Da HO LAVORATO CON CARLSON di Jacob Stone, Ph.D., versione autorizzata; Fresh Start Press 1986 (Edizione ciclostilata)
… L’olfatto è un fenomeno curioso, che resiste stranamente alle misurazioni e a un’analisi rigorosa. Ogni essere vivente sulla Terra sembra possederlo nella misura necessaria per sopravvivere, e un poco di più. Il naturale senso umano dell’olfatto, per esempio, è sempre stato più efficiente di quanto si rendesse conto la maggioranza della gente, al punto che poco dopo il 1880 il deliziosamente eccentrico Sir Francis Galton era riuscito, associando i numeri a certi odori, ad imparare a fare sottrazioni e addizioni con l’olfatto, apparentemente solo come esercizio intellettuale.
Ma tramite una specie di circuito soppressore neurologico del quale non si sa quasi nulla, moltissimi riuscivano a ignorare tutti i messaggi portati dai loro nasi, eccettuati i più piacevoli e i più fastidiosi, forse per reazione a un mondo che cambiava, nel quale un apparato olfattivo finemente sintonizzato era divenuto una seccatura più che un ausilio per la sopravvivenza. Il livello di sensibilità necessario a un lupo per trovare il cibo sarebbe un ostacolo per un essere umano civile ammassato in una città piena di suoi simili.
Prima del 1983 il professor Wendell Morgan Carlson aveva portato l’olfattometria al livello d’una scienza esatta. Mentre collaudava le teorie di Beck e di Miles, Carlson perfezionò quasi distrattamente la classica tecnica «blast-injection» per misurare la sensibilità differenziale olfattiva, indipendentemente dalle impressioni personali del soggetto. Questo non soltanto affinò i suoi dati ma gli permise anche di lavorare con esseri non umani, un vantaggio singolare quando si considera quanta parte del cervello umano costituisce una «terra incognita».
I suoi primi esperimenti successivi indicarono che il lupo normale utilizza il suo olfatto in modo mille volte più efficiente di un umano. Carlson intuì che i lupi vivevano in un mondo di odori, ricco e complesso come i nostri mondi umani della vista e della parola. Con sua sorpresa, tuttavia, scoprì che la sensibilità potenziale dell’apparato olfattivo umano superava di gran lunga quella di ogni specie sconosciuta.
Questo destò il suo interesse…
… Wendell Morgan Carlson, il più grande biochimico che vi fosse mai stato alla Columbia, o forse al mondo, era la prova vivente della verità lapalissiana secondo la quale un genio può essere maledettamente stupido al di fuori della sua specialità.
Un genio lo era, indiscutibilmente; non fu il caso a fruttargli il Premio Nobel per aver isolato un rimedio per l’intera gamma delle infezioni da virus chiamate «comune raffreddore». Fu piuttosto quel tipo di caso ispirato che capita soltanto a coloro che sono abbastanza intelligenti da percepirlo, ai ricercatori fanatici come Pasteur.
Ma Pasteur era un cafone e un vanitoso, che sperperava tempo prezioso in polemiche puerili con uomini che non erano degni di lavare le sue provette. Raramente il genio è anche indizio di buon carattere.
Carlson era un radicale di sinistra.
Peggio ancora, era quel tipo di radicale che sogna imprese romantiche su uno sfondo di celluloide: ribelli dagli occhi truci che piazzano bombe fatte in casa, assassinano i tronfi oppressori nelle loro roccheforti e (sebbene senza dubbio sapesse cos’era l’idrogeno solforato) fuggivano passando per le fogne.
Non gli era mai passato per la mente che ci volesse un uomo molto speciale per fare il guerrigliero. Era convinto che l’indignazione morale acquisita a Washington nel ’71 (quando non era ancora laureato) l’avrebbe aiutato a superare difficoltà e privazioni, e sarebbe inorridito se qualcuno gli avesse fatto notare che Che Guevara disponeva raramente di carta igienica. Poiché non aveva mai provato la fame, credeva che fosse uno stato esaltante. Viveva un’esistenza compartimentalizzata, e il suo straordinario talento di biochimico aveva pareti robustissime: soltanto al loro riparo era capace di ragionamenti logici e di vere intuizioni. Da adolescente aveva passato un anno disastroso in seminario, entrandovi come «ardito di Maria», e ne era uscito da apostata ma ancora ossessionato dal bisogno implacabile di Servire Una Causa… e per caso il grido del 1982 era, ancora una volta: «Rivoluzione!»
Carlson lasciò i tranquilli corridoi della Columbia nel luglio di quell’anno e fece domanda per entrare nel ramo più piccolo (la cosiddetta Action-Faction) dei New Weathermen con il compito di sicario. Per fortuna lo presero per pazzo e lo buttarono fuori. Al Fronte Africano di Liberazione ebbero meno criterio… gli spaccarono una gamba in tre punti. Al pronto soccorso del Jacobi Hospital, Carlson pervenne alla conclusione che il guaio di Servire Una Causa stava nel fatto che comportava la frequentazione di individui insensibili e pericolosamente imprevedibili. Aveva bisogno di una Causa Per Un Uomo Solo.
E allora, all’età di trentacinque anni, per la prima volta le sue emozioni si accorsero della sua intelligenza.
Quando le due parti della sua personalità si unirono, raggiunsero la massa critica… e per il mondo fu un gran brutto giorno. Io sono in parte responsabile di questa saldatura… involontariamente fornii una delle scintille decisive, esposi un’idea che lanciò Carlson nel balzo intuitivo più pericoloso della sua vita. Il rimorso mi perseguiterà fino alla morte… e tuttavia avrebbe potuto essere chiunque altro. O forse non c’era bisogno di nessuno.
Arrivato fresco fresco dopo tre anni passati a occuparmi di ricerche sulla guerra biologica per il Dipartimento della Difesa, ero un collega poco importante di Carlson; ma ben presto diventai suo amico intimo. Francamente, ero lusingato che un uomo della sua statura si degnasse di parlare con me, e sospetto che Carlson fosse felicissimo di trovare un negro che lo trattasse da eguale.
Ma per ragioni che è difficile spiegare a chiunque non abbia vissuto in quel periodo (e che non richiedono spiegazioni per coloro che lo vissero) ero riluttante a parlare del FLA con un bianco, per quanto «illuminato». E perciò quando andai a trovare Carlson al Jacobi Hospital e la conversazione s’imperniò sulla natura auto-deleteria della rabbia incontrollabile, tentai di distrarre il paziente affrettandomi a cambiare argomento.
— Il Movimento sta diventando rancido, Jake — aveva appena borbottato Carlson; e mi venne in mente un’ottima digressione.
— Wendell — dissi senza riflettere, — ti rendi conto che tu personalmente sei in grado di rendere migliore il mondo?
Gli brillarono gli occhi. — E come?
— Probabilmente sei la massima autorità mondiale per quanto riguarda l’olfattometria e l’apparato olfattivo umano, fra le altre cose… giusto?
— Sì, credo di sì. E con questo? — Carlson si spostò, a disagio, nell’apparecchio a trazione. Siccome in quel momento era il radicale, si sentiva fuori posto di fronte all’allusione alla sua personalità di scienziato. Pensava che avesse ben poco a che fare con le Realtà della Vita.
— Hai mei pensato — insistetti, e non me lo perdonerò mai, — che quasi tutti i sottoprodotti indesiderabili della vita del ventesimo secolo, gli aspetti più odiosi dell’Uomo Tecnologico puzzano letteralmente? Il mondo intero sta diventando rancido, Wendell, non soltanto il Movimento. Le fabbriche di automobili che inquinano, le città sovraffollate… Wendell, perché non potresti realizzare un soppressore selettivo per l’olfatto… e produrre l’anosmia controllata? Oh, lo so che basta un po’ di formaldeide, e che qualche volta basta farsi togliere le adenoidi. Ma un uomo non dovrebbe essere costretto a rinunciare all’odore della pancetta fritta per sopravvivere a New York. E tu sai che ci stiamo avvicinando a quel punto… negli ultimi anni non è stato necessario lasciare la città e ritornarvi per accorgersi di quanto puzza. Il naturale meccanismo soppressore del cervello, quale che sia, è attivato più o meno al suo limite massimo. Perché non puoi inventare un filtro a spettro circoscritto per aiutarlo? Sarebbe gradito ai lavoratori della nettezza urbana, ai tecnici… sarebbe un dono di Dio persino per l’uomo della strada.
Carlson mostrò un blando interesse. Il filtro anosmico sarebbe stato una mordente affermazione politica e una vera benedizione per l’Umanità. Era stato vagamente soddisfatto del successo del suo rimedio per il raffreddore, e credo che desiderasse sinceramente migliorare il mondo… per quanto i suoi metodi tendessero alla perversione. Discutemmo per un po’ l’idea, e poi me ne andai.
Se Carlson non si fosse annoiato a morte all’ospedale, non avrebbe mai preso a nolo il televisore. Purtroppo, quel giorno lo spettacolo di seconda serata era il film tratto da Il morbo di Satana di Alistair MacLean. Mentre guardava quel film assurdo, Carlson si sentì intellettualmente disgustato dalla nozione che fosse possibile isolare un virus così diabolicamente virulento che «ne basterebbe un cucchiaino per cancellare la vita sulla Terra in pochi giorni».
Tuttavia gli diede l’idea… un capriccio, una fantasia… una fantasia seducente.
Il giorno dopo, per telefono, mi chiese precisazioni molto casualmente; e io gli assicurai, in base alle mie esperienze in fatto di vettorizzazione dei virus, che MacLean non aveva dato i numeri. Anzi, dissi, la moderna guerra batteriologica avrebbe fatto apparire il Morbo di Satana, al confronto, uno scherzetto da bambini. Carlson mi ringraziò e cambiò argomento.
Quando fu dimesso dall’ospedale venne nel mio ufficio e mi chiese di lavorare con lui per un anno intero, escludendo ogni altra cosa, ad un progetto la cui natura preferiva non discutere. — Perché hai bisogno di me? — gli chiesi, meravigliato.
— Perché — mi disse lui, finalmente, — tu sai come creare un Morbo di Satana. Ma io intendo creare un Germe di Dio. E tu potresti aiutarmi.
— Eh?
— Ascoltami, Jake — disse con quella sua deliziosa informalità, — ho sconfitto il comune raffreddore… e ci sono ancora orde di persone che starnutiscono. L’unica cosa che ho pensato di fare, con il rimedio, è stato metterlo nelle mani delle industrie farmaceutiche, e ho fatto tutto il possibile perché non lo sfruttassero indegnamente; ma ci sono ancora individui sofferenti che non possono permettersi di comprare quella roba. Bene, non è necessario. Jake, un raffreddore può uccidere qualcuno che sia abbastanza indebolito dalla fame… io non posso sconfiggere la fame, ma potrei eliminare i raffreddori dal pianeta in quarantotto ore… con il tuo aiuto…
— Un vettore per un virus benigno… — Ero sbalordito, tanto dall’idea di decommercializzare la medicina quanto dal rimedio specifico in questione.
— Ci sarebbe da lavorare parecchio — continuò Carlson. — Nella forma attuale il mio rimedio non è compatibile con quel sistema di diffusione… non pensavo secondo queste linee. Ma scommetto che sarebbe possibile, se mi aiutassi. Jake, non ho tempo per imparare la tua specializzazione… alleati a me. Quegli sfruttatori dell’industria farmaceutica mi hanno arricchito quanto basta perché possa pagarti il doppio della Columbia, e del resto tutti e due abbiamo diritto a un anno sabbatico. Cosa ne dici?
Ci pensai sopra, ma non abbastanza. La prospettiva di collaborare con un Premio Nobel era una tentazione troppo forte. — D’accordo, Wendell.
Ci mettemmo all’opera nella casa-laboratorio di Carlson a Long Island, lui in cantina e io al pianterreno. Lavorammo come ossessi per quasi un anno, accarezzando sogni personali e massacrando decine di migliaia di cavie. Carlson era severo ed esigente e via via che il nostro lavoro procedeva incominciò a «guardare sopra la mia spalla» per imparare la mia specializzazione mentre scoraggiava le domande sui suoi progressi. Pensavo che conoscesse troppo bene il suo campo per parlarne in modo intelligente con chiunque, eccettuato se stesso. Eppure assorbiva tutta la mia conoscenza con grande rapidità; e alla fine sembrava che ne sapesse quanto me in fatto di virologia. Un giorno sparì senza dare spiegazioni, e ritornò dopo un paio di settimane con una voce che mi sembrava più sottile e nasale.
E verso la fine dell’anno, un giorno mi chiamò al telefono. Come sempre, passavo il weekend con mia moglie e i miei due figli ad Harlem. Si avvicinava il Natale e io e Barbara stavamo discutendo di alberi naturali e di alberi di plastica quando squillò il telefono. Non mi sorpresi nel sentire la voce acuta di Carlson, che in quegli ultimi tempi aveva preso a rassomigliare al suono dell’oboe… l’unica cosa strana era che avesse telefonato durante le normali ore di veglia.
— Jake — cominciò senza preamboli, — non ho né tempo né voglia di discutere, quindi stai zitto e ascolta, d’accordo? Ti consiglio di prendere con te la tua famiglia e di lasciare New York immediatamente… ruba una macchina, se è necessario, o sequestra un autobus se preferisci, ma vedi di trovarti almeno a venti miglia di distanza prima di mezzanotte.
— Ma…
— … dirigiti verso nord, se vuoi ascoltare il mio consiglio, e per amor di Dio stai lontano da tutte le città e cittadine e dai gruppi di gente. Se puoi, passa sopravvento rispetto alle industrie più vicine, e porta con te una quantità di formaldeide… e anche un’arma da fuoco, se ce l’hai. Addio, amico mio, e ricorda che faccio questo per il bene dell’umanità. Non so se lo capirai, ma me lo auguro.
— Wendell, in nome di Dio, che cos’hai…? — Ma la comunicazione s’era interrotta.
Barbare era vicina a me e aveva l’aria preoccupata. Teneva in braccio mio figlio Isham. — Che cosa c’è?
— Non lo so — dissi, incerto. — Ma credo che Wendell sia impazzito. Devo andare da lui. Resta con i bambini. Tornerò al più presto possibile. E… Barbara…
— Sì?
— So che ti sembrerà pazzesco, ma prepara una valigia e tieniti pronta a lasciare immediatamente la città se ti telefono per dirti di farlo.
— Lasciare la città? Senza di te?
— Sì, appunto. Lascia New York e non tornarci mai più. Sono virtualmente certo che non dovrai farlo, ma c’è la vaga possibilità che Wendell sappia di cosa sta parlando. In tal caso, ti aspetterò alla baita in riva al lago, al più presto possibile. — Poi rifiutai di rispondere ad altre domande e me ne andai, diretto a Long Island.
Quando arrivai alla casa di Carlson in Old Westbury entrai con la mia chiave e feci per scendere nel suo laboratorio. Ma lo trovai al piano terreno, nel mio, appollaiato su uno sgabello, intento a fissare una bottiglia che teneva nella destra. L’interno roteava e cambiava colore.
Carlson alzò la testa. — Sei uno stupido, Jake — mi disse a voce bassa prima che io potessi parlare. — Ti avevo dato una possibilità.
— Wendell, che cosa diavolo significa? Mia moglie s’è presa una paura d’inferno…
— Ricordi l’anosmia controllata di cui mi parlasti quand’ero all’ospedale? — continuò lui, tranquillamente. — Dicesti che il guaio è che il mondo puzza, giusto?
Lo fissai. Ricordavo vagamente le mie parole.
— Bene — disse. — Ho trovato una soluzione.
E Carlson mi disse che cosa teneva in mano. Una sola parola.
Persi la testa, completamente. Gli saltai addosso, cercando di stringergli la gola, e lui mi colpì con la mano sinistra; l’anello sfaccettato mi lasciò la cicatriche che ho ancora oggi. Persi i sensi. Quando rinvenni ero solo, solo con un rimorso irrimediabile che urlava nella mia mente, e con un terrore che mi attanagliava le viscere. Sul pavimento accanto a me c’era un biglietto scritto da Wendell, e mi diceva che, secondo il mio orologio, avevo un’ora a disposizione. Mi precipitai subito al telefono e sprecai dieci minuti cercando di chiamare Barbara. Non ci riuscii… un guasto alla linea, mi disse il centralino. Stravolto, presi tutta la formaldeide che trovai nei due laboratori e un respiratore, uscii nella notte e mi accinsi a rubare una macchina.
Ci misi venti minuti, niente male per il primo tentativo, ma il tempo volava… ce la feci appena ad arrivare a Manhattan, nonostante le condizioni ideali del traffico, prima che l’autostrada diventasse una macelleria.
Alle nove in punto, Wendell Morgan Carlson salì sul tetto dell’enorme Butler Library della Columbia, sostenuta dalle colonne finto-greche e da secoli di pensiero umano, rivolta verso nord al di sopra di un quadrilatero in cui l’erba e gli alberi avevano quasi rinunciato a vivere, verso l’immensa cupola della Lowe Library, e più oltre, verso il ghetto dove mia moglie e i mei figli stavano attendendo ignari. Teneva nelle mani la boccetta che non ero riuscito a strappargli: conteneva approssimativamente due cucchiaini di una coltura di virus infinitamente raffinata e concentrata. Era il prodotto finale del nostro lavoro di un anno, e duplicava ciò che i militari avevano impiegato anni e miliardi per ottenere: una varietà di virus che poteva diffondersi sul globo in quarantotto ore. Non c’erano antidoti né vaccini, non c’erano difese possibili, virtualmente, per tutta l’umanità. Era diabolico, immorale ed efficientissimo. D’altra parte, non era letale.
Non lo è, in se stesso. Ma Carlson aveva concluso, come tanti altri prima di lui, che qualche milione di vite era un prezzo accettabile per la salvezza del mondo; e perciò alle nove in punto della sera del 17 dicembre 1984 si sporse dal parapetto di Butler Hall e lasciò cadere la sua boccetta sulla distesa di cemento, sei piani più sotto. La boccetta andò in frantumi e sparse il suo contenuto nella brezza fiacca che soffiava ancora sul campus.
Carlson mi aveva detto una sola parola, quel pomeriggio: «Iperosmia».
Entro quarantott’ore ogni uomo, donna e bambino rimasto vivo sulla terra possedeva un olfatto approssimativamente cento volte più efficiente di quello di qualunque lupo che mai abbia ululato.
In quelle quarantotto ore, perì poco meno di un quinto della popolazione del pianeta, suicida con tutti i mezzi possibili e immaginabili, e ogni città del mondo riversò i suoi abitanti rimasti vivi nella campagna circostante. L’antico sistema soppressore degli odori esistente nel cervello umano crollò sotto la domanda insopportabile, sovraccaricato e bruciato in un istante.
Il complesso colosso chiamato Civiltà Moderna si arrestò in poco meno di due giorni. Nelle ultime ore, i pochi cittadini dell’altra parte del globo che ascoltarono e credettero le brevi, stravolte grida di morte dei grandi mass-media lottarono valorosamente, ma invano, per realizzare misure d’emergenza. I più saggi tentarono, come avevo fatto io, di annullare il loro olfatto con sostanze come la formaldeide; ma c’è un limite alla quantità di formaldeide che persino i più disperati possono riuscire a procurarsi in un giorno o anche meno, e in generale i suoi effetti sono temporanei. Altri optarono per ambienti stagni, se riuscivano a trovarli; e vi morirono ben presto, per asfissia quando le loro riserve d’aria si esaurirono, o per suicidio quando, nella speranza fervida di aver evitato il virus, aprirono le porte. Si scopri che la tecnologia umana non aveva prodotto tappi per il naso efficienti, e neppure sistemi di purificazione dell’aria capaci di filtrare il virus di Carlson. Sebbene il resto del regno animale non fosse particolarmente colpito, l’umanità non poté frenare gli effetti del tremendo Morbo Iperosmico, e incominciò l’Esodo…
Non credo che Carlson si rallegrasse della carneficina che seguì, anche se un malthusiano di stretta osservanza l’avrebbe forse considerata una potatura necessaria ormai da molto tempo. Ma è facile capire perché la riteneva necessaria, per visualizzare il «mondo migliore» al quale sacrificò tante vite. Le città cadute in rovina. Le automobili abbandonate a marcire. L’industria pesante estinta come i dinosauri. L’industria degli alimenti sintetici alla rovina. Il profumo divenuto ciò che era sempre stato, un ricordo; e così pure il tabacco. Un’ondata di smania di pulizia che investiva il mondo, e una flatulenza in pubblico diventava un reato capitale. Secaucus, nel New Jersey, abbandonata agli avvoltoi. Le comuni del ritorno alla natura che trovavano la loro apoteosi, aiutando i superstiti urbani a sopravvivere (la tipica frase: «Se non ti piacciono gli hippy, la prossima volta che hai fame chiama un poliziotto»). La forza della disperazione che imponeva nuovi sviluppi nella produzione dell’energia per mezzo del sole, del vento e dell’acqua anziché mediante la combustione inefficiente di risorse più preziose. Gli impianti igienici finalmente perfezionati. E un cambiamento profondo e interessante nelle usanze umane dell’accoppiamento via via che il finto interesse o disinteresse fosse diventato una simulazione insostenibile (come avrebbe potuto spiegarci qualunque lupo, l’odore del desiderio non si può simulare né nascondere).
Nel complesso, un osservatore imparziale (come Carlson credeva di essere) avrebbe predetto che, al prezzo complessivo del trenta o del quaranta per cento della sua popolazione (una perdita non troppo grave) il mondo, dieci o vent’anni dopo, sarebbe stato un posto migliore per viverci.
Invece, in realtà, adesso ci sono quattro miliardi di persone in meno, e in quest’anno 2 AC abbiamo raggiunto solo una modesta possibilità di sopravvivenza al prezzo dell’ottanta o del novanta per cento della popolazione globale.
La prima cosa che Carlson non poteva aspettarsi costò un miliardo e mezzo di vite durante il primo mese del Nuovo Mondo. La sua mente a compartimenti stagni non aveva seguito gli sviluppi nel campo della psicologia, una disciplina che gli appariva frustrante. E quindi non conosceva i lavori di Lynch e di altri, che dimostravano in modo conclusivo che l’autismo era il risultato del sovraccarico sensoriale. I bambini autistici, e Lynch l’aveva provato, erano vittime di uno squilibrio fisiochimico che metteva fuori uso il circuito soppressore per la vista, l’udito, il tatto e l’olfatto, inondava i loro cervelli con una valanga intollerabile di dati inutili e li sconvolgeva costringendoli a ripiegare in se stessi. Si dice che l’LSD produca un effetto simile, su scala più ridotta.
Il Virus Iperosmico produsse un effetto simile su scala più vasta. In poche settimane, milioni di adulti e bambini semi-catatonici perirono di denutrizione, di freddo e di caldo, o di lesioni accidentali. Resta un mistero perché alcuni sopravvissero allo schock e si adattarono mentre altri non ci riuscirono, sebbene esistano dati sparsi dai quali risulta che a soffrire di più furono coloro che avevano già un olfatto relativamente acuto.
La seconda cosa che Carlson non poteva aspettarsi era la Guerra.
La Guerra era stata causata nel momento in cui aveva lasciato cadere la boccetta; ma forse lo si può giustificare, se non l’aveva prevista. Non fu una guerra come se n’erano sempre viste sulla Terra secondo la storia documentata, gli umani gli uni contro gli altri oppure contro esseri inferiori. Non c’era nulla per cui potessero combattere i superstiti confusi e dispersi della Piaga Iperosmica, e pochissimi erano abbastanza sfaccendati per poterla combattere; e adesso, siamo equipaggiati meglio per competere con gli esseri inferiori. No, la guerra scoppiò tra i profughi stravolti… e i Musky.
Per noi è difficile, oggi, immaginare come fosse possibile che la razza umana avesse conosciuto per tanto tempo l’esistenza dei Musky senza crederci. Innumerevoli umani riferivano d’essere entrati in contatto con i Musky… che di volta in volta venivano chiamati «fantasmi», «poltergeist», «leprechaun», «folletti», «gremlin» e con una quantità di altri nomi fuorviami… e neppure uno di quei mille e mille testimoni veniva preso sul serio dall’umanità in generale. Alcuni di noi vedevano i loro gatti fissare affascinati qualcosa che non c’era e si chiedevano che cosa guardassero, ma senza crederci. Nella sua tipica arroganza, la razza umana presumeva che la peculiare perversione dell’entropia chiamata «vita» fosse una proprietà esclusiva dei solidi e dei liquidi.
Ancora oggi sappiamo pochissimo dei Musky, a parte il fatto che sono di natura gassosa e sono percettibili soltanto per mezzo dell’olfatto. Se il lettore è interessato, può consultare il rivoluzionario studio del dottor Michael Gowan che tenta una analisi psicologica di questi esseri completamente alieni, I cavalieri del vento (Fresh Start Press, 1986).
Una cosa che sappiamo con certezza è che sono capaci d’una giocosità incredibile e inquietante. Sebbene non siano veri telepati, i Musky possono proiettare e spesso imporre stati d’animo a breve distanza, e sembra che per secoli si siano divertiti a spaventare a morte certi umani scelti a caso. Forse ridevano come bambini innocenti quando a Salem venivano bruciate sul rogo le donne alle quali erano stati attribuiti i loro scherzetti. Il dottor Gowan suggerisce che questo aspetto della loro psiche razziale è veramente infantile… ritiene che la loro razza sia ancora nella fase dell’infanzia. Come la nostra, forse.
Ma nella loro puerilità, i Musky possono essere pericolosi, volutamente e involontariamente. Anni fa, prima dell’Esodo, la gente si chiedeva perché una razza capace di progettare una stazione spaziale non sapesse costruire un aereo sicuro… gli aerei cadevano dal cielo con regolarità allarmante. Spesso si trattava semplicemente di errori tecnici; ma sospetto che almeno altrettanto spesso un Musky noncurante, perduto in chissà quali pensieri alieni, veniva risucchiato dalla presa d’aria di un jet lanciato a tutta velocità e, morendo, faceva scoppiare il motore. È stata questa intuizione a indurmi a teorizzare che l’estremo calore potesse alterare e uccidere i Musky; e questo ci ha dato la prima e finora unica arma nella guerra furiosa ancora in corso tra noi e i cavalieri del vento.
Perché, come molti bambini, i Musky sono particolarmente paranoidi. Quasi nell’istante in cui si accorsero che adesso gli uomini potevano percepirli direttamente, attaccarono con una ferocia indicatrice d’un panico cieco. Impararono presto a batterci e ucciderci: attaccandosi alla faccia di un umano e costringendolo ad assorbirlo con il respiro, un Musky può rovinargli l’apparato respiratorio. L’unica soluzione, in condizione di combattimento, è un’arma la quale spara un proiettile abbastanza caldo per bruciare un Musky… ed è una soluzione imperfetta. Se non riuscite a bruciare in tempo un Musky prima che vi raggiunga, potete trovarvi di fronte alla spiacevole scelta tra rovinarvi i polmoni e farvi saltare la faccia. Oggi ci sono anche troppi Senza Faccia, oggetto di orrore e di pietà, mantenuti dai loro simili spiacevolmente consapevoli che domani potrebbe accadere anche a loro la stessa cosa.
Inoltre noi Techno, qui a Fresh Start, impegnati a ricostruire almeno un minimo di tecnologia, dobbiamo naturalmente portare i tamponi per il naso, inventati di recente, per lunghi intervalli mentre svolgiamo attività civilizzate. Perciò lavoriamo con il continuo timore che da un momento all’altro possiamo sentire proiezioni aliene di terrore e di paura, percepire anche attraverso i filtri nasali l’odore caratteristico di muschio che dà ai Musky il loro nome, ed esalare i polmoni negli ultimi spasimi della morte.
Dio sa come comunicano i Musky… se pure comunicano. Forse hanno semplicemente una mente collettiva o una mentalità d’alveare. Che cosa sceglierebbe l’evoluzione per una razza di nuvole di gas che turbinano sulla Terra portate dall’urlante mistral? Forse un giorno troveremo il modo di prenderne prigioniero uno e di studiarlo; per il momento ci accontentiamo di sapere che si possono uccidere. L’unico Musky buono è un Musky morto.
Un giorno, forse, risaliremo la scala dell’evoluzione tecnologica quanto basta per condurre la battaglia in casa dei Musky: per il momento stiamo almeno diventando difensori formidabili.
Un giorno, forse, avremo il tempo di cercare Wendell Morgan Carlson e di presentargli il conto; per ora ci accontentiamo del fatto che non osa mostrarsi fuori da New York, dove secondo la leggenda si nasconde dalle conseguenze delle sue azioni.