15.

Intorpidito, tremante e pieno d’orrore per la certezza che quanto aveva so­gnato fosse vero, Will Barbee rimase qualche minuto in piedi accanto al let­to, nelle tenebre.

Finalmente, con un rauco sospiro d’infelicità si decise ad accendere la luce e a guardare l’orologio. Erano le due e un quarto. Tese la mano verso gli indumenti che aveva lasciato sulla seggiola, spogliandosi, ma l’infermiera aveva dovuto ritirarli mentre dormiva, perché trovò solo la vestaglia rossa e le pantofole dalla suola di feltro.

Sempre tremante, e ricoperto di sudore, si coprì alla meglio, e premette il bottone del campanello. Poi, impaziente, ciabattò fuori della camera per an­dare incontro all’infermiera del turno di notte, un’atletica e bonaria signori­na Hellar, piuttosto matura.

«Oh, signor Barbee, ma io credevo che fosse addormentato!»

«Devo vedere Glenn!», le disse, frenetico. «Subito!»

La larga faccia da lottatrice dell’infermiera si illuminò di un sorriso impieto­sito, mentre la sua voce mascolina cercava di farsi carezzevole:

«Ma certo, signor Barbee... Perché non se ne torna intanto a fare un po’ di nanna, mentre noi cerchiamo di tei...».

«Madama», la interruppe Barbee in tono di feroce sarcasmo, «non è questo il momento di farmi vedere la vostra tecnica di imbonimento dei pazzi furio­si. Forse sono pazzo e forse non lo sono, non lo so ancora, ma pazzo o sano, devo parlare subito a Glenn. Dove si trova?»

L’infermiera Hellar si rannicchiò su se stessa, come se si trovasse sul qua­drato, davanti a un temibile avversario.

«E cerchi di non fare la furba», le consigliò Barbee guardandola con occhi sfavillanti. «Può darsi che lei sappia trattare a meraviglia i pazzi comuni, ma il mio caso è specialissimo, capisce?»

Gli parve di vederla assentire di malavoglia, e non poté fare a meno di aggiungere: «Chi sa come si metterà a correre, quando mi trasformerò in un sorcio enorme, tutto nero!».

La donna cominciò a indietreggiare lentamente, un poco pallida, ora.

«Voglio solo parlare a Glenn per cinque minuti, ma subito!», aggiunse con un urlo improvviso. «E se Glenn troverà da ridire, me lo metta in conto.»

«Temo che verrà una nota piuttosto salata», osservò l’infermiera, «se sono questi i suoi sistemi!»

Barbee la guardò sorridendo, e improvvisamente si buttò a terra a quattro gambe.

«Buono, buono!», ammonì la donna, nervosamente. «Ora le mostro il suo alloggio.»

«Brava la mia ragazza!» E si rialzò sulle due gambe.

L’infermiera Hellar si fece prudentemente da parte, e volle che la precedes­se per il corridoio e giù per le scale... e Barbee ebbe la sgradevole sensazione che la donna credesse realmente alla possibilità che lui si trasformasse in un enorme topo nero. Dalla porta sul retro dell’edificio, l’infermiera gli indicò la palazzina di Glenn immersa nelle tenebre, e fu manifesto che la forte Hel­lar trasse un sospiro di sollievo, quando lui si avviò da solo verso la palazzi­na.

Delle luci si accesero al piano superiore ancor prima che Barbee giungesse davanti alla porta, segno che l’infermiera aveva telefonato prima. Il soave e altissimo psichiatra in persona venne ad aprire, avvolto in una lussuosa ve­staglia di gusto piuttosto barbarico.

«Dunque, signor Barbee?»

«È successo un’altra volta!», annunciò il giornalista in tono tragico. «Ho fatto un altro di quei sogni, e so che non si tratta semplicemente di un sogno. Questa volta ero un serpente. E ho ammazzato... Nick Spivak!» Tacque un istante per riprender fiato. «Deve chiamare la polizia. Lo troveranno morto sotto una finestra aperta al nono piano della torre dell’Istituto... e l’assassino sono io!»

Barbee si asciugò la fronte madida, scrutando ansiosamente il volto del me­dico per scoprirne le reazioni. Lo psichiatra batté due o tre volte le pesanti palpebre sui sonnolenti occhi nocciola e si strinse nelle spalle sotto la ve­staglia sontuosa. Sorrise appena, con simpatia, buttando indietro la bruna testa ricciuta, e in quel momento, ancora una volta, parve a Barbee di averlo già conosciuto, in epoche chi sa quanto remote.

«Come», fece Barbee, «non vuole? Non vuole telefonare alla polizia?»

Con molta calma, Glenn scosse il capo:

«No, non possiamo farlo».

«Ma Nick è morto, le dico! Era mio amico!»

«Non siamo precipitosi, signor Barbee!» E Glenn alzò le forti spalle mollemente. «Se non si trova nessun cadavere, avremo dato una seccatura alla polizia per niente. Se si dovesse trovare un cadavere, potremmo trovarci in difficoltà a spiegare come lo abbiamo saputo...» La sua faccia abbronzata s’illuminò d’un sorriso cordiale. «Io, vede, sono un materialista convinto... ma gli uomini della polizia sono materialisti brutali!»

Barbee batteva i denti:

«Crede che io... abbia assassinato realmente Nick Spivak?».

«No davvero», rispose la voce sedativa di Glenn. «La Hellar mi assicura che lei è stato profondamente addormentato fino a pochi minuti fa. E poi vedo un’altra possibilità molto interessante, che potrebbe spiegare il suo sogno.»

«Sì?» E Barbee trattenne il fiato. «Quale?»

Glenn batté ancora le palpebre insonnolite.

«Lei ha cercato recentemente di risolvere un mistero che circonda, nella vita reale, la condotta del suo vecchio amico Quain e dei suoi colleghi. Con­sciamente, non è riuscito a trovare una soluzione attendibile, ma l’inconscio, non dimentichiamolo, è spesso molto più astuto di quanto noi ordinariamen­te sospettiamo.»

Deliberatamente, congiunse le punte delle dita insieme.

«Inconsciamente, signor Barbee, può aver sospettato che Nick Spivak sa­rebbe stato gettato da una certa finestra questa notte. Se il suo sospetto do­vesse coincidere più o meno con la realtà, la polizia potrebbe avere trovato il suo corpo là dove lei ha sognato che sia caduto.»

«Assurdo!», lo interruppe Barbee rabbiosamente. «Ma se con lui c’era sol­tanto Sam!»

«Appunto! Appunto!» E la testa ben modellata dello psichiatra s’inclinò due o tre volte, come a dire: “Non te l’avevo detto?”. «Il suo inconscio respin­ge l’idea che Sam Quain possa essere un assassino... e anche il suo modo di respingerla così veemente fa pensare che inconsciamente lei desideri che Sam Quain muoia per avere ucciso.»

Barbee levò un pugno nocchiuto e peloso.

«Basta con queste assurdità», gracidò più rauco che mai. «Tutto questo... tutto questo è diabolico!» Fece un passo innanzi, ansando, in cerca di un po’ di fiato. «È pazzesco. Le ho già detto, dottore, che Sam Quain e sua moglie sono due miei vecchi amici.»

Dolcemente, il medico domandò:

«Tutti e due?».

«Ma la pianti!», urlò Barbee, stringendo di nuovo i pugni. «Le proibisco... di dirmi simili cose!»

Glenn si ritrasse con una certa premura verso l’anticamera illuminata.

«Un consiglio, signor Barbee.» Sorrise ancora in modo disarmante, e annuì ancora. «La sua violenta reazione mi rivela che è stato toccato un punto molto sensibile, nascosto dentro di lei, ma non vedo la necessità di parlarne ulteriormente ora. E se dimenticassimo tutti i nostri problemi per questa not­te e ce ne tornassimo a letto?»

Barbee si calmò e ficcò i pugni nelle capaci tasche della vestaglia rossa.

«D’accordo, dottore», disse stancamente. «Mi scusi per averla disturbata a quest’ora.» Stava per andarsene, ma a un tratto si voltò, colto da un pensiero improvviso. E con voce bassa e rotta, soggiunse in tono disperato: «Ma lei sbaglia di grosso, dottor Glenn: la donna che amo è April Bell».

Con un lieve sorriso sardonico, Glenn chiuse la porta.

Lentamente, Barbee tornò nella notte verso la sua stanza, dove solo due o tre finestre erano vagamente illuminate. Gli sembrava strano camminare su due gambe soltanto, vedendo sagome informi con miopi occhi d’uomo, in­consapevole di tutti gli odori e i sentori dei suoi sogni.

Glenn, si disse, era un ciarlatano, se non peggio. Nessuno psichiatra serio poteva essere di lingua tanto disinvolta. Era vero, lo ammetteva, una volta era stato innamorato di Nora, prima che sposasse Sam. Forse era andato a trovarla più spesso di quanto fosse giusto nei lunghi periodi delle assenze di Sam, ma le rivoltanti conclusioni di Glenn erano assurde.

Quanto al telefonare alla polizia, doveva riconoscere che Glenn aveva ra­gione; e non poté fare a meno di rabbrividire alla sua diabolica insinuazione che Sam avrebbe potuto essere accusato del delitto. Doveva provvedere in qualche modo.

L’atletica Hellar gli permise con una certa apprensione di servirsi del tele­fono del suo ufficio, e lui chiamò Nora. Lei venne a rispondere subito, come se fosse stata in attesa di una telefonata, e la sua voce sembrava già piena di paura.

«Sam ha un apparecchio telefonico all’Istituto, vero?», le disse Barbee in risposta alla sua domanda angosciata. «Nora, ti prego, chiamalo immediata­mente. Sveglialo, se dorme: e digli di cercare subito Nick Spivak.»

«Perché, Will?», chiese lei con voce che sembrava sul punto di venir meno.

«Perché ho motivo di ritenere che possa essere accaduto qualcosa a Nick. E credo che ora anche Sam si trovi in grave pericolo.»

Per un lungo, lunghissimo istante, Nora non disse nulla. Barbee poteva udi­re il suo incerto respiro affannoso all’altro capo del filo e il ticchettio dell’o­rologio sulla scrivania, presso l’apparecchio telefonico. Alla fine, lei doman­dò con voce soffocata dall’emozione:

«Ma tu, Will, come lo sai?».

«Oh, fa parte del mio mestiere, Nora», le rispose a disagio. «Informazioni confidenziali, sai, tutti i cronisti sono organizzati in questo senso... Ma allora, già sapevi?»

«Sam aveva appena finito di telefonare, quanto tu hai chiamato. Era di­sperato, Will... sembrava che avesse quasi perduto la ragione.»

«Ma... ma che cosa è successo a Nick?»

«È caduto dalla finestra!» La voce della donna suonò come squarciata dal­l’orrore. «Dalla finestra del loro laboratorio privato, all’ultimo piano della torre. Sam dice che è morto sul colpo.»

L’orologio continuava a ticchettare calmo e regolare.

«Ma hai detto che potrebbe capitare qualche cosa anche a Sam. Che cosa, Will?»

«Lui e Nick erano soli nel laboratorio, no? E custodivano qualcosa che a quanto sembra ha grande valore in quella cassa che hanno portato dalla Mongolia. Due degli uomini che sapevano che cosa fosse sono già morti... e la loro scomparsa rischia di assumere una fisionomia poco chiara, ora che anche Nick è morto... capisci?»

«No, Will!», gridò Nora al telefono. «Non è possibile!»

«La polizia penserà che Sam abbia ucciso Nick per quello che è contenuto nella cassa. È continueranno a pensarlo fino a quando non sapranno che cosa c’è, in quella cassa... Ma vedrai che Sam non vorrà dirlo.»

«Ma non è stato Sam!», gridò spasmodicamente Nora. «Lo sai anche tu che Sam non potrebbe mai fare una cosa simile!»

Il ticchettìo dell’orologio sulla scrivania faceva pensare a onde lente sulla morta superficie del silenzio. Alla fine, la voce sfinita di Nora risuonò ancora nel microfono:

«Grazie, Will... Richiamerò subito Sam, per metterlo sull’avviso». E con rinnovata protesta che le saliva dall’anima: «Ma non è stato lui!».

Barbee ritornò stancamente nella sua camera, si tolse vestaglia e pantofole e si gettò spossato sul letto. Cercò di riaddormentarsi, ma era pervaso da una strana irrequietezza. Il ricordo del sogno lo ossessionava. Dovette suonare per l’infermiera e farsi dare un sonnifero, ma non si addormentò, ed era ancora sveglio, quando udì il sussurro della lupa bianca.

«Will!... Mi senti, Will Barbee?»

«Ti sento, April», mormorò lui, in preda al torpore. «Buona notte, amore.»

«No, Will!» La lupa aveva di nuovo il suo tono imperioso. «Devi tramutarti ancora questa notte, perché un altro compito ci attende.»

«No, basta!», protestò Barbee. «Non voglio più sognare, e poi so benissimo che non ti sento in realtà, che il tuo richiamo non esiste.»

«Oh, Barbee, non cercar d’ingannare te stesso... Lo sai bene che i tuoi non sono sogni. Ora ti prego di stare calmo e di ascoltarmi.»

«No, non ti ascolto e non sognerò più, non voglio più sognare.»

E agitava la testa sul cuscino, come per liberarla di lei e della sua ossessio­ne.

La voce della lupa squillò imperiosa nella sua mente come una frustata.

«Will! Devi ascoltarmi, tramutarti nuovamente e raggiungermi! Subito! E assumi la forma più spaventosa che puoi! Abbiamo un nemico molto più terribile di Spivak da combattere.»

«Quale nemico?»

«La cieca! Quella donna non è più nella clinica, dove nessuno bada alle sue farneticazioni. È scappata, Will, per andare ad avvertire Sam Quain!»

Barbee sentì un brivido gelido correre lungo la spina dorsale, come quando gli si rizzava il pelo sul collo sotto la forma di lupo. Ma era umano ora, sentiva la carezza delle lenzuola sulla sua pelle d’uomo, e i rumori della clini­ca, lontani, soffocati, col suo ottuso udito umano: i passi distanti dell’infer­miera Hellar, il russare d’un dormiente nella stanza accanto, un telefono che suonava con una certa impazienza, frequentemente:

«Ad avvertire Sam? E di che?», domandò, semiaddormentato.

Il sussurro della lupa sembrò a sua volta carico di terrore: «Rowena cono­sce il nome del Figlio della Notte!».

Con un sussulto, Barbee aprì gli occhi, e levando il capo un poco sul cuscino per guardarsi intorno vide una lama di luce gialla filtrare nella stanza sotto la porta dal corridoio, scorse il pallido rettangolo evanescente della finestra. Era ancora umano, del tutto umano, ed era sveglio.

Pure, il suo roco sussurro non poté fare a meno di chiedere: «Ma chi è questo misterioso cospiratore, che tanta paura faceva a Mondrick, questo tenebroso messia, il Figlio della Notte? Qual è il suo vero nome?».

«Will, non lo sai ancora?» E c’era l’antica sfumatura beffarda nella doman­da.

Un’ira improvvisa lo colse: «Lo so, chi è», disse con impazienza. «È il tuo buon amico Preston Troy!»

E rimase in attesa d’una risposta che non venne.

Era solo nella sua stanza, desto e immutato. Poteva udire il frettoloso tic­chettio del suo orologio e vederne il quadrante fosforescente, che segnava le quattro e quaranta. L’alba era lontana di due ore buone, ma lui non intende­va addormentarsi fino a che non avesse visto la luce del sole. Non osava...

«No, Barbee», il lieve sussurro lo fece sobbalzare ancora una volta, «il Fi­glio della Notte non è Preston Troy, ma tu devi meritarti la conoscenza del suo nome. E puoi farlo questa notte stessa, uccidendo Rowena Mondrick.»

Lui s’agitò rabbiosamente sul letto.

«Macché!», protestò. «È chiusa qui dentro, sotto chiave, con un esercito di infermiere che fa buona guardia. Ed è cieca, oltre tutto!»

«Eppure, la tua cieca è fuggita, e in questo momento sta dirigendosi verso Sam, per avvertirlo. Presto, Barbee. Assumi la forma più spaventosa, armati di artigli spietati, di zanne invincibili, perché dobbiamo ucciderla, prima che faccia giorno!»

«No!», urlò Barbee, e poi abbassò la voce per timore che l’infermiera potes­se udirlo. «Ho finito, April Bell! Finito d’essere lo strumento dei tuoi piani demoniaci... di assassinare i miei amici... ho finito anche con te!»

«Davvero, Barbee? Eppure...»

Rabbrividendo, riuscì a levarsi, e quel tenue sussurro si spense. Il suo furore e la sua apprensione avevano spezzato quella terribile trama di illusione, quel miraggio; né lui aveva la minima intenzione di fare del male alla povera Rowena, nel sonno o in stato di veglia.

Si pose a passeggiare per la camera sulle gambe malferme, sempre anelan­do per un po’ di fiato, madido di gelido sudore. Il mostruoso sussurro era veramente cessato. Si fermò presso la porta, tendendo l’orecchio per assicu­rarsene. Tutto quello che poté udire fu un lieve russare singhiozzante e som­messo, interrotto ogni tanto da un gorgoglio soffocato: era l’ometto barbuto, che la sera prima aveva rovesciato la scacchiera della dama, il quale dormiva i suoi sonni agitati dall’altra parte del corridoio.

Aprì cautamente la porta. Qualcuno urlava, in una parte lontana della di­pendenza. S’udivano anche voci di donna, stridule, eccitate. Un rumore di passi affrettati. Lo sportello di un’automobile che si chiudeva con uno schianto rabbioso. E poi il ronzio d’un motore che si accendeva, lo stridere dei freni, mentre la macchina, partita a tutta velocità, risaliva il viale in curva verso il cancello d’ingresso. Rowena Mondrick era veramente fuggita: la cer­tezza di questo lo colpì con la fredda precisione di un pugno in piena faccia.

Forse, come il soave Glenn gli avrebbe poi indubbiamente spiegato, il suo subcosciente turbato aveva semplicemente interpretato tutti i rumori sof­focati di allarme e di ricerca della fuggitiva come prolungato sussurro della lupa bianca.

Silenziosamente, Barbee calzò le pantofole e s’infilò la vestaglia, non di­menticando di cacciarsi nelle tasche il portafogli e le chiavi. Non distingueva più che cosa fosse realtà e illusione. Non avrebbe saputo chiarire a Rowena quale pericolo la minacciasse: non osava prestare fede a quel sussurro. Ma questa volta intendeva prendere parte attiva a qualunque cosa dovesse suc­cedere: e non come sicario del Figlio della Notte.

Il corridoio era deserto, e lui corse silenziosamente fino alle scale, dove si fermò al suono rabbioso della voce del dottor Bunzel: «Farà bene a trovar­la», diceva a un’infermiera. «Era affidata alla sua sorveglianza, specialissima sorveglianza. E lei sapeva che aveva già tentato di scappare.» Un’intonazione di scherno parve raddolcirgli la voce. «Non sarà passata attraverso il muro, vero?»

«È proprio quello che si penserebbe, dottore», rispose la voce tremula e smarrita di una ragazza. S’udì una specie di ruggito da parte del dottor Bunzel. «Voglio dire, dottore, che non riesco a capire da dove sia uscita.»

«Perché?»

«Povera signora!» La ragazza sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Era in grande agitazione fin dalla passeggiata di ieri mattina. E non voleva dormire, pregava e ripregava che la lasciassi andare dal dottor Quain. Poi, verso mezzanotte, i cani dei dintorni si sono messi a ululare e la povera si­gnora Mondrick ha cominciato a lanciare urla terribili. Sembrava che non volesse più cessare. Il dottor Glenn aveva ordinato di farle un’iniezione, se ce ne fosse stato bisogno, e io pensai che non era più il caso di attendere. Sono andata a prepararla e quando sono tornata, un minuto dopo, era scom­parsa.»

«Perché non ha dato l’allarme prima?»

«Ho voluto assicurarmi che non si fosse nascosta nella corsia comune.»

«Bisogna organizzare ricerche sistematiche. La signora è gravemente scon­volta e ho paura di quello che può commettere, abbandonata a se stessa.»

Le voci si erano allontanate a poco a poco verso l’altro lato dell’edificio e, Barbee non udì la risposta dell’infermiera. Silenziosamente scese le scale e assicuratosi che nessuno lo vedeva, uscì dalla porta posteriore della dipen­denza.

Sapeva di essere perfettamente desto e nella sua forma umana, e conosceva il pericolo che minacciava Rowena: lo aveva saputo dagli stessi nemici spietati della povera cieca, e contava di servirsene per aiutarla, questa volta.

Ma non conosceva tutte le regole di quello strano gioco, né quale ne fosse la posta, né chi fossero esattamente i giocatori. Era un sicario ribelle, e ora intendeva chiuderla, quella partita, per quel che riguardava lui, dalla parte degli uomini.

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