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Indossava un paio di pantaloni grigi e una camicia dello stesso colore con il colletto aperto e senza una cravatta che potesse servirgli per impiccarsi. Mancava anche la cintura, per la stessa ragione, ma i calzoni erano stretti in vita e non c’era pericolo che scendessero. Come non c’era pericolo che gli capitasse di cadere da una delle finestre, perché erano tutte munite di sbarre.

Se ne stava lì, appoggiato al muro, a guardare gli altri sette. Era lì da due ore, e gli sembrava da due anni.

Il colloquio col dottor Randolph si era svolto senza difficoltà: era stato praticamente una replica di quello con Irving. Ovviamente, Randolph non aveva mai sentito parlare di lui.

Era quello che lui si aspettava.

Si sentiva calmissimo, ora. Aveva deciso che per un po’ si sarebbe astenuto dal pensare, dal preoccuparsi, perfino dal sentire.

Fece alcuni passi e si avvicinò ai giocatori di scacchi. Era una partita da gente sana, dove venivano rispettate le regole.

Uno degli uomini alzò gli occhi e domandò: — Come vi chiamate? — Era una domanda perfettamente normale; l’unica cosa strana era che lo stesso individuo avesse ripetuto la stessa domanda ben quattro volte da due ore à quella parte.

— George Vine — rispose.

— Io sono Bassington, Ray Bassington. Chiamatemi pure Ray. Siete pazzo voi?

— No.

— Alcuni di noi lo sono, altri no. Lui sì — Guardo l’uomo che stava suonando un pianoforte immaginario. — Sapete giocare a scacchi?

— Non molto bene.

— Capisco. Ceniamo presto, qui. Qualunque cosa vogliate sapere, non avete che da domandarmela.

— Come si fa a uscire di qui? Sentite un po’, non è una battuta di spirito. Dico sul serio. Com’è la procedura?

— Tutti i mesi ci si presenta davanti ad un gruppo di medici dell’ospedale. Quelli fanno alcune domande e decidono se potete andarvene o se dovete restare. A volte vi piantano dentro degli aghi. Come vi hanno classificato?

— Classificato? Che significa?

— Debolezza mentale, psicosi-depressiva, demenza precoce, malinconia involutiva…

— Oh paranoia, credo!

— Male. Allora vi pungono con degli aghi.

Un campanello suonò, chissà dove.

— La cena — disse l’altro giocatore di scacchi. — Mai tentato di suicidarvi? O di ammazzare qualcuno?

— No.

— Allora vi lasceranno mangiare a una tavola A, con coltello e forchetta.

La porta della corsia si aprì, versò l’esterno, e la figura di un infermiere si inquadrò nella soglia. — È ora — disse. Uscirono tutti, tranne l’uomo che se ne stava seduto su una sedia, fissando il vuoto.

— E quello? — chiese a Ray Bassington.

— Salta il pasto, stasera. Psicosi maniaco-depressiva che sta per entrare nella fase malinconica. Gli lasciano saltare un pasto. Se non è in grado di scendere neanche a quello seguente, lo portano giù loro e lo nutrono per forza. Avete una psicosi-depressiva, voi?

— No.

— Be’, siete fortunato. È tremendo, durante le crisi. Ecco, da questa parte.

Era un vasto locale. Tavoli e panche erano affollati di uomini vestiti di grigio, come lui Mentre attraversavano la soglia, un infermiere lo afferrò per un braccio e disse: — Sedete là.

Era proprio accanto alla porta. Un piatto di alluminio pieno di cibo messo lì alla rinfusa, e un cucchiaio. — Non potrei avere coltello e forchetta? — domandò. — Mi hanno detto…

L’infermiere lo mandò avanti con una spinta. — Periodo di osservazione. Sette giorni. Nessuno può avere le posate prima che sia finito il periodo di osservazione. Sedete.

Sedette. Nessuno a quel tavolo aveva le posate. Tutti gli altri stavano già mangiando, alcuni rumorosamente e disordinatamente. Lui tenne gli occhi fissi sul piatto, per quanto il cibo fosse tutt’altro che invitante. Giocherellò col cucchiaio, e riuscì a mandar giù qualche pezzo di patata pescata nella broda dello stufato, e un paio di bocconi di carne legnosa.

Il caffè era in un bicchiere di alluminio. Chissà perché? Poi capì quanto fosse facile rompere un bicchiere normale e quanto potessero diventare pericolosi i cocci delle solite tazze usate nei bar.

Il caffè era lungo e freddo: non riuscì a berlo.

Si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Per un attimo. Quando li riaprì il piatto e la tazza che gli stavano davanti erano vuoti e il suo compagno di sinistra mangiava a quattro palmenti. Era l’uomo che suonava il piano invisibile.

Pensò che se fosse rimasto a lungo in quel posto la fame gli avrebbe fatto mangiare anche quella roba. Non gli andava l’idea di restarci a lungo.

Dopo un po’ si sentì un altro campanello e tutti si alzarono — una tavolata per volta, a un segnale che lui non riuscì a individuare — e uscirono in fila. Il suo gruppo, che era entrato per ultimo, uscì per primo.

Ray Bassington era dietro di lui, sulle scale. — Vi ci abituerete — disse. — Come vi chiamate?

— George Vine.

Bassington rise. La porta venne chiusa nuovamente alle loro spalle, dall’esterno.

Fuori era buio. Lui si avvicinò a una delle finestre, e guardò fuori, attraverso le sbarre. C’era una sola stella lucente, che brillava proprio in cima al grosso platano del cortile. Era una stella? Be’, l’aveva seguito fin lì. Passò una nuvola e la nascose.

C’era qualcuno in piedi accanto a lui. Girò la testa e vide l’uomo che suonava il piano invisibile. Aveva la faccia abbronzata, dall’aria straniera, con gli occhi di un nero intenso; in quel momento sorrideva, come per una misteriosa barzelletta.

— Siete nuovo, qui? Oppure vi hanno appena trasferito da un altro reparto?

— Sono nuovo. Mi chiamo George Vine.

— Piacere, Baroni. Musicista. Lo ero, almeno. Adesso… lasciamo perdere. Volete sapere qualcosa su questo posto?

— Certo. Come si fa ad uscirne.

Baroni rise, senza allegria, ma neppure troppo amaramente. — Prima di tutto, bisogna convincerli che ci si è ristabiliti. Vi spiace raccontarmi che cosa avete? Ad alcuni dà fastidio, ad altri no.

Lui guardò Baroni, domandandosi a che categoria appartenesse. Finalmente disse: — A me non importa. Io… credo di essere Napoleone.

— E lo siete davvero?

— Che cosa?

— Napoleone! Se non lo siete davvero, è un conto. Può darsi che vi dimettano in sei mesi o giù di lì. Se invece lo siete sul serio… è un bel guaio. Probabilmente finirete i vostri giorni qui dentro.

— Perché? Voglio dire che se lo sono davvero, non sono affatto pazzo e…

— Non è questo il punto. Bisogna vedere se loro vi ritengono sano o no. Secondo la loro logica, se credete di essere Napoleone, non siete affatto sano. La cosa è dimostrata. Resterete qui.

— Anche se dico loro che sono convinto di essere George Vine?

— La sanno lunga, sulla paranoia. Per questo siete qui dentro. Ogni volta che un paranoico si stanca di questo posto; cerca di mentire perché lo mandino fuori. Mica sono nati ieri. Loro lo sanno.

Be’, questo in linea di massima, ma come… All’improvviso, un brivido gli corse giù perla schiena. Non finì neppure la domanda. «Vi pungono con gli aghi»… Ecco che cosa aveva voluto dire Ray Bassington.

Baroni annuì. — Il siero della verità — disse. — Quando un paranoico ha raggiunto lo stadio in cui può considerarsi guarito se dice la verità, quelli si assicurano che la dica sul serio prima di lasciarlo libero.

Si era cacciato volontariamente in una bella trappola! Probabilmente avrebbe finito i suoi giorni in quel posto, ormai.

Appoggiò la testa alle sbarre di ferro e chiuse gli occhi. Poi sentì dei passi che si allontanavano, e capì di essere rimasto solo.

Aprì gli occhi e guardò nel buio: ora le nuvole avevano nascosto la luna.

«Clare» pensò «Clare!»

Una trappola.

O lui era sano, o era pazzo. Se era sano, era caduto in trappola, e se c’era una trappola, doveva esserci anche il cacciatore. Magari i cacciatori.

Se invece era pazzo…

Volesse Iddio che fosse pazzo davvero! Così tutto avrebbe avuto un senso, e un giorno o l’altro se ne sarebbe potuto uscire da quell’inferno, tornare al suo posto al Blade, ricordandosi finalmente di tutti gli anni che aveva passato lì. O che George Vine aveva passato lì.

Ma qui stava il guaio. Lui non era affatto George Vine.

E c’era un altro ostacolo. Lui non era pazzo.

Le gelide sbarre di ferro premevano contro la sua fronte.


Dopo un po’ sentì aprire la porta e si voltò a guardare. Erano entrati due infermieri. Una speranza insensata, Irragionevole gli nacque dentro, lo travolse. Ma non durò a lungo.

— A letto, ragazzi! — disse uno dei due. Guardò l’uomo affetto da psicosi maniaco-depressiva e imprecò. — Accidenti! Ehi, Bassington, aiutatemi a trasportare quel tipo.

L’altro infermiere, un uomo tarchiato dai capelli tagliati corti come un lottatore, si avvicinò alla finestra.

— Siete nuovo, qui. Vine, nevvero?

Lui annuì.

— Andate in cerca di guai, o avete intenzione di fare giudizio?

La mano destra dell’uomo si contrasse in un pugno, il braccio si preparò pronto a scattare.

— Non voglio guai, ne ho abbastanza.

L’altro si calmò. — Bene. Continuate a pensarla così e andremo d’accordo. Lì c’è la cuccetta libera. Quella a destra. La rifarete voi stesso domattina. Statevene buono e badate ai fatti vostri. Se sentiremo rumore in corsia verremo noi e metteremo tutto a posto. A modo nostro. Non credo che vi andrebbe il sistema.

Lui non osò parlare, e si limitò a un cenno di assenso col capo. Poi si voltò e entrò nello stanzino che l’infermiere gli aveva indicato. C’erano due cuccette, là dentro. Una era vuota e sull’altra stava disteso supino il paziente affetto da psicosi maniaco-depressiva che poco prima sedeva su una sedia. Ora fissava ciecamente il soffitto con gli occhi spalancati. Gli avevano sfilate le pianelle, per il resto era completamente vestito.

Si diresse alla sua cuccetta, sapendo che non poteva fare assolutamente niente per quel disgraziato: impossibile raggiungerlo attraverso l’involucro di desolazione che ogni tanto lo avvolgeva tutto.

Sollevò la coperta grigia della brandina, e ne scoprì un’altra, pure grigia, stesa sopra un’imbottitura discretamente morbida. Si sfilò camicia e calzoni, e li appese ad un gancio infisso alla parete, ai piedi del letto. Poi cercò con gli occhi un interruttore per spegnere la luce, ma non ne vide. Mentre guardava, la luce si spense da sé.

Una sola lampada restava ancora accesa in un punto imprecisato della corsia, e al suo chiarore riuscì a togliersi scarpe e calze e a infilarsi sotto le coperte.

Rimase tranquillo per un poco; sentiva solo due rumori, entrambi deboli e lontani. In un punto imprecisato della corsia, qualcuno cantava piano a se stesso una nenia senza parole; più in là, qualcun altro singhiozzava. Nel suo stanzino, invece, non sentiva neppure il respiro del compagno che gli giaceva accanto.

Poi udì il passo strascicato di piedi nudi davanti alla porta aperta e qualcuno disse: — George Vine.

— Sì?

— Parlate più piano! Sono Bassington. Volevo dirvi di quell’infermiere. Avrei dovuto avvisarvi prima. Non stuzzicatelo.

— Non l’ho fatto.

— Visto. Siete stato in gamba. Vi farebbe a pezzi, se gliene deste l’occasione. È un sadico. Molti infermieri lo sono. Ecco perché sono diventati castigamatti. Così si chiamano, quelli. E se li licenziano da una parte perché sono troppo brutali, se ne vanno da un’altra. Domattina tornerà ancora lui. Per questo ho voluto avvertirvi.

L’ombra scomparve dalla soglia.

Lui rimase sdraiato nell’oscurità, soffrendo, più che pensando. Ponendosi domande. I matti sapevano di esserlo? Potevano dirlo? Erano tutti sicuri, come lo era lui…?

— Napoleone Bonaparte!

Era una voce chiara, distinta, ma veniva dalla sua mente o da fuori? Sedette sulla cuccetta, aguzzando gli occhi nel buio, ma non riuscì a distinguere alcuna forma, nessuna ombra, nel rettangolo della porta.

— Sì? — disse.

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