Trascrizione della registrazione su nastro effettuata da Isham Stone (Archivi Giudiziari di Fresh Start).
Tanto vale che mi rivolga a te, Collaci… scommetto la mia pistola anti-Musky che sarai il primo a notare la registrazione e ad ascoltarla. Spero che ascolterai attentamente; ma forse sarebbe chiedere troppo, la prima volta. Continua ad ascoltarla.
La storia risale a un paio di mesi fa, quando ero a New York. Ormai avrai senza dubbio trovato il diario con il resoconto della mia giornata in città, e avrai notato che manca il finale. Bene, la storia ha due finali. C’è quello che ho raccontato a mio padre e c’è quello che stai per ascoltare. Quello vero.
Andai alla deriva nella tenebra per mille anni, impotente come un Musky in un uragano, vorticando nell’interno della mia testa. I ricordi mi passavano accanto come dirigibili, e io cercavo di afferrarli, ma quelli tangibili mi scottavano le dita. Vagamente, percepivo la luce del giorno in lontananza, da entrambe le parti; decisi che quelli dovevano essere i miei orecchi e cercai di afferrare quello di destra, che sembrava un po’ più vicino. Mi ustionai il braccio virando accanto a un trauma adolescenziale, ma sortì l’effetto voluto… veleggiai nella luce del giorno e atterrai a faccia in giù con un tonfo tremendo. Pensai a rialzarmi, ma non riuscivo a ricordare se avevo portato con me le gambe, e quelle non parlavano. Il braccio mi doleva ancora più della faccia, e qualcosa puzzava.
— Aiuto! — invocai con un filo di voce, e due mani mi presero per le ascelle. Mi sollevai nell’aria e chiusi gli occhi di nuovo, assalito da un’improvvisa ondata di vertigine. Quando passò, mi accorsi che ero riverso sul letto dal quale ero appena riuscito a cadere. Un dolore sordo ma insistente al petto mi consigliava di respirare adagio.
Che mi venga un colpo, pensai confusamente. Collaci deve avermi seguito senza dirmelo, per darmi una mano. Quel vecchio furbacchione. Avrei dovuto pensare a cercargli qualche stuzzicadenti.
— Ehi, Maestro — gracchiai, e aprii gli occhi.
Wendell Morgan Carlson si chinò su di me con aria preoccupata.
Stranamente, non cercai di alzare le mani per stritolargli la laringe. Chiusi gli occhi, mi rilassai, contai lentamente fino a dieci, scrollai la testa per schiarirmela e riaprii gli occhi. Carlson era ancora lì.
Poi tentai di alzare le mani e di stritolargli la laringe. Non ci riuscii, naturalmente, non tanto perché ero troppo debole per arrivarci, quanto perché all’ordine rispose un braccio solo. La mente mi diceva che il braccio sinistro era sollevato verso la gola di Carlson, e protestava furiosamente, anche; ma il braccio non lo vedevo. Abbassai gli occhi e vidi il moncherino scrupolosamente fasciato, e lo alzai, distrattamente, per vedere se sotto c’era il mio braccio, ma non c’era. Allora capii che il moncherino era tutto ciò che restava e tac!… ritornai nella tenebra amica dentro la mia testa, a rimbalzare di nuovo tra i ricordi che scottavano.
La seconda volta che rinvenni era completamente diverso. Un momento prima stavo lottando con un fantasma e un momento dopo scattò un interruttore e mi ritrovai lucido. Cerca di guadagnare tempo, fu il mio primo pensiero. La situazione tattica l’impone. Aprii gli occhi.
Carlson non era in vista. E neppure a portata d’olfatto… ma i tamponi nasali erano di nuovo al loro posto.
Girai gli occhi sulla stanza. Era una stanza. Quattro pareti, un soffitto, un pavimento, il letto dove stavo io e vari mobili orrendi. Non c’era un’arma visibile e non c’era niente che potessi usare come arma. Un’occhiata dalla finestra confermò la mia impressione: ero a Butler Hall, apparentemente al piano terreno, non lontano dall’ingresso principale. La grande cupola della Lowe Library era quasi al centro della finestra, e la grande scalinata di pietra era nascosta in parte dai cespugli incolti davanti a Butler Hall. Le ombre dicevano che era mattina, verso mezzogiorno. Chiusi gli occhi, con decisione.
Poi studiai me stesso. La testa mi faceva parecchio male, ma questo era facilmente sommerso dal dolore al petto. Indiscutibilmente qualche costola era fratturata, e sembrava che i tronconi non collimassero. Ma a quanto mi pareva di capire il polmone era intatto… non faceva più male quando inspiravo. O almeno, non molto di più. Le gambe si mossero tutte e due quando glielo ordinai, con un minimo di proteste, e le caviglie sembravano in ordine. Era inutile che riaprissi gli occhi, vero?
Per un momento smisi di fare l’inventario. In fondo al mio cranio, una lucertola unghiuta esigeva di essere liberata, e per qualche minuto m’impegnai a rafforzare i muri della sua prigione. Quando non sentii più i suoi urli, riaprii gli occhi ed esaminai spassionatamente il moncherino del mio braccio sinistro.
Sembrava un lavoro pulito, ben fatto. La posizione del taglio indicava che era una procedura chirurgica e non una manifestazione di ostilità vendicativa, come avevo pensato in un primo istante… sembrava che la cancrena fosse stata sconfitta. Oh, magnifico, pensai. Devo uccidere un pazzo benevolo. Poi mi vergognai. Mia madre, come la ricordavo io, era stata benevola; e Israfel non aveva avuto la possibilità di diventarlo. Tutti sapevano che le intenzioni di Carlson erano state buone. Potevo ucciderlo con una mano sola.
Mi chiesi dov’era.
Una mosca ronzò lugubremente intorno alla stanza. Le siepi all’esterno frusciavano, e da qualche parte cantavano gli uccelli, lanciando trilli che scintillavano nell’aria mattutina. Era una bella giornata, abbastanza calda per essere piacevole, senza nubi in vista, con una brezza, e la parte migliore del giorno che doveva ancora venire. Mi metteva addosso la voglia di scendere al ruscello a stanare le rane con un bastoncino o a cogliere le fragole per Mr. Fletcher, con le mani macchiate di rosso e la pancia piena di frutti dolci che l’indomani mattina mi avrebbero dato la diarrea. Era una bellissima giornata per un assassino.
Ci pensai, considerai le possibilità. Carlson era… in qualche posto. Io ero più debole di un Musky in una pentola a pressione e il mio armamento naturale era diminuito del venticinque per cento. Ero in un territorio sconosciuto e gli unici oggetti nella stanza abbastanza grossi per servire come armi erano così pesanti che non sarei riuscito a sollevarli. Rompere la finestra e procurarmi un coltello? Come l’avrei impugnato? Le mie scarpe di tela erano dall’altra parte della stanza, sotto una sedia dove stava il resto dei miei indumenti, e mi chiesi se potevo nascondermi dietro la porta in attesa che Carlson entrasse, e poi strangolarlo con i lacci.
La smisi subito. Come avrei fatto a strangolare Carlson con una mano sola?
Poi per un po’ vidi girare tutto, mentre incominciavo a capire fino a che punto la mia vita era stata cambiata dalla perdita del braccio. Non userai mai più una sega, o un badile, o un guantone da baseball o…
Seppellii di nuovo la lucertola e mi sforzai di concentrarmi. Forse avrei potuto fare un nodo scorsoio con i lacci delle scarpe. Con una mano sola? Ci sarei riuscito? Forse, se avessi fissato a qualcosa l’estremità di un laccio e poi gli avessi avvolto l’altra intorno al collo e avessi tirato? Non era necessario che fossi molto forte, potevo fare in modo che fosse il mio peso a ucciderlo…
Proprio in quell’istante, credo, decisi di non morire, decisi di continuare a vivere con un braccio solo; e il problema non si pose più. Ero troppo indaffarato per disperarmi, e quando potei prendermi di nuovo quel lusso, molto più tardi, l’impulso era passato.
Tutti i mei piani incerti, per quanto avessero un effetto terapeutico, erano imperniati su un unico interrogativo importante: potevo reggermi in piedi? Sembrava indispensabile accertarlo.
Fino a quel momento avevo mosso soltanto gli occhi… cercai di sollevarmi a sedere. Non era più difficile che lanciare in aria qualche bulldozer, e io riuscii a ridurre l’urlo ad un esplosivo «Uh, huh!». Mi sembrava di avere le costole di vetro, vetro rotto che lacerava il rivestimento muscolare e il tessuto pleurico. Il sudore m’inondò la fronte, e mi sforzai di dominare la vertigine e la nausea, ordinai furiosamente al mio corpo di obbedirmi, come un cavaliere disperato sprona un cavallo moribondo. Puntellai il braccio dietro di me e mi appoggiai, vacillando ma tenendomi ritto, e attesi che la stanza smettesse di roteare. Passai il tempo contando fino a mille in frazioni di un ottavo. Finalmente la stanza si fermò, lasciandomi la sensazione che una brezza lievissima avrebbe potuto ricominciare a farla girare.
Bene. Muoviamoci, Stone. Buttai una gamba giù dal letto e notai con sollievo che il piede toccava il pavimento. Così sarebbe stato più facile tenermi in equilibrio sull’orlo, prima di tentare di alzarmi, Prima di perdermi di coraggio, buttai giù anche l’altra gamba, mi diedi una spinta con il braccio e mi ritrovai seduto, eretto. Il pavimento era a una distanza incredibile… davvero ero caduto da quell’altezza ed ero sopravvissuto? Forse avrei dovuto attendere che Carlson tornasse, chiedergli di avvicinarsi e piantargli i denti nella vena iugulare.
Mi alzai.
Un crescendo straziante nella sinfonia dei dolori, con le costole che dirigevano ancora la melodia. Bloccai le ginocchia e vacillai, gemendo pietosamente come un gattino prigioniero su un cornicione. Non potevo avvicinarmi al silenzio più di così, e tutto considerato era già molto. La mia spalla destra era sensibilmente più pesante di quella sinistra, e mi sbilanciava. Il pavimento, che aveva continuato ad allontanarsi, adesso era ad una tale distanza che smisi di preoccuparmene… sicuramente il Paracadute si sarebbe aperto in tempo.
Bene, allora perché non provare a muovere un passo o due?
La mia gamba sinistra era leggera come un palloncino pieno d’elio… appena staccata dal pavimento cercò di puntare verso il soffitto, e ci volle uno sforzo enorme per riabbassarla. La gamba destra non andava meglio. Poi la stanza ricominciò a girare, proprio come avevo temuto, e all’improvviso diventò impossibile tenere le gambe al di sotto del mio corpo senza perdere rapidamente quota. Il paracadute non si aprì. Ci fu un tonfo sconvolgente e un rimbalzo orrendo. Apparvero molte luci bellissime, e uno degli urli tenuti a freno dietro i denti serrati riuscì ad erompere. Le belle luci lasciarono il posto al soffitto scrostato, e il soffitto lo lasciò alla tenebra. Ricordai un verso di una vecchia canzone che il dottor Mike cantava spesso; parlava di «… mappe tracciate in un soffitto screpolato…». Avrei voluto avere il tempo di leggere la mappa…
Rinvenni quasi subito, credo. Mi sembrava che la stanza continuasse a roteare, ma anch’io giravo alla stessa velocità, adesso. Per un colpo di fortuna ero caduto riverso sul letto. Provai a respirare: pareva che il polmone fosse ancora intatto. Ero fradicio di sudore, e mi sembrava d’essere sdraiato su una collezione di sassi.
Bene, decisi, se sei troppo debole per uccidere Carlson adesso, fingi d’essere ancora più debole. Rimettiti sotto le lenzuola e fai il morto finché non starai meglio. Isham Machiavelli. Saresti stato fiero di me, Maestro.
La collezione di sassi, in realtà, non era altro che i lenzuoli gualciti. Rigirarmi e rimettermi nella posizione di partenza fu un po’ meno difficile che caricare una balena su una barchetta a remi, e mi rimase ancora abbastanza forza per drappeggiarmi i lenzuoli intorno prima che i miei muscoli si trasformassero in burro d’arachidi. Poi restai lì, respirando più lievemente che potevo, e mi chiesi perché il mio brac… perché il mio moncherino non faceva abbastanza male. Detesto guardare in bocca a caval donato: il peso psicologico era già abbastanza opprimente, grazie. Ma mi rendeva irrequieto.
Incominciai a comporre un motivo di square-dance sul tempo delle fitte alle costole. La stanza si associò, un po’ fuori sincronia all’inizio, ma poi così ritmicamente che sembrò letteralmente incespicare quando il suonatore di grancassa, in corridoio, sbagliò una battuta. La musica s’interruppe ma il suonatore di grancassa continuò fuori ritmo, dapprima debolmente, poi più forte. Passi.
Doveva essere Carlson.
Stava facendo un baccano infernale. Febbrilmente, immaginai che trascinasse nella stanza un bazooka e lo puntasse contro di me. Pazzo. Sarebbe bastato uno scacciamosche. Ma cosa diavolo stava portando, allora?
La risposta entrò dalla porta: uno scatolone pieno di oggetti che tintinnavano e sferragliavano. Dietro lo scatolone entrò Wendell Morgan Carlson in persona, ed era un bene che la musica fosse cessata… l’accelerazione del mio polso avrebbe reso non ballabile il motivo. Le mie narici cercarono di dilatarsi intorno ai tamponi, e i capelli sull’occipite si sarebbero rizzati in un riflesso atavistico se sopra non ci fosse stato il peso di cinquecento chili della mia testa.
Il Nemico!
Non aveva armi in vista. Sembrava più vecchio del suo ritratto nel Manifesto… ma la fronte ossuta, il naso sottile e contratto e gli zigomi alti erano inconfondibili, anche se il mento a punta era nascosto dall’enorme barba grigia. Era un po’ più alto di quanto l’avessi immaginato, aveva più capelli e le spalle più strette. Non mi ero aspettato che avesse la pancia. Indossava un paio di jeans sformati e una camicia di flanella scozzese, rattoppati malamente qua e là, e un paio di sandali neri.
La faccia aveva un’espressione più intelligente di quanto mi piaccia in un antagonista… non sarebbe stato facile imbrogliarlo. Wendell chi? Mai sentito. Io sono appena tornato da Pellucidar, al centro della Terra, e mi chiedevo se lei avrebbe saputo dirmi dov’è finita tutta la gente. Mi dispiace di averle sparato e, già, grazie di avermi tagliato il braccio: è proprio un brav’uomo.
Lui mise lo scatolone su una vecchia scrivania marrone, schiacciando la fotografia scolorita del figlio di qualcuno, si girò subito per incontrare il mio sguardo e disse una cosa incredibile.
— Scusi se l’ho svegliato.
Non so che cosa mi aspettassi. Ma nei pochi momenti febbrili che avevo avuto a disposizione per prepararmi a quel momento, il primo scambio di parole con Wendell Morgan Carlson, non avevo immaginato una simile frase iniziale. Non avevo pronta una risposta.
— Non importa — gracchiai, e cercai di sorridere. Comunque, lui sembrava sconvolto; la sua faccia assunse la stessa espressione preoccupata che avevo già visto una volta… quando? Il giorno prima? Da quanto tempo ero lì?
— Sono contento che sia sveglio — continuò lui, gentilmente. — È rimasto privo di conoscenza per quasi una settimana. — Non era strano che mi sentissi costruito di materiali scadenti. Pensai che dovevo essere un vero duro. Era bello sapere che non mi stavo spegnendo.
— Cosa c’è in quella scatola? — chiesi, in tono un po’ meno impastato.
— La scatola? — Lui abbassò gli occhi. — Oh, si. Pensavo… vede, e il necessario per l’alimentazione intravenosa. Ho studiato la letteratura medica e… — Non finì la frase. La voce era esile ma simpatica, un po’ arrugginita. Sembrava fosse disabituato a servirsene.
— Aveva intenzione di… — Nelle mie viscere si formò un cubo di ghiaccio. Un ago piantato nel braccio mentre dormivo, per risucchiarmi la vita attraverso il tubo; e addio vecchio Isham. Calma, ragazzo, calma.
— Forse sarebbe comunque una buona idea — mormorò lui, pensieroso. — Tutto quello che posso offrirle al momento è pane e latte. Non è latte vero, naturalmente… però posso darle il miele, con il pane. Credo che valga quanto il glucosio.
— Per me va bene, dottore — mi affrettai a dire. — Non sopporto gli aghi. E gli altri strumenti appuntiti. — Ma il miele dove lo prende?
Carlson aggrottò la fronte. — Come sa che sono dottore?
Pensai in fretta. — Non lo sapevo. Credevo che fosse un Guaritore. È stato lei ad amputarmi il braccio? — Mantenni un tono di voce normale.
Lui aggrottò la fronte ancora di più; era un’espressione strana, su quella faccia ossuta. — Giovanotto — disse con riluttanza, — non ho nessuna preparazione medica. Forse il suo braccio si poteva salvare, ma mi è sembrato che… — Con mio grande stupore, era mortalmente imbarazzato.
— Dottore, aveva bisogno di un’amputazione l’ultima volta che l’ho guardato, e sono sicuro che è peggiorato ancora, dopo. Non… non si preoccupi. Sono sicuro che ha fatto del suo meglio. — Se lui era disposto a dimenticare il mio tentativo di sparargli alla testa, come potevo, io, serbargli rancore? Il passato è passato… non avevo bisogno di una ragione nuova per ucciderlo.
— Ho letto tutti i testi che sono riuscito a trovare sulle amputazioni urgenti — continuò lui, sempre con quel tono di scusa. — Ma naturalmente non ne avevo mai eseguita una. — Soltanto su un’intera razza. Gli assicurai che mi sembrava un lavoretto da manuale. Era stranissimo, sentire quell’uomo che mi chiedeva perdono per avermi salvato la vita quando io contavo di togliergli la sua alla prima occasione. Mi sconvolgeva, mi irritava. Le mie ferite offrivano un’utile distrazione, e mi mossi quanto bastava per giustificare un gemito.
Carlson divenne di colpo sollecito. Dallo scatolone tirò fuori un pacchetto di carta, lo aprì e mostrò una siringa di plastica. Poi pescò una boccetta ed aspirò un piccolo quantitativo di liquido trasparente.
— Che cos’è? — chiesi, cercando di allontanare il sospetto dalla mia voce.
— Demerol.
Scrollai la testa. — No, dottore, grazie. Le ho detto che non sopporto gli aghi.
Lui annuì, posò la siringa e pescò un altro oggetto. — Questo è demerol per via orale, allora. Glielo lascio a portata di mano. — Lo mise sul tavolino. Presi la boccetta e le diedi un’occhiata. C’era scritto che era demerol. Non potevo rompere il sigillo del tappo con una mano sola… dovette farlo Carlson. Grazie, mio nemico. Strano, strano, strano! Feci sparire una pillola fingendo di inghiottirla. Lui sembrò soddisfatto.
— Grazie, Doc.
— Non mi chiami «Doc», per favore — disse lui. — Mi chiamo Wendell Carlson.
Se si aspettava una reazione, rimase deluso. — Bene, Wendell. Io mi chiamo Tony Latimer. Lieto di conoscerla. — Era il primo nome che mi era passato per la testa.
Ci fu una pausa nella conversazione. Ci studiammo a vicenda con la franca curiosità di uomini che da diverso tempo non hanno conosciuto compagnie umane. Alla fine lui assunse di nuovo quell’aria imbarazzata e distolse lo sguardo. — È meglio che vada a prenderle da mangiare. Deve avere una fame terribile.
Ci pensai. Avevo l’impressione che sarei stato capace di divorare un cavallo. Crudo. Con le dita. — Sì, me la sento di mangiare.
Carlson uscì dalla stanza, guardandosi i sandali.
Pensai di caricare la siringa con un’overdose e di tendergli un agguato al suo ritorno, ma era soltanto un pensiero. La siringa era troppo lontana. Rivolsi l’attenzione alla boccetta sul comodino. C’era sempre scritto che era demerol… ed era sigillata con la plastica bianca, prima che Carlson l’aprisse. Però Carlson avrebbe potuto bagnare e staccare un’etichetta con il teschio e le tibie e mettere l’altra… Decisi di sopportare i dolori ancora per un po’.
Mi sembrò che passasse molto prima del suo ritorno, ma il mio senso del tempo non era molto attendibile. Portò mezza pagnotta di pane scuro, un barattolo di latte di soia e un po’ di miele denso, cristallizzato. Dicono che l’olfatto sia essenziale per il gusto, e io non potevo togliermi i tamponi, ma il sapore era il più buono che avessi mai assaggiato.
— Non mi ha detto dove si procura il miele, Wendell.
— Ho un piccolo alveare giù in Central Park. Non è molto grande, ma basta per le mie necessità. Far sopravvivere le api durante l’inverno è un problema, ma me la cavo.
— Ci scommetto. — Amabili conversazioni nel mattatoio. Mangiai quello che mi diede e bevvi latte di soia fino a quando mi sentii sazio. I dolori si sentivano ancora, ma meno forti.
Parlammo per circa mezz’ora, quasi sempre di cose senza capo né coda, e mi sembrò che tra noi crescesse una certa tensione, proprio a causa dell’inconcludenza delle nostre parole. C’erano cose di cui non parlavamo, e delle quali avrebbero parlato due uomini innocenti. Stordito com’ero, non ero capace d’inventare una spiegazione plausibile per la mia presenza a New York, e neppure per il colpo che gli avevo sparato. Lui lo accettava; ma in cambio io non dovevo chiedergli come mai era finito a vivere a New York. Non dovevo sapere chi era Wendell Morgan Carlson. Era un patto assurdo, un livello di verità che era impossibile mantenere, ma andava bene per entrambi. Non sapevo immaginare cosa pensasse lui delle omissioni nella mia conversazione, ma ero convinto che il suo silenzio fosse un’ammissione di colpa, e la mia decisione si rafforzava. Finalmente mi lasciò, consigliandomi di dormire, se ci riuscivo, e promettendomi di ritornare l’indomani.
Non dormii. Non subito. Rimasi a guardare per un secolo la boccetta di demerol, spiegando a me stesso che era molto improbabile che non fosse genuina. Non potevo farne a meno… l’odio e la diffidenza verso Carlson avevano radici profonde dentro di me.
Ma se il dolore è abbastanza intenso può vincere anche il condizionamento più forte. Verso il tramonto inghiottii la pillola che avevo nascosto e poco dopo mi addormentai.
I giorni seguenti passarono lentamente.
Ehilà… il nastro sta per finire. Devo girar…