Odal era da solo, nella sala d’attesa piccola e spoglia con le pareti senza intonaco. In alto, vicino al soffitto, si apriva una feritoia. L’arredamento era composto da una panca di legno e da uno schermo inserito nella parete di fronte.
Nella stanza regnava un silenzio di morte.
Il maggiore sedeva rigido e impassibile, ma la sua mente era in pieno movimento.
Kor si serve di questa stanza per intimidire i visitatori pensava. Sa benissimo che assomiglia molto da vicino ad un’antica segreta, e si diverte a terrorizzare la gente.
Odal sapeva anche che le stanze riservate agli interrogatori, ricavate nei sotterranei, erano costruite suppergiù allo stesso modo. Però non avevano feritoie, e le pareti erano spesso macchiate di sangue.
— Il ministro desidera vedervi — disse una voce femminile dallo schermo. Ma il video non si accese. Il maggiore capì che lo avevano sempre tenuto sotto sorveglianza da quando era entrato nel quartier generale di Kor.
Si alzò, e la porta della stanza si aprì automaticamente. Con passo energico e dignitoso, militaresco, Odal percorse il corridoio verso l’uscio di fondo con gli stivali che risuonavano sul pavimento di pietra. Bussò una prima volta al portone di legno massiccio, ma nessuno rispose. Bussò di nuovo, e la porta si aprì da sola.
Kor sedeva in fondo all’ufficio, dietro una scrivania enorme. Il locale era in penombra, illuminato soltanto da una lampada che faceva luccicare la testa pelata del ministro dei Servizi Segreti. Odal richiuse accuratamente la porta, fece alcuni assi sul pavimento ricoperto al tappeto e attese che Kor alzasse lo sguardo. Il ministro, occupato a firmare documenti, ignorò il visitatore.
Finalmente alzò gli occhi. — Sedete — ordinò.
Odal si avvicinò alla scrivania e sedette sull’unica seggiola. Kor mise ancora qualche firma, poi spinse il mucchio di carte verso l’estremità della scrivania.
— Ho passato la mattinata con il Duce — cominciò con voce acuta, irritante. — Inutile dire che era seccatissimo per l’esito del vostro duello con l’ufficiale della Guardia Spaziale.
Odal riusciva ad immaginarsi facilmente la tirata rabbiosa di Kanus.
— Non desidero altro che incontrarmi un’altra volta con Hector, e riparare lo sbaglio — dichiarò.
Gli occhi freddi di Kor si fissarono in quelli del maggiore. — I motivi personali non mi interessano. Quel sottotenente è un idiota, ma è riuscito a distruggere il piano che avevamo ideato per sconfiggere Acquatainia. Ce l’ha fatta soltanto grazie a quel ficcanaso di Leoh. Il nostro bersaglio è lui. È lui che dobbiamo togliere di mezzo.
— Capisco.
— No! Non capite niente — sbottò Kor. — Non avete la minima idea del piano che ora ho in testa, perché l’ho rivelato solo al Duce in persona. E neanche ho intenzione di rivelarlo a nessun altro finché non sarà indispensabile.
Odal non batté ciglio. Non voleva mostrare alcuna emozione, paura o debolezza, davanti al superiore.
— Per il momento sarete assegnato al mio staff personale di collaboratori, e resterete in permanenza in questo edificio del quartier generale. I miei segretari vi diranno giorno per giorno che cosa dovrete fare.
— Benissimo.
— E ricordate una cosa — disse Kor, protendendosi sulla sedia. — Per il vostro insuccesso nel duello il Duce mi ha accusato di incapacità. Non vuole sentire ragioni. Un altro fiasco, e sarà necessario eliminarvi.
— Capisco perfettamente.
— Bene. Tornate al vostro alloggio fino a nuovo ordine. E ricordate: o distruggiamo Leoh, o lui distruggerà noi.
Odal annuì, si alzò ed uscì dall’ufficio. Kor comincia a sperimentare il terrore con cui domina gli altri pensò. Se fosse stato certo di non essere sorvegliato da qualche telecamera nascosta avrebbe sorriso.
Il professor Leoh depose la sua mole considerevole tra i morbidi braccioli di un divano ad aria. Era come sedere sul nulla, con la curva metallica e lucente del divano a parecchi centimetri dal suo corpo.
— Ecco che cosa desideravo da tanto tempo — disse a Hector. — Una vera vacanza, con tutte le comodità. Proprio quel che ci vuole per la felicità di un vecchio.
Hector se ne stava in piedi accanto alla vetrata contemplando la città che si stendeva sotto di lui. — Non c’è niente da dire, vi hanno dato un bell’appartamento.
La stanza era lunga e spaziosa, con una intera parete a vetri. Le decorazioni erano programmate in modo da cambiare colore e profumo a seconda delle ore del giorno. In quel momento avevano sfumature brune e dorate, e l’aria sapeva leggermente di spezie.
— Le due cose più consolanti — disse Leoh, allungandosi pigramente sul divano — sono che la duellomacchina ora è sistemata in modo da non permettere ad alcun telepate di farvi entrare qualcuno che l’aiuti, senza azionare un segnale d’allarme, e che io sono in vacanza fino all’inizio del nuovo anno accademico di Carinae. Può anche darsi che non torni laggiù. Visto che gli acquatainiani vogliono trattarmi regalmente, perché non dovrei passare qui un paio d’anni? Potrei fare molto lavoro di ricerca, e magari dare qualche lezione all’università di qui, di tanto in tanto.
Hector cercò di sorridere alle divagazioni del vecchio, ma aveva l’aria preoccupata. — Forse sarebbe meglio che non vi tratteneste in Acquatainia troppo a lungo. Voglio dire, be’… che i kerakiani potrebbero tornare a occuparsi di voi. Odal aveva intenzione di sfidarvi, prima che… insomma…
— Prima che mi salvaste.
— Be’, veramente non intendevo… non era… — balbettò il sottotenente, arrossendo.
Leoh scoppiò a ridere. — Non emozionatevi tanto, ragazzo mio. Voi siete un eroe. Geri certamente vi considera tale.
— Oh sì, credo di sì.
Leoh cambiò argomento. — Com’è il vostro alloggio? Comodo, spero.
— Certo — annuì Hector. — L’ambasciata terrestre è sciccosa quasi come questo appartamento.
— Non c’è male, per un giovane ufficiale.
Hector si staccò dalla finestra e andò a sedersi sull’orlo di una seggiola a rete, accanto al divano.
— Siete preoccupato per la visita di Sir Harold? — domandò Leoh.
— Pre… preoccupato? Nossignore. Terrorizzato.
— Non prendetevela tanto — disse il professore, ridendo. — Harold è un vecchio gallo piuttosto simpatico, anche se fa del suo meglio per non lasciarlo capire.
Hector annuì senza troppa convinzione e si alzò nuovamente, dirigendosi verso la vetrata.
— È… è arrivato! — balbettò, senza fiato.
Leoh si affrettò a raggiungerlo. Un’auto lunga con le insegne della Guardia Spaziale era ferma davanti all’ingresso dell’edificio, scortata da una fila di automobili ufficiali acquatainiane.
— Probabilmente sta già salendo — disse Leoh. — Ora cercate di rilassarvi e calmatevi.
Il computer dell’ingresso annunciò in tono metallico e monotono: — Gli ospiti attesi sono qui.
— E allora aprite — ordinò Leoh.
La porta si aprì, rivelando due uomini della Guardia Spaziale con lo sguardo di acciaio, una mezza dozzina di guardie d’onore acquatainiane e, in mezzo a loro, il panciuto Sir Harold Spencer vestito di grigio.
Il Comandante in capo della Guardia Spaziale si permise uno dei suoi rarissimi sorrisi. — Albert, vecchio manigoldo, come state?
Leoh si precipitò a stringere la mano a Spencer.
— Harold, credevo proprio che non ci saremmo visti mai più, in carne ed ossa intendo.
— Considerata la massa di carne che formiamo noi due messi insieme, forse stiamo violando qualche legge fondamentale dell’universo, trattenendoci contemporaneamente nella stessa stanza!
Risero cordialmente ed entrarono. La porta si richiuse lasciando fuori le guardie. Hector se ne stava impietrito accanto alla vetrata.
— Harold, avete un’ottima cera.
— Sciocchezze. Sono un ospedale geriatrico ambulante. Ma voi piuttosto, vecchio congiurato, dovete esservi trasferito in un altro corpo dopo l’ultima volta che vi ho visto!
— Niente affatto. Semplicemente una vita regolata.
— Io invece declino. Troppe preoccupazioni e troppo vino. Deve essere bello fare la vita dell’universitario, libero da ogni pensiero.
— Certo, certo. Oh, Harold, vorrei presentarvi il sottotenente Hector.
Hector scattò sull’attenti.
— Riposo, riposo. Non c’è bisogno di alcuna formalità. Allora voi siete l’uomo che ha battuto l’assassino kerakiano, eh?
— Signornò. Cioè, signorsì. Voglio dire che il professor Leoh è quello…
— Sciocchezze. Albert mi ha raccontato tutto. Siete voi che avete affrontato il pericolo.
Hector boccheggiò come se cercasse di dire qualcosa, ma non riuscì a spiccicare parola.
Spencer affondò una delle grosse mani in tasca e ne estrasse una piccola scatola d’ebano. — Questa è per voi, tenente — disse porgendo l’astuccio ad Hector.
Il giovanotto l’aprì e vide, contro uno sfondo nero pece, due piccoli spilli d’argento a forma comete: i gradi da tenente. Rimase a bocca aperta.
— L’annuncio ufficiale sta passando attraverso la solita trafila della Guardia Spaziale — disse Spencer. — Ma ho pensato che non aveva senso aspettare che i computer finissero il lavoro. Congratulazioni per la promozione meritata.
Hector riuscì appena ad emettere un Grazie, signore! Rivolto a Leoh, Spencer disse: — E adesso, Albert, ricordiamo un po’ i vecchi tempi. Avrete certamente qualcosa da bere, no?
Parecchie ore dopo, i due vecchi amici se ne stavano seduti sul divano ad aria, mentre Hector ascoltava dalla sua poltrona. Il colore delle pareti era passato dalle gradazioni del rosso a quelle del giallo, e il profumo ricordava i fiori del deserto.
— E cosa pensate di fare, ora? — domandò Sir Harold al professore. — Non vorrete darmi a intendere che avete intenzione di star qui a crogiolarvi nel lusso e di tornare poi a Carinae, nel bel mezzo della più grave crisi politica del secolo!
Leoh si strinse nelle spalle e alzò i sopraccigli, facendo scomparire in una rete di rughe la accia rotonda. — Non so ancora con sicurezza quello che farò. Vorrei riflettere meglio su alcuni progetti per il miglioramento dei trasporti interstellari. E vorrei restare da queste parti, nel caso che i selvaggi di Kerak tentassero ancora di servirsi della duellomacchina per raggiungere i loro scopi.
— Lo sapevo! — tuonò Spencer. — State impastoiandovi nella politica! Prima o poi mi soffierete il posto.
Anche Hector scoppiò a ridere.
Poi Spencer si ricompose e continuò, con maggiore serietà: — Certo saprete che, ufficialmente, sono qui per assistere all’inaugurazione del nuovo primo ministro, nella persona del generale Martine.
— Sì — disse Leoh. — E qual è la ragione vera?
Abbassando la voce, Spencer rispose: — Vorrei persuadere Martine a entrare nella Federazione. O, almeno, a firmare un trattato di alleanza con noi. È l’unico modo in cui Acquatainia potrebbe evitare una guerra. Tutti i suoi alleati precedenti sono stati assorbiti da Kerak, o vivono nel terrore. Gli acquatainiani, rimasti soli, si trovano in grave pericolo. Ma se diventassero membri della Federazione, o suoi alleati, Kanus non avrebbe certo il coraggio di attaccarli.
— Acquatainia ha sempre rifiutato anche solo di stringere un’alleanza.
— Già, ma ora che Kanus si sta preparando apertamente alla guerra, il generale Martine potrebbe vedere le cose diversamente — disse Spencer.
— Ma il generale… — cominciò Hector, poi si fermò.
— Avanti, ragazzo mio. Cosa stavate dicendo.
— Be’, forse non è importante. È solo qualcosa che Geri mi ha detto sul generale… ehm… il primo ministro. L’ha definito uno zoticone, caparbio, vanitoso e dalla vista corta. Testuali parole, signore.
Spencer sbuffò. — All’ambasciata terrestre, qui, hanno usato parole un po’ diverse, ma il quadro è lo stesso.
— E ha detto anche che è un tipo coraggioso e pieno di amor patrio, ma collerico.
Leoh si volse a Spencer, preoccupato. — Non credo che sarà disposto ad ammettere la necessità di una protezione da parte della Federazione.
Sir Harold si strinse nelle spalle. — Il fatto è che un’alleanza con la Federazione è l’unico modo per evitare una guerra. Ho fatto studiare la situazione dai simulatori del nostro computer. Il calcolatore predice che, ora che Kerak ha assorbito Szarno e neutralizzato i precedenti alleati dell’Ammasso d’Acquatainia, quest’ultimo sarà sconfitto in una guerra. Le probabilità sono novantanove su cento.
Leoh assunse un’espressione ancor più tetra.
— E una volta che Kanus avrà Acquatainia fra i suoi artigli, attaccherà la Federazione.
— Cosa? Ma è un suicidio! Perché farà questo?
— Perché Kanus è un pazzo — rispose Spencer, con rabbia genuina nella voce. — I sociodinamici dicono che una dittatura come la sua deve continuamente cercare di espandersi, per non essere frantumata da pressioni e dissensi interni.
— Ma non può battere la Federazione! — esclamò Hector.
— Esatto — convenne il Comandante. — Tutte le simulazioni di computer eseguite da noi mostrano che la Federazione schiaccerà Kerak, anche se Kanus potrà disporre delle risorse di Acquatainia.
Il Comandante della Guardia Spaziale tacque un attimo, poi aggiunse: — Ma i computer predicono anche che la guerra costerà milioni di vite umane ad entrambe le parti. E farà esplodere altrove altre guerre che infine potrebbero distruggere completamente la Federazione.
Leoh si appoggiò allo schienale dicendo: — Allora Martine deve accettare assolutamente questa alleanza.
Spencer annuì. Ma era evidente che non ci sperava molto.
Leoh e Hector seguirono alla tridimensionale, nell’appartamento del professore, la cerimonia dell’insediamento del generale Martine. E, la sera, si unirono alla folla di uomini politici, di commercianti, di comandanti militari, di ambasciatori, artisti, turisti e altri VIP, che si erano radunati nello spazioporto principale della città per il gran ballo in onore del nuovo primo ministro.
La festa doveva aver luogo a bordo di un satellite che orbitava attorno al pianeta.
— Pensate che Geri ci sarà? — domandò Hector a Leoh, mentre si infilavano nel traghetto traboccante di gente.
Hector indossava l’uniforme nera e argento, con le comete sul colletto. Leoh invece, dal consiglio ricevuto con il biglietto d’invito alla festa, indossava una tuta semplice ma elegantissima, di un rosso splendido con ornamenti d’oro.
— Avete detto che è stata invitata — rispose Leoh.
I due uomini riuscirono a trovare un paio di sedili vicini, li occuparono e agganciarono le cinture.
— Ma non aveva ancora deciso se andarci o no, dato che suo padre è morto solo da due settimane.
Appoggiandosi allo schienale della poltroncina imbottita, Leoh disse: — Be’, se non la trovate là dopo potrete stare qualche ora insieme, raccontandole della festa.
La faccia buia del tenente si illuminò di un sorriso. — Già, non ci avevo pensato.
Il traghetto si riempì alla svelta di invitati chiassosi, poi partì. Volò come un aviorazzo normale fino alla sommità dell’atmosfera, e si diresse rapidamente al satellite. Quando Leoh ed Hector uscirono dalla camera stagna per entrare nel satellite la festa era già cominciata da parecchio.
Il satellite era enorme, a forma di globo e dall’interno erano stati rimossi tutti i ponti e le pareti, cosicché aveva preso l’aria di una grossa bolla di sapone. L’involucro della bolla era trasparente, tranne in corrispondenza dei piccoli dischi disposti intorno alle varie camere stagne.
C’erano già più di mille persone presenti. Almeno così calcolò Leoh, dalla porta, lanciando un’occhiata alla folla che vorticava senza peso nell’interno del globo immenso. Gli invitati se ne stavano sospesi, molti capovolti, altri ancora roteavano tranquillamente oppure gesticolavano impegnati in conversazioni animate. Quasi tutti stringevano in mano un contenitore di plastica sigillato da cui usciva una cannuccia per succhiare il liquido interno. Quella gente formava un caleidoscopio vertiginoso: costumi brillanti, gioielli luccicanti, voci, risate scoppiettanti che si intrecciavano lievemente a mezz’aria.
Leoh allungò una mano e si appoggiò a Hector per trovare l’equilibrio.
— Ci deve essere un campo di gravità intorno all’involucro del satellite — disse il tenente staccando a fatica una delle sue scarpe dal pavimento.
— Per chi è debole di cuore, probabilmente — disse Leoh. Gli altri passeggeri del traghetto passarono davanti a loro buttandosi come nuotatori dalla camera stagna e salendo con mosse aggraziate nell’enorme locale.
Leoh diede un’occhiata intorno, vide alcuni tavoli-bar disseminati lungo le pareti e altri che galleggiavano al centro. Si volse a Hector e disse: — Perché non andate a cercate Geri? Io vado in cerca di Harold.
— Preferirei stare accanto a voi, professore. Il mio dovere è…
— Sciocchezze! Non c’è alcun assassino di Kerak, nascosto tra la folla. Andate da Geri.
— E va bene — disse il tenente, ridendo. — Ma vi terrò continuamente d’occhio.
Hector si staccò dal pavimento per unirsi alla folla senza peso. Ma doveva aver fatto male i suoi calcoli perché andò a sbattere contro un acquatainiano vestito dei colori dell’arcobaleno che gli passava davanti fluttuando, con un drink in mano. E così il tenente, l’acquatainiano e il drink cominciarono a vorticare. Il contenitore si ruppe e le gocce di liquido si sparsero dappertutto nell’aria, investendo gli altri invitati e rompendosi in gocciolane sempre più piccole. Una signora gridò, spaventata.
L’acquatainiano si raddrizzò immediatamente, ma Hector non riuscì a fermarsi e schizzò via, fendendo la folla come una biga impazzita ed emettendo tutta una serie di esclamazioni: — Ehi, là… attenzione… accidenti… scusate… attenti…!
Leoh, immobile al suo posto accanto alla camera stagna, guardava incredulo il tenente rotolare, mentre gli invitati fuggivano disordinatamente, alcuni gridando con rabbia, le donne strillando, la maggior parte ridendo. Poi la folla si richiuse, e Leoh non vide più Hector. Ma un terzetto di servitori si lanciò all’inseguimento, tuffandosi nel globo immenso per intercettarlo.
Solo allora Leoh si accorse che un cameriere gli stava accanto, con una specie di cintura in mano. — Ecco uno stabilizzatore, signore. Quasi tutti gli invitati ce l’hanno. È difficile muoversi senza questo, in assenza di peso… Quell’ufficiale lo sta dimostrando.
Leoh si agganciò la cintura e, dato che non poteva fare nulla per Hector in quella confusione, si tuffò agilmente tra la folla. La sensazione di imponderabilità era piacevole: sembrava di nuotare in una vasca piena d’acqua. Il professore si preparò un drink in una delle speciali tazze coperte e succhiò dalla cannuccia mentre si spostava verso un folto gruppo di gente al centro del globo.
All’improvviso Hector gli passò davanti come una palla, mentre due servitori gli nuotavano dietro a tutta forza. Al suo passaggio gli invitati scoppiarono a ridere, poi tornarono alla loro conversazione. Leoh allungò un braccio per fermare il tenente, ma questi era già lontano e scomparve di nuovo in mezzo alla folla.
Il professore aggrottò i sopraccigli. Detestava le riunioni troppo rumorose: molta gente, poca attività. Tutti continuavano a parlare, ma senza dire niente. Mangiavano e bevevano anche se non avevano fame e sete. Se ne stavano per ore ad ascoltare estranei che non avrebbero rivisto mai più. Era uno spreco immane di tempo.
Oppure ti secca domandò Leoh a se stesso perché qui nessuno ti ha riconosciuto? A quanto pare si divertono senza pensare al famoso inventore della duellomacchina.
Si avvicinò alla parete trasparente del satellite e osservò la superficie illuminata del pianeta, enorme sfera solida avvolta dalla luce del sole. Poi si voltò e galleggiò senza fatica finché non riuscì a vedere bene le stelle. L’Ammasso d’Acquatainia era uno scrigno pieno di gemme lucenti, rosse, oro, arancione, così fitte che era quasi impossibile distinguere lo sfondo nero dello spazio.
Quanta bellezza nell’universo! pensò.
— Professore!
Strappato bruscamente dai suoi sogni, il vecchio si girò e vide un uomo calvo e con la faccia da luna piena che ondeggiava accanto a lui, tendendogli la mano in segno di saluto.
— Sono Lal Ponte — disse lo sconosciuto mentre gli stringeva la mano. — Onoratissimo di fare la vostra conoscenza.
— Onorato sono io — rispose Leoh, adeguandosi alla tipica formalità acquatainiana.
— Probabilmente voi state cercando Sir Harold, e io so che il primo ministro sarebbe lieto di vedervi. Poiché quei due si trovano insieme, volete che vi conduca da loro? — La voce di Ponte aveva un acuto timbro tenorile.
Leoh annuì. — Grazie. Fatemi strada.
Ponte si accinse ad attraversare il satellite, avanzando tra capannelli di persone di cui molte a testa in giù. Il professore lo seguì. Come una nave da carico trainata da un rimorchiatore pensò Leoh, guardando la propria mole voluminosa fendere la folla di acquatainiani.
Lal Ponte: il nuovo ministro degli Affari Interni. Improvvisamente Leoh ricordò. Fino a poche settimane prima, era stato un membro insignificante di quell’amministrazione. Ma, durante la votazione frenetica per l’elezione del primo ministro con quattro candidati possibili che dividevano gli elettori in quattro gruppi uguali, Ponte era uscito dall’ombra portando una dozzina di voti decisivi dalla parte del generale Martine. Come ricompensa, aveva ricevuto un posto nel gabinetto.
Il ministro planò diritto in un enorme assembramento, quasi al centro del satellite. Leoh lo seguì pesantemente, facendosi largo a gomitate, incassando occhiatacce e brontolii e scusandosi come un ultimo arrivato costretto a camminare sui piedi di molti spettatori per raggiungere il proprio posto in teatro.
— Ma chi è quel vecchio? — sentì dire da una voce femminile in un sussurro.
— Ah, Albert, eccovi qui! — gridò Spencer, quando raggiunsero il centro del gruppo. Tutti si ritirarono per far posto a Leoh, e i brontolii presero un tono diverso.
— Generale Martine — disse Spencer al nuovo primo ministro. — Certo conoscete Albert Leoh, l’inventore della duellomacchina: è uno degli scienziati più famosi della Federazione.
Un mormorio di ammirazione corse tra la folla.
Martine era alto e snello, e indossava un’uniforme militare bianca e oro che accentuava la sua magrezza. La faccia era seria e lunga, gli occhi tristi e il naso prominente, da aristocratico. Annuì, concedendosi un sorriso misurato. — Certo che lo conosco. È l’uomo che ha sconfitto l’assassino di Kerak. Lieto di rivedervi, professore.
— Grazie per avermi invitato — rispose Leoh. — E congratulazioni per la vostra elezione.
Martine annuì gravemente. — Ho cercato di convincere il primo ministro — disse Spencer, con voce di circostanza — che Acquatainia trarrà grande beneficio entrando nella Federazione. Ma, a quanto pare, non ne è molto convinto.
Martine alzò gli occhi per guardare oltre la folla, attraverso l’involucro trasparente del pianeta, il mondo dorato che stava là fuori.
— Acquatainia è, per tradizione, indipendente dalla Federazione — disse. — Non abbiamo bisogno di speciali vantaggi commerciali o di alleanze politiche. Siamo un popolo ricco, forte, felice.
— Ma siete minacciati da Kerak — precisò Leoh.
— Mio caro professore — rispose il generale fissando Leoh l’alto in basso — sono militare da tutta la vita. Ho avuto l’onore di contribuire alla sconfitta di Kerak, una generazione fa. So come ci si comporta, in caso di minacce militari.
All’altra estremità del satellite, presso l’entrata di una delle camere stagne, Hector, con uno stabilizzatore intorno alla vita, se ne stava sospeso sopra una folla di ritardatari che attraversavano la camera stagna. Finalmente vide Geri.
L’ufficiale si tuffò bruscamente, urtando tre uomini d’affari carichi di gioielli e mandandoli a sbattere contro le rispettive mogli in minigonna, pestò i piedi di un panciuto colonnello acquatainiano e finalmente raggiunse Geri Dulaq.
— Sei venuta! — esclamò prendendole le mani e stringendole fra le sue.
Il sorriso della ragazza gli fece quasi piegare le ginocchia.
— Speravo proprio che ci fossi anche tu, Hector!
— Io… — disse lui, ridendo con aria idiota. — Eccomi qui.
— Ne sono contenta.
Rimasero lì, sulla soglia, a guardarsi, mentre la gente si faceva strada a gomitate per unirsi alla festa.
— Non sarebbe meglio allontanarci da qui? — disse Geri timidamente.
— Eh? Sicuro! — La condusse verso un cameriere un po’ sudato e le offrì una cintura stabilizzatrice.
— Mettiti questa, prima di muoverti. Altrimenti sarà un guaio tentare qualsiasi manovra.
Il cameriere gli lanciò un’occhiataccia. Era uno dei tre che l’avevano inseguito per tutto il satellite.
Geri guardò Hector con i suoi grandi occhi scuri. — Vuoi mostrarmi come funziona? Sono proprio ignorante, in cose di questo genere.
Frenando l’impulso di balzar via dal pavimento per farsi tre capriole di felicità, il tenente rispose con semplicità: — Oh, non c’è niente di difficile. — Poi sbirciò la faccia sudata del cameriere e disse: — Una volta che ci si è presa la mano, ovviamente.
— Ma quando avete sconfitto Kerak, avevate la Lega di Szarno e parecchie altre nazioni stellari dalla vostra parte — disse Spencer, con una nota tagliente nella voce. — Ora, invece, le vostre vecchie alleanze se ne sono andate. Siete soli contro Kerak.
Martine sospirò, come chi è costretto a un notevole esercizio di pazienza. — Vi ripeto, Sir Harold, che Acquatainia è abbastanza forte da sostenere qualsiasi attacco di Kerak, anche senza l’aiuto della Guardia Spaziale.
Leoh scosse la testa e non disse niente.
Lal Ponte, galleggiando vicino a Martine come un piccolo satellite vicino a un grande pianeta, si sentì in dovere di spiegare: — Il primo ministro sta facendo dei piani per un sistema di difesa impenetrabile, una rete di pianeti fortificati e flotte di navi spaziali così attrezzate che Kerak non avrà mai il coraggio di attaccarle.
— E supponiamo — replicò Spencer — che Kerak attacchi prima che questa linea difensiva sia completata. O che attacchi da un’altra direzione.
— Lo combatteremo e vinceremo! — disse Martine.
Spencer si passò le dita nei capelli ispidi. — Ma non vi rendete conto che un’alleanza con la Federazione, sia pure un’alleanza simbolica, obbligherebbe Kanus a rinunciare a un attacco? Mi sembra che sarebbe meglio impedire lo scoppio della guerra, invece di preparare piani per vincerla!
— Se Kanus vuole la guerra — disse Martine — lo sconfiggeremo.
— Ma può essere sconfitto anche senza guerra — insisté Spencer.
— Nessun dittatore può durare a lungo senza la minaccia di un conflitto che spaventi il suo popolo tanto da obbligarlo a servire — osservò Leoh. — E se appare chiaro che Acquatainia non può essere attaccata con speranze di successo…
— Kanus vuole la guerra — disse Martine.
— E anche voi, a quanto pare — aggiunse Spencer.
Il primo ministro gli lanciò un’occhiata di fuoco, poi si voltò.
— Scusate, ora devo occuparmi degli altri ospiti.
E si allontanò seguito da una mezza dozzina di seguaci, lasciando Spencer, Leoh e Lal Ponte tra la folla, che cominciò improvvisamente a disperdersi.
Geri ed Hector galleggiavano vicino alla parete trasparente, guardando le stelle e accorgendosi appena della musica e elle voci che provenivano dalla festa.
— Hector.
— Sì?
— Vuoi promettermi una cosa?
— Ma certo. Che cosa?
La faccia di lei era così seria, così bella, che il tenente sentì accelerare i battiti del cuore.
— Credi che Odal tornerà mai ad Acquatainia?
La domanda lo sorprese. — Uh, non lo so. Forse. Ma ne dubito. Voglio dire…
— Se mai ci si provasse… — La voce di Geri si perse in un bisbiglio.
— Non preoccuparti — disse Hector, stringendosi a lei. — Non gli permetterò di farti del male. Né a te, né a nessun altro.
Il sorriso della ragazza era sconvolgente. — Hector, caro Hector! Se Odal dovesse tornare, lo uccideresti per amor mio?
Senza pensarci un secondo, lui rispose: — Lo sfiderei appena mi capitasse di incontrarlo.
La faccia della ragazza tornò a farsi seria. — No, non intendo parlare della duellomacchina. Ho detto ucciderlo.
— Davvero, non capisco l’atteggiamento del primo ministro — disse Leoh a Spencer e a Lal Ponte.
— Ha un grande orgoglio — rispose Ponte. — L’orgoglio del militare. E noi siamo molto orgogliosi di lui. È l’uomo capace di ricondurre Acquatainia alla gloria. Dulaq e Massan erano brave persone, ma erano borghesi. Troppo deboli per trattare con Kanus di Kerak.
— Erano dei capi politici — disse Spencer. — Si rendevano conto che fare la guerra è come ammettere un insuccesso. La guerra è l’ultima risorsa, quando tutto il resto è fallito.
— Non ne abbiamo paura — sbottò Ponte.
— E invece dovreste averne — disse Leoh.
— Perché? Dubitate che possiamo sconfiggere Kerak?
— Ma perché correre un rischio, quando potremmo evitare il conflitto?
Il piccolo uomo politico agitò le braccia freneticamente, col risultato di balzare su e giù a causa dell’assenza di peso. — Noi non temiamo i Mondi di Kerak. Voi ci credete dei vigliacchi che corrono a nascondersi dietro le gonne della Federazione Terrestre al primo cenno di pericolo.
— La mancanza di buon senso è anche peggio della vigliaccheria — disse Leoh. — Perché insistete?
— Accusate il governo acquatainiano di stupidità?
— No, io…
Alzando sempre più la voce, Ponte gridò: — Allora accusate di stupidità me o il primo ministro, forse?
— Sto semplicemente discutendo sul vostro giudizio circa…
— Ed io vi accuso di vigliaccheria! — squittì Ponte.
Ora la gente cominciava a voltarsi a guardare. Il ministro sobbalzava su e giù, furioso. — Perché voi avete paura di quel Kanus, credete che dobbiamo averne anche noi!
— No, invece… — cominciò Spencer.
— Siete un vigliacco! — gridò Ponte a Leoh. — E ve lo dimostrerò. Vi sfido a battervi con me nella vostra duellomacchina!
Per la prima volta in tanti anni, Leoh si sentì avvampare d’ira.
— Questa è la discussione più idiota che mi sia mai capitato di fare! — rispose.
— E io vi sfido! — insisté l’altro. — Accettate la sfida o avete intenzione di svignarvela dimostrando tutta la vostra vigliaccheria?
— Accetto! — sbottò il professore.
Il sole era un piccolo disco bianco-azzurro alto nel cielo di Meklin, uno dei pianeti ad agricoltura forzata di Kerak. Lì, sulla sommità della catena montuosa, il vento sferzava Odal con un soffio gelido nonostante il calore delle terre coltivate sottostanti. Il cielo era senza nubi e gli alberi, mossi dal vento, frusciavano in un mosaico rosso e oro contro l’azzurro.
Odal vide Runstet seduto sull’erba, in una chiazza di sole, con la moglie e tre bambini. Il più grande, un ragazzo, poteva avere al massimo dieci anni. Stavano godendosi un pic-nic, e ridevano di qualcosa che Odal non riusciva a capire.
Il maggiore fece un passo avanti. Runstet lo vide e impallidì. Poi si alzò per affrontarlo.
— Non è questo che mi aspettavo di vedere — disse Odal, pacato. — Avevate qualcosa di meglio da fare.
Runstet rimase inchiodato sul posto, mentre tutto intorno a lui cominciava a tremare, a confondersi. I bimbi e la moglie, che ridevano allegramente, si fecero sempre più indistinti, e la loro risata svanì. I boschi sembrarono annebbiarsi, poi scomparvero del tutto. Niente era più visibile tranne Runstet e l’espressione terrorizzata della sua faccia.
— State cercando di nascondermi i ricordi che mi interessano, sostituendoli con altri — disse Odal. — Sappiamo che vi siete incontrato con certi ufficiali d’alto rango dell’esercito, in casa vostra, tre mesi fa. Avete dichiarato che si trattava di una riunione di società. Vorrei vederla.
Runstet, più vecchio di lui, la mascella quadra, i capelli grigio-ferro, lottava per mantenere il controllo dì sé. Odal sapeva che aveva paura, ma captava anche qualcos’altro: rabbia, caparbietà, orgoglio.
— Gli ufficiali di grado inferiore non erano invitati alla festa. Era strettamente riservata ai miei vecchi compagni d’arme, maggiore. — Il generale Runstet pose l’accento sull’ultima parola, con tutta la velenosità che gli riuscì di metterci.
Odal si sentì invadere da un’ondata d’ira, ma rispose con calma. — Posso ricordarvi che vi trovate in arresto e che, perciò, non avete più alcun grado? E se insisterete nell’impedirmi l’accesso ai ricordi riguardanti quell’incontro, verrete interrogato con sistemi più stringenti. — Poi Odal pensò: Sciocco! Sei un uomo finito e non vuoi riconoscerlo.
— Fate pure tutto quello che volete — disse Runstet. — Droga, tortura, da me non caverete niente. Usate questa maledetta duellomacchina anche per cento anni, ma io non vi dirò assolutamente niente!
— Devo ricostruire la scena per voi? — domandò Odal, impassibile. — Ho perquisito la vostra casa di Meklin e possiedo un elenco degli ufficiali che hanno partecipato alla riunione.
— Quando il maresciallo Lual saprà come i suoi assassini anno trattato un generale, verrete sterminati! — tuonò Runstet. — E voi! Siete anche voi un ufficiale! Bell’onore per l’uniforme che portate!
— Io devo fare il mio dovere — rispose Odal — e sto cercando di risparmiarvi interrogatori più spiacevoli.
Mentre il maggiore parlava, la nebbia si dissolse e i due si ritrovarono in piedi in un salotto spazioso. La luce del sole entrava a fiotti attraverso le porte aperte del patio. Una dozzina di uomini, in uniforme dell’esercito, sedevano sui divani. Ma erano silenziosi, immobili.
— Ora — disse Odal — mostratemi esattamente che cosa è successo. Ogni parola, ogni gesto, ogni espressione dei visi.
— Mai!
— Questa è in se stessa un’ammissione di colpa — sbottò Odal. — Voi avete complottato contro il Duce. Voi e un gruppetto di altri generali.
— Non accuserò nessuno — disse Runstet, caparbio. — Potete anche uccidermi, ma…
— Possiamo uccidere anche vostra moglie e i bambini — insinuò l’altro, piano.
Il generale rimase a bocca aperta e Odal sentì che il panico gli serpeggiava nelle ossa. — Non osereste mai! Neanche Kanus in persona lo farebbe…
— A volte capitano degli incidenti — disse Odal. — Per quanto riguarda voi, tutti, in Kerak, sono convinti che vi troviate in ospedale per un esaurimento nervoso. La vostra povera moglie potrebbe suicidarsi, oppure tutta la vostra famiglia potrebbe morire in un incidente d’auto mentre viene a trovarvi all’ospedale.
Runstet sembrò accartocciarsi tutto. Non si mosse né disse una parola, ma il suo corpo sembrò svuotarsi, piegarsi. Dietro a lui, uno dei generali sembrò risvegliarsi. Si protese e disse: — Quando saremo pronti ad attaccare gli acquatainiani, fino a che punto si potrà sperare che Kanus permetta all’esercito di agire senza interferenze politiche?
— Non capisco assolutamente che cosa mi è successo — spiegò Leoh a Spencer e Hector. — Non mi lascio mai sopraffare dai nervi.
Si trovavano nell’ex aula universitaria che ospitava la mole incredibile della duellomacchina. Nessun altro era ancora entrato. Mancava un’ora al duello con Ponte.
— Andiamo, Albert — disse Spencer. — Se quel piccolo uomo politico avesse parlato a me come ha fatto con voi, quasi l’avrei fatto fuori sui due piedi.
Leoh si strinse nelle spalle. — Questi acquatainiani sono gente emotiva — continuò Spencer. — Francamente, sono contento di andarmene.
— Quando partirete?
— Non appena questo duello cretino sarà finito. È evidente che Martine non vuole accettare alcun aiuto dalla Federazione. La mia presenza qui non fa altro che irritare lui e il suo popolo.
Hector parlò per la prima volta. — Allora scoppierà una guerra tra Acquatainia e Kerak. — Lo disse tranquillamente, guardando lontano, come parando a se stesso.
— Entrambe le parti vogliono la guerra — disse Spencer.
— Per stupidità — borbottò Leoh.
— Per orgoglio — corresse Spencer. — Lo stesso tipo di orgoglio che fa combattere gli uomini nei duelli.
Scosso, Leoh stava già per rispondere quando vide il sorriso sulla faccia color cuoio di Sir Harold.
La sala si riempì lentamente. I meditec addetti alla duellomacchina entrarono, uno alla volta, e cominciarono a controllare le varie parti dell’apparecchio. L’équipe aveva un uomo in più davanti a un nuovo dispositivo: con la sua attrezzatura controllava i duelli e si assicurava che nessuno dei duellanti ricevesse aiuto telepatico dall’esterno.
Ponte e il suo seguito arrivarono puntuali all’ora stabilita per l’incontro, ma solo quattro cronisti apparvero nella galleria della stampa, in alto. Leoh aggrottò la fronte. Un duello che riguarda l’inventore della macchina dovrebbe suscitare più interesse da parte dei servizi d’informazione, pensò.
Poi i contendenti si sottoposero ai controlli medici, alle istruzioni riguardanti l’uso della macchina — istruzioni che erano state scritte da Leoh stesso — e il professore ebbe la scelta delle armi.
— Come arma scelgo le leggi elementari della fisica — disse Leoh. — Non sarà necessaria alcuna istruzione speciale.
Gli occhi di Ponte si dilatarono per la sorpresa e i suoi secondi si scambiarono un’occhiata. Anche i meditec si guardarono, perplessi. Dopo un silenzio pieno di tensione, il meditec capo annuì.
— Se non avete obiezioni — disse — procediamo.
Leoh sedette pazientemente nella sua cabina, mentre i meditec gli collegavano i neurocontatti alla testa e alla schiena. Strano pensò. Ho azionato la duellomacchina centinaia di volte, ma questa è la prima volta che il mio avversario, nell’altra cabina, è veramente adirato con me. Vorrebbe uccidermi.
Infine i meditec uscirono e chiusero le porte delle cabine. Leoh era solo, ora, e fissava i colori cangianti dello schermo. Cercò di chiudere gli occhi, ma non vi riuscì. Tentò ancora e, con grande sforzo, ce la fece.
Quando li riaprì, si trovava al centro di un’enorme stanza che aveva l’aria di una palestra. C’erano finestre in alto, vicino al soffitto.
Invece di essere piena di attrezzature per la ginnastica la stanza era piena di pulegge con funi, di piani inclinati, di sfere metalliche di ogni dimensione, dal diametro di pochi centimetri a due volte l’altezza di un uomo. Leoh stava in piedi su una piattaforma circolare, leggermente alzata da terra, con un piccolo dispositivo di comando in mano.
Lal Ponte aspettava all’altra estremità della stanza voltando le spalle al muro, e guardava seriamente preoccupato quella giungla di attrezzature sconosciute.
— Questa è una specie di laboratorio di fisica elementare — gli gridò Leoh. — Nessuno degli oggetti che si trovano qui dentro è un’arma vera e propria, ma molti possono diventare pericolosi se si sa come usarli… o se non si sa come usarli.
— Ma questo è illogico — disse Ponte.
— Niente affatto — rispose allegramente il professore. — Vi accorgerete subito che tutti gli oggetti sono distribuiti in modo da formare una specie di labirinto. Voi dovrete attraversarlo per raggiungere la piattaforma e trovare qualcosa da usare come arma contro di me. Però, ci sono dei trabocchetti sul percorso. Dovrete evitarli. E questa piattaforma, in realtà, è una tavola girevole… ma ne parleremo più tardi.
Ponte si guardò attorno. — Siete pazzo!
— Può darsi.
L’acquatainiano fece alcuni passi a destra e sollevò una sbarra leggera, di metallo. Tenendola in mano si diresse verso il professore.
— È una leva — disse questi. — Naturalmente potete usarla come clava, se volete.
Un groviglio di funi tagliava la strada a Ponte. Invece di aggirarlo l’acquatainiano cercò di attraversarlo.
Leoh scosse la testa, premendo un pulsante sul dispositivo di comando. — Avete commesso un errore, credo.
Le funi si misero in moto, sollevando il pavimento sotto i piedi di Ponte. Questi cadde in ginocchio e, all’improvviso, si ritrovò su una piattaforma alta dieci metri. Abbandonata la leva si aggrappò alle funi: una di queste dondolò, libera, e lui vi si appese con un balzo, aggrappandovisi con le braccia e le gambe.
— Il pendolo — gridò Leoh. — Attento alla…
La fune a cui stava appeso l’acquatainiano si allontanò dondolando, poi tornò indietro verso la piattaforma a mezz’aria. Il poveraccio batté la testa contro orlo delle tavole, lasciò andare la presa e cadde con un tonfo sul pavimento.
— Il pavimento è imbottito disse Leoh — ma disgraziatamente ho dimenticato di imbottire anche l’orlo della piattaforma. Spero che non vi siate fatto troppo male.
Ponte si sollevò a sedere, boccheggiando. La testa gli girava vertiginosamente. Fece tre tentativi prima di riuscire a levarsi in piedi e infine ci riuscì, barcollando.
— Alla vostra destra c’è un piano inclinato, come quello usato da Galileo, però molto più grande. Dovrete affrettarvi per non lasciarvi raggiungere dalla palla…
Il dito del professore sfiorò un altro pulsante sul dispositivo di comando, e un’enorme sfera di metallo cominciò a rotolare giù per il piano inclinato. Ponte udì il rombo, si voltò a guardare terrorizzato e fece appena in tempo a balzare di fianco. La sfera rotolò per tutto il pavimento e andò a sbattere rumorosamente contro la parete.
— Forse è meglio che vi sediate qualche minuto, per riprendere lena — suggerì il professore.
Ponte ansava come un mantice. — Voi siete il diavolo in persona, un diavolo sorridente. — balbettò.
Poi si chinò a raccogliere una piccola sfera, ai suoi piedi. Mentre si rialzava per lanciarla, Leoh toccò di nuovo il dispositivo di comando e la piattaforma girevole su cui si trovava cominciò a rotare lentamente. Così la palla, gettata goffamente da Ponte, mancò il bersaglio di un metro buono.
— Posso regolare la velocità della piattaforma — spiegò il professore, mentre il ministro gettava parecchie altre sfere senza mai colpire nel segno.
L’acquatainiano, rosso di rabbia, si precipitò verso la piattaforma girevole e vi balzò sopra, dalla parte opposta a Leoh. Aveva ancora due piccole sfere in mano.
— State attento — ammonì Leoh, mentre l’avversario barcollava e per poco non cadeva dal piedestallo mobile. — La forza centrifuga può giocare brutti scherzi.
I due avversari rimasero un attimo in piedi, immobili: Leoh attento, in guardia, Ponte con lo sguardo lampeggiante d’ira. La stanza sembrava girare intorno a loro.
Poi il ministro lanciò con tutte le sue forze una delle palle, ma questa sembrò allontanarsi dal professore con una curva.
— La forza di Coriolis — spiegò Leoh, in tono leggermente cattedratico. — È un fenomeno naturale su sistemi rotanti, lo stesso che fa girare i venti attraverso la superficie rotante di un pianeta.
La seconda sfera passò, fischiando, non più vicino della prima.
— Vi avverto ancora che questa piattaforma è costituita da sezioni alterne di materiale magnetico e no. — Leoh indicò il mosaico colorato del pavimento. — Le vostre scarpe contengono parti metalliche. Se voi restate sulle sezioni magnetizzate, quelle rosse, vi potrete muovere senza difficoltà.
Toccò di nuovo il dispositivo di controllo e la piattaforma aumentò di velocità. Adesso la stanza sembrava ruotare pazzamente attorno a loro. Leoh si chinò in avanti.
— Naturalmente — continuò — se doveste metter piede sulle sezioni non magnetizzate alla velocità a cui stiamo girando…
Ponte cominciò ad avanzare caparbiamente, gli occhi fissi sul pavimento colorato, cercando di raggiungere Leoh. Questi si allontanava mantenendo sempre la stessa distanza. Ponte si muoveva più in fretta, guardando ora Leoh ora il pavimento. Poi si fermò bruscamente e puntò in direzione del professore, tagliando attraverso il centro della piattaforma.
— Attento!
Ad un tratto perse l’equilibrio. Cadde supino, percorse slittando la piattaforma girevole fino all’orlo, fu lanciato attraverso la stanza e andò a sbattere con i piedi contro un grosso blocco di metallo.
— La mia gamba — gemette. — La mia gamba si è rotta. Leoh fermò la piattaforma, scese e si avvicinò all’acquatainiano che aveva la faccia contratta per il dolore.
— Mi sarebbe facile, ora, finirvi — disse piano — ma non ho alcuna voglia di farlo. Avete già avuto una buona lezione.
La stanza cominciò a sbiadire e Leoh si ritrovò seduto nella cabina della duellomacchina, gli occhi fissi allo schermo già spento.
La porta si spalancò e apparve la faccia sorridente di Hector.
— L’avete battuto!
— Sì — disse Leoh, sentendosi all’improvviso molto stanco. — Ma non l’ho ucciso. Posso provare di nuovo con le armi di sua scelta, se crede.
Ponte li vide avvicinarsi, pallido e tremante. I suoi secondi gli si affollavano intorno, facendo domande. Il meditec capo stava dicendo: — Potete continuare ora, se volete, oppure rimandare la seconda parte del duello a domani.
Ponte crollò la testa, guardando il professore. — No, no. Mi ha sconfitto. Non posso lottare ancora.
Il meditec capo annuì. — Il duello è finito, allora. Ha vinto il professor Leoh.
Questi tese la mano al suo avversario.
Il ministro la strinse nella sua, tremante e sudata.
— Spero vivamente che diventeremo amici, ora — disse il professore.
Con aria desolata, l’altro rispose: — Sì, certo. Grazie.
Quando Ponte, i suoi secondi e i tecnici tutti se ne furono andati, Leoh, Spencer e Hector rimasero soli nella sala della duellomacchina, passeggiando su e giù per la stanza enorme.
— Devo andarmene ora, Albert — disse Spencer. — La mia nave avrebbe dovuto partire mezz’ora fa. Penso che il mio aiutante stia già imbottendosi di tranquillanti. È un bravo figliolo, ma estremamente nervoso.
— E non potete fare niente per convincere Martine? — domandò Leoh.
— Evidentemente no. Ma se resterete ancora un po’ qui, potrete tentare voi.
— Parlerò con gli scienziati dell’università — disse Leoh. — La loro opinione dovrebbe avere un certo peso sulle decisioni del governo.
Spencer aveva l’aria scettica. — Che altro volete fare? So benissimo che non avrete pace finché non troverete qualche altro problema di ricerca su cui arrovellarvi.
— Sto cercando di rendere più facili i viaggi interstellari — disse Leoh.
— Le astronavi sono già molto efficienti.
— Lo so. Ma io parlo di un miglioramento fondamentale — spiegò il professore. — Forse di un modo completamente diverso di viaggiare attraverso lo spazio. Tanto diverso quanto lo sono le astronavi moderne dagli antichi razzi.
— Basta così! — esclamò Spencer, alzando una mano massiccia. — Tra un minuto starete propinandomi dosi urto di fisica metadimensionale. Ho già il mio da fare a capire la politica!
Leoh scoppiò a ridere. Rivolto a Hector, Sir Harold continuò: — Tenente, sorvegliatelo con attenzione fino a quando resterà in Acquatainia. Il professore è un uomo di valore… e, soprattutto, è un mio carissimo amico. Capito?
— Signorsì.
Odal stava rigido sull’attenti, davanti a Kor. Il ministro dei Servizi Segreti, appoggiato allo schienale imbottito ella sua poltrona dietro la scrivania, teneva le mani su uno stiletto decorato che gli serviva da tagliacarte.
— Non vi piace il compito che svolgete, qui, vero? — Kor sorrideva con freddezza.
— Io sono un ufficiale dell’esercito — gli rispose Odal, cautamente. — Trovo che il lavoro dell’inquisitore è… spiacevole.
Kor tamburellò con le dita sullo stiletto. — Ma voi siete uno dei pochi individui che sappiano usare la duellomacchina per gli interrogatori. E siete di gran lunga il migliore elemento che abbiamo, per questo scopo. Gli altri sono dei dilettanti rispetto a voi. Avete molto talento, maggiore Odal.
— Mi è difficile interrogare ufficiali dell’esercito che sono stati miei compagni d’arme — disse Odal.
— Ci credo — ammise Kor — ma vi siete comportato bene ugualmente. Ora sappiamo di chi ci possiamo fidare, nell’esercito, e chi sta complottando contro il Duce.
— Allora il mio compito è finito.
— La congiura va più in là dell’esercito, maggiore. È qualcosa di più ampio e profondo. I nemici del Duce infestano ogni settore del governo. Sono certo che anche il maresciallo Lugal è coinvolto.
— Ma se non abbiamo prove! — esclamò Odal.
— Sono fermamente convinto che lo è — sbottò Kor. — E anche Romis!
Kanus vuole assicurarsi il controllo dell’esercito pensò Odal e tu vuoi eliminare dunque possa competere con te, nei favori di Kanus.
— Non prendete un’aria così tetra, maggiore — disse il ministro con un sorriso sempre più gelido. — Avete servito bene il vostro Duce e me, durante queste settimane. Adesso… be’, che ne direste di ritornare ad Acquatainia?
Odal provò una strana sensazione di sorpresa e d’inquietudine.
— Spencer ha lasciato Acquatainia — spiegò il ministro — e i nostri piani si stanno attuando in modo proprio soddisfacente. Ma Leoh è ancora là. È un individuo molto pericoloso per noi. Lo elimineremo.
— Ed elimineremo anche il tenente della Guardia Spaziale — disse Odal con un sorriso soddisfatto.
Kor agitò lo stiletto in direzione del maggiore. — Non così presto. Leoh sarà distrutto dalla sua stessa duellomacchina, ma in un modo specialissimo. In realtà ha già mosso i primi passi verso la sua distruzione, combattendo un duello con un omuncolo che spera di diventare primo ministro di Acquatainia quando Kerak avrà conquistato l’Ammasso.
— Non capisco — disse Odal, rabbuiandosi.
— Capirete in seguito, maggiore. Probabilmente non vi piacerà fare ciò che vi verrà ordinato, come non è piaciuto a Lal Ponte. Ma compirete il vostro dovere verso Kerak e il Duce, come ha fatto lui. Voi non diventerete primo ministro d’Acquatainia, naturalmente, ma neanche Ponte lo diventerà.
La risata di Kor raschiava le ossa come una lama di coltello.
Il cielo notturno d’Acquatainia era tutto uno splendore di stelle palpitanti, scintillanti, accecanti, così luminose che la città non restava mai completamente al buio ma avvolta in un crepuscolo argenteo più chiaro della luce della luna piena sulla Terra.
Hector, ai comandi dell’autoscivolo, correva sul fiume che attraversava la città, diretto verso il porto e l’oceano aperto. Fiutava già l’odore del sale.
Lanciò un’occhiata a Geri, seduta vicino a lui sulla poltrona girevole dell’abitacolo e leggermente china in avanti per difendersi la faccia dagli spruzzi. Il vederla lì vicino impediva al giovane tenente di concentrarsi nella guida dell’autoscivolo ad alta velocità.
Hector pilotava il piccolo veicolo zigzagando tra le barche e i battelli da diporto che affollavano il fiume, lasciandosi dietro una scia di spuma luminosa. Fuori, nel porto, c’erano enormi navi da carico ancorate nel canale più importante. Hector guidò l’autoscivolo dove l’acqua era poco profonda, tra il canale e i bacini portuali, mentre Geri guardava grandi navi transoceaniche. Finalmente uscirono all’aperto, tra le onde gigantesche dell’oceano, ed Hector spense il motore. Il veicolo rallentò, puntò la prua su un’onda in arrivo e affondò il resto dello scafo nell’acqua.
— Il rollio non ti dà noia, vero? — domandò il giovanotto rivolto a Geri.
Scuotendo la testa, lei disse: — Oh, no. Mi piace rimanere così sul mare.
Ora che se ne stavano fermi sull’acqua, Geri si sciolse i capelli che le scesero sulle spalle con una morbidezza che fece rabbrividire Hector.
— Il cuoco elettrico dovrebbe aver terminato, oramai — disse il tenente. — Hai fame?
La ragazza annuì. Si alzarono insieme ed urtarono lievemente uno contro l’altra mentre cercavano di infilarsi tra le due poltrone girevoli per raggiungere la panca imbottita, in fondo all’abitacolo. Geri sorrise e Hector si lasciò ricadere al posto di guida perché lei passasse, felice di respirare il profumo del mare e di guardarla. Lei andò a sedersi sulla panca e sollevò il coperchio del cuoco. Ne uscirono vassoi di cibo fumante.
Hector si avvicinò inciampando e le si sedette accanto.
— Le bibite sono nel frigorifero — disse la ragazza.
Dopo pranzo rimasero insieme a guardare le stelle, mentre il pilota automatico impediva all’autoscivolo di allontanarsi troppo dal porto.
— Questa faccenda, uhm, di Odal… — disse Hector in tono esitante. — Non è il genere di cosa che…
— Lo so. È terribile chiedertela. — E Geri infilò la sua mano fra quelle di lui. — Ma che altro posso fare? Sono soltanto una donna, non posso ucciderlo da sola. Ho bisogno di uno che mi protegga, di un campione che si batta per me, che vendichi l’assassinio di mio padre. Tu sei l’unico a cui posso affidarmi, Hector.
— Sì, ma ucciderlo significa…
— Sarà pericoloso, lo capisco. Ma sei tanto coraggioso! Mica hai paura di Odal, vero?
— No, ma…
— E questa non è altro che un’esecuzione legittima e giustificabile. Si tratta di un assassino. Tu sarai la spada della giustizia. La mia spada della giustizia.
— Sì, ma…
Lei si ritrasse leggermente. — Penso che Odal non tornerà mai più in Acquatainia. Ma se tornerà, puoi essere certo che lo farà per una ragione soltanto.
— Quale? — domandò Hector sbattendo gli occhi.
— Per ammazzare il professor Leoh — disse lei.
Il tenente si afflosciò sulla panca. — È vero. E io ho il dovere di impedirgli questo delitto.
Geri si voltò, gli strinse la faccia fra le mani e lo baciò. Hector la strinse forte e le ricambiò il bacio. Poi lei si liberò dal suo abbraccio. Lui si protese, ma la ragazza gli afferrò entrambe le mani.
— Lasciami riprender fiato — gli chiese.
Hector sentiva il cuore battere all’impazzata, più forte delle onde che si rompevano contro lo scafo dell’autoscivolo.
— Naturalmente — disse Geri, fredda — sembra che il professor Leoh sappia difendersi bene, nella duellomacchina.
— Ehm… — Hector le si fece vicino.
— Sono rimasta molto sorpresa nel sentire che Lal Ponte aveva sfidato il professore — disse lei, ritraendosi all’estremità della panca. — Ponte è una nullità! Non avrei mai creduto che avesse il coraggio di battersi a duello.
Hector passò un braccio intorno alle spalle di Geri e non disse niente.
— Mio padre diceva sempre che se nell’amministrazione attuale c’era qualcuno che lavorava per Kerak, quello era Ponte.
— Eh?
Al ricordo la ragazza si rabbuiò. — Sì, papà era certo che Ponte fosse alleato di Kerak. Se un giorno Kerak ci conquisterà mi disse una volta quel piccolo vigliacco diventerà il nostro primo ministro.
Il tenente si raddrizzò. — Ma ora lavora con Martine, e certo Martine non è favorevole a Kerak.
— Lo so — convenne Geri. — Forse papà si sbagliava. Oppure Ponte ha cambiato idea. O…
— O forse continua a lavorare per Kerak.
Geri sorrise. — Anche se è così, il professor Leoh saprà prendersi cura di lui.
Hector si appoggiò all’indietro e vide che ragazza si era leggermente allontanata. Le si avvicinò di nuovo.
— Il mio piede! — strillò lei, alzandosi di scatto.
— Oh, scusa. Te l’ho schiacciato. — Anche il giovane balzò dalla panca.
Geri saltellava su una gamba sola nel minuscolo abitacolo, facendo sobbalzare l’autoscivolo ad ogni salto. Hector si protese per sostenerla, ma lei lo respinse e perse l’equilibrio: urtò contro il parapetto basso dell’abitacolo, si rovesciò all’indietro e cadde nell’acqua sollevando alti spruzzi.
Hector, allibito, non esitò un istante. Si tuffò in mare a capofitto dal punto in cui si trovava, la testa in giù e le gambe in su.
Risali sputando acqua, mezzo accecato e senza respiro. Geri nuotava allegramente poco lontano.
— Io… io… io…
Lei rise. — Non preoccuparti, Hector, è colpa mia. Ho perso la testa quando mi hai pestato il piede.
— Ma, io… Sei…?
— È una bella notte — disse Geri. — Visto che siamo in acqua, perché non ci facciamo una nuotata?
— Be’, va bene. Però io non so nuotare — disse il tenente. E cominciò ad affondare piano piano.
Mentre scendeva la rampa della nave spaziale per prendere il sentiero scorrevole che portava al terminal, Odal sentì una strana voglia di ridere.
Era di nuovo in Acquatainia. Il sole caldo, la folla di gente affaccendata, le torri sfavillanti della città! Finalmente era uscito dall’orribile Ministero dei Servizi Segreti. Mentre andava verso il terminal dello spazioporto, scortato da quattro uomini di Kor, il maggiore fu costretto ad ammettere tra sé che Acquatainia aveva un ritmo, una freschezza, un senso di libertà e di gaiezza che non aveva mai trovato in Kerak.
Una volta entrato nel terminal, doveva percorrere cinquanta metri al cospetto di ispettori automatici prima di poter salire sul veicolo che l’avrebbe portato all’ambasciata di Kerak. Se dovevano verificarsi dei guai, si sarebbero verificati lì.
Due componenti della sua scorta entrarono nella linea d’ispezione prima dì lui, gli altri dopo.
Odal camminò lentamente tra i due schermi a raggi X e si fermò dinanzi al rivelatore. Poi inserì il suo passaporto e la carta di identificazione dell’ambasciata nella fessura apposita del computer.
In quel momento sentì una voce femminile esclamare nella fila vicina: — È lui! Riconosco l’uniforme, l’ho visto alla tridimensionale!
— Impossibile — rispose un uomo. — Non avrebbero il coraggio di rimandarlo qui.
Odal si voltò di proposito dalla loro parte e sorrise.
— Te l’avevo detto che era lui — insisté la donna.
Kor aveva provveduto a far trovare sul posto qualche giornalista. Mentre Odal recuperava i suoi documenti e la borsa da viaggio, al termine della linea d’ispezione, i fotoreporter cominciarono a fotografarlo. Il maggiore si avviò deciso verso la porta più vicina, per raggiungere l’auto a cuscino d’aria che era fuori in attesa. I quattro della scorta tenevano i giornalisti a debita distanza.
— Maggiore Odal, non credete che sia pericoloso tornare in Acquatainia?
— Credete che l’immunità diplomatica protegga anche gli assassini?
— Non temete che qualcuno vi voglia ammazzare?
I reporter gli correvano dietro, latrando come un branco di cuccioli che inseguono un uomo con una cesta piena di ossa. Odal sentiva l’odio, ora. Non tanto dei giornalisti, quanto della gente che affollava la sala d’aspetto. Lo fissavano tutti pieni di rancore. Prima, quando era l’invincibile guerriero di Kerak, era temuto, quasi invidiato. Ma ora nella folla non c’era che odio per il maggiore kerakiano, e Odal lo sapeva.
Si infilò nel veicolo, rifugiandosi sul sedile posteriore. Le guardie di Kor riempivano il resto dell’auto. La portiera si chiuse con un colpo secco, e il trambusto della folla del terminal rimase tagliato fuori. Per la prima volta Odal ripensò al motivo per cui era tornato in Acquatainia: Leoh. E si rabbuiò al pensiero di ciò che doveva fare. Ma quando gli venne in mente Hector e ricordò che poteva vendicarsi dell’assurda vittoria che il tenente aveva riportato nel duello, si permise di sorridere.
Leoh sedeva alla scrivania del suo studio, dietro la sala della duellomacchina. Aveva bisogno di riflettere, e il suo alloggio era troppo comodo per il pensiero creativo.
Attraverso la porta chiusa dell’ufficio ne sentì sbattere una esterna, poi dei passi frettolosi e pesanti e un fischiettare acuto e stonato. Con un sorriso, ordinò al dispositivo di controllo della sua porta di aprirsi. Apparve Hector, in piedi, con il pugno alzato e pronto a bussare.
— Come facevate a saperlo?
— Sono un po’ telepate anch’io — disse il professore.
— Davvero? Non lo sapevo. Credete che questo vi abbia aiutato nel vostro duello con… oh, volevo parlarvi di…
Leoh alzò una mano per chiedergli il silenzio. — Entrate, ragazzo mio, e sedete. Ditemi, avete visto il telegiornale di stamattina?
Avvicinando una sedia al professore, Hector rispose: — No, signore. Io… be’, sono tornato tardi, ieri sera, e mi sono alzato tardi stamattina. Mi è entrata dell’acqua nell’orecchio sinistro, e gorgoglia ogni volta che scuoto la testa.
Con uno sforzo Leoh ritornò in argomento. — Il telegiornale ha mostrato Odal che atterrava allo spazioporto principale. Hector sobbalzò come se qualcuno lo avesse punto.
— È… tornato?
— Adesso non cominciate ad allarmarvi — disse Leoh, con tutta la calma che poteva. — Nessuno ha intenzione di venire qui con la pistola in pugno per assassinarmi.
— Forse… Ma, voglio dire… C’è la possibilità che Odal o altri tentino qualcosa!
— Sciocchezze — grugnì Leoh.
Hector non rispose. Sembrava impegnato in una lotta interiore. Sulla sua faccia. passava una serie di espressioni: preoccupazione, perplessità, decisione.
— Cosa c’è? — domandò Leoh.
— Niente, niente. Pensavo. — La notizia dell’arrivo di Odal vi ha sconvolto più di quanto credessi.
— No, no. Non sono sconvolto. Riflettevo. — Scosse la testa, come per liberare la mente da una nebbia. A Leoh sembrò di udire il gorgoglio dell’acqua.
— Ho il dovere di proteggervi — riprese il tenente. — Così dovrò starvi sempre alle costole, in ogni momento. Devo trasferirmi nella vostra stanza e seguirvi ovunque andiate.
Quella dichiarazione fece trasalire Leoh. Però sapeva che, se non lo avesse lasciato fare, il tenente lo avrebbe sorvegliato in segreto. Sarebbe stato peggio per tutti e due.
— E va bene, ragazzo mio, fate come credete. Ma penso che stiate drammatizzano eccessivamente.
— No, devo essere presente quando Odal arriverà — dichiarò Hector. — Comunque, credo che l’ambasciatore terrestre sia un po’ stanco di avermi tra i fedi all’ambasciata. Sembra faccia di tutto per evitarmi.
— Benissimo. Fate fagotto e venite qui da me, oggi stesso — disse il professore reprimendo un sorriso.
— D’accordo. — Poi Hector pensò: Non lo lascerò un solo astante. Così, quando Odal si mostrerà, io potrò difenderlo… e fare quello che mi ha chiesto Geri.
Hector si trasferì nell’alloggio di Leoh, restando sempre a pochi metri di distanza dallo scienziato. Notte e giorno. Quando il professore si svegliava, lo sentiva fischiettare allegramente nella cucina automatica, dove riusciva sempre a far bruciare dagli apparecchi automatici almeno una parte del pasto. Il tenente accompagnava in macchina il professore dovunque questi volesse andare e restava con lui quando arrivavano a destinazione. Infine Leoh si addormentava con il suo allegro chiacchierio nelle orecchie.
Andavano sempre più spesso a pranzo da Geri Dulaq, nella sua villa lussuosa alla periferia della città. Non appena Geri era in vista, Hector cominciava a scodinzolare come un cucciolo troppo emozionato, ma il professore aveva notato che lei era bravissima nel tenerlo sempre a debita distanza, e si accorse subito che la donna voleva ottenere qualcosa dal giovane, qualcosa di cui Hector non voleva parlare. Davvero strano quel ritegno, per un tipo come il tenente!
Una settimana dopo il suo arrivo, Odal non era ancora uscito dall’ambasciata di Kerak. Un giornalista intraprendente, aspettandosi un nuovo duello, chiese un’intervista a Leoh che lo ricevette presso la duellomacchina, con Hector sempre vicino.
Il reporter era un tipo dell’età del tenente, di costituzione robusta, dall’abito trasandato e dal modo di fare piuttosto antipatico.
— Conosco grossomodo come funziona questo apparecchio — disse con aria disinvolta quando il professore cominciò a spiegargliene il funzionamento.
— Oh! Avete seguito un corso di psiconica?
L’atro rise. — No, ma so tutto su questa faccenda della macchina dei sogni.
Poi, avvicinandosi lentamente al banco di manovra in quel momento vuoto, e guardando la mole enorme e complessa della macchina, domandò: — E come si può essere certi che qui dentro non morirà ancora qualcuno? Il maggiore Odal ha ucciso della gente…
— Capisco la vostra preoccupazione — rispose Leoh. — Ma ho aggiunto tre circuiti nuovi alla macchina. Il primo isola psiconicamente i contendenti, impedendo ad Odal e a chiunque altro di mettersi in contatto col mondo esterno mentre la macchina è in funzione.
— Continuate — disse il reporter, aumentando il volume del suo registratore da polso.
— Il secondo circuito — continuò Leoh — registra l’intero duello. Il meditec capo può, su richiesta di una delle due parti, rivedere il nastro con la registrazione e stabilire se alcune norme siano state trasgredite. Così, anche se qualcuno si è comportato in modo sleale, possiamo almeno venirlo a sapere.
— Dopo che la cosa è accaduta, però — osservò il reporter.
— Sì.
— Questo non avrebbe certo aiutato Dulaq e Massan, o gli altri che sono stati uccisi.
Leoh si sentiva crescere dentro l’ira. — Però, dopo il primo duello, avremmo scoperto il trucco e avremmo potuto fermare Odal!
L’altro non rispose.
— Infine abbiamo aggiunto un dispositivo automatico all’attrezzatura per il controllo medico, cosicché, se uno dei duellanti mostra il minimo segno di pericolo fisico, l’incontro viene sospeso automaticamente.
— E se a qualcuno venisse un attacco di cuore? — chiese il giornalista. — Potrebbe morire prima che voi abbiate il tempo di aprire la porta della cabina, anche fermando il duello immediatamente.
— E se si verificasse un terremoto? — sbottò Leoh, furente. — Entrambi i duellanti, e la maggior parte della città, verrebbero distrutti. Giovanotto, non esiste un modo per rendere il mondo un posto del tutto sicuro!
— Può darsi — fece il reporter, evidentemente poco convinto.
Parlarono per un altro quarto d’ora, e Leoh mostrò l’attrezzatura dei tre nuovi circuiti di sicurezza, cercando di spiegare come funzionavano. Il cronista aveva l’aria scettica e disincantata che si conveniva alla sua professione. L’esasperazione di Leoh continuava ad aumentare.
— Per essere sincero, professore, avete fatto un’infinità di chiacchiere scientifiche. Ma in realtà non abbiamo alcuna garanzia che la macchina non ucciderà altra gente.
— La macchina non ha mai ucciso nessuno! — gridò Leoh, rosso di rabbia. — Un uomo ha ucciso deliberatamente il suo avversario, ecco che cosa è successo.
— Già, ma nella macchina.
— Sì, ma non accadrà più.
Stringendosi nelle spalle, il reporter disse: — Quanto a questo, dobbiamo semplicemente credervi sulla parola.
— La mia reputazione di scienziato ha un certo valore, direi.
Hector lo interruppe. — Se il governo acquatainiano si è convinto che la duellomacchina è completamente sicura…
— Ma anche la prima volta che è stata installata qui, il governo e il professore ne erano convinti! — disse il cronista ridendo. — Eppure due uomini sono morti in questa trappola, e chissà quanti atri sono stati uccisi a Szarno, e in altri posti.
— Ma questo…
Rivolto a Leoh, l’uomo domandò: — Quanta gente ci ha rimesso la pelle nella duellomacchina, nella Federazione?
— Nessuno.
— Ne siete sicuro? Posso sempre controllare, sapete?
— Mi state dando del bugiardo?
— Sentite: voi ci avevate garantito che la macchina era sicura, eppure due personaggi molto importanti per la nostra nazione sono morti. Ora ci ripetete ancora che è sicura… — E lasciò sospesa l’implicazione.
— Fuori! — sbottò Leoh. — Uscite di qui o, per tutti gli dèi antichi, anche se sono vecchio…
Il cronista fece un passo indietro. — Supponiamo che io dubiti di voi. Non della vostra buona fede, ma del vostro ottimismo sulla sicurezza della macchina. Supponiamo che io dica che voi non siete certo della sicurezza della macchina, ma che sperate semplicemente che sia…
Hector si mise tra i due. — Aspettate. Se non potete…
— Supponiamo — continuò l’altro, scansando il tenente — supponiamo che io vi sfidi a duello.
— Ho già usato la macchina molte volte — disse Leoh.
— Lo so, ma io vi sfido di nuovo.
All’improvviso, Leoh ritrovò la calma. — Benissimo. Accetto la sfida. E voi potrete fare tutto quello che vorrete, durante l’incontro, per dimostrare le vostre affermazioni. Ma io insisto su una condizione: il nastro con la registrazione del duello deve essere reso noto al pubblico subito dopo la fine dell’incontro.
— Perfetto — rispose il giornalista.
E il professore capì che era proprio quello che l’altro desiderava.
Odal se ne stava nella sua stanza-cella dell’ambasciata kerakiana, in attesa del messaggio telefonico. La camera era stretta e arredata austeramente, con mobili funzionali. Un letto, una scrivania, una sedia e uno schermo. Niente decorazioni alle pareti grigie e nude, nessuna finestra.
Kor aveva spiegato ad Odal il piano per l’eliminazione di Leoh, prima che il maggiore salisse sulla nave che doveva portarlo ad Acquatainia. Il piano non gli piaceva affatto, ma sembrava attuabile e offriva garanzie sicure per far scomparire il professore dalla scena.
All’improvviso squillò il telefono.
Odal si sporse dalla scrivania e premette l’apposito pulsante. Subito la faccia da luna piena del giornalista si formò sullo schermo.
— Be’? — disse Odal.
— Ha accettato la sfida. Il duello si svolgerà fra tre giorni. E lui vuole che venga registrato e che il nastro sia presentato al pubblico, proprio come avevate previsto voi.
— Ottimo — esclamò il maggiore, teso.
— Sentite, se proprio devo adattarmi a fare la figura del fesso su quel nastro — disse il cronista — voglio un compenso adeguato.
— Io non mi occupo dei particolari economici — rispose Odal. — Parlatene con il contabile dell’ambasciata dopo che avrete dimostrato di saper recitare a dovere la vostra parte nel duello.
— Già — fece l’altro, imbronciato. — Però la mia carriera sarà definitivamente rovinata, quando il nastro verrà dato in pasto al pubblico.
— Ce ne occuperemo noi — promise Odal. E soggiunse, tra sé e sé: E state certo che vi sistemeremo per tutto il resto della vostra vita!
Geri Dulaq uscì in fretta dall’assolato campus universitario ed entrò nell’ombra della sala alta e spaziosa dove si trovava la duellomacchina.
— Mi sembravi così preoccupato al telefono, Hector…
Lui le strinse le mani tra le sue. — E lo sono davvero. Per questo volevo parlarti. È… be’, la faccenda si ripete. Prima Ponte attacca briga col professore, e adesso quel giornalista! Tu pensavi che Ponte lavorasse per Kerak, così… insomma, voglio dire…
— Forse anche il giornalista è un venduto — terminò lei.
Hector annuì. — E, con Odal dietro le spalle, stanno complottando qualcosa.
— Dov’è il professore, adesso?
— È là — disse il tenente, indicando lo studio dietro la duellomacchina. — E non vuole essere disturbato. Credo che lavori a delle equazioni o a qualcosa di simile per le navi interstellari.
Geri parve sorpresa.
— Oh, non che sia preoccupato per il duello — spiegò Hector. — Gli ho riferito quello che mi hai raccontato su Ponte. Ma lui è convinto che ora non è più possibile manomettere gli apparecchi, ed è tranquillo. Dice che ha battuto il ministro con discreta facilità.
Geri si voltò verso la macchina massiccia. — Non sono mai entrata lì dentro. Mi fa paura — mormorò.
— Non c’è niente da temere — disse Hector, sorridendo. — È soltanto un meccanismo, e non può nuocere a nessuno.
— Lo so. È stato Odal ad assumere quei mostri che hanno ucciso mio padre, non la macchina!
La ragazza camminò lentamente lungo il banco di manovra principale, osservando tutti i dispositivi e gli interruttori e passando un dito sul bordo di plastiacciaio.
— Non potresti mostrarmi com’è?
— Cosa??? — chiese Hector sbattendo gli occhi.
— L’interno della macchina — spiegò lei. — Non può essere usata per qualcos’altro, oltre ai duelli. Mi piacerebbe sapere che cosa si prova nel vedere le proprie fantasie che si realizzano.
— Ma tu non sei… Voglio dire che nessuno può farla funzionare senza… Insomma…
— Tu sai farla funzionare, no? — disse Geri, guardandolo dritto negli occhi.
— Be’, sì — rispose lui, deglutendo a vuoto — è naturale.
— E allora perché non la usiamo noi due? Forse potremmo vivere un sogno.
Il tenente si guardò attorno e balbettò.
— Qualcuno deve stare ai comandi per controllare e registrare il duello. Voglio dire…
— Solo per pochi minuti! — Geri gli scoccò il più affascinante dei suoi sorrisi.
— Va bene — disse Hector. — Credo di poterlo fare. Solo per un attimo, però.
Accompagnò la ragazza in cabina e l’aiutò a sistemare i neurocontatti. Poi tornò al banco di manovra principale e, con mani sudate e tremanti, sistemò la macchina. Controllò due volte, girò gli ultimi interruttori e si precipitò nell’altra cabina, inciampando sulla porta e sbattendola rumorosamente. Sedette, trafficò in fretta coi neurocontatti, poi fissò lo schermo.
Non accadde niente.
Per un attimo il giovanotto si sentì prendere dal panico. Poi lo schermo cominciò a illuminarsi debolmente. I colori si fondevano in un verde morbido e fresco, venato di azzurro…
Infine Hector si ritrovò a nuotare in un mondo illuminato da una luce che filtrava, morbida, dall’alto.
— Ciao — disse Geri.
Lui le sorrise. — Salve.
— Mi ero sempre domandata che effetto facesse vivere sott’acqua, senza maschera e bombola d’ossigeno, come le sirene.
Hector vide centinaia di pesci che nuotavano pigramente lì attorno. Quando i suoi occhi si abituarono alla luce soffusa, notò anche bellissime sculture di corallo e tinte che non aveva mai visto prima.
— È il nostro castello — disse Geri, nuotando lentamente verso uno dei pinnacoli corallini e scomparendovi dentro.
Lui la seguì con la massima facilità. Sembrava che l’acqua non offrisse alcuna resistenza ai suoi movimenti. Si sentiva completamente rilassato, a suo agio. Finalmente la rivide, davanti a sé, che fluttuava con grazia e le si fermò accanto. Un grosso pesce d’argento passò loro davanti, e alghe dai colori luminosi ondeggiarono dolcemente.
— Non è bello? — mormorò la ragazza. — Un mondo tutto nostro, senza preoccupazioni, senza pericoli.
Il tenente annuì. Era difficile ricordare che si trovavano seduti in due cabine, distanti una trentina di metri una dall’altra. Difficile credere che esisteva un altro mondo dove covava una guerra, e che Odal se ne stava in attesa di compiere un altro delitto.
Una forma scura uscì da dietro le rocce che si alzavano di fronte a loro. Geri strillò.
Era Odal. Snello, vestito di nero, sembrava una maschera di morte.
— Hector, non permetterglielo! Hector, aiutami!
Tutto si oscurò.
Hector aprì gli occhi. Era seduto nella cabina accanto a Geri e la circondava con le braccia in un gesto di protezione. Lei rabbrividiva.
— Come ha fatto…
— È stata colpa mia — disse lei, senza fiato. — Ho pensato ad Odal.
La porta della cabina si spalancò. Leoh comparve sulla soglia, con un’espressione mista di sorpresa e imbarazzo.
— Cosa state facendo? Si sono spente tutte le luci e si è avuta un’interruzione di corrente in tutto l’edificio.
— Scusate — disse il tenente.
— È stata colpa mia! — chiarì Geri. E spiegò che cosa era accaduto.
— Ma perché siete qui tutt’e due nella cabina? — domandò Leoh, perplesso.
Hector cominciò a spiegare, poi un lampo gli illuminò il cervello.
— Io, io ero dall’altra parte!
— Ma la cabina è vuota — disse il professore. — Ci ho guardato dentro prima, quando è mancata la corrente. La porta era chiusa.
Il tenente guardò Geri, poi ancora Leoh. — Devo esserne balzato fuori, per precipitarmi qui. Ma, voglio dire, non ricordo di averlo fatto.
Il meditec capo entrò correndo nella sala, e il rumore dei suoi passi rimbombò sul pavimento. — Ma cosa succede, qui? Chi ha staccato la corrente?
— Tutto a posto — disse Leoh, voltandosi. — Solo un piccolo esperimento non riuscito.
L’uomo diede un’occhiata ai comandi, nella luce crepuscolare della sera, mentre Hector e la ragazza uscivano dalla cabina. Brontolò qualcosa, fulminandoli con un’occhiata.
— Sono certo che non si tratta di un danno permanente — disse Leoh, con il tono più persuasivo che riuscì a trovare.
Le luci sui pannelli di comando si riaccesero di scatto, mentre la stanza tornava a illuminarsi. — Ehm — borbottò il meditec capo. — Se non sbaglio, tutto è ancora a posto. La corrente è tornata.
— Non ci capisco niente — disse Hector.
— Neanch’io — confessò Leoh. — Ma è un problema da chiarire.
— Che cosa?
— Come ha fatto il tenente a passare da una cabina all’altra. — Poi, rivolto al meditec capo, disse forte: — Desidero vedere la registrazione di questo esperimento. Avete niente in contrario?
L’uomo stava controllando le apparecchiature con la sollecitudine aggressiva di un padre preoccupato. — Credo che non dovreste fare più simili esperimenti fino a che non avremo installato dei gruppi elettrogeni supplementari — disse. — Tutto l’edificio è rimasto al buio.
Leoh sedeva nel suo studio dietro la duellomacchina e fissava lo schermo, ora spento. In quei tre giorni aveva esaminato il nastro almeno un centinaio di volte, cronometrandolo fino al psicosecondo. Aveva visto Geri e Hector nuotare pigramente, felici, come due delfini umanizzati completamente a loro agio nel mare. Poi si presentava la forma scura da pescecane di Odal, Geri strillava di paura, la scena si interrompeva.
Era stato proprio in quel momento — nell’arco di quattro psicosecondi, secondo i calcoli del professore — che l’energia elettrica era venuta a mancare in tutto l’edificio.
Quanto ci aveva messo Hector a passare dalla sua cabina a quella di Geri? Trenta secondi? Leoh aveva guardato nella cabina del tenente circa trenta secondi dopo l’interruzione. Forse meno. Dieci? Era materialmente impossibile: nessuno poteva staccarsi dai neurocontatti e passare da un cubicolo all’altro in un tempo così breve. Tanto più che tutte e due le porte erano chiuse.
Dunque pensò il professore come ha fatto a trasferirsi da Geri? Precognizione? Si è accorto prima che Odal sarebbe comparso per spaventare la ragazza? E allora, perché non se ne ricorda? O, perlomeno, perché non ricorda di essere passato da una cabina all’altra? E perché quell’enorme assorbimento di energia? Che cos’è accaduto alla macchina, per causarlo?
Leoh vedeva una sola risposta, ma era talmente azzardata che preferiva trovarne un’altra. Quella risposta era teletrasferimento.
La duellomacchina amplificava i poteri del telepate naturale. Certi dicevano di essere in grado di spostare piccoli oggetti senza alcuno sforzo fisico evidente. La duellomacchina poteva forse amplificare anche quella capacità? E, nel farlo, assorbire tutta l’energia elettrica dell’edificio?
Leoh scosse la testa. Troppa teoria, nessun fatto. Se ci fossero state delle telecamere per la registrazione nelle cabine, si sarebbe potuto precisare il momento esatto dell’arrivo di Hector. Aveva compiuto il tragitto in quattro secondi. O in un tempo ancora minore?
La porta si aprì e comparve la figura alta e magra del tenente. Se ne stava lì, indeciso.
Leoh alzò gli occhi. — Sì?
— È l’ora… Il giornalista e i suoi padrini sono arrivati per il duello.
Seccato per l’interruzione, Leoh si alzò e si diresse verso la macchina. — Quante stupidaggini! — borbottò. — Solo una bravata pubblicitaria.
Il meditec capo, presentò i due contendenti e i rispettivi padrini. Per Leoh, soltanto Hector. Per il reporter, il direttore del suo giornale, nervoso e semicalvo, e il vicepresidente di una rete televisiva, dall’aria tranquilla e beata. Probabilmente quello ha tre esperti di dietetica e un biochimico che fanno del loro meglio per impedirgli di superare il peso disse Leoh tra sé.
Scambiate le frasi di prammatica, i duellanti entrarono nelle rispettive cabine. Hector sedette ad un’estremità della lunga panca curva e imbottita che, staccandosi dal banco di manovra, correva lungo la parete. Il direttore e il vicepresidente sedettero all’altra estremità. Eccetto i meditec, che presero il loro posto ai vari apparecchi, nella stanza non c’era nessuno. La galleria della stampa era vuota. Sui pannelli si accesero le luci, e la stanza silenziosa vibrò per il ronzio appena percettibile dell’energia elettrica.
Solo dieci minuti dopo, tutte le luci dei pannelli di comando passarono dal verde al color ambra. Il duello era terminato.
Hector si alzò di scatto e si diresse alla cabina di Leoh. Il professore uscì, sorridendo leggermente.
— Siete… è andato tutto bene? — domandò Hector.
Il reporter stava uscendo dall’altra cabina e il suo direttore allungò una mano per sorreggerlo. Pareva un grosso pezzo di pasta, bianco come un lenzuolo e scosso terribilmente.
— Manca di riflessi — commentò Leoh — e non ha alcuna idea delle più elementari leggi della fisica.
Il vicepresidente della rete televisiva si alzò e si diresse verso Leoh, tendendogli la mano e sfoderando un sorriso che metteva in mostra una dentatura imponente. — Permettete che mi congratuli con voi, professore — disse in tono corale.
Leoh gli strinse la mano, ma rispose: — Questo è stato semplicemente uno spreco di tempo, e mi sorprende che un uomo nella vostra posizione indulga in simili follie!
L’altro chinò appena la testa e rispose, piano: — Temo di avere avuto torto. I miei collaboratori mi avevano convinto che sarebbe stato opportuno compiere l’esperimento e render noti al pubblico i risultati. Avete qualcosa in contrario, se presentiamo il nastro con la registrazione sul nostro schermo tridimensionale?
— Il vostro inviato farà la figura del cretino. È stato investito da una boccia e poi, sopravvalutando le sue forze, si è rotto la schiena cercando di sollevare…
Il vicepresidente alzò entrambe le mani. — Non m’importa affatto di quello che mostrerà la pellicola. Sono deciso a renderla di dominio pubblico, se voi non avete niente in contrario.
— Per me, sono d’accordo.
— Diventerete famoso in tutto il pianeta! — esclamò l’altro. — Il vostro nome sarà familiare a chiunque. Diventerete un divo della tri-di!
— Se il nastro con la registrazione riuscirà a convincere gli acquatainiani che la duellomacchina è assolutamente sicura, sarò soddisfatto — disse Leoh. — In quanto alla fama, sono già abbastanza noto.
— Ma non al grosso pubblico. Certo, siete famoso tra gli scienziati e tra l’élite di Acquatainia e della Federazione. Ma l’uomo della strada vi ha visto solo di sfuggita qualche volta nel telegiornale. Ora, invece, diventerete popolarissimo.
— Per via di questo stupido duello? Ne dubito.
— Vedrete — promise il vicepresidente.
Il vicepresidente non aveva esagerato. Anzi, gli avvenimenti superarono le sue previsioni.
Il duello di Leoh fu trasmesso sulle reti della tridimensionale in tutto il pianeta, quella sera stessa. Prima che finisse la settimana la registrazione era stata proiettata in tutto l’Ammasso d’Acquatainia, ed era stata richiesta anche dalla Federazione Terrestre.
Per la prima volta il grosso pubblico poteva assistere a un duello, e il fatto che vi partecipasse l’inventore della famosa macchina rendeva la trasmissione due volte affascinante. La vista del reporter che cascava ingenuamente nei trabocchetti, mentre Leoh lo esortava con sollecitudine a stare attento a ogni passo, sembrò divertentissima alla maggior parte degli spettatori. Gli acquatainiani, che ormai da tanti mesi vivevano sotto la minaccia di una guerra incombente, provarono un sollievo immenso nell’assistere a quella specie di farsa: l’inventore della duellomacchina, l’uomo che aveva posto fine ai delitti di Kerak, sfoggiava la propria bravura dimostrando di poter opporre una mente superiore al dittatore Kanus.
Le cose veramente importanti, come il fatto che Leoh non aveva alcuna influenza sul governo di Martine, che Odal era tornato su Acquatainia e che le flotte da guerra di Kerak si stavano tranquillamente disponendo lungo le frontiere acquatainiane, venivano dimenticate dal cittadino medio la cui attenzione era monopolizzata dal duello di Leoh.
Il professore diventò subito popolare e fu invitato da ogni università dell’Ammasso. Le reti della tridimensionale si disputavano l’onore della sua presenza, e i reporter seguivano ogni sua mossa.
Il vecchio scienziato cercò di resistere a quelle pressioni e, per tutta la settimana che seguì la prima proiezione del duello sulle reti televisive, rifiutò di fare qualsiasi dichiarazione pubblica.
— Dite che sono occupato — rispondeva a Hector, barricandosi dietro le sue equazioni e i nastri del computer, nell’ufficio silenzioso presso la duellomacchina.
Ma quando le università cominciarono a insistere, si arrese. E, prima che potesse rendersene conto, si trovò travolto da una marea vertiginosa di visite personali, interviste e ricevimenti in suo onore.
— Forse — disse a Hector — questo è il modo migliore per avvicinare persone che hanno influenza sul governo di Martine. Forse riuscirò a convincerle a prendere in considerazione la possibilità di un’alleanza con la Federazione e a usare la loro influenza su Martine.
A tutte le feste, nelle riunioni private e durante le conferenze stampa, Leoh sottolineava quel punto, senza tuttavia ottenere alcun successo. Studenti, professori, giornalisti, spettatori della tri-di volevano divertirsi, non parlare di politica. Volevano essere certi che tutto andasse bene e non essere obbligati a pensare ai propri guai o al modo di difendersi.
Nelle università, le conferenze di Leoh ebbero un successo enorme. Lui si era aspettato di parlare soltanto agli studenti di psiconica, ma ogni volta la sala era traboccante di giovani iscritti a tutte le facoltà: scienze politiche, fisica, matematica, sociologia, psichiatria… Migliaia di persone.
E in ogni università c’erano i giornalisti locali, gli inviati della tri-di e le discussioni di gruppo. E, la sera, ricevimenti di facoltà. E le visite in forma privata ai seminari studenteschi nel tardo pomeriggio. E non mancava il cronista che faceva una capatina per dirgli soltanto due parole alla prima colazione.
Leoh impiegò più di due mesi per fare il giro di tutte le università dell’Ammasso. Prima cercava di dedicare qualche momento della giornata alla soluzione del problema del balzo di Hector da una cabina all’altra. Ma ogni mattina si svegliava più stanco, ogni giorno aumentava il numero delle persone che volevano parlargli e che lo ascoltavano rispettosamente, piene di ammirazione. Si ritirava ogni sera più tardi, felice ed esausto. Ma ogni sera qualcosa gli diceva che bisognava piantarla con quella storia e tornare alla scienza.
Hector si sentiva molto preoccupato, pur continuando a seguire il professore da un campus all’altro. Il vecchio si divertiva moltissimo, ma sprecava troppe forze viaggiando continuamente, facendo conferenze e comparendo a tutti i ricevimenti in suo onore. E, quel che più contava, Geri era rimasta nella capitale e tutte le altre ragazze delle varie università dell’Ammasso non riuscivano a sostituirla agli occhi del tenente.
Oltre al resto, Leoh affrontò altri due duelli.
Il primo fu contro uno studente della facoltà di fisica, che aveva scommesso con gli amici che sarebbe riuscito a battere il professore. Leoh acconsentì di buon grado all’incontro, purché il ragazzo fosse disposto a permettere che la registrazione venisse poi trasmessa in tridimensionale. L’altro acconsentì.
Invece della semplice fisica, Leoh scelse un campo di battaglia più complesso: lo spazio compreso nel potente campo gravitazionale di una stella quasi spenta. I contendenti duellavano in veicoli spaziali monoposto, usando come armi i raggi-laser. Una difficoltà consisteva nel mantenere il controllo dei veicolo in un campo gravitazionale così tenace che il più piccolo sbaglio si sarebbe risolto inevitabilmente in una caduta a spirale sulla superficie della stella. L’altra difficoltà stava nel mirare correttamente con i raggi-laser dato che, nello spazio, le più elementari leggi fisiche andavano a farsi benedire.
Il ragazzo si mostrò coraggioso, mentre le due navicelle giravano intorno alla stella morente. La registrazione mostrava alternativamente il panorama visibile da ciascuna di esse. Si potevano ammirare le nere profondità dello spazio, completamente vuoto tranne per i minuscoli puntolini delle stelle lontane, oppure la mezzaluna ricurva del veicolo avversario, che passava rasente, col sottile raggio luminoso del laser che sprizzava improvviso, curvandosi stranamente in cerca del bersaglio in quel pazzesco campo gravitazionale. Poi appariva l’inferno azzurrognolo della stella, splendente, brillante, che cancellava alla vista tutto il resto.
Il ragazzo si batté bene, ma infine si avvicinò troppo all’astro. Se fosse stato più padrone del veicolo, forse se la sarebbe cavata. Invece finì a tutta velocità sulla superficie fiammeggiante… I responsabili della trasmissione in tridimensionale decisero di eliminare gli urli finali del disgraziato, prima che la registrazione fosse presentata al pubblico.
La seconda sfida venne da un mercante acquatainiano, uno degli uomini più ricchi dell’Ammasso, che aveva bevuto troppo a una festa e attaccato briga con Leoh. Il professore tornò alla semplice sica e si sbarazzò di lui con la solita facilità.
Quando Leoh ed Hector tornarono alla capitale, il professore era diventato ormai il beniamino della società acquatainiana. Lo festeggiarono, fecero brindisi in suo onore, lo portarono all’opera, pensarono a tutto tranne che a permettergli di lavorare. Per fortuna, Geri faceva parte della élite della società di Acquatainia, e così Hector riuscì almeno a vederla… ma soltanto in saloni affollati e rumorosi.
Odal, tesissimo, era sull’unica seggiola della sua stanza e guardava la testa a palla di Kor, visibile sullo schermo, mentre il ministro dei Servizi Segreti diceva: — Finora il piano si è svolto felicemente. Non solo Leoh non ci è stato d’impaccio, ma le sue imprese hanno distratto la maggior parte degli acquatainiani. Nel frattempo i preparativi continuano.
— L’invasione — mormorò Odal.
Kor sorrise. — Abbiamo, per così dire, persuaso il governo del Dominio di Etra a permetterci di far sostare la nostra flotta da guerra nel suo territorio. Etra si trova tra l’Ammasso d’Acquatainia e le vicine basi della Guardia Spaziale. Se la Federazione cercherà di intervenire, potremo tenerle testa quanto basta per permetterci di conquistare Acquatainia.
Odal annuì brevemente: conosceva il piano.
— Ora è giunto il momento — continuò Kor — che voi facciate il passo finale: dovete eliminare Leoh e distrarre gli acquatainiani.
Il maggiore non disse niente. — So che non vi piace la parte che vi è stata affidata — riprese Kor. — No, non scomodatevi a negarlo, ve lo lego in faccia. Lasciatemi però ricordarvi che, anche se il vostro dovere può non essere piacevole, in caso di successo la ricompensa sarà alta.
— Farò il mio dovere, spiacevole o no — rispose Odal, seccamente. Poi soggiunse, tra sé: E conosco la pena, se dovessi fallire!
Al ritorno dal ricevimento, Hector notò che il professore era stremato dalla fatica. Quella mattina, all’università, avevano inaugurato un padiglione della facoltà di psiconica: il Centro di Ricerche Psiconiche Alberi Robertus Leoh.
La giornata era trascorsa fra i discorsi tenuti su un palco all’aperto, al mattino, un giro nel nuovo padiglione, nel pomeriggio, il pranzo col rettore e i membri del consiglio di amministrazione dell’università e l’inevitabile ricevimento, la sera.
Uscendo dall’ascensore e infilando il corridoio che portava al suo appartamento, Leoh disse al tenente: — Devo assolutamente trovare il tempo per fare degli esperimenti sul vostro balzo. Possiamo servirci del nastro di…
Ma Hector non lo ascoltava, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. Era aperta e le luci erano accese.
— Un altro corrispondente, ci scommetto — disse Leoh, stanco.
— Adesso gli dico di tornare un’altra volta — rispose il giovanotto. E precedette il professore verso la porta.
Seduto sul divano ad aria, al centro del soggiorno, c’era Odal.
— Voi!
Il maggiore si alzò sorridendo con ironia, mentre prima Hector e poi Leoh entravano e si fermavano interdetti.
— Buona sera — disse Odal. — Entrate pure. Dopo tutto, siete in casa vostra.
— Come siete potuto entrare?
— Be’, non è stato difficile. Sono qui, per sistemare un affare lasciato in sospeso. Professore, qualche tempo fa mi accusaste i essermi servito della macchina in modo sleale. Stavo per sfidarvi, quando è intervenuta la vostra guardia del corpo. Vi sfido ora.
— Ehi, aspettate — cominciò Hector. — Non potete…
— Già fatto. Professore, accettate la mia sfida?
Leoh se ne stava a tre passi di distanza dalla porta, immobile e silenzioso.
— Permettetemi di ricordarvi — disse Odal con calma — che ormai avete dimostrato largamente agli acquatainiani che la vostra macchina è innocua e sicura. La manomissione della duellomacchina è ormai assolutamente impossibile. Sono parole di uno dei vostri numerosi discorsi alla tri-di. Se però rifiutate di battervi con me, sembrerà che voi pensiate che la macchina non è poi tanto sicura… quando l’avversario sono io.
— E, naturalmente, vi incarichereste di rendere noto pubblicamente il mio rifiuto — concluse Leoh.
Odal annuì, sorridendo. — Voi siete molto famoso. Sono certo che la notizia si spargerebbe immediatamente.
— Non accettate professore — disse Hector. — È un trabocchetto. Non accettate di battervi con lui. Io…
— Voi, tenente, mi avete già sconfitto una volta — disse Odal, mentre il sorriso spariva. — Non potete chiedermi di battervi ancora con voi. Sarebbe sleale.
— Accetto la sfida — rispose Leoh — se però acconsentirete a mostrarne pubblicamente la registrazione.
— Benissimo — disse il maggiore. — Ci incontreremo fra tre giorni, come è consuetudine.
— Facciamo una settimana — disse Hector. — Dateci la possibilità di controllare la macchina e di assicurarci che…
— Assicurarvi che i mostri di Kerak non l’abbiamo manomessa? — Odal rise. — Benissimo, una settimana da oggi.
Si diresse alla porta, passando tra Hector e Leoh, e se ne andò. L’uscio si richiuse alle sue spalle.
Hector staccò lo sguardo dalla porta chiusa e lo posò su Leoh. — Non avreste dovuto accettare. C’è sotto un trucco, lo so.
Il professore aveva l’aria assorta. — Ah, sì? Oppure Odal… o Kanus, o qualcun altro, si trovano alla disperazione? Ho saputo dimostrare al popolo acquatainiano che non c’è mente di pericoloso nella duellomacchina. Potrebbero ricominciare a vederci il simbolo del terrore.
Hector scosse la testa.
— Ma io batterò Odal in un duello leale — proseguì Leoh. — In fin dei conti finora li ho vinti tutti, no? E voi avete battuto Odal. Se l’è cavata soltanto quando ha ricevuto aiuto dall’esterno. Sono certo di farcela. Sinceramente, ne sono convinto.
Hector non rispose e si limitò a guardare il vecchio con aria incredula.
Il padiglione che ospitava la duellomacchina era circondato da una grande folla di gente e il mormorio giungeva fino dentro la sala, di solito molto silenziosa. La galleria riservata alla stampa, in alto sopra la macchina, era stipata di giornalisti.
Per tutto il week-end, la tri-di aveva pubblicizzato senza sosta il duello Leoh-Odal: il bene contro il male. Risultato fortemente dubbio: il professore vecchio e grasso contro il killer di professione, snello e scattante.
Hector e Leoh se ne stavano in piedi davanti alla macchina, mentre i meditec si affaccendavano a ultimare i controlli finali. Sull’altro lato della sala erano sistemate alcune file di sedili per i membri del governo, i capi di gruppi sociali, gli uomini d’arme, i poliziotti e un piccolo contingente di addetti all’ambasciata di Kerak. Geri Dulaq sedeva in prima fila, vicino alla sedia vuota riservata ad Hector.
— Non mi va, questa storia. Non mi va — sussurrò il tenente a Leoh.
Percorrendo con lo sguardo la sala dove gli spettatori attendevano nervosi e i meditec si affaccendavano intorno alle attrezzature, Leoh rispose: — Calmatevi, ragazzo mio. Abbiamo controllato tutto minuziosamente. Il peggio che mi può capitare è di essere sconfitto. Alla più piccola irregolarità medica, la macchina si arresterà automaticamente. E inoltre, sono ancora convinto di riuscire a batterlo. Sceglierò ancora l’ambiente che ho usato nell’incontro con quello studente universitario. Non può sopraffarmi, lì.
Dalla folla riunita all’esterno si alzò un urlo.
— Ecco che arriva — disse Hector.
Le porte principali si aprirono. In mezzo a due file di poliziotti in divisa comparvero Odal e i due secondi, tutti nell’uniforme azzurra di Kerak. Odal si ripuliva nervosamente la tunica.
— Evidentemente — osservò Leoh — l’immunità diplomatica non basta a proteggerlo dalla folla.
Le presentazioni, i controlli medici, le istruzioni, la scelta dell’arma e dell’ambiente, sembrarono richiedere ore invece che minuti. Finalmente tutto finì e Hector si diresse al suo posto.
Sedette accanto a Geri, mentre Leoh e Odal entravano nelle rispettive cabine. Vide i meditec disporsi ai banchi di manovra e le luci dei pannelli perdere il color ambra e farsi verdi. Il duello era cominciato.
La folla si agitò, inquieta. Un mormorio riempiva tutta la stanza. Non c’era altro da fare che attendere.
Geri si appoggiò al suo braccio e domandò con dolcezza: — Hai portato una pistola?
— Eh? Per cosa?
— Per Odal — bisbigliò lei. — Ne ho una piccola in borsetta.
— Ma, ma…
— Me l’hai promesso! — Il bisbiglio era quasi aspro, ora.
— Lo so, ma non qui. C’è troppa gente. Se si incomincia a sparare, qualcuno potrebbe rimanere ferito.
Lei ci pensò un momento. — Forse hai ragione — disse. — Però, se uccide il professore là dentro, uscirà di qui, salirà a bordo di una nave di Kerak e non lo rivedremo mai più.
Hector non trovò una risposta e se ne stette lì seduto, al colmo della desolazione.
Rimasero in silenzio. Quando il tempo massimo fu scaduto, tutte le luci della macchina si fecero color ambra. Dalla folla partì un sospiro di sollievo. Hector si lanciò verso la cabina di Leoh, mentre i secondi di Odal si dirigevano a quella del maggiore.
Il professore uscì dalla cabina con aria pensosa.
— State bene? — domandò Hector.
— Cosa? Sì, bene, grazie. Ci siamo battuti secondo le regole. — Lanciò un’occhiata ad Odal che sorrideva, gelido, calmo e sicuro, poi soggiunse: — Si è battuto bene, benissimo. Un paio di volte ho creduto che mi finisse. E non l’ho mai messo veramente nei guai.
Il meditec capo stava facendo cenno ai due contendenti di avvicinarsi al banco di manovra principale. Il tenente vi accompagnò il professore.
— La prima ripresa del duello è terminata con un pareggio — disse l’uomo. — Ora potete scegliere tutt’e due se ritirarvi per un giorno o continuare adesso.
— Io voglio continuare — disse Odal, senza esitazioni.
Leoh annuì. — Anch’io.
— Benissimo — disse il meditec capo. Poi, rivolto a Odal, aggiunse: — Avete la scelta dell’ambiente e dell’arma. Sono necessarie spiegazioni particolari?
Il maggiore scosse la testa. — Sapete guidare un’auto, professore? — Al cenno affermativo di Leoh, dichiarò: — Non occorre sapere altro.
Leoh si ritrovò seduto al volante di una lucente automobile blu. Tettuccio di plastica trasparente, sedili imbottiti, motore pulsante in un cofano dalle linee aerodinamiche.
Davanti a lui si allungava una strada che, dritta come una freccia, andava a perdersi all’orizzonte, dove le montagne azzurrine con le cime dentellate si alzavano contro il cielo giallastro. L’auto era ferma a lato della strada, in folle. Il paesaggio tutt’attorno ricordava un deserto squallido, piatto, anonimo, senza una nube e caldissimo.
Dalla radio inserita nel cruscotto, uscì la voce di Odal. — Io sono fermo a cinque chilometri da voi, professore. Lanciatevi e vi seguirò. Queste auto hanno ruote, non cuscini d’aria, e non possiedono paraurti magnetici né comandi elettronici che vi tengano agganciato al piano stradale. Tra qualche chilometro, quando la strada si inerpicherà sulle montagne, il percorso diventerà molto interessante. Naturalmente, lo scopo di questa corsa è di schiantare l’auto dell’avversario. Ma se riuscirete a non farvi sorpassare da me per mezz’ora, vi riconoscerò vincitore.
Leoh lanciò un’occhiata ai comandi, toccò un pulsante e diede un colpo di acceleratore. La turbina ronfò dolcemente e il veicolo si lanciò sulla strada, raggiungendo in pochi secondi la velocità di centocinquanta chilometri l’ora. Sullo schermo del retrovisore Leoh vide un’auto rossa, identica alla sua tranne nel colore, a circa dieci lunghezze di distanza.
— Vi lascio provare per un po’ l’ebbrezza della velocità, fino a che resteremo sul rettilineo — disse la voce di Odal attraverso la radio. — Il gioco comincerà sul serio quando arriveremo in montagna.
Leoh si accorse che ormai la strada cominciava a salire. Una salita dolce, ma, data la velocità, le due macchine si trovarono presto molto alte sopra la pianura deserta. Le montagne non erano più solo delle pieghe azzurre lontane, ma torreggiavano imponenti, nude, sparse di arbusti bassi e di macchie d’erba.
Leoh si accorse all’ultimo momento della prima curva, tanto gli si parò davanti inaspettata. La tagliò abilmente, schiacciò il freno e la superò sbandando leggermente.
— Cominciamo male — rise Odal.
Ora l’auto rossa era appena dietro il parafango sinistro di quella di Leoh e la spingeva contro una sporgenza rocciosa, sul lato destro della strada. Il professore sentiva il tamburellare dei ciottoli che schizzavano contro le lamiere del fondo, con un rumore così forte da superare il fremito delle due turbine. Sull’altro lato della strada c’era uno strapiombo a picco sul deserto. E la salita continuava.
Leoh si teneva a destra e Odal gli si era praticamente affiancato. All’improvviso, le montagne sparirono; un ponte, gettato arditamente fra due picchi, comparve davanti ai contendenti. Leoh ebbe l’impressione che il ponte gli balzasse addosso. Cercò di riportarsi al centro del piano stradale, ma Odal gli si accostò di più, fin quasi a sfiorare la macchina. Il volante sfuggì di mano a Leoh e cominciò a girare pazzamente. L’auto slittò verso la parete rocciosa. Il professore riprese il controllo del veicolo e si trovò sul ponte, mentre i cavi a cui questo era sospeso gli sfrecciavano accanto, fischiando. Leoh, madido di sudore, teneva le mani contratte sul volante.
Adesso Odal era passato in testa. Deve avermi superato quando ho slittato si disse Leoh. L’auto rossa viaggiava con estrema sicurezza, e Odal agitò una mano in segno di saluto.
Al di là del ponte la strada presentava una serie di curve strettissime, di salite e discese. Le salite erano ripide, le curve pericolosissime e, a volte, il piano stradale si restringeva tanto che due auto sarebbero passate a malapena. Spesso, su entrambi i lati, si ergevano grandi massi rocciosi. Quasi sempre, però, da una parte c’era una scarpata che scendeva a picco per mille metri e più.
Odal rallentò, scartò, frenò di colpo e le due macchine urtarono una contro l’altra, con violenza tale da rompere le ossa agli occupanti. Il maggiore tentò di mandare Leoh fuori strada, ma questi si aggrappò al volante, lottando disperatamente per mantenere il controllo dell’auto e, con sommo orrore, si accorse presto che non poteva neppure diminuire la velocità della macchina! Questa non rallentava al di sotto dei settantacinque all’ora.
— Volete fermarvi a godere la vista? — gli strillò Odal, urtandolo di nuovo e mandandolo pericolosamente vicino all’orlo del precipizio.
Leoh premette l’acceleratore con tutte le sue forze, e l’auto fece un balzo in avanti, superando il maggiore e lasciandolo, momentaneamente, avvolto in un nugolo di polvere.
— Ah! Ah! Ora la tartaruga diventa lepre! — E l’auto rossa sfrecciò all’inseguimento.
Si vedeva un tunnel, in distanza. Leoh cercò disperatamente di raggiungerlo, pregando il Cielo che fosse abbastanza lungo e stretto da permettergli di restare in testa a Odal. Il tempo sta per finire. Dobbiamo essere agli sgoccioli! Tenere il volante con le mani sudate era diventato un supplizio. La schiena e la testa gli dolevano, il cuore batteva all’impazzata.
La galleria era lunga, diritta e soprattutto strettissima. Pieno di speranza, Leoh si tenne al centro, premendo al massimo l’acceleratore. Le pareti del tunnel passavano in un baleno e il rumore della turbina riecheggiava contro la volta rocciosa.
Ora l’auto rossa era vicinissima e tentava il sorpasso. Leoh deviò leggermente a sinistra per bloccarla e l’altra si spostò a destra. Allora Leoh curvò da quella parte e Odal si buttò a sinistra.
Non devo assolutamente lasciarlo passare! Il tempo sta certo per scadere. Il maggiore insisteva sulla sinistra e anche Leoh si spostò, tenendo duro. Ma l’altro non mollava: era uscito dal piano stradale e viaggiava con le ruote di sinistra sulla parete ricurva del tunnel. Il professore poggiò sempre più da quella parte e Odal arrampicò sempre più sulla parete, sfiorando quasi il parafango del rivale.
Guardando nel retrovisore, Leoh vedeva la faccia del suo avversario livida e contratta in un’espressione dì determinazione incrollabile. L’auto rossa parve salire fino a metà parete e…
E a un tratto si rovesciò, completamente impazzita, andando a fracassarsi sul piano stradale ed esplodendo in una cascata di scintille, con uno spostamento d’aria che per poco non fece perdere a Leoh il controllo della sua vettura.
Lo scienziato si ritrovò seduto nella cabina della duellomacchina, davanti allo schermo di un grigio monotono, col corpo madido di sudore e le mani contratte su un volante immaginario.
La porta si spalancò e Hector sbirciò nell’interno, con aria preoccupata.
— State bene?
Leoh lasciò cadere le braccia in grembo e si rilassò.
— L’ho battuto! — disse. — Ho battuto Odal!
Uscirono dalla cabina. Leoh era sorridente, e il maggiore Odal, all’estremità opposta della macchina, era di un pallore mortale. La folla, impietrita, non osava credere ai propri occhi.
Il meditec capo si schiarì la gola e disse forte: — Il professor Leoh ha vinto!
La folla esplose in un urlo che fece tremare la sala. Tutti balzarono in piedi, si accalcarono intorno alla macchina e sollevarono Leoh e Hector sulle spalle. Più di tutti urlava il meditec capo, in camice bianco. Fuori la folla applaudiva fragorosamente.
Nel giro di pochi minuti, nella sala non rimase più nessuno, a parte alcuni poliziotti in divisa, Odal e i suoi secondi.
— Vi fidate a uscire, adesso? — domandò uno dei militari che, come Odal, aveva i gradi di maggiore.
Odal si rilassò un poco. — Ma certo.
I tre uomini lasciarono l’edificio, diretti a un’auto in attesa. — Avete affrontato la morte con coraggio — disse l’altro militare, un colonnello.
— Grazie. — Odal riuscì perfino a sorridere. — Però non è come essere uccisi dal nemico. Comunque mi ero impegnato in una missione suicida che ho portato a termine.
— Io… Be’, hai visto che cosa è successo — disse Hector a Geri. — Come si poteva fare qualcosa, in quella calca?
Se ne stavano seduti insieme, in un ristorante vicino allo studio tri-di, dove Leoh veniva festeggiato da una deputazione dei cittadini più importanti di Acquatainia.
La ragazza infilzò un boccone con la forchetta. — Forse non avrai più occasioni di ammazzarlo — disse. — Probabilmente, in questo preciso momento, sta tornandosene a Kerak.
— Be’, può anche darsi. Ma l’assassinio non è un bene!
— Non sarebbe un assassinio — disse lei, gelida, guardando fissa nel suo piatto. — Sarebbe un’esecuzione. Odal merita di morire. E se non lo fai tu, ci sarà qualcun altro disposto ad accontentarmi.
— Geri, io…
— Se mi amassi davvero, l’avresti già fatto. — Era sul punto di scoppiare in lacrime.
— Ma…
— Me l’avevi promesso!
Hector curvò le spalle, sconfitto. — Va bene, non piangere. Io… troverò una soluzione.
Odal sedeva nell’ufficio dell’ambasciatore di Kerak, che si era ritirato discretamente non appena era giunta la comunicazione con Kor.
Il maggiore se ne stava seduto dietro un’enorme scrivania, piazzato comodamente nella soffice poltroncina girevole imbottita. A un tratto lo scherno, che occupava tutta la parete in fondo alla stanza, sembrò dissolversi e apparve lo studio di Kor, in penombra. Il ministro dei Servizi Segreti guardò Odal per qualche istante e poi disse: — Mi sembrate sollevato.
— Ho compiuto felicemente una missione spiacevole — disse il maggiore.
— Lo so. Ora Leoh sta facendo in pieno il nostro gioco. Gli acquatainiani lo considerano il loro salvatore e la paura che provavano per il maggiore Par Odal è scomparsa. E con questa, anche la paura di Kerak. Associano Leoh con l’idea di salvezza e vittoria. E mentre brinderanno alla sua salute e ascolteranno i suoi discorsi pomposi, noi li colpiremo!
Anche se il ministro era presente nella stanza solo in immagine, Odal capì benissimo che cosa aveva in mente: prigioni più grandi, un maggior numero di prigionieri e celle d’inquisizione piene di gente terrorizzata e impotente che strisciava solo a sentire il nome di Kor.
— Adesso — continuò il ministro — vi aspettano nuovi doveri, maggiore. Non spiacevoli come il suicidio, però. E questi dovranno essere svolti qui a Kerak.
— Non desidero affatto ricominciare a interrogare altri ufficiali dell’esercito — rispose Odal, pacatamente.
— Me ne rendo conto — rispose Kor, aggrottando i sopraccigli. — Quella fase della nostra investigazione ormai è terminata. Ma ci sono altri gruppi di persone che vanno interrogati: voi, certamente, non avrete niente in contrario ad interrogare diplomatici… membri del Ministero degli Esteri.
La gente di Romis? pensò Odal. Ma quello è matto. Romis non sopporterà mai di vedere arrestare i suoi seguaci.
— Sì, Romis — rispose Kor, come se avesse letto nei pensieri del maggiore. — E chi altri avrebbe lo stupido orgoglio di capeggiare complotti contro il Duce?
O meglio, l’intelligenza… pensò Odal. Poi disse, forte: — Quando dovrò tornare a Kerak?
— Una nave sarà pronta per voi domattina.
Odal annuì. Allora mi resta solo stanotte per scovare il tenente e schiacciarlo disse tra sé.
Hector camminava su e giù nervosamente per la stretta cabina di controllo dello studio tri-di. Tecnici e direttori se ne stavano chini sopra monitor e dispositivi elettronici e, dietro a loro, nella penombra della cabina illuminata malamente, c’era una folla di spettatori che Hector urtava di continuo.
Oltre la parete a vetri della cabina, vi era lo studio ben illuminato dove Leoh sedeva in compagnia di una dozzina di giornalisti importanti e di filosofi politici di Acquatainia.
Il vecchio aveva l’aria stanca, ma compiaciuta. Lo spettacolo era cominciato proiettando la registrazione del duello con Odal. Poi i membri della deputazione avevano cominciato a porgli domande sull’incontro, sulla macchina stessa, sulla sua carriera scientifica e sulla sua vita in genere.
Il tenente girò lo sguardo dallo studio verso il pubblico di spettatori raccolti nella penombra della cabina di controllo. Geri era ancora lì, nell’angolo più lontano, schiacciata tra un vecchio uomo politico e una signora molto vistosa. Era ancora imbronciata, e Hector voltò la faccia, prima che la ragazza si accorgesse che la stava guardando.
— Sembra ormai certo — diceva uno dei dotti personaggi politici nello studio — che Kanus non è più in grado di spaventarci con la duellomacchina. E, senza la paura, Kanus non è pericoloso neanche la metà di quanto si credeva.
— Non sono d’accordo — rispose Leoh, spostando la sua mole nella poltrona apparentemente fragile. — Kerak ha fatto grandi passi nell’isolare Acquatainia diplomaticamente…
— Ma noi non siamo mai dipesi dai nostri vicini per difenderci — ribatté il corrispondente di un giornale. — I nostri cosiddetti alleati, più che un aiuto erano una pompa che aspirava le nostre ricchezze.
— Ma ora Kerak possiede la base industriale di Szarno e avamposti che fiancheggiano la nuova linea di difesa del primo ministro Martine.
— Kerak non oserebbe mai attaccarci e, se anche lo facesse, lo sconfiggeremmo come la prima volta.
— Ma un’alleanza con la Federazione…
— Non ne abbiamo bisogno. Kanus è una tigre di carta, datemi retta. Bluff, trucchi con la duellomacchina, ma nessuna potenza reale. Probabilmente verrà deposto dalla sua stessa gente, tra un anno o due.
Qualcosa fece alzare gli occhi a Hector dal semicerchio di retori sapienti e attrasse il suo sguardo in direzione del gruppo di tecnici che lavoravano alle telecamere e alle luci laser nella pozza d’ombra in fondo allo studio, dove si scorgeva la figura eretta di un uomo alto e snello. Il tenente non poté vederne la faccia, né l’abito, né il colore dei capelli. Notò soltanto il profilo, che ricordava la sagoma di un coltello e che emanava un’aura di pericolo: era Odal.
Senza pensarci due volte, Hector si fece largo tra la gente raccolta nella cabina e si avviò alla porta di questa. Nella fretta, pestò molti piedi dei vicini e infilò i gomiti nella schiena e nella testa dei tecnici, sollevando un coro di brontolii e di proteste. Passò davanti a Geri, che si tirò da parte ma non gli disse niente, né lo guardò dritto negli occhi.
La porta della cabina si apriva in una piccola anticamera con altre due porte: una dava nel corridoio esterno, l’altra nello studio. Una guardia in uniforme stava davanti a quest’ultima.
— Spiacente, signore, ma non si può passare durante la proiezione.
— Ma ho visto qualcuno entrare in fondo allo studio…
La guardia strinse le spalle. — Sarà un tecnico. Non può entrare nessuno.
Hector, allora, uscì nel corridoio esterno che, secondo le sue previsioni, doveva girare intorno allo studio. Lo percorse cautamente e vide un’altra porta, con una luce rossa ammiccante in cima e una targhetta con la scritta STUDIO C. Hector la spalancò. Dentro, in mezzo a un cerchio di luci e di telecamere, un uomo e una donna erano avvinti in un abbraccio appassionato.
— Ehi! Chi ha aperto?
— Taglia! Taglia! Mandate fuori quell’idiota. Non si può neanche girare una scena evitando che i turisti ficchino il naso nello studio?
Hector richiuse in fretta, interrompendo un fuoco di fila di invettive che avrebbero fatto sorridere con ammirazione il suo vecchio istruttore all’Accademia della Guardia Spaziale.
In quale studio sarà?
Quasi in risposta alla sua domanda inespressa, si aprì un’altra porta e Odal ne uscì. Non indossava l’uniforme, ma una semplice tunica scura e pantaloni sportivi. Però era lui, senza possibilità di dubbio. Rivolse al tenente un sorriso ironico, poi cominciò a dirigersi nella direzione opposta. Hector lo inseguì, ma il maggiore scomparve dietro una svolta del corridoio tutto uguale.
Giù, in fondo, una porta stava richiudendosi. Il tenente la raggiunse, la spalancò e si trovò sull’ingresso di una stanza buia. Entrò.
Alla debole luce proveniente dall’esterno, Hector vide file e file di enormi video tridimensionali, ciascuno con accanto il proprio tavolo, i relativi quadri di comando e l’attrezzatura di controllo. Un locale dove si visionano le registrazioni pensò. O, forse, una redazione.
Avanzò, esitante, verso il centro della stanza. Era grande, ma piena di schermi e di tavoli ingombranti. Adattissima per nascondersi. La porta si richiuse sbattendo alle sue spalle, facendo piombare il locale nelle tenebre.
Il tenente si sentì gelare. Odal era lì dentro, e lo sentiva. A poco a poco, i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Si voltò lentamente per tornare indietro, verso la porta. Ma inciampò in una seggiola e la mandò a sbattere contro la scrivania vicina.
Ad un tratto la voce di Odal echeggiò, calma, nella stanza: — Mi avete sconfitto nella duellomacchina — disse — ora fatemi vedere se sapete battervi anche nella vita reale. Questa camera è isolata acusticamente. Siamo soli. Nessuno verrà a disturbarci.
— Ma io sono disarmato — disse Hector. Era difficile individuare da che punto arrivasse la voce del maggiore. L’eco rendeva impossibile localizzarne la provenienza.
— Anch’io sono disarmato. Ma tutti e due siamo allenati alla lotta. Senza dubbio, alla Guardia Spaziale vi hanno insegnato la lotta libera.
Il ricordo penoso di quei corsi all’Accademia della Guardia Spaziale riempì la mente di Hector. Il tenente si rivedeva steso per terra, sulla schiena, con l’istruttore sopra che gridava rabbiosamente: — No, no, no! Così non va!
Odal sbucò da dietro un enorme schermo. — Sembrate meno impaziente di me di combattere — disse. — Forse temete di farmi male. Aspettate che vi mostri cosa so fare.
Tirò un calcio ad una seggiola e la mandò a fracassarsi sulla plastica resistente del video. Poi gettò un fermacarte addosso a un tavolo metallico, che si incrinò con uno schianto.
Hector indietreggiò, finché sentì il contatto duro di un altro tavolo contro le gambe. Guardò dietro di sé, e vide che doveva trattarsi di una specie di apparecchio di comando principale, pieno di interruttori complicati e di monitor. Parecchie sedie a rotelle erano allineate lungo quell’affare complicatissimo.
Odal gli veniva incontro. Una voce interna gridò ad Hector di fuggire e di nascondersi, ma poi il tenente sentì la voce rabbiosa del suo antico istruttore che insisteva: La migliore difesa è un attacco rapido, aggressivo. Hector respiro profondamente, piantò i piedi in terra, e si lanciò sul maggiore.
Un attimo dopo si sentì alzare, piombò sul tavolo e andò a urtare contro le file di interruttori e pulsanti.
CERCATE IL PARADISO IDEALE PER TRASCORRERE LE VACANZE? tuonò un vocione, inaspettatamente. E, alle spalle di Odal, una ragazza in tuta spaziale trasparente si lanciò in caduta libera. Hector sbatté gli occhi e il maggiore sbirciò dietro di sé, stupefatto. La voce continuò: UNITEVI ALL’ALLEGRA COMPAGNIA DELL’ALBERGO ORBITA. IL PIÙ MODERNO LUOGO DI VILLEGGIATURA A GRAVITÀ-ZERO DI ACQUATAINIA…
Un’altra massima del suo vecchio istruttore attraversò la mente di Hector. Quando è possibile. bisogna distrarre l’attenzione dell’avversario. Creare confusione, finte, stratagemmi.
Il tenente si precipitò lungo l’apparecchio di comando principale, girando ogni interruttore che gli capitava di incontrare.
… STANCO DI ESSERE CHIAMATO PICCOLETTO? Un giovane scontento, ritto in punta di piedi vicino ad una rossa statuaria e vistosissima, comparve accanto a Odal. Involontariamente il maggiore kerakiano fece un passo indietro.
UN PROFUMO IRRESISTIBILE! sussurrò una bionda seducente, materializzandoglisi all’improvviso davanti.
LA SCIENZA MODERNA PUÒ CURARE QUALSIASI MALATTIA, MA QUANDO VI SENTITE IMBARAZZATI… disse un medico, che irradiava sincerità e preoccupazione da tutti i pori.
Odal era circondato da sketch pubblicitari tridimensionali, dall’aria solida e a grandezza naturale.
QUANDO AVETE MANGIATO PIÙ DEL NECESSARIO…
LA TENSIONE QUOTIDIANA DELLA VITA MODERNA…
PER L’ULTIMO GRIDO NELLA MODA FEMMINILE…
Con gli occhi che gli schizzavano dalle orbite, il maggiore si vide sbarrare il passo da una ballerina di dieci anni, da una madre di famiglia di classe media, da un marito preoccupato, da un uomo d’affari ansioso, da una coppia di ragazzi sorridenti, da una folla di bagnanti che si esibivano tra le onde e da un coro di verdure animate. Latrando rabbiosamente, Odal si tuffò in mezzo alle figure supplichevoli, carezzevoli, pressanti e si lanciò sull’apparecchio di comando.
— Non riuscirete a nascondervi! — urlò, e cominciò a colpire tutti gli interruttori, tempestando i quadri con entrambi i pugni.
— E chi si nasconde? — gridò Hector, alle sue spalle.
Odal si voltò di scatto e, allibito, vide il suo pugno passare attraverso la guancia impalpabile di una bella ragazza in costume da bagno succinto. Lei gli sorrise e continuò a parlare. … E QUANDO AVETE VOGLIA DI QUALCOSA VERAMENTE RINFRESCANTE…
Hector era scomparso di nuovo. Il maggiore si voltò e riprese l’inseguimento, cercando di tener dietro al tenente che ricompariva di sfuggita qua e là, tra decine di immagini tridimensionali che danzavano, offrivano, ridevano, bevevano, mangiavano, ingoiavano pastiglie…
— Vigliacco. — urlò Odal, sopra la confusione di voci invitanti.
— E perché dovrei lottare con voi? — gli gridò di rimando il tenente, da un punto imprecisato della stanza.
Odal aguzzò lo sguardo, cercando di localizzare l’avversario tra la folla esagitata di figure. — Mi avete fatto fesso nella duellomacchina, ma ora non potrete usare altri trucchi. Vi scoverò e vi ammazzerò!
Ecco il lampo di un’uniforme nera e argento tra vestiti alla moda, donne troppo grasse, uomini troppo magri, dimostrazioni scientifiche e prodotti nuovi, nuovissimi! Odal si avviò in quella direzione.
— E il professor Leoh? — replicò la voce del tenente, attraverso quel fracasso registrato. — Lui vi ha ucciso senza trucchi. Però voi avete fifa di inseguirlo, adesso. Vero?
L’altro scoppiò a ridere. — E credete che il vecchio mi abbia battuto? Avrei potuto distruggerlo in qualsiasi momento, se avessi voluto.
Si tuffò di scatto, passando sotto il braccio di una matrona ben conservata che stava dicendo: PERCHÉ LASCIARE CHE L’ETÀ MATURA VI INTRISTISCA, QUANDO UN RINGIOVA… Hector era là, che si avvicinava furtivo alla porta.
— Ah, avete perso di proposito con Leoh? — la faccia del tenente, nel riflesso delle immagini tridimensionali, aveva l’aria più stupita che spaventata. — Per dar da bere…
— Per dar da bere che il professore è un eroe, e che Kerak è popolato da uomini deboli e vigliacchi. Tutti i duelli con lui avevano questo scopo! E mentre lui culla gli acquatainiani con il racconto delle sue vittorie, noi ci prepariamo a colpire.
Pronunciando quell’ultima parola, Odal balzò addosso all’avversario piantandogli un gomito nel diaframma e rotolarono, avvinti, sul pavimento.
Un groviglio di braccia, gambe, gomiti e ginocchia, ansiti affannosi, due corpi forti aggrappati uno all’altro. Finirono per sbattere contro una delle seggiole, rovesciandola. Sentendo che Hector gli stava sfuggendo, Odal cercò di rizzarsi in piedi, ma la sedia gli cadde addosso facendolo scivolare a pancia in giù sul pavimento.
Imprecando, il maggiore cercò ancora di alzarsi, ma il tenente era già in piedi. In quell’attimo la porta si spalancò, e un fascio di luce violenta entrò come una pugnalata dal corridoio. Apparve la figura di una ragazza che stringeva una pistola nella mano tremante.
— Hector! Prendi! — gridò Geri, gettandogli la rivoltella. Il tenente la prese al volo e la puntò contro Odal. Il maggiore si irrigidì, inginocchiato a terra, le mani sul pavimento. Nell’espressione della faccia la rabbia aveva ceduto il posto alla paura. Il tenente, immobile, teneva l’arma puntata contro la testa dell’avversario.
— Uccidilo! — bisbigliò Geri. — In fretta, arrivano!
Hector abbassò lentamente l’arma. — Alzatevi — disse. — E non datemi il pretesto per servirmi di questo aggeggio.
Il maggiore si rizzò in piedi, a fatica.
— Uccidilo! Me l’avevi promesso! — incalzò Geri, sul punto di scoppiare in lacrime.
— Non posso, non così.
— Intendi dire che non vuoi?
Annuendo, senza staccare gli occhi da Odal, Hector rispose: — Hai ragione, non voglio. Neanche per amor tuo.
— Fareste meglio a finirmi, tenente, ora che ne avete l’occasione — disse la voce di Odal, tagliente come un coltello. — Io passerò il resto della mia vita a darvi la caccia.
Tre guardie in uniforme irruppero nella stanza seguite da alcuni tecnici degli studi televisivi e da Leoh.
— Che diavolo succede? Chi è questo? Siete…
— Questo è il maggiore Odal — disse Hector, indicandolo con la pistola. — È… uhm, protetto dall’immunità diplomatica. Vi prego di riaccompagnarlo all’ambasciata di Kerak.
Odal, pallidissimo, fece un cenno al tenente e uscì tra le guardie.
— Volete dire che tutto è stato trasmesso sulla rete della tridimensionale? Ogni parola? — domandò Hector.
Leoh, Geri e il tenente erano sul sedile posteriore di un’auto a cuscino d’aria che si orientava da sola attraverso la città, diretta verso la casa di Geri. La pioggia di mezzanotte cadeva per i trenta minuti programmati, e quindi il tettuccio dell’auto era chiuso.
La ragazza non aveva più aperto bocca, da quando Odal era stato prelevato dallo studio televisivo.
Ma Leoh non stava zitto un secondo. — Quando avete colpito tutti quegli interruttori e messo in moto le registrazioni dei comunicati commerciali — disse — avete azionato il sistema acustico collegato a tutti gli studi. Così abbiamo sentito quel putiferio, con voi e Odal che urlavate come matti e tutto il resto. Ha superato la voce degli annunciatori, nel bel mezzo della nostra proiezione. Dovevate vedere le facce! E mi hanno detto che avete rovinato almeno altri sei sketch che venivano girati proprio in quel momento.
— Davvero? — si scusò Hector, con un fil di voce. — Io … Insomma, non volevo proprio… Be’, mi spiace davvero.
— Calmatevi, ragazzo mio — disse il professore, agitando paternamente una mano. — La vostra lotta con Odal, ovvero la colonna sonora dell’incontro, è stata trasmessa in ogni casa del pianeta. Tutti gli abitanti di Acquatainia sanno, adesso, che io sono un bestione, e che Kerak è molto più pericoloso di quello che sembra.
— Non siete un bestione — disse il tenente.
— Sì, sono stato uno sciocco — insisté il professore. — Peggio ancora, sono stato un babbeo a lasciare che le mie facoltà di giudizio venissero ottenebrate dai fumi della gloria. Ma tutto è finito, ormai. Io sono un uomo di scienza, la politica non fa per me e, soprattutto, non sono adatto agli spettacoli televisivi! Adesso mi occuperò del vostro balzo nella duellomacchina. Se quello è stato un caso di teletrasferimento, significa che la macchina è in grado di amplificare quella capacità, proprio come ha amplificato le possibilità telepatiche di Odal. Ebbene, immettendo una quantità sufficiente di energia…
L’auto si fermò dolcemente sotto la tettoia, davanti alla casa di Geri. Leoh rimase nel veicolo, mentre Hector accompagnava la ragazza alla porta. Nell’ombra, non riuscì a vedere bene le loro facce. Davanti alla porta si fermarono.
— Uhm… Geri, non ho potuto ucciderlo. Non così. Sarei stato felice di poterti accontentare, ma se tu vuoi un assassino… Credo di non fare davvero al caso tuo!
Lei non rispose. Una leggera brezza portò l’odore di foglie bagnate.
Hector si tormentò l’orlo della manica con le dita.
— Buona notte — disse infine.
— Addio, Hector — rispose Geri, freddamente.
Leoh stava guardando di proposito da un’altra parte quando Hector tornò. Il professore gli diede un’occhiata mentre si infilava frettolosamente nell’auto e si abbandonava sul sedile.
— Perché quella faccia, ragazzo mio? Cosa c’è?
Il tenente alzò le spalle. — È una storia lunga — disse.
— Oh, capisco. Bene. Per tornare al problema dei teletrasferimenti, potremmo aumentare la forza della macchina.