12.

Si svegliò che era già tardi. L’abbagliante fulgore del sole nella sua camera gli ferì gli occhi dolenti, e se ne ritrasse di scatto, prima di ricordarsi che il mortale potere della luce esisteva solo nel suo sogno. Un profondo males­sere lo dominava. Una plumbea stanchezza gli dolorava per tutto il corpo e fitte lancinanti gli strinsero il cranio in una morsa di spasimo, quando si levò a sedere sul letto.

Traballando, si diresse verso la stanza da bagno, tenendosi la testa tra le mani. La doccia, quasi bollente prima e subito poi gelida, gli fece bene, atte­nuando in parte la feroce emicrania. Un cucchiaino di bicarbonato efferve­scente, rimescolato in un bicchier d’acqua, gli rimise anche lo stomaco a po­sto.

Ma la sua immagine allo specchio lo spaventò. Era d’un pallore cinereo, il suo volto, stiracchiato e dalla pelle cascante, mentre gli occhi affondavano nelle occhiaie livide e scintillavano come per febbre sotto le palpebre dagli orli arrossati. Cercò di sorridere, quasi a illuminare un poco la tetra stan­chezza di quel volto, e le labbra esangui si torsero sardonicamente. Era la faccia d’un pazzo, quella, non di Will Barbee. Per l’ennesima volta, in quegli ultimi tempi, si disse che avrebbe fatto bene a smettere di bere e ad arricchi­re la sua dieta di vitamine, per disintossicarsi. Anche una buona rasatura avrebbe potuto giovare al suo aspetto spettrale, se soltanto fosse riuscito a non tagliarsi.

Stava preparando il rasoio quando squillò il telefono.

«Will?... Parla Nora Quain.» La voce della donna era piena di strazio. «Sii forte, Will. Sam mi ha chiamato pochi minuti fa dall’Istituto... è rimasto là a lavorare tutta la notte... per dirmi di Rex... Il povero Rex era partito stanotte per lo State College, nella nostra macchina. Forse andava a una velocità ec­cessiva... o era nervoso per il discorso che doveva fare alla radio. A ogni modo, la macchina si è rovesciata, sul passo di Sardis Hill. E Rex è morto.»

Il telefono scivolò di mano a Barbee. S’inginocchiò senza più forza e cercò il microfono a tastoni con dita bizzarramente intorpidite.

«È morto sul colpo, ha detto a Sam la polizia», continuava la voce di Nora. «Il vetro del parabrezza gli ha quasi staccato la testa dal collo. È una cosa terribile, e mi sento in certo qual modo responsabile. I freni non funzionava­no troppo bene, e non ho pensato di avvertirlo...»

Barbee annuì nel microfono, silenziosamente. Lei stessa non poteva sapere quanto fosse terribile. Avrebbe voluto gridare, se la gola secca e dolente glie­lo avesse permesso. Chiuse gli occhi contro l’offensiva luce del giorno e gli parve di rivedere il volto bello e stanco di Rex, mentre si voltava a guardare attraverso la sua forma spettrale.

«...era tutto quello che aveva», continuava la voce piangente di Nora. «So che tu sei il suo migliore amico, Will. Per due anni ha atteso in quella sua edicola che Rex tornasse a casa. Non si rassegnerà troppo presto... Dovresti dirglielo tu, Will. Non credi?»

Barbee dovette inghiottire due volte, prima di rispondere in un roco bi­sbiglio:

«Sì, certo, glielo dirò io».

E, riattaccato il microfono, tornò barcollando nella stanza da bagno, dove prese la bottiglia e bevve tre lunghe sorsate di whisky. Il liquore lo rinfrancò e gli tolse, almeno per il momento, quel terribile tremito alle mani. Finì poi di radersi e, salito in macchina, si diresse verso il centro.

Il vecchio Ben Chittum aveva già aperto l’edicola, quando Barbee fermò la macchina presso il marciapiede, e stava appendendo alcune riviste sopra lo sportello. Nello scorgere Barbee gli sorrise cordialmente, mettendo in mo­stra le gengive sdentate.

«Ehi, Willy!», chiamò. «Che novità ci sono?»

Barbee scosse il capo, senza sorridere, muto.

«Sei impegnato, questa sera?» E, senza badare all’espressione addolorata del giornalista, lasciò le sue riviste e andò presso la macchina. «Te lo doman­do perché», ed estrasse la nera pipetta dal taschino rigonfio del camiciotto, «questa sera preparo un pranzetto speciale per Rex.»

Sempre muto, Barbee era sceso dall’automobile e ora, ritto sulle gambe che lo reggevano a stento, in preda a un malessere intollerabile, guardava il vec­chietto che accendeva golosamente la pipa.

«A Rex è sempre piaciuto molto il mio stracotto di manzo e la mia focaccia di biscotti al miele, fin da quando era bambino, e ricordo che venivi spesso anche tu a mangiarli. Ci farai un gran piacere, Will, se verrai anche stasera. Ora telefono a Rex...»

Barbee si schiarì la voce.

«Purtroppo ho cattive notizie per te, Ben.»

La vitalità del vecchietto parve inaridirsi di colpo. Ansimò, fissò il giornali­sta e cominciò a tremare. La pipa gli scivolò dalle dita nodose e il cannello si spezzò sul marciapiede.

«Rex?», sussurrò.

Barbee inghiottì e fece un cenno affermativo col capo.

«Una disgrazia?»

«Sì, una disgrazia. Questa notte viaggiava in macchina sulle colline per con­to dell’Istituto. E l’automobile è sbandata, su Sardis Hill. Rex è... morto. Ma non... non ha sofferto.»

Ben Chittum rimase a lungo con gli occhi fissi nel vuoto, che si andavano lentamente colmando di lacrime. Erano occhi neri come quelli di Rex, e quando si persero così nel vuoto sembrarono improvvisamente quelli di Rex mentre si voltava a guardare, in quel terribile sogno, sotto la minaccia delle zanne a forma di sciabola.

«Per questo avevo paura», disse il vecchio lentamente. «Nessuno di loro aveva la faccia giusta, quando sono tornati dalla spedizione. Ma Rex non ha mai voluto dirmi nulla. E ho ancora paura, Will...»

Il vecchio si chinò stentatamente, per raccogliere la pipa spezzata, e con dita tremanti cercò di riconnettere i due pezzi.

«Ho ancora paura», riprese, «perché penso che abbiano dissotterrato qual­cosa in quel deserto che doveva restare sotto terra. Vedi, Rex mi disse un giorno, prima che partissero per l’ultima volta, che Mondrick andava in cerca dell’autentico Giardino dell’Eden, da dove è venuta la razza umana. Ho pau­ra che l’abbiano trovato, Will... e che abbiano anche trovato cose che sarebbe stato meglio non trovare.»

Si ficcò i pezzi della pipa in tasca.

«Rex non sarà l’ultimo del gruppo a morire.»

I suoi neri occhi immobili tornarono lentamente a fissarsi su Barbee e solo allora parve accorgersi delle lacrime che li colmavano. Se li asciugò con un impaziente colpo di manica. Poi scosse il capo e se ne tornò zoppicando verso la sua fila di riviste ch’era rimasta mezza ciondolante sullo sportello dell’edicola. Barbee rimase ritto dove si trovava, troppo sconvolto per pensa­re ad aiutarlo.

«Rex andava pazzo per il mio stracotto di manzo», mormorò il vecchio. «E per la focaccia di biscotti al miele. Te ne ricordi, vero, Will? Fin da quando era piccolo.»

Come in sogno, chiuse l’edicola e Barbee lo portò all’obitorio. L’ambulanza non era ancora arrivata col cadavere, cosa che arrecò un certo sollievo a Barbee. Il giornalista lasciò il povero vecchio affidato alle cure affettuose di Parker, lo sceriffo di contea, e si diresse automaticamente verso il Mint Bar.

Due doppi whisky non sortirono l’effetto di attenuare la terribile emicrania che gli pulsava nel cervello. La giornata era troppo luminosa e quella nausea molliccia che da qualche tempo compariva improvvisamente era tornata a torcergli lo stomaco. Rivedeva continuamente gli occhi di Rex che si voltava sotto la minaccia spaventosa che incombeva su di lui, e un terrore freddo e senza fine s’impadroniva a poco a poco della sua anima.

Disperatamente, cercò di reagire. Cercò di muoversi, di ridere allegramente alla storiella di un altro cliente al banco del bar. L’uomo si trasferì a disagio su un altro seggiolino più lontano, e Barbee si accorse che il barista lo osser­vava con strana intensità.

Pagò, e uscì sulle gambe malferme nella gran luce della strada.

Aveva la febbre, era scosso da un brivido incessante e sapeva che non avrebbe potuto guidare. Lasciò la macchina e si fece portare da un tassi al Trojan Arms. La porta che nel sogno aveva visto sbarrata e attraverso la quale April s’era materializzata così facilmente era aperta, ora, e Barbee vi entrò rapido e barcollante e si buttò su per le scale prima che l’uomo dietro il banco riuscisse a fermarlo.

Un cartello era appeso sulla porta del 2-C con la scritta «Non disturbare», ma il giornalista picchiò vigorosamente. Se il Presidente si trova ancora qui dentro, pensò Barbee, farà bene a nascondersi sotto il letto.

April Bell era più affascinante e soave che mai in una vestaglia verde mare, più aperta e scollata di quanto fosse lecito. Aveva i lunghi capelli di fiamma sciolti sulle spalle e i suoi occhi verdi si accesero d’una luce brillante, quando riconobbero il giornalista. Le labbra non erano truccate.

«Oh, Will! accomodati!...»

Barbee sedette nella capace poltrona che lei gli indicava, accanto a una lampada da lettura. Il proprietario del giornale non sembrava essere nei pressi, ma la poltrona aveva tutta l’aria di essere quella riservata a Preston Troy... dato che ben difficilmente April Bell poteva trovare interessante la lettura dell’ultimo numero di Fortune,sul tavolinetto accanto, o apprezzare i sigari contenuti nell’astuccio d’oro massiccio che a lui sembrava di aver già visto in passato.

April si diresse con la morbida grazia felina del sogno verso il divano di fronte, per sedervisi, e Barbee ebbe l’impressione che zoppicasse lievissima­mente.

«Ti sei fatto vivo, finalmente!», gli disse con la sua strana voce roca e melo­diosa insieme. «Mi domandavo perché non avessi più telefonato.»

Barbee si premette le mani contro le gambe per dominare il tremito che le scuoteva. Aveva una gran voglia di chiederle un liquore, ma ne aveva già bevuti troppi e non sembrava che gli avessero dato il minimo sollievo. Si alzò bruscamente dalla poltrona che doveva essere di Preston Troy, inciampò nel­lo sgabello e raggiunse con passo duro e legnoso l’altro capo del divano. I lunghi occhi della ragazza lo seguirono, vividi di un interesse lievemente ma­lizioso.

«April», le disse con voce soffocata, «l’altra sera al Knob Hill mi hai detto di essere una strega.»

La ragazza gli sorrise beffarda.

«Poveri noi, Will, chiunque ti sentisse penserebbe che a uno di noi due abbia dato di volta il cervello. Non senti anche tu l’assurdità della cosa? Mi hai fatto bere troppi dacquari, l’altra sera, questa è la verità, e l’alcool accen­de la mia immaginazione...»

Barbee si strinse le mani con forza, per interrompere il tremito.

«Ho fatto un sogno, questa notte. Mi sembrava di essere una tigre...» Non era facile continuare, il sorriso di April rendeva le sue parole assurde e ridi­cole all’estremo. «E c’eri anche tu, con me. Abbiamo assassinato Rex Chittum sul passo di Sardis Hill.»

April inarcò impercettibilmente le sopracciglia.

«Chi è Rex Chittum?», domandò, mentre i suoi occhi verdi battevano con innocenza. «Ah, sì, me l’hai detto, è uno dei tuoi amici che hanno portato quella misteriosa cassa dall’Asia.»

Barbee s’irrigidì, accigliandosi all’indifferenza della ragazza.

«Ho sognato che l’ammazzavamo», gridò quasi, «e stamattina ho saputo che è morto!»

«È una cosa strana, ma non insolita», osservò lei con calma. «Ricordo di essermi sognata mio nonno, la notte che morì.»

La voce di April era carezzevole, piena di sfumature vellutate, ma lui conti­nuava a sentirvi una punta lievissima di beffa. Le scrutò gli occhi: erano lim­pidi come laghi montani.

«È un pezzo che dovrebbero migliorare la curva di Sardis Hill», aggiunse April con tono distratto, e subito dopo, cambiando argomento: «Mi hanno detto, qui, che hai telefonato ieri mattina». Con morbida grazia si scosse il fiume di capelli rossi sulle spalle. «Come mi dispiace che tu non mi abbia trovata alzata.»

Barbee si mosse a disagio. Avrebbe voluto affondare le dita in quelle spalle di seta e trarne fuori la verità a scossoni... Ma forse quel tono impercettibil­mente beffardo era frutto soltanto della sua immaginazione. Era livido di terrore... terrore di lei, o di qualche mostro annidatosi nelle profondità della sua anima? Si alzò bruscamente, cercando di nascondere il tremito che lo possedeva.

«Dovevo restituirti una cosa, April.» Lei lo guardò, incuriosita, e non parve notare il tremito della sua mano, mentre Barbee si frugava in tasca e ne traeva la spilla di giada, che le offerse poi sulla palma madida.

Lanciò un piccolo grido di delizia: «Oh, Will, la mia spilla perduta! La spilla di famiglia che mi aveva dato la zia Agatha! Non puoi immaginare quanto mi faccia piacere riaverla!».

Si mise a far girare la piccola lupa per le dita, e parve al giornalista che il minuscolo occhio di malachite lo guardasse ammiccando per un istante.

«Dove l’hai trovata?», gli chiese.

Barbee avvicinò il volto a quello della ragazza, guardandola nel bianco degli occhi:

«Nella tua borsa», rispose duro e reciso. «Infissa nel cuore di un gattino strangolato.»

Il corpo lungo e sottile di April rabbrividì nella vestaglia verde, come in finto orrore.

«Che cosa orribile! Sembri stranamente morboso, oggi, Will!» Lo scrutò con occhi limpidi. «Davvero, a guardarti meglio, si direbbe che non stai affat­to bene. Vorrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che tu beva più di quanto il tuo organismo possa sopportare.»

Lui assentì con amarezza, pronto ad ammettere la sua disfatta nel gioco che stavano giocando; ammesso che la ragazza stesse giocando con lui una strana partita, e non fosse tutto immaginazione da parte sua.

«E la zia Agatha dov’è oggi?», domandò.

«È partita.» Alzò le belle spalle in un piccolo gesto di voluta indifferenza. «Dice che l’inverno qui a Clarendon la fa riammalare di sinusite ed è voluta tornare in California. L’ho accompagnata all’aereo ieri sera.»

Barbee, ritto davanti al divano, barcollò lievemente, e April gli si fece vici­na, piena di sollecitudine.

«Davvero, Barbee», gli disse, «non credi che faresti bene ad andare da un medico? Io conosco bene il dottor Glenn, e so che ha rimesso completamen­te in sesto una quantità di alc... di gente che beveva troppo.»

«Non ti fare scrupoli», ribatté Barbee con asprezza, «dammi pure dell’alco­lizzato, perché tanto è quello che sono.» Si avviò incerto verso la porta. «Forse hai ragione. È la semplice risposta a tutti i miei dubbi, la più semplice e convincente... Credo che andrò proprio a farmi visitare da Glenn.»

«Ma non andartene subito», pregò April, correndogli innanzi, per mettersi davanti alla porta... e ancora lui ebbe l’impressione che zoppicasse impercet­tibilmente, proprio con la stessa caviglia che le doleva nel sogno. «Non ti sei mica offeso, vero?», aggiunse con dolcezza. «Il mio voleva solo essere un consiglio, nello spirito più amichevole.»

Ma il senso della sua stanchezza, della sua inettitudine a ogni cosa, anche a risolvere l’enigma di April Bell, e il desiderio insopprimibile di lei, così remo­ta e beffarda, lo spinsero ad andarsene, a fuggire di là pieno di vergogna.

«Vieni un momento in cucina», gli stava dicendo. «Lascia che ti faccia una tazza di caffè e prepari un po’ di colazione per tutti e due, se hai voglia di mangiare qualche cosa. Ti prego, Will... un po’ di caffè ti farà bene.»

Ma lui scosse il capo quasi con rabbia, non voleva che lei si facesse beffe di un vinto, gongolasse sulla sua anima tormentata.

«No», disse. «Devo andare.»

Doveva avere notato l’espressione con cui Barbee aveva visto il numero di Fortune e l’astuccio dei sigari presso la poltrona che aveva pensato apparte­nesse a Troy.

«Almeno, accetta un sigaro», lo pregò con soavità. «Li tengo per gli amici.»

Si mosse con la sua grazia felina verso l’astuccio e questa volta Barbee fu certo che zoppicasse; e impulsivamente le domandò: «Ti sei fatta male alla caviglia?».

«Sì, ho inciampato per le scale, dopo avere accompagnato mia zia all’aero­porto.» Alzò le spalle, offrendogli l’astuccio dei sigari aperto. «Nulla di gra­ve, a ogni modo.»

Era grave, invece, e la mano magra di Barbee cominciò a tremare sulla scatola dei sigari con una tale violenza che April dovette prendere lei uno dei neri e forti Perfectos e spingerglielo fra le dita. Mormorando qualche pa­rola di ringraziamento, si avviò incespicando verso la porta.

Ma nonostante il suo turbamento era riuscito a leggere il monogramma in­ciso sull’astuccio d’oro: una P e una T intrecciate. E il sigaro era della stessa marca straniera che Troy gli aveva offerto ultimamente dopo averlo chiama­to nel suo ufficio.

Barbee aprì la porta a fatica, cercò di allontanare dal proprio volto l’espres­sione di amaro risentimento che sentiva e si voltò per salutare la ragazza. Lei lo stava guardando, ritta sulla soglia, col fiato sospeso. Forse la luce oscura dei suoi occhi era soltanto pietà, ma lui vi scorse uno scintillio segreto di sarcasmo. La vestaglia verde s’era dischiusa ancora un po’, rivelando la pelle candida, e la sua bellezza lo ferì come una lama che gli attraversasse le carni. Le pallide labbra di lei gli rivolsero un piccolo sorriso, mentre gli dicevano:

«Will, non te ne andare! Ti prego, Will...».

Ma lui se n’era andato. Non poteva sopportare la pietà che vedeva, o il sarcasmo che immaginava; quel grigio mondo di dubbio e di sconfitta e di sofferenze era diventato troppo forte per lui.

Per le scale, scaraventò il sigaro per terra e lo stritolò sotto il piede, e senza preoccuparsi dell’uomo dietro il banco, giù nel vestibolo, uscì dalla porta col suo passo barcollante. Sì, pensò ad alta voce, forse ha ragione, forse l’unica cosa da fare è andare dal dottor Glenn.

Non aveva nessuna simpatia per istituti psichiatrici e simili, ma Glenn godeva fama nazionale e il giovane dottor Archer Glenn, come già suo padre, era riconosciuto come un eminente pioniere della nuova psichiatria. Time,ricor­dò Barbee, aveva dedicato tre colonne alle sue ricerche nel campo della cor­relazione tra anomalie fisiche e anomalie psichiche e alle sue brillanti inno­vazioni, quando prestava servizio nella Marina durante la guerra, alla rivolu­zionaria tecnica psichiatrica della narcosintesi.

Come già il padre, Glenn, sapeva Barbee, era un convinto materialista. Il vecchio Glenn era stato grande amico del famoso Houdini, e fino alla morte la sua passione dominante era stata l’osservazione e lo smascheramento dei falsi medium, astrologi e veggenti d’ogni specie.

Il figlio continuava la campagna paterna: Barbee era stato a sentire varie sue conferenze per conto dello Star,conferenze in cui il giovane scienziato aveva attaccato ogni culto pseudoreligioso fondato su spiegazioni pseudo­scientifiche del soprannaturale.

La mente, secondo il motto di Glenn, non era che una funzione squisita­mente corporea. Quale migliore alleato?

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