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Prese giacca e cappello e uscì nel sole caldo, lasciando dietro di sé l’aria condizionata. Abbandonò il tranquillo manicomio della redazione, per entrare in quello ancora più tranquillo delle strade cittadine in un soffocante pomeriggio di giugno.

Spinse il panama all’indietro, verso la nuca e si passò il fazzoletto sulla fronte. Non sarebbe certo andato in biblioteca per farsi una cultura sulla paranoia; quella era una scusa per poter trascorrere in pace il pomeriggio. Aveva già letto tutto quanto c’era da leggere su quella malattia mentale, e su argomenti affini, più di due anni prima. Ormai era un esperto, in materia. Avrebbe potuto menare per il naso qualsiasi psichiatra, facendosi credere perfettamente sano… oppure no.

Si diresse verso il parco e sedette su una panchina all’ombra. Posò il cappello accanto a sé e si asciugò di nuovo la fronte.

Poi fissò l’erba di un verde lucente, i piccioni con la loro buffa andatura, uno scoiattolo rosso, che scendeva lungo il tronco di un albero e che, vedendolo, fece dietrofront, arrampicandosi velocissimo.

Ripensò alla barriera che l’amnesia aveva innalzato nella sua mente tre anni prima. Al muro che non era stato affatto un muro. La frase lo imbarazzava: affatto un muro. I piccioni sull’erba, ahimè… affatto un muro.

Non era un muro affatto: era uno spostamento, un cambiamento brusco. Una linea tesa tra due vite. Ventisette anni di una vita antecedente l’incidente. Tre anni di una vita successiva all’incidente.

Non era la stessa vita.

Nessuno lo sapeva. Fino a quel pomeriggio non aveva mai neppure accennato alla verità — se poi era la verità — con nessuno. Se n’era soltanto servito per concludere il colloquio con Candler, sicuro che quello l’avrebbe presa come una battuta di spirito. Ma anche così… bisognava stare attenti. Se si usa spesso una battuta del genere la gente comincia a sentirsi perplessa.

Per fortuna durante l’incidente automobilistico aveva riportato, tra le molte ferite, anche la frattura della mascella e solo grazie a quella era ancora libero e non rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Quando aveva ripreso conoscenza, quarantott’ore dopo che la sua macchina era andata a schiantarsi contro un camion a una quindicina di chilometri dalla città, si era trovato la faccia ingessata a metà, e questo gli aveva impedito di parlare per tre settimane.

Durante quelle tre settimane, malgrado il dolore e la confusione di cui erano state piene, aveva avuto occasione di riflettere. E aveva inventato il muro. L’amnesia, la comoda amnesia, tanto più credibile della verità che conosceva lui solo.

Ma la verità era proprio quella?

Eccolo spettro che lo ossessionava da tre anni a quella parte! Dall’istante stesso in cui si era svegliato nel candore di una camera d’ospedale e aveva scorto uno sconosciuto, vestito in maniera strana, seduto accanto a un letto di cui lui non aveva mai visto l’uguale in nessun ospedale da campo. Un letto sormontato da una strana struttura. Staccando lo sguardo dalla faccia dello sconosciuto per osservare il proprio corpo aveva visto che una gamba e tutte e due le braccia erano ingessate, e che la gamba, sollevata quasi ad angolo retto, era tenuta in posizione da una fune che scorreva in una carrucola.

Aveva aperto la bocca per domandare chi era, che cosa gli era successo, e si era accorto di avere ingessata anche la mascella.

Allora aveva fissato lo sconosciuto, sperando che avesse abbastanza buon senso di informarlo volontariamente, e l’altro aveva sorriso, dicendo: — Salve, George! Finalmente sei sveglio, eh? Ti riprenderai presto.

C’era qualcosa di strano In quella lingua… Finalmente era riuscito a riconoscerla. Inglese. Si trovava dunque in mano degli inglesi? Era una lingua che conosceva pochissimo, eppure capiva perfettamente quell’uomo. E perché lo chiamavano George?

Forse i suoi occhi avevano mostrato perplessità, un atroce smarrimento, perché l’altro si era chinato sul suo letto. — Sei ancora confuso George — aveva detto. Hai avuto un bel guaio. Sei finito, con il tuo coupé, contro un autocarro di ghiaia. Due giorni fa. E ora hai ripreso conoscenza per la prima volta. Stai meglio, ma dovrai restare in ospedale per qualche tempo, fino a che tutte le fratture si saranno saldate. Però non c’è niente di grave.

Poi era venuta un’ondata di dolore, che aveva spazzato via tutto, obbligandolo a chiudere gli occhi.

— Adesso vi faccio un’ipodermoclisi, signor Vine — aveva detto un’altra voce, nella stanza. Ma lui non aveva osato aprire gli occhi. Era più facile sopportare il dolore senza vedere.

Aveva avvertito la puntura dell’ago nel braccio, e poi più niente.


Tornando in sé — dodici ore dopo, come aveva saputo in seguito — si era ritrovato nella stessa cameretta, nel medesimo letto, ma questa volta una donna, in uno strano costume bianco, era ritta ai piedi del letto, intenta a leggere un foglio fissato a un pezzo di cartone.

Vedendolo aprire gli occhi, gli aveva sorriso. — Buongiorno, signor Vine. Spero che stiate meglio, ora. Vado a dire al dottor Holt che vi siete svegliato.

Si era allontanata, tornando dopo pochi minuti con un uomo vestito suppergiù come lo sconosciuto che l’aveva chiamato George.

Il dottore l’aveva guardato sorridendo. — Finalmente un paziente che non può lamentarsi e neppure scrivere! — aveva detto. Poi si era fatto serio. — Soffrite? Chiudete gli occhi una volta per rispondere di sì. Due volte se invece vi sentite bene.

Il dolore non era insopportabile e lui aveva abbassato le palpebre per due volte. Il dottore aveva annuito, soddisfatto.

— Quel vostro cugino — aveva detto — è venuto molto spesso a trovarvi. Sarà felice di sapere che ora siete abbastanza in forma per… ecco, per ascoltare, se non per parlare. Penso che non potrà farvi male vederlo stasera.

L’infermiera gli aveva rimboccato le coperte e poi — per fortuna! — se n’era andata col medico, lasciandolo solo a mettere un po’ di ordine nel caos dei suoi pensieri.

Ordine? Tutto questo era successo tre anni prima e non era riuscito ancora a riordinarli adesso.

Non riusciva a spiegarsi come avesse potuto capire perfettamente l’inglese, quella lingua barbara che conosceva appena. Come mai un incidente stradale l’aveva messo in grado di parlare correntemente una lingua quasi sconosciuta?

Un altro particolare inspiegabile, era quello del nome. George aveva detto l’uomo che si trovava al suo capezzale quando lui si era svegliato. Signor Vine aveva detto l’infermiera. George Vine era un nome inglese. Non il suo.

Ma c’era una cosa mille volte più sorprendente delle altre. Lo sconosciuto — il “cugino”, come lo chiamava il medico — gli aveva detto parlando dell’incidente: «Sei finito con il tuo coupé contro un autocarro pieno di ghiaia». E il fatto sorprendente, contraddittorio, era che lui sapeva che cosa fossero un coupé e un autocarro. Non che si ricordasse di averli mai guidati, e neanche dell’incidente, né di quello che era successo dopo. Ricordava solo di essere stato seduto sotto la tenda, a Lodi… e… non riusciva a capire come l’immagine di un’auto coupé, di un veicolo azionato da un motore a benzina, potesse sorgere nella sua mente, se quèl concetto non le era mai stato presente prima.

C’era un’assurda confusione tra due mondi. Uno era netto, chiaro e definito. Il mondo in cui aveva trascorso i suoi ventisette anni di vita, dove era nato il 15 agosto 1769, in Corsica; dove (così almeno gli era sembrato, la notte avanti, nella sua tenda a Lodi) si era coricato dopo la sua prima importante vittoria come generale dell’esercito inviato in Italia.

E, in contrasto con quello, c’era il mondo sconvolgente in cui s’era svegliato, dove tutto era candido e la gente parlava un inglese diverso dalla lingua che aveva sentito a Brienne, a Valenza, a Tolone, ma che capiva perfettamente e sapeva di poter parlare, non fosse stato perla mascella immobilizzata nel gesso. Il mondo dove lui si chiamava George Vine e dove, cosa più strana di tutte, si usavano parole che lui non conosceva, che non poteva assolutamente conoscere, e che tuttavia suscitavano immagini nella sua mente.

Coupé, autocarro. Erano entrambi (la parola gli si era presentata spontaneamente alla mente) automezzi. Si era concentrato sul significato della parola automezzo, sul particolare funzionamento di quel veicolo, e aveva subito trovato l’informazione. Il blocco del cilindro, gli stantuffi mossi dall’esplosione dei vapori della benzina incendiata da una scintilla di elettricità prodotta da un generatore…

Elettricità. Aveva riaperto gli occhi e fissato la lampada velata appesa al soffitto; sapeva (chissà come) che quella era la luce elettrica. Approssimativamente, sapeva anche che cosa fosse l’elettricità.

L’italiano Galvani… Sì, aveva letto di alcuni esperimenti fatti da Galvani, che però non avevano portato ad alcuna realizzazione pratica simile a quella della lampadina. Poi, sempre fissando la luce velata, aveva visto con gli occhi della mente la forza dell’acqua che muoveva la dinamo; i chilometri di filo, i motori che azionavano generatori. Aveva trattenuto il respiro per la meraviglia davanti al concetto che gli era venuto incontro uscendo dalla sua mente o, meglio, da una parte di essa.

Gli impacciati, incerti esperimenti di Galvani, avevano appena preannunciato il mistero spiegabilissimo di quella luce che se ne stava lassù, sul soffitto. E, cosa infinitamente strana, solo una parte della sua intelligenza la trovava misteriosa mentre un altro settore la considerava con la massima naturalezza e ne capiva il funzionamento nelle sue linee generali.

La luce elettrica, aveva pensato, era stata inventata da Thomas Alva Edison, verso il… che buffo! Stava per dire verso il 1900, mentre era soltanto il 1796!

Poi l’orribile verità gli si era presentata alla mente, e lui aveva cercato — dolorosamente e invano — di rizzarsi a sedere sul letto. Era stato proprio nel 1900, glielo diceva la sua memoria, ed Edison era morto nel 1931… E un uomo chiamato Napoleone Bonaparte era morto centodieci anni prima, nel 1821.

Allora si era sentito impazzire.

Pazzo o sano che fosse, soltanto l’impossibilità di parlare lo aveva salvato dal ricovero in manicomio; gli aveva dato il tempo di riflettere, di rendersi conto che la sua sola speranza di salvezza stava nel dichiararsi vittima di un’amnesia, nel fingere di non ricordare nulla della vita prima dell’incidente. Non si manda nessuno in manicomio per un’amnesia. Ti dicono chi sei, e ti lasciano tornare a quella che, secondo loro, era la tua esistenza. Ti permettono di raccogliere i fili spezzati e di tesserli di nuovo, mentre cerchi di ricordare.

Tutto questo era successo tre anni prima. Domani sarebbe andato nello studio di uno psichiatra… per dirgli che lui era Napoleone!

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