Il lungo pomeriggio permise ai nostri di fare considerevoli progressi. Grazie all’aiuto di Branithar che li istruiva o facendo da interprete a quei prigionieri che erano esperti dell’arte in questione, gli Inglesi impararono presto a usare i comandi di diversi congegni.
In breve riuscirono a sollevare le astronavi e gli altri vascelli volanti più piccoli di qualche centimetro da terra, non di più, per non essere colpiti dal nemico se li avesse scorti. Impararono anche a spostarsi a bordo di carri senza cavalli; impararono a usare i telecomunicatori, gli apparecchi ottici d’ingrandimento ed altri strumenti alieni; impararono a maneggiare le armi che proiettavano il fuoco o il metallo e anche gli invisibili raggi stordenti.
Naturalmente noi Inglesi non avevamo mai usato prima questi telecomunicatori né gli apparecchi ottici d’ingrandimento, né tantomeno conoscevamo le procedure occulte che stavano dietro di essi, ma trovammo che usarli era un gioco da bambini. A casa nostra eravamo abituati a imbrigliare gli animali, a costruire complicate balestre e catapulte, a montare il sartiame delle navi in partenza e ad erigere macchine mediante le quali i muscoli umani riuscivano a sollevare anche pietre pesantissime.
Ora, al confronto, questi volani da girare o leve da abbassare erano uno scherzo. L’unica vera difficoltà, però, era che gli uomini più ignoranti faticavano a ricordare cosa significassero i diversi simboli sugli elementi, anche se questa scienza non era più complicata dell’araldica che qualsiasi ragazzo amante delle gesta eroiche era capace di snocciolare con la massima precisione.
Io, poiché ero l’unica persona in grado di leggere l’alfabeto wersgoriano, mi diedi da fare con le carte che avevo trovato negli uffici della fortezza.
Nel frattempo, Sir Roger conferiva coi suoi Capitani e dava ordini ai servi più ottusi, che non erano in grado di apprendere il funzionamento di quelle nuove armi, perché costruissero certi ripari. Il sole aveva iniziato il suo lento tramonto, trasformando metà del cielo in oro, quando mi mandò a chiamare davanti al suo comitato d’azione.
Io mi sedetti e guardai quei volti duri e magri, tutti animati da una nuova speranza. La lingua mi si appiccicò al palato. Conoscevo bene quei Capitani e soprattutto sapevo bene come ballassero gli occhi di Sir Roger quando stava covando qualche trovata infernale!
«Hai scoperto quali sono e dove si trovano i principali castelli di questo pianeta, Fratello Parvus?», mi chiese.
«Sì, Milord» risposi. «Ce ne sono solo tre, e Ganturath era uno di essi.»
«È incredibile!», esclamò Sir Owain di Montbell. «Sarebbe bastato un attacco di pirati per…»
«Voi dimenticate che qui non ci sono regni separati e neppure feudi separati», risposi. «Tutti sono direttamente sottoposti al Governo Imperiale. Le fortezze servono solo da residenza degli Sceriffi, i quali devono tenere l’ordine tra la popolazione ed incassare le tasse.
«È vero che queste fortezze sono anche considerate basi difensive, infatti ospitano anche bacini per le grandi astronavi e vi sono acquartierati guerrieri, ma è ormai da molto tempo che i Wersgorix non combattono più vere guerre. Hanno semplicemente sottomesso con la violenza dei selvaggi inermi, e nessuna delle altre razzi che conoscono i viaggi stellari oserà mai dichiarare loro guerra; solo di tanto in tanto si verifica qualche scaramuccia su qualche remoto pianeta. In definitiva, insomma, queste tre fortezze sono più che sufficienti per questo mondo.»
«Quanto sono forti?», sbottò Sir Roger.
«Sull’altro lato del globo ce n’è una chiamata Stularax, più o meno simile a Ganturath. Poi c’è la fortezza principale. Darova, dove risiede il Proconsole, Huruga. Questa è di gran lunga la più grande e la più forte, ed immagino che proprio da là vengono la maggior parte delle navi e dei guerrieri che abbiamo di fronte adesso.»
«E dove si trova il mondo più prossimo abitato da questi musi azzurri?»
«Stando a un libro che ho studiato, a circa venti anni luce da qui. In quanto a Wersgorixan, il pianeta principale, è molto più lontano… più lontano perfino della Terra.»
«Ma il telecomunicatore potrebbe informare immediatamente l’Imperatore di quanto è successo, no?», chiese il Capitano Bullard.
«No», risposi. «Il telecomunicatore funziona con una velocità che è pari solo a quella della luce. I messaggi tra una stella e l’altra devono essere trasmessi tramite astronave, il che significa che, per informare Wersgorixan, occorrerà qualche settimana. Huruga, però non l’ha ancora fatto. L’ho sentito bisbigliare ad uno della Sua Corte che avrebbe cercato di mantenere la faccenda segreta per un certo tempo.»
«Sì,» osservò Sir Brian Fitz-William. «Il Duca cercherà sicuramente di redimersi per quel che ha fatto, distruggendoci da solo prima di inviare una qualsivoglia comunicazione. È un modo di pensare piuttosto comune.»
«Ma se lo colpiamo abbastanza brutalmente, vedrete come griderà aiuto», profetizzò Sir Owain.
«Esattamente», convenne Sir Roger. «Ed io ho studiato il modo di colpirlo con brutalità!»
Mi resi tristemante conto che, quando la lingua mi si era appiccicata al palato, avevo intuito in anticipo come sarebbe andate le cose.
«Ma come faremo a combattere?», chiese Bullard. «Noi non disponiamo di una quantità tale di armi demoniache da poter competere con quelle che ci troviamo di fronte. Se fosse necessario, potrebbero perfino speronarci, nave contro nave, senza risentire delle loro perdite.»
«Proprio per questa ragione,» gli rispose Sir Roger, «io propongo un’incursione contro il forte più piccolo, Stularax, allo scopo di procurarci altre armi. Questo servirà anche a scuotere la fiducia che Huruga ha in sé.»
«Oppure a spingerlo ad attaccarci.»
«Questo è un rischio che dobbiamo correre. Male che vada non mi terrorizza affatto un’altra battaglia. Non capite? L’unica speranza è appunto quella di agire con audacia.»
Non ci furono grandi obiezioni. Sir Roger aveva avuto varie ore a sua disposizione per lavorarsi i suoi uomini. Adesso erano tutti ben pronti ad accettare anche la sua guida. Ma Sir Brian obiettò ragionevolmente:
«Come faremo ad effettuare questa incursione? Quel castello si trova a migliaia di miglia da qui. E non possiamo allontanarci in volo dal nostro campo senza venire abbattuti.»
Sir Owain inarcò le sopracciglia, beffardo.
«Forse avete un cavallo magico?», chiese sorridendo a Sir Roger.
«No. Ma ho altre bestie. Ascoltatemi…»
Quella fu una lunga notte di lavoro per gli uomini che misero degli sci sotto una delle astronavi più piccole, vi attaccarono diverse pariglie di buoi e la trascinarono fuori della fortezza senza fare il minimo rumore. Il suo passaggio sui campi scoperti fu mascherato da mandrie di bestiame disposte attorno come se pascolassero.
Grazie alle tenebre ed al benvolere del Signore, il trucco riuscì. Una volta al riparo delle folte chiome di quegli alberi molto alti, come una cintura di uomini di scorta che si muovevano come ombre per avvertire in anticipo della presenza di eventuali soldati azzurri («Tutta gente che ha fatto pratica a casa col bracconaggio», aveva detto Red John), il lavoro fu più sicuro ma anche più difficoltoso.
Era quasi l’alba quando finalmente la barca si trovò a diverse miglia dal campo, sufficientemente lontano per sollevarsi in aria senza essere vista dal Quartier Generale nel campo di Huruga.
Questo vascello, però, nonostante fosse il più grosso che ci fosse stato possibile spostare a quel modo, era sempre troppo piccolo per trasportare le armi più formidabili. Sir Roger, tuttavia, aveva esaminato durante il giorno i proiettili esplosivi sparati da certi tipi di armi. Poi si era fatto spiegare da un tecnico wersgoriano terrorizzato come innescare la miccia, in modo da fare esplodere la granata al momento del suo impatto. Adesso la barca trasportava diversi di questi proiettili esplosivi oltre ad un trabucco smontato in vari pezzi, che avevano costruito gli artigiani del Barone.
Nel frattempo, tutti coloro che non erano impegnati in questa operazione, erano stati adibiti al rafforzamento delle difese del campo. Perfino donne e bambini ricevettero delle pale. Nella foresta vicina si sentivano sibilare le asce. Per quanto fosse lunga la notte, essa ci sembrò ancora più lunga, mentre lavoravamo al limite dell’esaurimento, fermandoci solo quel tanto che serviva a divorare un tozzo di pane o a schiacciare un breve pisolino.
I Wersgorix ci osservavano mentre sgobbavamo, il che non poteva essere evitato, ma noi cercammo di nascondere loro ciò che facevamo veramente, affinché non vedessero che stavamo semplicemente circondando l’altra metà di Ganturath con palizzate, buche, chiodi tripunte, e cavalli di frisia. Quando arrivò il mattino e la luce del giorno, le nostre installazioni erano nascoste dall’erba alta.
Io stesso accolsi quel durissimo lavoro con piacere, perché serviva a calmare i miei timori. La mia mente, tuttavia, continuava a tornarci su come un cane che non molla l’osso. Sir Roger era forse impazzito? Tante, troppe sembravamo le cose che aveva fatto nel modo sbagliato. Ma, ad ogni domanda, ritrovavo anch’io le sue risposte.
Perché non eravamo fuggiti via nello stesso istante in cui ci eravamo impadroniti di Ganturath, invece di aspettare l’arrivo di Huruga che ci aveva così bloccati a terra? Risposta: perché avevamo perso la strada del ritorno e non avevamo la minima probabilità di ritrovarla senza l’aiuto di esperti marinai spaziali. (Ammesso sempre che fosse possibile ritrovarla). E la morte era sempre meglio di un cieco vagabondare tra le stelle… dove saremmo comunque morti nel giro di breve tempo per via della nostra ignoranza.
Adesso dopo aver guadagnato una tregua, perché Sir Roger aveva corso il gravissimo rischio di romperla subito attaccando Stularax? Infatti era evidente che la tregua non sarebbe potuta durare all’infinito. Una volta che avesse avuto il tempo di riflettere su quanto aveva visto, Huruga avrebbe scoperto il nostro bluff e ci avrebbe distrutti. Così invece, non avrebbe saputo bene cosa pensare della nostra audacia, e, forse, avrebbe continuato a crederci più potenti di quanto fossimo in realtà. Oppure, se avesse deciso di attaccarci, noi avremmo potuto trovarci più forti per via delle armi catturate nel corso dell’imminente incursione.
Ma Sir Roger si aspettava veramente che un piano così folle potesse aver successo? Solo Dio e lui stesso avrebbero potuto rispondere a questa domanda. Io sapevo che il Barone improvvisava man mano che procedeva, come un corridore che incespica e che improvvisamente deve correre ancora più forte se non vuole cadere lungo disteso.
Ma come correva meravigliosamente!
Quella riflessione mi calmò. Così affidai il mio destino al Cielo e mi misi a lavorare di vanga con cuore più tranquillo.
Appena prima dell’alba, mentre la nebbiolina dilagava filiforme tra gli edifici, le tende, e le bombarde da fuoco dal lungo muso, e la prima luce cominciava a tingere il cielo, Sir Roger diede il segnale della partenza ai suoi incursori. Erano venti: Red John con i migliori combattenti e Sir Owain di Montbelle come capo. Era curioso come il cuore spesso debole di questo cavaliere, si rinvigorisse sempre alla prospettiva del combattimento. Era quasi felice come un ragazzo mentre, avvolto in un lungo mantello scarlatto, stava lì ad ascoltare gli ordini.
«Attraverso i boschi, tenendovi sempre bene al coperto fino a raggiungere il punto in cui si trova la nave», gli disse il mio Signore. «Aspettate fino a mezzogiorno, poi decollate. Voi sapete come usare quelle mappe scorrevoli per la guida, vero? Bene, quando arrivate a Stularax — vi ci vorrà un’ora o giù di lì se volate ad una velocità che sembri ragionevole da queste parti — atterrate in un punto che vi offra una certa protezione. Poi tirate qualche granate col trabucco per indebolire le difese esterne, quindi, mentre sono ancora confusi, attaccate di volata a piedi; prendete tutto quel che potete dall’arsenale e tornate qui. Se qui è tutto traquillo, atterrate senza senza dare troppo nell’occhio, se invece stiamo combattendo, agite come vi sembra più opportuno.»
«Così sarà fatto, Milord.»
Sir Owain gli strinse la mano. Era destino che quel gesto non dovesse mai più ripetersi tra di loro.
Mentre si salutavano così sotto il cielo ancora oscuro, si udì una voce:
«Aspettate!»
Tutti gli uomini voltarono il viso verso gli edifici interni dove la nebbia si levava in dense volute e videro comparire tra di essa Lady Catherine.
«Ho sentito solo ora che state per partire,» disse la Signora a Sir Owain. «Dovete proprio farlo? Solo in venti contro un’intera fortezza?»
«Solo venti uomini…» Il giovane Nobile si inchinò con un sorriso che gli rischiarò il volto come un sole… «ed io, e il vostro ricordo, Milady!»
Il pallido viso di lei si imporporò e Lady Catherine passo davanti a Sir Roger, rigido come un sasso, avvicinandosi al giovane Cavaliere e fissando il proprio sguardo su di lui. Tutti si accorsero che le mani di Lady Catherine sanguinavano e stringevano una corda.
«Questa notte, quando non sono più stata in grado di sollevare una vanga,» sussurrò Lady Catherine, «ho aiutato a intrecciare le corde per gli archi. E non posso darvi altro come mio pegno».
Sir Owain lo accettò in un grande silenzio e, dopo averlo riposto all’interno della sua cotta di maglia d’acciaio, le baciò le piccole dita ferite. Poi, dopo essersi avvolto nel suo grande mantello, condusse i suoi uomini nella foresta.
Sir Roger non si era mosso dal suo posto. Lady Catherine gli fece un leggero gesto col capo.
«Oggi vi sederete al tavolo coi Wersgorix?», gli chiese.
Detto questo scivolò via nella nebbia verso il padiglione che ormai non ospitava più Sir Roger, e lui aspettò che fosse sparita alla vista prima di avviarsi nella stessa direzione.