era Leoh stesso.
Lo risvegliò il fischiettare esasperante di Hector. Era notte alta.
— Perché siete così allegro? — lo investì, mentre il giovane piombava nello studio.
— Allegro? Io?
— Stavate fischiettando allegramente.
Hector strinse le spalle. — Io fischietto sempre, signore. Questo non vuol dire che sia allegro.
— Va bene. — Leoh si stropicciò gli occhi e soggiunse: — Come ha preso la morte di suo padre, la ragazza?
— Male. Ha pianto molto. Siamo… insomma, siamo tutt’e due molto scossi.
Il professore lo guardò. — Mi detesta?
— Detestarvi? Ma no, signore. E perché? Detesta Odal, Kanus, i Mondi Kerak, ma non voi.
L’altro sospirò, sollevato. — Bene. Allora, noi abbiamo ancora molto lavoro da sbrigare e pochissimo tempo.
— Che cosa devo fare io?
— Telefonate al Comandante della Guardia Spaziale.
— Al mio ufficiale, su Alfa VI Perseo? Sono cento anni-luce di distanza.
— No, no, no! — Leoh scosse la testa. — Al Comandante in capo, Sir Harold Spencer: Al quartier generale della Guardia Spaziale, o dove altro diavolo si trovi. Non importa la distanza! Mettetevi in comunicazione con lui il più presto possibile.
Trattenendo un fischio di meraviglia, l’ufficiale cominciò a premere pulsanti sull’apparecchio telefonico.
Il mattino del duello arrivò. All’ora precisa, Odal, col piccolo seguito di secondi kerakiani, attraversò la porta della sala in cui si trovava la macchina.
Hector e Leoh erano già in attesa.
Con loro c’era un altro tipo che indossava l’uniforme nero e argento della Guardia Spaziale. Era un veterano robusto, dalla faccia larga, i capelli grigi e lo sguardo corrucciato.
I due gruppetti si radunarono al centro della sala, davanti al quadro di comando principale ella macchina. I meditec in tuta bianca entrarono da un’altra porta e rimasero in attesa, di lato.
Odal strinse la mano a Hector, com’era di prammatica. Il maggiore kerakiano fece un cenno all’altro ufficiale della Guardia Spaziale. — È quello che dovrà sostituirvi? — domandò con ironia.
Il meditec capo si intromise. — Dato che voi siete lo sfidato, maggiore Odal, avete la prima scelta delle armi e dell’ambiente. Sono necessarie spiegazioni prima che inizi il duello?
— Credo di no — disse Odal. — Sarà tutto chiarissimo. Ritengo che gli uomini della Guardia Spaziale siano allenati anche alla lotta, non soltanto a risolvere problemi tecnici. Ho scelto una situazione in cui molti guerrieri si sono fatti onore.
Hector non rispose.
— Io — disse Leoh con fermezza — collaborerò con l’équipe al controllo del duello. Naturalmente i vostri assistenti potranno sedere al quadro di comando accanto a me.
Odal annuì.
— Se siete pronti, signori… — disse il meditec capo.
Hector e Odal si avviarono alle rispettive cabine. Leoh sedette davanti al dispositivo di controllo e uno degli uomini di Kerak gli si mise accanto. Gli altri si accomodarono sulla lunga panca curva, di fronte alla macchina.
Seduto nella sua cabina, Hector sentì ogni nervo e ogni muscolo tendersi, malgrado i suoi sforzi per rilassarsi. Piano piano la tensione si allentò, e lui cominciò a provare una certa sonnolenza. La cabina sembrò sciogliersi, sparire.
Sentì uno scalpiccio alle spalle e si voltò di scatto. Sbatté gli occhi, poi guardò fissamente.
L’animale aveva quattro zampe e portava una sella sul dorso. E, sopra la sella, c’era un mucchio di cose che, a prima vista, sembrarono oggetti di scarto. Hector si avvicinò e guardò attentamente. Allora gli oggetti di scarto si rivelarono per quello che erano: una lunga lancia, varie parti di una corazza, un elmo, una spada, uno scudo, un’ascia da combattimento e una daga.
Ho scelto una situazione in cui molti guerrieri si sono fatti onore, aveva detto Odal.
Hector rimase perplesso davanti a quell’assortimento di armi. Uscivano direttamente dall’Alto Medioevo di Kerak. Probabilmente il maggiore si era esercitato con esse per mesi, forse per anni. Può darsi che non abbia neanche bisogno dei cinque aiutanti pensò il sottotenente.
Stancamente, si infilò l’armatura tropo larga e tentò inutilmente i stringere le gambiere nel modo voluto. L’elmo gli stava in testa come una vecchia latta d’olio, appiattendogli le orecchie e il naso, e obbligandolo a torcere gli occhi per sbirciare attraverso la stretta fessura. Finalmente riuscì ad appendere la spada e trovò gli attacchi per le altre armi. Lo scudo era troppo pesante, poteva appena alzarlo. Faticò ad issarsi in sella con tutto il peso che doveva portare.
Poi rimase lì, come seduto in trono, e cominciò a sentirsi un po’ ridicolo. E se piovesse? pensò. Ma, naturalmente, non poteva piovere.
Dopo un’attesa interminabile apparve Odal, sopra un’altra cavalcatura. La sua armatura era nera come lo spazio, e così pure l’animale che montava. Logico, pensò Hector.
Odal salutò gravemente con la lunga lancia, dall’altra estremità del campo. Hector ricambiò il saluto e ci mancò poco che la lancia gli cadesse di mano.
Poi Odal abbassò l’arma, puntandola, così almeno sembrò al sottotenente, diritta verso le sue costole. Poi diede un colpo di sprone all’animale. Hector lo imitò, e il suo cavallo ruppe in un galoppo disordinato. I due guerrieri si lanciarono uno contro l’altro dalle due estremità del campo. Hector faticava a tenersi in sella.
All’improvviso non una, ma sei figure nere si precipitarono urlando verso il sottotenente.
Lui sentì un crampo allo stomaco e cercò istintivamente di far deviare la sua cavalcatura. La bestia si rifiutò di cambiare direzione. I guerrieri kerakiani arrivavano al galoppo, le sei lance puntate minacciosamente su di Hector.
Ad un tratto Hector udì il rumore di altri zoccoli accanto a sé e, attraverso una fessura della visiera, scorse altri cinque guerrieri che caricavano insieme a lui contro il gruppo di Odal.
Il gioco di Leoh aveva funzionato. Il ricetrasmettitore che aveva permesso a Dulaq di mettersi in contatto con la duellomacchina dal suo letto d’ospedale, aveva dato modo a cinque ufficiali della Guardia Spaziale di raggiungere il loro collega, pur restando fisicamente seduti in una nave stellare che orbitava sopra il pianeta.
Ora le forze erano pari. I cinque ufficiali erano stati scelti tra i più rudi, duri e aggressivi specialisti nel combattimento corpo a corpo che la Guardia Spaziale fosse stata in grado di fornire con un solo giorno di preavviso.
Così, dodici possenti guerrieri si scontrarono con un fracasso assordante. Le lance spezzate mandavano schegge da tutte le parti. Uomini e cavalli piombavano al suolo.
Hector vacillò sulla sella ma riuscì a non cadere, anche se non riacquistò perfettamente l’equilibrio. Le armi balenavano nell’aria piena di polvere. Una spada passò fischiando accanto alla sua testa e rimbalzò sullo scudo.
Con uno sforzo supremo, il sottotenente sfoderò la spada e tirò un fendente al cavaliere più vicino. Solo allora scoprì che si trattava di un compagno d’arme: per fortuna la lama rimbalzò sull’elmo, senza danneggiare l’uomo.
C’era una confusione terribile. Gli animali giostravano nitrendo, tra nuvole di polvere. Gli uomini urlavano, infuriati. Un cavaliere dall’armatura nera caricò Hector roteando un’ascia da guerra. Colpì violentemente il suo scudo che si spezzò. Un altro colpo… Hector cercò di scartare e scivolò definitivamente di sella rotolando a terra, mentre l’ascia tagliava l’aria nel punto preciso in cui un attimo prima si trovava la sua testa.
L’elmo gli si era messo per traverso: ora bisognava decidere se brancolare attorno alla cieca, o posare la spada e rimetterlo a posto. Il problema fu risolto da un colpo sulla nuca che gli fece schizzar via l’elmo come un fuscello.
Hector si alzò a fatica: la testa gli girava vorticosamente. Gli ci vollero parecchi secondi prima di accorgersi che la battaglia era terminata.
Quando la polvere si fu dispersa vide che tutti i guerrieri kerakiani erano a terra, tranne uno. Il cavaliere dall’armatura nera si tolse l’elmo e lo gettò lontano. Era Odal. Oppure no? Sembravano tutti uguali. Che importa? si domandò Hector. La mente del maggiore è quella che domina.
Odal se ne stava in piedi, a gambe larghe, la spada in mano, fissando indeciso gli ufficiali della Guardia Spaziale. Tre di questi erano appiedati, gli altri ancora in sella. Il maggiore kerakiano sembrava non meno confuso del suo antagonista. Lo shock provato nel trovarsi di fronte un numero uguale di nemici aveva smorzato molta della sua spavalderia.
Avanzò con cautela verso l’avversario, puntandogli contro la spada. Gli altri ufficiali della Guardia Spaziale si tenevano immobili in disparte, mentre Hector si ritirava lentamente inciampando sul terreno accidentato.
Odal fece una finta e colpì Hector al braccio, di striscio. Dopo un’altra finta alla testa il kerakiano calò un fendente al torace. Hector non riuscì a parare, ma la corazza lo salvò. Odal continuava ad avanzare. Ad un tratto… crac! La spada del sottotenente volò lontano.
Per un istante tutti rimasero immobili, come impietriti. Poi Hector si lanciò con un balzo disperato contro Odal, lo assalì di sorpresa, lo fece cadere a terra e gli strappò la spada di mano gettandola via. Ma Odal lo colpì alla tempia e lo fece cadere supino. Entrambi si rialzarono e arrancarono per impossessarsi delle armi più vicine.
Il maggiore afferrò un’ascia a due lame, dall’aria molto pericolosa, e una delle Guardie Spaziali a cavallo porse a Hector una sciabola enorme. Il sottotenente l’afferrò con tutt’e due le mani, ma vacillò nel sollevarla alta sopra la testa.
Sempre con la sciabola alzata, Hector si scagliò contro il nemico che, ansante e sudato, stava rannicchiato ad aspettarlo. L’arma pesava molto e Hector non fece caso all’elmo che giaceva a terra davanti a lui.
Odal, da parte sua, avendo calcolato perfettamente il tempo che l’avversario avrebbe impiegato per balzargli addosso e colpire, aveva deciso di scansarsi al momento opportuno e di affondare l’ascia nel petto del sottotenente. Poi avrebbe affrontato gli altri. Era probabile che, con la sconfitta del capo, il duello terminasse automaticamente. Tuttavia Hector non sarebbe morto: Odal poteva sperare al massimo di vincere l’incontro.
Hector caricò secondo le previsioni di Odal, ma ci mise più tempo del previsto. Infatti, proprio mentre stava per abbassare la sciabola in un fendente micidiale, inciampò nell’elmo. Odal scartò, poi vide che l’avversario stava piombando a capofitto sul terreno e che la pesante arma fendeva l’aria a casaccio.
Il maggiore arretrò confuso, ma ricevette una tremenda sciabolata proprio sul polso. Si lasciò sfuggire l’ascia di mano e, istintivamente, si strinse il polso ferito con la sinistra. Il sangue gli scorreva tra le dita.
Scuotendo la testa con amara rassegnazione voltò allora le spalle a Hector, che giaceva ancora sul terreno, e si allontanò.
La scena svanì piano piano, ed il sottotenente si ritrovò seduto nella cabina della duellomacchina.
La porta si aprì e Leoh sbirciò nella cabina.
— State bene?
Hector sbatté gli occhi e concentrò di nuovo lo sguardo sulla realtà. — Spero di sì.
— Tutto normale? Le Guardie Spaziali vi hanno raggiunto?
— Per fortuna! Per poco non sono rimasto ucciso.
— Però siete sopravvissuto.
— Finora.
Sull’altro lato della sala c’era Odal, in piedi, intento a massaggiarsi il polso. Kor gli chiese: — Come hanno fatto a scoprire il segreto? Chi gliel’ha detto?
— Non ha molta importanza, ora — disse il maggiore, pacatamente. — Non solo hanno scoperto il nostro trucco, ma hanno anche trovato il modo di servirsene.
La testa calva e lucente di Kor, che arrivava appena al mento di Odal, era rossa di rabbia.
— Maledetti ipocriti — latrò l’uomo. — Accusano noi di inganno, poi ci rubano la ricetta.
— Non hanno alcun rispetto per i valori morali — disse Odal, ironico. — È chiaro che ormai non serve più chiamare assistenti guidati telepaticamente. Affronterò il mio avversario da solo, nella seconda ripresa del duello.
— E voi credete che quelli faranno lo stesso?
— Sì. Hanno sconfitto facilmente i miei uomini, poi si sono tirati in disparte e hanno lasciato che noi due combattessimo da soli.
— E non siete riuscito a sconfiggerlo?
Odal si rabbuiò. — Mi ha colpito per puro caso. È un avversario davvero insolito. Non riesco a capire se è goffo come sembra, o se cerca semplicemente di trarmi in inganno. Comunque, è impossibile prevedere le sue intenzioni. — Poi aggiunse tra sé: Che sia telepate anche lui?
Lo sguardo di Kor divenne freddo, inespressivo. — Naturalmente sapete in che modo reagirà il Duce, se non riuscirete ad uccidere l’ufficiale della Guardia Spaziale. Non basta sconfiggerlo. Deve morire. L’aura di invincibilità che vi circonda dev’essere mantenuta a tutti i costi.
— Farò del mio meglio — disse Odal.
— Deve morire.
Si udì il rintocco che segnava la fine dell’intervallo di riposo. Odal e Hector tornarono nelle rispettive cabine. Ora toccava al sottotenente scegliere il posto e le armi.
Odal si ritrovò in tuta spaziale, avvolto dalle tenebre. I suoi occhi si abituavano solo gradatamente. Rimase immobile per parecchi minuti scrutando nel buio, all’erta, con i muscoli tesi e pronti all’azione istantanea. Il profilo delle rocce dentellate si stagliava confusamente contro lo sfondo di innumerevoli stelle. Il maggiore provò a muovere un piede, ma questo rimase appiccicato alla superficie. Scarponi magnetizzati pensò. Dev’essere un planetoide.
Quando gli occhi furono abituati all’oscurità, capì che aveva ragione. Era su un piccolo asteroide del diametro di un chilometro e mezzo. Gravità, quasi zero. Niente atmosfera.
Girò la testa dentro il casco a boccia e vide, a destra, la figura del sottotenente, lunga e sgraziata perfino nello scafandro ingombrante. Per un attimo si domandò quale arma fosse meglio usare. Poi Hector si chinò, raccolse una pietra, si raddrizzò, la lanciò al di sopra della testa di Odal e rimase a guardarla fluttuare nell’oscurità dello spazio, da cui non sarebbe tornata mai più. Un tiro intimidatorio.
Sassi? pensò il maggiore. Sassi invece di armi? Dev’essere pazzo. Poi ricordò che una massa inerte non risente della gravità o della mancanza di questa. Su quell’asteroide una roccia di cinquanta chilogrammi poteva essere trasportata con estrema facilità. Per essere lanciata richiedeva uno sforzo normale, e avrebbe causato notevoli danni, al momento dell’impatto, indipendentemente dal suo peso gravitazionale.
Odal si inginocchiò e scelse una pietra grande come il suo pugno. Si alzò piano, mirò a Hector che se ne stava cento metri lontano e tirò con tutte le sue forze.
Ma perse l’equilibrio, e il suo sasso fini lontano dal bersaglio. Odal cadde, rimbalzò con leggerezza e si fermò slittando. Poi si affrettò a piantare fermamente le suole magnetizzate delle scarpe sulla superficie ricca di ferro.
Ma, prima che potesse rialzarsi, un sassolino rimbalzò sul serbatoio dell’ossigeno. La Guardia Spaziale ci sapeva fare! Probabilmente aveva passato molto tempo sugli asteroidi. Odal strisciò fino alle rocce più vicine e vi si nascose dietro. Per fortuna non mi ha leso lo scafandro disse a se stesso. In quel momento tre pietre colpirono la sommità della roccia dietro cui era accoccolato. Una rimbalzò sul suo casco.
Odal raccolse una manciata di sassi e li gettò in direzione di Hector.
Questi dovrebbero farlo barcollare. Magari inciamperà e si fracasserà il casco.
Rise a quel pensiero. Ecco, Kor vuole che crepi, e questo è il sistema per accontentarlo. Immobilizzarlo sotto una grossa roccia, poi seppellirlo vivo sotto molti sassi. Pochi alla volta, fatti cadere al momento opportuno. Così gli si romperanno le ossa e si farà una bella sudata aspettando che le scorte di ossigeno si esauriscano. Questo dovrebbe scuotergli il sistema nervoso in misura sufficiente da mandarlo all’ospedale. Poi lo si potrà assassinare con mezzi più convenzionali. Forse farà come Massan, e sarà tanto cortese da farsi venire un colpo! Ci vuole una roccia grossa, abbastanza leggera da poterla sollevare e lanciare, ma sufficientemente pesante da tenerlo inchiodato per alcuni istanti. Una volta a terra, sarà facile seppellirlo sotto altri blocchi.
Odal individuò un masso di dimensioni adatte, a pochi metri di distanza. Vi si avvicinò indietreggiando e gettando piccole pietre in direzione di Hector. Doveva tenere occupata l’attenzione dell’ufficiale che gli stava lanciando contro una quantità di ciottoli. Parecchi di questi colpirono Odal abbastanza forte da fargli perdere l’equilibrio.
Lentamente, pazientemente, il maggiore allungò un braccio per afferrare l’arma scelta: un masso oblungo, delle dimensioni volute. Gli si accoccolò dietro e cominciò a dare strattoni, per prova. Il masso si sostò impercettibilmente. Un’altra pietra colpì Odal al braccio procurandogli parecchio dolore. Il maggiore vedeva Hector chiaramente, ora, ritto in cima a una piccola salita, intento a lanciare con calma i suoi sassi. Odal rise, raggomitolandosi come un gatto.
Afferrò il masso con le braccia tese. Poi, alzatosi di scatto, lo sollevò in alto e lo scagliò verso Hector. Ma, trascinato dallo slancio, Odal barcollò goffamente e finì a terra, gli occhi fissi sul grosso pezzo di roccia che rotolava su se stesso in direzione dell’avversario.
Per un istante, che sembrò eterno, Hector rimase immobile, come in trance. Poi balzò di lato, fluttuando come una figura di sogno nella bassa gravità, mentre il masso gli passava di fianco.
Odal sferrò un pugno per terra, furibondo. Fece l’atto di alzarsi ma una pietra di notevoli dimensioni gli si abbatté sulla spalla e lo fece ricadere. Alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere Hector che tirava di nuovo. Un altro sasso cadde al suolo, dopo avergli sfiorato il casco. Il maggiore kerakiano si appiattì. Parecchie altre pietre gli grandinarono sul casco e sul serbatoio dell’ossigeno. Poi, più niente.
Quando alzò gli occhi, vide il sottotenente accoccolato a terra intento a cercare altre munizioni. Odal si alzò in piedi di scatto, con le mani piene di pietre. Inclinò la testa sulla spalla e prese la mira.
Qualcosa lo fece voltare all’improvviso. Odal vide il masso tirato da lui rotolare ancora lentamente, come quando l’aveva gettato: ormai era troppo grande e troppo vicino per evitarlo. Il maggiore, investito in pieno, cadde e andò a finire contro le rocce che sporgevano a pochi metri di distanza.
Prima ancora di preoccuparsi del dolore tentò di spostare il masso. Ma non ci riuscì. Poi vide la figura dell’avversario china su di lui.
— Non credevo che bastasse per abbattervi — risuonò la voce di Hector nel suo casco. — Voglio dire, non vi siete reso conto che quel pezzo di roccia era tropo pesante per allontanarsi, dopo aver mancato di colpirmi? L’avete semplicemente messo in orbita, grosso modo un’orbita di due minuti. Doveva tornare indietro per forza. Bastava solo che io vi tenessi a bada per il tempo necessario.
Odal non rispose, ma tese ogni cellula del suo corpo straziato dal dolore per liberarsi dal masso. Hector allungò un braccio e cominciò a trafficare con le valvole dello scafandro del maggiore.
— Mi spiace doverlo fare, ma non vi uccido; mi limito a sconfiggervi. Vediamo un po’. Una di queste è la valvola dell’ossigeno e l’altra, se non erro, è il razzo di emergenza.
Il sottotenente armeggiò per qualche secondo, e un razzo si accese con fragore. Il maggiore fu lanciato lontano dal masso e dall’asteroide stesso. Hector, investito dall’esplosione, rotolò fino al centro del piccolo frammento di roccia e metallo.
Odal cercò di arrivare con la mano alla valvola che regolava il funzionamento del razzo, ma il dolore era troppo fronte e gli stava facendo perdere i sensi. Lottò ancora. Doveva tornare sull’asteroide e uccidere l’avversario. Ma, a poco a poco, il dolore lo vinse. I suoi occhi si chiudevano, chiudevano…
E, all’improvviso, si ritrovò seduto nella duellomacchina. Gli ci volle un po’ per accorgersi che era di nuovo nel mondo reale. Poi gli si schiarirono le idee. Non era riuscito a uccidere Hector. Non l’aveva neppure sconfitto.
Kor, fermo sulla porta della cabina, aveva la faccia contratta in una smorfia di rabbia.
In quel momento lo studio di Leoh, situato dietro la duello macchina, sembrava due volte più grande. Una parete era stata sostituita da uno schermo enorme, così era possibile guardare direttamente nell’austera cabina metallica di un’astronave.
— E allora, questo assassino prezzolato — stava dicendo Sir Harold Spencer — dopo aver ucciso quattro uomini e aver quasi rovesciato un governo, è tornato al suo mondo natale.
Leoh annuì. — Ci è tornato sotto buona scorta — rispose. — Dev’essere caduto in disgrazia, o per lo meno dev’essere agli arresti.
— I servi di un dittatore non sanno mai cosa possono ricevere — disse Spencer, ridendo. — E l’ufficiale che vi aiuta, il sottotenente Hector, dov’è?
— La figlia di Dulaq sta rimorchiandoselo dietro, da qualche parte. Evidentemente è la prima volta che si comporta da eroe!
Spencer si girò sulla sedia. — Da molto tempo mi cullavo nell’orgogliosa convinzione che ogni Guardia Spaziale era in grado di affrontare e risolvere qualsiasi caso di emergenza. Ma, a sentire la vostra descrizione degli avvenimenti svoltisi nelle ultime settimane, cominciavo ad avere i miei dubbi. Invece sembra che Hector ce l’abbia fatta.
— Si è rivelato un tipo molto in gamba — disse Leoh sorridendo. — Credo che ne faremo un ottimo ufficiale.
Spencer grugnì soddisfatto.
— Be’ — riprese Leoh — credo che Odal sia finito. Ma i Mondi Kerak si sono annessi la Lega di Szarno e stanno riarmandosi sul serio, ora. E il governo acquatainiano è ancora molto tentennante. A giorni ci saranno le elezioni del nuovo primo ministro: i candidati sono una dozzina, ma nessuno dispone di una forte maggioranza. Sentiremo ancora parlare di Kanus, e presto.
Spencer alzò un sopracciglio.
— E lui sentirà parlare di noi — tuonò.