Il bene sussurra.
Il male grida.
Il bene grida.
Il male sussurra.
Martedì mattina, per la seconda volta in otto giorni, la terra tremò a Los Angeles. A Cal Tech venne registrata una scossa di ventitré secondi, di 4,6 gradi della scala Richter.
Il sisma non arrecò seri danni e molti abitanti si divertirono a inventare barzellette per sdrammatizzare l’evento. Ne circolava una sugli arabi: avevano provocato il terremoto per impossessarsi di parte della California e ottenere così un risarcimento per i debiti petroliferi. E quella sera, alla televisione, Johnny Carson avrebbe raccontato che era stata Dolly Parton a provocare il terremoto saltando giù dal letto. Quelli che erano arrivati in città da poco, tuttavia, non ci trovarono niente da ridere; erano convinti che non sarebbero mai riusciti a prendere un terremoto così alla leggera. In realtà, nel giro di pochi mesi, anche loro avrebbero cominciato a scherzarci sopra.
Fino al terremoto con la «T» maiuscola.
Era l’inconscia paura del grande sisma che portava i californiani a ridicolizzare le scosse minori. Se si fossero soffermati a riflettere sulla possibilità di un vero cataclisma, con la terra che si spalancava sotto i piedi, sarebbero rimasti paralizzati dalla paura. La vita doveva andare avanti nonostante il rischio. Dopotutto, la terra poteva starsene tranquilla per un centinaio d’anni, magari per sempre. Il freddo gelido delle zone orientali provocava più morti dei terremoti californiani. Vivere in Florida, battuta dagli uragani, o nelle pianure del Midwest, spesso investite dai tornado, era pericoloso quanto decidere di stabilirsi sulla faglia di Sant’Andrea. Considerando che ogni nazione del pianeta cercava di accaparrarsi le migliori armi nucleari, la furia della terra appariva quasi sminuita se paragonata alla rabbia degli uomini. Per scongiurare la minaccia di un terremoto, i californiani preferivano scherzare, trovando qualcosa di divertente nell’eventuale disastro, come se il suolo instabile non avesse alcun effetto su di loro.
Ma quel martedì, come sempre quando la terra tremava, molte più persone superarono i limiti di velocità per correre in ufficio, oppure dalla propria famiglia, dagli amici o dagli amanti; nessuno di loro si rese comunque conto di vivere in modo più frenetico rispetto alla giornata di lunedì. In un giorno simile, molti più mariti avrebbero chiesto il divorzio. E molte più mogli avrebbero lasciato i propri mariti. Molti giovani avrebbero deciso di sposarsi. Un numero incredibile di giocatori avrebbe organizzato un fine settimana a Las Vegas e le prostitute avrebbero concluso affari d’oro. E, molto probabilmente, si sarebbe registrato un forte aumento nell’attività sessuale fra i coniugi, gli amanti e i ragazzini ingenui alle prime, goffe esperienze. Non esistevano prove inconfutabili a suffragio del legame esistente fra l’aspetto erotico e l’attività sismica. Ma nel corso degli anni i sociologi e gli psicologi del comportamento avevano osservato i gorilla, gli scimpanzè e gli orangutan negli zoo e registrato un aumento anomalo di accoppiamenti frenetici nelle ore immediatamente successive ai terremoti di forte e media intensità. Era logico concludere che, almeno a livello di organi riproduttivi, l’uomo non fosse poi molto lontano dai cugini ospitati nello zoo.
La maggior parte dei californiani affermavano con aria di sufficienza di essersi ormai abituati a vivere in una zona sismica, ma in realtà, a loro insaputa, la tensione psicologica continuava a forgiarli e modificarli. Il terrore della catastrofe incombente era un sussurro onnipresente che dava voce all’inconscio, un sussurro influente che agiva sul loro comportamento più di quanto immaginassero.
Naturalmente, era solo uno dei tanti sussurri…
Hilary non fu sorpresa dalla reazione della polizia nei confronti della sua storia e cercò di non innervosirsi.
Tony aveva chiamato la Centrale usando il telefono di un vicino e nel giro di cinque minuti, trentacinque minuti prima del terremoto, giunsero a casa di Hilary due agenti in uniforme. Con il tipico atteggiamento distaccato e leggermente annoiato dei poliziotti, riportarono diligentemente la sua versione dell’incidente, individuando il punto da cui era entrato l’aggressore (di nuovo una finestra dello studio), prepararono l’inventario degli oggetti danneggiati in soggiorno e in sala da pranzo e raccolsero tutte le informazioni necessarie per il rapporto. Hilary spiegò che l’assalitore indossava i guanti e quindi gli agenti non si preoccuparono di chiamare un tecnico del laboratorio per rilevare le impronte digitali.
La determinazione con la quale lei affermò che il suo aggressore era lo stesso individuo che pensava di aver ucciso giovedì sembrò affascinarli. Il loro interesse non era comunque volto a determinare se la donna avesse veramente riconosciuto il colpevole: appena udirono la sua versione, si fecero immediatamente un’idea di ciò che era accaduto. Non esisteva la benché minima possibilità che l’aggressore fosse Bruno Frye. Le chiesero di ripetere più volte come si erano svolti i fatti, interrompendola spesso con domande precise, ma solo per stabilire se si era davvero sbagliata, in preda alla confusione, o se stava mentendo deliberatamente. Alla fine decisero che era leggermente frastornata a causa dello choc e che tale sensazione era accentuata dalla somiglianzà dell’aggressore con Bruno Frye.
«Lavoreremo partendo dalla descrizione che ci ha fornito,» spiegò uno dei due.
«Ma non possiamo diffondere l’identikit di un morto,» aggiunse l’altro. «Sono certo che capirà.»
«Era Bruno Frye,» insistè Hilary.
«Be’, non possiamo fare nulla in questo senso, Miss Thomas.»
Tony si sforzò di appoggiare la sua versione, senza tuttavia aver visto l’aggressore, ma né la sua posizione all’interno del dipartimento di polizia né le sue credenziali riuscirono a impressionare gli agenti. Lo ascoltarono attentamente, annuirono più volte, ma non si lasciarono minimamente influenzare.
Venti minuti dopo il terremoto, Tony e Hilary osservarono la macchina della polizia che si allontanava lungo il vialetto.
Con un senso di frustrazione, Hilary sbottò: «E adesso?»
«Ora finisci di preparare la valigia e poi ce ne andiamo a casa mia. Chiamerò la Centrale e farò due chiacchiere con Harry Lubbock.»
«E chi è?»
«Il mio capo. Il capitano Lubbock. Mi conosce piuttosto bene e ci rispettiamo l’un l’altro. Harry sa che non mi pronuncio su un caso se non ne sono assolutamente sicuro. Gli chiederò di controllare nuovamente Bruno Frye e di indagare ancora sul suo passato. Inoltre Harry può mettere sotto torchio lo sceriffo Laurenski. Non preoccuparti, in un modo o nell’altro riuscirò a smuovere le acque.»
Ma quarantacinque minuti più tardi, quando Tony raggiunse casa sua e chiamò la Centrale, non fu assolutamente soddisfatto della conversazione avuta con Harry Lubbock. Il capitano ascoltò attentamente il resoconto di Tony. Non dubitava certo che Hilary fosse convinta di aver visto Bruno Frye, ma non aveva alcun motivo di riaprire un’inchiesta su Bruno Frye per un reato commesso quando quell’uomo era già morto da qualche giorno. Non era disposto a prendere in considerazione l’unica possibilità su dieci milioni per cui il coroner si sarebbe potuto sbagliare e Frye avrebbe potuto miracolosamente sopravvivere alla tremenda emorragia, all’autopsia e alla cella frigorifera dell’obitorio. Harry si mostrò comprensivo, attento e infinitamente paziente. Ma era ovvio che giudicasse inattendibili le osservazioni di Hilary, le cui percezioni erano probabilmente distorte dalla paura e dall’isteria.
Tony si sedette accanto a lei, su uno degli sgabelli accanto al bancone, e le riferì le parole di Lubbock.
«Isteria!» sbottò Hilary. «Mio Dio, sono stanca di sentire quella parola! Tutti sono convinti che mi sia fatta prendere dal panico. Tutti sono maledettamente sicuri che sia pazza o che stia blaterando parole senza senso. Bene, fra tutte le donne che conosco, sono forse l’unica che non perderebbe la testa in una situazione del genere.»
«Sono d’accordo con te. Volevo solo informarti di quello che pensa Harry.»
«Maledizione.»
«Esatto.»
«E il fatto che anche tu ne sia convinto non significa niente?»
Tony fece una smorfia. «Crede che sia un po’ fuori di me, per via di Frank.»
«Quindi anche tu saresti pazzo.»
«Solo agitato. Un po’ confuso.»
«Ha detto veramente così?»
«Sì.»
Hilary si ricordò che Tony aveva usato quelle stesse parole riferendosi a lei quando aveva udito per la prima volta la storia del morto vivente e commentò: «Forse te lo sei meritato.»
«Forse sì.»
«E che cosa pensa Lubbock delle minacce? Voglio dire, il picchetto conficcato nel cuore, la bocca piena di aglio e tutte quelle stupidaggini?»
«Ha ammesso che si tratta di una singolare coincidenza.»
«Tutto qui? Solo una coincidenza?»
«Per ora, ha intenzione di considerarla così.»
«Maledizione.»
«Non l’ha detto esplicitamente, ma secondo me crede che la scorsa settimana ti abbia raccontato quello che c’era nel furgone di Frye.»
«Ma non è vero.»
«Io e te sappiamo che non è vero. Ma probabilmente tutti gli altri la vedono così.»
«Pensavo che tu e Lubbock foste amici e che vi rispettaste l’un l’altro.»
«Infatti è così,» rispose Tony. «Ma, come ti ho già detto, è convinto che sia un po’ scosso. È sicuro che tornerò quello di sempre nel giro di qualche giorno, passato lo choc per la morte del mio compagno. E a quel punto cambierò idea e non appoggerò più la tua versione. È ovvio che non lo farò perché io so di non averti raccontato nulla dei libri sull’occulto e delle altre cianfrusaglie trovate nel furgone di Frye. E anch’io ho l’impressione, la strana sensazione, che Frye sia effettivamente ritornato. Dio solo sa come. Ma non basta una semplice impressione per convincere Harry e non posso certo biasimarlo per il suo scetticismo.»
«Nel frattempo?»
«Nel frattempo, la squadra Omicidi non si interesserà certo al caso. Non cade sotto la nostra giurisdizione. Verrà considerata come una semplice tentata aggressione da parte di ignoti.»
Hilary aggrottò le sopracciglia. «Questo significa che, in pratica, non faranno niente.»
«Sfortunatamente, temo che sia così. In casi come questo, la polizia può fare ben poco. Spesso il colpevole viene catturato molto tempo dopo e per pura coincidenza: beccano un tipo che tenta di introdursi in una casa o che assale qualcuno e quello confessa tutti i suoi reati precedenti.»
Hilary iniziò a passeggiare nervosamente avanti e indietro nella minuscola cucina. «Sta succedendo qualcosa di strano e di terribile. Non posso aspettare che tu riesca a convincere Lubbock. Frye ha detto che sarebbe tornato. Cercherà di nuovo di uccidermi fino a quando uno di noi due sarà morto. Irrevocabilmente morto. Potrebbe arrivare in qualsiasi momento. In qualsiasi luogo.»
«Non correrai alcun pericolo se rimarrai qui fino a quando avremo scoperto qualcosa,» spiegò Tony, «o almeno fino a quando saremo riusciti a convincere Harry Lubbock. Qui sarai al sicuro. Frye, ammesso che sia lui, non riuscirà a trovarti.»
«Come fai a esserne così sicuro?» domandò.
«Non è onnisciente.»
«Dici di no?»
Tony scosse la testa. «Aspetta un attimo. Non vorrai farmi credere che è dotato di poteri soprannaturali, che è un veggente o roba del genere, vero?»
«Non dico questo, ma non posso nemmeno escluderlo,» proseguì lei. «Ascolta, se ammettiamo che Frye è vivo, in qualche modo, come possiamo escludere qualcosa? Potrei persino iniziare a credere agli gnomi, ai folletti e a Babbo Natale. Il fatto è che forse… ci ha semplicemente seguiti fin qui.»
Tony alzò un sopracciglio. «Ci ha seguiti da casa tua?»
«È possibile.»
«No.»
«Ne sei certo?»
«Quando sono arrivato da te, lui è scappato.»
Hilary si bloccò nel centro della cucina, stringendosi nelle spalle. «Forse è rimasto nei paraggi per vedere che cos’avremmo fatto e dove saremmo andati.»
«È molto improbabile. Anche ammesso che non si sia allontanato quando sono arrivato io, stai pur certa che si sarebbe dileguato vedendo la macchina della polizia.»
«Non possiamo saperlo. Nel migliore dei casi, abbiamo a che fare con un pazzo. O forse ci troviamo di fronte all’ignoto, a qualcosa che va oltre la nostra comprensione e che può risultare incredibilmente pericoloso. A ogni modo, non puoi aspettarti che Frye ragioni e si comporti come una persona qualunque. Qualsiasi cosa sia, non è decisamente un uomo qualunque.»
Tony la fissò per un attimo e poi si passò una mano sul viso. «Hai ragione.»
«Sei ancora sicuro che non ci abbia pedinato?»
«Be’… non pensavo di essere seguito,» mormorò Tony. «Non mi è mai successo.»
«Nemmeno a me. Fino a ora. Per quanto ne sappiamo, in questo preciso momento può essere lì fuori a controllarci.»
A quel pensiero, Tony ebbe un gesto di stizza. «Ma dovrebbe essere dannatamente sfacciato per architettare una cosa simile.»
«Ma lui è sfacciato!»
Tony annuì. «Già. Hai ragione di nuovo.» Rimase immobile per un attimo, poi uscì dalla cucina.
Hilary lo seguì. «Dove stai andando?»
Tony si diresse verso la porta. «Stai qui mentre do un’occhiata in giro.»
«Non se ne parla nemmeno,» obiettò Hilary. «Vengo con te.»
Tony si fermò con la mano sulla maniglia. «Se Frye è qui fuori, sarai più al sicuro in casa.»
«E se quando riapro la porta, mi trovo davanti qualcun altro?»
«Siamo in pieno giorno,» proseguì Tony. «Non mi succederà niente.»
«La violenza non è riservata alla notte,» protestò Hilary. «Ammazzano la gente anche in pieno giorno. Sei un poliziotto e dovresti saperlo.»
«Ho con me la pistola. So badare a me stesso.»
Hilary scosse la testa. Era irremovibile. «Non starò qui seduta a mangiarmi le unghie. Andiamo.»
Uscirono e si sporsero dal balcone per controllare i veicoli posteggiati davanti all’edifìcio. Non ce n’erano molti. La maggior parte della gente era già andata al lavoro. Oltre alla jeep blu di Tony, erano parcheggiate solo sette automobili. I raggi del sole si riflettevano sulle carrozzerie lucide trasformando i parabrezza in grandi specchi accecanti.
«Penso di riconoscerle tutte,» disse Tony. «Appartengono a persone che abitano qui.»
«Ne sei sicuro?»
«Non del tutto.»
«Vedi qualcuno seduto in macchina?»
Tony strizzò gli occhi. «È difficile, con questo riverbero.»
«Andiamo a dare un’occhiata,» propose Hilary.
Nel parcheggio scoprirono che le automobili erano vuote. In giro non c’era nessuno.
«Per quanto sfacciato,» ironizzò Tony, «dubito che si sieda sullo zerbino per controllarci. Dal momento che c’è una sola strada che conduce agli appartamenti, può darsi che ci tenga d’occhio da una certa distanza.»
Si allontanarono lungo il marciapiede e guardarono in tutte le direzioni. Era una zona di condomini con il classico problema della carenza di posteggi; persino in un giorno feriale, a metà mattina, si notava una lunga fila di macchine sui due lati della strada.
«Vuoi controllarle tutte?» chiese Hilary.
«Sarebbe una perdita di tempo. Con un binocolo può anche osservarci da quattro isolati di distanza. Dovremmo controllare quattro isolati in su e quattro in giù e, comunque, potrebbe mettere in moto e partire da un momento all’altro.»
«Ma in tal caso, riusciremmo a individuarlo. Ovviamente non potremmo fermarlo, ma almeno avremmo la certezza che ci ha seguito. E potremmo anche scoprire che macchina usa.»
«Non è detto, soprattutto se si allontana quando siamo a due o tre isolati di distanza,» proseguì Tony. «Non potremmo essere sicuri che si tratta proprio di lui. Oppure potrebbe decidere di scendere dalla macchina e fare due passi per poi tornare quando noi siamo già passati.»
L’aria sembrava di piombo e Hilary dovette sforzarsi per riuscire a respirare profondamente. Considerando che era già la fine di settembre, si preannunciava una giornata molto calda e anche incredibilmente umida. Il cielo era limpido e sereno, di un azzurro intenso. Il calore si alzava già dal marciapiede infuocato. Nell’aria soffocante, riecheggiavano le risate dei bambini che giocavano nella piscina dall’altra parte della strada.
In una. giornata simile era difficile credere ai morti viventi.
Hilary sospirò e mormorò: «Come facciamo a scoprire se ci sta osservando?»
«Non possiamo esserne sicuri.»
«Temevo che l’avresti detto.»
Hilary lasciò correre lo sguardo lungo la strada, costellata di punti d’ombra e di luce. L’orrore si nascondeva fra i raggi del sole. Il terrore si mescolava alle splendide palme rigogliose, ai muri intonacati di fresco e ai tetti in stile spagnolo. «Il Viale della Paranoia,» borbottò lei.
«La Città della Paranoia fin quando tutto sarà finito.»
Si incamminarono di nuovo verso il parcheggio di fronte all’edificio in cui abitava Tony.
«E adesso?» domandò Hilary.
«Abbiamo bisogno tutt’e due di dormire.»
Hilary non si era mai sentita così stanca. Gli occhi le bruciavano e l’accecante luce del sole sembrava trafiggerli. Aveva le labbra secche e la bocca impastata e la lingua sembrava ricoperta da una patina dal sapore cattivo. Le facevano male le ossa e i muscoli di tutto il corpo e non le fu di gran conforto la consapevolezza che quelle sensazioni erano la conseguenza dello stress emotivo più che dell’effettiva stanchezza fisica.
«So che abbiamo bisogno di dormire,» disse. «Ma credi che riusciremo a farlo?»
«So cosa vuoi dire. Sono stanco morto, ma ho la mente che brulica di idee. E non credo che sarà facile metterla a tacere.»
«Ci sono un paio di domande che vorrei rivolgere al coroner,» proseguì Hilary, «o a chiunque abbia effettuato l’autopsia. Forse quando conoscerò le risposte riuscirò a fare un pisolino.»
«D’accordo. Chiudiamo a chiave la porta e andiamo subito all’obitorio.»
Qualche minuto più tardi, nella jeep di Tony, controllarono di non essere pedinati. Non videro nessuno. Ovviamente ciò non significava che Bruno Frye non fosse seduto in una di quelle macchine posteggiate lungo la strada. Se li aveva davvero seguiti era inutile rischiare di farsi scoprire: ormai sapeva dove si nascondevano.
«E se dovesse entrare mentre siamo via?» domandò Hilary. «Se decidesse di aspettarci in casa?»
«Ci sono due serrature,» rispose Tony. «E sono le migliori esistenti sul mercato. Dovrebbe buttare giù la porta oppure rompere una delle finestre che si affacciano sul balcone. Nel caso ci aspettasse a casa, lo scopriremmo prima di metterci piede.»
«E se trova un altro modo per entrare?»
«Non ce ne sono. Se volesse passare da un’altra finestra, dovrebbe arrampicarsi sul muro fino al secondo piano e sarebbe costretto a farlo allo scoperto. Lo vedrebbero sicuramente. Non preoccuparti. A casa mia sei al sicuro.»
«Potrebbe passare attraverso la porta. Insomma,» aggiunse Hilary con voce tremante, «come un fantasma. O potrebbe trasformarsi in fumo e infilarsi attraverso il buco della serratura.»
«Tu non credi a queste stupidaggini.»
Hilary annuì. «Hai ragione.»
«Non ha poteri soprannaturali. Ieri ha dovuto rompere un vetro per entrare in casa tua.»
Dovettero rallentare a causa del traffico. La profonda stanchezza aveva minato le abituali difese mentali di Hilary, lasciandola incredibilmente vulnerabile. Per la prima volta da quando aveva visto Frye sbucare dall’oscurità, si chiese se era tutto vero, se quell’uomo era davvero Frye.
«Sono pazza?» chiese a Tony.
Lui le lanciò un’occhiata, ritornando subito a fissare la strada. «No. Non sei pazza. Hai visto qualcosa. Non hai distrutto la casa da sola. Non hai solo immaginato che l’aggressore assomigliasse a Bruno Frye. Ammetto che era quello che pensavo all’inizio. Ma ora so che non ti stai confondendo.»
«Ma… un morto vivente? Non è un po’ troppo assurdo?»
«È come accettare l’altra teoria: due maniaci che soffrono dello stesso disturbo, ossessionati dallo stesso interesse morboso per i vampiri, che ti aggrediscono nel giro di una settimana. Anzi, credo sia più facile accettare il fatto che forse Frye è ancora vivo, in un modo o nell’altro.»
«Forse te l’ho attaccata io.»
«Attaccata che cosa?»
«La pazzia.»
Tony sorrise. «La pazzia non è come il raffreddore. Non si attacca a qualcuno con un colpo di tosse… o un bacio.»
«Hai mai sentito parlare di ‘psicosi condivisa’?»
Tony si fermò davanti a un semaforo. «Psicosi condivisa? Non è quel programma per i pazzi che non possono permettersi una terapia individuale?»
«Riesci a scherzare anche in un momento come questo?»
«Soprattutto in un momento come questo.»
«E che cosa ne dici dell’isteria collettiva?»
«Non è uno dei miei passatempi preferiti.»
«Voglio dire, forse è quello che ci sta succedendo.»
«No. È impossibile,» insistè. «Siamo solo in due. Non è possibile definirlo un fenomeno collettivo.»
Hilary sorrise. «Mio Dio, sono felice che tu sia qui. Non ce la farei a combattere da sola.»
«Non sarai mai più sola.»
Lei gli appoggiò una mano sulla spalla.
Arrivarono all’obitorio alle undici e un quarto.
Nell’ufficio del coroner, Hilary e Tony appresero dalla segretaria che l’autopsia sul corpo di Bruno Frye non era stata eseguita dal primario della divisione di patologia. Giovedì e venerdì infatti si era recato a San Francisco per una conferenza. L’incarico dell’autopsia era stato affidato a un suo assistente, un medico del suo staff.
Quella notizia risollevò l’animo di Hilary: forse esisteva una spiegazione molto semplice in grado di giustificare il misterioso ritorno fra i vivi di Frye. Forse la persona incaricata di svolgere l’autopsia era uno scansafatiche che aveva approfittato dell’assenza del capo per evitare un lavoro ingrato e aveva steso un rapporto fasullo.
Ma quella speranza svanì appena incontrò Ira Goldfield, il giovane medico in questione. Era un bell’uomo di circa trent’anni, con una cascata di riccioli biondi e gli occhi azzurri e penetranti. Era un tipo socievole, energico, brillante e ovviamente troppo interessato e troppo dedito al suo lavoro per poter effettuare un’autopsia meno che perfetta.
Goldfield li condusse in una piccola sala per le conferenze dove regnava un odore di disinfettante al pino e fumo di sigarette. Si sedettero attorno a un tavolo rettangolare coperto di riviste mediche, di referti e di tabulati del computer.
«Certo,» esclamò Goldfield. «Me lo ricordo. Bruno Graham… no… Gunther. Bruno Gunther Frye. Due ferite d’arma da taglio, la prima molto superficiale e la seconda profonda e quindi fatale. I migliori muscoli addominali che abbia mai visto.» Lanciò un’occhiata a Hilary e proseguì: «Oh sì… lei è la donna che… l’ha accoltellato.»
«Legittima difesa,» sottolineò Tony.
«Non ne ho mai dubitato,» assicurò Goldfield. «Da un punto di vista professionale, difficilmente Miss Thomas avrebbe potuto aggredire quell’uomo e uscirne vittoriosa. Era enorme. Si sarebbe sbarazzato di lei come fosse stata una bambola di pezza.» Goldfield tornò a guardare Hilary. «In base al rapporto sul delitto e agli articoli apparsi sui giornali, pare che Frye l’abbia aggredita senza rendersi conto che lei aveva un coltello.»
«Esatto. Pensava fossi disarmata.»
Goldfield annuì. «Deve essere per forza così. Considerando la differenza di peso quella era la sua unica possibilità di difendersi senza rimanere gravemente ferita. Voglio dire, i bicipiti, i tricipiti e gli avambracci di quell’uomo erano davvero incredibili. Dieci o quindici anni fa, avrebbe potuto partecipare con successo a una gara di body building. E stata davvero fortunata, Miss Thomas. Se non l’avesse colto di sorpresa, avrebbe potuto spezzarla in due. E intendo letteralmente in due. Senza fare fatica.» Scosse la testa, ancora impressionato dalla forza di Frye. «Che cosa volevate chiedermi su di lui?»
Tony lanciò un’occhiata a Hilary che si strinse nelle spalle. «Ora che siamo qui, sembra abbastanza inutile.»
Goldfield osservò prima l’uno poi l’altra con un sorriso incoraggiante e un’espressione curiosa dipinta sul viso.
Tony si schiarì la voce. «Sono d’accordo con Hilary. Sembra inutile… ora che l’abbiamo conosciuta.»
«Siete arrivati qui con un’aria incredibilmente misteriosa,» proseguì Goldfìeld. «Avete risvegliato la mia curiosità. Non potete lasciarmi così sulle spine.»
«Bene,» cominciò Tony, «siamo venuti qui per scoprire se l’autopsia era stata effettuata.»
Goldfìeld non riusciva a capire. «Ma lo sapevate già. Agnes, la segretaria del primario, sicuramente vi avrà detto…»
«Volevamo sentirlo da lei,» lo interruppe Hilary.
«Continuo a non capire.»
«Sapevamo che era stato steso un rapporto sull’autopsia,» continuò Tony. «Ma non sapevamo se il lavoro era stato effettivamente compiuto.»
«Ma ora che l’abbiamo conosciuta,» si precipitò ad aggiungere Hilary, «non abbiamo più dubbi.»
Goldfield piegò la testa da un lato. «Volete dire… pensavate che avessi preparato un rapporto fasullo senza prendermi la briga di sezionare il cadavere?» Non sembrava offeso, solo stupito.
«Pensavamo ci potesse essere una remota possibilità,» ammise Tony. «Per quanto assurda.»
«Non in questa giurisdizione,» sbottò Goldfield. «Il capo è un vecchio figlio di puttana. Ci tiene tutti in riga. Se uno di noi non svolgesse il suo lavoro, il vecchio lo distruggerebbe.» Il tono affettuoso di Goldfield nascondeva ovviamente una profonda ammirazione per il primario.
Hilary domandò con un filo di voce: «Allora secondo lei non c’è alcun dubbio che Bruno Frye fosse… morto?»
Goldfield spalancò gli occhi come se la donna gli avesse chiesto di mettersi a testa in giù per recitare una poesia. «Morto? Ma certo che era morto!»
«Ha effettuato un’autopsia completa?» proseguì Tony.
«Sì. L’ho tagliato…» Goldfield si bloccò, riflettendo per un paio di secondi, e poi proseguì: «No. Non si è trattato di un’autopsia completa nel senso che intendete voi. Le singole parti del corpo non sono state sezionate. Quel giorno c’era un sacco di lavoro. Molti cadaveri. Eravamo a corto di personale e comunque non c’era bisogno di aprire completamente il corpo di Frye. La coltellata nell’addome era stata fatale. Era inutile sezionare il torace per controllare il cuore. Non avremmo scoperto niente di diverso pesando i singoli organi e frugando all’interno del cranio. L’ho esaminato accuratamente all’esterno e poi ho controllato le due ferite, per stabilire la loro entità e per assicurarmi che la morte fosse dovuta ad almeno una di loro. Se non fosse stato accoltellato a casa sua, mentre cercava di aggredirla… se le circostanze della sua morte fossero state meno chiare, sicuramente avrei fatto qualcosa di più. Ma era ovvio che in questo caso non avrebbero intrapreso azioni penali. Oltretutto, ero assolutamente sicuro che fosse stata la ferita all’addome a ucciderlo.»
«Non è possibile che fosse solo in coma profondo quando l’ha esaminato?» domandò Hilary.
«In coma? Mio Dio, no! Cristo, no!» Goldfield si alzò e prese a passeggiare nervosamente nella minuscola stanza. «Ho controllato il polso, la respirazione, le pupille e perfino le onde cerebrali di Frye. Quell’uomo era indiscutibilmente morto, Miss Thomas.» Si avvicinò al tavolo e li osservò. «Morto stecchito. Quando l’ho esaminato, nel suo corpo non c’era sangue sufficiente neppure per una creatura minuscola. Era livido e questo significa che il sangue rimasto nei tessuti si era depositato nel punto inferiore del corpo. In questo caso occorre considerare la posizione in cui si trovava quando è morto: in quei punti la carne era gonfia e rossa. Sarebbe stato impossibile sbagliarsi.»
Tony si alzò. «Mi spiace di averle fatto perdere tempo, dottor Goldfield.»
«E mi spiace di aver insinuato che potesse aver svolto male il suo lavoro,» aggiunse Hilary.
«Coraggio,» esclamò Goldfield. «Non potete andarvene così. Di che cosa si tratta?»
Hilary incrociò lo sguardo di Tony. Entrambi sembravano riluttanti a discutere di morti viventi con un medico.
«Forza,» li incoraggiò Goldfield. «Non mi sembrate due mattacchioni. Siete venuti qui per una ragione ben precisa.»
Tony spiegò: «La scorsa notte qualcuno si è introdotto in casa di Hilary e ha cercato di ucciderla. Quell’uomo assomigliava in modo impressionante a Bruno Frye.»
«Parlate seriamente?» lo interruppe Goldfield.
«Oh, sì,» intervenne Hilary. «Molto seriamente.»
«E avete pensato…»
«Sì.»
«Mio Dio, dev’essere stato uno choc vederlo e pensare che fosse tornato!» proruppe Goldfield. «Tutto quel che posso dirvi è che la somiglianzà è solo fortuita. Perché Frye è morto. Non ho mai visto nessuno più morto di lui.»
Ringraziarono Goldfield per il tempo che gli avevano fatto perdere e la pazienza dimostrata e il medico li accompagnò verso l’uscita.
Tony si fermò davanti alla scrivania della segretaria per chiederle il nome dell’impresa di pompe funebri che aveva ritirato il corpo di Frye.
La donna controllò nello schedario e disse: «Era la Angels’ Hill.»
Hilary prese nota dell’indirizzo.
Goldfield esclamò: «Non penserete ancora…»
«No,» lo interruppe Tony, «ma, d’altra parte, non possiamo tralasciare alcuna pista. Almeno, questo è quanto mi hanno insegnato all’accademia di polizia.»
Goldfield scosse la testa e li osservò mentre si allontanavano.
Hilary rimase nella jeep mentre Tony si recava a parlare con l’impresario delle pompe funebri di Angels’ Hill che si era occupato del corpo di Bruno Frye. Sapevano che avrebbe ottenuto le informazioni in modo più semplice e rapido se si fosse presentato da solo e avesse usato il distintivo della polizia di Los Angeles.
La Angels’ Hill era una fiorente società con una flotta di carri funebri, dodici cappelle e un nutrito staff di medici. Anche in ufficio, l’illuminazione era discreta e rilassante, i colori sobri e le pareti tappezzate di soffici tessuti murali. L’arredamento era stato studiato per suggerire un timore reverenziale nei confronti del mistero della morte, anche se Tony ebbe l’impressione che comunicasse in modo lampante la redditività del giro di affari legato ai funerali.
La centralinista era una graziosa biondina con una gonna grigia e una camicetta color bruciato. La voce era dolce e suadente, ma non conteneva la benché minima traccia di sensualità o di provocazione. Era una voce istruita a dovere e ormai abituata a offrire conforto, consolazione, rispetto e genuino interessamento. Tony si chiese se la donna usasse lo stesso tono gelido e funereo quando incitava l’amante a letto e a quel pensiero si sentì rabbrividire.
La biondina trovò la cartella di Bruno Frye e il nome del tecnico che si era occupato del suo corpo. «Sam Hardesty. Credo che Sam sia in una delle stanze di preparazione. Abbiamo un paio di nuovi arrivati,» spiegò, come se lavorasse in un ospedale invece che in un’impresa di pompe funebri. «Vedrò se può dedicarle qualche minuto. Non so a che punto sia con il trattamento. Se riesce a liberarsi, potrà incontrarlo nella sala riservata al personale.»
Poi accompagnò Tony nella saletta, un locale piccolo ma piacevole. Lungo le pareti erano state appoggiate comode sedie. C’erano molti portaceneri e giornali di tutti i tipi. Una macchinetta per il caffè. Un distributore di bibite. Un pannello coperto di appunti e foglietti.
Tony stava sfogliando una copia ciclostilata del Giornale di Angels’ Hill quando Sam Hardesty uscì da una delle stanze di preparazione. Assomigliava vagamente a un meccanico: indossava una tuta bianca spiegazzata e nelle tasche aveva una miriade di piccoli utensili. Tony preferiva non sapere a che cosa servissero. Hardesty aveva quasi trent’anni, capelli lunghi e lineamenti aguzzi.
«Investigatore Clemenza?»
«Sì.»
Hardesty tese la mano e Tony gliela strinse seppure con riluttanza, immaginando quel che aveva appena toccato.
«Suzy mi ha detto che voleva parlarmi.» La voce di Hardesty era stata impostata dallo stesso insegnante che si era occupato della segretaria.
Tony proseguì: «So che è stato lei a preparare il corpo di Bruno Frye prima che venisse spedito a Santa Rosa, giovedì scorso.»
«Esatto. Collaboriamo con un’impresa di pompe funebri di St. Helena.»
«Le spiace dirmi esattamente che cos’ha fatto con il cadavere dopo averlo prelevato all’obitorio?»
Hardesty lo guardò con aria incuriosita. «Be’, l’abbiamo portato qui per sottoporlo al trattamento.»
«Non vi siete fermati lungo la strada?»
«No.»
«Da quando vi è stato consegnato fino a quando l’avete lasciato all’aeroporto, il cadavere è mai rimasto da solo?»
«Da solo? Forse per un paio di minuti. Abbiamo dovuto fare in fretta perché dovevamo caricare il cadavere sul volo di venerdì pomeriggio. Senta, le spiace dirmi di che cosa si tratta? Che cosa sta cercando?»
«Non ne sono ancora sicuro,» rispose Tony, «ma forse lo scoprirò con qualche domanda. L’avete imbalsamato?»
«Certo. Era necessario perché dovevano trasportarlo con un mezzo pubblico. La legge richiede che un cadavere sia svuotato e imbalsamato prima di trasferirlo su un mezzo pubblico.»
«Svuotato?» si stupì Tony.
«Temo non sia un argomento molto divertente,» si scusò Hardesty. «L’intestino, lo stomaco e altri organi rappresentano un grave problema per noi. Queste parti del corpo tendono a deteriorarsi molto più rapidamente degli altri tessuti. Per evitare odori sgradevoli e imbarazzanti accumuli di gas e per garantire una perfetta conservazione del corpo dopo la sepoltura, è necessario togliere quanti più organi possibile. Usiamo uno speciale strumento telescopico con un gancio retrattile all’estremità. Lo infiliamo nell’orifizio anale e…»
Tony si sentì impallidire e alzò rapidamente una mano per bloccare Hardesty.
«Grazie. Penso proprio di non avere bisogno d’altro. Ha reso l’idea.»
«L’avevo avvertita che non sarebbe stato divertente.»
«Già,» ammise Tony. Sentiva qualcosa in fondo alla gola. Provò a liberarsi con un colpo di tosse, ma era sempre lì. Probabilmente sarebbe passato solo uscendo da quel posto. «Bene,» esclamò rivolgendosi a Hardesty, «credo che mi abbia detto tutto quello che volevo sapere.»
Hardesty aggrottò le sopracciglia e riprese: «Non so che cosa stia cercando, ma c’era qualcosa di strano collegato a quel Frye.»
«E sarebbe?»
«È accaduto due giorni dopo aver spedito il defunto a Santa Rosa. Era domenica pomeriggio, l’altro ieri. Ha chiamato un tizio chiedendo di parlare con il tecnico che si era occupato di Bruno Frye. Io ero qui, perché i miei giorni liberi sono il mercoledì e il giovedì, così ho preso la chiamata. Era molto arrabbiato. Mi ha accusato di aver eseguito un pessimo lavoro sul defunto. E non era vero. Ho fatto del mio meglio, considerando le circostanze. Il corpo era rimasto sotto il sole per parecchie ore e poi era stato congelato. Per non parlare delle ferite e delle incisioni del coroner. Lasci che glielo dica, Mr Clemenza, il cadavere non era in buone condizioni quando è arrivato qui. Cioè, insomma, non si poteva certo pretendere che sembrasse vivo. Oltretutto, io non mi sono occupato del trucco perché ci ha pensato l’impresa di pompe funebri di St. Helena. Ho cercato di spiegare al tizio al telefono che non era colpa mia, ma quello non mi ha neanche lasciato parlare.»
«Le ha detto come si chiamava?» domandò Tony.
«No. Era sempre più arrabbiato. Continuava a urlare, a piangere, comportandosi come un pazzo. Era davvero disperato. Ho pensato che fosse un parente del defunto, distrutto dal dolore. E per questo che ho portato pazienza. Ma poi è letteralmente impazzito e mi ha urlato che lui era Bruno Frye.»
«Che cosa?»
«Sì. Ha detto che lui era Bruno Frye e che un giorno sarebbe venuto qui e mi avrebbe ammazzato per punirmi per quello che gli avevo fatto.»
«Che cos’altro ha detto?»
«Nient’altro. Appena ha iniziato con quelle scemenze ho capito che era un pazzo e ho riattaccato.»
Era come se a Tony avessero iniettato dell’acqua ghiacciata nelle vene: si sentiva completamente raggelato.
Sam Hardesty si rese conto che era rimasto sconcertato. «Qualcosa non va?»
«Mi stavo chiedendo se tre persone bastano per giustificare l’isteria collettiva.»
«Come?»
«Quel tipo aveva forse una voce un po’ strana?»
«Come fa a saperlo?»
«Era una voce molto profonda?»
«Era simile a un brontolio.»
«Aveva forse un tono gracchiante?»
«Proprio così. Lo conosce?»
«Temo di sì.»
«Chi è?»
«Se glielo dicessi, non mi crederebbe.»
«Proviamo,» lo incitò Hardesty.
Tony scosse la testa. «Mi dispiace. E una faccenda riservata.»
Hardesty appariva deluso; il sorriso che aveva stampato in volto scomparve.
«Bene, Mr Hardesty, lei mi è stato di grande aiuto. Grazie per avermi dedicato un po’ del suo tempo.»
Hardesty si strinse nelle spalle.
«Non è niente.»
Invece è qualcosa, pensò Tony. Qualcosa di importante. Anche se non so che cosa possa significare.
Uscirono dalla sala e si avviarono in direzioni opposte. Dopo pochi passi, Tony si voltò ed esclamò: «Mr Hardesty?»
Hardesty si fermò e lo fissò. «Sì?»
«Le spiace se le faccio una domanda personale?»
«Dica pure.»
«Come mai ha deciso di svolgere… questo tipo di lavoro?»
«Mio zio era un impresario di pompe funebri.»
«Capisco.»
«Era un tipo molto divertente. Soprattutto con i bambini. Adorava i bambini. Volevo essere come lui,» spiegò Hardesty. «Avevo sempre l’impressione che lo zio Alex fosse a conoscenza di qualche terribile e importantissimo segreto. Sapeva fare una valanga di giochi di prestigio, ma c’era qualcos’altro. Ho sempre pensato che il suo lavoro fosse magico, soprattutto perché mi aveva insegnato qualcosa che solo lui conosceva.»
«E ha scoperto il suo segreto?»
«Sì,» rispose Hardesty. «Credo di sì.»
«Può svelarlo anche a me?»
«Certo. Lo zio Alex aveva capito, e anch’io me ne sono reso conto, che bisogna trattare i morti con lo stesso rispetto e lo stesso impegno offerto ai vivi. Non è possibile cancellarli dalla propria mente, seppellirli e dimenticarli per sempre. Ciò che ci hanno insegnato da vivi rimane con noi. Tutto quello che hanno fatto per noi è stampato nella nostra mente e continua a influenzarci e a modificarci. Ed è proprio per questo che anche noi influenziamo le persone che continueranno a vivere quando noi saremo morti. E come dire che in realtà i morti non muoiono mai. Continuano ad andare avanti. Era questo il grande segreto dello zio Alex: anche i morti sono persone.»
Tony lo guardò per un attimo, senza sapere cosa dire. Poi la domanda gli uscì spontanea: «Lei è un uomo religioso, Mr Hardesty?»
«Non lo ero quando ho iniziato questo lavoro,» rispose. «Ma ora sì. Decisamente.»
«Sì, immagino di sì.»
Tony uscì, si mise al volante della jeep e chiuse la portiera. Hilary sbottò: «Allora? Ha imbalsamato Frye?»
«Peggio.»
«Peggio in che senso?»
«Non ti farà piacere saperlo.»
Le riferì della telefonata che Hardesty aveva ricevuto da un tizio che affermava di essere Bruno Frye.
«Ah,» esclamò. «Lasciamo perdere la psicosi collettiva. Questa è una prova!»
«Una prova di che cosa? Che Frye è vivo? Non può essere vivo. Tralasciando i particolari più disgustosi, è stato comunque imbalsamato. Nessuno può sopravvivere a un coma profondo con le vene e le arterie piene di liquido per l’imbalsamazione invece del sangue.»
«Ma almeno quella telefonata dimostra che sta succedendo qualcosa di strano.»
«Non proprio,» la corresse Tony.
«Non puoi parlarne al tuo capitano?»
«È inutile. Harry Lubbock direbbe che è semplicemente la telefonata di un pazzo.»
«Ma la voce!»
«Non sarebbe sufficiente per convincere Harry.»
Hilary sospirò. «E adesso?»
«Dobbiamo riflettere,» rispose Tony. «Dobbiamo esaminare la situazione da ogni possibile angolazione per vedere se abbiamo tralasciato qualcosa.»
«Non possiamo pensare mentre mangiamo?» domandò. «Sto morendo di fame.»
«Che cosa ti piacerebbe?»
«Dal momento che non siamo molto presentabili, suggerirei un posticino buio e tranquillo.»
«Come per esempio il Casey’s Bar?»
«Perfetto.»
Mentre si dirigevano verso Westwood, Tony ripensò a Hardesty e a come, in effetti, i morti non fossero del tutto morti.
Bruno Frye si distese nel retro del furgone Dodge e cercò di dormire.
Il furgone non era lo stesso con cui era arrivato a Los Angeles la settimana prima. Quel veicolo era stato sequestrato dalla polizia ed era poi stato rivendicato da un rappresentante di Joshua Rhinehart, esecutore testamentario di Frye e responsabile della corretta liquidazione dei suoi beni. Il secondo furgone non era grigio ma blu scuro con righe bianche. Frye l’aveva pagato in contanti il giorno prima da un rivenditore Dodge alla periferia di San Francisco. Era un’auto stupenda.
Aveva trascorso l’intera giornata precedente al volante ed era arrivato a Los Angeles di notte. Era andato direttamente a casa di Katherine a Westwood.
Questa volta si faceva chiamare Hilary Thomas, ma lui sapeva che era Katherine.
Katherine.
Era tornata nuovamente dall’inferno.
Quella sporca puttana.
Si era introdotto in casa sua, ma lei non c’era. Poco prima dell’alba, era finalmente arrivata e lui era quasi riuscito a metterle le mani addosso. Ancora non capiva perché fosse arrivata la polizia.
Nel corso delle ultime quattro ore, aveva continuato a passare davanti a quella casa, ma non aveva visto nulla di rilevante. Forse non era più in casa.
Era confuso. Frastornato. E impaurito. Non sapeva che cosa fare, non sapeva come localizzarla. I suoi pensieri si facevano sempre più strani, frammentari e difficili da controllare. Si sentiva stordito, confuso e incoerente sebbene non avesse bevuto nulla.
Era stanco. Molto stanco. Non dormiva da domenica notte. E anche allora non si era riposato molto. Se solo fosse riuscito a prendere sonno, sarebbe riuscito a vedere le cose in modo più chiaro.
E avrebbe potuto ricominciare a dare la caccia a quella puttana.
Tagliarle la testa.
Strapparle il cuore. Piantarci un picchetto di legno.
Ucciderla. Ucciderla, una volta per tutte.
Ma prima, doveva dormire.
Si allungò sul pavimento del furgoncino e osservò compiaciuto i raggi del sole che filtravano attraverso il parabrezza, oltre i sedili, fino alla parte posteriore. Aveva il terrore di dormire al buio.
Accanto a lui c’era un crocefisso.
E un paio di paletti di legno appuntiti.
Aveva preparato alcuni sacchettini pieni di aglio e li aveva appesi sopra le portiere.
Quegli oggetti avrebbero potuto proteggerlo da Katherine, ma sapeva che non sarebbero riusciti a scacciare gli incubi. Si sarebbero presentati durante il sonno, puntuali come sempre, e lui si sarebbe svegliato con un grido soffocato in gola. Come sempre, non si sarebbe ricordato nulla di quei sogni. Ma dopo essersi svegliato, avrebbe udito i sussurri, quei terribili sussurri incomprensibili, e avrebbe avvertito qualcosa che si muoveva sul suo corpo, sulla pancia, dentro la bocca e nel naso: qualcosa di orribile; nel paio di minuti necessari a far svanire quelle sensazioni, avrebbe desiderato ardentemente essere morto.
Aveva il terrore di dormire, ma ne aveva assolutamente bisogno.
Chiuse gli occhi.
Come sempre all’ora di pranzo, il frastuono nella sala principale del Casey’s Bar era assordante.
Fortunatamente, oltre il bancone ovale erano stati ricavati alcuni séparé, chiusi su tre lati come grandi confessionali, dove il rumore proveniente dalla sala da pranzo era più che accettabile e la privacy era assicurata.
Mentre stava mangiando, Hilary alzò improvvisamente la testa dal piatto ed esclamò: «Ci sono.»
Tony appoggiò il suo panino. «Che cosa?»
«Frye deve avere un fratello.»
«Un fratello?»
«Spiegherebbe tutto.»
«Pensi di aver ucciso Frye giovedì scorso e che poi suo fratello sia venuto da te ieri?»
«Solo due fratelli possono assomigliarsi così.»
«E la voce?»
«Potrebbero aver ereditato la stessa.»
«Possono aver ereditato una voce rauca e profonda,» commentò Tony. «Ma cosa ne dici di quel particolare tono gracchiante? Secondo te è ereditario?»
«Perché no?»
«Fino a ieri eri convinta che quella voce potesse appartenere solo a una persona ferita gravemente alla gola oppure nata con una malformazione alla laringe.»
«Evidentemente mi sbagliavo,» proseguì. «O forse tutt’e due i fratelli sono nati con la stessa malformazione.»
«Un caso su un milione.»
«Ma non è impossibile.»
Tony sorseggiò la birra e riprese: «Forse due fratelli possono avere la stessa corporatura, gli stessi lineamenti, gli occhi dello stesso colore e perfino la stessa voce. Ma credi che possano soffrire anche dello stesso tipo di disturbo psicotico?»
Hilary riflette per un attimo bevendo un sorso di birra. Poi affermò: «Le malattie mentali sono generate da un particolare tipo di ambiente.»
«È quello che si credeva un tempo. Ma ormai non ne siamo più tanto sicuri.»
«Bene, per giustificare la mia teoria, immaginiamo che un atteggiamento psicotico sia generato da un particolare tipo di ambiente. Due fratelli allevati nella stessa casa e dagli stessi genitori: in questo caso si tratta dello stesso ambiente. Non è possibile che abbiano sviluppato la stessa psicosi?»
Tony si grattò il mento. «Forse. Ricordo…»
«Che cosa?»
«All’università ho seguito un corso di psicologia patologica all’interno di un programma di studi sulla criminologia,» proseguì Tony. «Cercavano di insegnarci come riconoscere e come comportarsi con i vari tipi di psicopatici. L’idea non era male. Se un poliziotto riesce a individuare il tipo di disturbo mentale di cui soffre la persona che ha di fronte e se riesce a capire quali possono essere le sue reazioni, ha maggiori probabilità di cavarsela. Ci hanno fatto vedere molti film sui malati mentali. Me ne ricordo uno in particolare: madre e figlia soffrivano della stessa forma di schizofrenia paranoica. Avevano lo stesso tipo di allucinazioni.»
«Lo sapevo!» urlò Hilary.
«Ma era un caso estremamente raro.»
«Anche questo.»
«Non ne sono sicuro, ma forse era un caso unico nel suo genere.»
«Comunque è possibile.»
«Immagino valga la pena pensarci.»
«Un fratello…»
Ripresero i panini e si rimisero a mangiare, concentrandosi sul cibo.
Improvvisamente, Tony esclamò: «Maledizione! Mi sono ricordato di un particolare che rende assolutamente impossibile la teoria dei due fratelli.»
«Che cosa?»
«Immagino che tu abbia letto i giornali di venerdì e sabato.»
«Non proprio,» rispose. «È come se… non so… è imbarazzante leggere il tuo nome come quello della vittima. Ho dato un’occhiata a un articolo e poi ho lasciato perdere.»
«E non ti ricordi che cosa c’era scritto?»
Hilary aggrottò le sopracciglia, cercando di immaginare a che cosa si stesse riferendo. Poi capì. «Oh, già. Frye non aveva un fratello.»
«Né fratelli né sorelle. Nessuno. Alla morte della madre, era rimasto l’unico erede delle cantine, l’ultimo membro della famiglia Frye. L’ultimo della stirpe.»
Hilary non voleva abbandonare la teoria del fratello. Era l’unica spiegazione che avesse un senso in mezzo a quegli avvenimenti alquanto strani. Ma non sapeva che giustificazione trovare.
Finirono di mangiare in silenzio.
Poi Tony sbottò: «Non potrai nasconderti per sempre. E non possiamo starcene qui seduti ad aspettare che ti trovi.»
«Non mi piace l’idea di fare da esca.»
«Comunque, la risposta non è qui a Los Angeles.»
Hilary annuì. «Stavo pensando la stessa cosa.»
«Dobbiamo andare a St. Helena.»
«E parlare con lo sceriffo Laurenski.»
«Con Laurenski e con tutti quelli che hanno conosciuto Frye.»
«Forse ci vorranno diversi giorni,» aggiunse Hilary.
«Ho molti giorni di ferie a mia disposizione. Addirittura qualche settimana e, per la prima volta in vita mia, non ho molta voglia di tornare al lavoro.»
«Va bene. Quando partiamo?»
«Prima lo facciamo e meglio è.»
«Non oggi,» propose lei. «Siamo troppo stanchi. Abbiamo bisogno di dormire. Inoltre, voglio portare alcuni dei tuoi quadri da Wyant Stevens. Devo anche chiamare quelli dell’assicurazione per una stima dei danni e chiedere all’impresa di pulizia di riordinare tutto mentre sono via. E se questa settimana non riesco a incontrarmi con la Warner Brothers per discutere L’Ora del Lupo, è meglio che trovi una scusa valida, o che chieda a Wally Topelis di escogitarne una per me.»
«Io invece devo preparare il rapporto sulla sparatoria,» spiegò Tony. «Avrei dovuto farlo questa mattina. E poi, naturalmente, avranno bisogno di me per l’inchiesta. C’è sempre un’inchiesta quando uccidono un poliziotto o quando siamo noi a uccidere qualcuno. Ma immagino che non faranno niente prima della settimana prossima. E, comunque, posso sempre chiedere di posticipare.»
«Allora quando partiamo per St. Helena?»
«Domani. Il funerale di Frank è alle nove. Voglio esserci. Potremmo vedere se c’è un volo verso mezzogiorno.»
«Mi sembra che possa andar bene.»
«Abbiamo un sacco di cose da fare. È meglio muoverci.»
«Solo un attimo. Non credo che questa sera dovremmo rimanere a casa tua.»
Tony allungò il braccio e le afferrò la mano. «Sono sicuro che non riuscirà a farti del male. Nel caso ci provasse, ci sarò io. Non dimenticarti che ho una pistola. Potrà anche avere il fisico di Mr Universo, ma con una pistola direi che siamo alla pari.»
Hilary scosse la testa. «No, forse non corro alcun pericolo. Ma non riuscirei a dormire lì, Tony. Rimarrei sveglia tutta la notte, con le orecchie tese, pronte a cogliere il benché minimo rumore.»
«Dove vuoi andare?»
«Sbrighiamo tutto questo pomeriggio, poi prepariamo i bagagli, ci assicuriamo di non essere seguiti e prendiamo una camera in un albergo vicino all’aeroporto.»
Lui le strinse la mano. «D’accordo. Se ti fa sentire meglio.»
«Grazie.»
«Meglio qualche precauzione in più.»
A St. Helena, alle 16.10 di martedì Joshua Rhinehart riattaccò la cornetta del telefono del suo ufficio e si appoggiò allo schienale della sedia, compiaciuto di se stesso. Negli ultimi due giorni ne aveva fatto di lavoro. Ruotò sulla sedia e si mise a osservare il panorama di montagne e vigneti.
Aveva passato praticamente tutta la giornata di lunedì al telefono a discutere con le banche, gli agenti di borsa e i consulenti finanziari di Bruno Frye. Aveva assistito a lunghe discussioni su come gestire il patrimonio fino al momento della liquidazione dell’eredità, per non parlare delle non poche considerazioni su come distribuire i vari beni per ottenere il massimo del profitto. Era stato un lavoro a incastro lungo ed estenuante, in considerazione dei numerosissimi conti di risparmio, delle varie banche, dei Buoni del Tesoro e del ricchissimo Portfolio composto da azioni, partecipazioni immobiliari e via dicendo.
Joshua aveva trascorso la mattinata e la maggior parte del pomeriggio di martedì al telefono, nel tentativo di convincere alcuni dei critici d’arte più acclamati della California a venire a St. Helena per catalogare e valutare le massicce collezioni che la famiglia Frye era riuscita ad accumulare nel corso degli ultimi sessanta, settant’anni. Leo, il patriarca e padre di Katherine, ormai morto da quarant’anni, aveva iniziato con semplici rubinetti di legno fatti a mano che in Europa venivano usati per spillare vino e birra dalle botti. Ce n’erano a forma di testa con bocche spalancate, sorridenti, tristi, infuriate o ghignanti di demoni, angeli, pagliacci, lupi, elfi, fate, streghe, gnomi e altre creature. Al momento della sua morte, Leo era riuscito a raccogliere più di duemila rubinetti. Katherine aveva iniziato a condividere la passione del padre mentre lui era ancora in vita e, dopo la sua morte, la collezione si era trasformata nel fulcro vitale della sua esistenza. Gli oggetti di valore in genere erano diventati la sua vera passione e, più tardi, una vera mania. (Joshua ricordava come le luccicavano gli occhi e quanto parlava a perdifiato ogni volta che gli mostrava un nuovo acquisto; era evidente che quella frenesia di riempire ogni stanza, ogni armadio e ogni cassetto di gingilli non poteva essere considerata molto normale, ma ai ricchi era permessa ogni eccentricità, a condizione che nessuno ne venisse danneggiato.) Comprava scatolette smaltate, dipinti paesaggistici di inizio secolo, cristalli Lalique, lampade di vetro colorato, antichi medaglioni lavorati in rilievo e altri ancora, non tanto per investire il denaro, quanto per un’esigenza personale. Ne aveva bisogno come un drogato ha bisogno della sua dose durante una crisi di astinenza. Aveva riempito la casa di vetrinette e aveva passato ore e ore a pulire, spolverare e riordinare. Anche Bruno aveva continuato la tradizione del collezionismo e ormai entrambe le case (quella costruita da Leo nel 1918 e quella di Bruno) erano piene zeppe di tesori. Per tutta la giornata di martedì Joshua aveva contattato gallerie e aste prestigiose di San Francisco e Los Angeles e tutti si erano mostrati molto disponibili a inviare estimatori, in considerazione soprattutto delle grasse commissioni che potevano essere ricavate dalla vendita delle collezioni di Frye. Sabato mattina sarebbero arrivati due esperti da San Francisco e due da Los Angeles. Immaginando che la catalogazione di tutti i possedimenti di Frye avrebbe richiesto diversi giorni di lavoro, Joshua decise di prenotare alcune stanze alla pensione del paese.
Alle 16.10 di martedì, iniziò a credere di avere il concreto controllo della situazione e, per la prima volta dopo la morte di Bruno, riuscì a fare una previsione sui tempi che gli sarebbero occorsi per portare a termine il suo compito di esecutore testamentario. All’inizio aveva temuto di rimanere incastrato nella pratica per anni, viste le dimensioni dell’eredità. Ma dopo aver ripreso in esame il testamento, da lui stesso stilato cinque anni prima, e dopo aver constatato la bravura con cui i consulenti finanziari avevano consigliato Bruno, si convinse di poter portare a termine l’incarico nel giro di qualche settimana. Il lavoro sarebbe stato facilitato da tre fattori che raramente si combinano nelle questioni ereditarie dei multimiliardari. Per prima cosa, non esistevano parenti in vita che potessero impugnare il testamento o creare altri problemi. In secondo luogo, l’importo che fosse rimasto, detratte tutte le tasse, sarebbe stato devoluto a un unico istituto di carità ben specificato nel testamento. Terzo, per essere un uomo tanto opulento, Bruno Frye aveva investito in modo molto semplice e il suo esecutore testamentario si era trovato di fronte a un bilancio ragionevolmente chiaro con voci di facile comprensione. Tre settimane dovevano essere sufficienti. Al massimo quattro.
Dopo la morte di sua moglie Cora, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva preso coscienza della brevità della vita e cercava di dosare gelosamente il proprio tempo. Non intendeva sprecarne un solo giorno e ogni minuto trascorso con la testa immersa nell’eredità di Frye era un minuto sprecato. Naturalmente avrebbe presentato una parcella esorbitante per le sue prestazioni legali, ma ormai aveva già tutti i soldi di cui poteva aver bisogno. Nella valle aveva qualche proprietà immobiliare, senza contare gli ettari di terreno coltivati a vigne che fornivano uva a volontà a due grandi cantine. Per un istante, aveva anche preso in considerazione l’idea di chiedere alla corte di sollevarlo dal suo incarico; c’era una delle banche di Frye che si sarebbe occupata volentieri dell’eredità. Aveva anche pensato di passare la pratica a Ken Gavins e Roy Genelli, i due giovani e brillanti avvocati che aveva accolto in società sette anni prima. Ma il forte senso di lealtà di cui era dotato gli aveva impedito di scegliere la soluzione più semplice. Dopotutto era stata Katherine Frye a dargli la prima grande opportunità professionale trent’anni prima e sentiva di doverle almeno il tempo necessario per gestire una sistematica e dignitosa dissoluzione dell’impero Frye.
Tre settimane.
E poi avrebbe potuto dedicarsi a cose più divertenti: leggere, nuotare, volare con il suo ultimo acquisto, imparare a cucinare nuovi piatti e concedersi occasionali fine settimana a Reno. Ormai Ken e Roy si occupavano di tutti gli affari della società e se la cavavano piuttosto bene. Joshua non si era ancora completamente tuffato nei piaceri della pensione, ma poco ci mancava. Spesso si godeva il tempo libero che rimpiangeva di non aver avuto quando Cora era ancora in vita.
Alle 16.20, soddisfatto dall’andamento del lavoro e deliziato dallo splendido panorama autunnale che gli offriva la finestra dell’ufficio, si alzò e si diresse verso l’ingresso. Karen Farr stava martellando con forza sulla tastiera dell’IBM Selectric ii, che avrebbe obbedito anche al leggero tocco di una piuma. Karen aveva l’aspetto fragile, era pallida, con gli occhi azzurri e la voce sommessa, ma affrontava ogni lavoro con un incredibile impeto di energia e forza.
«Sto per concedermi un bicchierino di whisky pomeridiano,» le comunicò, «se dovesse cercarmi qualcuno, risponda pure che sono ubriaco fradicio e non sono in grado di parlare con nessuno.»
«E il commento di tutti sarà: ‘Come? Ancora?’»
Joshua scoppiò a ridere. «Lei è davvero molto carina, Miss Farr. È uno scricciolo, ma ha un cervello e una lingua deliziosamente veloci.»
«E quante fandonie mi tocca sentire da un uomo che non è nemmeno irlandese. Vada pure a bere il suo whisky. Mi occuperò io delle tediosissime orde.»
Tornato in ufficio, aprì l’anta del mobile bar, infilò nel bicchiere un paio di cubetti di ghiaccio e aggiunse una generosa dose di Jack Daniels Black Label. Aveva appena iniziato a sorseggiarlo quando qualcuno bussò alla porta dell’ufficio.
«Avanti.»
Karen fece capolino. «Ci sarebbe una telefonata…»
«Pensavo di aver avuto il permesso di bere in santa pace.»
«Non faccia il brontolone,» lo apostrofò lei.
«Fa parte della mia immagine.»
«Gli ho detto che non era in ufficio, ma quando ho saputo il motivo per cui chiamava, ho pensato che forse le farebbe piacere parlare con lui. È strano.»
«Chi è?»
«Un certo Mr Preston della First Pacific United Bank di San Francisco. Ha a che fare con l’eredità.»
«E che cosa c’è di strano?»
«Forse è meglio che gli parli lei,» rispose.
Joshua emise un sospiro. «D’accordo.»
«È sulla linea due.»
Joshua si diresse alla scrivania, si sedette, alzò il ricevitore ed esclamò: «Buongiorno, Mr Preston.»
«Mr Rhinehart?»
«In persona. Che cosa posso fare per lei?»
«È stato l’ufficio amministrativo della Shade Tree Vineyards a informarmi che era lei l’esecutore testamentario dell’eredità Frye.»
«È vero.»
«Lei sapeva che il signor Bruno Frye aveva aperto alcuni conti qui alla sede di San Francisco?»
«Alla First Pacific United? No, non ne sapevo assolutamente nulla.»
«Un libretto di risparmio, un conto corrente, e aveva anche noleggiato una cassetta di sicurezza,» lo informò Preston.
«Aveva molti conti in banche diverse ed erano tutti specificati su una lista. Però in questo elenco non figurava la vostra banca. Non ho mai visto assegni né libretti di risparmio della First Pacific United.»
«Era proprio quello che temevo,» commentò Preston.
Joshua aggrottò la fronte. «Non capisco. C’è qualche problema con questi conti presso la vostra banca?»
Dopo un attimo di esitazione, Preston riprése a parlare. «Mr Rhinehart, Mr Frye aveva un fratello?»
«No. Perché me lo chiede?»
«Non si è mai servito di un sosia?»
«Come dice?»
«Non ha mai avuto bisogno di un sosia, di qualcuno che potesse essere scambiato per lui anche a distanza ravvicinata?»
«Mi sta prendendo in giro, Mr Preston?»
«Mi rendo conto della stranezza della domanda, ma Mr Frye era un uomo ricco. Di questi giorni, con tutti i terroristi e i pazzi che ci sono in giro, i ricchi ricorrono spesso alle guardie del corpo e a volte, non spesso, devo ammettere che è raro, ma saltuariamente succede che decidano di assumere dei sosia per motivi di sicurezza.»
«Con tutto il rispetto nei confronti della vostra bella città,» rispose Joshua, «mi permetto di farle presente che Mr Frye abitava qui, a Napa Valley, e non a San Francisco. Qui non esiste criminalità. Il nostro stile di vita è molto diverso da quello a cui… si riferisce lei. Mr Frye non aveva alcun bisogno di un sosia e sono certo che non ce ne sono mai stati. Mr Preston, che cosa diavolo sta succedendo?»
«Abbiamo scoperto solo ora che Mr Frye è stato ucciso giovedì scorso,» rispose Preston.
«E allora?»
«E opinione dei nostri avvocati che la banca non può essere ritenuta responsabile.»
«Per che cosa?» domandò Joshua al limite dell’impazienza.
«In qualità di esecutore testamentario, era suo preciso dovere informarci che il nostro correntista era deceduto. Fino a che non abbiamo appreso la notizia, in questo caso addirittura da una terza persona, non avevamo alcun motivo di congelare il conto.»
«Capisco.» Sprofondato nella sua sedia, gli occhi fissi sul bicchiere di whisky appoggiato sulla scrivania e con il terribile sospetto che Preston stesse per fargli una rivelazione che avrebbe disturbato il suo stato di serenità, Joshua decise che un tocco di scontrosità potesse accelerare la conversazione. «Mr Preston, mi rendo conto che in una banca il lavoro debba procedere con lentezza e meticolosità, essendo un istituto che tratta il denaro duramente guadagnato dai propri clienti. Ma vorrei tanto che riuscisse a esprimersi e ad arrivare velocemente al punto.»
«Giovedì scorso, mezz’ora prima dell’orario di chiusura, qualche ora dopo l’omicidio di Mr Frye, avvenuto a Los Angeles, in banca è entrato un signore che assomigliava moltissimo a Mr Frye. Aveva anche gli assegni personalizzati di Mr Frye. Si è diretto alla cassa e ha staccato un assegno per un importo tale da ridurre il conto a un centinaio di dollari.»
Joshua si rizzò sulla sedia. «Quanto ha prelevato?»
«Seimila dollari.»
«Caspita.»
«Poi ha presentato il suo libretto di risparmio e ha prelevato tutto il deposito, lasciando solo un resto di cinquecento dollari.»
«E quanto ha preso?»
«Dodicimila dollari.»
«Diciottomila dollari in tutto?»
«Esatto. Senza contare il contenuto della cassetta di sicurezza.»
«Anche quello?»
«Certo. Ma naturalmente in questo caso non possiamo sapere che cos’ha portato via,» spiegò Preston. Poi aggiunse speranzoso: «Forse niente.»
Joshua era sbalordito. «Come può una banca farsi scappare una somma del genere in contanti senza chiedere un’identificazione?»
«Infatti l’abbiamo richiesta,» precisò Preston. «Ma deve capire che quell’uomo assomigliava a Mr Frye. Negli ultimi cinque anni, Mr Frye si faceva vedere nella nostra banca due o tre volte al mese; ogni volta depositava sul conto un paio di migliaia di dollari. Questo l’ha reso popolare: se lo ricordavano tutti. Giovedì scorso la cassiera l’ha riconosciuto e non aveva motivo per nutrire sospetti, soprattutto in considerazione del fatto che presentava gli assegni personalizzati e il suo libretto di risparmio…»
«Questa non è un’identificazione,» ribattè Joshua.
«La cassiera ha chiesto la carta d’identità, anche se l’aveva riconosciuto. Ma questa è la prassi che seguiamo sempre quando vengono richiesti prelievi importanti. E la donna si è attenuta alle nostre regole. L’uomo le ha mostrato una patente rilasciata dallo stato della California, completa di fotografia, intestata a Bruno Frye. Le assicuro, Mr Rhinehart, in questo caso non si può dire che la First Pacific United Bank abbia agito in modo irresponsabile.»
«Intende fare accertamenti sulla cassiera?» domandò Joshua.
«Gli accertamenti sono già in corso.»
«Mi fa piacere sentirglielo dire.»
«Ma non credo che otterremo molto,» aggiunse Preston. «Quella donna è una delle nostre migliori impiegate. Lavora per noi da più di sedici anni.»
«Ed è stata lei ad accompagnarlo a prelevare la cassetta di sicurezza?»
«No. E stata un’altra impiegata. Stiamo indagando anche sul suo conto.»
«È davvero molto grave.»
«Non c’è bisogno che me lo dica. In tutti questi anni, non mi è mai capitata una cosa del genere. Prima di telefonare a lei, ho informato le autorità, i funzionari di banca statali e federali e gli avvocati della First Pacific United Bank.»
«Forse è il caso che domani venga da voi per fare quattro chiacchiere.»
«Mi farebbe un favore.»
«Le va bene alle dieci?»
«Quando è più comodo per lei,» rispose Preston. «Le metterò a disposizione tutta la giornata.»
«Allora vada per le dieci.»
«Sono molto spiacente per quanto è accaduto. Naturalmente la perdita verrà coperta dall’assicurazione federale.»
«Con l’unica eccezione del contenuto della cassetta di sicurezza,» sottolineò Joshua. «Non c’è alcuna assicurazione che possa risarcire quella perdita.» Ed era proprio questo il dettaglio che innervosiva Mr Preston. «Quella cassetta poteva contenere anche il doppio del valore del conto corrente e del libretto di risparmio messi insieme.»
«Così come poteva essere anche vuota,» gli fece notare subito Preston.
«Ci vediamo domani mattina, Mr Preston.»
Joshua riappese e rimase a fissare il telefono.
Infine, riprese a sorseggiare il suo whisky.
Un sosia di Bruno Frye?
Tutt’a un tratto gli tornò in mente la luce che pensava di aver visto in casa di Bruno alle tre di lunedì mattina. Gli era parso di scorgerla tornando a letto, dopo essere stato in bagno. Ma quando aveva inforcato gli occhiali non aveva notato niente. Si era limitato a pensare che fosse stato tutto frutto dell’immaginazione. Ma forse quella luce c’era stata davvero. Forse l’uomo che aveva prosciugato i conti della Pacific United era andato a casa di Bruno per cercare qualcosa.
Joshua aveva fatto un sopralluogo il giorno prima. Si era limitato a un rapido giro per controllare che fosse tutto a posto e non aveva notato niente di strano.
Perché Bruno aveva aperto quei conti a San Francisco senza dirlo a nessuno?
Esisteva veramente un sosia?
Chi? E perché?
Maledizione!
Evidentemente la definizione dell’eredità Frye non sarebbe stata un compito così facile come previsto.
Alle diciotto di martedì, mentre Tony svoltava nella strada che passava davanti a casa sua, Hilary si sentiva più desta che mai. Era entrata nella fase di veglia con gli occhi sgranati, tipica di chi non dorme per un giorno e mezzo. Tutt’a un tratto la mente e il corpo decisero che era il caso di trarre il massimo da quello stato di coscienza forzato e, per chissà quale scherzo chimico, la carne e lo spirito si sentirono rinnovati. Smise di sbadigliare. La vista tornò a essere chiara. La stanchezza cominciò a recedere. Ma si rendeva conto che si trattava solo di un canto del cigno. Dopo un paio di ore, quello stato di ebbrezza si sarebbe inevitabilmente infranto di colpo, più o meno come quando comincia la discesa dai picchi anfetaminici. E a quel punto avrebbe fatto fatica persino a reggersi sulle gambe.
Aveva sistemato tutte le questioni in sospeso insieme con Tony: il liquidatore dell’assicurazione, il servizio di pulizia dell’appartamento, i rapporti di polizia e tutto il resto. L’unica cosa che non era andata liscia era stata la sosta alla Wyant Stevens Gallery di Beverly Hills. Sia Wyant sia la sua assistente, Betty, erano assenti e la ragazza cicciottella che le aveva dato retta non si era dimostrata entusiasta all’idea di accettare i quadri di Tony. Non voleva addossarsi quella responsabilità, ma alla fine Hilary era riuscita a convincerla che nessuno l’avrebbe citata per danni se qualcuna delle tele fosse stata incidentalmente rovinata. Poi aveva scritto un messaggio per Wyant per spiegargli i precedenti del pittore. Infine era andata con Tony agli uffici della Topelis Associates per chiedere a Wally di porgere le sue scuse alla Warner Brothers. Era stato fatto tutto. L’indomani, dopo il funerale di Frank Howard, avrebbero preso il volo delle 11.55 della PSA per San Francisco, dove li aspettava una navetta aerea per Napa.
Poi, partenza per St. Helena con un’auto a noleggio.
Poi sarebbero arrivati alla casa di Bruno Frye.
E poi… che altro?
Tony parcheggiò la jeep e spense il motore.
Hilary disse: «Mi sono dimenticata di chiederti se sei riuscito a prenotare un albergo.»
«La segretaria di Wally si è occupata delle prenotazioni mentre tu e lui vi stavate abbracciando in ufficio.»
«All’aeroporto?»
«Sì.»
«Non letti separati, spero.»
«Una matrimoniale imperiale.»
«Bene,» commentò. «Voglio sentirti vicino, quando comincerò a scivolare nel sonno profondo.»
Tony si sporse di lato e la baciò.
Ci vollero una ventina di minuti per preparare le valigie e caricarle sulla jeep. Nel frattempo Hilary temette di veder saltar fuori Frye da qualche angolo, con il ghigno stampato in volto.
Ma non accadde nulla.
Si diressero all’aeroporto optando per una circonvallazione piena di curve e controcurve.
Hilary non smise di guardarsi alle spalle.
Ma nessuno li seguiva.
Raggiunsero l’albergo alle 19.30. Con un tocco di cavalleria vecchia maniera che divertì Hilary, Tony si presentò come suo marito.
La stanza si trovava all’ottavo piano. Era tranquilla, con strani giochi di ombre verdi e blu.
Dopo che il fattorino se ne fu andato, rimasero immobili di fianco al letto, stringendosi in silenzio per condividere la stanchezza e le poche forze rimaste.
Nessuno dei due se la sentiva di uscire a cena. Tony chiamò il servizio in camera e l’operatore rispose che avrebbero dovuto attendere mezz’ora.
Fecero la doccia insieme. Si insaponarono e si risciacquarono a vicenda con gioia, ma senza alcuna implicazione sessuale. Erano troppo stanchi per la passione. Il bagno in compagnia fu solo rilassante, tenero e dolce.
Mangiarono tramezzini e patatine fritte.
Sorseggiarono una mezza bottiglia di Gamay rosé di Robert Mondavi.
Chiacchierarono.
Sistemarono un asciugamano sulla lampada che rimase accesa per tutta la notte, perché, per la seconda volta in vita sua, Hilary aveva paura di dormire al buio.
Poi si addormentarono.
Otto ore dopo, alle 5.30 del mattino, Hilary si svegliò di colpo da un brutto sogno in cui Earl ed Emma erano tornati in vita, esattamente come Bruno Frye. Tutt’e tre la rincorrevano per un corridoio buio che diventava sempre più stretto…
Non riuscì a riprendere sonno. Rimase sdraiata nella luce ambrata della lampada a guardare Tony che dormiva.
Alle 6.30 si svegliò anche lui, si voltò verso di lei, battè le palpebre e le toccò il viso e il seno. Si ritrovarono a fare l’amore. Per un breve istante Hilary riuscì a non pensare a Bruno Frye, ma più tardi, mentre si preparavano per il funerale di Frank, la paura l’aggredì di colpo.
«Davvero credi che sia il caso di andare a St. Helena?»
«Dobbiamo,» rispose Tony.
«Ma che cosa ci può succedere in quel posto?»
«Niente,» la rassicurò lui. «Andrà tutto bene.»
«Non ne sono tanto sicura,» mormorò lei.
«Scopriremo quello che sta accadendo.»
«È proprio questo che mi preoccupa. Ho la sensazione che sarebbe meglio non sapere niente.»
Katherine se n’era andata.
La puttana se n’era andata.
La puttana si stava nascondendo.
Bruno si era svegliato nel furgoncino blu verso le 18.30 di martedì, uscendo così da un incubo che non riusciva bene a ricordare, pieno di sussurri silenziosi e minacciosi. Qualcosa gli stava strisciando addosso: sulle braccia, sulla faccia, sui capelli, persino sotto i vestiti. Qualcosa che cercava di entrare dentro di lui attraverso le orecchie, la bocca, le narici. Qualcosa di incredibilmente sporco e maligno. Aveva lanciato un urlo e si era graffiato dappertutto finché non era riuscito a ricordare dove si trovava; poi, lentamente, quei terribili sospiri si erano dissolti e la cosa strisciante era sparita. Era rimasto rannicchiato su un fianco, in posizione fetale, per qualche minuto e poi si era messo a piangere per il sollievo.
Un’ora più tardi, dopo aver mangiato in un MacDonald, era partito alla volta di Westwood. Era passato davanti alla casa di Katherine per una decina di volte, poi aveva parcheggiata poco distante, nel punto più buio, fra due lampioni stradali. Era rimasto a osservare la sua casa per tutta la notte.
Ma lei era sparita.
Aveva portato i sacchettini pieni di aglio, i picchetti di legno, i crocefissi e le fialette di acqua santa. Aveva due coltelli molto affilati e un’accetta da falegname con cui avrebbe potuto staccarle la testa. Aveva il coraggio, la volontà e la decisione per farlo.
Ma lei era sparita.
Quando si era reso conto che avrebbe potuto stare via anche per giorni o settimane, si era infuriato. L’aveva maledetta e aveva pianto per il senso di frustrazione.
Poi, gradualmente, era riuscito a riprendere il controllo. Niente era perduto. L’avrebbe ritrovata.
L’aveva già ritrovata molte volte.
Mercoledì mattina, Joshua Rhinehart compì il breve volo verso San Francisco con il suo Cessna Turbo Skylane RG. Era uno splendido velivolo con una velocità di crociera di centosettantatré nodi e un’autonomia di oltre mille miglia.
Aveva iniziato a prendere lezioni di volo tre anni prima, poco dopo la morte di Cora. Aveva sempre sognato di diventare un pilota, ma solo all’età di cinquantotto anni era riuscito a trovare il tempo per imparare a volare. Quando Cora gli era stata strappata in modo così inaspettato, si era reso conto di essere un pazzo, convinto com’era che la morte non potesse sfiorarlo, che fosse una disgrazia che colpiva solo gli altri. Aveva sempre vissuto come se avesse posseduto una riserva inesauribile di vita. Pensava che in futuro avrebbe avuto tempo per rilassarsi, divertirsi e compiere i meravigliosi viaggi in Europa e in Oriente che aveva sempre sognato. Per questo motivo, aveva sempre rimandato vacanze e crociere. Prima c’era la carriera, poi i debiti fatti per pagare la vasta tenuta, poi l’impegno dell’azienda vinicola e infine… Poi Cora se n’era andata prima del tempo. Gli mancava terribilmente ed era pieno di rimorsi per tutte le cose che avevano rimandato e che non avrebbero mai più potuto fare insieme. Lui e Cora erano stati felici e avevano avuto una vita meravigliosa, eccellente sotto molti punti di vista. Non era mai mancato nulla: né il cibo, né una casa, né una giusta dose di lusso. Avevano sempre avuto abbastanza denaro. Ma mai abbastanza tempo. Non poteva fare a meno di pensare a come avrebbe potuto essere la loro esistenza. Non poteva riportare in vita Cora, ma almeno era deciso ad approfittare di tutto ciò che poteva renderlo felice negli anni che gli rimanevano. I suoi passatempi erano perlopiù solitari, in quanto non era mai stato un tipo di compagnia e considerava nove persone su dieci ignoranti o cattive. Nonostante amasse la solitudine, sapeva comunque benissimo che tutto sarebbe stato decisamente più bello se avesse avuto Cora al suo fianco. Volare rappresentava una delle poche eccezioni. Nel suo Cessna, alto nel cielo, si sentiva libero da qualsiasi costrizione: non solo libero dalla forza di gravita, ma anche dalle catene del rimpianto e del rimorso.
Tranquillo e rilassato dal volo appena compiuto, Joshua atterrò a San Francisco poco dopo le nove. Meno di un’ora più tardi, era alla First Pacific United Bank per incontrarsi con il signor Ronald Preston, l’uomo con cui aveva parlato per telefono martedì pomeriggio.
Preston era il vicepresidente della banca e aveva un ufficio lussuoso le cui pareti erano tappezzate con pannelli di pelle e teak lucido. Era un locale ampio, spazioso e decisamente ricco.
Preston era alto e magro, di aspetto fragile e delicato, con la pelle abbronzata e un bel paio di baffi. Parlava molto velocemente gesticolando in continuazione, come una macchina in corto circuito che emana scintille. Era decisamente nervoso.
Ma era anche efficiente. Aveva preparato un rapporto dettagliato sulla situazione di Bruno Frye, con resoconti completi dei cinque anni durante i quali Frye era stato correntista della First Pacific United. L’incartamento conteneva una lista con i versamenti e i prelievi, una seconda lista che riportava i giorni in cui Frye aveva aperto la sua cassetta di sicurezza, le fotocopie degli estratti conto mensili e gli assegni relativi a tale conto.
«A prima vista,» spiegò Preston, «può sembrare che non le abbia fornito tutte le copie degli assegni staccati da Mr Frye. Ma le assicuro che sono tutti qua. È solo che non ce ne sono molti. Sul conto sono stati versati e prelevati molti soldi, ma, per i primi tre anni e mezzo, Mr Frye si è limitato a due assegni al mese. Nell’ultimo anno e mezzo gli assegni erano tre ogni mese e sempre intestati alle stesse persone.»
Joshua non aprì nemmeno la cartelletta. «Controllerò tutto più tardi. Ora vorrei rivolgere alcune domande alla cassiera responsabile dei movimenti sui vari conti correnti.»
In un angolo della stanza c’era un tavolo rotondo per conferenze, attorno al quale erano state sistemate sei comode poltrone imbottite. Joshua decise che era il luogo ideale per interrogare i dipendenti della banca.
Cynthia Willis, la cassiera, era una donna di colore sulla trentina, piuttosto attraente e spigliata. Indossava una gonna blu e una camicetta bianca. Aveva i capelli ben pettinati e le lunghe unghie laccate di rosso. Si muoveva con grazia e si sedette in modo composto quando Joshua le indicò la sedia di fronte a lui.
Preston rimase in piedi accanto alla scrivania, visibilmente agitato.
Joshua aprì la busta che aveva con sé e ne estrasse quindici fotografie di persone che abitavano o avevano abitato a St. Helena. Le sparse sul tavolo e disse: «Miss Willis…»
«Mrs Willis,» lo corresse la donna.
«Mi scusi. Mrs Willis, voglio che osservi bene queste fotografie e che poi mi dica chi di questi è Bruno Frye. Ma deve osservarle con la massima attenzione.»
La donna diede un’occhiata alle foto e ne prese due. «Eccolo.»
«Ne è sicura?»
«Assolutamente,» rispose. «Non era molto difficile. Gli altri tredici non gli assomigliano per niente.»
Aveva fatto un ottimo lavoro, molto meglio di quanto si aspettasse. Alcune foto erano sfocate, altre scattate con una luce molto fioca. Joshua aveva scelto appositamente delle brutte foto per rendere più difficile l’identificazione, ma Mrs Willis non aveva avuto la benché minima esitazione. Anche se aveva affermato che le altre tredici persone non assomigliavano minimamente a Frye, Joshua sapeva che non era vero. Aveva scelto alcune persone che potevano ricordare Frye, soprattutto in una foto sfocata, ma Cynthia non si era lasciata trarre in inganno; non era neppure caduta nel vecchio tranello di includere due foto estremamente diverse della stessa persona.
Indicando le foto con un dito, Mrs Willis proseguì: «Questo è l’uomo che è venuto in banca giovedì pomeriggio.»
«Giovedì mattina,» spiegò Joshua, «è stato ucciso a Los Angeles.»
«Non ci credo,» esclamò la donna con fermezza. «Ci deve essere un errore.»
«Ho visto il suo corpo,» proseguì Joshua. «L’abbiamo sepolto a St. Helena domenica scorsa.»
Lei scosse la testa. «Era qualcun altro. Avete seppellito la persona sbagliata.»
«Conosco Bruno Frye da quando aveva cinque anni,» continuò Joshua. «Non posso sbagliarmi.»
«E io so chi ho visto,» rispose Mrs Willis con tono gentile ma risoluto.
Non si voltò neppure verso Preston. Era troppo orgogliosa per lasciarsi intimorire dalla presenza del vicepresidente. Sapeva di essere una brava lavoratrice e non aveva paura del capo. Si raddrizzò sulla sedia e proseguì: «Mr Preston ha diritto a esprimere la sua opinione. Ma, dopotutto, lui non ha visto quell’uomo. Io sì. Era Mr Frye. Negli ultimi cinque anni è venuto in banca due o tre volte al mese. Ha sempre effettuato versamenti di circa duemila dollari, a volte anche tremila, e sempre in contanti. In contanti. Non capita molto spesso. Per questo è facile ricordarsi di lui. Per non parlare del suo aspetto, con tutti quei muscoli e…»
«Immagino che non abbia sempre effettuato i versamenti al suo sportello.»
«Non sempre,» ammise lei. «Ma molto spesso. E le giuro che è stato lui a effettuare quel prelievo giovedì scorso. Se davvero lo conosce, Mr Rhinehart, saprà anche che non serve vedere in faccia Mr Frye per capire che è lui. Con quella sua strana voce, lo riconoscerei a occhi chiusi.»
«Una voce può essere imitata,» suggerì Preston, intervenendo per la prima volta nella conversazione.
«Non la sua,» osservò Mrs Willis.
«Lo si potrebbe fare,» disse Joshua, «ma non sarebbe facile.»
«E quegli occhi,» proseguì Mrs Willis. «Erano strani quasi quanto la voce.»
Colpito da quell’osservazione, Joshua si sporse verso di lei e le chiese: «Che cos’avevano gli occhi?»
«Erano freddi,» rispose. «E non solo perché erano azzurro grigi. Erano occhi molto freddi e duri. Non riusciva a guardarmi dritto negli occhi. Continuavano a sfuggirmi, come se temesse che potessi leggere i suoi pensieri. Poi, ogni tanto, quando iniziava a fissarmi, avevo come l’impressione… be’… che fossero gli occhi di qualcuno non completamente a posto con la testa.»
Il diplomatico banchiere Preston intervenne precipitosamente. «Mrs Willis, sono sicuro che Mr Rhinehart preferisce che lei si attenga ai fatti oggettivi. Se esprime il suo parere personale, non farà che rendere più difficile e complesso il suo lavoro.»
Mrs Willis scosse la testa. «So solo che l’uomo che è venuto qui giovedì scorso aveva gli stessi occhi.»
Joshua rimase leggermente scosso di fronte a quell’osservazione: anche lui aveva spesso notato che gli occhi di Bruno rivelavano un’anima tormentata. Gli occhi di Bruno erano perennemente spaventati, e non privi del gelo duro e cattivo che aveva intravisto Cynthia Willis.
Joshua continuò a interrogarla per circa mezz’ora sui più svariati argomenti: il tizio che aveva prelevato il denaro di Frye, le procedure utilizzate in caso di forti somme in contanti e quelle relative al fatidico giovedì, il tipo di documento d’identità presentato dall’impostore, e poi domande sulla sua vita privata, sul marito, sui figli, sulla sua carriera professionale, sulle sue condizioni economiche e su una miriade di altre questioni. Si mostrò duro con la donna, quasi arcigno, nel tentativo di scoprire qualche indizio utile. Non aveva intenzione di trascorrere altro tempo nella tenuta di Frye a causa degli ultimi sviluppi e desiderava ardentemente trovare una rapida soluzione al mistero. Cercò una ragione qualsiasi per poter accusare l’impiegata di complicità nell’appropriazione indebita del denaro di Frye, ma non venne a capo di nulla. Al termine dell’interrogatorio, provò addirittura una forte simpatia per quella donna, a cui credeva completamente. Arrivò persino a scusarsi per i suoi modi bruschi e poco gentili ed era questa una cosa che gli risultava sempre molto difficile.
Mrs Willis ritornò allo sportello della cassa e Ronald Preston fece entrare Jane Symmons. Era l’impiegata che aveva accompagnato il sosia di Frye alla cassetta di sicurezza. Era una ragazza di ventisette anni, con i capelli rossi, gli occhi verdi, il naso rincagnato e il tono lamentoso. La vocetta stridula e le risposte stizzose fecero innervosire Joshua, ma più lui diventava scortese, più lei guaiva in tono piagnucoloso. Joshua si rese conto che Jane Symmons non era precisa nelle descrizioni come Cynthia Willis e nemmeno simpatica come la cassiera. Non ebbe motivo di scusarsi con lei, ma di una cosa era assolutamente certo: era stata sincera come Mrs Willis, almeno per quanto riguardava la faccenda di Frye.
Quando Jane Symmons uscì dalla stanza Preston chiese: «Allora, che cosa ne pensa?»
«Credo che nessuna delle due abbia a che fare con la truffa,» rispose Joshua.
Preston era sollevato, ma cercò di non darlo a vedere. «E quello che pensiamo anche noi.»
«Ma l’uomo che si è presentato come Frye deve assomigliargli in modo incredibile.»
«Miss Symmons è una ragazza molto in gamba,» proseguì Preston. «Se sostiene che era esattamente come Frye, la somiglianzà deve essere impressionante.»
«Miss Symmons è una stupida senza speranze,» bofonchiò Joshua. «Se fosse l’unica testimone, avremmo perso in partenza.»
Preston spalancò gli occhi, visibilmente sorpreso.
«A ogni modo,» continuò Joshua, «Mrs Willis è un’osservatrice attenta e maledettamente sveglia. È sicura di sé senza essere arrogante. Se fossi in lei, non mi limiterei a lasciarla alla cassa.»
Preston si schiarì la voce. «Bene… ehm… e adesso?»
«Vorrei vedere il contenuto della cassetta di sicurezza.»
«Immagino non abbia la chiave di Mr Frye.»
«No. Non è ancora ritornato dalla tomba per restituirmela.»
«Pensavo che fosse saltata fuori fra le sue cose dopo che le ho parlato ieri.»
«No. Se quell’impostore ha usato la chiave, suppongo ce l’abbia ancora lui.»
«Innanzitutto, come ha fatto ad averla?» si chiese Preston. «Se è stato Mr Frye a dargliela, allora la faccenda cambia. In questo caso la posizione della banca è diversa. Se Mr Frye ha tramato con un suo sosia per prelevare i fondi…»
«Mr Frye non può aver tramato perché era già morto. Ora le spiace farmi vedere che cosa c’è nella cassetta?»
«Senza le due chiavi, sarà necessario romperla per aprirla.»
«La prego,» insistè Joshua.
Trentacinque minuti più tardi, Joshua e Preston si trovavano davanti alla porta della camera di sicurezza della banca, mentre un impiegato estraeva dalla parete una cassetta di metallo. La porse a Ronald Preston che la offrì a Joshua.
«In condizioni normali,» spiegò Preston, «l’accompagnerei in una delle nostre salette private per permetterle di esaminare il contenuto della cassetta in tutta tranquillità. Tuttavia, poiché c’è la possibilità che lei denunci la scomparsa di oggetti di valore e che la banca venga citata in giudizio, sono costretto a chiederle di aprire la cassetta in mia presenza,»
«Da un punto di vista legale, non ha alcun diritto di chiedermi una cosa simile,» precisò Joshua. «Comunque, non ho intenzione di intentare una causa falsa contro la sua banca e quindi sono disposto a soddisfare la sua curiosità.»
Joshua sollevò il coperchio della cassetta di sicurezza. All’interno c’era solo una busta bianca. Joshua l’afferrò, restituì la cassetta vuota a Preston e strappò un angolo della busta. Trovò un unico foglio di carta bianca con un messaggio dattiloscritto che riportava una firma e una data.
Era la cosa più strana che Joshua avesse mai letto. Sembrava scritta da un uomo in preda alla follia.
Giovedì, 25 settembre
A chiunque possa interessare:
Mia madre, Katherine Anne Frye, è morta cinque anni fa, ma continua a ritornare in vita in corpi diversi. Ha ritrovato la strada dall’inferno e sta cercando di catturarmi. Attualmente vive a Los Angeles, sotto il nome di Hilary Thomas.
Questa mattina mi ha pugnalato e sono morto a Los Angeles. Ho intenzione di tornare laggiù per ucciderla prima che uccida di nuovo me, perché se riuscisse a uccidermi due volte, io sarei morto per sempre. Non possiedo i suoi poteri magici. Non posso ritornare dall’inferno. Non se mi uccide due volte.
Mi sento così vuoto, così incompleto. Mi ha ucciso e non sono più intero.
Lascio questo messaggio nel caso lei vinca di nuovo. Fino a quando non sarò morto due volte, questa rimarrà la mia piccola guerra privata, mia e di nessun altro. Non posso uscire allo scoperto e chiedere la protezione della polizia. Se lo facessi, tutti scoprirebbero che cosa sono e chi sono. Tutti scoprirebbero che mi sono nascosto per tutta la vita e mi ucciderebbero a sassate. Ma se lei mi trovasse un’altra volta, non mi importerebbe che tutti scoprissero che cosa sono, perché a quel punto sarei già morto due volte. Se mi trovasse un’altra volta, allora chiunque leggerà questa lettera dovrà fare di tutto per bloccarla.
Bisogna tagliarle la testa e riempirle la bocca con l’aglio. Bisogna strapparle il cuore e trafiggerlo con un picchetto. Bisogna seppellire la testa e il corpo in due cimiteri diversi. Non è un vampiro. Ma credo che questi sistemi possano funzionare. Se verrà uccisa in questo modo, resterà morta per sempre.
Lei ritorna dall’inferno.
Sotto la lettera, era impressa la firma contraffatta di Bruno Frye. Era ovvio che si trattava di una firma falsa perché Frye era già morto quando erano state scritte quelle righe.
Joshua sentì un brivido lungo la schiena e si ritrovò a pensare a venerdì: uscendo dall’impresa di pompe funebri di Avril Tannerton, nell’oscurità della notte, aveva avuto la certezza di essere circondato da qualcosa di pericoloso e aveva avvertito una presenza malvagia fra le tenebre.
«Che cos’è?» domandò Preston.
Joshua gli allungò il foglio.
Preston lo lesse e rimase sbalordito. «Che cosa diamine significa?»
«L’impostore che ha ripulito il conto deve averla messa nella cassetta,» rispose Joshua.
«Perché mai avrebbe fatto una cosa simile?»
«Forse uno scherzo,» suggerì Joshua. «Chiunque sia, evidentemente ama le storie dei fantasmi. Sapeva che ci saremmo accorti degli ammanchi e ha deciso di divertirsi un po’.»
«Ma è così… strano,» mormorò Preston. «Voglio dire, mi sarei aspettato un biglietto ironico, qualcosa che ci servisse da lezione. Ma questo? Non sembra l’opera di un giocherellone. Anche se è strano e senza senso, sembra… serio.»
«Se secondo lei non è uno scherzo, allora che cosa ne dice?» chiese Joshua. «Vuole forse farmi credere che Bruno Frye ha scritto questa lettera e l’ha messa nella cassetta di sicurezza dopo essere morto?»
«Be’… no. Certo che no.»
«E allora?»
Il banchiere osservò la lettera che stringeva fra le mani. «Credo che questo impostore, questo individuo che assomiglia tanto a Mr Frye, parla come Mr Frye, ha una patente a nome di Mr Frye e sa che Mr Frye ha un conto presso la First Pacific United, be’, credo che quest’uomo non finga semplicemente di essere Mr Frye. È convinto di essere davvero Mr Frye.» Alzò gli occhi verso Joshua. «Non credo che un comune ladro con la passione per gli scherzi avrebbe scritto una lettera di questo genere. È l’opera di un pazzo.»
Joshua annuì. «Temo che lei abbia ragione. Ma da dove sbuca questo sosia? Chi è? Da quanto tempo se ne va in giro? Bruno era a conoscenza dell’esistenza di quest’uomo? E perché mai questo sosia dovrebbe condividere con Bruno la sua ossessione e il suo terrore nei confronti di Katherine Frye? Com’è possibile che entrambi soffrano dello stesso tipo di allucinazione: la convinzione che quella donna sia tornata dall’inferno? Ci sono almeno mille domande senza risposta. Mi sembra di impazzire.»
«Sono d’accordo,» ammise Preston. «E non posso proprio aiutarla. Ma avrei un suggerimento. Bisognerebbe avvertire questa Hilary Thomas del grave pericolo che forse sta per correre.»
Dopo il funerale di Frank Howard, condottò con tutti gli onori, Tony e Hilary presero il volo delle 11.55 in partenza da Los Angeles. Fiilary si sforzò di essere frizzante e divertente perché si rendeva conto che il funerale aveva depresso Tony facendogli tornare alla memoria quei terribili istanti della sparatoria di lunedì mattina. Dapprima, Tony rimase sprofondato nel sedile, prestandole scarsa attenzione. Dopo un po’, si rese conto che Hilary voleva soltanto rallegrarlo e, probabilmente per non contrariarla, ritrovò il sorriso e sembrò uscire momentaneamente dallo stato di depressione. Atterrarono all’aeroporto internazionale di San Francisco in perfetto orario, ma il volo delle due per Napa era stato rinviato alle tre per motivi tecnici.
Decisero di mangiare qualcosa al ristorante dell’aeroporto che si affacciava sulle piste di atterraggio. L’unica cosa decente risultò essere il caffè: i panini erano ammuffiti e le patatine gelate.
Con l’avvicinarsi dell’ora prevista per la partenza, Hilary iniziò ad avere paura. Con il passare dei minuti, si fece sempre più ansiosa.
Tony notò il cambiamento. «Che cosa c’è che non va?»
«Non lo so esattamente. Mi sento come… be’, forse non stiamo facendo la cosa più giusta. Forse ci stiamo gettando nella tana del leone.»
«Frye è a Los Angeles. Non ha modo di scoprire che stai andando a St. Helena,» la rassicurò Tony.
«Davvero?»
«Sei sempre convinta che si tratti di qualcosa di soprannaturale, una storia di fantasmi, demoni e roba simile?»
«Non escludo niente.»
«Alla fine troveremo una spiegazione logica.»
«A ogni modo, ho una sensazione… una premonizione.»
«Una premonizione di che cosa?»
«Sento che il peggio deve ancora venire,» sussurrò lei.
Dopo un rapido ma eccellente pranzo nella sala riservata della First Pacific United Bank, Joshua Rhinehart e Ronald Preston si incontrarono con i funzionari federali. I burocrati erano piuttosto noiosi, poco preparati e naturalmente incapaci, ma Joshua cercò di portare pazienza, rispose alle innumerevoli domande e riempì una miriade di moduli, poiché era suo dovere utilizzare il sistema di assicurazioni federali per recuperare il denaro rubato a Frye.
Quando i burocrati se ne andarono, arrivò Warren Sackett, un agente dell’FBI. Il reato cadeva sotto la giurisdizione dell’FBI poiché il denaro era stato rubato da un istituto finanziario riconosciuto a livello federale. Sackett, un uomo alto dai lineamenti cesellati, si sedette al tavolo con Joshua e Preston e riuscì a scoprire il doppio delle informazioni in metà tempo rispetto allo scialbo gruppo di burocrati. Comunicò a Joshua che avrebbero proceduto a un accurato controllo sul suo passato: Joshua se l’aspettava e non aveva nulla da temere. Sackett ammise che Hilary Thomas poteva essere davvero in pericolo e si impegnò a informare la polizia di Los Angeles degli incredibili avvenimenti sopraggiunti, in modo che il dipartimento e l’ufficio dell’FBI di Los Angeles fossero pronti a proteggerla.
Nonostante la gentilezza e l’efficienza di Sackett, Joshua capì che l’FBI non sarebbe riuscita a risolvere il caso nel giro di pochi giorni, a meno che l’impostore non si presentasse spontaneamente nel loro ufficio e confessasse le sue colpe. Per loro non era certo una faccenda urgente. In un paese infestato da vari gruppi terroristici, dal crimine organizzato e da politici corrotti, era ovvio che l’FBI non avesse intenzione di sprecare tempo ed energie per un semplice furto da diciottomila dollari. Quasi sicuramente, Sackett sarebbe stato l’unico agente a occuparsene a tempo pieno. Avrebbe iniziato con estrema calma, controllando il passato di tutte le persone coinvolte, per poi procedere a un’inchiesta dettagliata presso le banche della California settentrionale, per verifìcare eventuali conti segreti intestati a Bruno Frye. Per un paio di giorni, Sackett non sarebbe andato a St. Helena. E se non avesse scoperto alcuna traccia nel giro di una settimana, si sarebbe occupato del caso solo saltuariamente.
Quando l’agente terminò con le domande, Joshua si rivolse a Ronald Preston. «Senta, spero che i diciottomila dollari vengano rimpiazzati rapidamente.»
«Be’…» obiettò Preston, pizzicandosi nervosamente i baffi. «Dovremo attendere l’autorizzazione del FDIC.»
Joshua lanciò un’occhiata a Sackett. «Ne deduco che il FDIC vorrà assicurarsi che né io né nessun altro beneficiario dei beni di Bruno Frye siamo coinvolti in questo prelievo di diciottomila dollari. È così?»
«È probabile,» ammise Sackett. «Dopotutto, si tratta di un caso abbastanza insolito.»
«Ma potrebbe passare molto tempo prima di essere in grado di garantire loro una cosa simile,» proseguì Joshua.
«Non la faremo aspettare oltre un ragionevole lasso di tempo,» gli assicurò Sackett. «Al massimo tre mesi.»
Joshua sospirò. «Speravo di cavarmela più velocemente.»
Sackett si strinse nelle spalle. «Forse non saranno necessari tre mesi. Può darsi che tutto si risolva molto prima. Non si può mai sapere. Magari in un paio di giorni salta fuori questo tipo che si spaccia per Frye, e a quel punto potrei dare il segnale di via libera al FDIC.»
«Ma lei non pensa di risolvere il caso così in fretta.»
«La situazione è talmente bizzarra che non posso pronunciarmi,» sottolineò Sackett.
«Maledizione,» imprecò Joshua.
Qualche minuto più tardi, Joshua si stava incamminando verso l’uscita della banca, quando Mrs Willis lo chiamò. Era dietro lo sportello della cassa. Joshua si avvicinò e lei gli disse: «Sa che cosa farei se fossi in lei?»
«Che cosa?» domandò Joshua.
«Lo dissotterri. Quel tipo che avete seppellito. Dissotterratelo.»
«Bruno Frye?»
«Non avete seppellito Mr Frye.» Mrs Willis era risoluta. Strinse le labbra e scosse la testa con aria decisa. «No. Se esiste un sosia di Mr Frye, non è lui che se ne sta andando in giro. Il sosia è a un paio di metri sotto terra, con una lapide di granito come cappello. Il vero Mr Frye è stato qui giovedì scorso. Sarei pronta a giurarlo in tribunale. Ci scommetterei la vita.»
«Ma se non era Frye l’uomo ucciso a Los Angeles, allora dove si trova adesso Mr Frye? Perché è scappato? Che cosa sta succedendo, per l’amor del cielo?»
«Non lo so,» rispose la donna. «Ma so che cosa ho visto. Lo dissotterri, Mr Rhinehart. Scommetto che si accorgerà di aver sepolto l’uomo sbagliato.»
Mercoledì pomeriggio alle 15.20 Joshua atterrò all’aeroporto costruito alle porte di Napa. Con una popolazione di quarantacinquemila abitanti, Napa non era precisamente una metropoli e l’atmosfera delle vigne e delle cantine contribuiva a farla sembrare ancora più piccola e raccolta. Ma per Joshua, abituato alla pace rurale della minuscola St. Helena, Napa appariva rumorosa e caotica come San Francisco: non vedeva l’ora di andarsene.
Ritrovò l’auto nel parcheggio pubblico dove l’aveva lasciata il mattino. Non si diresse a casa e nemmeno in ufficio ma decise di raggiungere direttamente la dimora di Bruno Frye a St. Helena.
Normalmente, Joshua si rendeva conto dell’incredibile bellezza paesaggistica della vallata. Ma non quel giorno. Guidò senza vedere assolutamente nulla fino a quando scorse la tenuta di Frye.
Parte della Shade Tree Vineyards, di proprietà della famiglia Frye, occupava la fertile pianura, anche se la tenuta si estendeva perlopiù sulle dolci colline a ovest della vallata. Le cantine, le sale di degustazione e gli altri edifici dell’azienda, costruiti in pietra, legno di sequoia e quercia, sembravano spuntare dalla terra ed erano raggnippati su un’altura ai confini occidentali della proprietà. Tutti gli edifici erano rivolti a oriente e si affacciavano sulle vigne. Alle loro spalle si ergeva una parete di circa cinquanta metri, formatasi in tempi remoti in seguito ai movimenti della crosta terrestre.
In cima a quella parete, in posizione isolata, si stagliava la casa che Leo Frye, il padre di Katherine, aveva fatto costruire nel 1918. Leo era un tipo solitario, di origine prussiana, che amava la sua privacy più di qualunque altra cosa. Desiderava costruire la sua casa in un luogo che potesse offrirgli una stupenda vista sulla vallata unita a una privacy assoluta, e quella proprietà rappresentava quanto di meglio potesse chiedere. Sebbene nel 1918 Leo fosse già vedovo, con un’unica figlioletta, e non prevedesse di risposarsi, fece erigere un’enorme dimora di dodici stanze in stile vittoriano sulla cima del dirupo. Era un edificio adornato da molti bovindi, da timpani e decorazioni di ogni tipo. Dominava le cantine e le vigne realizzate successivamente ed era raggiungibile in due soli modi: mediante la funivia, un sistema di cavi, pulegge, motore elettrico e una cabina a quattro posti che faceva la spola dalla stazione più bassa a quella superiore, oppure mediante la lunga scala a zigzag fissata direttamente alla parete. I trecentoventi gradini venivano tuttavia usati solo in caso di guasto della funivia, quando non era possibile aspettare che venisse riparata. Quella casa non era solo privata: era remota.
Mentre abbandonava la strada principale per infilarsi nel lungo viale privato che conduceva alla Shade Tree, Joshua cercò di ricordare quello che sapeva su Leo Frye. Non era molto. Katherine parlava raramente del padre e Leo non aveva mai avuto amici.
Joshua era arrivato in quella vallata nel 1945, qualche anno dopo la morte di Leo, e quindi non lo aveva mai incontrato. Aveva udito comunque molte voci su di lui e si era formato un’idea di quello strano individuo perennemente rintanato nella casa sulla collina. Leo Frye era freddo, severo, arcigno, padrone di se stesso, ostinato, brillante, leggermente egocentrico e decisamente autoritario. Assomigliava a un signore feudale d’altri tempi, un aristocratico del Medio Evo che preferiva vivere in una fortezza, lontano dalla plebaglia.
Katherine aveva continuato a vivere in quella casa dopo la morte del padre. Aveva cresciuto Bruno in quelle stanze dai soffitti alti, lontano mille miglia dal mondo degli altri bambini: in un mondo vittoriano di pannelli di legno, tappezzeria a fiori, merletti, posapiedi, orologi a pendolo e tovaglie di pizzo. Madre e figlio erano vissuti insieme fino a quando Bruno aveva raggiunto l’età di trentacinque anni e Katherine era morta per un attacco di cuore.
Proseguendo lungo il viale in macadam, Joshua alzò lo sguardo oltre le costruzioni di legno. Fissò l’enorme casa che si stagliava come un gigantesco tumulo in cima alla collina.
Era strano che un uomo vivesse così a lungo con la madre, come aveva fatto Bruno con Katherine. Naturalmente si erano sparse voci e congetture. Gli abitanti di St. Helena erano convinti che Bruno non nutrisse alcun interesse per le ragazze e che in realtà la sua passione segreta fossero i ragazzini. Si pensava che soddisfacesse i suoi istinti durante i viaggi occasionali a San Francisco, lontano dagli sguardi indiscreti dei vicini. La probabile omosessualità di Bruno non rappresentava certo uno scandalo nella vallata. Gli abitanti del posto non ne parlavano molto poiché la faccenda non li riguardava. Nonostante St. Helena fosse un piccolo centro, poteva vantare ben altri tipi di adulterazione: non per niente in quella zona veniva prodotto il vino.
Joshua si chiese se l’opinione pubblica si fosse sbagliata in merito a Bruno. Considerando gli straordinari avvenimenti della settimana precedente, c’era il sospetto che il segreto di quell’uomo fosse ben più cupo e infinitamente più terribile di una semplice omosessualità.
Subito dopo il funerale di Katherine, profondamente scosso dalla sua morte, Bruno se n’era andato dalla grande casa sulla collina. Aveva preso con sé i suoi vestiti, una vasta collezione di quadri, alcune sculture e i libri che aveva acquistato nel corso degli anni, ma aveva abbandonato tutto ciò che era appartenuto a Katherine. Gli abiti della donna, accuratamente riposti nell’armadio, non vennero toccati. I mobili antichi, i quadri, le porcellane, la cristalleria, le scatole smaltate e gli altri oggetti di valore avrebbero potuto essere venduti all’asta per una somma considerevole. Ma Bruno aveva insistito affinchè ogni cosa fosse lasciata esattamente dove l’aveva messa Katherine. Non doveva essere toccato nulla. Aveva chiuso le finestre, tirato le tende e sprangato le imposte; aveva inoltre sigillato le porte come se volesse custodire per sempre in quella dimora il ricordo della madre adottiva.
Quando Bruno aveva affittato un appartamento e aveva iniziato a progettare la costruzione di una nuova casa accanto alle vigne, Joshua aveva cercato di convincerlo che era una pazzia lasciare incustoditi tutti quegli oggetti di valore. Bruno gli aveva assicurato che la casa era talmente isolata da non costituire un facile bersaglio per i ladri, considerando anche il fatto che in quella vallata il furto era pressoché sconosciuto. Le uniche due vie d’accesso alla dimora, la funivia e la scala, erano situate all’interno della proprietà di Frye e, oltretutto, il meccanismo aereo funzionava solo con una chiave. Inoltre, solo lui e Joshua erano a conoscenza dei tesori nascosti in quella casa. Bruno era stato inflessibile: gli oggetti appartenuti a Katherine non dovevano essere toccati. Alla fine, seppure con riluttanza, Joshua aveva dovuto assecondare la volontà del suo cliente.
Per quanto ne sapeva Joshua, nessuno era entrato in quella casa negli ultimi cinque anni, dal giorno in cui Bruno se n’era andato. La funivia era ancora in funzione, anche se veniva utilizzata solo da Gilbert Ulman, il meccanico che si occupava dei macchinali e degli autocarri della Shade Tree Vineyards. Gil aveva anche il compito di controllare ed eventualmente riparare il sistema di trasporto aereo, che non richiedeva più di un paio d’ore al mese. Quello stesso giorno o al massimo venerdì, Joshua avrebbe dovuto raggiungere la cima della collina per aprire porte e finestre di quell’enorme casa, in modo da arieggiarla prima dell’arrivo dei periti di Los Angeles e San Francisco previsto per sabato mattina.
Per il momento, Joshua decise di non occuparsi della fortezza vittoriana di Leo Frye: la moderna casa di Bruno era decisamente più accessibile e altrettanto interessante. Proseguì lungo la strada che conduceva al parcheggio e girò a sinistra in un vicolo dal fondo sconnesso, sprofondato in mezzo ai vigneti assolati. Il viottolo superò una collina, continuò attraverso una gola, risalì un pendio e terminò nella radura dove Bruno aveva fatto costruire la sua casa seminascosta dalle vigne. Era un vasto edificio a un piano, in legno di sequoia e pietre, simile a un ranch, posto all’ombra di una delle nove gigantesche querce che costellavano la proprietà della famiglia Frye.
Joshua scese dalla macchina e s’incamminò verso l’ingresso. Il cielo azzurro elettrico era attraversato solo da alcune nuvole sparse. L’aria proveniente dalle vette delle Mayacamas era frizzante e limpida.
Fece scattare la serratura, entrò e rimase nell’ingresso per un attimo con le orecchie tese. Non sapeva esattamente che cosa si aspettava di sentire.
Forse un rumore di passi.
O la voce di Bruno Frye.
Ma regnava il silenzio più completo.
Attraversò tutta la casa per raggiungere lo studio di Frye. L’arredamento era la prova che Bruno aveva ereditato l’ossessione di Katherine di collezionare e ammassare oggetti di valore. Su alcune pareti erano stati appesi innumerevoli quadri con le cornici che si sfioravano: nessun dipinto poteva catturare l’attenzione in quella confusione di forme e colori. Ovunque erano disseminate vetrinette colme di cristalleria, sculture in bronzo, fermacarte e oggetti dell’era precolombiana. I locali contenevano decisamente troppi mobili, ma ogni pezzo rappresentava un impareggiabile esempio di un dato periodo e di un dato stile. Nell’ampio studio c’erano cinque o seicento libri rari, molti dei quali in edizione limitata e rilegata in pelle; in una vetrinetta erano raggnippate alcune decine di figurine cesellate; c’erano inoltre sei sfere di cristallo assolutamente perfette e di gran valore, dalla più piccola, delle dimensioni di un’arancia, alla più grande, simile a un pallone da pallacanestro.
Joshua aprì le tende lasciando filtrare la luce del sole, accese una lampada d’ottone e si sedette nella comoda poltrona dietro la gigantesca scrivania inglese del diciottesimo secolo. Estrasse dalla tasca la strana lettera rinvenuta nella cassetta di sicurezza della First Pacific United Bank. In realtà era solo una fotocopia. Warren Sackett, l’agente dell’FBI, aveva insistito per tenere l’originale. Joshua spiegò il foglio di carta e lo appoggiò davanti a sé. Si voltò verso il tavolino da dattilografia posto accanto alla scrivania, infilò un foglio nella macchina per scrivere e ricopiò la prima frase della lettera.
Mia madre, Katherine Anne Frye, è morta cinque anni fa, ma continua a ritornare in vita in corpi diversi.
Si mise a confrontare i due fogli. I caratteri erano gli stessi. In entrambi i casi gli occhielli delle «e» erano completamente pieni d’inchiostro perché i tasti non venivano puliti da parecchio tempo. Su entrambi gli scritti la «a» risultava parzialmente occlusa e la «d» era stata battuta leggermente più in alto rispetto agli altri caratteri. Quella lettera era stata scritta nello studio di Bruno Frye, con la macchina di Bruno Frye.
Il fantomatico sosia, l’uomo che si era spacciato per Frye nella banca di San Francisco il giovedì precedente, sembrava possedere la chiave di quella casa. Ma come l’aveva ottenuta? La risposta più ovvia era che fosse stato Bruno a fornirgliela, e questo significava che il sosia era stato assunto appositamente.
Joshua si appoggiò allo schienale e fissò la fotocopia della lettera. Aveva la testa che brulicava di interrogativi scottanti. Perché Bruno aveva dovuto assumere un sosia? E dove aveva trovato una persona che gli somigliava tanto? Da quanto tempo lavorava per lui? E che cosa faceva? Quante volte lui stesso aveva parlato con quel sosia, convinto che si trattasse di Frye? Probabilmente più di una volta. Forse si era rivolto più spesso a lui che non al vero Frye. Non c’era modo di saperlo. Forse giovedì mattina, quando Bruno era stato ucciso a Los Angeles, il suo sosia era proprio in quella casa? Era probabile. In fin dei conti, la lettera ritrovata nella cassetta di sicurezza era stata scritta proprio lì e quindi era ovvio che quell’individuo avesse appreso la notizia nello stesso posto. Ma come aveva fatto a scoprire così velocemente che Bruno era morto? Era possibile che, prima di morire, Bruno avesse chiamato casa sua per parlare con il sosia? Sì. Era possibile. Anzi, probabile. Avrebbe dovuto controllare alla società dei telefoni. Ma che cosa si erano detti quei due, mentre uno stava per morire? Era logico supporre che soffrissero della stessa forma di psicosi e che entrambi credessero che Katherine fosse tornata dall’inferno?
Joshua fu scosso da un brivido. Piegò la lettera e se la rimise in tasca.
Per la prima volta, si rese conto di quanto fossero lugubri quelle stanze: stracolme di mobili e oggetti costosi, con le finestre oscurate da pesanti tendaggi e i pavimenti coperti da tappeti scuri. Improvvisamente, quella casa gli parve ancora più isolata della sontuosa dimora di Leo.
Un rumore. Nell’altra stanza.
Joshua rimase paralizzato, ma si sforzò di girare attorno alla scrivania. Rimase in attesa, con le orecchie tese. «Immaginazione,» mormorò, cercando di rassicurare se stesso.
Tornò rapidamente all’ingresso principale e capì che quel rumore era stato davvero frutto della sua immaginazione. Non era stato aggredito da nessuno. A ogni modo, quando finalmente uscì, chiudendosi la porta alle spalle, trasse un profondo respiro di sollievo.
Lungo la strada che conduceva al suo ufficio di St. Helena Joshua si pose alcuni interrogativi. La settimana prima, chi era morto a Los Angeles? Frye o il suo sosia? Chi si era recato alla First Pacific United Bank giovedì? Il vero Frye o il suo sostituto? Come avrebbe deciso di liquidare l’intero patrimonio senza sapere che cos’era successo effettivamente? Aveva una valanga di interrogativi, ma solo pochissime risposte.
Qualche minuto più tardi, posteggiò davanti all’ufficio e si rese conto che avrebbe dovuto prendere seriamente in considerazione il consiglio di Mrs Willis. Forse sarebbe stato meglio aprire la tomba di Bruno Frye per determinare esattamente l’identità dell’uomo sepolto.
Tony e Hilary atterrarono a Napa, noleggiarono una macchina e arrivarono all’ufficio dello sceriffo di Napa County alle 16.20 di mercoledì. Quell’ufficio non aveva l’aria sonnacchiosa che ci si sarebbe aspettati in un piccolo centro. Due giovani agenti e un paio di impiegati diligenti erano alle prese con schedari e scartoffie.
La segretaria dello sceriffo sedeva dietro una grande scrivania di metallo, sulla quale era appoggiato un cartellino con il nome: MARSHA PELETRINO. Era una donna dall’aspetto comune e dai lineamenti severi, ma la sua voce era morbida e sexy. Il suo sorriso era decisamente più invitante e gradevole di quanto avesse immaginato Hilary.
Quando Marsha Peletrino aprì la porta dell’ufficio privato di Peter Laurenski e annunciò che Tony e Hilary desideravano parlargli, lo sceriffo capì immediatamente chi erano e non cercò di evitarli, come avevano immaginato i due visitatori. Uscì dall’ufficio e strinse loro la mano in modo goffo. Sembrava imbarazzato. Era ovvio che non aveva molta voglia di spiegare perché aveva fornito un alibi falso a Bruno Frye quel mercoledì notte, ma, nonostante il disagio evidente, invitò Tony e Hilary a fare due chiacchiere.
Hilary rimase alquanto delusa da Laurenski. Non era il classico sceriffo di provincia, decisamente antipatico, con la pancia straboccante, l’abbigliamento trasandato e il sigaro in bocca che si sarebbe aspettata di trovare, e nemmeno lo spregevole zoticone disposto a mentire per proteggere un signorotto locale quale Bruno Frye. Laurenski aveva circa trent’anni, era alto, biondo, dai lineamenti delicati, socievole e apparentemente amante del suo lavoro: un ottimo rappresentante della legge. Gli occhi gentili e la voce straordinariamente carezzevole le ricordavano in qualche modo Tony. Gli uffici dello sceriffo erano locali ben puliti e ordinati, dove sia gli agenti sia gli impiegati al servizio di Laurenski si davano da fare per svolgere il proprio lavoro in modo efficiente e rigoroso. Dopo solo un paio di minuti trascorsi con lo sceriffo, Hilary si rese conto che il mistero di Frye non sarebbe stato di facile soluzione, in quanto era ovviamente da escludere la cospirazione.
Nell’ufficio privato dello sceriffo Hilary e Tony si sedettero su una vecchia e robusta panca resa più comoda da un paio di cuscini di velluto. Laurenski si mise a cavalcioni su una sedia, le braccia incrociate sullo schienale.
Lo sceriffo lasciò di stucco Hilary e Tony andando diritto al nocciolo della questione e trattando se stesso in modo duro.
«Temo di essere stato poco professionale per quanto riguarda questo caso,» si scusò. «Ho mentito in merito a quelle telefonate.»
«E il motivo per cui siamo qui,» spiegò Tony.
«Si tratta di… una visita ufficiale?» chiese Laurenski, leggermente imbarazzato.
«No,» rispose Tony. «Non sono qui come poliziotto ma come semplice cittadino.»
«Negli ultimi due giorni abbiamo vissuto un’esperienza alquanto insolita e sconvolgente,» intervenne Hilary. «Sono accadute cose incredibili e speriamo che lei possa fornirci una spiegazione.»
Laurenski alzò le sopracciglia. «Non si riferisce solo all’aggressione da parte di Frye?»
«Ne parleremo più tardi,» aggiunse Tony. «Ma prima di tutto vorremmo sapere perché non ha risposto alle chiamate del dipartimento di polizia di Los Angeles.»
Laurenski annuì. Era arrossito. «Non so proprio che cosa dire. Sono stato uno stupido a garantire per Frye. Probabilmente speravo di risolvere tutto più in fretta.»
«E perché ha garantito per lui?» domandò Hilary.
«E solo che… vedete… ero davvero convinto che quella sera fosse a casa.»
«Gli ha parlato?» proseguì Hilary.
«No,» mormorò Laurenski. Si schiarì la voce. «Quella notte la telefonata fu presa dall’agente di servizio. Tim Larsson. È uno dei miei uomini migliori e lavora con me da sette anni. Un tipo molto determinato. Bene… quando la polizia di Los Angeles gli ha chiesto di Bruno Frye, Tim ha pensato di chiamarmi per vedere se volevo occuparmene io, considerato il fatto che Frye era uno dei nostri cittadini più illustri. Quella sera ero a casa. Era il compleanno di mia figlia. Era un’occasione davvero speciale e per una volta avevo deciso che il lavoro non doveva intromettersi nella mia vita privata. Passo così poco tempo con i miei bambini…»
«La capisco,» lo rassicurò Tony. «Ho l’impressione che lei svolga un ottimo lavoro qui. E so bene che per ottenere dei buoni risultati in questo mestiere, è necessaria una disponibilità che va ben oltre le classiche otto ore al giorno.»
«Diciamo piuttosto dodici ore al giorno per sei, sette giorni la settimana,» precisò lo sceriffo. «Comunque, quella sera chiesi a Tim di occuparsene al mio posto. Vedete, mi sembrava una richiesta piuttosto ridicola. Sì, insomma, Frye era uno stimato uomo d’affari, un miliardario, santo cielo. Perché mai avrebbe rinunciato a tutto per violentare una donna? Così pregai Tim di controllare e di farmi sapere. Come vi ho già detto, è un tipo molto in gamba. Inoltre, conosceva Frye meglio di me. Prima di arruolarsi nella polizia, Tim ha lavorato per cinque anni presso la Shade Tree Vineyards e, in quel periodo, vedeva Frye praticamente tutti i giorni.»
«Quindi è stato l’agente Larsson a controllare Frye mercoledì sera,» disse Tony.
«Sì. Mi ha richiamato durante la festa di compleanno di mia figlia. Mi ha riferito che Frye era a casa e non a Los Angeles. Così ho chiamato la Centrale di Los Angeles e mi sono reso ridicolo.»
Hilary aggrottò la fronte. «Non capisco. Vuole forse dire che questo Tim Larsson le ha mentito?»
Era una domanda alla quale Laurenski avrebbe preferito non rispondere. Si alzò e si mise a passeggiare nervosamente, fissando il pavimento e scuotendo la testa. Alla fine sbottò: «Mi fido di Tim Larsson. Mi sono sempre fidato. È una brava persona. Uno dei migliori. Ma non riesco proprio a capire.»
«Aveva qualche motivo per coprire Frye?» domandò Tony.
«Vuole sapere se erano compiici? No. Niente del genere. Non erano neppure amici. Tim aveva semplicemente lavorato per Frye. Ma quell’uomo non gli piaceva.»
«Ha affermato di aver visto Bruno Frye quella notte?»
«Sul momento, ho dato per scontato che l’avesse visto. Poi Tim mi ha rivelato che era convinto di riconoscere Frye al telefono e che quindi non si era preoccupato di andare a controllare di persona. Immagino sappiate che Frye aveva una voce molto particolare e piuttosto anomala.»
«Quindi Larsson può aver parlato con qualcuno che stava proteggendo Frye, qualcuno capace di imitare la sua voce,» proseguì Tony.
Laurenski alzò lo sguardo su di lui. «E esattamente quello che ha detto Tim. Si è scusato così. Ma c’è qualcosa che non quadra. Chi può averlo fatto? E perché mai qualcuno avrebbe dovuto proteggere un uomo che si rendeva colpevole di un’azione simile? E dov’è adesso? Oltretutto, non era facile imitare la voce di Frye.»
«Lei che cosa ne pensa?» chiese Hilary.
Laurenski scosse la testa. «Non so che cosa pensare. E tutta la settimana che ci rimugino sopra. Vorrei poter credere al mio agente, ma come faccio? Qui sta succedendo qualcosa, ma che cosa? Fino a quando non avrò chiarito questa faccenda, sarò costretto a lasciare Tim senza paga.»
Tony guardò prima Hilary e poi lo sceriffo. «Quando avrà sentito quello che abbiamo da dirle, sono sicuro che potrà credere alle parole dell’agente Larsson.»
«Comunque,» intervenne Hilary, «continuerà a non capirci assolutamente nulla. Noi ne sappiamo più di lei, ma non riusciamo a raccapezzarci. Non capiamo che cosa sta succedendo.»
Raccontò a Laurenski che Bruno Frye era stato da lei giovedì mattina, cinque giorni dopo la sua morte.
Nel suo ufficio di St. Helena, Joshua Rhinehart si sedette alla scrivania con un bicchiere di Jack Daniels Black Label ed esaminò attentamente i documenti che Ronald Preston gli aveva fornito a San Francisco. Trovò, fra l’altro, le fotocopie degli estratti conto e le copie di tutti gli assegni firmati da Frye. Dal momento che Frye aveva tenuto un conto segreto nella banca di una città nella quale non era solito recarsi per motivi di lavoro, Joshua era convinto che un attento esame di quei dati avrebbe gettato una nuova luce sul caso, contribuendo a individuare l’identità del sosia di Frye.
Nei primi tre anni e mezzo dall’apertura del conto, Bruno aveva staccato due assegni al mese, non uno di più né uno di meno. Gli assegni erano sempre intestati alle stesse persone: Rita Yancy e Latham Hawthorne. Quei nomi non significavano assolutamente niente per Joshua.
Per ragioni non specificate, Mrs Yancy aveva ricevuto cinquecento dollari al mese. L’unica cosa che Joshua poté dedurre dalle fotocopie degli assegni fu che probabilmente Rita Yancy viveva a Hollister, in California, dal momento che tutti gli assegni erano stati depositati in una banca di quella città.
Gli assegni intestati a Latham Hawthorne non riportavano mai lo stesso importo: andavano da duecento a circa cinque, seimila dollari. Apparentemente Hawthorne viveva a San Francisco poiché tutti gli assegni erano stati versati alla stessa filiale della Wells Fargo Bank di quella città. Gli assegni di Hawthorne erano stati girati e sul retro era stato apposto un timbro:
Joshua fissò per un attimo l’ultima parola. Occultista, Ovviamente derivava da «occulto» e si riferiva alla particolare professione di Hawthorne, mercante di libri rari che trattavano dell’aldilà. Joshua pensava di aver capito che cosa significasse esattamente, ma non ne era certo.
Due delle pareti dell’ufficio erano interamente tappezzate di libri giuridici e di consultazione. Joshua aveva tre dizionari e cercò la parola «occultista» su tutti e tre. I primi due non riportavano neppure quel termine, ma il terzo fornì una definizione che coincideva con quello che aveva in mente. Un occultista era un individuo che credeva nei rituali e nei poteri soprannaturali delle varie «scienze occulte», fra cui, ma non solo, Pastrologia, la chiromanzia, la magia nera, la magia bianca, la stregoneria e il satanismo. Secondo il dizionario, l’occultista poteva anche essere la persona che vendeva gli attrezzi necessari per quegli strani rituali e quelle pratiche magiche: libri, vestiti, carte, strumenti magici, reliquie sacre, erbe rare, candele di sego e roba del genere.
Nei cinque anni trascorsi fra la morte di Katherine e la sua stessa scomparsa, Bruno Frye aveva versato più di centotrentamila dollari a Latham Hawthorne. Non c’era niente sugli assegni che indicasse che cosa aveva ottenuto in cambio di tutto quel denaro.
Joshua riempì di nuovo il bicchiere di whisky e ritornò alla scrivania.
I documenti relativi al conto segreto di Frye mostravano che nei primi tre anni e mezzo l’uomo aveva staccato solo due assegni al mese, ma che nell’ultimo anno e mezzo gli assegni mensili erano diventati tre. Uno a Rita Yancy e uno a Latham Hawthorne, come prima. C’era poi un terzo assegno intestato al dottor Nicholas W. Rudge. Tutti gli assegni del dottor Rudge erano stati depositati sulla filiale di San Francisco della Bank of America; Joshua ne dedusse che il medico doveva abitare in quella città.
Chiamò il centralino del distretto telefonico di San Francisco e poi quello della zona che includeva la città di Hollister. Nel giro di cinque minuti, ottenne i numeri di telefono di Hawthorne, Rudge e Rita Yancy.
Per prima cosa decise di chiamare la donna.
Rispose al secondo squillo. «Pronto?»
«Mrs Yancy?»
«Sì.»
«Rita Yancy?»
«Esatto.» Aveva una voce gentile e melodiosa. «Chi parla?»
«Mi chiamo Joshua Rhinehart. Chiamo da St. Helena. Sono l’esecutore testamentario del defunto Bruno Frye.»
La donna non disse nulla.
«Mrs Yancy?»
«Vuol dire che è morto?» chiese.
«Non lo sapeva?»
«E come facevo a saperlo?»
«Era scritto sui giornali.»
«Non leggo mai i giornali,» bofonchiò. Aveva cambiato tono di voce. Non era più melodiosa: era dura e fredda.
«E morto giovedì scorso,» proseguì Joshua.
Ancora silenzio.
«Si sente bene?» le domandò.
«Che cosa vuole da me?»
«Uno dei miei compiti come esecutore testamentario è assicurarmi che tutti i debiti di Mr Frye vengano pagati prima di procedere alla distribuzione del patrimonio agli eredi.»
«E allora?»
«Ho scoperto che Mr Frye le versava cinquecento dollari ogni mese e ho pensato che potessero essere le rate di un debito.»
Lei non rispose.
Joshua sentì il suo respiro affannoso.
«Mrs Yancy?»
«Non mi deve un centesimo,» sbottò.
«Allora non stava ripagando un debito?»
«No.»
«Ha forse lavorato per lui in qualche modo?»
Lei esitò un attimo, poi: clic!
«Mrs Yancy?»
Nessuna risposta. Solo un sibilo lontano, un crepitio dovuto ai disturbi sulla linea.
Joshua compose di nuovo il numero.
«Pronto?» mormorò lei.
«Sono io, Mrs Yancy. Dev’essere caduta la linea.»
Clic!
Pensò di richiamarla una terza volta, ma sapeva che avrebbe riattaccato di nuovo. L’atteggiamento di quella donna era decisamente strano. Ovviamente nascondeva un segreto, un segreto che aveva condiviso con Bruno e che non voleva rivelare a Joshua. Ma non aveva fatto altro che stuzzicare la sua curiosità. Ora aveva la certezza che ognuna delle persone che aveva ricevuto del denaro attraverso quella banca di San Francisco era a conoscenza di qualcosa in grado di spiegare l’esistenza di un sosia di Bruno Frye. Se fosse riuscito a farle parlare, forse avrebbe potuto sistemare rapidamente il patrimonio di Frye.
Mentre appoggiava il ricevitore mormorò: «Non puoi sfuggirmi così facilmente, Rita.»
Il giorno seguente, si sarebbe recato a Hollister con il suo Cessna per parlarle di persona.
Provò a chiamare il dottor Nicholas Rudge, ma rispose la segreteria telefonica. Lasciò quindi un messaggio con i numeri di telefono di casa e dell’ufficio.
La terza telefonata si rivelò decisamente fruttuosa, anche se meno di quanto Joshua si aspettasse. Latham Hawthorne era a casa e aveva voglia di chiacchierare. L’occultista aveva una voce nasale e un lieve accento aristocratico inglese.
«Gli ho venduto molti libri,» fu la risposta di Hawthorne a una domanda di Joshua.
«Solo libri?»
«Esatto.»
«Sono una valanga di soldi per dei semplici libri.»
«Era un ottimo cliente.»
«Ma sono centotrentamila dollari!»
«Nel corso di quasi cinque anni.»
«Comunque…»
«Deve capire che si trattava perlopiù di libri estremamente rari.»
«Sarebbe disposto a ricomperarli?» domandò Joshua, cercando di scoprire se quell’uomo era in buona fede.
«Ricomperarli? Oh, certo. Ne sarei felice. Assolutamente.»
«Quanto?»
«Be’, non posso dirlo con precisione senza prima vederli.»
«Spari una cifra. Quanto?»
«Vede, se i volumi sono rovinati, strappati o pasticciati… be’… è un’altra faccenda.»
«Diciamo che sono perfetti. Quanto è disposto a offrire?»
«Se sono come quando li ho venduti a Mr Frye potrei offrire qualcosa in più del prezzo pagato originariamente. Molti dei libri contenuti nella sua collezione sono aumentati di valore.»
«Quanto?» ribattè Joshua.
«Lei è un uomo tenace.»
«È una delle mie virtù. Coraggio, Mr Hawthorne. Non le sto chiedendo niente di vincolante. Solo una stima approssimativa.»
«Be’, se la collezione contiene ancora tutti i libri che gli ho venduto e se sono tutti in ottime condizioni… direi… considerando anche un margine di profitto, naturalmente… circa duecentomila dollari.»
«Ricomprerebbe gli stessi libri per settantamila dollari in più?»
«Indicativamente direi di sì.»
«Certo che hanno acquistato un bel valore.»
«È per via dell’argomento che trattano,» spiegò Hawthorne. «C’è sempre più gente interessata a questo particolare settore.»
«E quale sarebbe questo settore?» chiese Joshua. «Che tipo di libri collezionava?»
«Non li ha visti?»
«Credo siano nella libreria del suo studio,» rispose Joshua. «Ci sono molti libri antichi e parecchi rilegati in pelle. Non pensavo avessero qualcosa di speciale. Ma non ho avuto tempo di esaminarli da vicino.»
«Sono libri di occultismo,» spiegò Hawthorne. «Vendo solo libri che trattano dell’occulto in tutte le sue manifestazioni. Per la maggior parte sono opere proibite, bandite dalla chiesa o dallo stato, libri che i moderni editori malati di scetticismo non hanno voluto pubblicare. Spesso sono edizioni limitate. Ho più di duecento clienti fissi. C’è un tipo di San José che colleziona solo libri sul misticismo indù. Una donna si è creata un’intera biblioteca sul satanismo, compresi una decina di volumi pubblicati esclusivamente in latino. Un’altra cliente di Seattle ha comperato tutto quello che è stato pubblicato sulle esperienze al di fuori del corpo. Sono in grado di soddisfare ogni desiderio. Non pecco di presunzione se affermo che sono il più famoso e competente commerciante di letteratura occulta dell’intero paese.»
«Ma sicuramente nessuno dei suoi clienti spende quanto Mr Frye.»
«Oh, certo che no. Ce ne sono solo un paio che possono permettersi certi lussi. Ma ho parecchi clienti che spendono da me circa diecimila dollari l’anno.»
«È incredibile,» osservò Joshua.
«Non più di tanto,» esclamò Hawthorne. «Queste persone sono convinte di essere a un passo da un’importante rivelazione, credono di poter scoprire il grande segreto della vita. Alcuni sono alla ricerca dell’immortalità. Altri vorrebbero conoscere l’incantesimo o il rituale necessario per acquisire la ricchezza o il completo controllo sul prossimo. Sono motivazioni sufficienti. Se sono convinti in tutta buona fede che un pizzico di conoscenza in più possa soddisfare tutti i loro desideri, è ovvio che siano disposti a pagare qualsiasi cifra pur di ottenerla.»
Joshua fece ruotare la sedia in modo da poter guardare fuori della finestra. Nuvole basse e grigie si rincorrevano velocemente sopra le cime delle Mayacamas, spingendosi verso la vallata.
«Esattamente, a che tipo di occulto si interessava Mr Frye?» domandò Joshua.
«Collezionava due tipi di libri, più o meno legati a uno stesso tema,» rispose Hawthorne. «Era affascinato dalla possibilità di comunicare con i morti. Sedute spiritiche, voci di spiriti, apparizioni ectoplasmiche, amplificazione di registrazioni, scrittura automatica e quel genere di cose. Ma il fenomeno che lo interessava di più era sicuramente quello dei morti viventi.»
«Vampiri?» chiese Joshua, ripensando alla strana lettera ritrovata nella cassetta di sicurezza.
«Sì,» confermò Hawthorne. «Vampiri, zombie, creature di quel genere. Era difficile trovare libri su quell’argomento. Naturalmente non è che si interessasse ai romanzi dell’orrore o al sensazionalismo da quattro soldi. Raccoglieva solo studi e ricerche serie e parte della letteratura esoterica.»
«E sarebbe?»
«Be’, per esempio… nella categoria esoterica… ha pagato seicento dollari per il diario manoscritto di Christian Marsden.»
«Chi è Christian Marsden?»
«Quattordici anni fa, Marsden fu arrestato per l’omicidio di nove persone nei dintorni di San Francisco. La stampa lo definì il Vampiro del Golden Gate perché beveva sempre il sangue delle sue vittime.»
«Oh, sì,» esclamò Joshua.
«Le vittime venivano inoltre smembrate.»
«Già.»
«Tagliava loro le braccia, le gambe e la testa.»
«Sfortunatamente, temo di ricordarlo. Un caso orribile.»
Le nuvole scure stavano oltrepassando le montagne, muovendosi rapidamente verso St. Helena.
«Durante il periodo di furia omicida, Marsden tenne un diario,» proseguì Hawthorne. «E una cosa curiosa. Era convinto che un morto di nome Adrian Trench stesse cercando di impossessarsi del suo corpo per tornare in vita attraverso lui. Marsden credeva in tutta onestà che il suo corpo fosse in costante pericolo.»
«Quindi in realtà non era lui che uccideva, ma questo Adrian Trench.»
«E quello che afferma nel diario,» confermò Hawthorne. «Per ragioni che non ha mai voluto spiegare, Marsden era convinto che lo spirito malvagio di Adrian Trench avesse bisogno del sangue delle sue vittime per mantenere il controllo sul corpo di Marsden stesso.»
«Una storia piuttosto macabra da presentare alla corte in un’udienza per infermità mentale,» commentò Joshua in tono cinico.
«Marsden venne ricoverato in un manicomio. Morì sei anni più tardi. Ma non aveva fìnto di essere pazzo per sfuggire alla prigione. Credeva sul serio che lo spirito di Adrian Trench stesse cercando di impossessarsi del suo corpo.»
«Schizofrenico.»
«Probabilmente,» ammise Hawthorne. «Ma non possiamo escludere che Marsden fosse sano di mente e che si stesse semplicemente riferendo a un autentico fenomeno paranormale.»
«Le spiace spiegarsi meglio?»
«Voglio dire che forse Christian Marsden era davvero posseduto, in un modo o nell’altro.»
«Non parla sul serio, vero?»
«Per parafrasare Shakespeare: ‘In cielo ci sono molte cose che non capiamo e non potremo mai capire.’»
Oltre la grande finestra dell’ufficio il banco di nubi si addensò all’interno della vallata, il sole sprofondò a ponente dietro le Mayacamas e il crepuscolo autunnale calò prematuramente su St. Helena.
Mentre osservava la luce del giorno che scoloriva, Joshua chiese: «Perché Mr Frye teneva tanto al diario di Marsden?»
«Era convinto di vivere un’esperienza simile a quella di Marsden,» rispose Hawthorne.
«Secondo lei, Bruno pensava che un morto volesse impadronirsi del suo corpo?»
«No,» precisò Hawthorne. «Non si identificava con Marsden, ma con le sue vittime. Mr Frye credeva che la madre, credo si chiamasse Katherine, fosse tornata dal regno dei morti nel corpo di qualcun altro e stesse complottando per ucciderlo. Sperava che il diario potesse fornirgli indicazioni utili sul modo migliore per trattare quella donna.»
Era come se nelle vene di Joshua fosse stata iniettata dell’acqua ghiacciata. «Bruno non ha mai accennato a nulla di simile.»
«Oh, era molto riservato,» spiegò Hawthorne. «Probabilmente sono l’unica persona alla quale l’abbia rivelato. Si fidava di me perché condividevo il suo stesso interesse per l’occulto. Comunque, me ne ha parlato solo una volta. Credeva fermamente che fosse tornata dall’inferno e aveva il terrore di diventare una sua vittima. A ogni modo, si pentì di avermi raccontato tutto.»
Joshua si rizzò sulla sedia stupito e raggelato. «Mr Hawthorne, la scorsa settimana Mr Frye ha cercato di uccidere una donna a Los Angeles.»
«Sì, lo so.»
«Voleva ucciderla perché pensava che in realtà fosse sua madre nascosta in un altro corpo.»
«Davvero? E molto interessante.»
«Santo cielo! Lei sapeva che cosa gli passava per la testa. Perché non ha fatto qualcosa?»
Hawthorne rimase freddo e impassibile. «Che cosa voleva che facessi?»
«Avrebbe potuto informare la polizia! L’avrebbero interrogato e forse si sarebbero accorti che aveva bisogno di cure mediche.»
«Mr Frye non aveva commesso alcun crimine,» disse Hawthorne. «E, oltre a ciò, lei parte dal presupposto che fosse pazzo, ma io no.»
«Sta scherzando,» esclamò Joshua incredulo.
«Neanche per sogno. Forse la madre di Frye è davvero tornata dalla tomba per riprenderlo. Forse c’è riuscita.»
«Per l’amor del cielo, quella donna a Los Angeles non era sua madre!»
«Forse. O forse no.»
Sebbene fosse seduto sulla sua comoda poltrona, appoggiata saldamente sul pavimento, Joshua ebbe l’impressione di perdere l’equilibrio. Aveva pensato che Hawthorne fosse un libraio dotato di una certa cultura e di un certo carattere, che si era dedicato a quell’insolito commercio soprattutto in considerazione dei larghi profitti che poteva offrire. Iniziò a pensare che forse quell’immagine era totalmente distorta. Forse Latham Hawthorne era strano come gli oggetti che vendeva.
«Mr Hawthorne, lei è ovviamente un uomo d’affari efficiente e di successo. Mi pare abbia ricevuto un’ottima educazione e mi sembra decisamente più in gamba della maggior parte delle persone che conosco. A questo punto, mi risulta difficile accettare che un uomo come lei possa credere a stupidaggini quali le sedute spiritiche, il misticismo e i morti viventi.»
«Non escludo niente a priori. Anzi, direi che la mia disponibilità a credere sia meno sorprendente del suo ostinato rifiuto. Non capisco come una persona intelligente possa negare l’esistenza di altri mondi oltre il nostro, altre realtà oltre quella in cui viviamo.»
«Oh, sono convinto che il mondo sia pieno di mistero e che noi percepiamo solo in parte la realtà,» affermò Joshua. «Su questo non ci sono dubbi. Ma credo anche che, con il passare del tempo, le nostre percezioni si faranno sempre più precise; i misteri verranno spiegati dagli scienziati, da uomini razionali che lavorano nei laboratori e non certo da fanatici superstiziosi che bruciano l’incenso e blaterano cose senza senso.»
«Non ho fede negli scienziati,» sbottò Hawthorne. «Sono un seguace del satanismo. Ho trovato le mie risposte in questa disciplina.»
«Il culto del demonio?» chiese Joshua. Quell’uomo non finiva di stupirlo.
«La sua è una definizione un po’ brutale. Credo nell’Altro Dio, nel Signore delle Tenebre. La sua ora è venuta, Mr Rhinehart.» Hawthorne parlava con calma, come se stesse semplicemente discutendo del tempo. «Aspetto con impazienza il giorno in cui Lui scaccerà Cristo e gli dei minori per salire sul trono della Terra. Quello sarà un giorno memorabile. I seguaci delle altre religioni saranno massacrati o ridotti in schiavitù. I loro preti saranno decapitati e dati in pasto ai cani. Le suore verranno violentate per la strada. Chiese, moschee, sinagoghe e templi saranno utilizzati per celebrare le messe nere e ogni uomo della terra lo adorerà; sugli altari verranno sacrificati i bambini e Belzebù regnerà in eterno. Accadrà presto, Mr Rhinehart. Ci sono già segni e presagi. Molto presto. E io attendo con impazienza.»
Joshua rimase senza parole. Nonostante la sua follia, Hawthorne sembrava un uomo razionale e ragionevole. Non parlava in modo esaltato e non urlava. Nella sua voce non c’era la benché minima traccia di isteria. La calma esteriore e l’apparente gentilezza dell’occultista avevano sconvolto Joshua molto più di quanto avrebbe potuto fare se avesse sbraitato con la bava alla bocca. Era come incontrare uno sconosciuto a una festa: si scambiano quattro chiacchiere, lo si conosce un po’ meglio e poi ci si rende conto improvvisamente che indossa una maschera di gomma, un volto contraffatto che nasconde il ghigno cattivo e crudele della Morte stessa. Come un costume di Halloween, ma al contrario. Il demonio travestito da persona normale. L’incubo di Poe fatto realtà.
Joshua rabbrividì.
Hawthorne proseguì: «Non potremmo organizzare un incontro? Non vedo l’ora di esaminare la collezione di libri che Mr Frye ha comperato da me. Potrei venire da lei in qualsiasi momento. Che giorno le andrebbe bene?»
Joshua non era entusiasta all’idea di avere a che fare con quell’uomo. Decise di rimandare l’incontro con l’occultista fino a quando gli altri estimatori avessero esaminato i libri. Forse uno di loro si sarebbe reso conto del valore di quella collezione e avrebbe fatto un’offerta equa; in tal caso non sarebbe stato necessario negoziare con Latham Hawthorne.
«Le farò sapere,» rispose Joshua. «Prima devo occuparmi di una miriade di cose. Si tratta di un’eredità molto complessa. Ci vorranno settimane per riuscire a sistemare tutto.»
«Aspetterò una sua chiamata.»
«Ancora un paio di cose prima che riappenda,» disse Joshua.
«Sì?»
«Mr Frye le ha spiegato perché nutriva questa ossessione nei confronti della madre?»
«Non so che cosa gli abbia fatto,» rispose Hawthorne, «ma la odiava con tutto il cuore. Non ho mai visto un odio tanto feroce e profondo.»
«Li conoscevo entrambi,» spiegò Joshua, «ma non mi sono mai accorto di una cosa simile. Ho sempre pensato che adorasse sua madre.»
«Allora doveva trattarsi di un odio segreto che ha nutrito per molto, molto tempo,» continuò Hawthorne.
«Che cosa può avergli fatto?»
«Come le ho già detto, non me ne ha mai parlato. Ma c’era sotto qualcosa, qualcosa di così terribile che nemmeno lui riusciva a parlarne. Voleva chiedermi due cose. Qual era la seconda?»
«Bruno ha mai accennato a un sosia?»
«Un sosia?»
«Qualcuno che potesse spacciarsi per lui.»
«Considerando la sua corporatura e la particolare voce, non sarebbe stato facile trovarne uno!»
«Pare ci sia riuscito. Vorrei scoprire a che cosa gli serviva.»
«Perché non lo chiede a questo sosia? Sicuramente saprà perché è stato assunto.»
«Ho qualche problema nel rintracciarlo.»
«Capisco,» disse Hawthorne. «Be’, Mr Frye non me ne ha mai parlato. Ma stavo pensando…»
«Sì?»
«C’è un motivo per cui poteva aver bisogno di un sosia.»
«E sarebbe?»
«Per confondere la madre quando fosse ritornata dall’inferno per cercarlo.»
«Ma certo,» convenne Joshua in tono sarcastico. «Sono stato stupido a non pensarci.»
«Lei non capisce,» ribattè Hawthorne. «So che è scettico. Non sto dicendo che è tornata sul serio. Non ho abbastanza dati per giungere a una simile conclusione. Ma Mr Frye era assolutamente convinto che fosse tornata. Può aver pensato che un sosia fosse in grado di offrirgli una certa protezione.»
Joshua dovette ammettere che l’idea di Hawthorne era abbastanza sensata. «Sta forse cercando di dirmi che per risolvere questa faccenda dovrei mettermi nei panni di Frye, cercando di pensare come lui, come un pazzo schizofrenico?»
«Se era un pazzo schizofrenico,» lo corresse Hawthorne. «Come le ho già detto, non escludo niente a priori.»
«E io escludo quasi tutto,» esclamò Joshua. «Bene… la ringrazio per avermi dedicato un po’ del suo tempo, Mr Hawthorne.»
«Si figuri. Aspetto una sua chiamata.»
Fai pure con comodo, pensò Joshua.
Riappese il ricevitore, si alzò in piedi, si diresse verso l’enorme finestra e osservò la vallata. Le colline erano sepolte sotto uno spesso strato di nuvole minacciose, mentre calava l’oscurità. Il giorno si stava trasformando in notte troppo velocemente e quando il vento gelido fece vibrare il vetro della finestra, Joshua pensò che anche l’autunno stesse cedendo il passo all’inverno con una rapidità eccessiva. Sembrava una fredda e cupa serata di gennaio, ma era solo l’inizio di ottobre.
Le parole di Latham Hawthorne brulicavano nella testa di Joshua come tanti insetti intrappolati nella tela di un ragno: La sua ora è venuta, Mr Rhinehart… Ci sono già segni e presagi. Molto presto.
Nel corso degli ultimi quindici anni, il mondo sembrava essere precipitato senza il benché minimo controllo. In giro c’erano molte persone strane. Come Hawthorne. Anche peggio. Molto peggio. Molti di questi erano leader politici dal momento che spesso quegli sciacalli sceglievano di esercitare il proprio potere sugli altri. In ogni nazione, governavano i pazzi ingegneri genialoidi, sogghignando in continuazione mentre spingevano l’intero sistema verso la distruzione.
La terra sta forse vivendo le sue ultime ore? si chiese Joshua. La profezia di Armageddon si sta avverando?
Stronzate, esclamò risoluto. Stai semplicemente trasferendo i tuoi presagi di mortalità alla tua concezione del mondo, vecchio mio. Hai perso Cora, sei completamente solo e improvvisamente ti accorgi che il tempo fugge e la vecchiaia avanza. E ora ti fai prendere da questa incredibile, grandiosa ed egoistica nozione per cui il mondo è destinato a scomparire con te. Ma l’unico giorno del giudizio davvero imminente è quello legato alla tua persona. Il mondo andrà avanti anche quando tu te ne sarai andato. Resisterà per molto, moltissimo tempo, sbottò, cercando di autoconvincersi.
Ma non ne era sicuro. L’aria sembrava piena di correnti infauste.
Qualcuno bussò alla porta. Era Karen Farr, la sua segretaria.
«Non pensavo fosse ancora qui,» esclamò Joshua. Diede un’occhiata all’orologio. «Avrebbe dovuto andarsene un’ora fa.»
«A pranzo mi sono fermata un po’ di più. Devo finire un paio di cose.»
«Il lavoro è una parte essenziale della vita, mia cara, ma non è tutto. Vada a casa. Potrà continuare domani.»
«Ne avrò solo per dieci minuti,» lo informò. «Proprio adesso sono arrivate due persone che desiderano vederla.»
«Non ho alcun appuntamento.»
«Vengono direttamente da Los Angeles. L’uomo si chiama Anthony Clemenza e la donna Hilary Thomas. E lei che…»
«So chi è,» la interruppe Joshua. «La prego, li faccia passare.»
Si alzò dalla scrivania e andò incontro ai due visitatori. Dopo le consuete presentazioni, Joshua li invitò a sedersi, offrì loro da bere e si accomodò su una sedia di fronte al divano.
Tony Clemenza fece subito un’ottima impressione a Joshua. Sembrava competente e sicuro di sé.
Hilary Thomas irradiava le stesse qualità di Clemenza ed era inoltre incredibilmente carina.
Per un attimo, sembrava che nessuno sapesse che cosa dire. Si guardarono l’un l’altro in silenzio sorseggiando il whisky.
Joshua fu il primo a rompere il silenzio. «Non ho mai creduto a fenomeni quali la chiaroveggenza ma, santo cielo, credo di aver avuto una premonizione. Non avete fatto tutta questa strada per raccontarmi ciò che è accaduto mercoledì e giovedì, vero? Dev’essere successo qualcos’altro.»
«Sono accadute molte cose,» rispose Tony. «Ma non c’è niente che abbia un minimo di logica.»
«È lo sceriffo Laurenski che ci manda da lei,» proseguì Hilary. «Speriamo possa rispondere ad alcuni interrogativi.»
«Io stesso sono alla ricerca di risposte,» mormorò Joshua.
Hilary piegò la testa e osservò Joshua con aria curiosa. «Anch’io credo di aver avuto una premonizione. È accaduto qualcosa anche qui, vero?»
Joshua bevve un sorso di whisky. «Se fossi superstizioso, probabilmente vi direi che… qui fuori, da qualche parte… c’è un morto che si aggira fra i vivi.»
Oltre le finestre, la luce del giorno si smorzò definitivamente e la notte s’impadronì della vallata. Un vento freddo cercava di farsi largo fra gli stipiti di legno fischiando e sibilando. Ma l’ufficio sembrava riscaldato dalla consapevolezza condivisa da Joshua, Tony e Hilary dell’incredibile mistero dell’apparente resurrezione di Bruno Frye.
Quella mattina Bruno Frye dormì fino alle undici nel retro del Dodge posteggiato accanto a un supermercato. Si svegliò in preda a un incubo pieno di sussurri feroci e minacciosi per quanto incomprensibili. Si mise a sedere nel furgone scarsamente illuminato, tenendosi stretto stretto; si sentiva disperatamente solo e abbandonato e si trovò a piangere e tremare come un bimbetto indifeso.
Sono morto, pensò. Morto. Quella puttana mi ha ucciso. Morto. Quella fottuta puttana mi ha conficcato un coltello nelle budella.
Mentre le lacrime cessavano gradualmente, rimase turbato da uno strano pensiero: ma se sono morto… come faccio a essere seduto qui? Come faccio a essere morto e vivo allo stesso tempo?
Si tastò la pancia con entrambe le mani. Non c’erano ferite d’arma da taglio né cicatrici.
Improvvisamente, tutto fu chiaro. La mente fu sgombra, la nebbia si dissipò e per un attimo tutto brillò di luci sfaccettate. Iniziò a chiedersi se Katherine era davvero tornata dall’inferno. Forse Hilary Thomas era solo Hilary Thomas e non Katherine Anne Frye? Era pazzo a cercare di ucciderla? E tutte le altre donne che aveva ucciso nel corso degli ultimi cinque anni: erano stati davvero corpi nei quali Katherine si era nascosta? O non erano forse persone normali, donne innocenti che non meritavano di morire?
Bruno si sedette sul pavimento, attonito, sopraffatto da questa nuova possibilità.
E i sussurri che invadevano il suo sonno ogni notte, quei terribili sussurri che lo angosciavano…
Improvvisamente si rese conto che se solo si fosse concentrato, se solo avesse scavato attentamente nei ricordi dell’infanzia, avrebbe scoperto che cos’erano quei sussurri e che cosa rappresentavano. Ripensò alle due pesanti porte in legno fissate nella terra. Ripensò a Katherine che apriva quelle porte e lo spingeva verso il buio. Ripensò alle porte chiuse a chiave alle sue spalle, ripensò ai gradini che conducevano da basso, verso il cuore della terra…
No!
Si strinse le mani sulle orecchie, come se potesse eliminare i ricordi spiacevoli insieme con i rumori molesti.
Era madido di sudore. E tremava, tremava senza sosta.
«No,» gemette. «No, no, no!»
Era una vita che cercava di scoprire chi sussurrava nei suoi incubi. Aveva sempre desiderato capire il messaggio contenuto in quei sussurri per essere in grado di bandirli dai suoi sogni. Ma ora che stava per scoprirlo, decise di rifiutare quell’agghiacciante verità che si sarebbe rivelata ancora più orribile, devastante e terrificante del mistero.
Il furgone fu invaso di nuovo dai sussurri, dalle voci sibilanti e dai gemiti che lo perseguitavano da sempre. Urlò per il terrore e si dondolò avanti e indietro sul pavimento.
Qualcosa gli stava strisciando addosso. Cercava di arrampicarsi sulle braccia, sul petto e sulla schiena. Cercava di arrivare fino alla faccia. Cercava di insinuarsi fra le labbra e i denti. Cercava di infilarsi su per il naso.
Gridando e contorcendosi, Bruno si sforzò di allontanare quella cosa strisciante, dandosi delle sberle e riempiendosi di unghiate.
Le sue allucinazioni si nutrivano dell’oscurità e c’era troppa luce nel furgone perché potessero conservare la loro consistenza grottesca. Vide che non c’era nulla che gli strisciava addosso e a poco a poco il terrore lo abbandonò, lasciandolo completamente svuotato.
Per parecchi minuti, rimase seduto con la schiena contro la parete del furgone, asciugandosi la faccia sudata con un fazzoletto e ascoltando il suo respiro affannoso.
Alla fine decise che era giunta l’ora di ricominciare a cercare quella puttana. Era là fuori, nascosta da qualche parte in quella grande città, e lo stava aspettando. Doveva trovarla e ucciderla prima che lei escogitasse un modo per eliminarlo.
Il breve attimo di lucidità, l’istante di saggezza, era scomparso con la stessa rapidità con la quale era nato. Aveva dimenticato le domande e i dubbi. Ancora una volta, aveva la certezza che Katherine fosse tornata dal regno dei morti e che dovesse essere fermata.
Più tardi, dopo aver mangiato un boccone, si diresse verso Westwood e parcheggiò nei pressi dell’abitazione di Hilary Thomas. Si nascose nel retro del furgone e prese a osservare la casa da un minuscolo oblò ricavato sul fianco del Dodge.
Sul vialetto d’ingresso era fermo un furgoncino bianco con una scritta in caratteri blu e dorati.
In casa, tre ragazze con il grembiule bianco si erano messe all’opera. Dovettero compiere parecchi viaggi per trasportare all’interno secchi, stracci, scope e aspirapolveri e per buttare i sacchi di plastica pieni di frammenti di mobili che Frye aveva distrutto durante la violenta incursione avvenuta poco prima dell’alba, il giorno precedente.
Frye rimase con l’occhio incollato all’oblò per tutto il pomeriggio, ma non notò tracce di Hilary Thomas e si convinse che la donna non era in casa. Pensò che non sarebbe tornata finché non avesse avuto la certezza di essere al sicuro, finché non avesse appurato che lui era morto.
«Ma non sarò io a morire,» esclamò a voce alta continuando a fissare la casa. «Mi hai sentito, puttana? Ti inchioderò per primo. Ti troverò prima che tu possa scovare me. E ti taglierò quella fottuta testa.»
Poco prima delle cinque, le ragazze caricarono l’attrezzatura nel retro del furgoncino. Chiusero a chiave la porta d’ingresso e si allontanarono.
Bruno le seguì.
Era l’unica traccia che potesse condurlo a Hilary Thomas. Era stata quella puttana a farle venire e sicuramente loro sapevano dove si trovava. Se fosse riuscito a far parlare una di quelle ragazze, avrebbe scoperto dove si nascondeva Katherine.
L’impresa di pulizie aveva la propria sede in un edificio di un solo piano in una sudicia stradina laterale nella zona di Pico. Frye seguì il furgoncino che andò a parcheggiare sul retro della costruzione, accanto ad altri otto veicoli simili con la medesima scritta in caratteri blu e dorati.
Frye passò davanti alla schiera di furgoncini bianchi, giunse al primo incrocio, svoltò intorno alla rotonda e ritornò da dove era venuto. Arrivò giusto in tempo per vedere le tre ragazze che entravano nell’edificio. Nessuna sembrava essersi accorta di lui o del fatto che il Dodge era lo stesso posteggiato per tutta la giornata nei pressi della casa della Thomas. Si fermò accanto al marciapiede, sotto le fronde di un’enorme palma, e attese che una delle tre ragazze uscisse di nuovo.
Nel giro di dieci minuti, notò molte donne con il grembiule bianco che andavano e venivano, ma fra queste non riconobbe le tre che si erano occupate della casa di Hilary Thomas. Finalmente vide uscire una ragazza dal viso familiare che si diresse verso una Datsun gialla. Era giovane, sulla ventina, con i capelli lunghi e scuri che le arrivavano fino alla vita. Camminava con le spalle alte, la testa diritta e l’andatura sciolta e vigorosa. Il vento le incollava il grembiule ai fianchi e faceva svolazzare l’orlo all’altezza delle ginocchia. Salì sulla Datsun, uscì dal parcheggio e svoltò a sinistra.
Frye ebbe un attimo di esitazione e si chiese se non fosse il caso di aspettare una delle altre due. Ma qualcosa gli diceva che era la persona giusta. Mise in moto il Dodge e si allontanò dal marciapiede. Per non farsi riconoscere, cercò di lasciare qualche macchina fra il furgone e la Datsun gialla. La pedinò in modo estremamente discreto e la ragazza non si accorse di essere seguita.
Abitava a Culver City, a pochi isolati dagli studi cinematografici della MGM. Viveva in una vecchia e graziosa casetta in una strada piena di villette tutte uguali fra loro. Alcune avevano un aspetto un po’ squallido e triste e avrebbero avuto bisogno di qualche ritocco, ma la maggior parte era ben conservata: casette linde e riverniciate di fresco, con le persiane in colore contrastante, minuscole verande ben curate, qualche vetrata colorata, graziosi lampioncini e aiuole fiorite. Non era propriamente un quartiere facoltoso, ma si respirava un’atmosfera di gente determinata.
La casa della ragazza era immersa nell’oscurità. Lei andò all’interno e accese le luci.
Bruno posteggiò il Dodge dall’altra parte della strada. Spense i fanali e il motore e abbassò il finestrino. Il quartiere era tranquillo e sprofondato nel silenzio. Gli unici rumori provenivano dagli alberi scossi dall’insistente vento autunnale, dalle macchine di passaggio e da un giradischi o una radio lontana che trasmetteva musica swing. Era un pezzo di Benny Goodman, ma Bruno non riusciva a ricordare il titolo; la melodia di ottoni gli giungeva frammentariamente, secondo i capricci del vento. Rimase seduto dietro il volante con le orecchie tese e gli occhi vigili.
Alle 18.40, Frye decise che la ragazza non era sposata e non viveva neppure con un fidanzato. Se avesse diviso la casa con un uomo, questi avrebbe già dovuto essere di ritorno dal lavoro.
Frye le concesse altri cinque minuti.
La musica di Benny Goodman si interruppe.
Per il resto, tutto era rimasto uguale.
Alle 18.45 scese dal Dodge e attraversò la strada dirigendosi verso la casa.
Bruno notò che la villetta era decisamente troppo attaccata a quella dei vicini, ma perlomeno la linea di divisione era ricoperta da alberi fronzuti e cespugli rigogliosi che contribuivano a isolare il portico della ragazza da occhi indiscreti. Ma anche così avrebbe dovuto agire rapidamente, introducendosi nella casa senza fare confusione e non lasciandole il tempo di gridare.
Salì i due gradini della veranda. Le assi scricchiolarono. Suonò il campanello.
La ragazza rispose con voce incerta. «Sì?»
Alla porta era stata applicata una catena di sicurezza. Era più robusta della maggior parte delle catene, ma non era certo efficace come probabilmente pensava la ragazza. Un uomo molto più debole di Bruno Frye avrebbe potuto spezzarla con un paio di colpi ben assestati. Bruno non dovette fare altro che appoggiarsi con la spalla contro la porta, proprio mentre lei sorrideva e mormorava: «Sì?»
La porta esplose, con le schegge che volavano verso l’interno e pezzi di catenella che ricadevano sul pavimento con un rumore metallico.
Bruno spiccò un salto in avanti e si chiuse l’uscio alle spalle. Era sicuro che nessuno l’avesse visto entrare.
La ragazza era distesa sul pavimento. Il colpo l’aveva fatta cadere. Indossava ancora il grembiule bianco e la gonna era alzata sulle cosce. Aveva due splendide gambe.
Bruno si inginocchiò accanto a lei.
Era sbalordita. Aprì gli occhi e cercò di alzare lo sguardo verso di lui, ma sembrava facesse fatica a metterlo a fuoco.
Le puntò il coltello alla gola. «Se gridi,» la minacciò, «ti apro in due. Hai capito?»
Dai suoi grandi occhi scuri svanì lo smarrimento per lasciar posto alla paura. Iniziò a tremare. Le si riempirono gli occhi di lacrime scintillanti.
Con aria impaziente, Bruno le sfiorò la gola con la lama e apparve una minuscola goccia di sangue.
La ragazza si ritrasse.
«Non gridare,» ripetè. «Mi hai sentito?»
Con un enorme sforzo, lei riuscì a sussurrare: «Sì.»
«Farai la brava?»
«Ti prego. Ti prego, non farmi del male.»
«Non voglio farti del male,» rispose Frye. «Se sarai buona, se sarai carina e se collaborerai con me, non dovrò farti del male. Ma se ti metterai a urlare o cercherai di fuggire, sarò costretto a farti a pezzi. Mi sono spiegato?»
Con voce flebile, lei mormorò: «Sì.»
«Sarai carina?»
«Sì.»
«Vivi qui da sola?»
«Sì.»
«Non sei sposata?»
«No.»
«Hai un ragazzo?»
«Non abita qui.»
«Lo aspetti questa sera?»
«No.»
«Mi stai mentendo?»
«E la verità. Lo giuro.»
Era terribilmente pallida nonostante la carnagione piuttosto scura.
«Se scopro che mi stai mentendo,» la minacciò, «ti ridurrò quel bel visino a strisce.»
Alzò il coltello e glielo appoggiò sulla guancia.
La ragazza chiuse gli occhi e rabbrividì.
«Aspetti qualcuno?»
«No.»
«Come ti chiami?»
«Sally.»
«Va bene, Sally, voglio farti alcune domande, ma non qui, non in questo modo.»
Lei aprì gli occhi. Erano pieni di lacrime. Una le rotolò lungo il viso. Inghiottì la saliva. «Che cosa vuoi?»
«Vorrei farti qualche domanda su Katherine.»
Lei aggrottò le sopracciglia. «Non conosco alcuna Katherine.»
«La conosci come Hilary Thomas.»
«La donna che abita a Westwood?»
«Hai pulito casa sua oggi.»
«Ma… io non la conosco. Non l’ho mai vista.»
«Ne parleremo più tardi.»
«È la verità. Non so niente di lei.»
«Forse sai più di quanto immagini.»
«No. Davvero.»
«Coraggio,» disse, sforzandosi di sorridere e di parlare con voce amichevole. «Andiamo in camera dove possiamo chiacchierare meglio.»
La ragazza si mise a tremare ancora più forte. «Hai intenzione di violentarmi, non è vero?»
«No, no.»
«Invece sì.»
Frye riuscì a stento a controllare la collera. Non gli andava che quella ragazza discutesse con lui. Non gli andava che fosse così dannatamente riluttante ad alzarsi. Avrebbe voluto affondarle il coltello nella pancia e strapparle le informazioni, ma, naturalmente, non era possibile. Voleva sapere dove si nascondeva Hilary Thomas. Il modo migliore per carpirle qualcosa era quello di spezzarla come un filo di ferro: sarebbe bastato piegarlo e ripiegarlo più volte e alla fine avrebbe ceduto, con una minaccia accompagnata da una lusinga e un gesto violento da una parola di conforto. Non prese neppure in considerazione il fatto che forse la ragazza gli avrebbe rivelato spontaneamente tutto quello che voleva sapere. Era convinto che fosse stata assunta da Hilary Thomas, quindi da Katherine, e di conseguenza che facesse parte del complotto che mirava a ucciderlo. Quella donna non era semplicemente una domestica innocente. Era una serva di Katherine, una cospiratrice, forse una morta vivente. Bruno era convinto che volesse mantenere il segreto e che avrebbe parlato solo se costretta.
«Ti assicuro che non ho intenzione di violentarti,» mormorò in tono dolce. «Ma mentre ti rivolgo le domande, voglio che tu rimanga distesa sulla schiena, in modo da non poterti alzare e scappare. Mi sentirò meglio se sarai sdraiata. E visto che dovrai restare così per un po’, ho pensato che saresti stata più comoda su un soffice materasso piuttosto che per terra. Lo faccio per te, Sally.»
«Io sto bene qui,» ribattè lei nervosamente.
«Non essere stupida,» sbottò. «Oltretutto, se dovesse arrivare qualcuno a suonare il campanello… potrebbero sentirci e capire che c’è qualcosa che non va. In camera saremo più tranquilli. Coraggio adesso. Forza. In piedi.»
La ragazza si alzò.
Lui le puntò il coltello alla schiena.
Si diressero verso la camera.
Hilary non era una grande bevitrice, ma fu felice di avere un bicchiere di whisky fra le mani mentre, seduta sul divano nell’ufficio di Joshua Rhinehart, ascoltava le parole dell’avvocato. Joshua raccontò a lei e Tony del denaro scomparso a San Francisco, del sosia che aveva lasciato quella strana lettera nella cassetta di sicurezza e del suo dilemma relativo all’identità del defunto seppellito nella tomba di Bruno Frye.
«Ha intenzione di riesumare la salma?» chiese Tony.
«Non ancora,» rispose Joshua. «Prima devo chiarire un paio di cose. Se riesco a ottenere determinate risposte, forse non sarà necessario aprire la tomba.»
Riferì loro di Rita Yancy a Hollister, del dottor Nicholas Rudge a San Francisco e della conversazione avuta con Latham Hawthorne.
Nonostante la stanza riscaldata e il whisky, Hilary si sentì raggelare. «Questo Hawthorne mi sembra appena uscito da un manicomio.»
Joshua sospirò. «Se dovessimo mettere tutti i matti in manicomio, non vedremmo più nessuno in giro.»
Tony si sporse in avanti. «Crede davvero che Hawthorne non sapesse nulla del sosia?»
«Sì,» disse Joshua. «È abbastanza curioso, ma gli credo. Può darsi sia un po’ pazzo con il suo satanismo, forse non ha un’etica morale ineccepibile e potrebbe persino rivelarsi pericoloso, ma non credo abbia mentito. Per quanto possa sembrare strano, lo reputo un uomo sincero sotto molti aspetti e non penso che sappia altro. Forse il dottor Rudge o Rita Yancy ci saranno più utili. Ma ora basta. Tocca a voi raccontare. Che cos’è successo? Che cosa vi ha portato a St. Helena?»
Hilary e Tony gli riferirono a turno gli avvenimenti degli ultimi giorni.
Quando ebbero finito, Joshua fissò Hilary per un attimo, poi scosse la testa ed esclamò: «Certo che ne ha di coraggio, ragazza mia.»
«Si figuri,» ribattè lei. «Sono una vigliacca. Sono spaventata a morte. Sono giorni che muoio di paura.»
«Avere paura non significa essere vigliacchi,» spiegò Joshua. «Il coraggio è basato sulla paura. Sia il vigliacco sia l’eroe agiscono in preda al terrore e alla necessità. L’unica differenza fra loro è che il vigliacco soccombe alle proprie paure mentre l’individuo coraggioso riesce a trionfare. Se fosse una vigliacca, sarebbe scappata in Europa, alle Hawaii o in qualche altro posto per un bel mese di vacanza e avrebbe lasciato che il mistero di Frye venisse risolto con il tempo. Invece è venuta qui, nella città natale di Bruno, dove potrebbe correre ancora più pericoli che a Los Angeles. Non apprezzo molte cose nella vita, ma invidio la sua audacia.»
Hilary era arrossita. Lanciò un’occhiata a Tony e poi fissò il bicchiere di whisky. «Se fossi coraggiosa,» disse, «sarei rimasta in città e gli avrei teso una trappola usando me stessa come esca. Qui non sono in pericolo. Dopotutto, lui mi sta cercando a Los Angeles e non ha modo di scoprire dove sono finita.»
La camera.
Dal letto, Sally lo osservò con gli occhi pieni di paura.
L’uomo passeggiò per la stanza, curiosando nei cassetti. Poi ritornò da lei.
Il collo della ragazza era morbido e sottile. Il sangue era colato fino alla clavlcola sulla pelle levigata.
Vide che lui stava guardando il sangue e allungò una mano, sfiorandosi il collo e fissando le dita sporche.
«Non preoccuparti,» la rassicurò. «È solo un graffio.»
La stanza di Sally era posta sul retro della casa ed era dipinta interamente nei toni caldi della terra. Tre pareti erano beige mentre la quarta era rivestita di tappezzeria. Il tappeto era marrone scuro. Il copriletto e le tende erano in una fantasia astratta color caffelatte. Tutti colori naturali e rilassanti che calmavano lo spirito. I mobili in mogano lucido scintillavano sotto la luce morbida e ambrata proveniente dalle due lampade di rame appoggiate sui comodini.
Sally era distesa sul letto, con le gambe tese, le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Indossava ancora il grembiule bianco leggermente alzato a scoprirle le ginocchia. I lunghi capelli scuri erano sparsi sul cuscino come un ventaglio. Era piuttosto carina.
Bruno si sedette sul bordo del letto accanto a lei. «Dov’è Katherine?»
Lei battè le palpebre. Una lacrima le scivolò dall’angolo dell’occhio. Stava piangendo, ma in assoluto silenzio, nel timore che un gemito o un sussulto spingesse quell’uomo a pugnalarla.
Lui ripetè la domanda: «Dov’è Katherine?»
«Te l’ho già detto, non conosco nessuno di nome Katherine,» rispose. Parlava a scatti, con voce tremante; ogni parola le costava un’enorme fatica. Le morbide labbra sensuali continuavano a fremere.
«Sai a chi mi riferisco,» l’aggredì brutalmente. «Non cercare di fare la furba con me. Ora si fa chiamare Hilary Thomas.»
«Ti prego. Ti prego… lasciami andare.»
Frye alzò il coltello all’altezza dell’occhio destro, con la punta diritta verso la pupilla dilatata. «Dov’è Hilary Thomas?»
«Oh Gesù,» gemette. «Senti, c’è qualcosa che non quadra. È un errore. Stai compiendo un madornale errore.»
«Vuoi rimetterci un occhio?»
Sally aveva la fronte imperlata di sudore.
«Vuoi diventare mezza cieca?» insistè.
«Non so dove sia,» mormorò Sally.
«Non mentirmi.»
«Non sto mentendo. Ti giuro di no.»
La fissò per alcuni secondi.
Goccioline di sudore si erano raccolte sopra le labbra.
Allontanò il coltello dagli occhi.
Lei ne fu visibilmente sollevata.
La sberla la colse di sorpresa. La colpì con tale forza sul viso da farle schioccare i denti e roteare gli occhi all’indietro.
«Puttana.»
Le lacrime scendevano copiose. Sally gemeva sottovoce tentando di ritrarsi da lui.
«Tu sai dove si trova,» insistè. «È stata lei a chiamarti.»
«Lavoriamo per lei regolarmente. Si è limitata a chiamarci e ha chiesto una pulizia straordinaria. Ma non ha detto dov’era.»
«Era a casa quando siete arrivate?»
«No.»
«C’era qualcuno in casa?»
«No.»
«E allora come avete fatto a entrare?»
«Come?»
«Chi vi ha dato le chiavi?»
«Oh. Oh sì,» disse, felice di avere forse trovato una via di scampo. «Il suo agente. Ci siamo dovute fermare nel suo ufficio per prendere le chiavi.»
«Dov’è?»
«A Beverly Hills. Forse sarebbe meglio parlare con il suo agente. E da lui che dovresti andare. Sicuramente sa come rintracciarla.»
«Come si chiama?»
Esitò un attimo. «Un nome buffo. L’ho scritto da qualche parte… ma non sono sicura di ricordarlo con precisione…»
Lui riavvicinò il coltello all’occhio.
«Topelis,» rispose.
«Dimmi come si scrive.»
Lei obbedì. «Non so dove sia Miss Thomas. Ma Mr Topelis lo saprà di sicuro. Ne sono certa.»
Lui allontanò il coltello dall’occhio.
Sally abbandonò per un attimo la posizione rigida.
Lui la fissò. Nella mente gli balenò un’idea confusa che si trasformò lentamente in una terribile certezza.
«I tuoi capelli,» disse. «Hai i capelli scuri. E gli occhi. Sono così neri.»
«Che cosa c’è di male?» chiese lei in tono preoccupato, rendendosi conto di non essere ancora al sicuro.
«Hai gli stessi capelli, gli stessi occhi e la stessa carnagione,» spiegò Frye.
«Non capisco, non so che cosa stia succedendo. Mi fai paura.»
«Pensavi di poterti prendere gioco di me, vero?» Le fece una smorfia, felice di non essersi fatto ingannare dalla sua astuzia.
Lui sapeva. Sapeva.
«Pensavi che sarei andato da questo Topelis,» proseguì Bruno. «Così tu avresti avuto modo di fuggire.»
«Topelis sa dove si trova. Lui sì, ma io no. Io non so davvero nulla.»
«Ora anche io so dove si trova,» ringhiò Bruno.
«Allora puoi anche lasciarmi andare.»
Scoppiò a ridere. «Hai cambiato corpo, vero?»
Lo fissò incredula. «Che cosa?»
«In qualche modo sei uscita dal corpo della Thomas e ti sei impossessata di questa ragazza, giusto?»
Sally smise di piangere. Il terrore si era impadronito di lei prosciugando le lacrime.
La puttana.
Quella lurida puttana.
«Pensavi davvero di prenderti gioco di me?» chiese Frye. Scoppiò di nuovo a ridere, sollevato. «Dopo tutto quello che mi hai fatto, come potevi pensare che non ti riconoscessi?»
La voce di Sally risuonò piena di terrore. «Non ti ho fatto niente. Non so di che cosa stai parlando. Oh, Gesù. Oh, mio Dio. Mio Dio. Che cosa vuoi da me?»
Bruno si sporse in avanti e appoggiò il suo viso a quello della ragazza. Poi la fissò diritto negli occhi e proseguì: «Sei lì, vero? Sei lì sotto e cerchi di sfuggirmi, vero? Vero, Madre? Ti ho visto, Madre. So che sei lì.»
Le prime gocce di pioggia iniziarono a picchiare contro la finestra nell’ufficio di Joshua Rhinehart.
Il vento della notte sibilava.
«Continuo a non capire perché Frye abbia scelto me,» disse Hilary. «Quando sono venuta qui per quelle ricerche relative alla sceneggiatura, si è mostrato molto amichevole. Ha risposto a tutte le mie domande sull’industria vinicola. Abbiamo trascorso un paio d’ore insieme e mi ha dato l’impressione di essere un normalissimo uomo d’affari. Poi, qualche settimana più tardi, si presenta a casa mia con un coltello. E secondo quella lettera ritrovata nella cassetta di sicurezza, è convinto che io sia sua madre in un corpo diverso. Ma perché io?»
Joshua si agitò sulla sedia. «La stavo osservando e mi è venuto in mente…»
«Che cosa?»
«Forse ha scelto lei, perché… be’, assomiglia leggermente a Katherine.»
«Non mi dica che abbiamo fra le mani un altro sosia,» intervenne Tony.
«No,» rispose Joshua. «E solo una vaga somiglianzà.»
«Bene,» esclamò Tony. «Un sosia basta e avanza.»
Joshua si alzò, andò verso Hilary, le mise una mano sotto il mento, le alzò il viso e lo girò a destra e a sinistra. «I capelli, gli occhi, la carnagione,» spiegò pensieroso. «Sì, sono molto simili. E c’è qualcos’altro nel suo viso che mi ricorda vagamente Katherine; sono piccoli dettagli, che non riesco neppure a definire. È solo una somiglianzà indistinta. E comunque Katherine non era carina come lei.»
Hilary si alzò e si diresse verso la scrivania dell’avvocato. Rimuginando su quanto aveva appreso nel corso dell’ultima ora, osservò gli oggetti ordinatamente disposti: il tampone di carta assorbente, la cucitrice, il tagliacarte e il fermacarte.
«Qualcosa non va?» domandò Tony.
Il vento si stava trasformando in una piccola bufera. Le gocce di pioggia sempre più fitte sbattevano contro la finestra.
Hilary si voltò. «Vediamo di riassumere la situazione. Vorrei essere sicura di aver capito bene.»
«Credo che nessuno abbia capito bene,» intervenne Joshua ritornando a sedersi. «Questa dannata faccenda è troppo complicata per riuscire a capirci qualcosa.»
«E quello che sostengo anch’io,» riprese Hilary. «Ma forse c’è qualcosa di ancora più contorto.»
«Vai avanti,» la incitò Tony.
«Per quanto ne sappiamo,» spiegò Hilary, «poco dopo la morte della madre, Bruno si è convinto che la donna era ritornata dalla tomba. Per circa cinque anni, ha continuato a comperare libri sui morti viventi da Latham Hawthorne. Per cinque anni è vissuto con il terrore di Katherine. Finalmente, quando mi vede, decide che io sono il nuovo corpo utilizzato dalla madre. Ma perché ci ha messo così tanto?»
«Non riesco a seguirla,» mormorò Joshua.
«Perché ha impiegato cinque anni per concentrarsi su qualcuno, cinque lunghi anni per scegliere un obiettivo in carne e ossa su cui sfogare le sue paure?»
Joshua si strinse nelle spalle. «È un pazzo. Non possiamo pretendere che ragioni in modo logico e sensato.»
Ma Tony aveva scorto le implicazioni contenute in quella domanda. Aggrottò le sopracciglia. «Forse ho capito dove vuoi arrivare,» le disse. «Mio Dio, mi sta venendo la pelle d’oca.»
Joshua guardò entrambi ed esclamò: «Probabilmente con il passare degli anni sto diventando un po’ ottuso. Qualcuno vorrebbe spiegare a questo vecchio che cosa diamine sta succedendo?»
«Forse non sono la prima donna che scambia per sua madre,» spiegò Hilary. «Forse ne ha uccise altre prima di venire da me.»
Joshua spalancò gli occhi. «E impossibile!»
«Perché?»
«Ci saremmo accorti se fosse andato in giro a uccidere per cinque anni. E l’avrebbero beccato!»
«Non necessariamente,» intervenne Tony. «Spesso i maniaci omicidi sono persone molto attente e intelligenti. Alcuni seguono un piano meticoloso e possiedono la straordinaria capacità di rischiare quel tanto che basta quando il loro piano sembra essere in pericolo. Non è facile catturarli.»
Joshua si passò una mano tra i folti capelli bianchi. «Ma se Bruno ha ucciso altre donne, dove sono i corpi?»
«Non a St. Helena,» rispose Hilary. «Può anche darsi che sia schizofrenico, ma il rispettabile dottor Jekyll sapeva mantenere il pieno controllo di sé quando era con persone che conosceva. Quasi sicuramente si sarà allontanato dalla città per uccidere. Lontano da questa città e da questa vallata.»
«San Francisco,» propose Tony. «Pare che ci andasse regolarmente.»
«Qualsiasi città nella parte settentrionale dello stato,» proseguì Hilary. «Ovunque potesse passare inosservato, lontano da Napa Valley.»
«Aspettate,» sbottò Joshua. «Aspettate un attimo. Anche ammesso che si sia mosso da qui e abbia incontrato donne che assomigliavano vagamente a Katherine, anche ammesso che le abbia uccise in qualche altra città, be’, comunque avrebbe dovuto lasciare dietro di sé dei cadaveri. E ci sarebbe stato un legame fra i vari delitti, qualche analogia che le autorità avrebbero sicuramente individuato. Avrebbero ricercato un nuovo Jack lo Squartatore. E lo avremmo letto sui giornali.»
«Se gli omicidi sono stati compiuti in un arco di tempo di cinque anni e in città diverse, probabilmente la polizia non li avrà collegati,» spiegò Tony. «Lo stato è molto grande. Centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Ci sono centinaia e centinaia di organizzazioni di polizia ma spesso le informazioni non passano da un gruppo all’altro. In realtà esiste solo un modo sicuro per riconoscere i legami esistenti fra omicidi apparentemente diversi: almeno due o tre dei delitti devono avvenire in un breve lasso di tempo e all’interno della stessa giurisdizione di polizia, nella stessa zona o città.»
Hilary si allontanò dalla scrivania e ritornò sul divano. «Quindi è possibile,» mormorò sentendosi gelare. «È possibile che abbia massacrato due, sei, dieci, quindici o forse più donne nel corso degli ultimi cinque anni e che io sia stata l’unica a dargli qualche problema.»
«Non è solo possibile, ma anche probabile,» intervenne Tony. «Direi che possiamo tenerlo presente.» La fotocopia della lettera trovata nella cassetta di sicurezza era sul tavolino davanti a lui. La prese e lesse a voce alta la prima frase. «’Mia madre, Katherine Anne Frye, è morta cinque anni fa, ma continua a ritornare in vita in corpi diversi.’»
«Corpi,» precisò Hilary.
«E questa la parola chiave,» continuò Tony. «Non corpo al singolare. Corpi al plurale. Da questo possiamo dedurre che l’ha uccisa in diverse occasioni e che pensava fosse ritornata dall’inferno più di una volta.»
Iò volto di Joshua era cadaverico. «Ma se avete ragione… io ho… tutti noi a St. Helena abbiamo vissuto accanto a un… mostro malvagio e crudele. E non lo sospettavamo neppure!»
Tony assunse un’espressione severa. «’La Bestia dell’Inferno cammina fra noi nei panni di un uomo comune.’»
«Da dove l’ha presa?»
«Ho una memoria prodigiosa,» rispose Tony. «È difficile che dimentichi qualcosa, per quanti sforzi faccia. Ricordo di aver udito questa frase durante una lezione di catechismo, molto tempo fa. L’ha scritta un santo, ma non so esattamente chi. ‘La Bestia dell’Inferno cammina fra noi nei panni di un uomo comune. Se il Demonio dovesse rivelare il suo vero volto quando ti sei allontanato da Cristo, allora saresti senza protezione e lui potrebbe divorarti il cuore e spezzarti le gambe per trascinare la tua anima immortale nel pozzo più profondo.’»
«Mi sembra Latham Hawthorne,» mormorò Joshua.
Fuori il vento continuava a sibilare.
Frye appoggiò il coltello sul comodino, lontano dalla portata di Sally. Poi l’afferrò per i risvolti del grembiule e tirò con violenza. I bottoni saltarono.
Lei era paralizzata dal terrore. Non oppose alcuna resistenza, non poteva.
Lui le sorrise e ringhiò: «Coraggio, Madre. Adesso mi prendo la rivincita.»
Le strappò il vestito di dosso e scostò i lembi di lato. La scoprì, facendola restare in reggiseno, slip e collant. Un bel fisico snello. Afferrò le coppe del reggiseno e tirò verso il basso. Le spalline le penetrarono nella pelle prima di spezzarsi. Il tessuto si ruppe e l’elastico saltò.
Per la sua struttura, aveva seni anche troppo grossi, rotondi, con capezzoli larghi e raggrinziti. Glieli stritolò.
«Sì, sì, sì, sì, sì!» Quelle esclamazioni, pronunciate con la sua voce profonda e gracchiante, acquisirono una sfumatura sinistra, simile a una litania satanica.
Le strappò di dosso le scarpe e le gettò da parte. Una delle due finì contro lo specchio che andò in frantumi.
Lo schianto del vetro rotto scosse la ragazza dal suo stato di trance catatonico e fu allora che cercò di ritrarsi, ma la paura le toglieva ogni forza. Continuò a dimenarsi e ad agitarsi inutilmente contro di lui.
Senza alcuna difficoltà, Frye riuscì a immobilizzarla, colpendola con tanta violenza da farle spalancare la bocca e strabuzzare gli occhi. Dall’angolo delle labbra cominciò a scorrerle un rivolo di sangue che scivolò lungo il mento.
«Brutta troia schifosa!» la insulto infuriato. «Niente sesso, eh? Dicevi che non avrei mai potuto scopare, vero? Niente sesso, eh? Dicevi che non potevo correre il rischio che un’altra donna scoprisse chi sono in realtà. Be’, tu ormai sai già chi sono, Madre. Conosci già il mio segreto. A te non ho più niente da nascondere. Saprai già che sono diverso dagli altri uomini. Sai già che il mio cazzo è diverso. Sai chi era mio padre. Tu lo sai. Sai anche che il mio cazzo è uguale al suo. Non devo cercare di nascondertelo, Madre. E adesso te lo ficco dentro, Madre. Tutto dentro. Hai sentito bene?»
La donna aveva iniziato a piangere, scuotendo il capo. «No, no, no! Oh, Dio!» Ma poi riprese il controllo, incrociò il suo sguardo e lo fissò con intensità (dietro quegli occhi scuri che lo scrutavano Bruno intravide Katherine). «Ascoltami, ti prego, ascoltami,» lo implorò. «Tu sei malato, molto malato. Hai la mente confusa. Hai bisogno di aiuto.»
«Chiudi il becco! Chiudi il becco!»
La colpì con più forza, con un movimento ad arco della mano.
La violenza lo eccitava, così come il suono di ogni singolo colpo, i suoi gemiti e i suoi lamenti da usignolo, la sua pelle tenera che si arrossava e si gonfiava. La vista di quel viso contorto dal dolore e gli occhietti da coniglio spaventato alimentarono le fiamme della sua già incontenibile lussuria.
Tremava dalla voglia, tremava, vibrava e sussultava. Sbuffava come un toro. Gli occhi erano spalancati. La bocca si stava riempiendo di saliva, tanto da dover deglutire con frequenza per evitare di sputarle addosso.
Le maltrattò i seni, strizzandoli e martoriandoli.
Ritiratasi nel suo dolore, Sally era ricaduta nello stato di semitrance, immobile e irrigidita.
Da una parte Bruno la odiava e non gliene importava niente di farle del male. Anzi, voleva farle del male. Voleva che soffrisse per quello che gli aveva fatto passare e soprattutto per averlo messo al mondo.
D’altro canto, provava anche vergogna a toccare i seni di sua madre, a penetrarla con il suo pene. Quindi, toccandola goffamente, cercò di spiegare e giustificare le sue azioni. «Sei stata tu a dire che, nel caso mi fosse venuta voglia di fare l’amore, qualsiasi donna si sarebbe accorta che non ero umano. Sei stata tu a dire che chiunque si sarebbe accorto della differenza. Che qualsiasi donna avrebbe chiamato la polizia, che mi avrebbe fatto arrestare e spedito a bruciare sul rogo, a causa del padre che mi ritrovo. Ma tu sai già tutto. Per te non ci saranno sorprese, Madre. Per questo posso usare il cazzo con te. Posso ficcartelo dentro tutto e nessuno potrà bruciarmi vivo.»
Non gli era mai venuto in mente di infilarglielo dentro quando era ancora in vita. L’aveva sempre intimidito. Ma quando l’aveva vista tornare dalla tomba nel suo nuovo corpo, Bruno si era sentito liberato, pieno di coraggio e di idee nuove. Si era reso subito conto che sarebbe stato necessario ammazzarla per evitare che lo sopraffacesse una seconda volta o che lo trascinasse con sé nella bara. Ma sapeva anche di poterla scopare senza correre alcun rischio, perché lei ormai conosceva il suo segreto. Del resto era stata lei a raccontargli la verità sul suo conto. Lei sapeva che suo padre era stato un demonio, una cosa immonda e ripugnante, perché era stata violentata e fecondata da quella creatura inumana contro la sua volontà. Durante la gravidanza aveva indossato solo guaine sovrapposte per nascondere il suo stato e quando era arrivato il momento di partorire, se n’era andata a San Francisco per farsi assistere da una levatrice discreta e silenziosa. Poi aveva raccontato a tutti che Bruno era il figlio illegittimo di una vecchia compagna del college. La madre era morta subito dopo aver dato alla luce il figlio e come ultimo desiderio aveva chiesto che fosse Katherine a occuparsi dell’orfanello. Aveva così portato a casa il bambino, fingendo di averne ottenuto legalmente la custodia. Aveva vissuto nel terrore costante che qualcuno potesse scoprire che Bruno era effettivamente figlio suo e che suo padre non era umano. Il pene era una delle caratteristiche che lo bollavano come figlio del demonio. Aveva un pene diabolico, diverso da quello degli altri uomini. Avrebbe dovuto nasconderlo per sempre, altrimenti l’avrebbero scoperto e bruciato sul rogo. Katherine gli aveva raccontato tutto fin dall’inizio, fin dai tempi in cui era ancora troppo giovane per capire il significato del pene. Quindi, in un certo senso, lei era diventata la sua benedizione e, allo stesso tempo, la sua maledizione. Una maledizione perché continuava a resuscitare per riprenderlo sotto il suo controllo o ammazzarlo. Ma era anche una benedizione perché, se lei avesse smesso di tornare in vita, lui non avrebbe più avuto nessuno in cui schizzare le gigantesche e bollenti quantità di seme e sarebbe stato condannato alla castità. Ecco perché, mentre una parte di lui assisteva alle sue resurrezioni con orrore e indignazione, l’altra parte non vedeva l’ora di incontrarla nel nuovo corpo che sarebbe andata a occupare.
Si inginocchiò sul letto, accanto a lei, e osservò i seni e il cespuglio del pube che traspariva dalle mutandine giallognole; l’erezione diventò talmente forte da provocare dolore. Consapevole della parte diabolica che si stava risvegliando, sentì la bestia che stava per affiorare tra i meandri della sua mente.
Si aggrappò ai collant di Sally (di Katherine) e glieli tirò con violenza lungo le gambe affusolate. Poi le afferrò le cosce e gliele spalancò, muovendosi grossolanamente sul materasso per prendere posizione in mezzo alle sue gambe.
Sally si scrollò una seconda volta dallo stato di trance. Iniziò a scalciare e cercò di rialzarsi, ma ormai non aveva più forza. Accorgendosi dell’inutilità dei suoi gesti disperati, aprì le mani e lo colpì sul volto, rigandogli le guance con le unghie e mirando anche agli occhi.
Bruno arretrò di scatto e alzò un braccio per proteggersi, mentre lei gli feriva il dorso della mano. Poi si lasciò cadere sul suo corpo, schiantandola con tutto il suo peso. Le appoggiò un braccio contro la gola e premette con forza, soffocandola.
Joshua Rhinehart lavò i tre bicchieri da whisky nel lavandino del bar. Rivolgendosi a Tony e Hilary disse: «Voi due avete da perdere più di me in questa faccenda, quindi perché non mi accompagnate domani da Rita Yancy a Hollister?»
«Speravo tanto che ce lo chiedesse,» esclamò Hilary.
«Qui ormai non possiamo fare molto,» aggiunse Tony.
Joshua si asciugò le mani nello strofinaccio. «Bene, allora siamo intesi. Avete già trovato una sistemazione in albergo per trascorrere la notte?»
«Non ancora,» rispose Tony.
«Allora sarete i benvenuti in casa mia,» li invitò Joshua.
Hilary sorrise gentilmente. «E molto carino da parte sua, ma non vogliamo imporre la nostra presenza.»
«Non imponete un bel niente.»
«Ma lei non ci stava aspettando e poi…»
«Ragazza mia,» la interruppe con impazienza Joshua, «sa da quanto tempo non ho ospiti in casa? Più di tre anni. E sa perché non ho avuto ospiti per più di tre anni? Perché non ho invitato nessuno, ecco perché. Non sono un tipo molto socievole. Non distribuisco con facilità i miei inviti. Se pensassi che voi due foste un peso o, peggio ancora, una noia, non vi avrei mai invitato. E adesso non sprechiamo altro tempo in convenevoli. Voi avete bisogno di una stanza. Io ne ho una. Avete intenzione di restare qui da me o no?»
Tony scoppiò a ridere e Hilary, sempre sorridendo, rispose: «Grazie per l’invito. Saremo felici di fermarci.»
«Bene,» commentò Joshua.
«Mi piace il suo modo di fare,» gli disse.
«Molti pensano che io sia scontroso.»
«Uno scontroso carino.»
Anche Joshua riuscì ad abbozzare un sorriso. «Grazie. Farò scolpire questa frase sulla mia tomba: ‘Qui giace Joshua Rhinehart, uno scontroso carino.’»
Stavano per uscire dall’ufficio quando il telefono prese a squillare e Joshua dovette tornare alla sua scrivania. Era il dottor Nicholas Rudge che chiamava da San Francisco.
Bruno era ancora sdraiato sulla donna e la stava conficcando nel materasso, premendole il braccio contro la gola.
Lei annaspava, alla ricerca di un po’ d’aria. Aveva il viso arrossato, incupito, contorto dal dolore.
Lo stava eccitando.
«Non lottare contro di me, Madre. Non reagire in questo modo. Lo sai che è tutto inutile. Lo sai che vinco sempre io, in fondo.»
Lei si dimenava sotto il suo peso e la sua forza. Tentò di arcuare la schiena e rotolare su un fianco, ma invano. A quel punto il suo corpo venne scosso da spasmi muscolari involontari, mentre cercava di reagire alla mancanza di ossigeno e di sangue al cervello. Infine si rese conto che non sarebbe mai riuscita a liberarsi di lui, che non aveva più via di scampo, e si arrese alla sconfitta.
Ormai convinto che la donna avesse abbandonato ogni resistenza sia spirituale sia fisica, Frye sollevò il braccio dalla sua gola. Si rimise in ginocchio, liberandola dal suo peso.
Lei si portò le mani al collo. Annaspava e tossiva freneticamente.
Ormai eccitatissimo, con il cuore che batteva forte, il sangue che pulsava nelle orecchie e il dolore della voglia, Frye si alzò, si sfilò velocemente i vestiti e li gettò sulla cassettiera in modo che non dessero fastidio.
Abbassò lo sguardo sulla propria erezione. Quella vista lo stimolò. Era d’acciaio. Gigantesco. Rosso.
Tornò sul letto.
Ormai si era calmata. Aveva lo sguardo vacuo.
Le strappò di dosso le mutandine e tornò a sistemarsi in mezzo alle gambe spalancate. Perdeva saliva e le bagnò il seno.
La penetrò con forza. Le conficcò il tronco demoniaco sino in fondo. Ululava come una bestia. La pugnalò con il suo pene satanico. Continuò a colpire finché il seme schizzò dentro di lei.
Cercò di immaginarsi il liquido lattiginoso che la inondava all’interno.
Gli venne da pensare al sangue che zampilla dalle ferite, come tanti petali rossi che spuntano tutt’intorno alla lama di un coltello.
A quell’idea, si eccitò ancora di più: lo sperma e il sangue.
Nessuna dolcezza.
Sudando, gemendo, sbavando, continuò a fendere i suoi colpi. Dentro, sempre più dentro. Profondi.
Poi avrebbe usato anche il coltello.
Joshua Rhinehart sfiorò il pulsante accanto al telefono e si fece passare la telefonata attraverso l’altoparlante, in modo che anche Tony e Hilary potessero ascoltare la conversazione con il dottor Nicholas Rudge.
«Ho provato a chiamarla a casa,» esordì Rudge. «Non pensavo di trovarla ancora in ufficio.»
«Sono un drogato del lavoro, dottore.»
«Dovrebbe cercare di curarsi,» rispose Rudge con un tono che sembrava di genuina preoccupazione. «Non è così che si deve vivere. Ho curato molti uomini esageratamente ambiziosi il cui lavoro era diventato l’interesse primario della loro esistenza. Un atteggiamento ossessivo nei confronti del lavoro può distruggere una persona.»
«Dottor Rudge, in che cosa è specializzato?»
«In psichiatria.»
«Lo sospettavo.»
«È lei l’esecutore testamentario?»
«Sì. Immagino che lei sappia già tutto sulla sua morte.»
«Solo quello che è stato pubblicato sui giornali.»
«Occupandomi dell’eredità, ho scoperto che Mr Frye aveva iniziato una cura da lei un anno e mezzo prima di morire.»
«Veniva una volta al mese,» confermò Rudge.
«E non si era reso conto che poteva trattarsi di un soggetto potenzialmente omicida?»
«Assolutamente no,» rispose Rudge.
«Dopo averlo avuto in cura per tanto tempo, non ha capito che era un soggetto violento?»
«Avevo capito che era un soggetto molto disturbato,» ammise Rudge. «Ma non pensavo che rappresentasse un pericolo. E, comunque, deve darmi atto del fatto che non mi ha offerto molte possibilità di accorgermi della sua componente violenta. Dopotutto veniva da me una volta al mese. Avevo esposto il desiderio di vederlo un paio di volte la settimana, ma lui si è rifiutato. Voleva che lo aiutassi, ma aveva anche il terrore di svelarsi troppo. E allora avevo deciso di non insistere per farlo venire su base settimanale, nel timore che cancellasse anche l’unica seduta mensile che si era concesso. Pensavo che fosse meglio di niente, capisce?»
«E perché si è rivolto a lei?»
«Mi sta chiedendo di che disturbi soffriva?»
«Esatto, le sto chiedendo proprio questo.»
«In qualità di avvocato, Mr Rhinehart, dovrebbe rendersi conto che non sono autorizzato a rilasciare dichiarazioni di questo genere. Ho il dovere di proteggere i miei pazienti.»
«In questo caso il paziente è morto, dottor Rudge.»
«Questo non significa niente.»
«Invece significa moltissimo per il paziente.»
«Ma lui si era fidato di me.»
«Quando il paziente muore, il segreto professionale del medico perde validità legale.»
«Forse perde validità legale,» concesse Rudge. «Ma rimane quella morale. Io continuo ad avere le mie responsabilità. Non farei mai niente che potesse danneggiare la reputazione di un mio paziente, che sia morto oppure no.»
«Encomiabile,» fu il commento di Joshua. «Ma in questo caso non correrà il rischio di dire qualcosa che danneggi la sua reputazione più di quanto non sia già stata rovinata dal paziente stesso.»
«Anche questo non significa niente.»
«Dottore, questa è una situazione un po’ speciale. Proprio oggi ho raccolto alcune informazioni in base alle quali risulta che Bruno Frye ha ammazzato una serie di donne nel corso degli ultimi cinque anni. Non un paio, ma molte donne, e l’ha sempre passata liscia.»
«Lei sta scherzando.»
«Io non conosco il suo senso dell’umorismo, dottor Rudge. Ma io non mi diverto a scherzare su una catena di omicidi.»
Rudge piombò nel silenzio.
Joshua riprese: «Inoltre ho ragione di credere che Frye non agisse da solo. Potrebbe esserci un complice che in questo momento si aggira libero per le strade del paese.»
«Questa è una situazione speciale.»
«È quanto sostengo anch’io.»
«Ha già passato alla polizia le informazioni?»
«No,» rispose Joshua. «Con tutta probabilità non verrebbero considerate sufficienti. Ciò che ho scoperto convince me e altre due persone coinvolte in questa faccenda. Ma per la polizia rappresenterebbero solo prove circostanziali. In secondo luogo, ancora non ho capito quale dipartimento di polizia debba avere la giurisdizione in un caso come questo. Gli omicidi sono stati commessi in contee diverse, in città diverse. Frye potrebbe averle raccontato qualcosa che a lei può anche apparire irrilevante, ma che potrebbe incastrarsi con i dati che sono riuscito a scoprire. Se durante i diciotto mesi di terapia è riuscito a raccogliere qualche informazione che possa completare le mie, potrei giungere alla decisione di mettermi in contatto con la polizia e cercare di convincere le autorità che la situazione è molto grave.»
«Be’…»
«Dottor Rudge, se lei insiste nel voler proteggere questo paziente, potrebbero verificarsi altri omicidi. Morirebbero altre donne. Vuole avere quei cadaveri sulla coscienza?»
«D’accordo,» si arrese Rudge. «Però non per telefono.»
«Sarò a San Francisco domani, mi dica quando le è più comodo.»
«Ho la mattinata libera,» rispose Rudge.
«Va bene se vengo con i miei amici nel suo ufficio verso le dieci?»
«D’accordo. Però l’avverto. Prima di raccontarle della terapia di Mr Frye, voglio sapere che prove è riuscito a raccogliere lei.»
«Ma certo.»
«E se non riterrò reale il pericolo, non le mostrerò il mio archivio.»
«Oh, ci scommetto che riusciremo a convincerla,» gli assicurò Joshua. «Anzi, sono certo che le si rizzeranno i capelli in testa. Ci vediamo domani mattina, dottore.» Riappese, poi si rivolse a Hilary e Tony. «Domani sarà una giornata faticosa. Prima andremo a San Francisco dal dottor Rudge e poi a Hollister da Rita Yancy.»
Hilary si alzò dal divano sul quale era rimasta seduta durante la telefonata. «Non mi importa se dobbiamo volare per mezzo continente, se non altro sembra che si stia muovendo qualcosa. Per la prima volta, ho la sensazione che riusciremo a scoprire che cosa c’è sotto.»
«Anch’io,» aggiunse Tony e poi, rivolgendosi a Joshua: «Sa, da come ha trattato quel Rudge… si vede che ci sa fare con gli interrogatori. Sarebbe un perfetto investigatore.»
«Farò incidere anche questo sulla tomba,» ribattè Joshua. «’Qui giace Joshua Rhinehart, uno scontroso carino che avrebbe potuto essere un perfetto investigatore.’» Poi si alzò. «Sto morendo di fame. In casa ho qualche bistecca in freezer e un bel po’ di bottiglie di Cabernet Souvignon di Robert Mondavi. Che cosa stiamo aspettando?»
Frye girò le spalle al letto inzuppato di sangue e alla parete chiazzata di rosso.
Appoggiò il coltello insanguinato sulla cassettiera e uscì dalla stanza.
La casa era immersa nel silenzio.
Tutta la sua energia demoniaca era sparita. Si sentiva le palpebre pesanti e le membra intorpidite, ma era completamente sazio.
In bagno regolò l’acqua della doccia finché non la giudicò calda a sufficienza per resistere sotto il getto. Entrò in doccia e si insaponò, rimuovendo le chiazze di sangue dai capelli, dalla faccia e dal corpo. Ripetè l’operazione due volte e infine si risciacquò.
Aveva la mente svuotata. Non pensava a nient’altro che ai dettagli della pulizia personale. La vista del sangue che sgocciolava con l’acqua nel canale di scarico non gli fece tornare in mente il cadavere che c’era nella stanza accanto; ai suoi occhi era solo sporcizia da eliminare.
Voleva soltanto rendersi presentabile e tornare al furgone per prendersi qualche ora di sonno. Era esausto. Si sentiva le braccia di piombo e le gambe di gomma. Uscì dalla doccia e si infilò un accappatoio. Sapeva di donna, ma questo non gli procurò alcuna associazione di idee.
Rimase a lungo davanti al lavandino per pulirsi le unghie con uno spazzolino che aveva trovato sul portasapone. Doveva cancellare ogni traccia di sangue dalle grinze delle nocche e dalle unghie incrostate.
Uscendo dal bagno e dirigendosi nella stanza per riprendere i vestiti, notò sulla porta uno specchio che non aveva visto prima. Si fermò per esaminarsi, alla ricerca di eventuali chiazze di sangue che potessero essergli sfuggite. Ma ormai era immacolato, fresco e lindo come un neonato.
Rimase a fissare il pene ormai flaccido e i testicoli penzolanti. Cercò di intravedere il marchio del diavolo. Sapeva di non essere come gli altri uomini: su questo non aveva alcun dubbio. Sua madre aveva vissuto nel terrore che la gente lo scoprisse e che venisse a sapere della sua essenza semidemoniaca, frutto dell’incrocio fra una donna normale e una bestia squamosa e sulfurea, dotata di zanne. Fin dalla più tenera età, era riuscita a trasmettere a Bruno la paura di essere scoperto e ancora oggi era terrorizzato all’idea di finire sul rogo. Non si era mai mostrato nudo davanti a un’altra persona. A scuola non aveva mai intrapreso attività sportive ed era stato dispensato dal fare la doccia insieme con gli altri per presunta obiezione religiosa. Non si era mai nemmeno spogliato davanti a un medico. Sua madre era convinta che se qualcuno gli avesse visto l’organo genitale, si sarebbe immediatamente accorto della parentela con un demone, e lui era stato profondamente influenzato dalla sua terrificante certezza.
Ma guardandosi allo specchio, non riuscì a localizzare nessun dettaglio che rendesse il suo organo diverso da quello degli altri uomini. Subito dopo la morte della madre, aveva iniziato a frequentare le sale a luci rosse di San Francisco, desideroso di scoprire come fosse il pene degli altri. Era rimasto sorpreso nel constatare che gli uomini di quei film erano fatti tutti come lui. Ne aveva visti molti, ma non era mai riuscito a trovare anche un solo uomo che presentasse caratteristiche diverse dalle sue. Alcuni avevano un pene più grosso del suo, altri più piccolo, altri più tozzo, altri più sottile; alcuni l’avevano leggermente incurvato e in qualche caso persino circonciso. Ma si trattava di piccole variazioni sul tema, non delle differenze scioccanti ed evidenti che si sarebbe aspettato.
Sbalordito e preoccupato, aveva fatto ritorno a St. Helena per riflettere sulle sue ultime scoperte. La prima cosa che gli era venuta in mente era che sua madre gli avesse mentito. Ma questo era impossibile. Gli aveva raccontato più volte la settimana la storia del suo concepimento, e questo per anni e anni. Ogni volta che parlava del demonio che l’aveva violentata, sussultava, rabbrividiva e piangeva. Per lei era stata un’esperienza di vita, non una semplice storia, inventata per ingannarlo. Eppure… quel pomeriggio di cinque anni prima, seduto da solo con se stesso a riflettere, non era riuscito a trovare una spiegazione che non implicasse menzogne da parte di sua madre.
Il giorno dopo era tornato a San Francisco in stato di febbrile eccitazione, perché aveva deciso di avere rapporti con una donna per la prima volta dopo trentacinque anni di vita.
Si era rivolto a un bordello miseramente travestito da salone di massaggi, dove aveva scelto una biondina snella e attraente. Si faceva chiamare Tammy e, fatta eccezione per i denti leggermente sporgenti e il collo un po’ troppo lungo, era la ragazza più bella che avesse mai visto; almeno così l’aveva giudicata lui, mentre cercava di evitare un’eiaculazione precoce nei pantaloni. In una delle cabine che sapevano di disinfettante al pino e di sperma stantio, aveva pattuito la tariffa con Tammy, l’aveva pagata ed era rimasto a osservarla mentre si spogliava. Aveva un corpo liscio, armonioso e molto sexy e lui era rimasto impietrito dalla soggezione, pensando a tutte le cose che avrebbe potuto fare con lei. Si era seduta sull’orlo della brandina e gli aveva sorriso, dopo avergli proposto di spogliarsi a sua volta. Lui aveva accettato l’invito fino a quando non si era trattato di togliersi anche gli slip. Quando era arrivato al punto di mettere in mostra il pene irrigidito, non se l’era sentita di correre il rischio. Aveva iniziato a pensare al rogo e alla morte e si era bloccato. Aveva guardato le gambe affusolate di Tammy, i peli arruffati del suo pube e i suoi seni rotondi. La desiderava disperatamente, ma aveva paura di possederla. Percependo la sua riluttanza, Tammy l’aveva toccato sul pene, massaggiandolo attraverso gli slip. Senza smettere, aveva esclamato: «Oh, lo voglio. È grossissimo. Non ne ho mai avuto uno così prima d’ora. Fammelo vedere. Voglio vederlo. Non ho mai avuto un cazzo del genere.» All’udire quelle parole, lui si era reso conto di essere diverso, anche se non riusciva a capire come. Tammy aveva cercato di sfilargli gli slip, ma lui l’aveva schiaffeggiata e l’aveva spinta con violenza sulla brandina; lei aveva sbattuto la testa contro il muro e aveva cercato di proteggersi dalla sua furia con le mani. Urlava. A quel punto Bruno si era chiesto se fosse il caso o no di ammazzarla. Ancora non gli aveva visto il cazzo demoniaco, ma sicuramente ne aveva riconosciuto le caratteristiche inumane solo al tatto. Prima che potesse prendere qualsiasi decisione, la porta della cabina si era spalancata e un signore in giacca nera si era precipitato all’interno, richiamato dalle urla della ragazza. Il buttafuori era imponente almeno quanto Bruno ed era anche armato. Ormai Frye si era rassegnato alla sconfitta, all’oltraggio, alla maledizione, alla tortura e al rogo; ma, con sua grande sorpresa, lo costrinsero solo a rivestirsi e lo cacciarono dal locale. Tammy non aveva proferito parola sulle stranezze del pene di Bruno. Evidentemente, anche se si era resa conto della diversità, non aveva capito in che cosa fosse diverso. Non sapeva che quello era il marchio del demonio che l’aveva concepito, la prova delle sue origini sataniche. Sollevato, si era prontamente rivestito e se n’era andato dal salone, rosso per l’imbarazzo, ma felice che il suo segreto non fosse stato scoperto. Era tornato a St. Helena a parlare con se stesso e aveva deciso, sempre solo con se stesso, che Katherine aveva ragione: avrebbe dovuto continuare a soddisfare i suoi bisogni sessuali da solo.
Poi Katherine aveva iniziato a ritornare dalla tomba e Bruno aveva avuto la possibilità di soddisfarsi con lei, inondando con spropositate quantità di sperma i corpi delle donne che andava a occupare. Nella maggior parte dei casi aveva continuato ad avere rapporti sessuali con se stesso, con l’altra parte di sé, con l’altra metà. Ma di tanto in tanto era estremamente eccitante avere la possibilità di conficcare il cazzo nel centro umido, caldo e stretto di una donna.
Fermo davanti allo specchio fissato alla porta del bagno di Sally, continuò a osservare affascinato il suo pene, chiedendosi di che cosa poteva essersi accorta Tammy quando gli aveva palpato l’erezione nella cabina per i massaggi, cinque anni prima.
Poi, cominciò a risalire con lo sguardo; partendo dagli organi genitali ormai flaccidi, passò ad analizzare la pancia muscolosa, poi più su, verso l’ampio torace, finché non si scontrò con lo sguardo dell’altro Bruno che si stava rimirando allo specchio. Guardandosi negli occhi, i contorni della realtà sbiadirono e ogni forma si fuse assumendo nuove dimensioni; senza l’apporto di droghe o di alcol, Bruno si sentì trasportare nel vortice di un’allucinazione. Allungò una mano e andò a toccare lo specchio. Le dita di Bruno toccarono quelle dell’altro Bruno. Come in un sogno, si sentì spingere verso lo specchio dove premette il naso contro quello dell’altro Bruno. Tutt’e due si scrutarono a fondo. Per un istante, dimenticò di essere di fronte a una semplice immagine riflessa e l’altro Bruno diventò reale. Gli diede un bacio, un bacio freddo. Poi si scostò di qualche centimetro. Lo stesso fece anche l’altro Bruno. Si leccò le labbra. Così fece anche l’altro Bruno. E tornarono a baciarsi. Iniziò a leccare le labbra dell’altro Bruno e improvvisamente il bacio divenne caldo, ma non morbido e piacevole come si sarebbe aspettato. Nonostante i tre potenti orgasmi che Sally-Katherine gli aveva fatto raggiungere, il pene tornò a rizzarsi. Lo premette contro il pene dell’altro Bruno e prese a roteare i fianchi, massaggiandosi il pene ritto, baciando l’altro, senza staccare gli occhi dalla sua controfigura. Per un paio di minuti, si sentì felice come non lo era da parecchio tempo.
Ma l’allucinazione si dissolse di colpo e la realtà lo colpì come una martellata sulla testa. Si accorse subito di trovarsi di fronte solo a un’immagine riflessa e non all’altra metà di se stesso. La sinapsi tra gli occhi venne attraversata da una violenta scossa elettrica e il corpo sussultò per lo choc. Si trattava semplicemente di uno choc emotivo, che influì anche a livello fisico, facendolo sussultare. Lo stato di letargo venne spazzato via. Tutt’a un tratto si sentì rigenerato; la mente era tornata a girare spumeggiante.
Si ricordò che era morto. Morto per metà. La puttana l’aveva pugnalato la settimana prima a Los Angeles. E adesso era morto e vivo nello stesso tempo.
Si sentì pervadere da un profondo dolore.
Gli spuntarono le lacrime agli occhi.
Si rese conto di non potersi più aggrappare a se stesso come faceva un tempo. Non più.
Non avrebbe più potuto trastullarsi con se stesso come una volta. Non più.
Ormai aveva soltanto due mani, non quattro; un solo pene, non più due; una sola bocca, non due.
Non avrebbe più potuto baciarsi da solo, non avrebbe più sentito le due lingue che si accarezzavano dolcemente. Mai più.
Era morto per metà. E scoppiò a piangere.
Non avrebbe più potuto scopare con se stesso come aveva fatto migliaia di volte in passato. Non avrebbe avuto altro amante al di fuori delle sue stesse mani. Il piacere limitato della masturbazione.
Era solo.
Per sempre.
Rimase di fronte allo specchio a piangere con le spalle piegate dal peso della disperazione più nera. Poi, lentamente, il dolore e l’autocommiserazione lasciarono il posto alla collera. Era stata lei a fargli questo. Katherine. La puttana. Era stata lei ad ammazzare la sua metà, a lasciarlo incompleto e insopportabilmente vuoto. Quella troia egoista, odiosa e maligna! Mentre la collera prendeva il sopravvento, provò il bisogno di spaccare qualcosa. Nudo, si accanì sull’interno della casa, sul salotto, sulla cucina, sul bagno, rompendo i mobili, strappando la tappezzeria, frantumando i piatti, maledicendo la madre, il padre demone e il mondo che a volte proprio non riusciva a capire.
Nella cucina di Joshua Rhinehart, Hilary aveva pelato tre patate che ora erano pronte per essere infilate nel forno a microonde appena le bistecche sulla griglia fossero state cotte. L’attività manuale era rilassante. Si limitava a osservare le mani che lavoravano, pensava solo a quello che stava cucinando e ogni preoccupazione sembrava rinchiusa nei recessi della mente.
Tony stava preparando l’insalata. Era accanto a lei, davanti al lavandino, e lavava e tagliava la verdura. Nel frattempo, Joshua chiamò lo sceriffo dal telefono della cucina.
Riferì a Laurenski del prelevamento di denaro dal conto di Frye a San Francisco e gli raccontò del sosia che si aggirava per Los Angeles alla ricerca di Hilary. Non tralasciò di esporgli la teoria della serie di omicidi alla quale lui, Tony e Hilary erano arrivati durante il loro precedente colloquio in ufficio. Laurenski, comunque, non avrebbe potuto fare molto poiché, almeno per quanto ne sapevano, non era stato commesso alcun delitto nella sua giurisdizione. Ma Frye era quasi sicuramente colpevole di molti reati nella zona di cui non erano ancora a conoscenza. Ed era anche molto probabile che sarebbero stati compiuti altri omicidi nella contea prima che fosse risolto il mistero del sosia. Per questi motivi e anche in considerazione del fatto che la reputazione di Laurenski era stata leggermente macchiata dopo mercoledì notte, quando aveva garantito per Frye presso la polizia di Los Angeles, Joshua pensò, e Hilary con lui, che lo sceriffo dovesse essere messo al corrente di tutto ciò che avevano scoperto. Sebbene Hilary non sentisse le parole di Peter Laurenski, avvertì che l’uomo era interessato; dalle risposte di Joshua emerse inoltre che lo sceriffo aveva proposto di riesumare il corpo di Bruno Frye per accertarsi dell’identità del cadavere. Joshua preferiva comunque parlare prima con il dottor Rudge e Rita Yancy e assicurò a Laurenski che avrebbe fatto riesumare il corpo se Rudge o la Yancy non fossero stati in grado di rispondere alle sue domande.
Terminata la conversazione telefonica, Joshua controllò l’insalata di Tony, chiedendosi se la lattuga fosse sufficientemente croccante e preoccupato che i ravanelli fossero troppo piccanti o troppo dolci; esaminò poi le bistecche come se stesse cercando piccole imperfezioni in tre diamanti e chiese a Hilary di mettere le patate nel forno a microonde; tagliò alcune cipolline da servire con la panna acida e stappò due bottiglie di Cabernet Souvignon californiano, un vino rosso molto secco proveniente dalla cantina di Robert Mondavi. La pignoleria e le preoccupazioni di Joshua per la cena misero di buonumore Hilary.
Era sorpresa da come l’avvocato le fosse piaciuto fin dal primo momento. Raramente si sentiva tanto a suo agio con una persona che conosceva solo da poche ore. Ma l’aspetto paterno, la burbera onestà, l’arguzia, l’intelligenza e la naturale galanteria di quell’uomo l’avevano conquistata e la facevano sentire al sicuro.
Mangiarono in sala da pranzo, un locale confortevole arredato con mobili rustici; tre pareti erano intonacate di bianco mentre la quarta era con i mattoni a vista; il pavimento era in parquet e sul soffitto si scorgevano le travi. Ogni tanto qualche goccia di pioggia picchiettava contro le finestre.
Appena si sedettero a tavola Joshua propose: «Facciamo un patto: nessuno dovrà nominare Bruno Frye fino a quando non avremo fatto sparire l’ultimo boccone di bistecca, non avremo finito questo ottimo vino, non avremo bevuto il caffè e sorseggiato l’ultima goccia di brandy.»
«D’accordo,» concordò Hilary.
«Va bene,» replicò Tony. «Temo che il mio cervello si rifiuti già da un po’ di tempo di discutere su questa faccenda. E poi al mondo ci sono tante altre cose interessanti.»
«Già,» convenne Joshua. «Ma purtroppo molte di esse sono deprimenti quanto la storia di Frye. Guerre, terrorismo, inflazione, il ritorno dei seguaci del luddismo, l’ignoranza dei politici e…»
«… arte, musica, cinema, le ultime scoperte mediche e la rivoluzione tecnologica che migliorerà la nostra vita nonostante il luddismo,» proseguì Hilary.
Joshua le lanciò uno sguardo impertinente. «Ma lei si chiama Hilary o Pollyanna?»
«E lei Joshua o Cassandra?»
«La profezia di morte e distruzione di Cassandra era esatta,» replicò Joshua, «ma con il passare del tempo nessuno le credette più.»
«Se nessuno le crede,» commentò Hilary, «a che cosa serve avere ragione?»
«Oh, non cerco più di convincere gli altri che l’unico nostro nemico è il governo e che il Grande Fratello ci fregherà tutti. Sono convinto di molte verità che però sembrano essere ovvie solo per me. Al mondo ci sono troppi stupidi che non capiranno mai niente. Ma sapere di avere ragione e vederlo confermato sui giornali mi dà una grande soddisfazione. Io so. E questo mi basta.»
«Ah,» esclamò Hilary, «in altre parole, a lei non importa se il mondo va a rotoli perché così può provare l’egoistico piacere di affermare: ‘Ve l’avevo detto.’»
«Oh,» bofonchiò Joshua.
Tony scoppiò a ridere. «Attento, Joshua. Non dimentichi che Hilary si guadagna da vivere utilizzando sapientemente le parole.»
Per tre quarti d’ora chiacchierarono del più e del meno, poi, nonostante la promessa, ricominciarono a parlare di Bruno Frye, prima ancora di finire il vino e senza nemmeno arrivare al caffè e al brandy.
A un certo punto Hilary domandò: «Che cosa può avergli fatto Katherine, perché lui la tema e la odi così profondamente?»
«E esattamente quello che ho chiesto a Latham Hawthorne,» rispose Joshua.
«E lui che cos’ha detto?»
«Non ne ha idea,» spiegò Joshua. «Non riesco ancora a credere che potesse esistere un odio tanto viscerale fra di loro e che non me ne sia mai accorto in tutti questi anni. Katherine sembrava stravedere per lui. E Bruno sembrava adorarla. Naturalmente, in città erano tutti convinti che lei fosse una santa per averlo preso in casa, ma adesso comincio a pensare che non fosse poi tanto angelica.»
«Aspetti un attimo,» lo interruppe Tony. «L’ha preso in casa? Che cosa significa?»
«Esattamente quello che ho detto. Avrebbe potuto lasciare il bambino in un orfanotrofio, ma non l’ha fatto. Gli ha offerto il suo cuore e la sua casa.»
«Ma noi pensavamo fosse suo figlio,» intervenne Hilary.
«Adottivo,» spiegò Joshua.
«I giornali non hanno riportato questa notizia,» disse Tony.
«Risale a molto tempo fa,» riprese Joshua. «Bruno ha sempre portato il cognome dei Frye, a eccezione dei primi mesi di vita. A volte mi sembrava che fosse un Frye più di quanto avrebbe potuto esserlo un figlio naturale di Katherine, se lei ne avesse avuto uno. Avevano gli occhi dello stesso colore e lo stesso carattere freddo e introverso che pare fosse una caratteristica anche di Leo.»
«Se è stato adottato,» affermò Hilary, «esiste la possibilità che abbia veramente un fratello.»
«No,» rispose Joshua. «Era figlio unico.»
«Come fa a esserne così sicuro? Forse aveva persino un gemello!» esclamò Hilary in tono concitato.
Joshua aggrottò la fronte. «Pensa che Katherine abbia adottato un solo gemello senza saperlo?»
«Una cosa del genere spiegherebbe l’improvvisa comparsa di un sosia,» replicò Tony.
«Ma dove si sarebbe nascosto questo misterioso fratello gemello per tutti questi anni?» domandò Joshua.
«Probabilmente è stato adottato da un’altra famiglia,» azzardò Hilary, eccitata da quella teoria. «In un’altra città, in un’altra parte dello stato.»
«O forse persino in un’altra parte del paese,» continuò Tony.
«State cercando di dirmi che alla fine Bruno e il suo ipotetico fratello si sono ritrovati?»
«Potrebbe essere,» affermò Hilary.
Joshua scosse la testa. «Forse sì, ma non in questo caso. Bruno era figlio unico.»
«Ne è assolutamente sicuro?»
«Non ci sono dubbi,» spiegò Joshua. «Non ci sono segreti sulla sua nascita.»
«Comunque quella dei gemelli… è una teoria interessante,» esclamò Hilary.
Joshua annuì. «Lo so. Sarebbe una soluzione logica e vorrei tanto trovarne velocemente una per risolvere tutta questa faccenda. Credetemi, non mi diverto a smontare le vostre teorie.»
«Forse non ci riuscirà,» disse Hilary.
«Io credo di sì.»
«Ci provi,» lo sfidò Tony. «Ci dica chi era la vera madre di Bruno. Forse saremo noi a distruggere la sua teoria. Forse non è tutto così semplice e chiaro come pensa.»
Finalmente, dopo aver rotto, strappato e distrutto quasi tutto quello che c’era in casa, Bruno riacquistò il controllo di sé; la sua ferocia bestiale si trasformò in una rabbia meno distruttiva e più umana. Mentre l’ira sbolliva, rimase fermo in mezzo al caos che lui stesso aveva provocato, ansimando, con il sudore che gli colava dalla fronte e luccicava sul corpo nudo. Poi andò verso la camera da letto e si vestì.
Una volta pronto, rimase ai piedi del letto insanguinato e osservò il corpo orribilmente maciullato della ragazza che aveva conosciuto solo come Sally. Soltanto allora si rese conto che non era Katherine. Non si trattava di un’altra incarnazione della madre. La vecchia troia non era passata dal corpo di Hilary Thomas a quello di Sally; non avrebbe potuto farlo fino a quando Hilary non fosse morta. Non capì come mai avesse potuto confondersi in quel modo.
Comunque, non provava rimorso per quello che aveva fatto a Sally. Anche se non era Katherine, era una delle serve della madre, una donna mandata dal diavolo al servizio di Katherine. Sally era il nemico, faceva parte del complotto che mirava a ucciderlo. Ne era sicuro. Forse era persino una morta vivente. Sì. Certo. Ne era assolutamente convinto. Sì. Sally era proprio come Katherine, una morta impossessatasi di un nuovo corpo, uno di quei mostri che si rifiutano di rimanere al loro posto nella tomba. Era una di loro. Rabbrividì. Era sicuro che quella donna avesse sempre saputo dove si nascondeva Hilary-Katherine. Ma aveva mantenuto il segreto e si era meritata la morte per la sua incorruttibile fedeltà a Katherine.
Oltretutto, non l’aveva uccisa veramente perché sarebbe tornata in vita in qualche altro corpo, scacciando l’entità che già lo occupava.
Adesso doveva dimenticare Sally e trovare Hilary-Katherine. Lei era ancora là fuori e lo stava aspettando.
Doveva scoprire il suo nascondiglio e ucciderla prima di essere ammazzato.
Sally gli aveva perlomeno fornito una traccia. Un nome. Quel Topelis. L’agente di Hilary Thomas. Probabilmente Topelis sapeva dove si era nascosta.
Sparecchiarono la tavola e Joshua versò dell’altro vino per tutti, prima di raccontare la storia di Bruno, da orfano a unico erede della proprietà dei Frye. In tutti quegli anni era venuto a conoscenza dei fatti un po’ alla volta, dalla viva voce di Katherine e dalle altre persone che vivevano a St. Helena ancora prima che lui si trasferisse nella vallata per esercitare la sua professione.
Nel 1940, l’anno in cui era nato Bruno, Katherine aveva ventisei anni e viveva ancora con il padre, Leo, nella casa che sovrastava i vigneti, in cima alla collina; si erano stabiliti lì nel 1918, un anno dopo la morte della madre di Katherine. Katherine era stata lontana da casa solo per pochi mesi, per frequentare un college a San Francisco; aveva abbandonato la scuola perché non voleva lasciare St. Helena solo per acquisire delle nozioni che non le sarebbero mai servite a niente. Adorava la valle e la vecchia casa vittoriana sulla collina. Katherine era stata una donna affascinante e avrebbe potuto avere una schiera di pretendenti, ma sembrava che l’amore non le interessasse. Nonostante fosse ancora giovane, il suo carattere introverso e la sua freddezza nei confronti degli uomini convinsero molte persone che sarebbe diventata una vecchia zitella e che, oltretutto, ne sarebbe stata assolutamente felice.
Poi, nel gennaio del 1940, Katherine aveva ricevuto una telefonata da Mary Gunther, un’amica conosciuta anni prima al college. Mary aveva bisogno di aiuto: un uomo l’aveva messa nei guai. Le aveva promesso di sposarla, l’aveva ingannata con una scusa dietro l’altra e poi se l’era filata quando Mary era incinta di sei mesi. La ragazza era distrutta, non aveva una famiglia alla quale chiedere aiuto e nessun amico a parte Katherine. L’aveva pregata quindi di recarsi a San Francisco appena fosse nato il bambino perché non voleva essere sola in un momento simile. Inoltre aveva chiesto all’amica di occuparsi del piccolo fino a quando lei non avesse trovato un lavoro e non fosse riuscita a costruire un nido per accogliere il bambino. Katherine aveva acconsentito ad aiutarla e aveva cominciato a informare gli abitanti di St. Helena che per un certo periodo avrebbe fatto la mamma. Sembrava davvero felice ed entusiasta. I suoi vicini pensavano che sarebbe stata una madre meravigliosa per i suoi figli, se solo avesse trovato un uomo da sposare.
Sei settimane dopo la telefonata di Mary Gunther e sei settimane prima che Katherine si recasse a San Francisco per assistere l’amica, Leo era stato colpito da un’emorragia cerebrale ed era caduto stecchito fra le grandi botti in una delle sue cantine. Sebbene Katherine fosse sconvolta e distrutta dal dolore e nonostante avesse dovuto cominciare a lavorare sodo per portare avanti l’azienda paterna, aveva mantenuto la promessa fatta a Mary Gunther. In aprile, l’amica l’aveva informata che il bambino era nato e Katherine si era precipitata a San Francisco. Dopo due settimane era tornata con una creaturina: Bruno Gunther, il figlio di Mary.
Katherine era convinta di tenere Bruno per un anno, dopo di che Mary sarebbe stata in grado di. riprendersi il piccolo. Ma dopo sei mesi, erano giunte voci che Mary era di nuovo nei guai, ma questa volta molto più seri: era affetta da una forma di tumore maligno. Stava morendo. Le rimanevano ancora poche settimane, al massimo un mese di vita. Katherine aveva portato il bambino a San Francisco in modo che la madre potesse trascorrere i suoi ultimi istanti con il figlio. Prima di morire, Mary aveva sbrigato tutte le pratiche legali necessarie per affidare la custodia definitiva del bambino a Katherine. I genitori di Mary erano morti e non aveva altri parenti stretti con i quali Bruno potesse vivere. Se Katherine non l’avesse tenuto con sé, sarebbe finito in un orfanotrofio o con dei genitori adottivi che forse non gli avrebbero voluto bene. Mary era morta, Katherine si era occupata del funerale ed era tornata a St. Helena con Bruno.
Aveva allevato il bambino come se fosse stato suo, comportandosi non solo come tutrice ma anche come madre apprensiva e affettuosa. Avrebbe potuto assumere bambinaie e domestiche, ma non l’aveva fatto perché non voleva che altri si prendessero cura di Bruno. Leo non aveva mai assunto domestici e Katherine aveva lo stesso spirito di indipendenza del padre. Stava bene da sola e quando Bruno aveva compiuto quattro anni era tornata a San Francisco dal giudice che si era occupato dell’affidamento e aveva adottato ufficialmente il bambino, dandogli il nome della famiglia.
Sperando che la storia di Joshua potesse fornire loro nuovi dettagli e pronti a percepire ogni eventuale incongruenza o assurdità, Hilary e Tony si erano allungati sul tavolo, con le orecchie tese. Alla fine del racconto si erano appoggiati alle sedie sorseggiando un bicchiere di vino.
Joshua proseguì: «Ci sono ancora persone a St. Helena che ricordano Katherine Frye come una santa che ha adottato un orfanello dandogli amore e ricchezza.»
«Allora non c’era un gemello,» commentò Tony.
«Assolutamente no,» replicò Joshua.
Hilary sospirò. «Il che significa che siamo al punto di partenza.»
«Ci sono un paio di cose in questa storia che non mi convincono,» affermò Tony.
Joshua sollevò le sopracciglia. «E cioè?»
«Be’, persino oggi, nonostante le nostre tendenze più liberali, è incredibilmente difficile per una donna sola adottare un bambino,» spiegò Tony. «Nel 1940, doveva essere praticamente impossibile.»
«Penso di poter spiegare ogni cosa,» disse Joshua. «Se la memoria non mi inganna, ricordo che un giorno Katherine mi disse che lei e Mary avevano previsto la riluttanza del tribunale nell’ufficializzare l’affidamento. Così raccontarono al giudice quella che secondo loro era una bugia a fin di bene. Gli spiegarono che Katherine era una cugina di Mary e l’unica parente ancora in vita. A quel tempo, se un parente stretto accettava di prendersi cura del bambino, il tribunale concedeva l’autorizzazione quasi automaticamente.»
«E il giudice non si preoccupò di controllare se quanto affermavano corrispondeva alla verità?» domandò Tony.
«Non bisogna dimenticare che nel 1940 i giudici non volevano venire coinvolti in questioni familiari, come invece accade oggi. Era l’epoca in cui gli americani non davano grande importanza al ruolo del governo. Direi che in genere si era più equilibrati.»
Hilary si rivolse a Tony. «Hai detto che c’erano un paio di cose che non ti convincevano. Qual è l’altra?»
Tony si passò stancamente una mano sul viso. «Non è facile spiegarlo. E solo una sensazione. Ma la storia suona… troppo perfetta.»
«Vuol dire che le sembra inventata?» domandò Joshua.
«Non lo so,» continuò Tony. «Non so neanch’io che cosa voglio dire. Ma quando fai il poliziotto per tanti anni, sviluppi un sesto senso per queste cose.»
«E c’è qualcosa che non va?» chiese Hilary.
«Penso di sì.»
«Che cosa?» incalzò Joshua.
«Niente di particolare, è solo che la storia è troppo perfetta, troppo semplice.» Tony bevve l’ultimo sorso di vino e aggiunse: «Bruno non potrebbe essere davvero figlio di Katherine?»
Joshua lo guardò ammutolito. Quando riuscì ad aprire bocca, esclamò: «Sta parlando seriamente?»
«Sì.»
«Mi sta chiedendo se è possibile che quella donna si sia inventata tutta la storia di Mary Gunther e sia andata a San Francisco semplicemente per dare alla luce un figlio illegittimo?»
«E proprio quello che le sto domandando,» confermò Tony.
«No,» rispose Joshua. «Non era incinta.»
«Ne è sicuro?»
«Be’,» proseguì Joshua. «Non le ho fatto personalmente l’analisi delle urine. Nel 1940 non abitavo ancora nella valle. Mi sono trasferito qui nel 1945, dopo la guerra. Ma ho sentito raccontare diverse volte la sua storia, a volte solo in parte, altre volte interamente, da persone che nel 1940 erano qui. Mi dirà che probabilmente si limitavano a ripetere quello che lei aveva raccontato loro. Ma se fosse stata incinta non avrebbe potuto tenerlo nascosto. Non in un centro piccolo come St. Helena. L’avrebbero saputo tutti.»
«Una piccola percentuale di donne non ingrassa quando aspetta un bambino,» commentò Hilary, «e il loro stato non è tanto evidente.»
«Dimenticate che a Katherine non interessavano gli uomini,» replicò Joshua. «Non usciva mai con nessuno. Come poteva rimanere incinta?»
«Forse non usciva con quelli del posto,» disse Tony. «Ma durante la vendemmia, verso la fine dell’estate, non ci sono i contadini che vengono per lavorare nelle vigne? E molti di loro non sono forse giovani, belli e virili?»
«Aspetti un attimo,» lo interruppe Joshua. «Non riesco a seguirla. Sta cercando di dirmi che Katherine, il cui disinteresse nei confronti degli uomini era risaputo, si è improvvisamente innamorata di un contadino?»
«Sono cose che succedono.»
«Ma allora sta anche insinuando che questa improbabile coppia di amanti ha portato avanti una storia in un posto minuscolo senza farsi mai sorprendere e senza dare adito a pettegolezzi. E oltretutto mi sta dicendo che Katherine era una di quelle rare donne che non sembrano incinte quando lo sono. No.» Joshua scosse la testa. «Per me è troppo. Troppe coincidenze. Lei pensa che la storia di Katherine sia troppo perfetta, ma, dopo le sue incredibili supposizioni, direi che ha l’inconfondibile sapore della verità.»
«Ha ragione,» sospirò Hilary. «E così un’altra teoria promettente finisce nel nulla.» Sorseggiò l’ultimo goccio di vino.
Tony si grattò il mento e trasse un profondo respiro. «Già. Temo di essere troppo stanco per ragionare in modo lucido. Ma comunque resto dell’idea che nella storia di Katherine c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa che lei ha tenuto nascosto. Qualcosa di strano.»
Nella cucina di Sally, in piedi sui piatti rotti, Bruno Frye aprì l’elenco telefonico alla ricerca del numero della Topelis Associates. Gli uffici si trovavano a Beverly Hills. Compose il numero e gli rispose il centralino, esattamente come si aspettava.
«Si tratta di un’emergenza,» spiegò all’impiegata, «e ho pensato che forse lei potrebbe aiutarmi.»
«Un’emergenza?» domandò la donna.
«Sì. Vede, mia sorella è cliente di Mr Topelis. È appena deceduto un nostro parente e io devo avvertirla immediatamente.»
«Oh, mi spiace.»
«Il problema è che mia sorella è partita per una breve vacanza e io non so dove rintracciarla.»
«Capisco.»
«Devo mettermi urgentemente in contatto con lei.»
«Be’, normalmente avrei passato il suo messaggio direttamente a Mr Topelis. Ma oggi è fuori e non ha lasciato un numero presso il quale rintracciarlo.»
«Non vorrei comunque disturbarlo,» continuò Bruno. «Ho pensato che con tutte le telefonate che prende per lui, forse anche lei sa dove si trova mia sorella. Forse ha chiamato lasciando un messaggio a Mr Topelis, dicendogli dove andava.»
«Come si chiama sua sorella?»
«Hilary Thomas.»
«Oh, sì. So dov’è.»
«Magnifico. Dove?»
«Non ha telefonato lei personalmente, ma hanno lasciato un messaggio per lei tramite Mr Topelis. Resti in linea mentre controllo. Va bene?»
«Certo.»
«L’ho scritto da qualche parte.»
Bruno aspettò pazientemente mentre lei cercava fra i suoi appunti.
«Eccolo qua. Ha chiamato un certo Mr Wyant Stevens. Voleva che Mr Topelis riferisse a Miss Thomas che lui, Mr Stevens, era pronto a occuparsi dei dipinti. Mr Stevens voleva che lei sapesse che non riuscirà a chiudere occhio fino a quando non sarà rientrata da St. Helena e gli darà la possibilità di concludere l’affare. Per cui immagino che sua sorella sia a St. Helena.»
Bruno era sbalordito.
Non riusciva ad aprire bocca.
«Non so in quale hotel o motel,» si scusò la centralinista. «Ma in tutta Napa Valley non ci sono molti alberghi, perciò non dovrebbe essere difficile trovarla.»
«Nessun problema,» rispose Bruno confuso.
«Conosce qualcuno a St. Helena?»
«Eh?»
«Forse è ospite di amici,» suggerì la donna.
«Già,» affermò Bruno. «Penso di sapere dove si trova.»
«Mi spiace veramente per quel suo parente.»
«Come?»
«Il parente che è morto.»
«Oh, esclamò Bruno. Si inumidì nervosamente le labbra. «Sì. Negli ultimi cinque anni abbiamo perso molti dei nostri cari. La ringrazio per il suo aiuto.»
«Si figuri.»
Frye riagganciò.
Lei era a St. Helena.
Quella puttana era tornata.
Perché? Mio Dio, che cosa stava combinando? Che cos’aveva in mente? Che cosa stava escogitando?
Qualsiasi cosa stesse tramando, era sicuramente contro di lui. Ne era certo.
Cominciò a tempestare di telefonate le compagnie aeree per prenotare un posto su un volo diretto a nord: temeva che lei stesse preparando una trappola per farlo fuori. Non c’erano voli fino al mattino successivo e i primi a decollare erano già tutti al completo. Non sarebbe riuscito ad andarsene da Los Angeles fino al pomeriggio successivo.
Sarebbe stato troppo tardi.
Lo sapeva. Aveva quel presentimento.
Doveva agire in fretta.
Decise di prendere il furgoncino. Non era molto tardi e se avesse guidato tutta notte, pigiando sull’acceleratore, sarebbe arrivato a St. Helena all’alba.
Sentiva che la sua vita era legata a un filo.
Si precipitò fuori della villetta inciampando nei resti dei mobili e spalancò la porta senza controllare se c’era qualcuno nei dintorni. Corse sul prato, nella strada buia e deserta, verso il furgone.
Dopo il caffè e il brandy, Joshua mostrò a Tony e Hilary la camera degli ospiti e il bagno che si trovavano sul retro della casa. La stanza era spaziosa e accogliente, con finestre luminose come quelle del soggiorno. Hilary rimase visibilmente sorpresa di fronte al letto a baldacchino.
Dopo aver augurato la buonanotte a Joshua, chiusero la porta della stanza e tirarono la tenda della finestra per nascondersi dagli occhi indiscreti della notte. Decisero di fare una doccia insieme per rilassare i muscoli indolenziti. Erano stanchi e volevano solo ritrovare quel piacere dolce e innocente di un bagno caldo che avevano condiviso la notte precedente nell’albergo dell’aeroporto di Los Angeles. Nessuno di loro si aspettava che la passione prendesse il sopravvento. Ma mentre lui le insaponava il seno, i movimenti delicati e ritmici delle sue mani le provocarono brividi di piacere. Tony le accarezzò il seno, lo soppesò nelle mani e i capezzoli di Hilary s’inturgidirono facendo capolino dalla schiuma profumata che li nascondeva. Tony si mise in ginocchio passandole dolcemente il sapone sul ventre, sulle gambe lunghe e affusolate e sui glutei. Per Hilary il mondo si ridusse a una sfera di sospiri, di suoni e di meravigliose sensazioni: il profumo di lillà, il gorgoglio dell’acqua, il calore del vapore, il corpo di Tony flessuoso e scattante, scintillante sotto le gocce d’acqua, la sua virilità che si manifestava meravigliosa mentre lei cominciava ad accarezzarlo. Quando finirono la doccia, avevano ormai dimenticato la stanchezza e i muscoli doloranti: rimaneva solo il desiderio.
Sul letto a baldacchino, illuminato da un’unica luce soffusa, Tony ricoprì di baci quel corpo meraviglioso. Posò le labbra ardenti sul mento, sul collo e sul seno di Hilary.
«Ti prego,» sussurrò lei. «Adesso.»
«Sì,» mormorò Tony contro la sua pelle.
Hilary lo invitò verso di lei e Tony la penetrò.
«Hilary,» sussurrò. «Mia dolcissima Hilary.»
Si mosse dentro di lei con forza mista a tenerezza.
Hilary oscillò in sintonia con lui. Le sue mani gli accarezzavano la schiena, seguendo il disegno dei muscoli. Non si era mai sentita così viva, galvanizzata. Dopo solo un minuto, cominciò a godere, e si augurò che quella meravigliosa sensazione non avesse mai fine; avrebbe voluto continuare in eterno e rimanere all’apice dell’estasi per sempre.
Mentre Tony si muoveva dentro di lei, divennero un corpo e un’anima sola. Era una sensazione che Hilary non aveva mai provato con nessun altro uomo. E sapeva che anche Tony avvertiva quel legame profondo e unico. Erano uniti a livello fisico, emotivo, intellettuale e psichico, fusi in un’unica entità superiore alla somma delle due metà che la componevano e in quel momento di completa sinergia davvero eccezionale, Hilary capì che quello che condividevano era talmente speciale, importante, raro e meraviglioso da durare in eterno.
Mormorando il suo nome, si sollevò versò di lui per rispondere alle sue spinte e mentre Tony raggiungeva l’estasi dentro di lei, Hilary si rese conto, come la prima volta che avevano fatto l’amore, che poteva davvero fidarsi di lui, poteva contare su di lui come non aveva mai potuto fare con nessun altro; ma soprattutto ebbe la certezza che non sarebbe mai più stata sola.
Più tardi, sdraiati sotto le coperte, Tony le chiese: «Vuoi raccontarmi di quella cicatrice sul fianco?»
«Sì, adesso posso dirtelo.»
«Sembra una ferita d’arma da fuoco.»
«Esatto. Avevo diciannove anni e abitavo a Chicago. Avevo finito la scuola da un anno. Lavoravo come dattilografa cercando di risparmiare per andarmene a vivere da sola, ma pagavo a Earl ed Emma l’affitto della mia stanza.»
«Earl ed Emma?»
«I miei genitori.»
«Li chiamavi per nome?»
«Non ho mai pensato a loro come a un padre e a una madre.»
«Devono averti fatto molto male,» mormorò.
«Non perdevano occasione.»
«Se non hai voglia di parlarne…»
«No,» affermò Hilary. «Per la prima volta in vita mia, voglio parlarne. Non mi fa male. Ora ci sei tu e mi ripaghi per tutto quello che ho sofferto in passato.»
«La mia famiglia era povera,» spiegò Tony. «Ma ero circondato dall’amore.»
«Sei stato fortunato.»
«Mi dispiace, Hilary.»
«Ormai è finita. Sono morti molto tempo fa e avrei dovuto superare le mie paure già da tempo.»
«Raccontami tutto.»
«Pagavo qualche dollaro la settimana per l’affitto e loro ne approfittavano per comperarsi altre bottiglie, ma mettevo da parte il resto dello stipendio. Ogni singolo centesimo. Non era molto, ma depositavo tutto in banca. Saltavo perfino i pasti per risparmiare. Ero decisa a trovare un appartamento per me sola. Non mi importava di finire in un altro posto squallido, con le stanzette piccole e buie, il bagno rovinato e gli scarafaggi in giro, a condizione che non ci fossero Earl ed Emma.»
Tony le posò un bacio sulla guancia e sulla bocca.
Hilary proseguì: «Finalmente riuscii a risparmiare a sufficienza. Ero pronta per andarmene. Ancora un giorno, l’ultimo stipendio e poi sarei stata in pace.»
Rabbrividì.
Tony la strinse a sé.
«Quel giorno, quando tornai a casa dal lavoro, entrai in cucina e trovai Earl che teneva Emma contro il frigorifero. Aveva una pistola e gliela puntava contro la faccia.»
«Mio Dio.»
«Era in preda a un violento attacco di… Sai che cos’è il delirium tremens?»
«Certo. Allucinazioni. Attacchi di paura folle. È una malattia che colpisce gli alcolizzati cronici. Ho avuto a che fare spesso con persone in preda al delirium tremens. Possono essere violente e imprevedibili.»
«Earl le teneva la pistola puntata in bocca e urlava cose assurde su dei vermi giganti che secondo lui stavano uscendo dalla parete. Accusava Emma di aver lasciato uscire i vermi e voleva che li fermasse. Ho cercato di parlargli ma non mi ascoltava. Poi i vermi cominciarono a strisciargli attorno ai piedi, lui si arrabbiò con Emma e premette il grilletto.»
«Cristo.»
«Ho visto la sua faccia saltare in aria.»
«Hilary…»
«Devo parlarne.»
«Va bene.»
«Sei la prima persona a cui lo racconto.»
«Ti ascolto.»
«Quando lui fece fuoco, scappai dalla cucina,» continuò Hilary. «Sapevo che non ce l’avrei fatta a uscire dall’appartamento prima che mi sparasse alla schiena, così mi precipitai in camera. Chiusi la porta a chiave ma lui riuscì a far saltare la serratura. Ormai era convinto che i vermi uscissero dal muro per colpa mia. Mi sparò. La ferita non era grave, ma faceva un male d’inferno, era come se avessi un attizzatoio ardente contro il fianco e perdevo molto sangue.»
«Perché non ti ha sparato di nuovo? Come hai fatto a salvarti?»
«L’ho accoltellato.»
«Accoltellato? E dove hai preso il coltello?»
«Da quando avevo otto anni ne tenevo uno nella mia stanza. Non l’avevo mai usato. Ma avevo sempre pensato che se un giorno avessero esagerato con le loro percosse, mettendo in pericolo la mia vita, li avrei accoltellati per salvarmi. Così pugnalai Earl nello stesso istante in cui lui premeva il grilletto. Non lo ferii gravemente, ma rimase sbalordito e terrorizzato alla vista del suo stesso sangue. Corse fuori della stanza e ritornò in cucina. Cominciò a urlare a Emma dicendole di cacciare i vermi prima che sentissero l’odore del suo sangue e lo inseguissero. Poi le scaricò addosso la pistola perché lei non voleva mandare via i vermi. Io soffrivo terribilmente per la ferita al fianco ed ero terrorizzata, ma cercai ugualmente di contare il numero degli spari. Quando pensai che avesse finito tutti i colpi, mi trascinai fuori della stanza cercando di raggiungere la porta d’ingresso. Ma lui aveva molte scatole di munizioni. Aveva ricaricato la pistola. Mi vide e mi sparò dalla cucina. Mi rifugiai in camera mia. Appoggiai un cassettone contro la porta e pregai che arrivasse qualcuno prima che morissi dissanguata. Earl continuava a urlare qualcosa a proposito dei vermi e dei granchi giganti sul davanzale della finestra e intanto scaricava la pistola sul corpo di Emma. Le ha sparato circa centocinquanta colpi prima di calmarsi. Era letteralmente maciullata e la cucina assomigliava a un macello.»
Tony si schiarì la voce. «Che cosa ne è stato di lui?»
«Si è ucciso appena la squadra speciale è riuscita a entrare in casa.»
«E tu?»
«Ho trascorso una settimana in ospedale. Mi è rimasta una cicatrice come ricordo.»
Per un attimo rimasero in silenzio.
Oltre le finestre chiuse il vento continuava a sibilare.
«Non so che cosa dire,» mormorò Tony.
«Dimmi che mi ami.»
«Certo.»
«Dimmelo.»
«Ti amo.»
«Ti amo, Tony.»
La baciò.
«Ti amo come non pensavo si potesse amare una persona,» gli confidò Hilary. «In una settimana, mi hai cambiata per sempre.»
«Sei incredibilmente forte.»
«Tu mi dai la forza di cui ho bisogno.»
«Ne avevi a sufficienza anche prima di incontrarmi.»
«Non abbastanza. Tu mi hai reso più forte. Fino a oggi, mi bastava ripensare a quella terribile giornata per farmi prendere dal panico, come se fosse successo ieri. Ma questa volta non ho avuto paura. Ti ho raccontato tutto e non mi ha fatto un grande effetto. E sai perché?»
«Perché?»
«Perché tutte le cose terribili accadute a Chicago, la sparatoria e tutto il resto, appartengono al passato. Ormai non mi preoccupano più. Ho trovato te e questo basta a ripagarmi dei tempi più bui. Hai pareggiato i conti. Anzi, direi che ora la bilancia pende in mio favore.»
«Ha funzionato per tutt’e due, sai? Io ho bisogno di te proprio come tu hai bisogno di me.»
«Lo so. E per questo che è tutto così perfetto.»
Rimasero nuovamente in silenzio.
Hilary proseguì: «E c’è un altro motivo per cui i ricordi di Chicago non mi sconvolgono più. Voglio dire, oltre al fatto che ormai ho te.»
«E sarebbe?»
«Be’, ha a che fare con Bruno Frye. Questa sera ho scoperto che io e lui abbiamo molte cose in comune. Apparentemente abbiamo dovuto sopportare le stesse torture: lui da Katherine e io da Earl ed Emma. Ma lui è crollato, io no. Quell’omone grande e grosso ha ceduto, mentre io ce l’ho fatta. Significa molto per me. Significa che non dovrei preoccuparmi tanto, che non dovrei aver paura di aprirmi alla gente è che dovrei imparare ad accettare quello che il mondo mi offre.»
«L’avevo detto. Sei dura e forte come l’acciaio.»
«Non sono dura. Prova. Ti sembro dura?»
«Qui no.»
«E qui?»
«Soda.»
«Soda è diverso da dura.»
«Hai un’ottima consistenza.»
«Questo non significa essere dura.»
«Carina, soda e calda.»
Hìlary lo strinse a sé.
«Questo è duro,» osservò con una smorfia. «’ «E se è duro non deve tornare molle. Vuoi che ti faccia vedere?»
«Sì. Sì. Fammi vedere.»
Fecero di nuovo l’amore.
Mentre Tony si spingeva dentro di lei ed esplorava il suo corpo con carezze di fuoco, mentre il piacere cresceva come un’onda che si ingrossa prima di frangersi contro la riva, Hilary capì che sarebbe andato tutto bene. Quel gesto d’amore la rassicurò e la colmò di fiducia per l’avvenire.
Bruno Frye non era tornato dalla tomba. Non era inseguita da un morto vivente. C’era una spiegazione logica. Avrebbero parlato con il dottor Rudge e Rita Yancy e avrebbero scoperto che cosa si nascondeva dietro il mistero del sosia di Frye. Avrebbero raccolto informazioni e prove sufficienti ad aiutare la polizia e il sosia sarebbe stato trovato e arrestato. Il pericolo sarebbe cessato. Lei sarebbe rimasta per sempre con Tony e non le sarebbe mai più accaduto nulla di brutto. Niente avrebbe potuto ferirla. Né Bruno Frye né nessun altro avrebbe potuto farle del male. Finalmente era felice e al sicuro.
Più tardi, mentre stava per addormentarsi, un lampo squarciò il cielo, s’infilò fra le montagne e poi scivolò nella vallata, verso la casa.
Uno strano pensiero le attraversò la mente: Il lampo è un avvertimento. E un presagio. Vuole dirmi di stare attenta e di non essere così maledettamente sicura di me stessa.
Ma prima che potesse indagare ulteriormente su quella sensazione, il sonno s’impadronì di lei che scivolò nelle braccia della notte.
Frye si diresse verso nord lasciandosi Los Angeles alle spalle; per un certo tratto costeggiò il mare, poi l’autostrada lo condusse verso l’entroterra.
Fortunatamente la benzina era di nuovo disponibile dopo un breve periodo di scioperi. I benzinai erano aperti. L’autostrada era un’arteria di asfalto che correva lungo l’intero stato e i fari, simili a bisturi taglienti, gli permettevano di esaminarla a fondo.
Mentre guidava, ripensò a Katherine. Quella puttana! Che cosa stava facendo a St. Helena? Si era forse trasferita di nuovo nella casa sulla collina? E aveva magari ripreso in mano il controllo dell’azienda? L’avrebbe obbligato a trasferirsi in quella casa con lei? Avrebbe dovuto vivere ancora sotto il suo stesso tetto e obbedirle come un tempo? Erano tutte questioni di vitale importanza per lui, anche se la maggior parte sembravano assurde e senza senso.
Si rendeva conto di avere la mente confusa. Nonostante gli sforzi, non riusciva a pensare chiaramente e quell’incapacità lo spaventava.
Si domandò se fosse il caso di fermarsi a dormire in un’area di servizio. Dopo essersi riposato, forse avrebbe riacquistato il controllo di sé.
Poi si ricordò che Hilary-Katherine era già a St. Helena e il pensiero che lei stesse preparandogli una trappola era molto più inquietante della sua temporanea confusione mentale.
Si domandò se la casa fosse ancora sua. Dopotutto, lui era morto. (O morto per metà.) E lo avevano sepolto. (O pensavano di averlo fatto.) La proprietà sarebbe stata liquidata.
Mentre Bruno considerava le proprie perdite, s’infuriò con Katherine per avergli rubato così tanto e avergli lasciato così poco. L’aveva ucciso, l’aveva strappato a se stesso, lasciandolo solo, senza nessuno da toccare e con cui parlare e ora si era persino trasferita a casa sua.
Premette il piede sull’acceleratore finché la lancetta segnò i centoquaranta chilometri l’ora.
Se un poliziotto l’avesse fermato per eccesso di velocità, Bruno l’avrebbe ammazzato. Avrebbe utilizzato il coltello. L’avrebbe squarciato, maciullato. Nessuno avrebbe impedito a Bruno di raggiungere St. Helena prima dell’alba.
Nel timore di essere visto dai guardiani notturni che lo ritenevano morto, Bruno Frye decise di non avvicinarsi troppo alla proprietà. Posteggiò a un miglio di distanza, sulla strada principale, e si incamminò attraverso i vigneti verso la casa che aveva fatto costruire cinque anni prima.
La gelida luna bianca irradiava luce fra le nuvole scure e Bruno riuscì a trovare la strada fra le vigne.
Le colline erano immerse nel silenzio. Nell’aria aleggiava un vago odore di solfato di rame, spruzzato durante l’estate per eliminare i parassiti, ricoperto dal fresco profumo della pioggia. Aveva cessato di piovere. Non era stato un gran temporale, solo una leggera pioggerellina e qualche tuono; la terra non era fradicia ma solo morbida e umida. Il cielo della notte era decisamente meno cupo rispetto a mezz’ora prima. L’alba non era ancora spuntata, ma ormai non avrebbe tardato molto.
Quando raggiunse lo spiazzo, Bruno si nascose dietro un cespuglio e studiò le ombre che circondavano la casa. Le finestre erano chiuse. Non si muoveva nulla. Si udiva solo il dolce sibilo del vento.
Bruno rimase accucciato per qualche momento. Aveva paura di muoversi, temeva che lei lo stesse aspettando all’interno. Poi, finalmente, con il cuore che batteva forte, decise di abbandonare il nascondiglio fra i cespugli; si alzò e si diresse verso l’ingresso principale.
Nella mano sinistra stringeva una torcia che non aveva avuto il coraggio di accendere, mentre nella destra reggeva un coltello. Era pronto a scattare al benché minimo movimento, ma tutto sembrava straordinariamente tranquillo.
Giunto all’ingresso, appoggiò la torcia, cercò la chiave nella tasca della giacca e aprì la porta, spalancandola con un calcio. Accese la torcia ed entrò in casa con fare circospetto e il coltello puntato davanti a sé.
Lei non lo stava aspettando nell’ingresso.
Bruno passò lentamente da una stanza lugubre e stracolma di mobili all’altra. Controllò negli armadi, dietro i divani e le enormi vetrinette.
Lei non era in casa.
Forse era ritornato in tempo per far fallire qualsiasi piano stesse architettando.
Si fermò in mezzo al soggiorno, sempre stringendo il coltello e la torcia, puntati verso il pavimento. Oscillò per un attimo, esausto, frastornato e confuso. Era uno di quei momenti in cui sentiva il disperato bisogno di parlare con se stesso, di condividere le sue emozioni con se stesso, di risolvere i suoi enigmi con se stesso per ritornare a vedere le cose in modo chiaro. Ma non avrebbe mai più potuto chiedere aiuto a se stesso, perché ormai era morto.
Morto.
Bruno iniziò a tremare. Poi scoppiò a piangere.
Si sentiva solo, spaventato e incredibilmente confuso.
Per quarant’anni, si era spacciato per un uomo qualunque ed era sempre riuscito a passare per normale, senza troppa fatica. Ma non avrebbe più potuto farlo. Era morto per metà. Il dolore era troppo grande per potersi riprendere. Aveva perso la fiducia. Senza il suo altro sé a cui rivolgersi in cerca di conforto e di consigli, non aveva i mezzi per continuare quella commedia.
Ma quella puttana era a St. Helena. Da qualche parte. Non riusciva a decifrare i suoi pensieri, non riusciva a ritrovare se stesso, ma era certo di una cosa: doveva trovarla e ucciderla. Doveva sbarazzarsi di lei una volta per tutte.
Giovedì mattina, la sveglìa era stata puntata alle sette.
Tony si svegliò di soprassalto con un’ora di anticipo. Si sedette sul letto, si rese conto di dove si trovava e riappoggiò la testa sul cuscino. Rimase disteso sulla schiena, nell’oscurità più completa, fissando il soffitto e ascoltando il respiro tranquillo di Hilary.
Aveva abbandonato il sonno per sfuggire a un incubo. Era un sogno macabro e brutale, pieno di camere mortuarie, tombe e bare, un sogno cupo, lugubre e impregnato di morte. Coltelli. Proiettili. Sangue. Vermi che uscivano dalle pareti e si infilavano nelle orbite vuote dei cadaveri. Morti viventi che parlavano di coccodrilli. Nel sogno, la vita di Tony era stata messa in pericolo più volte, ma, in ogni occasione, Hilary si era buttata fra lui e l’assassino ed era morta per salvarlo.
Quel sogno l’aveva fatto star male.
Aveva paura di perderla. L’amava. L’amava più di quanto potessero dire le parole. Aveva un’ottima parlantina e non era certo riluttante a esternare i propri sentimenti, ma non riusciva a trovare le frasi giuste per esprimere esattamente ciò che provava per lei. Riteneva addirittura che non esistessero parole adatte: erano semplicemente troppo banali e assolutamente inadeguate. Se l’avesse persa, la vita sarebbe ovviamente continuata, ma in modo triste e desolato, piena di un dolore profondo e duraturo.
Fissò il soffitto buio e ripetè a se stesso che non aveva nulla da temere. Quel sogno non era un presàgio. Non era una profezia. Era solo un sogno. Un brutto sogno. Nient’altro che un sogno.
In lontananza, un treno fischiò due volte. All’udire quel suono freddo e solitario, Tony si tirò le coperte fino al mento.
Bruno decise che forse Katherine lo stava aspettando nella casa che aveva fatto costruire Leo. Uscì e attraversò i vigneti, portando con sé il coltello e la torcia.
Alla pallida luce dell’alba, sotto il cielo ancora scuro che avvolgeva la vallata in una cupa penombra, Bruno iniziò a salire verso la casa sulla collina. Decise di non utilizzare la funivia perché avrebbe dovuto raggiungere il secondo piano dell’azienda dove si trovava la stazione più bassa. Non osava farsi vedere da quelle parti perché immaginava che il posto pullulasse di spie di Katherine. Voleva introdursi furtivamente in casa e l’unica strada accessibile era rappresentata dalla lunga scala fissata alla parete.
Cominciò a salire rapidamente, due gradini alla volta, ma si rese conto ben presto che avrebbe dovuto prestare la massima attenzione. La scala si stava sgretolando. Non era stata mantenuta in ordine, a differenza della funivia. Anni e anni di pioggia, vento e caldo soffocante avevano eroso a poco a poco la calcina che teneva insieme la vecchia struttura. Frammenti di pietrisco provenienti dai trecentoventi gradini si sbriciolavano sotto i suoi piedi e precipitavano lungo la scarpata. Perse più volte l’equilibrio e rischiò di cadere all’indietro sfracellandosi al suolo. La ringhiera di protezione era fatiscente, decrepita e semidistrutta, e non avrebbe certo potuto salvarlo in caso di caduta. Ma lentamente e cautamente seguì il tracciato a zigzag della scala e finalmente raggiunse la cima della collina.
Attraversò il prato, ormai invaso dalle erbacce. Decine di cespugli di rose, un tempo amorevolmente curati, si erano diramati in tentacoli spinosi in tutte le direzioni, simili a mucchi intricati di arbusti senza fiore.
Bruno entrò nell’enorme dimora vittoriana e si mise a perlustrare le stanze polverose coperte dalle ragnatele; ovunque regnava l’odore stantio della muffa che aveva invaso i tappeti e i tendaggi. La casa era stracolma di mobili antichi, oggetti in cristallo, sculture e altre chincaglierie, ma non sembrava contenere nulla di sinistro. Katherine non era neppure lì.
Non sapeva se fosse un bene o un male. Da una parte, significava che non si era trasferita in quella casa durante la sua assenza. Ed era un bene. Ne fu sollevato. Ma d’altra parte, dove diavolo era finita?
I pensieri si facevano sempre più confusi. La sua capacità di ragionare aveva cominciato a vacillare qualche ora prima, ma ormai non si fidava nemmeno più dei suoi cinque sensi. Gli parve di udire alcune voci e si mise a setacciare la casa per accorgersi alla fine che erano solo i mormorii indistinti da lui stesso prodotti. Per un attimo la muffa sembrò avere un odore diverso, simile al profumo preferito di sua madre, ma ben presto tornò a puzzare di muffa come sempre. Quando si mise poi a osservare i quadri di famiglia appesi alle stesse pareti fin dai tempi della sua infanzia, non riuscì a capire che cosa rappresentassero: le forme e i colori si scomponevano e gli occhi non erano in grado di riconoscere neppure le figure più semplici. Si bloccò davanti a un dipinto che raffigurava un paesaggio con molti alberi e fiori di campo, ma non riuscì a vedere quegli oggetti; si ricordava solo che c’erano sempre stati, ma al loro posto si erano sostituite chiazze di colore, linee spezzate e macchie informi.
Cercò di non farsi prendere dal panico. Cercò di convincersi che quel senso di confusione e di disorientamento era semplicemente dovuto alla mancanza di sonno. Aveva guidato per molte ore ed era comprensibilmente esausto. Sentiva gli occhi pesanti, rossi e gonfi. Aveva male dappertutto. Il collo era rigido. Aveva solo bisogno di dormire. Dopo una bella dormita, tutto sarebbe tornato a posto. Era ciò che continuava a ripetere a se stesso. Era ciò di cui doveva convincersi.
Dopo aver setacciato la casa da cima a fondo, si ritrovò nel raffinato attico, il vasto locale con il soffitto spiovente nel quale aveva trascorso gran parte della sua vita. Il debole fascio di luce della torcia illuminò il letto nel quale aveva dormito quando ancora abitava in quella casa.
Trovò se stesso già a letto. Era disteso con gli occhi chiusi e sembrava dormisse. Ovviamente i suoi occhi erano stati ricuciti. E la camicia da notte era in realtà la veste funebre per la sepoltura che gli aveva messo Avril Tannerton. Perché se stesso era morto. Quella puttana l’aveva accoltellato e ucciso. Era morto stecchito da una settimana.
Bruno era troppo debole per dare sfogo alla propria rabbia e al proprio dolore. Andò verso il letto matrimoniale e si distese nella sua metà, accanto a se stesso.
Avvertì la puzza di se stesso. Un odore pungente di sostanze chimiche.
Le lenzuola avvolte attorno a se stesso erano macchiate e umide a causa del liquido scuro che fuoriusciva lentamente dal corpo.
Bruno non ci fece caso. La sua parte del letto era asciutta. E anche se Bruno sapeva benissimo che se stesso era morto e non avrebbe mai più potuto parlare e ridere, si sentì felice al solo pensiero di riposargli accanto.
Bruno allungò una mano e toccò se stesso. Sfiorò la mano fredda, dura e rigida, e poi la strinse.
Per un attimo gli parve di essere meno solo.
Ovviamente Bruno non si sentiva più completo. Non si sarebbe mai più sentito completo perché metà di lui era morta. Ma disteso accanto al proprio cadavere, non si sentiva neppure totalmente solo.
Lasciando accesa la luce per tenere lontana l’oscurità nella grande stanza, Bruno si addormentò.
Lo studio del dottor Nicholas Rudge era al ventesimo piano di un grattacielo nel cuore di San Francisco. Hilary pensò che probabilmente l’architetto non aveva mai sentito parlare del termine «zona sismica», oppure che aveva stretto un patto con il diavolo in persona. Un’intera parete dello studio di Rudge era di vetro: tre enormi pannelli che arrivavano al soffitto ed erano tenuti insieme da due sottili bacchette di metallo; oltre quella vetrata si estendevano la città, la baia, il maestoso ponte del Golden Gate e le ultime tracce della foschia notturna. Il vento del Pacifico stava disperdendo le nubi grigie e il cielo si faceva sempre più terso. La veduta era spettacolare.
Sul lato opposto della vetrata, era stato sistemato un tavolo rotondo in teak con sei comode sedie, ovviamente per le terapie di gruppo. Hilary, Tony, Joshua e il dottore si accomodarono.
Rudge era un uomo incredibilmente affabile. Sembrava che considerasse l’individuo che gli stava di fronte come la persona più affascinante e interessante che avesse mai conosciuto. Era pelato oltre qualsiasi definizione (come una palla da biliardo? come il sederino di un bebé? Forse anche di più…), ma aveva barba e baffi ben curati. Indossava un vestito a tre pezzi con cravatta e fazzolettino in tinta, ma non aveva niente del banchiere o del dandy. Aveva un’aria distinta e accattivante, rilassata come se avesse indossato le scarpe da tennis.
Joshua riassunse le prove come aveva esplicitamente richiesto il medico e tenne un breve discorso sul dovere da parte dello psichiatra di proteggere la società da un paziente che mostri una chiara tendenza omicida. Nel giro di un quarto d’ora, Rudge si convinse che, in un caso come quello, non sarebbe stato opportuno e tanto meno saggio appellarsi al segreto professionale. Era più che disposto a mostrare loro il dossier di Frye.
«Anche se devo ammettere,» aggiunse Rudge, «che, se foste venuti qui singolarmente per raccontarmi questa incredibile storia, non vi avrei prestato molta attenzione. Anzi, avrei pensato che aveste bisogno di me.»
«Abbiamo preso in considerazione la possibilità di essere impazziti tutt’e tre,» disse Joshua.
«Ma l’abbiamo scartata,» proseguì Tony.
«Be’, se siete squilibrati,» spiegò Rudge, «allora fareste meglio a dire ‘impazziti tutt’e quattro’, perché ormai ci credo anch’io.»
Rudge spiegò che negli ultimi diciotto mesi si era incontrato con Frye per diciotto volte, in sedute di cinquanta minuti l’una. Subito alla prima visita, si era reso conto che il paziente era gravemente disturbato e aveva cercato di convincere Frye a farsi vedere almeno una volta la settimana, poiché riteneva che il suo problema fosse troppo serio per una terapia con un solo incontro al mese. Ma Frye aveva rifiutato l’idea di presentarsi più spesso.
«Come ho già detto al telefono a Mr Rhinehart» proseguì Rudge, «Mr Frye era lacerato da due desideri opposti. Voleva il mio aiuto, voleva giungere alla radice del suo problema. Ma nello stesso tempo, aveva paura di sbilanciarsi troppo: temeva quello che avrebbe potuto scoprire su se stesso.»
«Che tipo di problema aveva?» chiese Tony.
«Be’, ovviamente il vero problema psicologico, che era la causa della sua ansia, della tensione e dello stress, era racchiuso nel profondo del suo inconscio. È per questo che aveva bisogno di me. Alla fine, forse saremmo riusciti a scoprire il nocciolo della questione, se la terapia avesse avuto successo. Ma non siamo mai giunti a quel punto. Quindi non posso dirvi che cosa aveva perché in realtà non lo so. Ma forse vi interesserà sapere che cosa ha portato Frye da me. Che cosa gli ha fatto capire che aveva bisogno di aiuto.»
«Certo,» intervenne Hilary. «Almeno è un punto di partenza. Che sintomi accusava?»
«Ciò che lo turbava di più, almeno dal suo punto di vista, era un incubo ricorrente che lo terrorizzava.»
Al centro del tavolo c’era un registratore con accanto due pile di cassette: quattordici da una parte e quattro dall’altra. Rudge allungò il braccio e ne prese una dal mucchio più piccolo.
«Registro sempre le sedute e tengo le cassette al sicuro,» spiegò il dottore. «Questi sono i nastri relativi a Mr Frye. Ieri sera, dopo aver parlato con Mr Rhinehart, ho ascoltato parte di queste registrazioni per cercare di trovare qualche passaggio significativo. Avevo l’impressione che sareste riusciti a convincermi a collaborare e pensavo che sarebbe stato meglio ascoltare i problemi di Bruno Frye dalla sua viva voce.»
«Stupendo,» esclamò Joshua.
«Questa si riferisce al nostro primo incontro,» disse il dottor Rudge. «Nei primi quaranta minuti, Frye non ha detto praticamente nulla. Era molto strano. Sembrava apparentemente calmo e sicuro di sé, ma mi sono subito reso conto che aveva paura e che stava cercando di nascondere quello che provava veramente. Aveva paura di aprirsi a me. Arrivò quasi al punto di alzarsi e andarsene. Ma io ho continuato a parlargli dolcemente, molto dolcemente. Negli ultimi dieci minuti, mi ha confessato perché era venuto da me, ma dovevo strappargli le parole una alla volta. Ecco comunque parte della registrazione.»
Rudge infilò la cassetta nel registratore e premette un tasto.
All’udire quella voce familiare, dal tono rauco e gracchiante, Hilary avvertì un brivido lungo la schiena.
Frye parlò per primo:
«Ho un problema.»
«Che tipo di problema?»
«Di notte.»
«Sì?»
«Ogni notte.»
«Vuol dire che ha problemi legati al sonno?»
«In parte sì.»
«Può spiegarsi meglio?»
«Faccio un sogno.»
«Che tipo di sogno?»
«Un incubo.»
«Lo stesso ogni notte?»
«Sì.»
«Da quanto tempo si ripete?»
«Da quando mi ricordo.»
«Da un anno? Due anni?»
«No, no. Da molto più tempo.»
«Cinque anni? Dieci?»
«Almeno trenta. Forse di più.»
«Ha lo stesso incubo ogni notte da almeno treni’anni?»
«Esatto.»
«Ma sicuramente non tutte le notti.»
«Sì, senza tregua.»
«Che cosa sogna?»
«Non lo so.»
«Non si tiri indietro.»
«Non mi tiro indietro.»
«Lei vuole dirmelo.»
«Sì.»
«È per questo che è venuto qui. Quindi me lo dica.»
«Vorrei farlo, ma non so davvero che cosa sogno.»
«Come fa a sognare la stessa cosa per trent’anni di fila senza sapere di che cosa si tratta?»
«Mi sveglio urlando. So che è per via di un sogno. Ma non riesco mai a ricordarlo.»
«E allora come fa a sapere che è sempre lo stesso sogno?»
«Lo so e basta.»
«Non è sufficiente.»
«Sufficiente per che cosa?»
«Sufficiente per convincermi che si tratta sempre dello stesso sogno. Se è così sicuro che l’incubo è ricorrente, deve avere qualche altra motivazione.»
«Se glielo dicessi…»
«Sì?»
«Penserebbe che sono pazzo.»
«Non uso mai la parola ‘pazzo’.»
«Ah no?»
«No.»
«Be’… ogni volta che mi sveglio dopo un incubo, ho l’impressione che ci sia qualcosa che mi striscia addosso.»
«Che cos’è?»
«Non lo so. Non riesco mai a ricordarlo. Ma è come se qualcosa cercasse di infilarsi nel naso e nella bocca. Qualcosa di disgustoso. Cerca di infilarsi dentro di me. Spinge agli angoli degli occhi, cercando di farmeli aprire. Sento che si muove sotto i vestiti. Anche nei capelli. È dappertutto. E striscia, si insinua…»
Nello studio di Nicholas Rudge, tutti avevano gli occhi fissi sul registratore.
La voce di Frye era sempre gracchiante, ma piena di autentico terrore.
A Hilary parve di scorgere il viso dell’uomo distorto dalla paura, con gli occhi spalancati, la pelle cadaverica e la fronte imperlata di sudore.
Il nastro proseguì:
«È una cosa sola che le striscia addosso?»
«Non lo so.»
«O sono più cose?»
«Non lo so.»
«Che aspetto ha?»
«E… orribile… disgustosa.»
«Perché questa cosa vuole entrare dentro di lei?»
«Non lo so.»
«E prova sempre questa sensazione dopo un sogno?»
«Sì. Per un minuto o due.»
«Oltre alla sensazione di qualcosa che striscia, avverte qualcos’altro?»
«Sì. Ma non è una sensazione, è un rumore.»
«Che tipo di rumore?»
«Sussurri.»
«Vuol dire che si sveglia e immagina di sentire persone che bisbigliano?»
«Esatto. Sussurrano, sussurrano, sussurrano. Tutt’attorno.»
«Chi sono queste persone?»
«Non lo so.»
«Che cosa sussurrano?»
«Non lo so.»
«Ha l’impressione che cerchino di dirle qualcosa?»
«Sì. Ma non riesco a capire.»
«Non ha una teoria, una supposizione? Non può cercare di indovinare?»
«Non distinguo le parole, ma so che dicono cose cattive.»
«Cose cattive? In che senso?»
«Mi minacciano, mi odiano.»
«Sussurri di minaccia.»
«Sì.»
«Quanto tempo durano?»
«Più o meno come quelle cose… striscianti.»
«Circa un minuto?»
«Sì. Le sembro pazzo?»
«Per niente.»
«Coraggio, sembro un po’ matto.»
«Mi creda, Mr Frye, ho udito storie molto più strane della sua.»
«Continuo a ripetermi che, se sapessi quello che dicono quei sussurri e se capissi che cosa mi striscia addosso, riuscirei a ricordare anche il sogno e forse non lo farei più.»
«E proprio questo il modo per affrontare il problema.»
«È in grado di aiutarmi?»
«Be’, dipende soprattutto da quanto lei vuole aiutare se stesso.»
«Oh, io voglio sconfiggere questa cosa, davvero.»
«Allora probabilmente ce la farà.»
«Ormai mi perseguita da anni, ma non mi sono ancora abituato. Ho paura ad andare a letto. Ogni sera, ho tanta paura.»
«Si è mai sottoposto a una terapia prima d’ora?»
«No.»
«Perché no?»
«Avevo paura.»
«Di che cosa?»
«Di quello… che lei avrebbe potuto scoprire.»
«E perché dovrebbe avere paura?»
«Potrebbe esserci qualcosa… di imbarazzante.»
«Non c’è niente che mi imbarazza.»
«Potrebbe imbarazzare me stesso.»
«Non si preoccupi. Sono il suo medico. Sono qui per ascoltarla e aiutarla. Se lei…»
Il dottor Rudge tolse la cassetta dal registratore e spiegò: «Incubo ricorrente. Non è niente di insolito. Ma un incubo seguito da allucinazioni tattili e uditive, be’, non è molto frequente.»
«Ma nonostante tutto,» sbottò Joshua, «non ha ritenuto che fosse pericoloso.»
«Oh, cielo, no,» esclamò Rudge. «Era semplicemente spaventato per un incubo ed era più che logico. E il fatto che alcune sensazioni legate al sogno perdurassero anche da sveglio, significava che quell’incubo rappresentava probabilmente una terribile esperienza rimossa e sepolta nel suo subconscio. Ma gli incubi sono normalmente un modo salutare di scaricare la tensione a livello psicologico. Non presentava segni di psicosi. Non sembrava confondere il sogno con la realtà. Quando ne parlava, tracciava una linea ben distinta. Nella sua mente era presente una netta distinzione fra l’incubo e il mondo reale.»
Tony si sporse in avanti. «Non avrebbe potuto essere meno sicuro di quanto volesse dare a vedere?»
«Vuole dire… se può avermi ingannato?»
«Che ne pensa lei?»
Rudge annuì. «La psicologia non è una scienza esatta e la psichiatria lo è ancor meno. Sì, avrebbe potuto ingannarmi, soprattutto perché lo vedevo solo una volta al mese e non ero in grado di notare i cambi di umore e di personalità che sarebbero balzati all’occhio se l’avessi visto con frequenza settimanale.»
«Alla luce di quanto Joshua le ha detto poco fa,» continuò Hilary, «ha l’impressione di essere stato ingannato?»
Rudge sorrise con aria sorniona. «Sembrerebbe proprio di sì, non è vero?»
Prese una seconda cassetta relativa a un’altra conversazione fra lui e Frye e la fece scivolare nel registratore.
«Non mi ha mai parlato di sua madre.»
«Che cosa vuole sapere?»
«Quello che ha da dire.»
«Fa un sacco di domande, vero?»
«Con alcuni pazienti, non è necessario chiedere nulla. Si siedono e iniziano a parlare.»
«Ah sì? E di che cosa parlano?»
«Molto spesso parlano della madre.»
«Dev’essere noioso per lei.»
«Solo raramente. Mi racconti di sua madre.»
«Si chiamava Katherine.»
«E?»
«Non ho nulla da dire su di lei.»
«Tutti hanno qualcosa da dire sulla propria madre… e sul proprio padre.»
Per quasi un minuto, regnò il silenzio più totale. Il nastro continuava a girare, producendo solo un sibilo.
«Stavo aspettando,» spiegò Rudge, interpretando il silenzio. «Fra un attimo riprenderà a parlare.»
«Dottor Rudge?»
«Sì?»
«Crede…?»
«Che cosa?»
«Crede che i morti rimangano morti?»
«Mi sta chiedendo se sono religioso?»
«No. Voglio dire… crede che una persona possa morire… e poi ritornare dalla tomba?»
«Come un fantasma?»
«Sì. Lei crede nei fantasmi?»
«E lei?»
«L’ho chiesto prima io.»
«No. Non credo nei fantasmi, Bruno. E lei?»
«Non ho ancora deciso.»
«Ha mai visto un fantasma?»
«Non ne sono sicuro.»
«Che cosa c’entra con sua madre?»
«Mi ha detto che sarebbe… ritornata dalla tomba.»
«Quando gliel’ha detto?»
«Oh, migliaia di volte. Lo ripeteva sempre. Diceva di sapere come si faceva. Diceva che avrebbe vegliato su di me anche da morta. Diceva che se non mi fossi comportato bene e se non fossi vissuto come voleva lei, sarebbe tornata e me l’avrebbe fatta pagare.»
«E lei le credeva?»
«…»
«E lei le credeva?»
«…»
«Bruno?»
«Cambiamo discorso.»
«Cristo!» esclamò Tony. «Ecco da dove è nata l’idea che Katherine potesse tornare. Quella donna gli ha inculcato quella paura prima di morire!»
Joshua si rivolse a Rudge: «In nome del cielo, che cosa stava cercando di fare? Che tipo di relazione avevano quei due?»
«Era il nocciolo del problema,» rispose Rudge, «ma non siamo mai riusciti a chiarirlo. Ogni volta speravo che decidesse di parlarne, ma si rifiutava sempre e alla fine è morto.»
«Avete ripreso a discutere di fantasmi anche in altre sedute?» chiese Hilary.
«Sì,» proseguì il dottore. «La volta successiva è stato lui stesso a introdurre l’argomento. Diceva che i morti rimangono morti e che solo i bambini e i pazzi la pensano diversamente. Sosteneva che non esistono fantasmi o zombie. Voleva che sapessi che non aveva mai creduto alle parole di Katherine riguardo a un suo eventuale ritorno.»
«Ma mentiva,» intervenne Hilary, «in realtà le credeva.»
«Apparentemente sì,» convenne Rudge. Inserì la terza cassetta nel registratore.
«Dottore, di che religione è?»
«Sono stato cresciuto come cattolico.»
«Ed è ancora credente?»
«Sì.»
«Va in chiesa?»
«Sì. E lei?»
«No. Va a messa tutte le settimane?»
«Quasi tutte le settimane.»
«Crede nel paradiso?»
«Sì. E lei?»
«Sì. E all’inferno?»
«Lei che cosa ne pensa, Bruno?»
«Be’, se esiste il paradiso, deve esistere anche l’inferno.»
«C’è gente che sostiene che l’inferno è sulla terra.»
«No. C’è un altro posto con il fuoco e tutto il resto. E se esistono gli angeli…»
«Sì?»
«Devono esistere anche i demoni. Lo dice la Bibbia.»
«Si può essere un buon cristiano senza prendere la Bibbia alla lettera.»
«Sa riconoscere i marchi del demonio?»
«Marchi?»
«Sì. Quando qualcuno fa un patto con il diavolo, questo gli lascia un marchio. Oppure se s’impadronisce di loro per qualsiasi motivo, li marchia come si fa con il bestiame.»
«Crede davvero che si possa stringere un patto con il diavolo?»
«Eh? Oh no. No, sono sciocchezze. Stupidaggini. Ma c’è gente che ci crede. E sono in tanti. Li trovo interessanti. La loro psicologia mi affascina. Ho letto molti libri sull’occulto per cercare di capire che tipo di persona può credere a queste cose. Vede, vorrei capire come ragionano.»
«Stava parlando dei marchi che il demonio lascia sulle persone.»
«Sì. Ho letto qualcosa proprio recentemente. Niente di importante.»
«Mi racconti.»
«Be’, vede, pare che nell’inferno ci siano centinaia e centinaia di demoni. Forse addirittura migliaia. E ognuno di loro possiede un proprio marchio che contraddistingue le anime delle persone che gli appartengono. Per esempio, nel Medio Evo erano convinti che una voglia di fragola fosse un segno del demonio. Oppure gli occhi strabici. O un terzo seno. C’è gente che nasce con tre seni e non è neppure tanto raro. Secondo alcuni, anche quello è un segno del demonio. O il numero 666, che apparterrebbe al capo di tutti i demoni: Satana. I suoi seguaci hanno il numero 666 stampato sulla pelle, sotto i capelli, dove non può essere visto. Cioè, questo è quanto sostengono i Veri Credenti. E poi i gemelli… anche in questo caso c’è lo zampino del diavolo.»
«I gemelli sono opera del diavolo?»
«Vorrei si rendesse conto che non credo a nulla del genere. Davvero. Sono stronzate. Le sto solo riferendo quello che affermano alcuni pazzoidi.»
«Capisco.»
«Se la sto annoiando…»
«No. Anch’io lo trovo molto interessante.»
Rudge spense il registratore. «Una cosa prima di continuare. Lo incoraggiavo a parlare dell’occulto perché pensavo fosse solo un esercizio mentale utile per fargli affrontare più serenamente il suo problema. Mi spiace dover ammettere che gli credevo quando affermava che, secondo lui, erano tutte sciocchezze. »
«Invece quella questione gli stava molto a cuore,» disse Hilary.
«Così pare. Ma allora pensavo che si stesse solo preparando per affrontare il suo vero problema. Se fosse riuscito a spiegare l’apparentemente illogico processo mentale di determinate persone, come gli occultisti più sfegatati, forse sarebbe stato anche in grado di accettare il lato irrazionale presente in lui. Se avesse giustificato l’occulto, a maggior ragione avrebbe accettato quel sogno che non riusciva a ricordare. E quello che io pensavo stesse facendo. Ma mi sbagliavo. Maledizione! Se solo fosse venuto qui un po’ più spesso.»
Rudge fece ripartire il registratore.
«Ha detto che i gemelli sono opera del diavolo.»
«Sì, ma ovviamente non tutti i gemelli. Solo alcuni.»
«Per esempio?»
«I gemelli siamesi. C’è gente che pensa sia un marchio del demonio.»
«Sì. Ho sentito parlare di questa superstizione.»
«E a volte due gemelli identici nascono entrambi con la testa coperta dalla membrana amniotica. E raro, può capitare a uno dei due, ma è molto difficile che entrambi nascano così. Quando accade, si può quasi essere sicuri che quei gemelli sono frutto del demonio. Almeno, così dice la gente.»
Rudge tolse la cassetta. «Non sono sicuro che questo abbia a che vedere con quello che è capitato a voi. Ma dal momento che pare esistere un sosia di Frye, ho pensato che la faccenda dei gemelli potesse essere interessante.»
Joshua lanciò un’occhiata a Tony e poi a Hilary. «Ma se Mary Gunther ha avuto due gemelli, perché Katherine ne ha portato a casa solo uno? Perché avrebbe dovuto mentire negando che i bambini erano due? Non ha senso.»
«Non lo so,» obiettò Tony, «vi ho già detto che secondo me questa teoria è troppo semplice.»
Hilary chiese: «È stato trovato il certificato di nascita di Bruno?»
«Non ancora,» rispose Joshua. «Nelle cassette di sicurezza non ce n’erano.»
Rudge afferrò l’ultima delle quattro cassette tenute da parte. «Questa si riferisce all’ultima seduta con Frye, tre settimane fa. Alla fine accettò di farsi ipnotizzare per cercare di ricordare quel sogno. Ma era strano. Mi fece promettere di limitare al minimo le domande. Avrei potuto rivolgergli solo domande relative al sogno. Nel pezzo che state per ascoltare, Bruno era già in trance. L’ho fatto ritornare indietro nel tempo, fermandomi alla notte precedente la seduta. Volevo che rivivesse nuovamente quel sogno.»
«Che cosa vede, Bruno?»
«Mia madre. E ci sono anch’io.»
«Continui.»
«Mi sta trascinando.»
«Dove siete?»
«Non lo so. Ma sono piccolo.»
«Piccolo?»
«Un ragazzino.»
«E sua madre la sta costringendo ad andare da qualche parte?»
«Sì. Mi tira per un braccio.»
«Dove la trascina?»
«Verso… la… la porta. La porta. Non fargliela aprire. No. No!»
«Si calmi. Adesso si calmi. Mi racconti di questa porta. Dove conduce?»
«All’inferno.»
«Come fa a saperlo?»
«È per terra.»
«La porta è per terra?»
«Per l’amor del cielo, non fargliela aprire! Non lasciare che mi mandi di nuovo laggiù! No! No! Non voglio finire di nuovo laggiù!»
«Si rilassi. Si calmi. Non deve avere paura. Si rilassi, Bruno, si rilassi. Si è calmato?»
«Sì.»
«Va bene. Lentamente, con calma e senza paura, mi racconti che cosa succede poi. Lei e sua madre siete davanti a una porta per terra. Che cosa succede poi?»
«Lei… lei… apre la porta.»
«Vada avanti.»
«Mi spinge.»
«Continui.»
«Mi spinge… oltre la porta. »
«Vada avanti, Bruno.»
«La chiude… a chiave.»
«La chiude dentro?»
«Sì.»
«E com’è lì dentro?»
«Buio.»
«E poi?»
«Solo buio. Nero.»
«Ma riesce a vedere qualcosa?»
«No. Niente.»
«E poi che cosa succede?»
«Cerco di uscire.»
«E?»
«La porta è troppo pesante, troppo robusta.»
«Bruno, è davvero solo un sogno?»
«…»
«È davvero solo un sogno, Bruno?»
«E quello che sogno.»
«Ma è anche un ricordo?»
«…»
«Sua madre la chiudeva davvero in una stanza buia quando era piccolo?»
«S-sì.»
«In cantina?»
«Nella terra. In quella stanza nella terra.»
«E ogni quanto lo faceva?»
«Sempre.»
«Una volta la settimana?»
«Di più.»
«Era una punizione?»
«Sì.»
«Per che cosa?»
«Perché… non mi comportavo… e non pensavo… come uno solo.»
«Che cosa vuol dire?»
«Era il castigo per non essere uno solo.»
«In che senso uno solo?»
«Uno. Uno. Solo uno. Tutto qui. Solo uno.»
«Va bene. Ne riparleremo dopo. Ora andiamo avanti e vediamo che cosa succede. E chiuso in quella stanza. Non può uscire. E poi che cosa accade, Bruno?»
«Ho p-paura.»
«No. Non ha paura. E molto calmo, rilassato, non ha per niente paura. Non è vero? Non si sente calmo?»
«Io… credo di sì.»
«Okay. Che cosa succede quando cerca di aprire la porta?»
«Non ci riesco. Allora rimango sul primo gradino e guardo in giù, verso il buio.»
«Ci sono dei gradini?»
«Sì.»
«E dove conducono?»
«All’inferno.»
«E lei va giù?»
«No! Io… resto lì. E… ascolto.»
«Che cosa sente?»
«Voci.»
«Che cosa dicono?»
«Sono solo… sussurri. Non riesco a decifrarli. Ma si stanno… avvicinando… si fanno più forti. Si stanno avvicinando. Stanno salendo i gradini. E ora sono fortissimi!»
«Che cosa dicono?»
«Sussurri. Dappertutto.»
«Che cosa dicono?»
’’Niente. Non dicono niente.»
«Ascolti attentamente.»
«Non parlano con le parole.»
«Chi sono? Chi sta sussurrando?»
«Oh, Gesù! Ascolta! Gesù!»
«Chi sono?»
«Non sono persone. No! No! Non sono persone!»
«Non sono persone quelle che stanno sussurrando?»
«Via! Falli andare via!»
«Perché si sta agitando?»
«Mi sono tutti addosso!»
«Non ha niente addosso.»
«Sono dappertutto!»
«Non si alzi, Bruno. Aspetti…»
«Oh, mio Dio!»
«Bruno, si distenda sul divano.»
«Gesù! Gesù! Gesù! Gesù!»
«Le ordino di sdraiarsi sul divano!»
«Gesù, aiutami! Aiutami!»
«Mi ascolti, Bruno. Lei…»
«Falli andare via! Falli andare via!»
«Bruno, va tutto bene. Si rilassi. Stanno andando via.»
«No! Ce ne sono ancora di più! Ah! Ah! No!»
«Stanno andando via. I sussurri si fanno più deboli, più lontani. Stanno…»
«Più forti! Sono ancora più forti! Un ruggito di sussurri!»
«Si calmi. Si distenda e…»
«Si stanno infilando nel naso! Oh, Gesù! In bocca!»
«Bruno!»
Dal nastro uscì uno strano suono strozzato che si diffuse nella stanza.
Hilary si strinse le braccia attorno alle spalle. Lo studio le parve improvvisamente gelido.
Rudge spiegò: «E saltato giù dal divano ed è corso verso quell’angolo. Si è rannicchiato per terra coprendosi il viso con le mani.»
Dal registratore continuava a uscire quello strano suono ansimante e tremante.
«Ma l’ha fatto uscire dal trance,» disse Tony.
Rudge era pallido in volto. «All’inizio pensavo che sarebbe rimasto lì, nel suo sogno. Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Sono molto bravo con la terapia ipnotica. Davvero. Ma temevo di averlo perso. C’è voluto un po’ di tempo ma alla fine ha cominciato a riprendersi.»
Il registratore continuava a diffondere mugolii e lamenti.
«Quello che sentite,» proseguì Rudge, «è Frye che grida. Era talmente spaventato da avere la gola bloccata. Il terrore gli ha paralizzato la voce. Stava cercando di urlare ma la voce non gli usciva.»
Joshua si alzò e spense il registratore con mano tremante. «Crede che sua madre lo chiudesse davvero in una stanza buia?»
«Sì,» rispose Rudge.
«E che in quella stanza ci fosse qualcos’altro?»
«Sì.»
«Qualcosa che produceva quei sussurri.»
«Sì.»
Joshua si passò una mano fra i folti capelli bianchi. «Ma, per l’amor del cielo, che cosa poteva essere, che cosa c’era in quella stanza?»
«Non lo so,» sospirò Rudge. «Speravo di scoprirlo in un’altra seduta. Ma quella fu l’ultima volta che lo vidi.»
A bordo del Cessna Skylane di Joshua, mentre si dirigevano verso Hollister, Tony disse: «Comincio a considerare questa faccenda in modo diverso.»
«E cioè?» domandò Joshua.
«Be’, all’inizio era tutto molto semplice: Hilary era la vittima e Frye il cattivo di turno. Ma ora… in un certo senso, forse anche Frye era una vittima.»
«Capisco che cosa vuoi dire,» intervenne Hilary. «Ascoltando quei nastri… be’, mi spiace davvero per lui.»
«È giusto dispiacersi per lui,» ribattè Joshua, «ma non dimentichiamo che è maledettamente pericoloso.»
«Ma non è morto?»
«Voi che cosa ne dite?»
Hilary aveva ambientato due scene di un suo precedente film a Hollister, quindi conosceva abbastanza bene il posto.
Apparentemente, Hollister assomigliava a centinaia di altre cittadine della California. C’erano strade deliziose e quartieri orribili. Case nuove e case vecchie. Palme e querce. Cespugli di oleandri. Era una delle zone più aride del paese e quindi sempre invasa dalla polvere, che si faceva particolarmente evidente quando iniziava a soffiare il vento.
Ciò che rendeva Hollister diversa dalle altre città era la terra su cui poggiava. Un’insieme di faglie. Molte località californiane erano costruite nei pressi di faglie geologiche che ogni tanto si agitavano dando origine a un terremoto. Ma Hollister non era appoggiata semplicemente su una di queste, bensì su una rara confluenza di oltre una decina di faglie, inclusa quella di Sant’Andrea.
Hollister era una città in perenne movimento: si registrava almeno un terremoto al giorno. Naturalmente, la maggior parte delle scosse telluriche erano dei gradini più bassi della scala Richter e la città non era mai stata rasa al suolo. Ma i marciapiedi erano pieni di pietre e fessure. Una strada poteva sprofondare il lunedì per rialzarsi il martedì e cedere definitivamente il mercoledì. Ogni tanto si registrava una serie di scosse di bassa entità che andava avanti per un paio d’ore, con qualche breve interruzione: ma ormai gli abitanti della zona non ci facevano più caso, come gli abitanti delle zone sciistiche e montane non prestano più attenzione alle bufere che al massimo possono portare qualche centimetro di neve. Nel corso dei decenni, naturalmente, il percorso di alcune strade di Hollister era stato modificato dalla terra in perenne movimento; i viali che una volta erano diritti avevano finito per avere qualche curva o, in alcuni casi, persino i tornanti. Nei negozi gli scaffali erano inclinati verso il muro oppure provvisti di speciali supporti per evitare che bottiglie e lattine cadessero a terra alla minima scossa tellurica. C’era gente che abitava in case che sprofondavano gradualmente nel terreno instabile, ma il processo era talmente lento da non creare allarmismi o paure, né tanto meno il desiderio di trovarsi un’altra sistemazione. Gli abitanti riparavano le crepe nei muri, abbassavano il livello delle porte e cercavano di aggiustare tutto alla bell’e meglio. Ogni tanto qualcuno decideva di aggiungere un locale alla propria casa, senza accorgersi che l’edificio poggiava su un lato della faglia e la nuova stanza su quello opposto. Con il passare del tempo il locale si sarebbe mosso con caparbia determinazione, verso nord, sud, est od ovest, in un lento ma inesorabile processo che si sarebbe concluso con il definitivo allontanamento dalla casa principale. Le fondamenta di alcuni edifici contenevano buchi di scolo e pozzi profondissimi; questi pozzi si allargavano senza tregua sotto il livello delle case e un giorno le avrebbero inghiottite, ma nel frattempo gli abitanti di Hollister conducevano una vita assolutamente normale. Molta gente sarebbe terrorizzata all’idea di vivere in una città dove, a detta degli stessi residenti, si poteva «andare a letto la sera ad ascoltare la terra che sussurrava fra sé e sé». Ma ormai da generazioni e generazioni, gli abitanti di Hollister affrontavano la vita con spirito ottimista, a volte difficile da conservare.
Era l’apice dell’ottimismo californiano.
Rita Yancy abitava in una casetta ad angolo con un enorme portico, in una strada tranquilla. Lungo il vialetto d’ingresso erano stati piantati fiori bianchi e gialli.
Joshua suonò il campanello. Hilary e Tony rimasero alle sue spalle.
Venne ad aprire una signora anziana, con i capelli grigi raccolti in uno chignon. Aveva il viso pieno di rughe e gli occhi azzurri limpidi e vivaci. Il sorriso era accattivante. Indossava un vestito da casa blu, uri grembiule bianco e un paio di scarpe decisamente fuori moda. Si asciugò le mani in uno strofinaccio e disse: «Sì?»
«Mrs Yancy?» domandò Joshua.
«Sono io.»
«Mi chiamo Joshua Rhinehart.»
La donna annuì. «Immaginavo che sarebbe venuto.»
«Devo assolutamente parlarle.»
«Mi sembra la classica persona che non si arrende facilmente. Anzi, che non si arrende mai.»
«Sarei disposto a dormire qui fuori sotto il portico pur di ottenere quello per cui sono venuto.»
Lei sospirò. «Non sarà necessario. Dopo la sua telefonata di ieri, ho riflettuto molto sull’intera faccenda e sono giunta alla conclusione che lei non può farmi nulla. Proprio niente. Ho settantacinque anni e non credo che sbattano in galera gente della mia età. Quindi posso anche raccontarle come stanno le cose ed evitare così che lei continui a perseguitarmi.»
Indietreggiò di un passo, spalancò la porta e li fece entrare.
Nell’attico della casa in cima alla collina, Bruno si svegliò urlando.
La stanza era buia. Le pile della torcia si erano scaricate completamente mentre dormiva.
Sussurri.
Dappertutto.
Sussurri appena accennati, sibilanti e cattivi.
Bruno cominciò a colpirsi il volto, il collo, il torace e le braccia nel tentativo di scacciare quelle cose disgustose che gli strisciavano addosso, e cadde dal letto. Sul pavimento sembravano esserci ancora più cose striscianti e sibilanti che sul letto: ce n’erano a migliaia e producevano quei terribili sussurri. Gemette e farfugliò parole senza senso, poi si mise una mano sul naso e sulla bocca per evitare che quelle cose disgustose si infilassero dentro di lui.
Luce.
Fili di luce.
Sottili fasci di luce fosforescente risaltavano sulla tappezzeria peraltro cupa della stanza. Non era una gran luce, ma era pur sempre meglio di niente.
Si precipitò verso quei deboli bagliori, allontanando quelle cose da sé, e si ritrovò davanti alla finestra. Era chiusa dalle imposte e la luce filtrava attraverso le sottili fessure. Con mani tremanti, Bruno cercò a tastoni la maniglia della finestra. Finalmente la trovò, ma non riuscì a muoverla: era bloccata.
Urlando e contorcendosi, tornò goffamente verso il letto, lo tastò e trovò la torcia che aveva appoggiato sul comodino. Si fece strada di nuovo verso la finestra e fracassò il vetro, usando la torcia come una mazza. Riuscì a individuare il gancio che teneva chiuse le imposte, vi infilò dentro una mano, armeggiò per un attimo con la parte arrugginita e finalmente riuscì ad aprire le persiane, scoppiando a piangere dalla gioia quando la luce inondò la stanza.
I sussurri svanirono.
Il salotto-buono di Rita Yancy, così come lo chiamava lei, rifuggendo da qualsiasi termine più moderno, era lo stereotipo del soggiorno nel quale le dolci, care vecchiette del suo stampo erano solite trascorrere gli anni del tramonto. Tendaggi in cinz. Pareti colme di quadri e quadretti con ricami fatti a mano e proverbi e poesiole circondati da minuscoli fiorellini: la perfetta immagine della buona volontà, del buonumore e del pessimo gusto. Tende guarnite di nappine. Sedie con lo schienale alto. Copie del Reader’s Digest sparpagliate sul tavolino. Un cesto pieno di ferri e gomitoli. Un tappeto a fiori protetto da passatoie in tinta. Coperte lavorate a mano gettate sul divano. Un pendolo che ticchettava lontano.
Hilary e Tony si sedettero sul bordo del divano, quasi temessero di rovinare la coperta amorevolmente tessuta. Hilary notò che le innumerevoli cianfrusaglie e i soprammobili erano perfettamente lucidi, senza tracce di polvere. Aveva l’impressione che Rita Yancy sarebbe scattata a prendere uno straccio se solo qualcuno avesse sfiorato uno di quegli oggetti a lei tanto cari.
Joshua si accomodò sulla poltrona, appoggiando la testa e le braccia sul coprischienale.
Mrs Yancy si sistemò in quella che ovviamente era la sua sedia preferita: ormai sembrava che quell’oggetto le avesse trasmesso parte della sua personalità, ricevendo in cambio qualcosa da lei. Hilary si ritrovò a pensare a Mrs Yancy e a quella sedia che si trasformavano lentamente in un’unica creatura, organico-inorganica, con sei gambe e la pelle vellutata.
La donna prese una coperta blu e verde da uno sgabello e se l’avvolse intorno alle gambe.
Ci fu un attimo di assoluto silenzio durante il quale persino il pendolo parve bloccarsi, come se il tempo stesso si fosse fermato, come se fossero stati tutti congelati e trasportati insieme con la stanza su un pianeta lontano, per essere esposti nel locale museo di Antropologia Terrestre.
Fu Rita Yancy a rompere il silenzio e le sue parole distrussero l’immagine idilliaca che Hilary si era fatta di lei. «Bene, direi che è proprio inutile continuare a menare il can per l’aia. Non voglio perdere tutta la giornata per una faccenda così stupida. Vediamo di arrivare al punto. Volete sapere perché Bruno Frye mi dava cinquecento dollari al mese. Era il prezzo del silenzio. Mi pagava perché tenessi la bocca chiusa. Sua madre mi aveva pagato la stessa cifra ogni mese per quasi trentacinque anni e, alla sua morte, Bruno aveva iniziato a mandarmi gli assegni. Devo ammettere che mi ha lasciato di stucco. Al giorno d’oggi non è facile trovare un figlio disposto a pagare tutto quel denaro per proteggere la reputazione della madre, soprattutto dopo che questa ha tirato le cuoia. Ma lui ha pagato.»
«Sta forse dicendo che ricattava Mr Frye e sua madre prima di lui?» domandò Tony, incredulo.
«Chiamatelo come vi pare. Prezzo del silenzio, ricatto o come più vi piace.»
«A giudicare da quanto ci ha detto,» proseguì Tony, «credo che per la legge si tratti di ricatto bell’e buono.»
Rita Yancy gli sorrise. «E crede che quella parola mi preoccupi? Crede che mi faccia paura? Che mi faccia tremare tutta? Figliolo, lasci che le dica una cosa: in vita mia mi hanno accusato di cose ben peggiori. Vuole che usiamo la parola ricatto? Va bene, per me non ci sono problemi. Ricatto. Ecco fatto. Comunque la cosa non cambia. Ma ovviamente, se fosse così stupido da trascinare una povera, vecchia signora in tribunale, non userei più quella parola. Direi semplicemente che molti anni fa feci un grande favore a Katherine Frye e che lei insistette per ripagarmi con un assegno mensile. In fin dei conti non avete prove, no? E per questo che ho deciso di farmi pagare mensilmente. Voglio dire, in genere i ricattatori si fanno consegnare una grossa somma e poi scappano; ma in questo modo è molto facile rintracciarli. Chi sospetta invece di un ricattatore che accetta un modesto assegno mensile, quasi fosse un pagamento a rate?»
«Non abbiamo alcuna intenzione di portarla in tribunale,» la rassicurò Joshua. «E non abbiamo il benché minimo interesse nel cercare di recuperare i soldi che le sono stati versati. Ci rendiamo conto che sarebbe inutile.»
«Bene,» disse Mrs Yancy. «Perché se solo ci provaste, lotterei con tutte le mie forze.»
Raddrizzò la coperta.
Devo ricordarmi questa donna, nei minimi dettagli, pensò Hilary. Un giorno potrebbe diventare il personaggio di un grande film: la nonnina acida, corrotta e un po’ decadente.
«Vogliamo solo qualche informazione,» proseguì Joshua. «Abbiamo un problema con l’eredità che sta bloccando l’esecuzione del testamento. Ho bisogno di chiarire alcune questioni per poter procedere alla liquidazione finale. Ha detto che non vuole perdere tutta la giornata per una faccenda così stupida. Bene, io non voglio perdere mesi con l’eredità Frye. L’unico motivo per cui sono qui è che ho bisogno di qualche informazione per sistemare definitivamente questa mia stupida faccenda.»
Mrs Yancy fìsso con durezza Joshua, Hilary e Tony. Aveva lo sguardo tagliente e indagatore. Alla fine annuì con aria soddisfatta, come se avesse letto nelle loro menti e avesse approvato ciò che vi era scritto. «Penso di potervi credere. D’accordo. Sparate le domande.»
«Ovviamente,» cominciò Joshua, «per prima cosa vorremmo sapere perché Katherine Frye e suo figlio le hanno pagato quasi duecentocinquantamila dollari negli ultimi quarant’anni.»
«Per poterlo capire,» rispose Mrs Yancy, «dovete conoscere un po’ del mio passato. Vedete, da ragazza, durante la Grande Depressione, mi guardavo continuamente in giro alla ricerca di un lavoro che mi permettesse di sbarcare il lunario, ma mi rendevo conto che qualsiasi cosa avessi fatto, la mia vita sarebbe stata una miseria. Con qualsiasi lavoro a eccezione di uno. Capii che l’unico lavoro in grado di offrirmi un certo benessere era la professione più antica del mondo. A diciott’anni diventai una prostituta. Ai miei tempi le donne come me venivano chiamate ’di facili costumi’. Oggigiorno non sono necessari mezzi termini. Potete usare tutte le parolacce che volete.» Scostò dal viso un ciuffo di capelli grigi sfuggito dallo chignon e se lo infilò dietro l’orecchio. «Per quanto riguarda il sesso, il vecchio stuzzica-e-colpisci, come lo chiamavano ai miei tempi, è sorprendente vedere come sono cambiate le cose con il passare degli anni.»
«Vuol dire che lei era davvero… una prostituta?» chiese Tony, dando voce alla sorpresa di Hilary.
«Ero una ragazza incredibilmente bella,» rispose Mrs Yancy, piena di orgoglio. «Non ho mai lavorato per strada, nei bar, negli alberghi o in posti del genere. Lavoravo in una delle più belle ed eleganti case di San Francisco. Ci rivolgevamo esclusivamente a gente di classe, uomini della miglior specie. Non c’erano mai meno di dieci ragazze e a volte arrivavamo fino a quindici, ma ognuna di noi era incredibilmente raffinata e affascinante. Guadagnavo un mucchio di soldi, proprio come mi aspettavo, ma all’età di ventiquattro anni mi resi conto che avrei potuto guadagnare molto di più mettendomi in proprio invece di continuare a lavorare per gli altri. Così trovai una casa molto lussuosa e spesi tutti i miei risparmi per risistemarla. Poi organizzai una scuderia di ragazze deliziose e ben educate. Per trentasei anni, ho lavorato come madame, gestendo una casa davvero di classe. Mi sono ritirata dagli affari quindici anni fa, all’età di sessant’anni, perché volevo venire ad abitare qui a Hollister, vicino a mia figlia e a suo marito; sapete, volevo veder crescere i miei nipotini. I nipoti rendono la vecchiaia decisamente più piacevole di quanto mi aspettassi.»
Hilary si appoggiò sul divano, senza più preoccuparsi di stropicciare le coperte.
Joshua esclamò: «E tutto molto affascinante, ma che cos’ha a che fare con Katherine Frye?»
«Suo padre veniva regolarmente da me a San Francisco,» spiegò Rita Yancy.
«Leo Frye?»
«Sì. Un uomo molto strano. Non sono mai stata con lui. Non io personalmente. Dopo aver acquistato quella casa, difficilmente andavo a letto con i clienti; ero troppo occupata con l’organizzazione. Ma sentivo tutte le storie che raccontavano su di lui le mie ragazze. Sembrava un autentico bastardo di prima categoria. Amava le donne docili e obbedienti. Gli piaceva insultarle pesantemente mentre se le strapazzava. Era un tipo molto autoritario, non so se mi spiego. Amava fare cose piuttosto disgustose ed era disposto a pagare forti somme per avere il diritto di usare le mie ragazze. Comunque, nell’aprile del 1940, la figlia di Leo, Katherine, si presentò a casa mia. Non l’avevo mai conosciuta, non sapevo neppure che avesse una figlia. Ma lui le aveva raccontato di me. E l’aveva mandata da me in modo che potesse avere il bambino nella più assoluta segretezza.»
Joshua spalancò gli occhi. «Il bambino?»
«Era incinta.»
«Bruno era suo figlio?»
«E Mary Gunther?» domandò Hilary.
«Non è mai esistita alcuna Mary Gunther,» rispose la donna. «Era solo una copertura montata da Katherine e Leo.»
«Lo sapevo!» esclamò Tony. «Troppo semplice. Era dannatamente troppo semplice.»
«A St. Helena nessuno sapeva che era incinta,» proseguì Rita Yancy. «Indossava sempre parecchi busti. Non avete idea di come si conciasse quella povera ragazza. Era orribile. Da quando aveva saltato le mestruazioni, prima ancora che iniziasse a ingrossarsi, aveva cominciato a indossare panciere sempre più strette, poi era arrivata addirittura a metterne una sopra l’altra. E si lasciava praticamente morire di fame, nel tentativo di non mettere su peso. E un miracolo che non abbia abortito o che non sia morta lei stessa.»
«E lei l’ha accettata in casa?» chiese Tony.
«Non voglio certo fingere di averlo fatto per pura bontà d’animo,» disse Mrs Yancy. «Non sopporto le vecchiette oneste e rispettabili, come quelle che vedo quando vado al circolo della parrocchia per il bridge. Katherine non mi ha commosso o roba del genere. E non l’ho accolta perché sentivo di essere in dovere nei confronti di suo padre. Non gli dovevo proprio un bel niente. Con tutto quello che avevo sentito dire su di lui dalle mie ragazze, non mi piaceva neanche un po’. Ed era già morto da sei settimane quando è arrivata Katherine. L’ho accolta per un unico motivo ed è inutile raccontare storie. Aveva con sé tremila dollari per le spese di vitto, alloggio e per l’onorario del medico. A quell’epoca era decisamente una bella sommetta.»
Joshua scosse la testa. «Non riesco a capire. Aveva la fama di essere fredda e distaccata e sembrava che gli uomini non le interessassero. Nessuno ha mai sospettato che avesse un amante. Chi era il padre del nascituro?»
«Leo,» rispose Mrs Yancy.
«Oh, mio Dio,» mormorò Hilary.
«Ne è sicura?» domandò Joshua.
«Assolutamente,» proseguì la donna. «Si è divertito con la figlia fin da quando la piccola aveva quattro anni. Da bambina, la obbligava a praticare del sesso orale. Più tardi, quando è cresciuta, quell’uomo le ha fatto di tutto. Di tutto.
Bruno aveva sperato che un buon sonno potesse schiarirgli le idee ed eliminare la confusione e il senso di disorientamento che lo avevano perseguitato nel corso della notte e nelle prime ore del mattino. Ma, in piedi davanti alla finestra rotta, sotto i tiepidi raggi del sole di ottobre, non era più padrone di se stesso di quanto lo fosse stato sei ore prima. La mente era un turbinio di pensieri caotici, dubbi, domande e paure; ricordi piacevoli e orribili intrecciati come vermi; immagini mentali che si allungavano e si modificavano come pozze di mercurio.
Sapeva benissimo che cosa c’era che non andava. Era solo. Completamente solo. Era soltanto un uomo a metà. Strappato a metà. Ecco che cosa c’era che non andava. Da quando l’altra metà di sé era stata uccisa, si era sentito sempre più nervoso, sempre più insicuro. Non possedeva più le risorse di cui disponeva quando entrambe le parti erano in vita. E ora, mentre cercava di procedere a fatica come una persona a metà, si rese conto che non ce l’avrebbe fatta: persino il più insignificante dei problemi appariva insormontabile.
Si allontanò dalla finestra e barcollò fino al letto. Si inginocchiò accanto a esso e appoggiò la testa sul cadavere.
«Di’ qualcosa. Dimmi qualcosa. Aiutami a capire quello che devo fare. Ti prego. Ti prego, aiutami.»
Ma il Bruno morto non aveva nulla da dire a quello che era ancora vivo.
Il salotto-buono di Mrs Yancy. Il ticchettio dell’orologio.
Un gatto bianco attraversò il locale e balzò in grembo alla donna.
«Come fa a sapere che Leo molestava Katherine?» chiese Joshua. «Sicuramente non è stato lui a parlargliene.»
«Infatti non è stato lui,» rispose Mrs Yancy. «Ma l’ha fatto Katherine. Era in uno stato pietoso. Praticamente impazzita. Aveva sperato che suo padre la portasse da me quando fosse venuto il momento del parto, ma poi lui era morto. Si era ritrovata sola e terrorizzata. Con tutto quello che aveva fatto a se stessa, con le panciere e la dieta, il parto si presentava estremamente difficile. Chiamai il medico che si occupava dei controlli settimanali delle mie ragazze perché sapevo che sarebbe stato discreto e si sarebbe occupato del caso senza fare troppe domande. Era sicuro che il bambino sarebbe nato morto e anche Katherine aveva ben poche probabilità di sopravvivere. Il travaglio fu terribile e andò avanti per quattordici ore. Non ho mai visto nessuno sopportare il dolore come lei. Perlopiù delirava, ma, nei pochi momenti di lucidità, era talmente disperata da volermi raccontare ciò che suo padre le aveva fatto. Credo volesse sentirsi a posto con la coscienza, sembrava avesse paura di morire con quel segreto. Così mi trattò come se fossi stata un prete pronto ad accogliere la sua confessione. Suo padre l’aveva obbligata a soddisfarlo con del sesso orale subito dopo la morte della madre. Quando si trasferirono nella casa sulla collina, che immagino essere piuttosto isolata, lui decise di farla diventare la sua schiava del sesso. Quando Katherine raggiunse una certa età, il padre iniziò a prendere qualche precauzione, ma poi, con il passare del tempo, devono aver commesso un errore e lei si è ritrovata incinta.»
Hilary provò l’impulso di afferrare la coperta appoggiata sul divano e di stringersela addosso per eliminare i brividi che le attraversavano il corpo. Nonostante le botte, le intimidazioni a livello emotivo e la tortura fisica e psichica sofferte durante gli anni trascorsi con Earl ed Emma, sapeva di essere stata fortunata a sfuggire agli abusi sessuali. Era convinta che Earl fosse impotente; probabilmente era stata questa sua incapacità a salvarla dal degrado più bieco. Perlomeno le era stato risparmiato quell’atroce incubo. Katherine Frye, invece, aveva conosciuto una sorte ben peggiore e Hilary si sentì improvvisamente vicina a quella donna.
Tony sembrò avvertire ciò che le stava passando per la mente. Le prese la mano e gliela strinse nel tentativo di rassicurarla.
Mrs Yancy accarezzò il gatto che faceva le fusa, visibilmente soddisfatto.
«C’è una cosa che non capisco,» intervenne Joshua. «Perché Leo non ha mandato Katherine da lei appena ha saputo che stava per avere un bambino? Perché non le ha chiesto di organizzare un aborto per la figlia? Sicuramente lei sarebbe stata in grado di farlo.»
«Oh, certo,» rispose Mrs Yancy. «Con il mio lavoro era necessario conoscere medici in grado di sistemare cose del genere. Leo avrebbe potuto rivolgersi a me. Non so esattamente perché non l’abbia fatto, ma immagino che fosse perché sperava che Katherine avesse una bella bambina.»
«Non riesco a seguirla,» bofonchiò Joshua.
«Ma è ovvio!» sbottò Mrs Yancy continuando ad accarezzare il gatto sotto il mento. «Se avesse avuto una nipote, nel giro di pochi anni avrebbe iniziato ad approfittare anche di lei, esattamente come aveva fatto con Katherine. Ne avrebbe avute due. Un piccolo harem personale.»
Incapace di ottenere una risposta dal suo altro sé, Bruno si alzò e gironzolò distrattamente per l’enorme stanza, sollevando la polvere dal pavimento che roteò nel fascio di luce biancastra proveniente dalla finestra.
Alla fine notò un paio di manubri di circa venticinque chili ciascuno. Facevano parte del complicato set di pesi che aveva usato quotidianamente, sei giorni la settimana, dai dodici ai trentacinque anni. La maggior parte degli attrezzi, le sbarre, i manubri più pesanti e la panca, erano nel seminterrato. Ma aveva sempre tenuto in camera un paio di manubri da utilizzare per qualche esercizio con i bicipiti e i tricipiti e scacciare così la noia.
Raccolse i pesi e cominciò a lavorare. Le sue enormi spalle e le possenti braccia ritrovarono ben presto il ritmo a cui erano abituate e Bruno iniziò a sudare copiosamente.
Ventotto anni prima, quando aveva espresso per la prima volta il desiderio di praticare del body building, sua madre aveva pensato che fosse un’ottima idea. Gli estenuanti e violenti esercizi con i pesi l’avrebbero aiutato a bruciare l’energia sessuale che iniziava a crearsi in lui, negli anni della pubertà. Dal momento che non osava mostrare il suo pene diabolico a una ragazza, gli allenamenti l’avrebbero tenuto occupato e avrebbero eccitato la sua immaginazione come avrebbe potuto fare il sesso. Katherine aveva approvato la sua scelta.
Poi, quando aveva iniziato a sviluppare muscoli possenti e a trasformarsi in uno splendido atleta, Katherine aveva riflettuto sull’opportunità di farlo diventare tanto prestante. Nel timore che tale forza potesse ripercuotersi su di lei, aveva cercato di dissuaderlo dalla pratica del body building. Ma quando lui era scoppiato a piangere, pregandola di lasciarlo continuare, si era resa conto che non aveva nulla da temere.
Come aveva potuto pensare una cosa simile? si chiese Bruno sollevando i pesi fino alle spalle e poi abbassandoli lentamente. Non si era resa conto che sarebbe sempre stata comunque più forte di lui? Dopotutto, lei possedeva la chiave della porta sottoterra. Aveva il potere di aprire quella porta e di mandarlo in quella fossa scura. Nonostante la forza di bicipiti e tricipiti, lei sarebbe sempre stata più forte, fino a quando avesse avuto quella chiave.
Era stato proprio allora, mentre il suo corpo cominciava a svilupparsi, che lei gli aveva rivelato per la prima volta la sua capacità di ritornare dal regno dei morti. Voleva avvisarlo che, anche dopo morta, avrebbe continuato a vegliare su di lui e aveva giurato che sarebbe tornata per punirlo nel caso si fosse comportato male o non si fosse preoccupato di nascondere la sua eredità demoniaca alle altre persone. L’aveva avvertito migliaia di volte che se fosse stato cattivo e l’avesse costretta a ritornare dalla tomba, lei l’avrebbe gettato nel buco scavato nella terra chiudendolo li dentro per sempre.
Ma a quel punto, continuando con gli esercizi nell’attico polveroso, Bruno si chiese se le minacce di Katherine non fossero prive di senso. Possedeva davvero poteri soprannaturali? Era davvero in grado di tornare dalla tomba? O gli aveva semplicemente mentito? Forse lo aveva fatto perché aveva paura di lui? Aveva paura che diventasse forte e potesse spezzarle l’osso del collo? O forse la storia della tomba era un fragile tentativo di sopravvivere di fronte a lui, che stava diventando ogni giorno più forte e avrebbe potuto ucciderla, liberandosi per sempre di lei?
Queste domande gli affiorarono alla mente, ma non era in grado di soppesarle con sufficiente attenzione per trovare delle risposte adeguate. Questi pensieri scollegati gli fluttuavano come scariche di corrente nel cervello ormai in corto circuito. I dubbi svanivano appena affioravano alla coscienza.
Le paure che nascevano in lui, invece, non svanivano ma perduravano, vivaci e confuse, nei meandri oscuri della sua mente. Ripensò a Hilary-Katherine, l’ultima resurrezione, e si ricordò che doveva trovarla.
Prima che lei trovasse lui.
Iniziò a tremare.
Lasciò cadere un manubrio di colpo. Poi anche l’altro. Le assi del pavimento scricchiolarono.
«Quella puttana,» disse, pieno di rabbia e di paura.
Il gatto continuò a leccare la mano di Mrs Yancy mentre lei spiegava: «Leo e Katherine avevano inventato una storia complessa per spiegare l’esistenza del bambino. Non volevano ammettere che fosse di Katherine. In tal caso, avrebbero dovuto puntare il dito verso un responsabile, un giovane pretendente. Ma lei non aveva pretendenti. Il vecchio non voleva che nessuno la toccasse. Solo lui poteva farlo. Mi viene la pelle d’oca. Che razza di uomo può approfittare della sua stessa creatura? E quel bastardo aveva iniziato quando lei aveva soltanto quattro anni! Non aveva nemmeno l’età per capire quello che stava succedendo.» Mrs Yancy scosse il capo con rabbia mista a tristezza. «Come fa un adulto a eccitarsi con una bambina? Se fossi io a fare le leggi, gli uomini di quel genere dovrebbero essere castrati, o anche peggio. Anzi, decisamente peggio. E una cosa che mi disgusta.»
Joshua domandò: «Perché non hanno finto che Katherine fosse stata violentata da un contadino stagionale o da un forestiero? Non avrebbero dovuto mandare in galera un innocente per convalidare una storia del genere. Avrebbero potuto fornire alla polizia una descrizione completamente inventata. E anche nel caso in cui avessero trovato qualcuno che corrispondeva alla descrizione, un povero cristo senza un alibi… be’, Katherine avrebbe sempre potuto dire che non era stato lui. Non sarebbe stato necessario accusare ingiustamente qualcuno.»
«Esatto,» intervenne Tony. «La maggior parte dei casi di violenza non viene mai risolta. La polizia si sarebbe addirittura sorpresa se Katherine avesse identificato effettivamente qualcuno.»
«Comunque riesco a capire perché non volesse sostenere di essere stata violentata,» disse Hilary. «Avrebbe dovuto sopportare umiliazioni e situazioni imbarazzanti per il resto della sua vita. Molta gente crede che una donna venga violentata perché in realtà è quello che desidera.»
«Lo so benissimo,» ammise Joshua. «Continuo a ripetere che i miei simili sono idioti, stupidi e buffoni. Vi ricordate? Ma St. Helena è sempre stata una città piuttosto aperta. La gente non avrebbe biasimato Katherine per essere stata violentata. O almeno, la maggior parte non l’avrebbe fatto. Sicuramente avrebbe avuto a che fare con qualche individuo un po’ crudele e sarebbe potuta venire a trovarsi un po’ in imbarazzo, ma con il passare del tempo tutti le avrebbero dimostrato comprensione. E comunque sarebbe stato decisamente più semplice che inventare la storia di Mary Gunther e mantenere il segreto per il resto della vita.»
Il gatto si rigirò fra le braccia di Mrs Yancy che si mise ad accarezzargli la pancia.
«Leo non voleva che collegassero la gravidanza a un violentatore perché in tal caso sarebbero intervenuti gli sbirri,» spiegò Mrs Yancy. «Leo aveva un grande rispetto per i poliziotti. Era un tipo autoritario. Era convinto che gli sbirri fossero incredibilmente in gamba e temeva che potessero fiutare qualcosa di strano nell’eventuale storia di violenza subita da Katherine. Non voleva attirare l’attenzione su di sé, non certo un’attenzione di quel tipo. Aveva un terrore folle che gli sbirri scoprissero la verità. Non voleva rischiare di finire in galera per molestie a una bambina e incesto.»
«Gliel’ha detto Katherine?» domandò Hilary.
«Esatto. Come vi ho già spiegato, aveva vissuto per tutta la vita con la vergogna per gli abusi di Leo e quando capì che sarebbe potuta morire di parto, decise di raccontare a qualcuno quello che aveva passato. Leo sarebbe stato salvo se Katherine fosse riuscita a tenere nascosta la gravidanza, ingannando tutti a St. Helena. A quel punto avrebbero fatto passare il bambino come figlio illegittimo di una sfortunata amica di Katherine.»
«Così è stato suo padre a obbligarla a indossare le panciere,» mormorò Hilary, provando un’incredibile pena per Katherine Frye. «L’ha costretta a quella tortura per proteggere se stesso. E stata un’idea sua.»
«Sì,» rispose Mrs Yancy. «Non è mai riuscita ad avere la meglio su di lui. Ha sempre fatto tutto quello che le diceva. E anche quella volta, fu esattamente lo stesso. Accettò di mettersi tutti quei busti e di seguire quella dieta anche se soffriva le pene dell’inferno. Ma aveva troppa paura a disobbedirgli. E non c’è da stupirsi se consideriamo il fatto che per più di vent’anni ha abusato di lei.»
«Ma è andata al college,» disse Tony. «Non è stato un tentativo di ottenere una certa indipendenza?»
«No,» riprese Mrs Yancy. «Il college è stata un’idea di Leo. Nel 1937, trascorse sei o sette mesi in Europa per vendere i suoi ultimi possedimenti nel vecchio continente. Stava per scoppiare la seconda guerra mondiale e non voleva che rimanessero beni congelati laggiù. Non voleva nemmeno portare Katherine con sé. Immagino avesse intenzione di unire il lavoro al piacere. Aveva un incredibile appetito sessuale. E ho sentito dire che alcuni bordelli europei sono in grado di offrire le peggiori sconcerie, proprio del tipo che lo eccitavano. Quel vecchio porco. Katherine gli sarebbe stata d’impiccio. Così decise che sarebbe andata al college mentre lui era lontano e la spedì a San Francisco, presso una famiglia che conosceva. Avevano una società che distribuiva vino, birra e liquori nella zona della baia e commercializzavano anche i prodotti della Shade Tree.»
Joshua esclamò: «Ha corso un bel rischio, lasciandola sola per tanto tempo.»
«Lui non la pensava in questo modo,» proseguì Mrs Yancy. «E dimostrò di avere ragione. Nei mesi trascorsi senza di lui, Katherine non cercò mai di liberarsi dalla sua schiavitù. Non raccontò a nessuno quello che le faceva il padre. Non prese neppure in considerazione la possibilità di parlarne con qualcuno. Ormai era distrutta. Una schiava. Direi che questa è la parola giusta. Era un’autentica schiava. Una schiava a livello mentale ed emotivo. Quando Leo tornò dall’Europa, le fece abbandonare il college, la riportò con sé a St. Helena e lei non oppose resistenza. Non poteva opporre resistenza: non sapeva come fare.»
Il pendolo suonò le ore. Due tocchi cadenzati che riecheggiarono sommessamente nel salotto.
Joshua era seduto sul bordo della poltrona. Scivolò indietro e riappoggiò la testa sul coprischienàle. Era pallido e aveva le occhiaie. La folta chioma bianca si era appiattita e sembrava senza vita. Hilary ebbe l’impressione che fosse decisamente invecchiato rispetto a quando l’aveva conosciuto. Sembrava distrutto.
Sapeva come si sentiva. La storia della famiglia Frye era un terribile esempio di quanto l’uomo potesse essere inumano. E più si addentravano nei meandri di quella follia, più si sentivano sconcertati. Il cuore non poteva che sobbalzare e cedere a ogni raccapricciante scoperta.
Come se stesse parlando a se stesso, nel tentativo di fare ordine nella mente, Joshua mormorò: «Così tornarono a St. Helena e ripresero la loro relazione rivoltante da dove l’avevano interrotta. Poi commisero un errore e lei rimase incinta. E nessuno a St. Helena sospettò mai niente.»
Tony sbottò: «È incredibile. Di solito le bugie semplici sono le migliori perché impediscono di commettere passi falsi. Invece la storia di Mary Gunther era incredibilmente complicata! Roba da veri equilibristi. Hanno dovuto tenere in aria decine di palle per volta, ma se la sono cavata senza intoppi, direi.»
«Oh, quasi senza intoppi,» esclamò Mrs Yancy. «A dire la verità ci sono stati un paio di intoppi.»
«Per esempio?»
«Per esempio, il giorno in cui lasciò St. Helena per venire da me e avere il bambino, Katherine raccontò a tutti che questa fantomatica Mary Gunther le aveva annunciato la nascita della creatura. E stata stupida. Molto stupida. Katherine disse che sarebbe andata a San Francisco per prendere la creatura. Riferì che Mary parlava di una creaturina deliziosa, ma non disse se era maschio o femmina. Ovviamente era un patetico tentativo di proteggere se stessa, dal momento che non poteva sapere di che sesso fosse il figlio che aveva in grembo. Che stupida. Avrebbe dovuto pensarci. Fu il suo unico errore: rivelare che era nato il bambino prima di lasciare St. Helena. Oh, so che era a pezzi. So che praticamente non ragionava più. Ovviamente non poteva essere molto equilibrata dopo tutto quello che aveva subito nel corso degli anni. Per non parlare della gravidanza, della necessità di tenerla nascosta e della morte di Leo, sopraggiunta quando più avrebbe avuto bisogno di lui: sarebbe bastato molto meno per farla impazzire completamente. Era sconvolta, fuori di sé e di conseguenza non ha riflettuto abbastanza.»
«Non capisco,» disse Joshua. «Perché è stato un errore rivelare che il bambino di Mary era già nato? Dov’è il problema?»
Continuando ad accarezzare il gatto, Mrs Yancy proseguì: «A St. Helena, avrebbe dovuto raccontare che il bambino della Gunther stava per nascere, non che era già nato, e che preferiva andare a San Francisco per restare vicina all’amica. In questo modo non sarebbe stata legata alla storia secondo cui era nato un solo bambino. Ma non ci pensò. Non rifletté su quello che poteva accadere. Riferì a tutti che c’era solo un bambino. Poi arrivò da me e diede alla luce due gemelli.»
Hilary esclamò: «Due gemelli?»
«Maledizione,» sbottò Tony.
Per la sorpresa, Joshua balzò in piedi.
Il gatto avvertì la tensione che regnava nella stanza. Alzò la testa e osservò con aria stupita le persone presenti in salotto, una dopo l’altra. I suoi occhi gialli sembravano risplendere di luce propria.
La stanza nell’attico era spaziosa ma non abbastanza grande perché Bruno non la sentisse chiudersi gradualmente sopra di sé. Doveva trovare qualcosa da fare perché l’inattività rendeva ancora più penoso il suo senso di claustrofobia.
Si stancò dei manubri prima ancora che le sue braccia muscolose iniziassero ad avvertire lo sforzo dell’esercizio.
Prese un libro da una delle mensole e cercò di leggere, ma non riuscì a concentrarsi.
La sua mente non si era ancora stabilizzata e fluttuava da un pensiero all’altro, come un gioielliere disperato che cerca un sacchetto di diamanti messo fuori posto.
Parlò alla parte morta di sé.
Cercò i ragni negli angoli polverosi e li schiacciò.
Cantò a se stesso.
Scoppiò a ridere più volte senza sapere che cosa c’era di così divertente.
Si mise anche a piangere.
Maledì Katherine.
Cercò di organizzare un piano.
E camminò, camminò senza sosta.
Non vedeva l’ora di lasciare quella casa per iniziare a cercare Hilary-Katherine, ma sapeva che sarebbe stata una pazzia uscire in pieno giorno. Era sicuro che i cospiratori di Katherine fossero sparsi ovunque, a St. Helena. I suoi amici della tomba. Altri morti viventi, uomini e donne del Mondo Oscuro, nascosti in nuovi corpi. Gli avrebbero dato tutti la caccia. Sì. Sì. Probabilmente ce n’erano a decine. Di giorno sarebbe stato troppo rischioso. Doveva aspettare che calasse il sole prima di uscire a cercare quella puttana. Anche se la notte era l’ora preferita dei morti viventi e anche se sarebbe stato in tremendo pericolo inseguendo Hilary-Katherine al calare del sole, Bruno sapeva di poter contare sull’oscurità. Le ombre della notte l’avrebbero nascosto dai morti viventi, che avrebbero comunque goduto dello stesso vantaggio. In quel modo la lotta sarebbe stata equa e avrebbe vinto chi avesse dato prova di maggiore intelligenza; ma se il criterio si basava esclusivamente su quello, allora Bruno aveva qualche possibilità di spuntarla: Katherine era sveglia, furba e infinitamente malvagia, ma non era certo intelligente quanto il figlio.
Credeva che sarebbe stato al sicuro se fosse rimasto in casa durante il giorno, ma c’era qualcosa di ironico in quella convinzione, perché non si era mai sentito al sicuro nei trentacinque anni che aveva trascorso con Katherine. E ora quella casa rappresentava un porto tranquillo perché era l’ultimo posto nel quale Katherine e i suoi amici l’avrebbero cercato. Lei voleva catturarlo per portarlo proprio lì. L’aveva capito. Certo che l’aveva capito! Era ritornata dalla tomba per un unico motivo: condurlo in cima alla collina, attorno alla casa, verso la porta che si apriva nella terra, in fondo al giardino. Voleva gettarlo in quella fossa nel terreno e rinchiuderlo là dentro per sempre. Gli aveva ripetuto innumerevoli volte che era quello che avrebbe fatto se fosse tornata per punirlo. Non se n’era dimenticato. Katherine era convinta che avrebbe girato alla larga dalla collina e da quella vecchia casa. Non si sarebbe mai e poi mai immaginata di trovarlo proprio in quella stanza, abbandonata da tempo.
Bruno scoppiò a ridere fragorosamente, compiaciuto della sua stessa strategia.
, Poi fu assalito da un pensiero orribile: se per caso lei avesse pensato di cercarlo proprio lì e si fosse presentata con un paio di amici, altri morti viventi, in grado di sopraffarlo, non avrebbero fatto fatica a trascinarlo via. E la porta nella terra era proprio dietro la casa. Se Katherine e i suoi amici infernali l’avessero scovato, nel giro di un minuto sarebbero riusciti a trasportarlo verso quella porta e l’avrebbero gettato in quella stanza buia, in mezzo ai sussurri.
Terrorizzato, corse verso il letto e si sedette accanto a se stesso, pregandolo di rassicurarlo e di convincerlo che sarebbe andato tutto bene.
Joshua non riusciva a stare fermo. Continuava a camminare avanti e indietro nel salotto di Mrs Yancy.
La donna proseguì: «Quando Katherine diede alla luce due gemelli, si rese conto che la complicata storia di Mary Gunther non avrebbe potuto reggere. Gli abitanti di St. Helena erano stati preparati ad accogliere un bambino. Si sarebbero insospettiti, per quanto lei potesse cercare di giustificare il secondo bambino. L’idea che tutti venissero a sapere che cosa era successo fra lei e il padre… be’, immagino che questo fosse davvero troppo, dopo tutto quello che aveva già passato. Katherine crollò. Per tre giorni rimase in preda al delirio, farneticando come una pazza. Il medico le somministrava dei sedativi, ma non sempre facevano effetto. Balbettava, vaneggiava e delirava. Forse avrei dovuto chiamare gli sbirri per farla rinchiudere in una bella stanzetta imbottita. Ma non volevo farlo. Dannazione, non volevo proprio.»
«Ma aveva bisogno di un aiuto psichiatrico,» esclamò Hilary. «Non è stato un bene lasciarla gridare così per tre giorni. Non è stata una bella idea.»
«Forse no,» ammise Mrs Yancy. «Ma non potevo fare altro. Insomma, gestivo un bordello di lusso e non avevo certo voglia di vedere gli sbirri, che si presentavano fin troppo spesso per riscuotere le loro bustarelle. Normalmente lasciavano in pace i bordelli di classe come il mio. D’altra parte, fra i miei clienti c’erano molti uomini politici influenti e facoltosi uomini d’affari: i poliziotti non volevano certo metterli in imbarazzo con una retata. Ma se avessi mandato Katherine in ospedale, i giornali sicuramente sarebbero venuti a conoscenza dell’intera vicenda e a quel punto gli sbirri sarebbero dovuti intervenire. Non avrebbero potuto chiudere un occhio sulla mia attività con tutta quella pubblicità in giro. No di certo. Assolutamente impossibile. Avrei perso tutto. E il medico temeva di avere la carriera stroncata se i suoi pazienti avessero scoperto che di nascosto curava le prostitute. Oggigiorno un medico può anche permettersi di praticare la vasectomia sugli alligatori usando gli strumenti che ha nello studio, senza rischiare di perdere la faccia. Ma nel 1940 la gente era più… schizzinosa. Vi renderete conto quindi che dovevo pensare a me stessa e inoltre proteggere il medico e le mie ragazze…»
Joshua si avvicinò alla sedia sulla quale era seduta la donna. Abbassò gli occhi su di lei, cogliendo in un unico sguardo il vestito logoro, il grembiule, le calze elastiche scure, le scarpe ormai consumate e il gatto dal pelo lucido; cercò di andare oltre l’immagine della dolce vecchietta per ritrovare la donna che vi si nascondeva. «Quando accettò i tremila dollari di Katherine, non si assunse anche qualche responsabilità nei suoi confronti?»
«Non le chiesi io di venire da me per avere il bambino,» ribattè Mrs Yancy. «Il mio bordello valeva molto più di tremila dollari. Non avevo intenzione di gettare tutto all’aria per uno scrupolo morale. Secondo lei avrei dovuto farlo?» Scosse la testa, incredula. «Se pensa che avrei dovuto farlo, allora lei vive in un altro mondo, mio caro signore.»
Joshua la fissò per un attimo e rimase in silenzio, per il timore di esplodere e di mettersi a urlare. Non voleva che lo buttasse fuori di casa prima di essersi assicurato che gli avesse raccontato tutto quello che sapeva sulla gravidanza di Katherine Ann Frye e sui gemelli. Gemelli!
Intervenne Tony: «Senta, Mrs Yancy, subito dopo aver accolto Katherine, quando ha scoperto che si avvolgeva strettamente nelle panciere, lei si rese conto che rischiava di perdere il bambino. Ha ammesso che lo stesso dottore aveva parlato di una simile eventualità.»
«Sì.»
«Secondo il medico, anche Katherine rischiava di morire.»
«E allora?»
«La morte di un neonato o della madre durante il parto avrebbe sicuramente comportato la chiusura del suo bordello, esattamente come se avesse chiamato la polizia per far ricoverare una donna in preda a una crisi di nervi. Eppure non cacciò Katherine, anche se avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Sapeva che era rischioso, ma accettò i tremila dollari e diede a Katherine il permesso di restare. Sicuramente sapeva che, nel caso fosse morto qualcuno, avrebbe dovuto avvisare la polizia, rischiando di dover chiudere.»
«Nessun problema,» rispose Mrs Yancy. «Se i bambini fossero morti, li avremmo portati via in una valigia. Li avremmo sepolti da qualche parte in cima alle colline. Oppure avremmo messo qualche pietra nella valigia e l’avremmo fatta cadere dal Golden Gale.»
Joshua provò l’irrefrenabile impulso di afferrare la donna per lo chignon e di sbatterla a terra, per farle perdere quell’aria compiaciuta e strafottente. Ma si limitò a voltarsi e respirare a fondo, prima di ricominciare a camminare nervosamente sulla passatoia, con gli occhi fissi sul pavimento.
«E Katherine?» domandò Hilary. «Che cos’avrebbe fatto se fosse morta lei?»
«La stessa cosa che avrei fatto con i due gemelli,» affermò Mrs Yancy senza scomporsi. «Anche se, naturalmente, non avremmo potuto mettere Katherine in una valigia.»
Joshua si bloccò all’estremità della stanza e osservò la donna, sbigottito. Non cercava di essere spiritosa. Non si era assolutamente resa conto del macabro umorismo contenuto in quella frase: si era limitata a enunciare un dato di fatto.
«Se qualcosa fosse andato storto, avremmo eliminato il corpo,» proseguì Mrs Yancy rispondendo alla domanda di Hilary. «E avremmo fatto in modo che nessuno venisse a sapere che Katherine era stata da me. E non mi guardi con quell’aria sbigottita e di disapprovazione, signorina bella. Non sono un’assassina. Le sto spiegando che cosa avrei fatto, che cosa avrebbe fatto qualsiasi persona ragionevole nella mia situazione, nel caso in cui la madre o il bambino fossero morti in circostanze naturali. Parlo di morte naturale. Santo cielo, se fossi un’assassina, mi sarei sbarazzata della povera Katherine mentre era fuori di sé, quando non sapevo neppure se si sarebbe ripresa. Per me era una minaccia. Per colpa sua rischiavo di rimetterci il bordello, i miei soldi, tutto, insomma. Ma non l’ho strangolata. Mio Dio, non ho mai pensato una cosa del genere! Ho nutrito quella povera ragazza fra una crisi e l’altra, l’ho aiutata a uscire dallo stato di follia in cui si ritrovava e poi è andato tutto bene.»
Tony la interruppe: «Ha detto che Katherine balbettava, vaneggiava e delirava. È come se…»
«Solo per tre giorni,» precisò Mrs Yancy. «Dovemmo persino legarla al letto per impedire che si facesse del male. Ma è durato solo tre giorni. Forse non era un vero e proprio esaurimento nervoso. Forse era solo una crisi passeggera. Infatti, dopo tre giorni, ritornò a star bene come prima.»
«I gemelli,» disse Joshua. «Ritorniamo ai gemelli. Sono loro che ci interessano.»
«Penso di avervi raccontato tutto,» ribattè Mrs Yancy.
«Erano identici?» domandò Joshua.
«Come si fa a dirlo appena nati? Sono tutti grinzosi e rossi. E impossibile stabilire se si somigliano soltanto o se sono identici.»
«Ma il medico avrebbe potuto fare un esame…»
«Eravamo in un bordello di lusso, Mr Rhinehart, non in un ospedale.» Solleticò il gatto sotto il mento e l’animale allungò felice una zampa verso di lei. «Il dottore non aveva né il tempo né gli strumenti necessari per una cosa del genere. E inoltre, perché avrebbe dovuto preoccuparsi di scoprire se i due bambini erano identici o no?»
Hilary osservò: «Katherine chiamò uno dei due Bruno.»
«Sì,» rispose Mrs Yancy. «L’ho scoperto quando ha iniziato a spedirmi gli assegni, dopo la morte di Katherine.»
«Come ha chiamato l’altro bambino?»
«Non ne ho la più pallida idea. Quando se n’è andata, non aveva ancora scelto i nomi.»
«Ma i nomi non sono stati riportati sul certificato di nascita?» domandò Tony.
«Non c’era alcun certificato,» precisò Mrs Yancy.
«Ma com’è possibile?»
«Le nascite non sono state registrate.»
«Ma la legge…»
«Katherine insistè affinchè i bambini non venissero registrati. Ci stava offrendo un bel mucchio di soldi e ci comportammo come voleva lei.»
«Anche il dottore era d’accordo?»
«Si beccò mille dollari per far nascere i gemelli e tenere la bocca chiusa,» rispose la donna. «A quei tempi mille dollari erano una bella somma. Poteva anche infrangere un paio di regole.»
«I due neonati stavano bene?» domandò Joshua.
«Erano magri,» disse Mrs Yancy. «Anzi, scheletrici. Due creaturine patetiche. Probabilmente perché Katherine era rimasta a dieta per mesi. E anche per colpa dei busti. Ma strillavano come tutti gli altri bambini e avevano un discreto appetito. Insomma, sembravano sani, erano solo un po’ mingherlini.»
«Per quanto tempo si è fermata Katherine?» domandò Hilary.
«Quasi due settimane. Ha avuto bisogno di un po’ di tempo per recuperare le forze dopo un parto tanto difficile. E anche i bambini dovevano rimpolpare un po’ le ossa.» «Quando se ne andò, prese con sé entrambi i bambini?»
«Ma certo. Non gestivo un asilo. Fui felice quando decise di tornare a casa.»
«Sapeva che aveva intenzione di riportare solo uno dei gemelli a St. Helena?»
«Sì, credo fosse questa la sua intenzione.»
«Le ha forse detto che cosa voleva fare dell’altro bambino?» intervenne Joshua precedendo Hilary.
«Penso volesse farlo adottare,» rispose Mrs Yancy.
«Lei pensa?» sbottò Joshua, esasperato. «Non era minimamente preoccupata per quello che avrebbe potuto succedere a due creature indifese, nelle mani di una donna evidentemente squilibrata?»
«Si era ripresa.»
«Stronzate.»
«Glielo assicuro, se l’avesse incontrata per strada, non avrebbe mai immaginato che avesse dei problemi.»
«Ma per l’amor del cielo, dietro quella facciata…»
«Era la madre,» ribattè Mrs Yancy. «Non avrebbe fatto loro alcun male.»
«Lei non poteva esserne sicura,» continuò Joshua.
«Certo che ne ero sicura,» recitò Mrs Yancy. «Ho sempre avuto il massimo rispetto per la maternità e per l’amore di una madre. L’amore di una madre può operare miracoli.»
Ancora una volta, Joshua dovette reprimere l’impulso di afferrarla per i capelli.
Tony obiettò: «Katherine non avrebbe potuto far adottare il bambino. Non in mancanza di un certificato di nascita che provasse che il neonato era suo.»
«Questo lascia aperta la strada a possibilità decisamente meno simpatiche,» mormorò Joshua.
«Onestamente, non riesco a capirvi,» protestò Mrs Yancy scuotendo la testa e accarezzando il gatto. «Volete sempre credere al peggio. Non ho mai conosciuto persone più pessimiste di voi. Non avete mai pensato che forse si è limitata a lasciare uno dei due bambini davanti a una porta? Probabilmente l’avrà abbandonato davanti a un orfanotrofio o a una chiesa, in un luogo dove avrebbero potuto trovarlo facilmente e prendersi cura di lui. Immagino sia stato adottato da una giovane coppia facoltosa, in grado di offrirgli una casa confortevole, tanto amore, un’ottima istruzione e una miriade di vantaggi.»
Bruno Frye si sentiva nervoso, annoiato, solo, impaurito, a tratti sonnolento, ma molto più spesso frenetico. In attesa che calasse la notte, trascorse il martedì pomeriggio a conversare con la parte di sé che era morta. Sperava di calmare la sua mente irritata e di riacquistare una fredda determinazione, ma non riuscì a compiere grandi progressi in tal senso. Decise che si sarebbe sentito sicuramente più felice e meno solo se avesse potuto guardare se stesso negli occhi, come ai vecchi tempi, quando trascorrevano il tempo così, seduti l’uno di fronte all’altro e comunicavano fra loro senza bisogno di parole: quando erano una cosa sola. Si ricordò della scena nel bagno di Sally, accaduta solo poche ore prima, quando si era fermato davanti allo specchio e aveva confuso la propria immagine riflessa con quella di se stesso. Guardando negli occhi quello che pensava essere il suo altro sé, si era sentito meravigliosamente bene, in pace con il mondo. Ora doveva assolutamente recuperare quello stato mentale. E non c’era niente di meglio che guardare se stesso diritto negli occhi, per quanto fossero ormai vuoti e ciechi. Ma l’altro era sdraiato sul letto, con gli occhi serrati. Bruno sfiorò l’altro Bruno, quello morto, e sentì due orbite gelide; le palpebre non volevano sollevarsi nonostante il tocco delicato delle sue dita. Esaminò i contorni e avvertì le suture agli angoli, i minuscoli nodi di filo che tenevano abbassate le palpebre. Eccitato all’idea di tornare ad ammirare gli occhi dell’altro, Bruno si alzò di scatto e si precipitò da basso alla ricerca di un rasoio, di un paio di forbicine, di spilli, di un uncinetto e degli altri strumenti chirurgici di fortuna necessari per riaprire le palpebre dell’altro Bruno.
Tony si rese conto che, se anche Rita Yancy avesse avuto altre informazioni sui gemelli Frye, né Hilary né Joshua sarebbero riusciti a farla parlare. Da un momento all’altro uno dei due sarebbe scoppiato con una frase pungente, salace o cattiva, la donna si sarebbe offesa e avrebbe ordinato loro di andarsene.
Tony sapeva che Hilary era profondamente scossa dalle analogie esistenti fra la sua stessa infanzia e la tragedia di Katherine e si era infuriata davanti ai diversi atteggiamenti di Rita Yancy: gli scoppi di falso moralismo, i brevi attimi di sentimentalismo sciropposo e poco sentito e invece l’autentica e costante mancanza di sensibilità.
Joshua soffriva di una perdita di stima nei confronti di se stesso perché aveva lavorato per venticinque anni al servizio di Katherine senza sospettare la tranquilla follia che ribolliva sotto un’apparente calma ben calibrata. Era disgustato con se stesso e quindi ancora più irritabile del solito. Inoltre, Rita Yancy era il genere di persona che Joshua avrebbe disprezzato anche in circostanze normali e quindi la sua pazienza era già al limite.
Tony si alzò dal divano e si avvicinò allo sgabello posto davanti alla sedia di Rita Yancy. Si sedette, giustificando l’azione con il desiderio di accarezzare il gatto. Così facendo, si venne a trovare fra la donna e Hilary e bloccò contemporaneamente Joshua, che sembrava sul punto di afferrare Mrs Yancy per il collo. Dallo sgabello avrebbe potuto continuare a interrogarla senza dare nell’occhio. Senza smettere di accarezzare il gatto, Tony continuò a chiacchierare con la donna, cercando di accattivarsi le sue simpatie con il fascino e la diplomazia che avevano sempre contraddistinto Tony Clemenza negli incarichi svolti per conto della polizia.
Alla fine, le chiese se c’era qualcosa di strano nella nascita dei due gemelli.
«Strano?» domandò Mrs Yancy, perplessa. «Non crede che tutta questa maledetta faccenda sia strana?»
«Ha ragione,» ammise. «Forse non le ho rivolto la domanda nel modo giusto. Volevo sapere se aveva notato qualcosa di strano nella nascita in sé, nel travaglio o nelle contrazioni di Katherine, qualcosa di particolare nello stato dei bambini appena nati. Insomma, qualcosa di anomalo, di curioso.»
Gli occhi le si illuminarono mentre le parole di Tony facevano scattare un interruttore nella sua memoria.
«A dire la verità,» esclamò, «c’era qualcosa di strano.»
«Mi lasci indovinare,» la interruppe. «Entrambi i bambini sono nati coperti dalla membrana amniotica.»
«Esatto! Come fa a saperlo?»
«Ho solo tirato a indovinare.»
«Come no!» Gli sventolò un dito davanti alla faccia. «Lei è molto più in gamba di quanto voglia far credere.»
Si sforzò di sorriderle. Fece molta fatica perché non c’era niente in Rita Yancy che potesse strappargli un sorriso spontaneo.
«Sono nati tutt’e due con quella membrana,» spiegò. «Avevano la testolina completamente coperta. Naturalmente, al dottore erano già capitati casi del genere, ma secondo lui c’era una possibilità su un milione che due gemelli nascessero così.»
«Katherine se n’era accorta?»
«Della membrana? Non subito. Urlava per il dolore. E nei tre giorni successivi era completamente fuori di sé.»
«Ma poi?»
«Sono sicura che è stata informata,» disse Mrs Yancy. «Non è il genere di cose che si nasconde a una madre. Anzi… ricordo di avergliene parlato io stessa. Sì. Sì, sono stata io. Me lo ricordo benissimo. Era rimasta affascinata. Ci sono persone convinte che un bambino nato coperto dalla membrana amniotica abbia il dono della preveggenza.»
«Anche Katherine ci credeva?»
Rita Yancy aggrottò le sopracciglia. «No. Secondo lei era un segno nefasto, non positivo. Leo si interessava di fenomeni soprannaturali e Katherine aveva letto qualche libro della sua raccolta. In uno di questi, c’era scritto che quando due gemelli nascono coperti dalla membrana amniotica, allora… non ricordo esattamente che cosa mi ha raccontato, ma non era niente di positivo. Era un presagio infausto o roba del genere.»
«Il segno del demonio?» domandò Tony.
«Sì! Proprio così!»
«Quindi era convinta che i suoi figli fossero contrassegnati dal marchio del demonio e che la loro anima fosse già dannata?»
«Me ne ero quasi dimenticata,» disse Mrs Yancy.
Fissò un punto lontano, oltre Tony, nel tentativo di rivivere quegli anni e ricordare il passato…
Hilary e Joshua rimasero immobili e in perfetto silenzio; Tony fu felice di notare che avevano riconosciuto la sua autorità.
Alla fine, Mrs Yancy riprese a parlare: «Katherine mi raccontò che si trattava del marchio del demonio e poi si chiuse in se stessa. Non volle più parlarne. Per un paio di giorni, rimase tranquilla. Stava sdraiata sul letto, gli occhi fissi al soffitto, e si muoveva appena. Sembrava stesse riflettendo su qualcosa. Poi, improvvisamente iniziò a comportarsi in modo così strano che pensai di nuovo di farla rinchiudere in una gabbia per matti.»
«Ricominciò a farneticare e a essere violenta come prima?» chiese Tony.
«No, no. Non faceva che parlare. Discorsi feroci e pazzeschi. Mi raccontò che i gemelli erano figli del demonio. Disse che era stata violentata da una creatura infernale, un essere verde e squamoso con gli occhi enormi, la lingua biforcuta e gli artigli. Disse che era venuto apposta dall’inferno per costringerla a partorire i suoi figli. Pazzesco, vero? Continuava a giurare che era la verità. Arrivò persino a descrivere quel demone. Un’ottima descrizione, molto dettagliata. E mentre mi spiegava come l’aveva violentata, riuscì persino a farmi venire la pelle d’oca, anche se sapevo benissimo che erano tutte stronzate. Quella storia era originale, piena di immaginazione. All’inizio pensai che fosse uno scherzo inventato da Katherine per fare quattro risate, ma mi accorsi che lei non rideva, che non ci trovava niente di divertente. Le ricordai che mi aveva parlato di Leo e lei si mise a strillare. Santo cielo, come strillava! Avevo paura che rompesse i vetri. Negò di aver detto cose simili. Si finse offesa. Era talmente arrabbiata con me per aver insinuato l’incesto, talmente ipocrita e presuntuosa da volere a tutti i costi le mie scuse, che non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Si arrabbiò ancora di più. Continuò a ripetere che non era stato Leo, anche se entrambe conoscevamo perfettamente la verità. Fece di tutto per convincermi che il padre dei gemelli era un demonio. E vi posso assicurare che recitava benissimo! Naturalmente, non le ho creduto neppure per un attimo. Quella stupida storia di una creatura giunta dall’inferno per infilarle dentro il suo affare. Tutte cavoiate! Ma iniziai a chiedermi se lei non ne fosse davvero convinta. Sembrava ci credesse sul serio. Ne parlava in modo fanatico. Aveva paura che avrebbero mandato al rogo lei e i bambini se qualche persona di chiesa avesse scoperto che si era accoppiata con un demonio. Mi supplicò di aiutarla a mantenere il segreto. Non voleva che raccontassi a nessuno della membrana amniotica. Poi aggiunse che i due gemelli portavano il segno del demonio anche in mezzo alle gambe. E mi scongiurò di non rivelare a nessuno quel terribile segreto.»
«In mezzo alle gambe?» domandò Tony.
«Oh, continuava a comportarsi come una pazza furiosa,» proseguì Rita Yancy. «Ripeteva in continuazione che i due piccini avevano gli organi sessuali simili a quelli del padre. Sosteneva che non erano umani in mezzo alle gambe e che anch’io me ne ero accorta. Mi pregò di non parlarne a nessuno. Be’, era semplicemente ridicolo. Quei due bambini avevano il pisellino assolutamente normale. Katherine continuò a farfugliare strane storie di demoni per un paio di giorni. A volte sembrava davvero pazza. Mi chiese quanti soldi volevo per mantenere il segreto sul demonio. Le risposi che non avrei accettato un centesimo per quello, ma che avrei gradito cinquecento dollari al mese per tenere la bocca chiusa riguardo alla faccenda di Leo e tutto il resto. Intendo dire il resto della storia vera. Questo servì a calmarla un po’, ma aveva sempre in testa quelle stupidaggini sul demonio. Stavo per convincermi che credesse davvero a quanto andava blaterando e stavo per chiedere al dottore di visitarla, quando improvvisamente non aprì più bocca sull’argomento. Sembrò ritornare in sé. Pensavo si fosse stancata di quello scherzo. A ogni modo, non disse più una sola parola sui demoni. Da quel momento si comportò in modo esemplare e circa una settimana più tardi se ne andò con i due bambini.»
Tony riflette sulle parole di Mrs Yancy.
La donna riprese ad accarezzare il gatto, come una vecchia strega avrebbe fatto con il suo animale preferito.
«E se,» esclamò Tony, «e se…?»
«E se che cosa?» domandò Hilary.
«Non lo so,» bofonchiò. «Il mosaico sembra ricomporsi… ma è… così strano. Forse ho rimesso insieme i pezzi in modo sbagliato. Devo rivedere tutto. Non ne sono ancora sicuro.»
«Bene, avete altre domande per me?» esclamò Mrs Yancy.
«No,» rispose Tony, alzandosi dallo sgabello. «Non mi viene in mente nient’altro.»
«Abbiamo avuto le informazioni che ci servivano,» convenne Joshua.
«Più di quanto sperassimo,» aggiunse Hilary.
Mrs Yancy sollevò il gatto, lo appoggiò sul pavimento e si alzò. «Ho già perso troppo tempo per questa stupida faccenda. Dovrei essere in cucina. Ho molte cose da fare. Questa mattina ho preparato le basi per quattro sformati, ora devo riempirle e mettere tutto in forno. Ho invitato i miei nipotini a cena e ognuno di loro ha gusti diversi in fatto di sformati. A volte quei frugoletti sono delle autentiche pesti. Ma, d’altra parte, sarei persa senza di loro.»
Il gatto saltò sullo sgabello, poi sfrecciò lungo la passatoia, oltrepassò Joshua e si rintanò sotto un tavolino.
Nel momento stesso in cui l’animale si bloccò, la casa iniziò a tremare. Due minuscoli cigni di cristallo caddero da una mensola, rimbalzando senza rompersi sullo spesso tappeto. Due quadretti incorniciati scivolarono lungo la parete. I vetri delle finestre tintinnarono.
«Il terremoto,» annunciò Mrs Yancy.
Il pavimento beccheggiò come il ponte di una nave sul mare in tempesta.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi,» li tranquillizzò Mrs Yancy.
Il movimento diminuì di intensità.
La terra insoddisfatta smise di brontolare e si calmò.
La casa era di nuovo tranquilla.
«Visto?» esclamò Mrs Yancy. «È passato.»
Ma Tony sentiva che stavano per arrivare altre scosse, anche se non avevano nulla a che vedere con i terremoti.
Bruno riuscì finalmente ad aprire gli occhi morti dell’altra metà di se stesso e rimase subito sconvolto da quello che vide. Non erano più gli occhi chiari, elettrizzanti e grigio azzurri che aveva conosciuto e amato. Erano gli occhi di un mostro: gonfi, semimarci e protuberanti. La parte bianca era chiazzata di marrone per il travaso di sangue ormai rappreso. Le iridi erano opache, nebulose e avevano perso l’intensità che avevano avuto in vita, per acquisire l’orribile sfumatura tipica dei lividi.
Ma più li guardava, meno gli sembravano ripugnanti. Dopotutto erano pur sempre gli occhi della sua altra metà, una parte di se stesso; gli occhi che più di ogni altro conosceva, gli occhi di cui tanto si fidava e che adorava, gli occhi che avevano fiducia in lui e che ricambiavano il suo amore. Non si limitò a guardarli, li scrutò dentro, andando oltre lo scempio superficiale, per scendere, come faceva spesso in passato, fino al punto in cui le due metà della sua anima si fondevano con passione ed entusiasmo. Non provò più le magiche sensazioni di un tempo, perché ormai gli occhi dell’altro Bruno non ricambiavano più il suo sguardo. Ma anche soltanto la possibilità di sbirciare negli occhi della metà morta risvegliò in lui i ricordi dei giorni in cui era stato un tutt’uno; ripensò al piacere puro e alla dolce soddisfazione di essere da solo con se stesso, lui e l’altro lui contro il resto del mondo, senza la paura di rimanere solo.
Si aggrappò a quel ricordo che ormai era l’unica cosa che gli restava.
Rimase a lungo seduto sul letto a fissare gli occhi di quel cadavere.
Il Cessna Turbo Skylane RG di Joshua Rhinehart sfrecciava verso nord, fendendo il vento di levante, con destinazione Napa.
Hilary abbassò lo sguardo sulle colline appassite dall’autunno che giacevano qualche migliaio di metri al di sotto delle nuvole frastagliate. Sopra, invece, c’erano solo il blu cristallino del cielo e la scia lontana e stratosferica di un jet militare.
Più distante, verso ovest, si erano addensati banchi di nuvole grigie, nere e bluastre che si spostavano in massa come navi gigantesche sulla superficie dell’oceano. Prima di sera Napa Valley, così come gran parte dello stato, si sarebbe ritrovata sotto un cielo minaccioso.
Nei primi dieci minuti di volo Hilary, Tony e Joshua rimasero silenziosi. Ognuno pensava ai propri problemi e ai propri timori.
Fu Joshua a rompere il silenzio: «Il sosia che stiamo cercando deve essere il gemello.»
«È chiaro,» confermò Tony.
«Quindi Katherine non ha risolto il suo problema ammazzando il secondo bambino,» proseguì Joshua.
«Evidentemente no,» ripetè Tony.
«Ma si può sapere chi ho ucciso io?» domandò Hilary. «Bruno o suo fratello?»
«Faremo riesumare il corpo e avremo la risposta.»
L’aereo incappò in un vuoto d’aria e di colpo perse quota quasi fosse un otto volante, prima di recuperare faticosamente la quota di navigazione.
Quando finalmente si sentì lo stomaco in posizione normale, Hilary riprese a parlare: «D’accordo, vediamo di parlarne un po’ e cerchiamo di trovare qualche risposta. Del resto tutt’e tre stiamo rimuginando sullo stesso problema. Se Katherine non ha ammazzato il fratello gemello di Bruno per evitare che venisse a galla la menzogna di Mary Gunther, che cosa ne ha fatto? Dove diavolo si è nascosto per tutti questi anni?»
«Be’, ci sarebbe sempre la teoria di Rita Yancy,» rispose Joshua pronunciando quel nome in modo tale da dare chiaramente a intendere che il benché minimo riferimento a quella donna lo infastidiva e disgustava profondamente. «Forse Katherine ha davvero abbandonato uno dei gemelli sui gradini di una chiesa o di un orfanotrofio.»
«Non saprei…» fu il commento dubbioso di Hilary. «Questa teoria non mi convince molto, ma non riesco a capire per quale motivo. Mi sembra quasi un cliché… un po’ troppo da romanzo. Maledizione. Non è quello che mi aspettavo di sentire. Non so come spiegarlo, ma ho la netta sensazione che Katherine non si sarebbe mai comportata in questo modo. È troppo…»
«Banale,» s’intromise Tony. «Anche la storia di Mary Gunther è troppo banale per i miei gusti. L’abbandono di uno dei gemelli sarebbe stata la soluzione più semplice, più veloce, più facile e più sicura anche se non la migliore dal punto di vista della morale. Ma non sempre si imbocca la strada più semplice, più veloce e più sicura. Specialmente quando si è sotto pressione. E Katherine era decisamente sotto pressione quando ha lasciato il bordello di Rita Yancy.»
«Comunque, non possiamo escludere niente,» fece notare Joshua.
«Invece sì,» insistè Tony. «Perché se decidiamo di accettare la tesi in base alla quale il fratello gemello è stato abbandonato e adottato da sconosciuti, non potremo più spiegare come ha fatto a ritrovarsi con Bruno. Dal momento che la nascita non è mai stata registrata, Bruno non avrebbe mai potuto risalire al grado di parentela. L’unica spiegazione possibile sarebbe che si sono ritrovati per caso. E, anche ammesso di accettare questa coincidenza, resterebbe da spiegare come mai il fratello, cresciuto ed educato in un ambiente completamente diverso da quello di Bruno, senza nemmeno aver conosciuto Katherine, avrebbe potuto nutrire un tale odio, per non parlare del terrore nei confronti della vera madre.»
«Non è facile,» ammise Joshua.
«Resterebbe anche da spiegare come ha fatto il fratello a sviluppare una personalità psicopatica e paranoica che combacia perfettamente con quella di Bruno,» aggiunse Tony.
Il Cessna ronzava verso nord.
Il vento picchiava contro il velivolo.
Per un minuto ripiombarono nel silenzio iniziale, all’interno dell’abitacolo bianco, rosso e giallastro del costoso e velocissimo monomotore a reazione.
Infine Joshua sbottò: «Mi dichiaro sconfitto. Non riesco a spiegarmi tutto questo. Non si capisce come abbia fatto il fratello a crescere in un ambiente completamente diverso e, allo stesso tempo, sviluppare la stessa psicosi di Bruno. La genetica non sarebbe sufficiente, questo è certo.»
«E tu che cosa ne pensi?» domandò Hilary a Tony. «Che Bruno non è mai stato separato dal fratello?»
«Forse li ha portati tutt’e due a St. Helena,» azzardò lui.
«Ma dov’è rimasto il gemello per tutti questi anni?» domandò Joshua. «Chiuso a chiave in uno sgabuzzino?»
«No,» rispose Tony. «Forse lei l’ha incontrato un sacco di volte.»
«Che cosa? Io? No. Mai. Io ho visto solo Bruno.»
«E se… e se tutt’e due si fossero chiamati Bruno? E se… si fossero scambiati di posto?»
Joshua distolse lo sguardo dal cielo per fissare Tony negli occhi. «Sta per caso cercando di dirmi che quei due hanno giocato come due bambini per quarant’anni?» chiese scettico Joshua.
«Non hanno giocato,» spiegò Tony. «O comunque per loro non si è trattato di un gioco, quanto piuttosto di una disperata e pericolosa necessità.»
«Non la seguo più,» si arrese Joshua.
Rivolgendosi a Tony, Hilary disse: «Ho capito che avevi in mente qualcosa quando hai iniziato a fare domande a Mrs Yancy a proposito dei bambini che nascono coperti dalla membrana amniotica e delle reazioni di Katherine.»
«Esatto,» confermò Tony. «Katherine continuava a parlare di un demonio e questa informazione mi ha aiutato a ricomporre una parte del mosaico.»
«Per l’amor del cielo,» sbuffò Joshua spazientito. «Le spiace smettere di fare il misterioso? Cerchi di spiegarsi in modo che anche noi due possiamo capire.»
«Scusate, ma stavo solo pensando a voce alta.» Tony si sistemò sul sedile. «D’accordo. State a sentire. Ci vorrà un po’ di tempo. Devo tornare all’inizio di tutta la storia… Per capire quello che dirò a proposito di Bruno Frye, dovete prima comprendere Katherine o, se non altro, il modo in cui la vedo io. La mia teoria è questa: in una famiglia in cui la pazzia è stata tramandata nel corso delle ultime tre generazioni, l’instabilità mentale aumenta sempre di più, come un fondo fiduciario su cui si reinvestono persino gli interessi.» Si agitò nuovamente sul sedile. «Partiamo da Leo. Era un tipo estremamente autoritario. Per essere veramente felice doveva avere la possibilità di controllare gli altri. Questo era uno dei motivi per cui riusciva così bene negli affari, ma era anche una delle ragioni per cui non aveva molti amici. Sapeva sempre come raggiungere un obiettivo e non mollava nemmeno di un’unghia. Molto spesso, i tipi aggressivi come Leo si avvicinano al sesso in modo alquanto anomalo, considerando il loro carattere: amano essere sollevati da qualsiasi responsabilità, amano cambiare ruolo e sentirsi dominati una volta tanto, anche se solo a letto. Ma non Leo. Lui nemmeno a letto. Voleva dominare anche nella sfera sessuale. Godeva nell’umiliare e nel far soffrire le proprie donne, insultandole, costringendole a esibirsi in atteggiamenti osceni, sfiorando la malvagità e il sadismo. Questo l’abbiamo saputo da Mrs Yancy.»
«C’è una bella differenza tra il pagare una prostituta per soddisfare le proprie perversioni e il fatto di molestare la propria figlia,» fece notare Joshua.
«Però sappiamo che ha abusato per anni e ripetutamente di Katherine,» suggerì Tony. «Per cui nella mente di Leo la differenza non era poi tanto grande. Con tutta probabilità riusciva a giustificare le molestie nei confronti delle ragazze di Mrs Yancy grazie ai soldi che sborsava per possederle anche se solo temporaneamente. Credo fosse un tipo con un forte senso della proprietà a cui aveva affibbiato una definizione estremamente ’liberale’. Sulla base di questa ideologia, avrebbe potuto giustificare anche gli abusi su Katherine. Un uomo di questo genere pensa a un figlio come a un’altra delle sue proprietà. Gli uomini come lui dicono ’mio figlio’, non ’mio figlio’. Per lui, Katherine rappresentava una cosa, un oggetto da utilizzare.»
«Sono felice di non aver mai conosciuto quel figlio di puttana,» sbottò Joshua. «Se gli avessi stretto la mano, penso che mi sentirei sporco ancora oggi.»
«Il punto è,» riprese Tony, «che Katherine, da bambina, era stata tenuta prigioniera in casa e obbligata a vivere una terrificante relazione con un uomo capace di tutto. Deve aver avuto pochissime possibilità di mantenere una certa stabilità mentale in quelle condizioni. Leo era un insensibile, un solitario, qualcosa di più di un semplice egoista con impulsi sessuali decisamente deviati. Non è solo possibile, ma è anche probabile che sia stato emotivamente disturbato. Anzi, potrebbe anche essere stato uno psicotico, completamente distaccato dalla realtà, ma abile nell’occultare la sua condizione. Esistono psicopatici in grado di controllare le proprie allucinazioni, di incanalare le energie lunatiche in atteggiamenti socialmente accettabili, di passare insomma per persone normali. Questo genere di persone sfoga la propria pazzia in un’area generalmente molto ristretta e privata. Nel caso di Leo, riusciva a scaricarsi un po’ con le prostitute, ma perlopiù con Katherine. Dobbiamo pensare che non si è limitato ad abusare di lei fisicamente. Il suo desiderio andava oltre la sfera puramente sessuale. Lui bramava il controllo assoluto. Dopo averla spezzata fisicamente, doveva cercare di romperla anche emotivamente, spiritualmente e mentalmente. Ecco perché, quando Katherine è arrivata da Mrs Yancy per mettere al mondo il figlio di suo padre, doveva aver ormai raggiunto lo stesso grado di pazzia di Leo. Ma forse aveva anche già imparato a nasconderlo agli occhi degli altri e a passare per una persona normale. Probabilmente ha perso il controllo con l’arrivo dei gemelli, ma nel giro di tre giorni è riuscita a recuperare l’equilibrio di sempre.»
«Ha perso il controllo anche in un’altra occasione,» aggiunse Hilary mentre l’aereo passava in mezzo a un vortice di aria turbolenta.
«Esatto,» confermò Joshua. «Quando ha raccontato a Mrs Yancy di essere stata violentata dal demonio.»
«Se la mia teoria è esatta,» riprese Tony, «Katherine deve essere stata soggetta a un’incredibile serie di cambiamenti dopo la nascita dei gemelli. Fluttuava da uno stato di psicosi a un altro ancora più grave. Le nuove allucinazioni spazzavano via l’ondata precedente. Nonostante gli abusi sessuali di suo padre, nonostante le torture fisiche ed emotive, nonostante il fatto di essere rimasta incinta e i dolori che le procuravano le guaine in cui si era stretta in tutti quei mesi per nascondere ciò che stava crescendo dentro di lei, era apparentemente riuscita a mantenere la calma. Chissà come, aveva conservato un aspetto normale. Ma quando sono nati i gemelli, quando si è resa conto che la storia di Mary Gunther non avrebbe più retto, la situazione è degenerata. Ha perso il controllo finché non si è convinta di essere stata violentata dal diavolo in persona. Da Mrs Yancy abbiamo saputo che Leo si interessava di occultismo. Katherine avrà sicuramente letto i libri di Leo. Deve aver saputo da qualche testo che è credenza comune ritenere la membrana amniotica il marchio del demonio. E dal momento che i suoi figli erano venuti al mondo con questa membrana… be’, ha iniziato a fantasticare. L’idea di essere stata la vittima innocente di una creatura del male era decisamente molto affascinante e le dava la possibilità di non provare vergogna o sensi di colpa per aver partorito i figli del suo stesso padre. Avrebbe dovuto nasconderlo a tutti, ma se non altro non era obbligata a nasconderlo anche a se stessa. Non avrebbe più dovuto cercare una giustificazione. Nessuno avrebbe osato pensare che una donna tranquilla come lei sarebbe stata in grado di resistere alla potenza soprannaturale del diavolo. Se si fosse convinta di essere stata violentata da un mostro, avrebbe potuto iniziare a considerarsi soltanto una vittima sfortunata e innocente.»
«Ma in realtà lo era già,» sottolineò Hilary. «È stata la vittima di suo padre. È stato lui a obbligarla, non il contrario.
«E vero,» confermò Tony. «Ma è molto probabile che Leo abbia passato gran parte del suo tempo a farle il lavaggio del cervello, nel tentativo di convincerla che la colpa di quell’insano rapporto era soltanto sua. Spesso i malati di mente hanno la tendenza a trasferire le proprie colpe sui figli, per sfuggire al senso di colpa. E questo atteggiamento calza perfettamente con la personalità autoritaria di Leo.»
«Va bene,» concesse Joshua mentre l’aereo proseguiva verso il cielo più tranquillo del nord. «Fino a questo punto posso anche essere d’accordo. Forse non è andata proprio così, ma ha una certa logica e può dare una svolta all’intera faccenda. Quindi, Katherine ha dato alla luce due gemelli, ha perso la ragione per tre giorni, poi è tornata in sé, grazie a una nuova fantasia, una nuova allucinazione. Convinta di essere stata violentata dal demonio, è stata capace di dimenticare che il vero colpevole era suo padre. È riuscita a dimenticare l’incesto e ha riguadagnato il rispetto per se stessa. Anzi, con tutta probabilità non si è mai sentita tanto bene in vita sua.»
«Esattamente,» confermò Tony.
Hilary s’intromise dicendo: «Mrs Yancy era l’unica persona a cui avesse raccontato dell’incesto, quindi, dopo essersi messa il cuore in pace con la nuova fantasia, non ha visto l’ora di confidarle la sua ’verità’. Temeva di essere scambiata per una peccatrice impenitente e intendeva mettere in chiaro di essere stata soltanto la vittima di qualcosa di soprannaturale. Ecco perché ha continuato a parlarne.»
«Ma quando ha visto che Mrs Yancy non le credeva,» proseguì Tony, «ha preferito tenere tutto per sé. Deve aver pensato che a quel punto nessuno le avrebbe creduto. Ma ormai non aveva più alcuna importanza, perché lei era convinta di conoscere la verità e la verità era il diavolo. Sarebbe stato un segreto ben più facile da mantenere, rispetto a quello di Leo.»
«Oltretutto Leo era morto da qualche settimana e non poteva più ricordarle ciò che aveva deciso di dimenticare,» rincarò Hilary.
Joshua lasciò per un breve istante i controlli dell’aereo per asciugarsi le mani sulla camicia. «Pensavo di essere troppo vecchio e cinico per provare qualsiasi tipo di reazione nei confronti di una storia dell’orrore come questa. Invece mi vengono ancora i sudori freddi. Ma c’è un altro particolare terribile, legato a quanto appena esposto da Hilary. Ormai Leo non era più presente a ricordarle quello che era successo, ma Katherine aveva bisogno di tenersi vicini i due gemelli per rafforzare le sue nuove convinzioni. I due figli rappresentavano la prova vivente della sua teoria e non avrebbe mai potuto darli in adozione.»
«Esattamente,» esclamò Tony. «Il fatto di tenerli con sé l’aiutava a tenere in vita la sua fantasia. Quando guardava le due creature indubitabilmente umane e perfettamente sane, vedeva realmente qualche differenza nei loro organi sessuali, come aveva raccontato a Mrs Yancy. Le vedeva nella sua mente, le immaginava, per autofornirsi la prova che quelli erano davvero figli del demonio. I gemelli erano parte integrante della sua fantasia, decisamente più comoda rispetto agli incubi che era stata costretta a vivere fino a quel momento.»
La mente di Hilary aveva preso a viaggiare più velocemente dell’aereo di Joshua. La sua eccitazione cresceva di pari passo con le considerazioni di Tony. «E allora Katherine si è portata a casa i due gemelli, senza però smettere di tenere in piedi la storia di Mary Gunther. Ma certo! Per prima cosa, doveva pensare alla propria reputazione, ma c’era anche un’altra ragione, molto più importante del semplice buon nome. Le psicosi hanno le proprie radici nell’inconscio, ma, da quel che ne so, le fantasie che uno psicotico usa per controbilanciare il tumulto interiore sono un prodotto della coscienza. Quindi… mentre Katherine credeva, a livello conscio, al demonio, nel più profondo di se stessa sapeva che se fosse tornata a St. Helena con i due gemelli, facendo crollare la storia di Mary Gunther, la gente avrebbe iniziato a sospettare che erano figli di Leo. E se avesse dovuto sopportare quell’affronto non sarebbe più stata capace di sostenere la fantasia del diavolo che la sua coscienza aveva fabbricato. Sarebbe ripiombata quindi nelle vecchie e tristi fantasie di un tempo. Ecco che allora, per conservare nella sua mente la teoria del diavolo, si è presentata in pubblico con un unico figlio. Ha dato lo stesso nome ai due bambini. Ne faceva uscire solo uno per volta. Li ha costretti a condurre un’unica esistenza in due.»
«E i due ragazzini hanno finito per considerarsi un’unica persona,» concluse Tony.
«Aspettate, aspettate,» li interruppe Joshua. «Forse sono stati veramente capaci di vivere sotto un unico nome, sotto un’unica identità in pubblico. Anche se questo per me è decisamente troppo, cercherò di crederci. Ma sono sicuro che in privato sono stati individui ben distinti.»
«Forse no,» azzardò Tony. «Abbiamo una prova in base alla quale si può ipotizzare che si considerassero… un’unica persona, divisa in due corpi.»
«Una prova? Quale?» domandò Joshua.
«La lettera che ha trovato nella cassetta di sicurezza della banca di San Francisco. In quella lettera, Bruno aveva scritto di essere stato ammazzato a Los Angeles. Non ha detto che era stato ucciso suo fratello. Ha detto che lui era morto.»
«Non è possibile provare niente con quella lettera,» ribattè Joshua. «Era soltanto uno sproloquio, non aveva alcun senso.»
«A modo suo, invece, aveva un senso,» insistè Tony. «Dal punto di vista di Bruno ha molto senso se non pensa a suo fratello come a un essere ben distinto. Se considera il suo gemello come parte integrante di se stesso, come un’estensione del suo corpo e non come una persona umana diversa da sé, la lettera ha una sua logica.»
Joshua scosse la testa. «Ancora non riesco a capire come sia possibile far credere a due persone di essere una sola.»
«In genere si sente parlare di casi di personalità scissa,» spiegò Tony. «Il dottor Jekyll e Mr Hyde. La storia realmente accaduta e raccontata nel libro I tre volti di Eva. Per non parlare di un altro libro dello stesso genere: Sybil. E stato un best seller qualche anno fa. La protagonista aveva addirittura sedici personalità ben distinte. Dunque, se ho fatto centro con la mia teoria sui gemelli Frye, il loro caso è esattamente opposto allo sdoppiamento di personalità. Non si sono scissi in sei, sette, otto menti diverse, ma, al contrario, si sono fusi psicologicamente in un’unica persona, e questo a causa della tremenda pressione esercitata dalla madre. Con tutta probabilità non è mai successo niente del genere e forse non succederà mai più, ma questo non esclude che possa essere andata così.»
«Per loro potrebbe essere stato di vitale importanza il fatto di sviluppare personalità assolutamente identiche, per potersi intercambiare nel mondo esterno,» aggiunse Hilary. «Anche la minima differenza poteva significare il crollo totale della loro messinscena.»
«Ma come?» chiese Joshua. «Che cosa ha fatto Katherine ai suoi figli? Come può esserci riuscita?»
«Probabilmente non lo sapremo mai con esattezza,» rispose Hilary. «Ma avrei un paio di idee.»
«Anch’io,» rincarò Tony. «Ma inizia prima tu.»
Nel pomeriggio inoltrato, la luce che filtrava dalle finestre dell’attico cominciò ad affievolirsi, modificando anche le proprie caratteristiche e riducendo sensibilmente l’ampiezza del suo fascio. Dagli angoli della stanza cominciarono ad allungarsi le ombre.
Mentre l’oscurità si insinuava strisciando, Bruno cominciò a temere di essere catturato dalle tenebre. Non poteva accendere la luce, semplicemente perché le lampade della casa non funzionavano. L’elettricità era stata staccata cinque anni prima, quando sua madre era morta per la prima volta. Nemmeno la torcia poteva essergli di aiuto in quanto le batterie erano ormai scariche.
Fissando il lavandino immerso nei giochi di ombre rosso-grigiastre, Bruno cercò di lottare contro il panico. In giro non aveva paura di restare al buio, perché comunque riusciva sempre a trovare un raggio di luce proveniente da qualche casa, dai lampioni stradali, dai fari delle auto, dalle stelle o dalla luna. Ma in una stanza priva di illumuiazione, i sussurri e le creature striscianti sarebbero ritornati e lui doveva assolutamente evitare quella doppia tortura.
Candele.
Sua madre teneva sempre un paio di scatole di candele nella dispensa della cucina. Le utilizzava in caso di black-out. Quasi certamente nella dispensa avrebbe trovato anche dei fiammiferi, in una scatola di latta con il coperchio a pressione. Non aveva toccato niente quando se n’era andato; si era limitato a portare via alcuni oggetti personali e artistici che aveva comperato per la sua collezione.
Si sporse in avanti per guardare la faccia dell’altro Bruno e poi disse: «Vado un attimo da basso.»
Gli occhi opachi e insanguinati continuarono a fissarlo.
«Non starò via molto,» lo rassicurò Bruno.
L’altro Bruno non rispose.
«Vado a procurarmi qualche candela per non restare completamente al buio,» spiegò Bruno. «Resterò tranquillo qui da solo, mentre io vado via per qualche minuto?»
L’altro Bruno rimase in silenzio.
Bruno si diresse nell’angolo della stanza verso le scale che lo avrebbero condotto nella camera da letto del primo piano. I gradini erano sufficientemente illuminati dalla luce proveniente dall’attico. Ma quando Bruno aprì la porta al piano di sotto, rimase sconvolto dal buio che regnava nella camera.
Le persiane.
Quando si era svegliato quella mattina, aveva aperto le persiane dell’attico, ma nel resto della casa le finestre erano tutte sigillate. Non aveva osato aprirle. Era improbabile che le spie di Hilary-Katherine notassero un paio di persiane aperte in mansarda, ma sarebbero sicuramente accorse se avesse spalancato le finestre di tutta la casa. Sembrava di essere in un sepolcro, sprofondato nella notte eterna.
Si fermò ai piedi delle scale e sbirciò nella camera buia, terrorizzato all’idea di avanzare e di sentire i sussurri.
Nessun rumore.
Nessun movimento.
Prese in considerazione l’idea di tornare nell’attico. Ma così non avrebbe risolto il suo problema. Nel giro di qualche ora sarebbe calata la sera e lui sarebbe rimasto nuovamente senza una luce in grado di proteggerlo. Doveva procedere verso la dispensa e trovare quelle candele.
Suo malgrado, avanzò nella camera del primo piano, lasciando aperta la porta delle scale da cui filtrava la pallida luce dell’attico. Due passi. Poi si fermò.
In attesa.
In ascolto.
Nessun sussurro.
Tolse la mano dalla maniglia e attraversò la camera di corsa, cercando di evitare i mobili.
Nessun sussurro.
Raggiunse un’altra porta e uscì nel corridoio del primo piano.
Nessun sussurro.
Per un breve istante, immerso nell’oscurità vellutata, non ricordò se le scale per scendere al pianterreno erano a destra o a sinistra. Poi tornò a orientarsi e svoltò a destra con le braccia allungate in avanti e le mani spalancate, in un atteggiamento simile a quello dei ciechi.
Nessun sussurro.
Per poco non cadde dalle scale. Il pavimento sprofondò all’improvviso e Bruno riuscì a salvarsi aggrappandosi alla ringhiera.
Sussurri.
Senza lasciare la ringhiera, sempre immerso nell’oscurità, trattenne il respiro e inclinò il capo.
Sussurri.
Alle spalle.
Lo stavano rincorrendo.
Lanciò un grido e vacillò giù per le scale. Perse il sostegno della ringhiera, poi l’equilibrio, si sbracciò, inciampò e atterrò su un pianerottolo urtando il viso contro il tappeto ammuffito, mentre una fìtta di dolore gli attraversava la gamba sinistra. Solo una fìtta e poi l’intontimento della carne. Sollevò la testa e udì i sussurri che si avvicinavano. Si rialzò, iniziò a piagnucolare per la paura, zoppicò giù per la seconda rampa e barcollò quando finalmente giunse al pianterreno. Si gettò un’occhiata alle spalle, fissando verso l’alto, nell’oscurità. Udì i sussurri che si stavano precipitando verso di lui con un sibilo sempre crescente e urlò: «No! No!» Poi imboccò il corridoio che l’avrebbe condotto in cucina e tutt’a un tratto i sussurri erano ovunque: risuonavano da ogni parte e c’erano anche quelle orribili cose striscianti, o quella cosa, oppure tante, non sapeva dire. Si precipitò verso la cucina, sbandando contro le pareti dei corridoi e scrollandosi di dosso le creature striscianti. Infine si avventò sulla porta della cucina, che si spalancò di colpo. Procedette a tastoni localizzando prima i fornelli, poi i mobiletti e il lavandino finché non raggiunse la dispensa, mentre le cose gli strisciavano addosso e i sussurri si facevano sempre più forti. Alla fine urlò a squarciagola, spalancò la porta della dispensa e venne assalito da un puzzo nauseabondo. Nonostante l’odore varcò la soglia, ma si rese conto che al buio non sarebbe riuscito a trovare le candele e i fiammiferi in mezzo a tutte le caraffe e i barattoli. Allora tornò di corsa in cucina, senza smettere di urlare, di picchiarsi i vestiti, di sfregarsi la faccia per liberarsi delle cose che cercavano di infilarsi nel naso e nella bocca. Trovò la porta di servizio che conduceva sulla veranda del retro, armeggiò con i catenacci induriti, riuscì ad aprirli e spalancò l’uscio.
Luce.
La luce grigiastra del pomeriggio che arrivava obliqua dalle Mayacamas inondò la soglia, illuminando la cucina.
Luce.
Per un istante, rimase fermo sulla porta, lasciandosi avvolgere da quella luce meravigliosa. Grondava di sudore. Il respiro si era fatto pesante e irregolare.
Quando infine riuscì a calmarsi, tornò nella dispensa. L’odore rivoltante proveniva dalle muffe e dai funghi che si erano formati sulle cibarie sparse ovunque, in seguito all’esplosione dei barattoli. Cercando di non impiastricciarsi, riuscì a trovare le candele e i fiammiferi. I fiammiferi erano ancora asciutti e utilizzabili. Ne accese uno per prova e quella fiammella fu un vero sollievo per la sua anima.
A ovest del Cessna, che volava a centinaia di piedi dal suolo, si avvicinavano nuvole minacciose provenienti dal Pacifico.
«Ma come?» domandò ancora una volta Joshua. «Com’è riuscita Katherine a far agire e pensare i gemelli come se fossero una persona sola?»
«Probabilmente non lo sapremo mai,» rispose Hilary. «Ma secondo me quella donna deve aver condiviso le proprie fantasie con i gemelli dal giorno in cui li ha portati a casa, quando ancora non erano in grado di capire quello che stava dicendo. Katherine avrà ripetuto loro centinaia, forse migliaia di volte che erano figli del diavolo. Avrà raccontato che erano nati ricoperti dalla membrana amniotica, spiegando il significato di quel marchio. Li avrà convinti che i loro organi sessuali erano diversi da quelli degli altri ragazzini. Probabilmente li avrà anche spaventati dicendo loro che se gli altri avessero scoperto la loro diversità, li avrebbero uccisi. Quando raggiunsero l’età in cui la curiosità avrebbe dovuto spingerli a chiedere spiegazioni, avevano ormai subito un lavaggio del cervello tale da non essere in grado di mettere in dubbio le parole della madre. Ormai condividevano la sua psicosi e le sue fantasie. I due ragazzini vivevano probabilmente in uno stato di costante tensione, timorosi di essere scoperti e quindi uccisi. La paura genera lo stress e la tensione aveva reso la loro psiche estremamente fragile. Credo che un lungo periodo di stress ininterrotto potrebbe creare l’atmosfera adatta per una fusione della personalità come quella descritta da Tony. Lo stato di tensione prolungato non può essere stato la causa unica di quella fusione, ma potrebbe aver preparato il terreno per la sua definitiva attuazione.»
Tony proseguì: «Dai nastri che abbiamo ascoltato questa mattina nello studio del dottor Rudge, risulta che Bruno sapeva che lui e il fratello erano nati con la membrana amniotica. Sappiamo inoltre che era a conoscenza delle superstizioni collegate a quel raro fenomeno. Dal tono della sua voce sulla cassetta, direi che possiamo tranquillamente desumere che Bruno era convinto, come lo era la madre, di essere figlio del demonio. E ci sono altre prove che confermano questa teoria. Per esempio, la lettera nella cassetta di sicurezza. Bruno aveva scritto di non poter chiedere la protezione della polizia contro la madre perché altrimenti avrebbero scoperto la sua vera natura e tutto quello che aveva sempre tenuto nascosto. Affermava inoltre che la gente l’avrebbe ammazzato se avesse scoperto chi era. Era convinto di essere il figlio del demonio. Ne sono sicuro. Aveva assorbito le fantasie psicotiche di Katherine.»
«D’accordo,» commentò Joshua. «Forse entrambi i fratelli credevano alla faccenda del diavolo perché non avevano mai avuto la possibilità di dubitarne. Però tutto questo non spiega come o perché Katherine abbia modellato in una sola persona i figli, come abbia fatto a fondere… le loro personalità, come dice lei.»
«Il perché è semplice,» continuò Hilary. «Se i gemelli si fossero considerati come individui distinti, fra loro sarebbero sempre esistite delle differenze, seppure minime. E proprio a causa di queste differenze, uno dei due avrebbe potuto involontariamente mandare all’aria l’intero piano. Solo se i due fratelli avessero parlato, agito, pensato nello stesso modo, lei sarebbe stata salva.»
«E per quanto riguarda il come» spiegò Tony, «non deve dimenticare che Katherine sapeva come distruggere e modellare una mente. In fin dei conti, lei era stata plasmata da un autentico maestro: Leo. Lui aveva utilizzato tutti i mezzi possibili e immaginabili per trasformare la figlia in ciò che voleva che fosse e Katherine non aveva potuto fare a meno di apprendere quegli insegnamenti. Vere e proprie tecniche di tortura fisica e psicologica. Probabilmente Katherine avrebbe potuto scrivere un saggio sull’argomento.»
«E per fare in modo che i gemelli pensassero come un’unica entità,» continuò Hilary, «doveva trattarli come fossero stati una persona sola. In altre parole, doveva istruirli alla perfezione. Doveva amarli nello stesso modo, punirli per il capriccio di uno solo, premiarli per il merito di uno solo, trattare i due corpi come se possedessero la stessa mente. Doveva parlare loro come se fossero stati una sola persona e non due.»
«E ogni volta che scorgeva un tratto di individualità doveva cercare di farlo possedere a entrambi, oppure estirparlo dal gemello che aveva mostrato tale caratteristica. E naturalmente era molto importante l’uso dei pronomi,» proseguì Tony.
«L’uso dei pronomi?» domandò Joshua, perplesso.
«Sì,» spiegò Tony. «Forse vi sembrerà assurdo o persino privo di importanza. Ma più di ogni altra cosa noi ci identifichiamo attraverso il linguaggio. È attraverso il linguaggio che esprimiamo le nostre opinioni e i nostri pensieri. Un modo di pensare elementare porta a utilizzare un linguaggio altrettanto elementare. Ma è anche vero il contrario: un linguaggio impreciso causa una certa confusione mentale. È uno dei principi fondamentali della semantica. È logico quindi formulare la teoria secondo la quale un uso alterato dei pronomi permette di costruire un’immagine alterata di se stessi, proprio quell’immagine che Katherine voleva venisse adottata dai gemelli. Per esempio, quando i due ragazzi parlavano fra di loro, non potevano mai usare il pronome ’tu’ perché ’tu’ racchiude il concetto di un essere diverso da sé. Se ai gemelli veniva imposto di pensare a loro stessi come a un’unica entità, allora il pronome ’tu’ non aveva senso. Un Bruno non avrebbe mai potuto dire all’altro: ’Perché io e te non facciamo una partita a Monopoli?’ Avrebbe invece chiesto qualcosa di questo genere: ’Perché non faccio una partita a Monopoli con me stesso?’ Non poteva usare il pronome ’noi’ quando parlava di se stesso e del fratello, poiché quel pronome indica la presenza di almeno due persone. Quindi, quando intendeva ’noi’, diceva ’io e me stesso’. Inoltre, quando uno dei fratelli parlava a Katherine dell’altro, non gli era permesso usare il pronome ’lui’. Ecco quindi che chi parlava racchiudeva in sé il concetto dell’altro. Le sembra complicato?»
«Assurdo,» esclamò Joshua.
«E proprio questo il punto,» replicò Tony.
«Ma è troppo. È pazzesco.»
«Certo che è pazzesco,» affermò Tony. «Era il piano di Katherine, e Katherine era pazza.»
«Ma come ha fatto a inculcare quelle regole assurde sulle abitudini, sul modo di parlare, sul comportamento, sull’uso dei pronomi e chissà che cos’altro ancora?»
«Nello stesso modo in cui abitualmente si insegna il comportamento a un bambino normale,» s’intromise Hilary. «Se si comporta bene, lo premi, quando invece fa il cattivo, lo punisci.»
«Ma per inculcare un comportamento così innaturale, come quello che Katherine voleva insegnare ai gemelli, per renderli talmente docili da rinunciare alla loro personalità, la punizione doveva essere veramente mostruosa,» commentò Joshua.
«E noi sappiamo che si trattava di qualcosa di mostruoso,» ribattè Tony. «Abbiamo sentito tutti la cassetta del dottor Rudge sulla quale è registrata l’ultima seduta sotto ipnosi di Bruno. Se vi ricordate, Bruno diceva che per punirlo la madre lo rinchiudeva in una fossa buia nella terra. Diceva testualmente: ’Perché non mi comportavo e non pensavo come uno solo.’ Sono convinto che Katherine mandasse lui e il fratello in quel posto buio, quando si rifiutavano di agire e pensare come una sola persona. Li lasciava rinchiusi al buio per ore e ore e là dentro c’era qualcosa di vivo, qualcosa che strisciava addosso ai bambini. Qualsiasi cosa succedesse loro in quella stanza o in quel buco… era così terribile che per anni i due gemelli hanno continuato ad avere incubi ogni notte. Se dopo tanti anni l’impressione è ancora così viva, direi che doveva trattarsi di una punizione estremamente severa e perfetta per un lavaggio del cervello. Katherine ha fatto dei gemelli quello che voleva: li ha resi una persona sola.» Joshua fissò il cielo sopra di loro.
Alla fine, esclamò: «Quando tornò dal bordello di Mrs Yancy, doveva riuscire a far passare i gemelli per quell’unico bambino di cui aveva già parlato, confermando così la teoria della fantomatica amica. Ma avrebbe potuto limitarsi a rinchiudere uno dei gemelli, tenendolo sempre in casa, mentre faceva uscire l’altro. Sarebbe stato più semplice, più veloce e più sicuro.»
«Ma conosciamo tutti la Legge di Clemenza,» commentò Hilary.
«È vero,» ammise Joshua. «La Legge di Clemenza: ben poche persone imboccano la strada più semplice, più veloce e più sicura.»
«Inoltre,» aggiunse Hilary, «forse Katherine non se la sentiva di rinchiudere per sempre uno dei gemelli mentre l’altro poteva condurre una vita quasi normale. Dopo quello che aveva sofferto, forse c’era un limite alla tortura che poteva infliggere ai figli.»
«A me sembra che quei due poveri ragazzi abbiano patito le pene dell’inferno!» esclamò Joshua. «Li ha fatti impazzire!»
«Sì, ma senza volerlo,» proseguì Hilary. «Non era sua intenzione farli impazzire. Pensava di agire solo per il loro bene, ma il suo stato mentale non le permetteva di giudicare quale potesse essere questo bene.»
Joshua sospirò. «E una teoria pazzesca.»
«Non così pazzesca,» disse Tony. «Si accorda perfettamente ai fatti.»
Joshua annuì. «Ne sono convinto anch’io. Perlomeno in buona parte. Vorrei solo che i cattivi di questa storia fossero tutti vili e spregevoli. Non mi sembra giusto provare tanta compassione per loro.»
Dopo essere atterrati a Napa, sotto un cielo sempre più plumbeo, si diressero immediatamente nell’ufficio dello sceriffo della contea e raccontarono ogni cosa a Peter Laurenski. Inizialmente, lui li fissò come se fossero impazziti, ma la sua incredulità cominciò ben presto a trasformarsi in riluttante accettazione. Era un tipo di reazione, una trasformazione delle impressioni iniziali, alla quale avrebbero assistito centinaia di volte nei giorni seguenti.
Laurenski telefonò al dipartimento di polizia di Los Angeles. Scoprì che l’FBI li aveva già contattati in relazione al caso di frode bancaria di San Francisco, che vedeva coinvolto un sosia di Bruno Frye. Naturalmente Laurenski voleva comunicare ai colleghi che l’individuo non era un semplice sosia, ma il legittimo titolare del conto, anche se un altro legittimo titolare era morto e sepolto nel Napa County Memorial Park. Informò la polizia di Los Angeles che aveva ragione di credere che i due Bruno si fossero dati il cambio nell’omicidio di molte donne e che fossero i responsabili di una serie di assassinii compiuti nella parte settentrionale dello stato negli ultimi cinque anni, anche se non aveva ancora in mano prove schiaccianti e non era neppure in grado di indicare con precisione in quali delitti fossero coinvolti i due fratelli. Per il momento, possedeva solo prove circostanziali: una macabra ma logica interpretazione della lettera rinvenuta nella cassetta di sicurezza alla luce delle recenti scoperte su Leo, Katherine e i gemelli; il fatto che entrambi i fratelli avessero cercato di uccidere Hilary; il fatto che la settimana precedente, quando Hilary era stata aggredita per la prima volta, uno dei gemelli aveva coperto l’altro, indicando quindi la complicità in almeno un tentato omicidio; infine la convinzione, condivisa da Hilary, Tony e Joshua, che l’odio di Bruno per la madre fosse così forte e maniacale da non farlo esitare a trucidare ogni donna nel cui corpo Katherine poteva essersi reincarnata.
Mentre Hilary e Joshua bevevano una tazza di caffè, seduti sulla panca che serviva da divano, Tony, su richiesta di Laurenski, parlò al telefono con due suoi superiori a Los Angeles. Il suo appoggio a Laurenski e l’evidenza dei fatti da lui esposti sembrarono dare risultati positivi poiché la telefonata si concluse con la promessa che anche le autorità di Los Angeles sarebbero entrate immediatamente in azione. Partendo dal presupposto che lo psicopatico avrebbe tenuto sotto controllo la casa di Hilary, la polizia di Los Angeles decise di sorvegliare ventiquattr’ore su ventiquattro la casa di Westwood.
Dopo essersi assicurato la collaborazione della polizia di Los Angeles, lo sceriffo stese velocemente un comunicato, sottolineando i punti fondamentali del caso, da distribuire a tutte le forze dell’ordine della zona. Il comunicato era anche una formale richiesta per ricevere informazioni su casi di omicidi non risolti, compiuti negli ultimi cinque anni, in zone poste fuori della giurisdizione di Laurenski, nei quali le vittime fossero state graziose brunette dagli occhi scuri. Si faceva riferimento soprattutto a omicidi nei quali la vittima fosse stata decapitata, mutilata o avesse comunque subito una violenza carnale.
Osservando lo sceriffo che impartiva ordini agli impiegati e ai poliziotti e ripensando agli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore, Hilary ebbe la netta impressione che le cose stessero muovendosi troppo velocemente, come un mulinello di vento; un vento colmo di sorprese e orribili segreti, proprio come un tornado è colmo di detriti e zolle vorticose strappate alla terra. Quel tornado la stava trascinando verso un precipizio invisibile ma estremamente pericoloso. Avrebbe voluto fermare il tempo per avere qualche giorno di tranquillità e ripensare a ciò che avevano scoperto; avrebbe voluto esaminare gli ultimi, complicati intrighi della misteriosa vicenda Frye a mente lucida. Era sicura che quella fretta fosse assurda, persino mortale. Ma i meccanismi della legge, ormai in moto, non potevano più essere fermati. E il tempo non poteva essere imbrigliato, come un cavallo al galoppo.
Si augurò che davanti a lei non ci fosse il precipizio.
Alle 17.30, dopo aver messo in moto la macchina della legge, Laurenski e Joshua cercarono di rintracciare telefonicamente un giudice. Ne trovarono uno, Julian Harwey, che rimase affascinato dalla storia dei Frye. Harwey si rese conto della necessità di riesumare il cadavere e di sottoporlo a ulteriori esami per poterlo identificare. Se il secondo Bruno Frye fosse stato arrestato e fosse riuscito a passare l’esame psichiatrico, cosa altamente improbabile ma non impossibile, a quel punto il pubblico ministero avrebbe avuto bisogno di una prova fìsica attestante l’esistenza di due gemelli identici. Harwey firmò l’ordine di riesumazione e alle 18.30 lo sceriffo aveva già in mano il documento.
«I becchini al cimitero non riusciranno a scoperchiare la tomba al buio,» spiegò Laurenski, «ma dirò loro di iniziare alle prime luci dell’alba.» Fece qualche altra telefonata, una al direttore del Napa County Memorial Park dove era sepolto Frye, un’altra al coroner della contea, che avrebbe condotto l’autopsia sulla salma, e l’ultima ad Avril Tannerton, l’impresario delle pompe funebri che avrebbe dovuto occuparsi del trasbordo del corpo dal cimitero al laboratorio di patologia e viceversa.
Quando Laurenski depose finalmente la cornetta, Joshua esclamò: «Immagino che voglia perquisire la casa di Frye.»
«Certo,» rispose Laurenski. «Dobbiamo trovare le prove che testimonino che in quella casa non viveva un uomo solo. E se Frye ha veramente ammazzato altre donne, forse scopriremo qualcosa. Penso sia una buona idea perquisire anche la casa sulla collina.»
«Possiamo entrare nella casa nuova quando vuole,» lo informò Joshua, «ma in quella vecchia non c’è luce. Dovremo aspettare che faccia giorno.»
«Okay,» approvò Laurenski. «Ma vorrei comunque dare un’occhiata questa notte stessa.»
«Adesso?» domandò Joshua, alzandosi dalla panca.
«Nessuno di noi ha cenato,» affermò Laurenski. Prima ancora di sentire l’intera storia, lo sceriffo aveva già avvertito la moglie che sarebbe tornato a casa molto tardi. «Andiamo a mangiare un boccone al ristorante dietro l’angolo e poi possiamo fare una scappata a casa di Frye.»
Prima di uscire, Laurenski comunicò alla centralinista dove avrebbe potuto rintracciarlo e le chiese di informarlo immediatamente se fosse giunta la notizia dell’arresto del secondo Bruno Frye da parte della polizia di Los Angeles.
«Non sarà tanto facile,» disse Hilary.
«Temo che tu abbia ragione,» si intromise Tony. «Bruno ha nascosto un terribile segreto per quarant’anni. Può darsi che sia pazzo, ma è anche estremamente in gamba. La polizia di Los Angeles non riuscirà a catturarlo tanto in fretta. Dovrà giocare d’astuzia per riuscire a inchiodarlo.»
Al calare delle tenebre, Bruno aveva richiuso le persiane nell’attico.
C’erano candele accese sui comodini. E un paio anche sul cassettone. Le fiammelle tremolanti proiettavano ombre ballerine sulle pareti e sul soffitto.
Bruno sapeva che avrebbe già dovuto essere fuori alla ricerca di Hilary-Katherine, ma non aveva la forza di alzarsi e uscire. Continuava a rimandare.
Aveva fame. Improvvisamente si rese conto che non mangiava da ventiquattr’ore. Lo stomaco reclamava.
Rimase seduto per un po’ sul letto, accanto al cadavere che lo fissava, cercando di decidere dove andare a procurarsi qualcosa da mangiare. Nella dispensa aveva notato alcune lattine apparentemente intatte, ma anche se non erano esplose, probabilmente contenevano cibo avariato. Riflette per circa un’ora su quell’annoso problema: doveva trovare qualcosa da mettere sotto i denti senza cadere nelle mani delle spie di Katherine. Ce n’erano dappertutto. Quella puttana e le sue spie. Dappertutto. Aveva la testa ancora confusa e, nonostante la fame, faceva fatica a concentrarsi sul cibo. Alla fine, si ricordò che probabilmente c’era qualcosa in casa sua. Nel corso dell’ultima settimana, il latte era sicuramente andato a male e il pane sarebbe stato duro, ma la dispensa era piena di scatolette e il frigorifero stracolmo di formaggio e frutta. C’era anche del gelato nel freezer. A quel pensiero, sorrise come un bambino.
Pregustando il sapore del gelato e sperando che un buon pasto gli fornisse le energie necessarie per dare la caccia a Hilary-Katherine, uscì dalla mansarda e attraversò la casa reggendo in mano una candela. Giunto all’esterno, spense la fiamma e si mise la candela in tasca. Scese lungo la scala semidistrutta e si incamminò a lunghi passi tra i vigneti sprofondati nelle tenebre.
Dieci minuti più tardi, in casa sua, accese di nuovo la candela perché temeva che le luci potessero attirare l’attenzione di visitatori indesiderati. Afferrò un cucchiaio dal cassetto sotto il lavandino, prese una confezione di gelato al cioccolato da un chilo e si sedette al tavolo per un quarto d’ora, affondando il cucchiaio direttamente nel cartone e sorridendo felice fino a quando non riuscì più a ingoiare un solo boccone.
Lasciò cadere il cucchiaio nella confezione semivuota, rimise il gelato nel freezer e si rese conto che avrebbe dovuto preparare un po’ di cibo da portare nella casa sulla collina. Forse avrebbe impiegato qualche giorno a rintracciare e uccidere Hilary-Katherine e non voleva essere obbligato a intrufolarsi di nascosto in casa alla ricerca di qualcosa da mangiare. Prima o poi, quella puttana avrebbe chiesto alle sue spie di tenere sotto controllo quel posto e quindi avrebbero finito con il catturarlo. Ma sicuramente non sarebbe mai andata a cercarlo nella casa sulla collina, non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo: era lì quindi che doveva tenere le provviste di cibo.
Andò nella camera da letto e prese un’enorme valigia dall’armadio, la portò in cucina e la riempì con scatolette di pesche, pere e arance, barattoli di burro d’arachidi e olive, due vasetti di marmellata avvolti in tovaglioli di carta e confezioni di minuscoli wurstel. Quando ebbe finito, la valigia risultò incredibilmente pesante, ma lui era sufficientemente forte per riuscire a trasportarla.
Non faceva la doccia da parecchie ore, da quando si era fermato a casa di Sally, e si sentiva sudicio. Odiava lo sporco, perché gli faceva venire in mente i sussurri e quelle orribili creature striscianti che popolavano la fossa oscura nella terra. Decise di correre il rischio di lavarsi rapidamente prima di riportare il cibo nella casa sulla collina, anche se significava spogliarsi e restare privo di difese per qualche minuto. Ma mentre attraversava il soggiorno per raggiungere il bagno principale, udì il rumore di macchine che si avvicinavano. I motori risuonavano incredibilmente forte nel silenzio assoluto della campagna.
Bruno corse alla finestra e socchiuse la tenda per poter osservare all’esterno.
Due auto. Quattro fari. Puntavano in direzione dello spiazzo.
Katherine.
Quella puttana!
La puttana e i suoi amici. I suoi amici morti.
Terrorizzato, corse in cucina, afferrò la valigia, spense la candela e se la mise in tasca. Uscì dalla porta sul retro e si precipitò verso il vigneto immerso nell’oscurità, proprio mentre le auto si fermavano davanti alla casa.
Bruno procedette carponi, trascinando la valigia fra le vigne, con le orecchie tese, pronte a cogliere il minimo rumore. Fece il giro della casa per riuscire a vedere le macchine. Si nascose dietro la valigia appoggiata a terra, rannicchiandosi sulla terra umida, fra le ombre della notte. Osservò gli occupanti della macchina che scendevano e il cuore prese a battergli furiosamente quando li riconobbe.
Lo sceriffo Laurenski e un suo aiutante. Così anche i poliziotti erano morti viventi! Non l’aveva mai sospettato.
Joshua Rhinehart. Anche il vecchio avvocato era un cospiratore! Era uno degli amici infernali di Katherine.
E poi c’era lei! Quella puttana. La puttana nel suo nuovo corpo. E anche quell’uomo di Los Angeles.
Entrarono tutti in casa.
Accesero le luci una dopo l’altra.
Bruno cercò di ricordare se aveva lasciato qualcosa fuori posto. Forse la candela aveva sgocciolato ma la cera doveva già essersi indurita. Non avrebbero potuto capire da quanto tempo era stata accesa. Aveva lasciato il cucchiaio nella confezione di gelato, ma avrebbe potuto farlo anche molti giorni prima. Grazie al cielo, non aveva fatto la doccia! L’acqua sul pavimento e l’asciugamano bagnato l’avrebbero tradito; se avessero trovato un asciugamano usato di recente, avrebbero capito immediatamente che era tornato a St. Helena e avrebbero intensificato le ricerche.
Si alzò in piedi, sollevò la valigia e si allontanò precipitosamente. Proseguì verso la cantina e poi svoltò in direzione della collina. Non sarebbero mai andati a cercarlo nella casa sulla collina. Nemmeno per sogno. In quella casa sarebbe stato al sicuro perché loro pensavano che avesse troppa paura per ritornarci.
Se si fosse nascosto nell’attico, avrebbe avuto il tempo per pensare e organizzarsi. Non doveva agire in fretta. Ultimamente era un po’ confuso, soprattutto dopo la morte dell’altra metà di se stesso, e non avrebbe osato affrontare quella puttana fino a quando non avesse esaminato a fondo la situazione.
Ormai sapeva come trovarla. Attraverso Joshua Rhinehart.
Avrebbe potuto metterle le mani addosso in qualsiasi momento.
Ma prima aveva bisogno di tempo per mettere a punto un piano a prova di bomba. Non vedeva l’ora di tornare nell’attico per discuterne con se stesso.
Laurenski, Tim Larsson, Joshua, Tony e Hilary si sparpagliarono nella casa. Setacciarono cassetti, armadi, mobili e credenze.
Dapprima, non trovarono tracce che facessero pensare a una casa abitata da due uomini invece che da uno solo. Forse c’erano un po’ troppi vestiti. E più provviste di quanto ci si sarebbe aspettati nella casa di un uomo solo. Ma non c’erano prove.
Poi, rovistando nei cassetti della scrivania, Hilary si imbattè in un pacchetto di fatture e ricevute non ancora saldate. Due di queste provenivano da due dentisti diversi: uno di Napa e l’altro di San Francisco.
«Ma certo!» esclamò Tony chiamando tutti a raccolta. «I gemelli sarebbero dovuti andare da medici diversi e, soprattutto, da dentisti diversi. Il Bruno Numero Due non sarebbe potuto andare nello studio di un dentista per farsi aggiustare un dente che quello stesso dentista aveva già riparato al Bruno Numero Uno solo una settimana prima.»
«Questo ci può aiutare,» riconobbe Laurenski. «Persino due gemelli identici presentano delle differenze per quanto riguarda i denti. Le impronte dentali dimostreranno che esistono due Bruno Frye.»
Più tardi, controllando un armadio in camera da letto, Larsson fece una scoperta agghiacciante. In una scatola di scarpe trovò una dozzina di foto di giovani donne, sei patenti di guida a loro nome e altre undici intestate ad altrettante ragazze. In ogni foto spiccava l’immagine di una donna che aveva qualcosa in comune con tutte le altre: un bel viso, occhi scuri, capelli scuri e lineamenti molto simili.
«Ventitré donne che assomigliano vagamente a Katherine,» mormorò Joshua. «Mio Dio, ventitré.»
«Una galleria di morte,» mormorò Hilary, tremando.
«Perlomeno non sono tutte anonime,» aggiunse Tony. «Sulle patenti sono riportati nomi e indirizzi.»
«Diffonderemo subito la notizia,» disse Laurenski, mandando Larsson a prendere contatto via radio con la Centrale. «Ma temo di sapere già quello che scopriremo.»
«Ventitré casi di omicidi mai risolti avvenuti negli ultimi cinque anni,» bofonchiò Tony.
«O ventitré sparizioni,» aggiunse lo sceriffo.
Rimasero altre due ore in quella casa, ma non trovarono niente di interessante, a parte le fotografie e le patenti. Hilary aveva i nervi scossi ed era visibilmente turbata all’idea che anche la sua patente sarebbe potuta finire in quella scatola. Ogni volta che apriva un cassetto o un’antina dell’armadio, si aspettava di trovare un cuore avvizzito trafitto da un picchetto o la testa putrefatta di una donna morta. Si sentì sollevata quando conclusero le ricerche.
Nella fresca aria della sera, Laurenski chiese: «Domani mattina verrete nell’ufficio del coroner?»
«Non faccia conto su di me,» esclamò Hilary.
«No, grazie,» ribattè Tony.
Joshua incalzò: «Comunque non potremmo fare nulla.»
«A che ora ci vediamo alla casa sulla collina?» domandò Laurenski.
Joshua rispose: «Tony, Hilary e io ci andremo subito domani mattina, per aprire le finestre. Quella casa è rimasta chiusa per cinque anni. È meglio farle prendere un po’ d’aria prima di iniziare a frugare in giro. Perché non ci raggiunge appena ha finito con il coroner?»
«D’accordo,» disse Laurenski. «Ci vediamo domani. Forse la polizia di Los Angeles riuscirà a prendere quel bastardo nel corso della notte.»
«Speriamo,» si augurò Hilary.
Dalle Mayacamas si udì il fragore di un tuono.
Bruno Frye trascorse gran parte della notte parlando con se stesso e organizzando meticolosamente la morte di Hilary-Katherine.
La sua altra metà continuò a dormire accanto al tremolio delle candele. Sottili fili di fumo si levarono dai mozziconi. Le fiamme ballerine gettavano macabre ombre sulle pareti e si riflettevano negli occhi vuoti del cadavere.
Joshua Rhinehart non riuscì a dormire. Continuò a rigirarsi nel letto, ingarbugliandosi sempre più nelle lenzuola. Alle tre del mattino si alzò, andò verso il bar e si versò un doppio bourbon, bevendolo tutto d’un fiato. Ma nemmeno così riuscì a calmarsi.
Non aveva mai sentito la mancanza di Cora come in quella notte.
Hilary si svegliò più volte per colpa degli incubi, ma la notte trascorse rapidamente. Il tempo parve volare a velocità supersonica. Aveva sempre l’impressione di correre verso un precipizio, ma non riusciva a fare nulla per fermarsi.
All’alba, quando Tony si svegliò, Hilary gli si avvicinò e gli sussurrò in un orecchio: «Facciamo l’amore.»
Per circa mezz’ora si persero l’uno nelle braccia dell’altra, con la passione e l’entusiasmo di sempre. Assaporarono sino in fondo quell’unione dolce e silenziosa.
Poi lei mormorò: «Ti amo.»
«Anch’io ti amo.»
«Non importa quello che può succedere,» proseguì lei. «Perlomeno siamo stati insieme per qualche giorno.»
«Non essere fatalista.»
«Be’… non si sa mai.»
«Abbiamo ancora molti anni davanti a noi. Moltissimi anni da trascorrere insieme. E nessuno potrà toglierceli.»
«Tu sei così ottimista. Avrei voluto conoscerti molto tempo fa.»
«Ormai il peggio è passato. Ora conosciamo la verità.»
«Ma non hanno ancora preso Frye.»
«Lo prenderanno presto,» la rassicurò Tony. «E convinto che tu sia Katherine e quindi non si allontanerà troppo da Westwood. Terrà d’occhio casa tua per vedere se torni e prima o poi riusciranno a individuarlo e sarà tutto finito.»
«Stringimi.»
«Certo.»
«Mmmm. È carino.»
«Già.»
«Rimanere così abbracciati.»
«Sì.»
«Mi sento già meglio.»
«Andrà tutto bene.»
«Finché ci sarai tu.»
«Allora, per sempre.»
Il cielo era scuro, cupo e minaccioso. Le vette delle Mayacamas erano avvolte dalle nubi.
Peter Laurenski era in piedi davanti alla tomba, le mani in tasca e le spalle strette per proteggersi dall’aria gelida.
Usando una robusta zappa e poi una pala per togliere l’ultimo strato di terra, gli uomini del Napa County Memorial Park scavarono nel terreno soffice, distruggendo la fossa di Bruno Frye. Mentre lavoravano, continuavano a lamentarsi con lo sceriffo perché non venivano pagati per alzarsi all’alba, saltando persino la colazione, ma non vennero presi molto in considerazione: Laurenski li invitò semplicemente a scavare con più lena.
Alle 7.45 Avril Tannerton e Gary Olmstead arrivarono con il carro funebre della Forever View. Si diressero verso Laurenski: Olmstead aveva un’aria triste mentre Tannerton sorrideva, respirando a pieni polmoni, come se stesse semplicemente facendo la sua passeggiata quotidiana.
«Buongiorno, Peter.»
«Buongiorno, Avril. Gary.»
«Quanto ci vuole prima che la aprano?» domandò Tannerton.
«Hanno detto un quarto d’ora.»
Alle 8.05, uno degli uomini si issò dalla fossa e chiese: «Siete pronti per tirarlo fuori?»
«Vediamo di sbrigarci,» sbottò Laurenski.
Furono attaccate delle catene alla cassa, che fu estratta dal terreno con lo stesso procedimento utilizzato per calarcela la domenica precedente. La bara color bronzo era ricoperta di terra attorno alle maniglie e nelle fessure, ma nel complesso era ancora ben tenuta.
Alle 8.40, Tannerton e Olmstead caricarono la cassa sul carro.
«Vi seguirò fino all’ufficio del coroner,» disse lo sceriffo.
Tannerton fece una smorfia. «Peter, ti assicuro che non abbiamo intenzione di scappare con i resti di Mr Frye.»
Alle 8.20, mentre la cassa veniva riesumata nel cimitero a poche miglia di distanza, Tony e Hilary sistemavano i piatti della colazione nel lavandino della cucina di Joshua Rhinehart.
«Li laverò più tardi,» disse Joshua. «Andiamo subito in cima alla collina e apriamo la casa. Deve esserci una puzza micidiale dopo tutti questi anni. Spero solo che la muffa e la ruggine non abbiano rovinato troppo la collezione di Katherine. Ho avvisato Bruno almeno un migliaio di volte, ma sembrava non gliene importasse nulla…» Joshua si bloccò e battè le palpebre. «Sto dicendo una stupidaggine, vero? Per forza non gliene fregava niente anche se marciva tutto. Quegli oggetti appartenevano a Katherine e non gliene fregava assolutamente niente della sua collezione.»
Si recarono alla Shade Tree Vineyards con la macchina di Joshua. La giornata era tetra e la luce grigiastra. Joshua posteggiò nel parcheggio riservato agli impiegati.
Gilbert Ulman non era ancora arrivato. Era il meccanico che si occupava della manutenzione della funivia e di tutta l’attrezzatura e i macchinali della Shade Tree Vineyards.
La chiave che metteva in funzione la funivia era appesa nel garage e il portiere di notte, un corpulento uomo di nome Iannucci, fu felice di andarla a prendere per Joshua.
Con la chiave, in mano Joshua condusse Hilary e Tony fino al primo piano dell’enorme costruzione, attraverso gli uffici amministrativi, un laboratorio vinicolo e una larga passerella. Metà dell’edificio si apriva dal pianterreno fino al soffitto e in quell’enorme locale erano stati sistemati i giganteschi serbatoi per la fermentazione. L’aria gelida circolava fra le cisterne alte tre piani e ovunque regnava l’odore del vino che fermentava. In fondo alla lunga passerella oltrepassarono una pesante porta in legno di pino con i cardini in ferro che si apriva su una stanza minuscola. Il tetto si estendeva per circa quattro metri oltre la parete mancante per proteggere dalla pioggia il locale dei serbatoi. La cabina a quattro posti, completamente chiusa dai vetri, era appoggiata sotto il tetto sospeso, all’estremità opposta del locale.
Nel laboratorio di patologia regnava un vago e sgradevole odore di sostanze chimiche che avvolgeva lo stesso coroner, il dottor Amos Garnet, intento a succhiare una caramella alla menta.
C’erano cinque persone nel locale: Laurenski, Larsson, Garnet, Tannerton e Olmstead. Nessuno, a eccezione di Tannerton, perennemente di buonumore, sembrava felice di trovarsi lì.
«Apritela,» ordinò Laurenski. «Ho un appuntamento con Joshua Rhinehart.»
Tannerton e Olmstead tolsero i ganci dalla cassa. Gli ultimi pezzi di terriccio caddero sul telo di plastica che Garnet aveva sistemato sul pavimento. Spostarono il coperchio e lo alzarono.
Il corpo era scomparso.
La cassa rivestita di seta e di velluto conteneva solo i tre sacchi di calcina di venticinque chili ciascuno rubati una settimana prima dalla casa di Avril Tannerton.
Hilary e Tony si sedettero nella funivia e Joshua prese posto di fronte a loro. Le ginocchia dell’avvocato sfioravano quelle di Tony.
Hilary strinse la mano di Tony mentre la cabina si muoveva molto lentamente lungo il cavo, verso la sommità della parete rocciosa. Non aveva paura dell’altezza, ma quel veicolo aveva un aspetto così instabile che non poté fare a meno di digrignare i denti.
Joshua notò la tensione sul suo viso e sorrise. «Non si preoccupi. Questo aggeggio è piccolo ma resistente. E Gilbert effettua una perfetta manutenzione.»
Il vagone iniziò ad arrampicarsi gradualmente, oscillando per il vento gelido del mattino.
La veduta della vallata era sempre più spettacolare. Hilary cercò di concentrarsi sul paesaggio e non sugli scricchiolii prodotti dalla funivia.
Finalmente la cabina raggiunse la fine del cavo. Si bloccò e Joshua aprì la portiera.
Mentre uscivano nella stazione superiore, un lampo biancastro squarciò il cielo e un violento tuono rimbombò nell’aria cupa. Cominciò a piovere. Erano gocce sottili e gelate.
Joshua, Hilary e Tony corsero a ripararsi. Si precipitarono verso i gradini e attraversarono il portico fino all’ingresso.
«E diceva che qui non c’è il riscaldamento, vero?» disse Hilary.
«La caldaia è rimasta spenta per cinque anni,» spiegò Joshua. «E per questo che vi ho consigliato di infilare un maglione pesante sotto l’impermeabile. Oggi non fa molto freddo, ma, con questa umidità, fra un po’ sarete gelati.»
Joshua aprì la porta ed entrò, seguito da Hilary e Tony; ognuno accese la propria torcia. «Che puzza,» esclamò Hilary.
«La muffa,» spiegò Joshua. «Proprio quello che temevo.» Attraversarono l’ingresso e proseguirono verso l’enorme soggiorno. I fasci di luce illuminavano quello che sembrava un magazzino colmo di mobili antichi.
«Mio Dio,» commentò Tony, «è ancora peggio della casa di Bruno. Si fa fatica a camminare.»
«Katherine era letteralmente ossessionata dalle cose belle,» spiegò Joshua. «Non lo faceva per investire. E nemmeno perché le piaceva ammirare la sua collezione. Molti oggetti sono nascosti negli armadi. I quadri sono ammonticchiati gli uni sugli altri. E come potete vedere voi stessi, c’è decisamente troppa roba. Sono troppo ammassati per risultare piacevoli.»
«Se in ogni stanza ci sono oggetti di questo valore,» disse Hilary, «qui ci dev’essere un’autentica fortuna.»
«Già,» convenne Joshua. «Se non se la sono mangiati i vermi, le termiti e chissà cos’altro.» Fece scorrere il fascio di luce da un angolo all’altro della stanza. «Non sono mai riuscito a capire questa sua mania per il collezionismo. Almeno fino a questo momento. Mi stavo chiedendo se… guardando tutti questi oggetti e ripensando a quello che ci ha detto Mrs Yancy…»
Hilary proseguì: «Crede che il fatto di collezionare cose belle fosse una reazione agli orrori della sua vita prima della morte del padre?»
«Sì,» disse Joshua. «Leo l’aveva distrutta. Aveva sconvolto la sua anima e appiattito il suo spirito privandola del rispetto per se stessa. Deve essersi odiata profondamente per avergli permesso tutto questo: forse non aveva altra scelta, ma non si è mai opposta. E magari… sentendosi così vile e inutile, ha pensato di rendere più bella la sua anima circondandosi di oggetti preziosi.»
Rimase per un attimo in silenzio, osservando quel salotto troppo pieno di mobili.
«È molto triste,» mormorò Tony.
Joshua si riprese dopo quell’attimo di fantasie. «Andiamo ad aprire le persiane e facciamo entrare un po’ di luce.»
«Non sopporto questa puzza,» bofonchiò Hilary, coprendosi il naso con una mano. «Ma se apriamo le finestre la pioggia rovinerà tutto.»
«Potremmo socchiuderle appena,» suggerì Joshua. «E qualche goccia d’acqua non potrà peggiorare la situazione in mezzo a tutta questa muffa.»
«Strano che non siano cresciuti i funghi sul tappeto,» commentò Tony.
Iniziarono ad aprire le finestre togliendo i ganci interni delle persiane e fecero entrare la luce grigiastra e l’aria profumata di pioggia. Quando la maggior parte delle finestre del pianterreno furono aperte, Joshua propose: «Hilary, qui da basso sono rimaste soltanto la cucina e la sala da pranzo. Perché non se ne occupa lei mentre io e Tony andiamo di sopra?»
«Va bene,» rispose. «Fra un minuto salgo ad aiutarvi.»
Hilary puntò il fascio di luce verso la sala da pranzo completamente buia mentre i due uomini presero a salire le scale.
Appena arrivarono sul pianerottolo del piano superiore, Tony sbottò: «Accidenti! Qui puzza ancora di più.»
Un potente tuono fece vibrare la vecchia casa. Le finestre tremarono e le porte sbatterono nei telai.
«Lei si occupi delle stanze sulla destra,» disse Joshua. «Io andrò a sinistra.»
Tony aprì la prima porta e si ritrovò nella stanza da cucito. In un angolo c’era una vecchia macchina per cucire a pedale mentre un’altra più moderna era appoggiata su un tavolino. Entrambe erano ricoperte dalle ragnatele. C’erano anche un tavolo da lavoro e due manichini.
Si avvicinò alla finestra, appoggiò la torcia a terra e cercò di togliere i ganci. Erano completamente arrugginiti. Armeggiò faticosamente mentre la pioggia continuava a battere rumorosamente contro le persiane.
Joshua diresse la luce della torcia nella prima stanza sulla sinistra e vide un letto, una credenza e una cassettiera. Sulla parete opposta si aprivano due finestre.
Varcò la soglia, avanzò di due passi e avvertì un movimento alle spalle; fece per voltarsi ma improvvisamente sentì un brivido gelido lungo la schiena che si trasformò in una scossa rovente, una fitta lancinante, un dolore sordo attraverso il corpo: capì che l’avevano pugnalato. Sentì il coltello che veniva estratto. Si voltò. La torcia illuminò Bruno Frye. Il viso dell’uomo era allucinato, demoniaco. Riabbassò il coltello e Joshua fu percorso da un altro fremito gelido. Questa volta la lama gli lacerò la spalla destra da una parte all’altra e Bruno dovette agitare e rigirare l’arma con violenza e ripetutamente per riuscire a estrarla. Joshua alzò il braccio sinistro per proteggersi. La lama si conficcò nell’avambraccio. Le gambe cedettero e lui cadde a terra. Andò a urtare il letto e scivolò sul pavimento in mezzo al suo stesso sangue; Bruno si girò e corse fuori della stanza, scomparendo nell’oscurità, lontano dalla luce della torcia. Joshua si rese conto che non aveva neppure urlato, non aveva avvisato Tony. Cercò di gridare con tutte le sue forze, ma la ferita doveva essere più seria di quanto pensasse: quando aprì la bocca, avvertì una fìtta dolorosa al petto e riuscì solo a emettere un debole, impercettibile sibilo.
Sbuffando, Tony si sforzò di aprire il gancio della finestra e alla fine riuscì a far saltare la piastrina di metallo arrugginita. Aprì i vetri e il rumore della pioggia parve amplificato. Qualche gocciolina d’acqua si infilò attraverso le strette fessure delle imposte e Tony si ritrovò con la faccia bagnata.
Anche i ganci interni erano corrosi, ma Tony riuscì a sbloccarli per spalancare le imposte; poi si sporse fuori per fissarle in modo che il vento non le facesse sbattere.
Era bagnato e aveva freddo. Non vedeva l’ora di mettersi a setacciare la casa, nella speranza di potersi riscaldare un po’.
Mentre un altro tuono risuonava come una cannonata nella valle e sopra la casa, Tony uscì dalla stanza da cucito per trovarsi davanti al coltello di Bruno Frye.
In cucina, Hilary aprì le persiane della finestra che si affacciava sul portico posteriore. Le bloccò e si fermò un attimo a osservare l’erba bagnata e i rami degli alberi scossi dal vento. In fondo al prato, a una ventina di metri, c’erano delle porte che si aprivano nella terra.
Rimase talmente sorpresa che per un attimo pensò di averle soltanto immaginate. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco la scena attraverso la pioggia, ma le porte non si dissolsero, come si sarebbe aspettata.
In fondo al prato, il terreno si ergeva per formare una parete rocciosa e le porte erano scavate nel fianco della montagna. Erano rinforzate da una struttura in legno e da pietre cementate.
Hilary si allontanò dalla finestra e corse attraverso la cucina sudicia: non vedeva l’ora di raccontare a Joshua e Tony quello che aveva scoperto.
Tony sapeva come difendersi da un uomo armato di coltello. Era stato addestrato all’autodifesa e si era già trovato in situazioni analoghe. Ma questa volta fu colto di sorpresa da quell’attacco assolutamente inaspettato.
Con lo sguardo torvo e il viso deturpato da un ghigno orrendo, Frye gli brandì il coltello davanti al viso. Tony riuscì a schivare parzialmente il colpo, ma la lama lo ferì alla testa, di lato, lacerando la carne che prese a sanguinare.
Il dolore era lancinante.
Tony lasciò cadere la torcia che rotolò via permettendo alle ombre di calare indisturbate.
Frye era veloce, maledettamente veloce. Colpì nuovamente Tony che cercò di assumere una posizione di difesa. Stavolta il coltello affondò più deciso nella spalla sinistra e attraversò la giacca e il maglione per proseguire nei muscoli e nelle cartilagini, fra le ossa; in un attimo, Tony si ritrovò in ginocchio, con il braccio totalmente privo di forza.
Senza neppure rendersene conto, Tony riuscì ad alzare la mano destra dal pavimento e colpì Frye nei testicoli. L’uomo rimase senza fiato e annaspò all’indietro, estraendo il coltello dalla spalla di Tony.
Ignara di quanto stava accadendo di sopra, Hilary urlò dal fondo delle scale: «Tony! Joshua! Venite a vedere che cosa ho trovato!»
All’udire la voce di Hilary, Frye si voltò di scatto. Si diresse verso la scala, senza badare all’uomo ferito ma ancora vivo disteso a terra.
Tony si alzò, ma avvertì un’esplosione al braccio, come se avesse preso fuoco. Sentì la testa che girava. Lo stomaco si rivoltò. Dovette appoggiarsi contro la parete.
Riuscì soltanto a metterla in guardia: «Hilary, scappa! Scappa! Sta arrivando Frye!»
Hilary stava per chiamare di nuovo quando udì l’avvertimento di Tony. Per un attimo, non credette alle proprie orecchie, ma poi sopra la sua testa risuonarono passi pesanti e minacciosi. Hilary non riuscì a distinguere nessuno ma non aveva dubbi: era Bruno Frye.
La voce rauca e gracchiante di Frye rimbombò nella stanza: «Puttana! Puttana! Puttana! Puttana!»
Sbigottita, ma non paralizzata dalla paura, Hilary si allontanò dalle scale e si mise a correre appena lo vide sul pianerottolo. Si rese conto troppo tardi che avrebbe dovuto precipitarsi all’esterno, verso la funivia; si catapultò invece in direzione della cucina, da cui non sarebbe potuta fuggire. Spalancò la porta della cucina nel momento stesso in cui Frye saltò gli ultimi gradini e atterrò alle sue spalle.
Hilary pensò di cercare un coltello nei cassetti della cucina.
Non poteva. Non c’era tempo.
Corse alla porta che conduceva sul retro, l’aprì e si lanciò fuori mentre Frye faceva il suo ingresso.
Poteva contare solo sulla torcia che aveva in mano, ma non era certo un’arma degna di quell’avversario.
Attraversò il portico e scese i gradini. Fu investita dalla pioggia e dal vento.
Lui non era molto lontano e continuava a ripetere: «Puttana! Puttana! Puttana!»
Non ce l’avrebbe mai fatta a compiere il giro della casa per raggiungere la funivia prima che lui l’afferrasse. Era troppo vicino e stava guadagnando terreno.
L’erba bagnata era scivolosa.
Aveva paura di cadere.
Di morire.
Tony?
Si precipitò verso l’unico posto che sembrava poterle offrire un riparo: le porte nella terra.
Un lampo squarciò il cielo seguito dal boato di un tuono.
Frye non urlava più. Hilary udì il grugnito profondo di un animale in calore.
Molto vicino.
Ora era lei a gridare.
Raggiunse le porte sul fianco della collina e vide che erano chiuse in due punti. Tolse il catenaccio superiore, poi si piegò e fece lo stesso con quello inferiore, aspettandosi da un momento all’altro di sentire una lama in mezzo alla schiena, ma non accadde nulla. Spalancò le porte oltre le quali si aprirono le tenebre.
Si voltò.
La pioggia le rigò il viso.
Frye si era fermato. Era a circa sei metri di distanza.
Hilary rimase immobile, voltando le spalle a quella voragine scura, e si chiese che cosa potesse esserci oltre quella rampa di scale.
«Puttana,» sibilò Frye.
Ma il suo viso esprimeva più paura che rabbia.
«Metti giù il coltello,» disse, senza sapere se le avrebbe obbedito. Probabilmente non l’avrebbe fatto, ma non aveva nulla da perdere. «Obbedisci alla tua mamma, Bruno. Metti giù il coltello.»
Fece un passo verso di lei.
Hilary non si mosse. Sentiva il cuore che le scoppiava.
Frye si avvicinò.
Tremando, Hilary indietreggiò sul primo gradino, oltre quelle porte.
Mentre Tony raggiungeva faticosamente le scale, appoggiandosi con una mano alla parete, udì un rumore dietro le spalle. Si voltò.
Joshua si era trascinato fuori della stanza. Era coperto di sangue e il viso era pallido come la massa di capelli. Sembrava che gli occhi non riuscissero a mettere a fuoco.
«Come va?» chiese Tony.
Joshua si inumidì le labbra. «Me la caverò,» mormorò in uno strano soffio sibilante. «Hilary. Per l’amor del cielo… Hilary!»
Tony si staccò dalla parete e procedette oscillando giù per le scale. Si diresse immediatamente verso la cucina dopo aver udito Frye che gridava sul retro della casa.
In cucina, Tony aprì un cassetto, poi un altro, alla ricerca di un’arma.
«Coraggio, dannazione! Merda!»
Nel terzo cassetto trovò i coltelli. Scelse il più grande. Era leggermente arrugginito ma ancora sufficientemente affilato.
Il dolore al braccio sinistro era insopportabile. Avrebbe voluto sorreggerlo con l’altra mano, ma ne aveva bisogno per lottare contro Frye.
Strinse i denti per scacciare la fitta al braccio, si armò di coraggio e si lanciò all’esterno, barcollando come un ubriaco. Vide immediatamente Frye. L’uomo era in piedi davanti alle due porte spalancate. Due porte nella terra.
Hilary era scomparsa.
Hilary indietreggiò sul sesto gradino. Era l’ultimo.
Bruno Frye era rimasto in cima alle scale e guardava in basso, timoroso di avventurarsi laggiù. La chiamava puttana ma subito dopo piagnucolava come un bambino. Era chiaramente combattuto fra due bisogni: il desiderio di ucciderla e quello di fuggire da quell’orrendo posto.
Sussurri.
Improvvisamente Hilary udì quei sussurri e si sentì gelare il sangue nelle vene. Era un sibilo indistinto, un mormorio appena accennato che si faceva sempre più forte.
Poi avvertì qualcosa che le strisciava sulla gamba.
Lanciò un grido e salì un gradino, avvicinandosi a Frye. Si abbassò, si strofinò la gamba e allontanò qualcosa.
Rabbrividendo, accese la torcia, si voltò e diresse il fascio di luce nel locale sottostante.
Scarafaggi. Centinaia, migliaia di enormi scarafaggi avevano invaso la stanza: ce n’erano per terra, sulle pareti e sul soffitto. Non erano scarafaggi normali, ma bestie gigantesche, lunghe più di cinque centimetri, con le zampette in agitazione e le lunghe antenne in fermento. Il corpo verdastro e lucido sembrava umido e appiccicoso, come gocce di muco scuro.
I sussurri erano il rumore prodotto dall’incessante movimento di quelle zampette e di quelle antenne che si sfregavano le une contro le altre: migliaia di zampe e di antenne che strisciavano, si agitavano e si strofinavano.
Hilary si mise a urlare. Avrebbe voluto risalire quei gradini e fuggire da quella stanza, ma Bruno era di sopra, e la stava aspettando.
Gli scarafaggi si allontanavano dalla luce della torcia. Evidentemente erano insetti abituati al buio. Hilary pregò che le pile della torcia non si esaurissero.
I sussurri crebbero d’intensità.
La stanza fu invasa da un’altra ondata di scarafaggi, provenienti da una crepa nel pavimento. Uscivano a decine, a centinaia. Nel locale relativamente angusto, c’erano già almeno duemila bestiacce disgustose. Erano una sopra l’altra, concentrate nella zona dove non arrivava il fascio di luce, ma si facevano sempre più audaci con il passare dei minuti.
Sapeva che probabilmente un entomologo non li avrebbe chiamati scarafaggi. Erano scarabei, scarabei che vivevano nelle viscere della terra. Uno scienziato li avrebbe definiti con un bel nome latino, altisonante e dignitoso. Ma per lei erano solo scarafaggi.
Alzò lo sguardò verso Bruno.
«Puttana,» ringhiò.
Leo Frye aveva fatto costruire una cantina per conservare i cibi, cosa abbastanza comune nel 1918. Ma inavvertitamente l’aveva scavata proprio su una spaccatura della terra. Hilary capì che doveva aver cercato più volte di riparare il pavimento, ma questo continuava ad aprirsi, ogni volta che la terra tremava. E in una zona sismica la terra tremava spesso.
Gli scarafaggi salivano dall’inferno.
Continuavano a fuoriuscire da quel buco: una massa brulicante, agitata e viscida.
Non facevano che ammucchiarsi uno sull’altro, coprendo le pareti e il soffitto e muovendosi ininterrottamente, come un esercito impazzito. Il gelido sussurro si era trasformato in un debole ruggito.
Katherine era solita chiudere Bruno in quella stanza per punirlo. Al buio. Per ore e ore di seguito.
Improvvisamente, gli scarafaggi si avvicinarono a Hilary. La pressione di quella massa brulicante aveva spinto quegli esseri disgustosi verso di lei, come un’immensa onda verdastra che si frangeva contro la riva. Nonostante la luce della torcia, avanzavano compatti verso di lei, sibilando.
Hilary lanciò un grido e prese a salire i gradini, preferendo il coltello di Bruno a quell’orda di insetti nauseanti.
Con una smorfia, Bruno grugnì: «Visto com’è bello, puttana?» e sbattè la porta.
Il prato non era più lungo di una ventina di metri, ma a Tony pareva che non avesse mai fine. Scivolò e cadde nell’erba bagnata picchiando la spalla ferita. Per un attimo ebbe la vista annebbiata, poi vide tutto nero e dovette stringere i denti per resistere alla tentazione di rimanere sdraiato.
Vide Frye che chiudeva a chiave le porte. Hilary doveva essere dall’altra parte.
Tony percorse gli ultimi dieci metri con la terribile certezza che Frye si sarebbe girato e l’avrebbe visto. Ma lui continuava a voltargli le spalle. Stava ascoltando Hilary. E Hilary stava urlando. Tony gli si avventò contro e gli piantò il coltello in mezzo alle scapole.
Frye gridò per il dolore e si voltò.
Tony inciampò all’indietro, sperando di aver inflitto una ferita mortale. Sapeva che non avrebbe potuto vincere in un combattimento a corpo a corpo con Frye, soprattutto potendo disporre solo di un braccio.
Frye allungò una mano frenetica dietro la schiena, cercando di afferrare il coltello. Avrebbe voluto estrarlo, ma non riuscì nemmeno a sfiorarlo.
All’angolo della bocca comparve un rivolo di sangue.
Tony fece un passo indietro. Poi un altro.
Frye barcollò verso di lui.
Hilary raggiunse l’ultimo gradino e prese a tempestare di pugni la porta chiusa. Poi si mise a urlare.
Alle sue spalle i sussurri nella stanza buia si facevano sempre più forti, soffocando i battiti del suo stesso cuore.
Gettò una timida occhiata dietro di sé, rivolgendo la luce direttamente sui gradini. Alla sola vista di quella massa ronzante di insetti, fu assalita da un senso di repulsione. Nel locale sottostante gli scarafaggi arrivavano all’altezza della vita. Quella moltitudine strisciante si spostava e sibilava in modo talmente compatto da assomigliare a un unico organismo, una mostruosa creatura con un numero infinito di zampe, antenne e bocche fameliche.
Si rese conto che stava ancora gridando. Sempre più forte. Non aveva quasi più voce. Ma non riusciva a smettere.
Qualche insetto aveva osato avventurarsi sui gradini nonostante la luce. Hilary ne schiacciò un paio che avevano raggiunto il suo piede. Ma ne seguivano altri.
Si girò di nuovo verso le porte, continuando a strillare. Picchiò contro la porta chiusa con quanta forza aveva in corpo.
Poi la torcia si spense. Senza accorgersene l’aveva usata per picchiare contro la porta, in un isterico tentativo di uscire. Il vetro si era rotto e la luce si era spenta.
Per un attimo, sembrò che i sussurri diminuissero d’intensità, ma poi ripresero, ancora più forti e decisi.
Hilary si appoggiò con la schiena alla porta.
Ripensò al nastro registrato che aveva udito nello studio del dottor Nicholas Rudge. Rivide i due gemelli, due bambini chiusi lì dentro, con le mani strette sul naso e sulla bocca, mentre cercavano di allontanare gli scarafaggi. Avevano urlato per ore e ore, per giorni e giorni, e alla fine si erano ritrovati con quella voce rauca e gracchiante.
Atterrita, fissò l’oscurità sotto i suoi piedi, in attesa che quell’oceano di scarafaggi si chiudesse sopra di lei.
Ne sentì un paio sulla caviglia e si piegò per allontanarli.
Uno si arrampicò sul braccio sinistro. L’afferrò con la mano e lo schiacciò.
Quel terrificante sussurro prodotto dagli insetti in movimento era quasi assordante.
Si coprì le orecchie con le mani.
Dal soffitto si staccò uno scarafaggio che le cadde sulla testa. Urlando l’afferrò con le dita e lo scaraventò lontano.
Improvvisamente, le porte si aprirono dietro di lei e la cantina fu invasa dalla luce. Vide l’ondata di scarafaggi che aveva già raggiunto il penultimo gradino e poi la marea che si ritirava alla vista del sole. Sentì Tony che l’afferrava e si ritrovò sotto la pioggia, nella meravigliosa luce grigiastra di quella giornata cupa.
Tony gettò lontano gli insetti che le erano rimasti attaccati al vestito.
«Mio Dio,» mormorò Tony. «Mio Dio, mio Dio.»
Hilary si strinse a lui.
Non c’erano più scarafaggi, ma le parve di sentirli ancora addosso. Striscianti. Viscidi.
Fu scossa da un fremito violento e incontrollabile e Tony la strinse con il braccio sano. Le parlò con infinita dolcezza, cercando di calmarla.
Alla fine lei smise di urlare. «Sei ferito,» esclamò.
«Me la caverò. E potrò tornare a dipingere.»
Hilary vide Frye. Era disteso sull’erba, a faccia in giù, chiaramente morto. Dalla schiena spuntava un coltello e la camicia era intrisa di sangue.
«Non avevo altra scelta,» spiegò Tony. «Non volevo ucciderlo. Mi è spiaciuto per lui… sapendo quello che gli aveva fatto passare Katherine. Ma non avevo altra scelta.»
Si allontanarono dal cadavere, attraversando il prato.
Hilary aveva le gambe che tremavano.
«Chiudeva i gemelli in quella cantina quando voleva punirli,» disse Hilary. «Quante volte l’avrà fatto? Cento? Duecento? Mille?»
«Non pensarci,» mormorò Tony. «Pensa solo che siamo vivi, che siamo ancora insieme. E pensa anche se sei disposta a sposare un ex poliziotto un po’ malconcio che cerca di guadagnarsi da vivere facendo il pittore.»
«Ne sarei felice.»
In quel momento, lo sceriffo Peter Laurenski si precipitò fuori della cucina dirigendosi verso di loro. «Che cos’è successo?» domandò. «Tutto bene?»
Tony non si preoccupò neppure di rispondergli. «Abbiamo molti anni da trascorrere insieme,» confidò a Hilary. «E da ora in poi andrà tutto bene. Per la prima volta in vita nostra, sappiamo chi siamo, che cosa vogliamo e dove siamo diretti. Il passato è sepolto. Il futuro sarà decisamente migliore.»
Si incamminarono verso Laurenski mentre la pioggia dell’autunno scorreva dolcemente su di loro e sussurrava nell’erba.