PARTE PRIMA La vita e la morte

Le forze che si ripercuotono sulla nostra vita, le influenze che ci modellano e ci formano, sono spesso come sussurri in una stanza lontana, fastidiosamente indistinti e percepibili a stento.

Charles Dickens

1

Martedì all’alba Los Angeles tremò. I telai delle finestre vibrarono. Le campanelle nelle verande tintinnarono allegramente anche se non c’era vento. In alcune case, i piatti caddero dalle mensole.

All’inizio dell’ora di punta la KFWB, la radio locale, parlava quasi esclusivamente del terremoto. Il sisma aveva raggiunto i 4,8 gradi della scala Richter. Verso la fine dell’ora di punta, la KFWB declassò la notizia del terremoto al terzo posto dopo un servizio su un attentato terroristico a Roma e un incidente che aveva coinvolto cinque macchine sull’autostrada di Santa Monica. Dopotutto, nessun edificio aveva riportato danni. All’ora di pranzo solo uno sparuto numero di persone, la maggior parte delle quali si era trasferita a Los Angeles da meno di un anno, ritenne il sisma degno di venir menzionato a tavola.


L’uomo nel furgone Dodge grigio fumo non si accorse nemmeno che la terra tremava. Si trovava alla periferia nordovest della città e si stava dirigendo verso sud sull’autostrada di San Diego quando ci fu il terremoto. Dato che alla guida di un veicolo è possibile cogliere solo le scosse telluriche più violente, l’uomo si rese conto dell’accaduto solo quando si fermò a fare colazione e udì due clienti che ne parlavano.

Allora si rese subito conto che il terremoto era un segno mandato appositamente per lui, forse per assicurargli che la missione a Los Angeles sarebbe stata un successo, o magari per metterlo in guardia contro un possibile fallimento. Ma qual era il messaggio esatto che avrebbe dovuto dedurne?

Mentre mangiava riflette su quel problema. Era un uomo corpulento: più di un metro e novanta per centocinque chili di muscoli, e ci volle più di un’ora e mezzo per terminare la colazione. Iniziò con due uova, pancetta, formaggio, pane tostato e un bicchiere di latte. Masticava lentamente, metodicamente, con gli occhi fìssi sul cibo come se ne fosse ipnotizzato. Quando finì il primo piatto, ordinò un altro bicchiere di latte e una doppia porzione di frittelle. Finite le frittelle, ingurgitò un’omelette al formaggio con tre fette di pancetta, un’altra porzione di pane tostato e del succo d’arancia.

Allorché ordinò per la terza volta, era già diventato l’argomento principale di conversazione in cucina. La cameriera che lo serviva era un’allegra ragazza con i capelli rossi, di nome Helen, ma anche tutte le sue colleghe trovarono una scusa per passare accanto al suo tavolo e lanciargli un’occhiata. Si rendeva conto di suscitare il loro interesse, ma non gliene importava niente.

Quando alla fine chiese il conto a Helen, la ragazza commentò: «Lei deve essere un taglialegna o qualcosa del genere.»

L’uomo alzò lo sguardo e sorrise forzatamente. Anche se era la prima volta che metteva piede in quel locale, anche se fino a novanta minuti prima Helen era una perfetta sconosciuta, sapeva esattamente che la ragazza gli avrebbe detto qualcosa del genere. Glielo avevano già ripetuto centinaia di volte.

Helen fece una risatina imbarazzata, ma non distolse gli occhi azzurri da quelli dell’uomo. «Volevo dire, lei mangia per tre.»

«Davvero.»

Era in piedi accanto a lui e appoggiò il fianco al bordo del tavolo, sporgendosi leggermente in avanti per fargli capire in maniera inequivocabile che sarebbe anche stata disponibile. «Eppure, nonostante tutto quel cibo… non ha neppure un grammo di grasso addosso.»

Continuando a sorridere, l’uomo cercò di immaginarsi come sarebbe stata a letto. Si vide nell’atto di possedere quel corpo, affondando dentro di lei, e poi vide le proprie mani stringersi intorno al collo, sempre più forte, fino a quando il bel visino di Helen diventava paonazzo e gli occhi le schizzavano fuori delle orbite.

Lei continuava a fissarlo con aria interrogativa, chiedendosi se soddisfacesse tutti i suoi appetiti con lo stesso impegno dimostrato nei confronti del cibo. «Immagino faccia un sacco di ginnastica.»

«Faccio sollevamento pesi,» rispose lui.

«Come Arnold Schwarzenegger.»

«Già.»

Il collo di Helen era lungo e sottile. Si rendeva conto che avrebbe potuto spezzarlo come un ramoscello secco e quel pensiero migliorò notevolmente il suo umore.

«Certo che ha proprio due belle braccia,» proseguì lei sottovoce, in tono di apprezzamento. L’uomo portava una camicia a maniche corte e Helen gli sfiorò l’avambraccio con un dito. «Immagino che con tutto quell’esercizio possa mangiare quello che vuole, tanto il cibo si trasforma in muscoli.»

«Be’, in effetti è così,» bofonchiò lui. «Ma è anche questione di metabolismo.»

«Eh?»

«Brucio un sacco di calorie in energia nervosa.»

«Lei? Nervoso?»

«Nevrastenico come un gatto siamese.»

«Non ci credo. Scommetto che al mondo non c’è niente in grado di farla innervosire.»

Helen era un tipo piacente, sulla trentina, dieci anni meno di lui, e pensò che avrebbe potuto averla se solo ci avesse provato. Avrebbe dovuto corteggiarla un po’, ma neanche troppo, quel che bastava a convincerla che era stato lui a sollevarla di peso per poi depositarla sul letto contro la sua volontà, come Rhett e Rossella O’Hara. Naturalmente, se avesse fatto l’amore con lei, poi avrebbe dovuto ucciderla. Avrebbe dovuto affondare un coltello nel suo grazioso seno oppure tagliarle la gola, e non ne aveva alcuna voglia. Non valeva la pena correre un rischio simile. Non era decisamente il suo tipo: quelle con i capelli rossi non le uccideva mai.

Le lasciò una buona mancia, pagò il conto alla cassa vicino alla porta e uscì. Dopo il ristorante con l’aria condizionata, il calore di settembre lo aggredì minacciando di soffocarlo come un cuscino premuto contro il viso. Si incamminò verso il furgone Dodge, consapevole del fatto che Helen lo stava osservando, ma non si girò neppure una volta.

Si diresse verso un grande magazzino, posteggiò all’angolo di un grande parcheggio, all’ombra di una palma, il più possibile lontano dal negozio. Si arrampicò oltre i sedili, fin sul retro del furgone, abbassò una tendina di bambù che separava la cabina di guida e si distese su un materasso logoro e decisamente troppo corto per lui. Aveva guidato tutta la notte senza fermarsi, da St. Helena, nella zona vinicola. Ora, a pancia piena, era venuto il momento di schiacciare un pisolino.

Quattro ore più tardi si svegliò da un brutto sogno. Era sudato fradicio, tremava e aveva caldo e freddo nello stesso tempo. Con una mano stringeva il materasso e con l’altra vibrava pugni a vuoto in aria. Avrebbe voluto urlare, ma la voce gli si era bloccata in gola: emise soltanto un suono sordo, una specie di rantolo.

Dapprima non riuscì a ricordare dove si trovasse. Il retro del furgone era buio, a eccezione di tre sottili fasci di luce che filtravano attraverso le fessure della tendina di bambù. L’aria era calda e stantia. Si sedette, tastò la parete di metallo con una mano, strizzò gli occhi per riuscire a vedere qualcosa e pian piano fu in grado di orientarsi. Quando finalmente si rese conto di essere nel furgone, si rilassò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso.

Cercò di ricordare qualche particolare dell’incubo, ma non ci riuscì. Non era una novità. Praticamente ogni notte della sua vita era stata caratterizzata da sogni orribili: si svegliava terrorizzato, con la bocca secca e il cuore che sobbalzava, ma non una volta era riuscito a capire che cosa lo avesse spaventato.

Nonostante sapesse dove si trovava, l’oscurità lo faceva sentire a disagio. Continuava a percepire rumori furtivi nelle tenebre, deboli suoni che gli facevano rizzare i capelli anche se sapeva bene che erano solo frutto della sua immaginazione. Alzò la tendina di bambù e strizzò gli occhi più volte fino a quando essi si abituarono alla luce.

Prese un fagotto di pelle scamosciata appoggiato accanto al materasso. Era legato con un pezzo di spago scuro. Disfece il nodo e srotolò i quattro morbidi stracci arrotolati uno dentro l’altro. Al centro del fagotto c’erano due grossi coltelli. Erano affilatissimi. Aveva dedicato molto tempo e molte attenzioni a quelle splendide lame taglienti. Quando ne prese una in mano avvertì una strana e meravigliosa sensazione, come se fosse stato il coltello di uno stregone, dotato di un’energia magica che ora si stava riversando su di lui.

Il sole del pomeriggio era scivolato oltre l’ombra della palma sotto la quale aveva posteggiato. La luce filtrava attraverso il parabrezza, sopra la sua spalla, e andò a colpire l’acciaio lucente: la lama del coltello scintillò.

Mentre fissava la lama, le labbra sottili si tesero in un sorriso. Nonostante l’incubo, quel sonnellino gli aveva fatto bene. Si sentiva rinvigorito e fiducioso. Ormai era assolutamente certo che il terremoto del mattino significasse per lui un completo successo a Los Angeles. Avrebbe trovato la donna. Avrebbe messo le mani su di lei. Quel giorno, o al massimo mercoledì. Mentre pensava al suo corpo caldo e morbido e alla sua pelle delicata, il sorriso si trasformò in un ghigno.


Martedì pomeriggio Hilary Thomas andò a fare spese a Beverly Hills. Verso sera, quando tornò a casa, posteggiò la sua Mercedes color caffè nel vialetto circolare di fronte alla porta d’ingresso. Ora che gli stilisti avevano finalmente deciso che le donne potevano tornare ad avere un aspetto femminile, Hilary aveva comprato tutto ciò di cui aveva sentito la mancanza durante l’epidemia di mascolinizzazione che negli ultimi cinque anni aveva colpito l’industria della moda. Dovette fare tre viaggi per svuotare il bagagliaio.

Mentre afferrava l’ultimo pacchetto ebbe la sensazione di essere osservata. Si allontanò dall’auto e guardò verso la strada. Il sole era già basso e stava tramontando in mezzo alle grandi ville e alle palme fronzute, tingendo tutto di una luce dorata. A mezzo isolato di distanza, due bambini stavano giocando in un giardino e un cocker spaniel con le orecchie morbide zampettava allegramente lungo il marciapiede. Per il resto, il quartiere era silenzioso e incredibilmente tranquillo. Sull’altro lato della strada erano parcheggiate due automobili e un furgone Dodge grigio fumo, ma sembrava non ci fosse nessuno a bordo.

A volte ti comporti come una stupida, si rimproverò Hilary. Chi vuoi che ti stia osservando?

Ma quando, dopo aver portato in casa l’ultimo pacchetto, uscì un’altra volta per mettere l’auto in garage, ebbe di nuovo la netta impressione che qualcuno la stesse osservando.


Più tardi, verso mezzanotte, mentre era a letto a leggere, Hilary sentì dei rumori provenire dal piano di sotto. Mise giù il libro e rimase in ascolto.

Erano suoni piuttosto decisi. In cucina. Vicino alla porta che dava sul retro. Proprio sotto la camera da letto.

Si alzò e si infilò una vestaglia. Era un modello molto avvolgente in seta blu che aveva comperato quel pomeriggio.

Nel primo cassetto del comodino c’era una calibro 32 automatica già carica. Ebbe un attimo di esitazione, ascoltò ancora per un momento i rumori provenienti dalla cucina e poi decise di prendere la pistola.

Si sentiva un po’ sciocca. Probabilmente erano semplicemente rumori di assestamento, degli scricchiolii abbastanza comuni in una casa. Però erano già sei mesi che abitava lì e non aveva mai sentito niente di simile, prima di allora.

Si fermò in cima alle scale e lanciò un’occhiata in basso, verso l’oscurità, esclamando: «Chi c’è?»

Nessuna risposta.

Stringendo la pistola, scese le scale e attraversò il soggiorno, col respiro affannoso e la mano che cominciava a tremarle un po’. Accese tutte le luci che incontrò sul cammino. Continuò a sentire degli strani rumori anche mentre si avventurava verso il retro della casa, ma quando entrò in cucina e accese le luci, si trovò immersa nel silenzio.

Non c’era nulla di strano. Il pavimento scuro in legno di pino. I mobili scuri con i piani in ceramica bianca scintillante. Bianchi ripiani immacolati. Pentole di rame lucido e utensili che pendevano dall’alto soffitto bianco. Non c’era nessuno e niente che lasciasse supporre la presenza di qualcuno prima del suo arrivo.

Rimase ferma sulla porta e aspettò che ricominciassero i rumori.

Niente. Solo il debole ronzio del frigorifero.

Alla fine passò accanto al blocco di mobiletti centrali e controllò la porta che dava sul retro. Era chiusa a chiave.

Accese le luci del giardino e alzò la persiana della finestra sopra il lavandino. All’esterno, la piscina lunga dodici metri scintillava sulla destra. Sulla sinistra c’era l’immenso roseto, con una decina di boccioli che brillavano come fossero di neon in mezzo alle foglie scure. Tutto appariva silenzioso e immobile.

Erano solo rumori di assestamento, pensò. Santo cielo, sto diventando una vecchia zitella fifona.

Si preparò un panino e lo portò di sopra insieme con una bottiglia di birra. Lasciò accese tutte le luci al pianterreno, per scoraggiare l’eventuale intruso: ammesso che ci fosse davvero qualcuno che voleva entrare.

Più tardi, si sentì stupida per aver lasciato tante luci accese.

Sapeva benissimo che cosa c’era che non andava. Il suo nervosismo era un sintomo del malessere definito io-non-merito-tutta-questa-felicità, un disturbo a livello mentale che conosceva ormai molto bene. Era venuta dal niente, dal nulla, e ora possedeva tutto. Inconsciamente, aveva paura che Dio potesse accorgersi di lei e decidere che non meritava tutto quello che aveva ottenuto. E allora tutto sarebbe finito. Tutto ciò che aveva accumulato sarebbe stato distrutto e spazzato via: la casa, l’automobile, i conti in banca… La sua vita assomigliava a un sogno, a una favola meravigliosa, troppo bella per essere vera e comunque troppo bella per poter durare.

No. Dannazione, no! Doveva smetterla di sminuirsi e comportarsi come se i risultati ottenuti fossero dovuti a un colpo di fortuna. La fortuna non c’entrava niente. Nata in una casa in cui abitava la disperazione, nutrita con l’incertezza e la paura al posto del latte e dell’amore. Odiata dal padre e appena tollerata dalla madre, cresciuta in un ambiente nel quale l’autocommiserazione e l’amarezza avevano distrutto qualsiasi forma di speranza, era ovvio che fosse diventata grande senza una reale fiducia in se stessa. Per anni aveva combattuto con un complesso di inferiorità. Ma ormai era tutto passato. Aveva seguito una terapia. Ormai era in grado di comprendere se stessa e non avrebbe lasciato che i vecchi dubbi si impadronissero nuovamente di lei. La casa, l’automobile e il denaro non le sarebbero stati strappati: se li meritava. Lavorava sodo e aveva un grande talento. Nessuno le aveva offerto un lavoro semplicemente perché era amica o parente di qualcuno; quando era arrivata a Los Angeles non conosceva nessuno. Nessuno l’aveva ricoperta di denaro solo perché era carina. Attirate dalla ricchezza dell’industria dello spettacolo e dal miraggio della celebrità, ogni giorno giungevano a Los Angeles moltissime donne affascinanti che, normalmente, venivano trattate peggio delle bestie. Lei era riuscita a raggiungere l’apice per una sola ragione: era un’ottima scrittrice, una lavoratrice instancabile, un’artista energica dotata di vivace immaginazione perfettamente in grado di creare film che avrebbero attirato molti spettatori. Si era guadagnata ogni singolo centesimo e nessuno aveva ragione di dubitarne.

«Quindi rilassati,» esclamò a voce alta.

Nessuno aveva cercato di intrufolarsi in cucina, era solo frutto della sua immaginazione.

Finì il panino e la birra, poi scese per spegnere le luci.

Dormì di un sonno profondo.


La giornata seguente fu una delle migliori della sua vita. Ma anche una delle peggiori.

Il mercoledì prometteva bene. Il cielo era completamente sereno. L’aria era tiepida e trasparente. La luce del mattino era quella tipica della California meridionale in determinati giorni dell’anno. Era una luce cristallina, forte eppure dolce, come i raggi del sole in un dipinto cubista, e dava l’impressione che, da un momento all’altro, nell’aria potesse aprirsi un varco, simile al sipario di un teatro, per rivelare un mondo completamente diverso da quello in cui si vive normalmente.

Hilary Thomas trascorse la mattinata in giardino. Il mezzo acro alle spalle della casa a due piani in stile neoispanico era coperto da una ventina di specie di rose diverse: aiuole, tralicci e siepi di rose. C’erano la Frau Karl Druschki, la Madame Pierre Oger, la rosa muscosa, la Souvenir de la Malmaison e un’ampia gamma di ibridi moderni. Il giardino era tutto un fiorire di rose bianche, rosse, arancio, gialle, rosa, porpora e persino verdi. Alcuni fiori avevano le dimensioni di un piattino, mentre altri erano così piccoli da passare attraverso un anello. Il prato vellutato era punteggiato di petali di tutte le sfumature.

Quasi tutte le mattine, Hilary trascorreva due o tre ore a lavorare in giardino. Per quanto potesse essere agitata prima di iniziare, ne usciva sempre completamente rilassata e in pace con se stessa.

Avrebbe certamente potuto permettersi un giardiniere. Poteva ancora contare sugli introiti derivanti dal suo primo film di successo, Pete, l’ambiguo, che era stato girato più di due anni prima e che si era rivelato un autentico capolavoro. Il nuovo film, Cuore gelido, uscito da meno di due mesi, stava riscuotendo un successo ancora maggiore. La villa di dodici locali a Westwood, accanto a Bel Air e Beverly Hills, era costata una cifra esorbitante, eppure Hilary l’aveva pagata in contanti solo sei mesi prima. Nell’ambiente dello spettacolo la definivano «un talento di scottante attualità». Ed era esattamente così che si sentiva. Calda. Bruciante. Infuocata dai progetti e dalle possibilità. Era una sensazione splendida. Era una sceneggiatrice dannatamente in gamba e avrebbe potuto assumere un esercito di giardinieri, se avesse voluto.

Si dedicava personalmente ai fiori e alle piante perché il giardino rappresentava un posto speciale per lei, quasi sacro. Il simbolo della sua fuga.

Era cresciuta in un appartamentino squallido in uno dei peggiori quartieri di Chicago. Se solo avesse chiuso gli occhi, persino in quel momento, in quel luogo, in quel giardino pieno di rose profumate, avrebbe potuto rivedere ogni singolo dettaglio della sua vecchia casa. Nell’atrio le caselle della posta erano regolarmente fracassate dai ladri che cercavano gli assegni della previdenza sociale. I corridoi erano stretti e male illuminati. I locali erano minuscoli e bui e i mobili vecchi e traballanti. Nella piccola cucina, la malandata stufa a gas rischiava di esplodere. Hilary era vissuta per anni con l’incubo di quella fiammella incerta e bluastra. Il frigorifero era ingiallito dal tempo; emetteva uno strano ronzio e il motore attirava quella che suo padre chiamava la «fauna locale». In piedi in mezzo allo splendido giardino, Hilary ricordò la fauna con cui aveva condiviso la propria infanzia e rabbrividì. Sebbene lei e la madre avessero sempre tenuto le quattro stanze accuratamente pulite e sebbene facessero largo uso di insetticida, non erano mai riuscite a sbarazzarsi degli scarafaggi perché quei dannati animali attraversavano le sottili pareti che li separavano dai vicini, decisamente molto meno amanti della pulizia.

Il ricordo più intenso della sua infanzia era rappresentato dalla vista di cui godeva dalla sua microscopica cameretta. Era lì che aveva trascorso molte delle sue ore solitarie, nascondendosi mentre i suoi genitori litigavano. Quella camera era il suo rifugio quando iniziavano le urla e le imprecazioni, ma anche quando fra i suoi genitori calava il silenzio più profondo. Da quella finestra non si vedeva niente di interessante: in pratica solo il muro di mattoni sporco di fuliggine che si ergeva dall’altro lato dello stretto vicolo che conduceva alla casa. La finestra non si poteva nemmeno aprire perché era stata sprangata. A dire la verità, era visibile anche una sottile fetta di cielo, ma solo appoggiando la faccia contro il vetro e alzando lo sguardo verso il tetto.

Nel desiderio spasmodico di fuggire dall’ambiente meschino in cui era cresciuta, Hilary aveva imparato a usare la propria immaginazione per vedere attraverso quel muro. Le bastava lasciar fluttuare la mente e tutt’a un tratto si ritrovava a contemplare una collina verdeggiante, oppure le onde dell’oceano, o ancora la cima delle vette immacolate. Ma la maggior parte delle volte immaginava un giardino, un posto incantato, sereno, con le siepi disposte ordinatamente e i tralicci traboccanti di rose. Nelle sue fantasie ricorrevano spesso mobili da giardino in ferro battuto verniciato di bianco. Alcuni ombrelloni a strisce colorate creavano zone d’ombra per ripararsi dai caldi raggi del sole. Le donne in lungo e gli uomini in abiti estivi sorseggiavano bevande ghiacciate conversando amabilmente.

E ora vivo in quel sogno, pensò. Quel mondo fantastico esiste davvero e mi appartiene.

Coltivare le rose e le altre piante, occuparsi di palme, felci, cespugli e decine di altre specie non era un lavoro gravoso. Anzi, un’autentica gioia. Lavorando in giardino si rendeva conto degli enormi progressi che aveva fatto.

A mezzogiorno ripose gli attrezzi da giardinaggio e fece la doccia. Rimase a lungo sotto l’acqua bollente, come se insieme con lo sporco e il sudore volesse lavare via anche quei terribili ricordi. In quel deprimente appartamento di Chicago, in quel minuscolo bagno, dove tutti i rubinetti perdevano e dove gli scarichi si intasavano almeno una volta al mese, non c’era mai stata acqua calda a sufficienza.

Consumò un pasto leggero sul patio chiuso da vetrate che si affacciava sulle rose. Mangiucchiando del formaggio e qualche fetta di mela, lesse i giornali del giro dello spettacolo, Hollywood Reporter e Daily Variety, che erano giunti con la posta del mattino. Nell’articolo di Hank Grant sul Reporter notò il suo nome in un elenco di personaggi del cinema e della televisione che compivano gli anni in quel giorno. Per avere solo ventinove anni, ne aveva fatta davvero molta di strada.

Quel giorno il comitato esecutivo della Warner Brothers avrebbe discusso della sua ultima sceneggiatura: L’Ora del Lupo. Entro sera avrebbero deciso se comperarla o rifiutarla. Hilary era tesa e desiderava ardentemente che il telefono squillasse, anche se temeva potesse portarle notizie sconfortanti. Quel progetto era la cosa più importante che le fosse mai capitata.

Aveva scritto la sceneggiatura senza la garanzia di un contratto, seguendo l’impulso, e aveva deciso di venderla solo a condizione di potersi occupare della regia e del montaggio finale. La Warner aveva già ventilato un’offerta da capogiro per la sceneggiatura se lei avesse riconsiderato le condizioni di vendita. Sapeva benissimo di avanzare grandi pretese, ma tenendo presente il suo successo come sceneggiatrice, tali richieste non erano assurde. La Warner avrebbe accettato le sue condizioni, seppure con riluttanza: avrebbe potuto scommetterci. Ma la questione cruciale riguardava il montaggio. Quell’onore, il potere di decidere esattamente che cosa presentare sullo schermo, l’autorità suprema su ogni singola scena e ogni minimo dettaglio o sfumatura del film, veniva di solito accordato a registi che avevano fatto incassare cifre record. Difficilmente tale compito spettava a registi di secondo piano, specialmente se si trattava di donne. La sua insistenza per avere il controllo totale del film avrebbe potuto mandare a monte l’intero affare.

Nella speranza di riuscire a non pensare alla Warner Brothers, Hilary trascorse il pomeriggio del mercoledì nel suo studio, che si affacciava sulla piscina. La scrivania era ampia, massiccia, in legno di quercia, con una decina di cassetti e una ventina di piccoli nascondigli. Sulla scrivania erano appoggiati diversi oggetti in cristallo Lallique che rifrangevano la morbida luce proveniente dalle due lampade di ottone. Cercò di concentrarsi sulla seconda stesura di un articolo che stava scrivendo per Film Comment, ma i suoi pensieri erano costantemente rivolti a L’Ora del Lupo.

Il telefonò squillò alle quattro e Hilary sobbalzò per la sorpresa anche se era tutto il pomeriggio che aspettava quella chiamata. Era Wally Topelis.

«Sono il tuo agente, piccola. Dobbiamo parlare.»

«Non è esattamente quello che stiamo facendo ora?»

«Voglio dire a faccia a faccia.»

«Oh. Allora ci sono brutte notizie.»

«Ho forse detto una cosa del genere?»

«Se fossero state piacevoli,» rispose Hilary, «me ne avresti parlato al telefono. A faccia a faccia significa solo che vuoi addolcire la pillola.»

«Sei la solita pessimista, piccola.»

«A faccia a faccia significa che vuoi stringermi la mano per convincermi che non è il caso di suicidarmi.»

«È davvero un bene che questo tuo lato melodrammatico non traspaia mai in quello che scrivi.»

«Se la Warner ha deciso di no, non hai che da dirlo.»

«Non hanno ancora deciso, agnellino mio.»

«Sono pronta al peggio.»

«Ma mi vuoi stare ad ascoltare? Non c’è ancora niente di definitivo. Siamo ancora in ballo e vorrei discutere la prossima mossa con te. Tutto qui. Non c’è niente di losco. Possiamo vederci tra mezz’ora?»

«Dove?»

«Io sono al Beverly Hills Hotel.»

«Alla Polo Lounge?»

«Naturalmente.»


Quando Hilary svoltò sul Sunset Boulevard, si rese conto che il Beverly Hills Hotel aveva un aspetto irreale, quasi fosse un miraggio che scintillava sotto il sole. L’imponente edifìcio faceva capolino in mezzo a palme enormi e vegetazione lussureggiante: una visione da fiaba. Lo stucco rosa non era appariscente come le pareva di ricordare. I muri sembravano trasparenti, come se scintillassero di una tenue luce propria. A modo suo, quell’albergo era elegante, un po’ decadente, certo, ma indubbiamente elegante. Davanti all’ingresso principale, dei valletti in divisa posteggiavano le automobili: due Rolls-Royce, tre Mercedes, una Stuts e una Maserati rossa.

Era lontano mille miglia dal povero quartiere di Chicago, pensò allegramente.

Quando entrò nella Polo Lounge, vide una mezza dozzina di attori e attrici del cinema, volti famosi, in mezzo a due pezzi grossi, ma non occupavano il tavolo numero tre. Di solito quello era considerato il posto più ambito dell’intero locale, dal momento che era situato di fronte all’entrata ed era il punto migliore per osservare ed essere osservati. C’era Wally Topelis a quel tavolo, perché era uno dei più importanti agenti di Hollywood e perché era riuscito a incantare il maître proprio come faceva con tutti quelli che incontrava. Era un uomo minuto ed elegante di circa cinquant’anni. Aveva una folta capigliatura bianca e luminosa. I baffi erano bianchi e ben curati. Aveva un’aria distinta, esattamente il tipo di persona che ci si aspettava di vedere al tavolo numero tre. Stava parlando al telefono che gli avevano portato appositamente. Quando vide Hilary avvicinarsi, concluse rapidamente la conversazione, riappese il ricevitore e si alzò in piedi.

«Hilary, sei splendida, come sempre.»

«E tu sei il centro dell’attenzione, come sempre.»

L’uomo fece una smorfia. Aveva la voce morbida e cospiratrice. «Immagino che ci stiano osservando tutti.»

«Credo.»

«Di nascosto.»

«Oh, certo.»

«Perché non vogliono far vedere che ci stanno guardando,» proseguì l’uomo allegramente.

Si sedettero e Hilary proseguì: «E anche noi non guardiamo per vedere se ci stanno guardando.»

«Oh, cielo, no!» Gli occhi azzurri sprizzavano allegria.

«Non vogliamo certo dar loro l’impressione di preoccuparci.»

«Per carità.»

«Sarebbe gauche

«Très gauche.» E scoppiò a ridere.

Hilary sospirò. «Non sono mai riuscita a capire perché un tavolo debba essere più importante di un altro.»

«Be’, io posso starmene seduto qui a farmi quattro risate, ma tutto sommato lo capisco,» rispose Wally. «Nonostante quello che credevano Marx e Lenin, l’animale uomo prospera grazie al sistema classista, almeno fino a quando tale sistema è basato sostanzialmente sul denaro e sul successo e non sul pedigree. Creiamo e alimentiamo sistemi classisti ovunque, persino nei ristoranti.»

«Pare che mi sia imbattuta in una delle famose filippiche alla Topelis.»

Arrivò un cameriere con un secchiello d’argento per il ghiaccio appoggiato su un piedistallo. Lo depositò accanto al tavolo, sorrise e se ne andò. Apparentemente Wally si era preso la libertà di ordinare per entrambi prima ancora che lei arrivasse. Ma non ritenne opportuno rivelarle che cosa avrebbero bevuto.

«Non una filippica,» precisò, «solo una constatazione. La gente ha bisogno dei sistemi classisti.»

«Perché?»

«Innanzitutto, è giusto che la gente abbia delle aspirazioni, dei desideri che vadano oltre i bisogni fondamentali di cibo e di un tetto, esigenze ossessive che li spingano a lottare per ottenere qualcosa. Se c’è un quartiere migliore, un uomo accetterà due lavori contemporaneamente per risparmiare abbastanza per comprarsi una casa in quella zona. Se un’automobile è meglio di un’altra, un uomo, oppure una donna, dal momento che non si tratta certo di una questione di sesso, lavorerà sempre di più per riuscire a permettersela. E se esiste un tavolo migliore nella Polo Lounge, chiunque venga qui vorrà essere sufficientemente ricco o famoso, o persino sufficientemente impopolare, per potersi sedere qui. Questo desiderio quasi maniacale per uno status genera la ricchezza, contribuisce al prodotto nazionale lordo e crea possibilità di lavoro. Dopotutto, se Henry Ford non avesse voluto diventare qualcuno, non avrebbe mai fondato la società che ora dà lavoro a decine di migliaia di persone. Il sistema classista è un motore che guida gli ingranaggi del commercio: è lui a mantenere alto il nostro tenore di vita. Il sistema classista fornisce un obiettivo all’individuo e regala al maître un senso di potere e superiorità che rende piacevole un lavoro altrimenti intollerabile.»

Hilary scosse la testa. «Comunque, il fatto di essere seduto al tavolo migliore non significa certo che sono automaticamente migliore della persona seduta al tavolo di fianco. Non rappresenta certo un successo.»

«È un simbolo del successo, della posizione sociale,» precisò Wally.

«Continuo a non capirne il senso.»

«È solo un gioco particolarmente complesso.»

«E tu sicuramente sai come giocare.»

L’uomo era raggiante. «E non dovrei?»

«Io non ho mai imparato le regole.»

«Eppure dovresti, agnellino mio. È decisamente stupido, ma utile nel mondo degli affari. A nessuno piace lavorare con un perdente. E tutti quelli che giocano vogliono avere a che fare con il genere di persona che può sedersi al miglior tavolo della Polo Lounge.»

Wally Topelis era l’unica persona di sua conoscenza che potesse chiamare una donna «agnellino mio» senza suonare esagerato o viscido. Anche se era un uomo minuto, con la corporatura di un fantino professionista, ricordava un po’ Cary Grant nel film Caccia al ladro. Aveva lo stesso stile: un modo di fare impeccabile ma mai pomposo; una grazia composta in ogni gesto, anche nei più banali; un fascino discreto; un’aria leggermente divertita, come se considerasse la vita un’eterna barzelletta.

Ritornò il capocameriere, Wally lo chiamò Eugene e gli chiese dei bambini. Eugene sembrava osservare Wally con affetto e Hilary si rese conto che per ottenere il miglior tavolo della Polo Lounge forse era necessario trattare il personale come vecchi amici e non semplici servitori.

Eugene aveva una bottiglia di champagne e la porse a Wally perché la controllasse.

Hilary lanciò un’occhiata all’etichetta. «Dom Pérignon?»

«Ti meriti il meglio, agnellino mio.»

Eugene tolse la carta stagnola dal collo della bottiglia e iniziò a liberare il tappo.

Hilary aggrottò la fronte. «Devi avere notizie davvero pessime per me.»

«Perché dici una cosa del genere?»

«Una bottiglia di champagne da cento dollari…» Hilary lo osservò con attenzione. «Immagino serva a consolare il mio orgoglio e a lenire le ferite.»

Il tappo saltò via. Eugene sapeva il fatto suo. Solo poche gocce del prezioso liquido fuoriuscirono dalla bottiglia.

«Sei troppo pessimista,» disse Wally.

«Sono realista.»

«La maggior parte della gente avrebbe detto: ‘Ah, champagne! Che cosa stiamo festeggiando?’ Ma non Hilary Thomas.»

Eugene versò un dito di Dom Pérignon. Wally la assaggiò e annuì.

«Stiamo festeggiando?» chiese Hilary. Non aveva neppure preso in considerazione quella possibilità e improvvisamente si sentì incredibilmente debole.

«A dire la verità, sì,» rispose Wally.

Eugene riempì lentamente i due bicchieri e infilò la bottiglia nel prezioso secchiello per il ghiaccio con la massima attenzione. Chiaramente, voleva rimanere nei paraggi il più possibile per ascoltare il motivo per cui stavano festeggiando.

Ed era altrettanto ovvio che Wally volesse renderlo partecipe della notizia affinchè potesse diffonderla. Facendo una smorfia alla Cary Grant, si sporse verso Hilary e mormorò: «Abbiamo concluso l’affare con la Warner Brothers.»

La donna lo fissò, socchiuse gli occhi, spalancò la bocca per parlare, ma non riuscì a proferire parola. Alla fine farfugliò: «Non è vero.»

«Invece sì.»

«Non è possibile.»

«Invece è possibile.»

«Non può essere così facile.»

«Te l’ho detto, ce l’abbiamo fatta.»

«Non mi lasceranno curare la regia.»

«Oh, sì.»

«Non mi lasceranno fare il montaggio.»

«Sì, farai tu anche quello.»

«Mio Dio.» Era sbalordita. Si sentiva stravolta.

Eugene si congratulò con lei e si allontanò.

Wally scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «Sai una cosa? Avresti potuto recitare meglio la tua parte per Eugene. Fra non molto la gente ci vedrà festeggiare e chiederà a Eugene di che cosa si tratta: e lui sicuramente racconterà tutto. Lascia che il mondo pensi che tu sei sempre stata convinta di poter ottenere quello che volevi. Mai mostrare i propri dubbi o la propria paura mentre si nuota in mezzo agli squali.»

«Non stai scherzando, vero? Abbiamo davvero ottenuto quello che volevamo?»

Alzando il calice, Wally esclamò: «Un brindisi alla più dolce delle clienti, con la speranza che un giorno capisca che non tutto il male viene per nuocere e che esistono anche molte mele senza verme dentro.»

Fecero tintinnare i bicchieri.

Poi Hilary proseguì: «Devono aver aggiunto un mucchio di clausole al contratto. Un budget limitato. Stipendi da fame. Nessuna percentuale sugli incassi e roba del genere.»

«Smettila di cercare il pelo nell’uovo,» la rimproverò lui esasperato.

«Non sto mangiando uova.»

«Che spiritosa.»

«Sto bevendo una coppa di champagne.»

«Hai capito benissimo quello che voglio dire.»

Lei fissava le bollicine nella coppa di Dom Pérignon.

Anche dentro di lei era come se si fossero sviluppate centinaia di bollicine, una catena interminabile di minuscole perle di gioia; ma c’era una parte di lei che si comportava da tappo, cercando di contenere l’emozione, per mantenerla al sicuro, sotto pressione, imbottigliata e ben protetta. Aveva paura di essere troppo felice. Non voleva sfidare il destino.

«Proprio non riesco a capire,» sbottò Wally. «Sembra quasi che l’affare non sia andato in porto. Ma mi sono spiegato bene, vero?»

Hilary sorrise. «Mi dispiace. E solo che… da ragazzina ho imparato ad aspettarmi sempre il peggio. In quel modo, non rimanevo mai delusa. È l’atteggiamento migliore, quando si vive con una coppia di alcolizzati violenti e delusi.»

L’uomo la guardò con dolcezza.

«I tuoi genitori se ne sono andati,» mormorò teneramente. «Morti. Tutt’e due. Non possono più farti nulla, Hilary. Non possono più farti del male.»

«Negli ultimi dodici anni ho trascorso la maggior parte del tempo cercando di convincermi di questo.»

«Hai mai preso in considerazione la psicoanalisi?»

«Ci sono andata per due anni.»

«E non è servita?»

«Non molto.»

«Forse con un medico diverso…»

«Sarebbe lo stesso,» lo interruppe Hilary. «C’è un’incongruenza nella teoria freudiana. Gli psichiatri sono convinti che tu possa cambiare appena ti rendi conto che sono stati i traumi infantili a trasformarti in un adulto nevrotico. Credono che la parte più difficile consista nel trovare la chiave e che a quel punto sia possibile aprire la porta in un minuto. Ma non è così semplice.»

«Devi desiderare di cambiare.»

«Ma neanche questo è tanto semplice.»

Rigirò la coppa di champagne più volte fra le mani piccole e ben curate. «Be’, se ogni tanto ti va di parlare, io sono sempre disponibile.»

«Ti ho già assillato a sufficienza.»

«Sciocchezze. Mi hai raccontato ben poco. Solo i fatti salienti.»

«È una storia noiosa.»

«Neanche per sogno, te l’assicuro. La storia di una famiglia lacerata dall’ingiustizia, dall’alcolismo, dalla follia, dall’omicidio e dal suicidio e una bambina innocente intrappolata nel mezzo… Come sceneggiatrice dovresti renderti conto che è il genere di plot che non può certo annoiare.»

Hilary sorrise debolmente. «Comunque sento che devo uscirne da sola.»

«Di solito è utile parlarne…»

«Io ne ho già parlato all’analista e ho provato anche con te, ma non è servito poi a molto.»

«Ma parlare ti è stato di aiuto.»

«Ho fatto tutto quello che potevo. Ora devo soltanto decidermi a parlare con me stessa. Devo confrontarmi con il mio passato da sola, senza contare sul tuo aiuto o su quello di un medico: e questo è qualcosa che non sono mai riuscita a fare.» Una ciocca di capelli scuri le era caduta su un occhio; la scostò dal viso e se la portò dietro l’orecchio. «Prima o poi, metterò la testa a posto. È solo una questione di tempo.»

Ma ne sono davvero convinta? si chiese.

Wally la fissò per un attimo e poi disse: «Be’, immagino tu sappia quello che stai facendo. Nel frattempo, alziamo i calici.» Levò la coppa di champagne. «Stai attenta e cerca di sorridere in modo che tutte le personalità che ci stanno guardando possano invidiarti e desiderare di lavorare con te.»

Avrebbe voluto appoggiarsi allo schienale, bere coppe su coppe di Dom Pérignon ghiacciato e lasciarsi invadere dalla felicità, ma non riusciva a rilassarsi completamente. Non riusciva a scrollarsi di dosso l’oscurità spettrale che avvolgeva ogni cosa, quell’incubo inquietante pronto a balzare fuori e a divorarla. Earl ed Emma, i suoi genitori, l’avevano costretta a entrare in una minuscola scatola piena di paura, avevano chiuso il pesante coperchio e avevano buttato via la chiave; da quel giorno aveva sempre osservato il mondo esterno dagli angusti confini di quella scatola. Earl ed Emma le avevano inculcato un tranquillo anche se costante e incrollabile senso di paranoia, in grado di rovinare irrimediabilmente tutte le cose belle, tutto quello che sarebbe potuto essere gioioso e piacevole.

In quel momento l’odio nei confronti del padre e della madre si fece più gelido e risoluto, profondo come mai prima. D’improvviso la vita frenetica e l’enorme distanza che la separavano dalla gioventù infernale trascorsa a Chicago non parvero più un rimedio sufficiente contro il dolore.

«Che cosa c’è che non va?» chiese Wally.

«Niente. Sto bene.»

«Sei molto pallida.»

Con un grande sforzo, Hilary allontanò i ricordi, ricacciando indietro il passato. Sfiorò con la mano la guancia di Wally e gli diede un bacio. «Mi dispiace. A volte sono una vera rompiballe. Non ti ho nemmeno ringraziato. Sono contenta per come sono andate le cose, Wally. Davvero. E meraviglioso! Sei l’agente più in gamba di tutto il giro.»

«Hai ragione,» ammise lui. «E vero. Ma questa volta non mi sono neppure dovuto impegnare troppo. Il copione è piaciuto talmente tanto che erano disposti a offrirci tutto pur di avere in mano l’intero progetto. Non è stato solo un colpo di fortuna. E non è neanche merito, di un agente in gamba. Voglio che tu ti renda conto di questo. Mettitelo in testa, ragazzina, meriti il successo. La tua sceneggiatura è una delle cose migliori che siano mai state scritte in questi ultimi anni. Puoi anche continuare a vivere all’ombra dei tuoi genitori, puoi continuare ad aspettarti sempre il peggio, come prima, ma d’ora in poi otterrai sempre e solo successi. Se vuoi il mio consiglio, faresti meglio ad abituartici.»

Avrebbe desiderato ardentemente potergli credere e lasciarsi andare a una visione ottimista, ma gli oscuri germogli del dubbio sembravano spuntare continuamente dai semi gettati a Chicago. Negli angoli più remoti del paradiso che Wally stava descrivendo Hilary scorgeva i soliti, orrendi mostri a lei familiari. Era una fervente seguace della Legge di Murphy: Se c’è una cosa che può andar male, di certo bene non andrà.

A ogni modo, l’entusiasmo di Wally era così contagioso e il suo tono così convinto, che Hilary riuscì a ritrovare un autentico e radioso sorriso nel suo calderone ribollente di emozioni confuse.

«Così mi piaci,» esclamò lui, raggiante. «Va molto meglio. Hai un sorriso stupendo.»

«Cercherò di usarlo più spesso.»

«E io cercherò di concludere sempre il genere di affari che ti obbligheranno a usarlo più spesso.»

Continuarono a bere champagne, discussero L’Ora del Lupo, fecero progetti e risero come Hilary non ricordava di aver fatto per anni. Poco per volta, il suo umore migliorò. Un divo molto macho, la cui ultima pellicola aveva incassato oltre cinquanta milioni di dollari, fu il primo a fermarsi al loro tavolo e a chiedere il motivo di un tale festeggiamento. Sguardo assassino, labbra sottili, muscoli super e andatura spavalda, sullo schermo, nella vita di tutti i giorni era cordiale, facile alla risata e un pochino timido. Uno dei dirigenti di studios presenti in sala, tutto elegante e con lo sguardo furbo, cercò, prima in modo velato e poi sempre più apertamente, di scoprire la trama del film, nella speranza di poter far fruttare la preziosa informazione per ben figurare in qualche settimanale televisivo di anteprime cinematografiche. Ben presto, la sala si animò e almeno metà dei presenti si fermarono davanti al tavolo numero tre per congratularsi con Hilary e Wally, allontanandosi poi rapidamente per commentare le ragioni di tanto successo e chiedendosi quale sarebbe stata la percentuale dell’agente. Dopotutto, L’Ora del Lupo aveva bisogno di un produttore, di molti attori, di qualcuno che scrivesse la colonna sonora… Accanto al miglior tavolo della sala era tutto un susseguirsi di pacche sulle spalle, baci sulle guance e strette di mano.

Hilary sapeva che la maggior parte dei frequentatori della Polo Lounge non erano in realtà i mercenari che davano l’impressione di essere. Molti di loro erano partiti dal niente: gente povera e affamata proprio come lei. Sebbene ormai avessero accumulato autentiche fortune e avessero investito il loro denaro in modo sicuro, non potevano vincere l’impulso di continuare a lottare. Ci erano abituati da anni e non avrebbero saputo vivere diversamente.

L’immagine pubblica della vita di Hollywood era molto lontana dalla realtà. Segretarie, commessi, impiegati, tassisti, meccanici, casalinghe, camerieri: individui sparsi in tutto il paese che tornavano a casa ogni giorno distrutti dalla stanchezza, si sedevano di fronte alla televisione e sognavano di vivere come le star più famose. Secondo i luoghi comuni diffusi dalle Hawaii al Maine, dalla Florida fino in Alaska, Hollywood era un’effervescente miscela di feste esplosive, donne affascinanti, denaro facile, whisky a fiumi, cocaina a volontà, giornate di ozio, drink sui bordi delle piscine, vacanze ad Acapulco e Palm Springs e sesso sui sedili posteriori in pelle delle Rolls-Royce. Una fantasia. Un’illusione. Hilary era convinta che una società governata da capi corrotti e impotenti, una società basata su risparmi intaccati dall’inflazione e dall’eccessiva tassazione e impaurita dall’ombra di una totale distruzione nucleare, avesse bisogno di crearsi le proprie illusioni per riuscire a sopravvivere. In realtà, le persone impegnate nell’industria cinematografica e televisiva lavoravano duramente proprio come qualsiasi altro cittadino, anche se spesso il risultato delle loro fatiche non era sufficiente a ricompensarle. La star di una serie televisiva di successo lavorava dall’alba al tramonto, spesso quattordici, sedici ore al giorno. Naturalmente, le ricompense erano enormi. Ma, in realtà, le feste non erano così esplosive, le donne non più facili delle casalinghe di Filadelfia o Hackensack o Tampa, le giornate di ozio rare come per chiunque e il sesso esattamente lo stesso di quello praticato dalle segretarie di Boston e dalle commesse di Pittsburgh.

Wally alle sei e un quarto disse che doveva andarsene per arrivare puntuale a un appuntamento alle sette, mentre un paio di clienti nella Polo Lounge chiesero a Hilary di cenare con loro. Lei rifiutò, inventandosi un altro impegno.

Fuori dell’hotel, la serata autunnale era ancora luminosa e il cielo limpido era attraversato soltanto da poche nuvole alte. Il tramonto aveva colorato l’orizzonte di un biondo platino e l’aria era sorprendentemente fresca per Los Angeles. Due giovani coppie chiacchieravano e ridevano allegramente scendendo da una Cadillac blu e, poco più avanti, sul Sunset Boulevard, si udivano lo stridio delle gomme, il ruggito dei motori e il rumore dei clacson mentre l’ora di punta volgeva al termine e gli automobilisti cercavano di fare ritorno a casa sani e salvi.

Mentre Hilary e Wally aspettavano che i valletti sorridenti riportassero loro le vetture, l’uomo chiese: «Vai davvero a cena con qualcuno?»

«Sì. Io, me stessa e me medesima.»

«Ascolta, se vuoi puoi venire con me.»

«La classica ospite non invitata.»

«Ma ti ho appena invitato.»

«Non voglio rovinare i tuoi piani.»

«Sciocchezze. Saresti un’aggiunta deliziosa.»

«A ogni modo, non ho il vestito adatto.»

«Secondo me stai benissimo.»

«Voglio stare da sola,» confessò lei.

«Come Greta Garbo: sei terribile. Vieni a cena con me. Per favore. È solo una serata informale a The Palm con un cliente e sua moglie. Un intraprendente giovane scrittore per la televisione. Gente simpatica.»

«Preferisco di no, Wally. Davvero.»

«Una donna splendida come te, in una notte come questa, con un valido motivo per festeggiare: ci vorrebbe una cena a lume di candela, una musica soft, del buon vino e una persona speciale con cui condividere tutto questo.»

Lei sorrise. «Wally, sei un inguaribile romantico!»

«Dico sul serio.»

Gli appoggiò una mano sul braccio. «È gentile da parte tua preoccuparti per me, Wally, ma sto benissimo. Sono contenta di rimanere da sola. Sono un’ottima compagnia per me stessa. Avrò tutto il tempo di instaurare un rapporto serio con un uomo, di andare a passare il fine settimana sulla neve ad Aspen e di trascorrere le serate chiacchierando a The Palm, quando sarà terminato L’Ora del Lupo e quando sarà presentato nelle sale cinematografiche.»

Wally Topelis aggrottò la fronte. «Se non impari a rilassarti, non sopravvivrai a lungo in un ambiente ad alta pressione come questo. Nel giro di un paio di anni, sarai uno straccio, esaurita, a pezzi e completamente fusa. Devi credermi, ragazzina; quando avrai bruciato l’energia fisica, ti renderai conto improvvisamente che anche l’energia mentale e la forza creativa se ne saranno andate, evaporate.»

«Questo progetto è un vero toccasana per me,» spiegò lei. «Dopo il film, la mia vita non sarà più la stessa.»

«Sono d’accordo, ma…»

«Ho lavorato sodo, molto sodo, con questo unico obiettivo in testa. E devo ammetterlo: ero ossessionata dal lavoro. Ma quando avrò una certa reputazione come sceneggiatrice e come regista, mi sentirò più sicura. A quel punto sarò finalmente in grado di scacciare i miei demoni, i miei genitori, Chicago e tutti i brutti ricordi. Riuscirò a rilassarmi e condurrò una vita più normale. Ma per ora non posso fermarmi. Se dovessi rallentare, sono sicura che sarei perduta. O almeno è quello che credo, e in pratica è la stessa cosa.»

L’uomo sospirò. «Va bene. Ma ci saremmo divertiti un sacco a The Palm.»

Arrivò un valletto con la macchina.

Hilary abbracciò Wally. «Probabilmente ti chiamerò domani, giusto per essere sicura che questo affare con la Warner Brothers non è solo un sogno.»

«Ci vorrà qualche settimana per il contratto, ma non prevedo grossi problemi. Potremmo riparlarne la settimana prossima e a quel punto potrei organizzare un incontro negli studios.»

Hilary gli diede un bacio, salì in macchina, allungò la mancia al valletto e si allontanò.

Si diresse verso le colline, passò davanti alle ville miliardarie e ai giardini verdi e ben curati; svoltò a destra e poi a sinistra, guidando senza meta, cercando solo di rilassarsi: era una delle poche fughe che si concedeva. La maggior parte delle strade era avvolta nell’ombra rossastra gettata dai folti rami degli alberi; la notte cercava di infiltrarsi tra la luce del giorno che stentava ad andarsene e tra le palme, le querce, gli aceri, i cedri, i cipressi e i pini. Accese i fari e si mise a esplorare alcune nuove strade fino a quando, a poco a poco, il senso di frustrazione iniziò ad affievolirsi.

Più tardi, quando la notte cadde sugli alberi, si fermò a un ristorante messicano sul La Cienega Boulevard. Pareti intonacate alla bell’e meglio. Fotografie di banditi messicani. L’odore pungente della salsa piccante dei tacos e delle tortillas di granturco. Cameriere con camiciole scollate da contadina e gonne rosse a pieghe. Hilary mangiò enchiladas di formaggio, riso e fagioli. Il cibo aveva esattamente lo stesso sapore di quello che avrebbe potuto gustare a lume di candela, con una musica di sottofondo e qualcuno di veramente speciale al suo fianco.

Devo ricordarmi di dirlo a Wally, pensò mentre annaffiava l’ultimo boccone di enchilada con un sorso di Dos Equis, una birra messicana scura.

Ma quando ci ripensò meglio le parve di udire il suo commento: «Agnellino mio, è solo un vano tentativo di razionalizzazione psicologica. È vero che la solitudine non può cambiare il gusto del cibo, così come l’effetto delle candele e il suono della musica non lo possono migliorare, ma questo non significa che la solitudine sia auspicabile, buona o salutare.» Sicuramente non avrebbe resistito alla tentazione di lanciarsi in una filippica sul valore della vita: non sarebbe stato facile rimanere ad ascoltarlo anche se, ne era certa, le sue parole sarebbero state sensate.

È meglio non parlargliene, si disse. Inutile imbarcarsi in quelle discussioni con Wally Topelis.

Risalì in macchina, allacciò la cintura di sicurezza, accese il motore e la radio e rimase seduta per un attimo, osservando il traffico su La Cienega. Era il suo compleanno. Compiva ventinove anni. E nonostante il fatto che quella data fosse stata riportata anche nella colonna di Hank Grant dell’Hollywood Reporter, sembrava che fosse l’unica persona al mondo a preoccuparsene. Be’, andava bene lo stesso. Era una persona solitaria. Era sempre stata solitaria. Non aveva forse detto a Wally che si sentiva perfettamente a suo agio in compagnia di se stessa?

Le macchine continuavano a scorrere in un flusso interminabile, piene di persone che si stavano recando da qualche parte a fare qualcosa: perlopiù erano coppie.

Non aveva voglia di tornare subito a casa, ma non aveva un altro posto dove andare.


La casa era immersa nell’oscurità.

La luce del lampione gettava un’ombra bluastra sul prato.

Hilary parcheggiò la macchina nel box e si avviò verso la porta d’ingresso. Sul sentiero lo scalpiccio dei suoi tacchi risuonò in modo sinistro.

La temperatura era mite. Sebbene il sole fosse ormai tramontato, l’aria era ancora calda e la fresca brezza marina che soffiava per tutto l’anno sulla città non aveva ancora portato con sé la pungente aria autunnale; comunque più tardi, verso la mezzanotte, la temperatura si sarebbe abbassata.

I grilli frinivano tra le siepi.

Hilary entrò in casa, accese la luce dell’ingresso e chiuse la porta. Illuminò anche il soggiorno. Si era allontanata dall’ingresso di pochi passi quando alle sue spalle avvertì un rumore e si girò.

Un uomo sgusciò dall’armadio dell’ingresso, facendo cadere un cappotto dalla gruccia. L’anta dell’armadio sbattè con violenza contro il muro. Era un uomo molto alto sulla quarantina e indossava un paio di pantaloni scuri, un maglione aderente giallo e dei guanti di pelle. I muscoli sodi e possenti testimoniavano anni di sollevamento pesi; persino i polsi, visibili fra il polsino del maglione e i guanti, erano nerboruti. L’uomo si fermò a pochi metri da Hilary, sogghignò, ammiccò e si passò la lingua sulle labbra sottili.

Hilary non sapeva come reagire di fronte a quell’improvvisa apparizione. Quell’uomo non era un normale intruso, né un completo sconosciuto e neanche un punk o un pervertito con gli occhi offuscati dalla droga. Sebbene non fosse di quelle parti, Hilary lo conosceva ed era l’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettata di incontrare in una situazione simile. Veder spuntare dall’armadio il piccolo e gentile Wally Topelis sarebbe stata l’unica cosa in grado di scioccarla ancora di più. Era più confusa che spaventata. Aveva conosciuto quell’uomo tre settimane prima quando, alla ricerca di un set sul quale ambientare la sua sceneggiatura, si era recata nella zona dei vigneti, nella California settentrionale. Era stato un viaggio intrapreso per togliersi dalla mente il lancio di L’Ora del Lupo, il lavoro che aveva appena terminato e di cui si stava occupando Wally. A Napa Valley era un uomo importante e di successo. Ma tutto ciò non spiegava che cosa diavolo ci facesse quell’uomo nascosto nell’armadio in casa sua.

«Mr Frye!» esclamò agitata.

«Ciao, Hilary.» Quando Hilary aveva visitato le vigne di Frye vicino a St. Helena, il timbro profondo della sua voce le era sembrato rassicurante, quasi paterno, ma ora sembrava rauco, malvagio e minaccioso.

Lei si schiarì nervosamente la voce. «Che cosa ci fa qua?»

«Sono venuto a trovarti.»

«Perché?»

«Dovevo rivederti.»

«E per quale motivo?»

L’uomo stava ancora sorridendo. Aveva uno sguardo inquietante, da predatore. Il suo era il ghigno del lupo prima di chiudere le fauci sul coniglio indifeso.

«Come ha fatto a entrare?» domandò Hilary.

«Bella.»

«Che cosa sta dicendo?»

«Sei così bella.»

«La smetta.»

«Stavo proprio cercando una come te.»

«Mi fa paura.»

«Sei veramente molto bella.»

Fece un passo verso di lei. In quel momento Hilary capì che cosa voleva quell’uomo. Ma era assurdo, impossibile. Perché mai un uomo della sua levatura sociale avrebbe dovuto percorrere migliaia di chilometri e rischiare ricchezza, reputazione e libertà per un breve attimo di sesso strappato con la forza?

Fece un altro passo.

Hilary si allontanò.

Violentata. Non era possibile. A meno che… Se aveva intenzione di ucciderla dopo la violenza, allora quell’uomo non avrebbe corso un grande rischio. Indossava i guanti. Non avrebbe lasciato impronte, nessuna traccia. E nessuno avrebbe creduto che un famoso e rispettato viticultore di St. Helena si fosse fatto tutti quei chilometri fino a Los Angeles per stuprare e assassinare una donna. E anche se qualcuno l’avesse ritenuto possibile, nessuno avrebbe mai pensato a Frye. La polizia non sarebbe mai arrivata a lui.

Frye continuava ad avvicinarsi. Lentamente. Inesorabilmente. A passi pesanti. Godendosi la tensione di quel momento. Il ghigno dipinto sul suo volto divenne più satanico quando si accorse che la donna cominciava a capire.

Hilary indietreggiò fino al camino in pietra; per un attimo pensò di afferrare uno dei pesanti attrezzi in ottone, ma si rese conto che non sarebbe stata abbastanza veloce per difendersi. Aveva di fronte un uomo forte, atletico, in perfetta forma fisica: le sarebbe stato addosso prima che potesse afferrare l’attizzatoio e lo colpisse su quella maledetta testa.

Frye chiuse le mani. Le nocche si fecero più pronunciate sotto gli aderenti guanti di pelle.

Hilary indietreggiò ancora e si trovò vicino a due sedie, al tavolino e al divano. Cominciò a spostarsi verso destra, cercando di interporre il divano tra lei e Frye.

«Hai dei capelli stupendi,» mormorò l’uomo.

Una parte di lei si chiese se per caso non stesse impazzendo. Quello non poteva essere lo stesso Bruno Frye che aveva conosciuto a St. Helena. Allora non aveva notato la benché minima traccia di quella follia che ora stravolgeva quel viso madido di sudore. Gli occhi dell’uomo erano grigi frammenti di ghiaccio e la gelida passione che riflettevano era sicuramente troppo mostruosa per poter rimanere nascosta quando l’aveva visto l’ultima volta.

Poi notò il coltello e quella vista fu come una ventata di calore che trasformò i suoi dubbi in vapore, scacciandoli dalla sua mente. Quell’uomo voleva ucciderla. Il coltello era agganciato alla cintura, sul fianco destro. Era infilato in un fodero aperto e poteva essere sganciato tirando semplicemente il perno metallico fissato a una sottile cintura in cuoio. In un secondo avrebbe potuto sfilare il coltello e tenerlo saldamente in mano; in due secondi avrebbe potuto affondarglielo nel ventre, tagliando la tenera carne e gli organi vitali e lasciando scorrere la preziosa riserva di sangue.

«Ti ho desiderata dal primo momento che ti ho visto,» dichiarò Frye. «Volevo averti.»

Il tempo sembrava essersi fermato.

«Sei un bel bocconcino,» continuò. «Veramente bello.»

Le sembrava di vivere in un film al rallentatore. Ogni secondo sembrava durare un’eternità. Lo guardò avvicinarsi come se fosse stata la creatura di un incubo, come se l’aria fosse improvvisamente diventata densa come uno sciroppo.

Nel momento in cui aveva visto il coltello si era sentita paralizzare. Si era bloccata, nonostante l’uomo continuasse ad avvicinarsi. Era l’effetto del coltello. L’aveva lasciata senza fiato, le aveva raggelato il cuore e le aveva fatto provare un incontrollabile tremore interno. Poche persone hanno il coraggio di usare un coltello contro un altro essere vivente. Più di ogni altra arma, evidenzia la delicatezza della carne, la terribile fragilità della vita umana; nel momento in cui distrugge, l’assassino vede fin troppo chiaramente la natura della sua stessa mortalità. Una pistola, una dose di veleno, una bomba, un oggetto smussato, una corda possono essere utilizzati in modo relativamente pulito e spesso anche a distanza. Ma l’uomo con il coltello deve essere preparato a sporcarsi e deve essere vicino alla vittima, così vicino da avvertire il calore sprigionato dalle ferite da lui stesso provocate. Ci vuole un particolare coraggio, o una certa follia, per squarciare un’altra persona e non provare repulsione di fronte al sangue caldo che scorre sulla propria mano.

Frye era sopra Hilary. Le mise una mano sul seno, lo premette e lo strinse attraverso la seta del vestito.

Quel contatto violento risvegliò Hilary dallo stato di trance nel quale era caduta. Allontanò la mano dell’uomo, si liberò dalla sua presa e corse dietro il divano.

La risata di Frye era calda, piacevole in modo sconcertante, ma gli occhi duri brillavano di una macabra luce di divertimento. Era uno scherzo demoniaco, il folle umorismo del diavolo. Frye voleva che lei si ribellasse, perché amava combattere.

«Vattene!» urlò la donna. «Esci!»

«Non voglio uscire,» rispose Frye, sorridendo e scuotendo la testa. «Voglio entrare. Oh, sì. Ecco che cosa voglio. Voglio entrare dentro di te, mia cara. Voglio strapparti quel vestito, spogliarti ed entrarti dentro. Completamente, fino a dove sei calda, bagnata, oscura e morbida.»

Per un attimo, la paura che le aveva trasformato le gambe in gelatina e l’aveva svuotata internamente si trasformò in un’emozione più forte: odio, rabbia, furore. La sua non era la collera ragionata di una donna nei confronti di un uomo che voglia con arroganza offendere la sua dignità e violare i suoi diritti; non era nemmeno la rabbia intellettuale scatenata dall’ingiustizia biologica e sociale di quella particolare situazione: era un sentimento molto più viscerale. Quell’uomo aveva invaso il suo mondo senza essere stato invitato, si era intrufolato nel suo rifugio: Hilary era in preda a una furia cieca che le annebbiava la vista e le faceva battere il cuore all’impazzata. Digrignò i denti emettendo un suono gutturale: inconsciamente, stava reagendo come un animale che affronta il nemico e contemporaneamente cerca di mettersi in salvo.

Dietro il divano c’era un tavolino basso di cristallo. Due statuette di porcellana alte circa mezzo metro facevano bella mostra sul ripiano. Hilary ne afferrò una e la scagliò contro Frye.

L’uomo si chinò d’istinto, schivando l’oggetto. La statuetta colpì il camino di pietra e finì in pezzi. Una pioggia di cocci e frammenti di porcellana cadde sul camino e sul tappeto.

«Riprovaci,» la sfidò Frye.

Hilary afferrò l’altra statuetta ed ebbe un attimo di esitazione. Guardò l’uomo attraverso gli occhi socchiusi, soppesò il soprammobile, poi fece finta di tirare l’oggetto.

Il trucco parve funzionare. Frye si piegò di lato per evitare il proiettile.

Con un gridolino di trionfo, Hilary scagliò davvero la statuetta.

L’uomo fu colto troppo di sorpresa per riuscire a piegarsi nuovamente e la statuetta lo colpì in testa. Era stato un lancio fortunato, anche se meno violento di quanto lei avesse sperato, ma l’uomo vacillò, senza tuttavia cadere. Non era ferito gravemente. Non sanguinava neppure. Ma era stato colpito e il dolore lo trasformò. Non era più di quell’umore perversamente gioioso. Il ghigno scomparve. La bocca si era ridotta a una linea sottile, con le labbra chiuse. Il viso era paonazzo. Una rabbia furiosa lo aveva caricato come un congegno a molla. Per la tensione i muscoli del collo taurino si gonfiarono, possenti e minacciosi. Si rannicchiò leggermente, pronto ad attaccare.

Hilary era convinta che avrebbe girato intorno al divano e lei era pronta ad andare dall’altra parte, tenendosi a debita distanza e parandosi dietro al sofà fino a quando non avesse trovato un altro oggetto da scagliargli contro. Ma quando finalmente Frye si mosse, non tentò nemmeno di aggirare l’ostacolo. Si lanciò avanti con violenza, come un toro scatenato. Si piegò davanti al divano, lo afferrò con entrambe le mani, lo sollevò e con un solo rapido movimento lo scagliò a terra, come se fosse stato un cuscino. Hilary si spostò proprio mentre il divano cadeva fragorosamente dove solo un secondo prima si trovava lei. Appena il divano toccò terra, Frye lo scavalcò. Voleva raggiungerla e ce l’avrebbe fatta se non avesse inciampato e non fosse caduto su un ginocchio.

La collera di Hilary si trasformò nuovamente in paura, costringendola alla fuga. Avrebbe voluto dirigersi verso l’ingresso e la porta, ma sapeva che non avrebbe avuto il tempo per aprire le due serrature e uscire prima che lui la raggiungesse. Le era maledettamente vicino, a non più di due o tre passi. Hilary si lanciò a destra e si precipitò sulla scala a chiocciola, salendo due gradini alla volta.

Stava ansimando, ma nonostante tutto sentì l’uomo che si avvicinava. I suoi passi riecheggiavano nella casa. Stava imprecando contro di lei.

La pistola. Nel comodino. Se fosse riuscita a raggiungere la camera da letto distanziandolo, avrebbe avuto il tempo di chiudere la porta. Così l’avrebbe bloccato almeno per qualche istante, quanto bastava per prendere la pistola.

In cima alle scale, nel corridoio del piano di sopra, quando ormai era sicura di averlo distanziato, lui l’afferrò per la spalla destra e l’attirò violentemente contro di sé. Hilary urlò, ma non cercò di divincolarsi, come lui evidentemente si aspettava. Al contrario, quando l’uomo l’afferrò, si girò verso di lui. Gli si strinse contro prima che lui riuscisse a cingerla con un braccio, premette così forte da riuscire ad avvertire la sua erezione e con un ginocchio lo colpì violentemente in mezzo alle gambe. Frye reagì come se fosse stato colpito da un fulmine. Il viso infuocato dalla rabbia divenne improvvisamente di un pallore mortale. Lasciò la presa, barcollò e scivolò sul primo gradino, roteò le braccia, cominciò a ruzzolare, urlò, si buttò di lato, afferrò la ringhiera e finalmente riuscì a fermarsi.

A quanto pareva, non aveva molta esperienza di donne che opponevano una strenua resistenza. Hilary era già riuscita a ingannarlo due volte. Frye aveva forse pensato di avere a che fare con un dolce, morbido e inoffensivo coniglietto, una timida preda che si sarebbe sottomessa facilmente per lasciarsi usare e spezzare con un semplice movimento del polso. Ma lei si era rivoltata, gli aveva mostrato le unghie e i denti e appariva trionfante di fronte alla sua espressione sbalordita.

Hilary aveva sperato che Frye rotolasse giù sino in fondo e si rompesse l’osso del collo. A ogni modo la ginocchiata ai genitali lo avrebbe tenuto fuori gioco almeno per un po’, il tempo sufficiente perché lei potesse raggiungere il comodino. Rimase ovviamente sconvolta quando, dopo solo pochi secondi, prima ancora che potesse girarsi e correre via, vide l’uomo allontanarsi dalla ringhiera e, ancora sussultante per il dolore, arrancare verso di lei.

«Puttana,» mormorò a denti stretti, quasi senza fiato.

«No,» gridò Hilary. «No. Stai indietro!»

Si sentiva come uno dei personaggi di quei vecchi film dell’orrore, che un tempo produceva la Hammer Films. Stava combattendo contro un vampiro, uno zombie, ed era sempre più stupita e scoraggiata di fronte a tanta forza e alla resistenza soprannaturale del mostro.

«Puttana.»

Corse lungo il corridoio fino alla camera da letto. Sbattè la porta, cercò a tastoni la chiave, poi finalmente riuscì ad accendere la luce e a chiudere l’uscio.

Nella stanza riecheggiava uno strano e spaventoso rumore. Era un suono rauco pieno di terrore. Hilary si guardò intorno ansiosamente alla ricerca della fonte del rumore; solo dopo alcuni secondi si rese conto che stava ascoltando i propri singhiozzi, strozzati e incontrollabili.

Stava per farsi prendere dal panico, e invece doveva controllarsi se voleva continuare a vivere.

Frye stava già scuotendo la maniglia, poi si scagliò con tutto il peso contro la porta, che non cedette. Ma non avrebbe resistito ancora per molto: sicuramente Hilary non avrebbe fatto in tempo a chiamare la polizia e tantomeno ad aspettare l’arrivo degli aiuti.

Il cuore le batteva all’impazzata; Hilary tremava come se fosse stata nuda su una distesa di ghiaccio, ma era decisa a non lasciarsi bloccare dalla paura. Attraversò rapidamente la stanza e girò intorno al letto, puntando verso il comodino. Passò davanti a uno specchio che le sembrò riflettere l’immagine di una perfetta sconosciuta, una donna stravolta con il viso bianco come quello di un clown.

Frye aveva cominciato a prendere a calci la porta che tremava violentemente ma per il momento sembrava reggere.

La calibro 32 automatica era appoggiata sopra una pila di pigiami nel cassetto del comodino. Il caricatore era lì accanto. Hilary prese la pistola e con le mani tremanti spinse dentro il caricatore. Si girò verso la porta.

Frye continuava a infierire. La serratura non era molto resistente. Era una di quelle che abitualmente si utilizzano per tenere lontani i bambini e gli ospiti rumorosi. Era inutile contro un uomo della forza di Bruno Frye. Al terzo colpo, i cardini cedettero e la porta si spalancò.

Quando si materializzò dall’oscurità e oltrepassò la soglia, Frye sembrava sempre più un toro impazzito, sudato fradicio e con il respiro affannoso. Le spalle larghe erano curve e le mani erano strette in due pugni. Sembrava volesse abbassare la testa, caricare, colpire e distruggere tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Nei suoi occhi brillava un desiderio di sangue, chiaramente visibile come l’immagine riflessa nello specchio vicino a Hilary. Voleva mandare in frantumi ogni cosa per gettarsi sulla propria preda.

Hilary gli puntò contro la pistola, tenendola ben salda con entrambe le mani.

Frye continuò ad avvicinarsi.

«Adesso sparo! Guarda che lo faccio! Giuro su Dio che lo faccio!»

Frye si fermò, sbattè gli occhi e finalmente si accorse della pistola.

«Fuori!» intimò Hilary.

Lui non si mosse.

«Ti ho detto di andartene!»

L’uomo mosse invece un altro passo verso di lei. Non era più lo stupratore sicuro di sé e deciso a giocare al gatto col topo che aveva affrontato in soggiorno. Gli era successo qualcosa: dentro di lui erano scattati nuovi meccanismi che gli avevano fatto nascere nella mente nuove idee, nuove voglie, bisogni e bramosie più disgustosi e perversi di quanto avesse rivelato fino a quel momento. Non aveva più niente di razionale. Il suo comportamento era quello di un pazzo. Gli occhi brillavano. Non erano più di ghiaccio, bensì acquosi, rossi e stralunati. Gocce di sudore gli imperlavano il viso. Le labbra si muovevano senza sosta, sebbene non parlasse: le storceva, le morsicava, le stringeva, le sporgeva in un broncio da bambino, le apriva in un ghigno, poi in un sorriso enigmatico, le atteggiava a una smorfia minacciosa, a un’espressione indescrivibile. Non era più spinto dalla lussuria o dal desiderio di sopraffarla. Il meccanismo segreto che lo spingeva ora era più oscuro di quello che l’aveva animato fino a pochi minuti prima e Hilary aveva la terribile sensazione che quella forza misteriosa gli avrebbe garantito una sorta di immunità, gli avrebbe permesso di avanzare illeso attraverso una raffica di proiettili.

Frye estrasse l’affilato coltello dal fodero sul fianco e lo sollevò davanti a sé.

«Stai indietro,» ripetè Hilary, disperata.

«Puttana.»

«Parlo sul serio.»

L’uomo ricominciò ad avvicinarsi.

«Per l’amor del cielo,» implorò Hilary. «Sii ragionevole. Quel coltello non può fare niente contro una pistola.»

Frye si trovava a circa quattro metri, dall’altra parte del letto.

«Ti faccio saltare quel maledetto cervello!»

Lui agitò il coltello verso di lei, disegnò rapidi cerchi in aria con la punta, quasi un rito magico volto a cacciare gli spiriti maligni che si frapponevano fra lui e Hilary.

Avanzò di un altro passo.

Hilary prese la mira puntando allo stomaco di Frye, così anche se il rinculo le avesse fatto tremare le mani o la pistola avesse spostato la traiettoria a destra o a sinistra, avrebbe sicuramente colpito un organo vitale. Premette il grilletto.

Non accadde nulla.

Mio Dio, ti prego!

Frye fece due passi in avanti.

Hilary fissò la pistola, sbalordita. Si era dimenticata di togliere la sicura.

L’uomo era a circa due metri e mezzo dal letto. Forse anche meno.

Imprecando contro se stessa, spostò le levette a lato della pistola e un paio di puntini rossi apparvero sul metallo lucido. Prese la mira e premette il grilletto per la seconda volta.

Niente.

Cristo! Che cosa stava succedendo? Non poteva essersi inceppata!

Frye era talmente dissociato dalla realtà, talmente assorbito dalla propria pazzia, da non accorgersi subito che la donna aveva qualche problema con la pistola. Quando finalmente capì che cosa stava succedendo, si mosse velocemente, cercando di sfruttare il vantaggio. Raggiunse il letto, si mise carponi, si alzò in piedi, cominciò ad avanzare sul materasso come un uomo che cammina su un ponte di barili, ondeggiando sulla superficie molleggiata.

Hilary si era dimenticata di spingere il proiettile nel caricatore. Eseguì quell’operazione indietreggiando di due passi, fino a ritrovarsi con le spalle al muro. Sparò senza prendere la mira, mentre l’uomo stava per gettarsi su di lei come un demonio che salta fuori da una falla dell’inferno.

La detonazione riecheggiò nella stanza. Fece tremare le pareti e vibrare le finestre.

Hilary vide il coltello andare in frantumi e i frammenti schizzare dalla mano destra di Frye. La lama d’acciaio volò in aria, brillando per un attimo nel raggio di luce che saliva dall’abat-jour.

Frye urlò mentre il coltello gli schizzava dalla mano. Cadde all’indietro e rotolò verso il lato più lontano del letto. Ma si rialzò immediatamente appena mise i piedi per terra, stringendosi la mano destra con la sinistra.

Hilary non pensava di averlo colpito. Non c’erano tracce di sangue. Il proiettile doveva aver colpito il coltello, frantumandolo e strappandoglielo di mano. Il colpo doveva essere stato più doloroso per le dita della sferzata di una frusta.

Frye gemeva per il dolore e urlava per la rabbia. Era un suono animalesco, un ululato da sciacallo, ma non era decisamente il verso di un animale spaventato che fugge con la coda fra le gambe. Non intendeva mollare la preda.

Hilary sparò ancora e Frye cadde di nuovo. Questa volta rimase a terra.

Con un sospiro di sollievo, Hilary si accasciò esausta contro la parete, senza staccare gli occhi dal punto in cui Frye era caduto e in cui giaceva, fuori vista, dietro il letto. Nessun rumore. Nessun movimento.

Provava un senso di inquietudine perché non riusciva a vederlo. In guardia, con le orecchie tese, si diresse con circospezione verso i piedi del letto, al centro della stanza, poi si spostò verso sinistra e finalmente lo vide.

L’uomo era sdraiato a pancia in giù sul tappeto Edward Fields marrone. Aveva il braccio destro piegato sotto il corpo. Quello sinistro era allungato in avanti, la mano era leggermente contratta, mentre le dita immobili erano rivolte verso la testa. Non riusciva a scorgere il viso. Il tappeto era così folto e scuro e aveva una trama così fitta che non riuscì a vedere se fosse imbrattato di sangue. Era abbastanza evidente, comunque, che non c’era quell’enorme pozza di sangue appiccicoso che si sarebbe aspettata di trovare. Se l’aveva colpito al petto, forse il sangue era nascosto dal corpo. Il proiettile poteva anche averlo colpito in piena fronte, causando una morte istantanea e un immediato arresto cardiaco; in tal caso, avrebbe perso solo poche gocce di sangue.

Hilary rimase a fissarlo per un paio di minuti. Non notò il benché minimo movimento, neppure il lieve alzarsi e abbassarsi del torace.

Era morto?

Lentamente, timidamente, si avvicinò all’uomo.

«Mr Frye?»

Non intendeva avvicinarsi troppo. Non voleva correre alcun rischio, ma doveva vederci più chiaro. Tenne la pistola puntata contro di lui, pronta a sparargli un altro colpo al minimo movimento.

«Mr Frye?»

Non ci fu risposta.

Era ridicolo chiamarlo ancora «Mr Frye». Dopo quello che era successo quella sera, dopo quello che aveva cercato di farle, Hilary era ancora formale e gentile. Forse perché era morto. Una volta passato a miglior vita, anche il peggior individuo merita rispetto, persino da parte di chi l’aveva sempre considerato un bugiardo o un farabutto. Tutti dobbiamo morire e sminuire un morto equivale un po’ a sminuire se stessi. Oltretutto, se si parla male della morte, in qualche modo ci si fa gioco di quel grande mistero e forse, così facendo, gli dei sono più portati a punirci per il nostro affronto.

Hilary aspettò continuando a fissare l’uomo, mentre trascorreva un altro minuto.

«Sa una cosa, Mr Frye? Penso che non correrò alcun rischio con lei. Credo che le pianterò un altro proiettile in testa. Già. Un bel colpo proprio in mezzo alla nuca.»

Naturalmente non era capace di fare una cosa simile, non era violenta per natura. Una volta aveva sparato al poligono di tiro, subito dopo aver comprato la pistola, ma non aveva mai ucciso una creatura vivente che fosse più grande degli scarafaggi dell’appartamento di Chicago. Aveva trovato il coraggio di sparare a Bruno Frye solo perché quell’uomo la stava minacciando e le aveva provocato un’incredibile scarica di adrenalina. L’isterismo e un primitivo istinto di sopravvivenza l’avevano resa violenta per un attimo. Ma ora che Frye giaceva sul pavimento, assolutamente immobile, non più pericoloso di un mucchio di stracci sporchi, non era semplice riuscire a premere il grilletto. Non sarebbe potuta rimanere lì a osservare il cervello spappolato di un uomo. Il solo pensiero le faceva rivoltare lo stomaco. Ma la minaccia avrebbe indotto l’uomo a scoprirsi. Se stava fingendo, la possibilità che lei gli sparasse a bruciapelo avrebbe dovuto porre fine alla sua sceneggiata.

«Diritto alla testa, lurido bastardo,» esclamò, sparando un colpo in aria.

Frye rimase immobile.

Hilary sospirò e abbassò la pistola.

Morto. Era morto.

Aveva ucciso un uomo.

Già paventando i brutti momenti che polizia e giornalisti le avrebbero fatto passare, scavalcò il corpo disteso e si diresse verso la porta.

Ma improvvisamente Frye non era più morto.

Improvvisamente, era tornato vivo e vegetò come non mai.

Quell’uomo aveva previsto le sue mosse. Aveva capito che quella minaccia di sparargli in testa era un trucco. Aveva intuito l’inganno senza perdere il proprio sangue freddo. Non aveva battuto ciglio!

Ora usava il braccio piegato sotto il corpo per spingersi in avanti, attaccando Hilary come un serpente: con la mano sinistra le afferrò la caviglia e la trascinò a terra. Urlando e agitandosi, rotolarono in un intrico di gambe e braccia; le era di nuovo addosso, con i denti all’altezza della sua gola, e ringhiava come un cane; Hilary era terrorizzata dall’idea che la mordesse, che le azzannasse la giugulare per succhiarle il sangue. Alla fine riuscì a mettere una mano fra di loro: fece scivolare il palmo della mano sotto il mento dell’uomo e allontanò la testa dal suo collo mentre ricominciavano a rotolare, finendo a sbattere contro il muro con un colpo sordo: si fermarono storditi e ansimanti. Frye era sopra di lei, un animale violento, pesante, che la schiacciava e la contemplava con sguardo lascivo. Gli occhi freddi e mostruosi erano socchiusi, vuoti e spaventosi, il fiato puzzava di cipolla e birra; era riuscito a infilarle una mano sotto il vestito, voleva strapparle le calze, cercava di fare scivolare le dita tozze sotto gli slip per afferrarle il sesso, ma non con la presa dell’amante, bensì con quella del lottatore; il pensiero di quello che avrebbe potuto fare ai delicati tessuti del suo corpo la riempì di terrore: sapeva che in quel modo era persino possibile uccidere una donna, entrandole dentro, lacerandola, strappandola. Hilary cercò disperatamente di graffiare quegli occhi color cobalto per accecarlo, ma l’uomo spostò velocemente la testa, allontanandola dalla sua portata; improvvisamente si irrigidirono entrambi, perché si resero conto nello stesso, preciso istante, che Hilary non aveva mollato la pistola quando lui l’aveva scaraventata a terra. L’arma era bloccata fra di loro, il calcio premeva contro i genitali di Frye e sebbene il dito di Hilary non fosse sul grilletto, lei riuscì ugualmente a farlo scivolare e a metterlo nella giusta posizione proprio nell’attimo in cui si rese conto della situazione.

La mano tozza dell’uomo era ancora in mezzo alle sue gambe. Una posa oscena. Una mano dura, demoniaca e disgustosa. Riusciva ad avvertire il sudore anche attraverso il guanto che indossava Frye. L’uomo non stava più cercando di strapparle gli slip. Tremava. E anche la sua lurida mano stava tremando.

Il bastardo ha paura.

I suoi occhi sembravano uniti a quelli della donna da un filo invisibile, un filo resistente che non si sarebbe spezzato facilmente. Nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo.

«Se fai una mossa falsa,» sussurrò Hilary, «ti faccio saltare le palle.»

Frye sbattè gli occhi.

«Hai capito?» domandò Hilary, senza riuscire a mantenere la voce ferma. Era affannata e ansimava per lo sforzo ma, soprattutto, per la paura.

Frye si leccò le labbra.

Sbattè lentamente gli occhi.

Come una maledetta lucertola.

«Hai capito?» ripetè Hilary, questa volta in tono deciso.

«Sì.»

«Sarai ragionevole?»

«Sì.»

«Non mi fregherai un’altra volta.»

«Come vuoi tu.»

La voce di Frye era nuovamente profonda, rauca e sicura. Niente nella sua voce, nei suoi occhi o nel suo viso tradiva la sua immagine di macho. Ma la mano guantata continuava ad agitarsi nervosamente fra le gambe della donna.

«Va bene,» disse Hilary. «Quello che devi fare è muoverti lentamente, molto, molto lentamente. Quando ti do il via, rotoliamo tutt’e due molto lentamente finché io non sarò sopra di te.»

Hilary si rese conto che quello che stavano per fare assomigliava terribilmente e in modo grottesco all’abbraccio di due amanti durante un atto sessuale, ma quell’idea non la divertì per niente.

«Quando te lo dico, e non un secondo prima, ti giri sulla tua destra,» ordinò.

«Okay.»

«E io rotolerò con te.»

«Certo.»

«Semplice e facile.»

«Certo.»

«E terrò la pistola dove si trova adesso.»

Gli occhi dell’uomo erano ancora duri e gelidi, ma era scomparsa quella luce di furiosa pazzia. Il pensiero che qualcuno potesse sparargli agli organi genitali l’aveva riportato immediatamente alla realtà, almeno per un po’.

Lei gli premette la canna della pistola contro il pene e Frye gemette di dolore.

«Adesso, girati lentamente,» ordinò Hilary.

L’uomo fece esattamente quanto gli era stato detto: scivolò sul fianco con estrema attenzione, poi sulla schiena, senza mai staccare gli occhi da Hilary, Le tolse la mano da sotto il vestito mentre cambiavano posizione, ma non cercò di strapparle la pistola.

Hilary si aggrappò a lui con la mano sinistra, mentre con l’altra stringeva la pistola e rotolò con lui, tenendo sempre la canna puntata contro gli organi genitali dell’uomo. Finalmente fu sopra di lui, con un braccio intrappolato e la calibro 32 automatica sempre in posizione strategica.

La mano destra cominciava a intorpidirsi a causa della posizione scomoda, ma anche perché stringeva la pistola con tutta la forza, nel timore di allentare la presa. Impugnava l’arma con tanta rabbia che le dita e i muscoli del braccio erano tesi per lo sforzo. Temeva che in qualche modo l’uomo si rendesse conto della crescente debolezza della sua mano oppure che le dita perdessero sensibilità costringendola a mollare la pistola.

«Va bene,» disse Hilary. «Adesso scivolerò giù. Terrò la pistola puntata e mi metterò accanto a te. Non muoverti. Non sbattere neanche gli occhi.»

L’uomo tenne lo sguardo fisso su di lei.

«Hai capito?» domandò lei.

«Sì.»

Tenendo la 32 puntata sul suo scroto, Hilary si allontanò dall’uomo come se si risollevasse da un campo minato. Aveva i muscoli addominali contratti per la tensione. La bocca era asciutta e impastata. Il soffio del loro respiro sembrava riempire la stanza come un vento impetuoso, eppure Hilary aveva i sensi così all’erta da riuscire a percepire il leggero ticchettio del suo Cartier. Scivolò da una parte, si appoggiò sulle ginocchia, esitò un attimo e finalmente si alzò in piedi, allontanandosi velocemente dall’uomo, prima che lui potesse afferrarla un’altra volta.

Frye si mise a sedere.

«No!» urlò Hilary.

«Che cosa c’è?»

«Sdraiati.»

«Non ho intenzione di inseguirti.»

«Sdraiati.»

«Rilassati.»

«Maledizione, sdraiati!»

Non le avrebbe obbedito. Rimase seduto. «Allora, adesso che cosa succede?»

Puntando la pistola contro di lui, Hilary sbottò: «Ti ho detto di sdraiarti sulla schiena, obbedisci! Subito!»

Frye storse le labbra in uno di quegli orribili sorrisi che gli venivano tanto bene. «Ti ho chiesto che cosa succede adesso.»

Stava cercando di riprendere il controllo della situazione e a Hilary questo non andava. D’altra parte, era davvero importante che rimanesse sdraiato piuttosto che seduto? Anche rimanendo seduto, non avrebbe potuto essere così veloce da alzarsi e raggiungerla prima che lei gli piantasse in corpo un paio di proiettili.

«Va bene,» concesse riluttante Hilary. «Siediti, se proprio insisti. Ma se solo fai un gesto verso di me ti scarico la pistola addosso. Ti spappolo le budella. Giuro su Dio che lo faccio.»

Frye sogghignò e annuì.

Tremando, Hilary proseguì: «Adesso vado sul letto. Mi siedo e telefono alla polizia.»

Si spostò lateralmente e indietreggiò, come un granchio, un passetto dopo l’altro, finché raggiunse il letto. Il telefono era sul comodino. Nel momento in cui si sedette e sollevò il ricevitore, Frye si alzò in piedi.

«Ehi!»

Hilary lasciò la cornetta e strinse la pistola con entrambe le mani, cercando di tenerla ferma.

Lui alzò le mani per calmarla, con i palmi rivolti verso di lei. «Aspetta. Aspetta solo un secondo. Non ti faccio niente.»

«Siediti.»

«Non ho intenzione di avvicinarmi.»

«Siediti immediatamente.»

«Adesso me ne vado,» le comunicò Frye.

«Neanche per sogno.»

«Me ne vado da questa stanza e da questa casa.»

«No!»

«Non mi sparerai se me ne vado.»

«Tu provaci e te ne pentirai.»

«Non lo farai,» continuò Frye con tono sicuro. «Sei il tipo che preme il grilletto solo se non ha altra scelta. Non riusciresti a uccidermi a sangue freddo. E sicuramente non alle spalle. Non ce la faresti mai. Non tu. Non hai quel genere di forza. Sei debole. Dannatamente debole.» Sul suo viso comparve ancora quell’orribile ghigno, quel sorriso di morte. Fece un altro passo verso la porta. «Puoi chiamare gli sbirri dopo che me ne sarò andato.» Un altro passo. «Sarebbe diverso se fossi uno sconosciuto. In tal caso forse avrei qualche probabilità di farla franca. Ma, dopotutto, tu puoi spiegare loro chi sono.» Un altro passo. «Mi troveranno in fretta. Troppo in fretta, dannazione.» Un altro passo. «Vedi, tu hai già vinto e io ho perso. Sto solo cercando di guadagnare un po’ di tempo. Solo un po’ di tempo.»

Sapeva che quell’uomo aveva ragione. Avrebbe potuto ucciderlo se l’avesse attaccata, ma non sarebbe mai stata capace di sparargli mentre se ne andava.

Frye si rese conto che le sue parole avevano colpito nel segno, anche se lei non aveva detto nulla, e si voltò per andarsene. Quel gesto sprezzante la mandò su tutte le furie, ma non riuscì a premere il grilletto. Si era avvicinato lentamente all’uscita, ma ora camminava a grandi passi e a testa alta, senza nemmeno guardarsi alle spalle. Scomparve oltre la porta devastata e il rumore dei passi riecheggiò lungo il corridoio.

Quando Hilary lo udì scendere le scale, si rese conto che sarebbe anche potuto rimanere nella casa. Senza essere visto, avrebbe potuto infilarsi in una delle stanze del piano di sotto e nascondersi in un armadio, aspettando pazientemente che la polizia se ne fosse andata per poi uscire dal suo nascondiglio e coglierla di sorpresa. Corse in cima alle scale giusto in tempo per vedere l’uomo che girava a sinistra, verso l’ingresso. Un attimo più tardi, lo sentì armeggiare con le serrature; poi uscì, sbattendosi fragorosamente la porta alle spalle.

Era quasi giunta in fondo alle scale quando le venne in mente che forse aveva solo fatto finta di andarsene. Forse aveva sbattuto la porta senza uscire. Forse la stava aspettando nell’ingresso.

Hilary teneva la pistola lungo il fianco, con la canna rivolta verso il pavimento, ma la alzò prontamente, in preda a un terrore cieco. Scese le scale e si bloccò sull’ultimo gradino, rimanendo con le orecchie tese. Alla fine si sporse in avanti per riuscire a lanciare un’occhiata all’ingresso. Era deserto. La porta dell’armadio era spalancata. Frye non era neppure lì dentro. Se n’era andato davvero.

Hilary chiuse la porta dell’armadio.

Andò verso la porta d’ingresso e chiuse anche quella a doppia mandata.

Muovendosi lentamente, attraversò il soggiorno e si diresse verso lo studio. Nella stanza si sentiva il profumo di limone del prodotto usato per i mobili: il giorno prima c’erano state le due donne dell’impresa di pulizie. Hilary accese la luce e si avvicinò all’enorme scrivania. Appoggiò la pistola al centro del tampone di carta assorbente.

Sul tavolino accanto alla finestra era appoggiato un vaso pieno di rose rosse e bianche. Davano un tocco dolciastro all’aria che sapeva di limone.

Si sedette alla scrivania e prese il telefono che aveva davanti. Cercò il numero della polizia.

Improvvisamente e inaspettatamente, gli occhi le si riempirono di calde lacrime. Cercò di trattenerle. Era Hilary Thomas e Hilary Thomas non piangeva. Non piangeva mai. Hilary Thomas era forte. Hilary Thomas poteva sopportare le offese e le ingiurie peggiori senza lasciarsi mai andare. Hilary Thomas sapeva sempre come comportarsi in modo corretto. Cercò di strizzare gli occhi ma non riuscì a contenere il flusso di lacrime. Le rigavano le guance per poi sostare un attimo agli angoli della bocca e scivolare lungo il mento. Dapprima pianse sommessamente, senza emettere il benché minimo rumore, ma dopo un paio di minuti, cominciò a tremare e a sussultare e fu costretta a rompere il silenzio. Dal fondo della gola le salì un suono soffocato che si trasformò rapidamente in un grido acuto di disperazione. Poi scoppiò. Proruppe in un gemito raccapricciante e si strinse con le braccia. Si abbandonò ai singhiozzi, cercando invano di riprendere fiato. Prese un Kleenex dal pacchetto appoggiato sulla scrivania, si soffiò il naso, cercò di riprendersi ma rabbrividì e ricominciò a singhiozzare.

Non stava piangendo perché Frye le aveva fatto male. Non le aveva procurato alcun danno serio e tanto meno irreparabile: almeno non fisicamente. Stava piangendo perché quell’uomo l’aveva violata, anche se le risultava diffìcile usare quel termine. Ribolliva di rabbia e di vergogna. Anche se non l’aveva stuprata, anche se non era riuscito a strapparle i vestiti, aveva comunque distrutto la sua sfera di cristallo, la sua privacy, una barriera che si era costruita con la massima attenzione e che rivestiva un’enorme importanza per lei. Si era introdotto nel suo mondo ben ordinato e aveva toccato dappertutto con le sue manacce sporche.

Quella stessa sera, al miglior tavolo della Polo Lounge, Wally Topelis aveva cercato di convincerla che avrebbe potuto abbassare la guardia almeno di qualche millimetro. Per la prima volta in ventinove anni, aveva seriamente preso in considerazione la possibilità di vivere allentando le difese con le quali era praticamente cresciuta. Grazie alle buone notizie e all’interessamento di Wally, era rimasta affascinata dall’idea di poter vivere la sua vita senza quella paura che l’attanagliava da sempre. Una vita con molti amici. Molto relax. Molto divertimento. Quella nuova vita pareva un bel sogno, difficile da raggiungere ma per cui valeva la pena di lottare. Ma Bruno Frye aveva afferrato quel fragile sogno per la gola e l’aveva soffocato. Le aveva ricordato che il mondo era un posto pericoloso, una cantina buia con creature spettrali nascoste negli angoli. Proprio mentre cercava di uscire dall’inferno, prima che avesse la possibilità di apprezzare il mondo, quell’uomo le aveva sferrato un calcio a tradimento e l’aveva fatta ricadere in quella voragine, in mezzo al dubbio, alla paura e alla diffidenza, sprofondata nella terribile quiete della solitudine.

Piangeva perché si sentiva violata. E perché era stata umiliata. E perché lui le aveva rubato la speranza e l’aveva calpestata come il più prepotente della scuola avrebbe fatto con il giocattolo preferito del bambino più indifeso.

2

Impressioni.

Anthony Clemenza ne era affascinato.

Al tramonto, prima ancora che Hilary Thomas rientrasse a casa, mentre stava guidando in mezzo alle colline nel tentativo di rilassarsi, Anthony Clemenza e il suo collega, il tenente Frank Howard, stavano interrogando il proprietario di un bar di Santa Monica. Oltre l’enorme vetrata della sala posta a occidente, il sole che stava calando creava continui giochi di luce color porpora, arancio e argento sul mare sempre più scuro.

Era un bar per single chiamato Paradise, punto d’incontro per i solitari cronici e i vogliosi inguaribili di entrambi i sessi, che un tempo si trovavano alle feste parrocchiali, dai vicini, ai picnic o in club privati ormai rasi al suolo da bulldozer reali o psicologici per lasciare posto a enormi grattacieli, condomini di cristallo e cemento, pizzerie e parcheggi a cinque piani. Il Paradise era il classico locale in cui il ragazzo dell’era spaziale incontrava la sua extraterrestre, lo stallone macho faceva conoscenza con la piccola ninfomane, la timida segretaria di Chatsworth arrossiva davanti allo scialbo programmatore di computer di Burbank e in cui, a volte, il violentatore trovava la sua vittima.

Agli occhi di Anthony Clemenza, era sufficiente osservare i clienti del Paradise per farsene un’idea. Le donne più belle e gli uomini più affascinanti sedevano impettiti sugli sgabelli del bar o a microscopici tavolini, con le gambe accavallate in modo perfettamente geometrico, i gomiti appena piegati, in posa per mostrare i tratti regolari del viso e il corpo muscoloso; davano l’impressione di eleganti strutture angolari mentre si studiavano e si corteggiavano l’un l’altro. Le persone meno attraenti della crème de la crème, ma comunque innegabilmente piacenti, avevano la tendenza a sedersi in posizione meno regale, cercando di mascherare con un’aria rilassata la mancanza di forma fìsica. Il loro atteggiamento parlava chiaro: Qui sono perfettamente a mio agio, mi sento tranquillo, non mi faccio impressionare da quelle stupende ragazze impettite o da quei ragazzotti muscolosi, ho fiducia in me stesso e nella mia persona. Gli appartenenti a quel gruppo si muovevano, cercando di apparire aggraziati e disinvolti, usando le morbide rotondità del corpo per nascondere eventuali imperfezioni fisiche. Nel bar c’era poi un terzo gruppo, il più numeroso, composto da persone assolutamente normali, né belle né brutte, che si accalcavano con aria ansiosa negli angoli o sfrecciavano da un tavolo all’altro scambiandosi sorrisi a trentadue denti o battutine nervose, preoccupate solo di trovare qualcuno che le accettasse per quello che erano.

Che tristezza si respira qui dentro, pensò Tony Clemenza. Oscure zone di desideri non appagati. Una scacchiera di solitudini. Una quieta disperazione in un turbinio di colori.

Ma lui e Frank Howard non erano certo andati lì per studiare le impressioni legate al tramonto e ai frequentatori del bar. Erano alla ricerca di una traccia che li portasse a Bobby «Angel» Valdez.

In aprile, Bobby Valdez era uscito di prigione dopo aver scontato sette anni e pochi mesi di una condanna a quindici anni per violenza e omicidio. La sua liberazione si era rivelata un grave errore.

Otto anni prima Bobby aveva violentato tre donne a Los Angeles, ma probabilmente era responsabile di sedici casi di stupro. La polizia aveva raccolto le prove su tre casi, ma c’erano forti sospetti anche per quanto riguardava gli altri. Una notte, Bobby aveva avvicinato una donna in un posteggio, l’aveva obbligata a salire in macchina sotto la minaccia di una pistola, l’aveva condotta in una strada polverosa sulle colline di Hollywood, le aveva strappato i vestiti di dosso, l’aveva violentata ripetutamente, poi l’aveva spinta giù dalla macchina e si era allontanato. Ma aveva posteggiato sul ciglio della strada che si apriva direttamente su un precipizio. La donna, scaraventata nuda fuori della macchina, aveva perso l’equilibrio ed era caduta lungo la scarpata. Era finita su una palizzata semidistrutta. Una palizzata in legno completamente scheggiata, con del filo spinato arrugginito. Le spine del filo le avevano lacerato il corpo e uno spuntone di legno scolorito e frastagliato del diametro di dieci centimetri le aveva trafitto la pancia, impalandola. Mentre sottostava ai desideri di Bobby all’interno della macchina, era riuscita ad afferrare una minuscola ricevuta di un acquisto pagato con la carta di credito e, rendendosi conto della sua importanza, lo aveva tenuto stretto mentre precipitava verso la staccionata, incontro alla morte. Inoltre, la polizia aveva appreso che la vittima indossava solo un particolare tipo di mutandine, un regalo del suo ragazzo. All’interno di ogni paio, la ragazza aveva ricamato la scritta: PROPRIETÀ DI HARRY. Un paio di quelle mutandine sudicie e strappate erano state ritrovate nella collezione di biancheria rinvenuta nell’appartamento di Bobby. Quel particolare e il foglietto di carta che la vittima stringeva in mano avevano portato all’arresto di Valdez.

Sfortunatamente per gli abitanti della California, le circostanze sembrarono agire in favore di Bobby. Gli agenti avevano commesso un insignificante errore di procedura al momento dell’arresto, proprio il genere di cose che normalmente portano i giudici a pronunciare un’appassionata arringa sui diritti costituzionali. A quell’epoca il procuratore, un certo Kooperhausen, era occupato a difendersi dall’accusa di corruzione politica. Consapevole del fatto che un atteggiamento scorretto al momento dell’arresto avrebbe potuto mettere in pericolo l’intero sistema giudiziario, e preoccupato di salvarsi il culo evitando uno scandalo, il procuratore accettò la proposta dell’avvocato difensore e giudicò Bobby colpevole di tre casi di stupro e di un omicidio, lasciando cadere tutti gli altri capi d’accusa. Molti detective della squadra omicidi, fra cui Tony Clemenza, ritenevano che Kooperhausen avrebbe dovuto fare il possibile e condannarlo per omicidio di secondo grado, rapimento, violenza e sodomia. Le prove erano schiaccianti. Tutto sembrava essere contro Bobby, ma il destino l’aveva inaspettatamente aiutato.

Bobby era tornato un uomo libero.

Ma non per molto, pensò Tony.

In maggio, un mese dopo essere stato rilasciato, Bobby «Angel» Valdez non si era presentato all’incontro con l’agente di polizia. Aveva abbandonato il vecchio appartamento senza compilare i documenti necessari e senza presentarli alle autorità. Era svanito nel nulla.

In giugno, aveva ricominciato a violentare. Detto, fatto. Così come si riprende a fumare dopo essere riusciti a smettere per alcuni anni. Come rinasce l’interesse per un vecchio hobby. Aveva molestato due donne in giugno. Due in luglio. Tre in agosto. Altre due nei primi dieci giorni di settembre. Dopo ottantotto mesi passati dietro le sbarre, Bobby desiderava ardentemente la carne di una donna: era un bisogno insaziabile.

La polizia era convinta che quei nove crimini e forse anche molti altri mai denunciati fossero opera dello stesso individuo, ed erano altrettanto sicuri che il responsabile fosse Bobby Valdez. Innanzitutto, tutte le donne erano state avvicinate nello stesso modo. L’uomo faceva la sua comparsa mentre le vittime scendevano dalla macchina da sole, di notte, in un posteggio. Dopo aver puntato la pistola alla schiena oppure sulla pancia, lui esclamava: «Sono un simpaticone. Vieni a festeggiare con me e non ti farò del male, ma, se rifiuti, ti farò saltare le cervella. Se starai al gioco, non avrai nulla da temere. Sono un gran simpaticone.» Ripeteva praticamente la stessa cosa ogni volta e le vittime ricordavano bene quelle frasi un po’ strane, pronunciate con la voce acuta e quasi femminea di Bobby. Era lo stesso tipo di approccio che Bobby aveva usato più di otto anni prima, quando aveva iniziato la sua carriera di violentatore.

Inoltre, le nove vittime avevano fornito descrizioni incredibilmente simili dell’uomo che le aveva violentate. Snello. Meno di 1.75. Circa settanta chili. Carnagione scura. Fossetta sul mento. Occhi e capelli scuri. Vocetta stridula. Alcuni dei suoi amici lo chiamavano «Angel» a causa del tono di voce e del bel visino da bimbo. Bobby aveva trent’anni ma ne dimostrava sedici. Le nove vittime avevano visto in faccia il loro aggressore e avevano riferito che assomigliava a un bambino ma si comportava come un maniaco intelligente e crudele.

Il capo barman del Paradise ordinò ai suoi due aiutanti di continuare senza di lui ed esaminò le tre foto segnaletiche di Bobby Valdez che Frank Howard aveva appoggiato sul bancone. Si chiamava Otto. Era un bell’uomo, abbronzato e con la barba. Indossava un paio di pantaloni bianchi e una camicia azzurra con i primi tre bottoni slacciati. Il torace scuro era coperto di peli biondi. Attorno al collo portava una catena d’oro con un dente di pescecane. Alzò lo sguardo verso Frank e corrugò la fronte. «Non sapevo che la polizia di Los Angeles avesse giurisdizione a Santa Monica.»

«Abbiamo ottenuto l’autorizzazione dal dipartimento di polizia di Santa Monica,» spiegò Tony.

«Eh?»

«La polizia di Santa Monica sta collaborando con noi in questo caso,» proseguì Frank impaziente. «Allora, ha mai visto questo tipo?»

«Sì, certo. È stato qui un paio di volte,» rispose Otto.

«Quando?» chiese Frank.

«Oh… un mese fa. Forse di più.»

«Non si è visto negli ultimi tempi?»

L’orchestra ritornò dopo una pausa di venti minuti e iniziò a suonare una canzone di Billy Joel.

Otto alzò la voce per farsi sentire. «Non lo vedo da almeno un mese. Il motivo per cui me lo ricordo è che non pensavo avesse l’età per bere alcolici. Gli ho chiesto di mostrarmi un documento di identità e lui è andato su tutte le furie. Ha fatto una scenata.»

«Che genere di scenata?» domandò Frank.

«Ha chiesto di vedere il direttore.»

«È tutto?» incalzò Tony.

«Mi ha insultato pesantemente.» Otto aveva uno sguardo inferocito. «E nessuno può permettersi di insultarmi così.»

Tony si mise una mano attorno all’orecchio per riuscire a decifrare le parole del barista nonostante la musica. Gli piacevano molto le canzoni di Billy Joel, ma non quando venivano suonate da un’orchestrina convinta che l’entusiasmo e gli amplificatori potessero supplire a uno scarso talento musicale.

«Quindi l’ha insultata,» disse Frank. «E poi?»

«Poi si è scusato.»

«Tutto qui? Chiede di vedere il direttore, la insulta e subito dopo si scusa?»

«Sì.»

«Perché?»

«Gliel’ho detto io,» spiegò Otto.

Frank si allungò sul bancone mentre la musica si trasformava in un frastuono assordante. «Si è scusato semplicemente perché gliel’ha chiesto lei?»

«Be’… all’inizio voleva fare a botte.»

«E vi siete picchiati?» chiese Tony.

«No. Anche se arrivasse qui il peggiore figlio di puttana rompiballe di questo mondo, non mi abbasserei certo a toccarlo per dargli una regolata.»

«Deve avere un carisma molto speciale,» sbottò Frank.

Il gruppo concluse il coro e il frastuono raggiunse un livello di decibel da far scoppiare le orecchie. Il cantante si esibì in una pessima imitazione di Billy Joel in un brano che ricordava il fragore di un temporale.

Accanto a Tony era seduta una stupenda biondina con gli occhi verdi. Aveva ascoltato l’intera conversazione. A un certo punto disse: «Coraggio, Otto. Fagli vedere il tuo trucchetto.»

«È un mago?» chiese Tony a Otto. «Che cosa è in grado di fare? Forse fa scomparire i clienti troppo turbolenti?»

«Si limita a spaventarli,» proseguì la biondina. «È molto semplice. Coraggio, Otto. Fagli vedere.»

Otto si strinse nelle spalle, si chinò sotto il bancone e prese un boccale di birra. Lo alzò perché i presenti potessero osservarlo, come se non ne avessero mai visto uno prima di allora. Poi lo addentò. Afferrò con i denti il bordo e ne staccò un pezzo, si girò e sputò il frammento tagliènte nel cestino dell’immondizia.

L’orchestra esplose con l’ultimo coro della canzone e regalò al pubblico un attimo di silenzio misericordioso. Nell’improvvisa pace fra l’ultima nota e lo scroscio di applausi, Tony udì il boccale di birra che scricchiolava mentre Otto addentava un altro boccone.

«Cristo,» sbottò Frank.

La biondina si mise a ridacchiare.

Otto continuò a masticare il vetro e a sputarne i frammenti fino a quando il bicchiere fu ridotto al solo fondo, decisamente troppo duro per la dentatura e le mandibole di un uomo. Gettò quello che rimaneva del boccale nel cestino e sorrise. «Di solito mi metto a masticare il vetro proprio di fronte al tipo che sta causando qualche problema. Poi lo fìsso con aria minacciosa e gli suggerisco di darsi una calmata. E per finire, minaccio di staccargli quel fottutissimo naso con un morso.»

Frank Howard lo guardò, stupito. «E l’ha mai fatto?»

«Che cosa? Morsicare il naso di qualcuno? No. Ma basta minacciarli per farli rigare diritto.»

«Capitano molto spesso tipi del genere?» domandò Frank.

«No. Questo è un posto di classe. Può succedere una volta alla settimana, ma non di più.»

«Come ha fatto a imparare?» proseguì Tony.

«A masticare il vetro? C’è un trucchetto. Non è molto difficile.»

L’orchestra attaccò con Still the Same di Bob Seeger come se fosse stata una banda di giovani delinquenti che irrompono in una bella casa con l’intenzione di distruggere tutto.

«Non si è mai tagliato?» urlò Tony a Otto.

«Ogni tanto. Ma non capita spesso. E non mi sono mai tagliato la lingua. L’abilità sta proprio in questo,» spiegò Otto. «E io non me la sono mai tagliata.»

«Comunque si è ferito.»

«Certo. Qualche volta alle labbra. Ma raramente.»

«E comunque serve solo a rendere il trucco più efficace,» continuò la biondina. «Dovreste vederlo quando si taglia! Otto rimane in piedi davanti al tizio che sta facendo casino e finge di non accorgersi che si è tagliato. E lascia scorrere il sangue.» Gli occhi verdi della ragazza brillavano di gioia e Tony notò una scintilla di passione animale che lo fece sussultare sullo sgabello. «Rimane immobile con il sangue che gli cola sulla barba e nel frattempo ordina a quel tizio di piantarla di fare casino. Non avete idea della velocità con cui si calmano.»

«Ci credo,» mormorò Tony. Si sentiva rivoltare lo stomaco.

Frank Howard scosse la testa e disse: «Bene…»

«Già,» fece eco Tony, senza riuscire ad aggiungere altro.

Frank proseguì: «Okay… torniamo a Bobby Valdez» e indicò le foto segnaletiche appoggiate sul bancone.

«Oh. Be’, come vi ho già detto, è almeno un mese che non lo vedo.»

«Quella sera, dopo che si è arrabbiato con lei e dopo che gli ha dato una regolata con il trucchetto del boccale, è rimasto qui a bere qualcosa?»

«Gli ho servito un paio di drink.»

«Quindi le ha mostrato un documento d’identità?»

«Sì.»

«Che cos’era? La patente?»

«Esatto. Aveva trent’anni, santo cielo. Sembrava ancora un ragazzino delle medie, al massimo della prima superiore, invece aveva trent’anni.»

Frank chiese: «Si ricorda che nome era segnato sulla patente?»

Otto giocherellò con il dente di pescecane appeso al collo. «Il nome? Ma sapete già come si chiama.»

«Sto cercando di scoprire,» spiegò Frank, «se le ha mostrato una patente falsa.»

«Ma c’era la sua foto,» aggiunse Otto.

«Questo non significa che fosse autentica.»

«Ma non è possibile cambiare le foto sulle patenti della California. Ho sentito dire che il documento si autodistrugge o roba del genere se qualcuno cerca di falsificarlo.»

«Forse l’intero documento era contraffatto.»

«Credenziali contraffatte,» ripetè Otto, visibilmente interessato. «Credenziali contraffatte…» Chiaramente, aveva visto almeno duecento vecchi film di spionaggio alla televisione. «Ma di che cosa si tratta? È una specie di spia?»

«Qui c’è qualcosa che non va,» si lamentò Frank in tono impaziente.

«Eh?»

«Dovremmo essere noi a fare le domande,» precisò Frank. «Si limiti a rispondere. Ha capito?»

Il barista apparteneva al genere di persone che reagiscono d’istinto e negativamente a un poliziotto energico. Si scurì in volto e negli occhi apparve uno sguardo assente.

Rendendosi conto che stavano per perdere Otto quando probabilmente aveva ancora qualcosa di importante da dire, Tony appoggiò una mano sulla spalla di Frank e gliela strinse delicatamente. «Non vorrai che ricominci a mangiucchiarsi il bicchiere, vero?»

«A me piacerebbe vederlo di nuovo,» bofonchiò la biondina, ridacchiando.

«Preferisci fare a modo tuo?» chiese Frank a Tony.

«Certo.»

«Prego.»

Tony sorrise a Otto. «Senta, siamo tutti e tre molto curiosi. E non casca di certo il mondo se soddisfiamo la sua curiosità, a condizione che lei faccia lo stesso con noi.»

Otto sembrò risollevato. «E quello che dico anch’io.»

«Okay,» disse Tony.

«Okay. Che cos’ha fatto questo Bobby Valdez per dargli la caccia in questo modo?»

«Ha violato le norme della libertà vigilata,» spiegò Tony.

«E accusato di aggressione,» aggiunse Frank con riluttanza.

«E di violenza,» concluse Tony.

«Ehi,» sbottò Otto. «Voi due non avevate detto di essere della squadra Omicidi?»

L’orchestra terminò Still the Same con un frastuono simile al deragliamento di un treno merci. Poi ci furono pochi minuti di pace durante i quali il cantante conversò annoiato con i clienti avvolti in nuvole di fumo che, Tony ne era sicuro, provenivano in parte dalle sigarette e in parte dai timpani andati arrosto. I musicisti fingevano di accordare gli strumenti.

«Quando Bobby Valdez si imbatte in una donna poco disposta a collaborare,» spiegò Tony, «la colpisce con la pistola per renderla più partecipe. Cinque giorni fa, si è avvicinato alla vittima numero dieci ma la donna ha resistito. Bobby l’ha colpita sulla testa così forte e così tante volte che la poveretta è morta in ospedale dodici ore più tardi. Ed è per questo che se ne sta occupando la squadra Omicidi.»

«Quello che non capisco,» si intromise la biondina, «è perché un uomo debba prendersi una donna con la forza quando ce ne sono così tante in giro disposte a darla via.» Strizzò l’occhio a Tony che finse di non notarla.

«Prima di morire,» continuò Frank, «la donna ci ha fornito una descrizione che calza a pennello per Bobby. Quindi se sa qualcosa su quel piccolo verme bastardo è meglio che ce lo dica.»

Otto non aveva visto soltanto film di spionaggio. Si era sorbito anche la sua bella dose di telefilm polizieschi. Precisò: «Quindi lo cercate per un caso di omicidio.»

«Omicidio, esatto,» disse Tony.

«Come avete fatto ad arrivare a me?»

«Ha avvicinato sette di quelle dieci donne nei parcheggi di bar per single…»

«Comunque non nel nostro posteggio,» lo interruppe Otto cercando di difendersi. «È illuminato molto bene.»

«È vero,» ammise Tony. «Ma stiamo setacciando tutti i bar per single della città. Parliamo con i baristi e con i clienti abituali, mostriamo le foto segnaletiche e cerchiamo di scoprire qualcosa su Bobby Valdez. Un paio di persone in un bar di Century City pensavano di averlo visto qui, ma non ne erano sicuri.»

«In effetti è stato qui,» precisò Otto.

Ora che Otto aveva abbassato la cresta, Frank cominciò a rivolgergli qualche domanda. «Quindi ha fatto un po’ di casino, lei si è esibito nel suo trucchetto del boccale e alla fine lui le ha mostrato un documento di identità.»

«Esatto.»

«E che nome era segnato sul documento?»

Otto aggrottò le sopracciglia. «Non ne sono sicuro.»

«Era Robert Valdez?»

«Non mi sembra.»

«Cerchi di ricordare.»

«Era un nome messicano.»

«Valdez è un nome messicano.»

«Era ancora più messicano.»

«Che cosa vuole dire?»

«Be’… più lungo… con un paio di zeta.»

«Zeta?»

«E qualche q. Ha capito che tipo di nome intendo. Qualcosa come Velazquez.»

«Era Velazquez?»

«No, ma qualcosa del genere.»

«Iniziava con la v?»

«Non potrei giurarci. Sto solo parlando del suono che faceva.»

«E il nome?»

«Quello credo di ricordarlo.»

«Allora?»

«Juan.»

«J-U-A-N?»

«Già. Molto messicano.»

«Ha notato l’indirizzo sul documento?»

«Non mi interessava.»

«Le ha detto dove abitava?»

«Non eravamo quello che si dice due vecchi amici.»

«Ma non ha raccontato niente di sé?»

«Si è limitato a bere e se n’è andato.»

«E non è più tornato?»

«Esatto.»

«Ne è sicuro?»

«Non è più tornato, almeno durante il mio turno.»

«Ha un’ottima memoria.»

«Solo per quelli che creano problemi e per le ragazze carine.»

«Vorremmo mostrare queste foto segnaletiche ad alcuni dei suoi clienti,» propose Frank.

«Certo, fate pure.»

La biondina seduta di fianco a Tony Clemenza chiese: «Posso vederle da vicino? Forse ero qui quando è venuto. Magari gli ho anche parlato.»

Tony prese le fotografie e ruotò sullo sgabello.

Nello stesso momento la ragazza oscillò verso di lui sfiorandogli le ginocchia. Quando prese le fotografie, le dita indugiarono per un attimo sulla mano di Tony. Era una fervente sostenitrice dell’approccio visivo. Sembrava volesse scandagliargli il cervello e trafiggerlo con lo sguardo.

«Io sono Judy. Come ti chiami?»

«Tony Clemenza.»

«Lo sapevo che eri italiano. Si capisce al volo, con quegli occhi scuri e pieni di sentimento.»

«Mi tradiscono sempre.»

«E poi i capelli scuri così folti. E ricci.»

«E che cosa ne dice della macchia di pomodoro sulla camicia?»

Lei lanciò un’occhiata alla camicia.

«In realtà non c’è alcuna macchia,» le spiegò.

La ragazza aggrottò la fronte.

«Stavo scherzando. Uno scherzetto innocuo,» le spiegò.

«Oh.»

«Riconosce Bobby Valdez?»

La ragazza si decise a osservare la foto. «No. Probabilmente non c’ero la sera in cui capitò qui. Ma non è male, vero? È piuttosto carino.»

«Ha la faccia da bambino.»

«Sarebbe come andare a letto con il mio fratellino,» disse. «Proprio buffo.» Fece una smorfia.

Tony riprese le foto.

«Sei molto elegante con quel vestito,» commentò lei.

«Grazie.»

«Ha un bel taglio.»

«Grazie.»

Non era semplicemente una donna emancipata che esercitava il proprio potere di aggredire sessualmente. Gli piacevano quelle emancipate. Ma quella biondina era un’altra cosa. Aveva qualcosa di strano. Apparteneva a quel genere di donne che amano le fruste e le catene. O forse peggio. Lo faceva sentire come un bocconcino prelibato, una gustosa tartina, l’ultimo pezzettino di pane tostato coperto di caviale appoggiato su un vassoio d’argento.

«Non si vedono molti vestiti del genere in un posto come questo,» proseguì.

«Immagino.»

«Magliette, jeans, giubbotti di pelle e stile hollywoodiano: ecco che cosa impazza da queste parti.»

Tony si schiarì la voce. «Be’,» bofonchiò a disagio, «vorrei ringraziarla per l’aiuto che ci ha dato.»

La ragazza sussurrò: «Mi piacciono gli uomini che hanno gusto nel vestire.»

I loro sguardi si incrociarono e Tony notò un guizzo di ingordigia e di bramosia animalesca. Aveva l’impressione che, se l’avesse seguita nel suo appartamento, la porta si sarebbe chiusa dietro di loro come due enormi fauci. Gli sarebbe saltata addosso immediatamente e lo avrebbe manipolato e rigirato come un fantoccio; lo avrebbe distrutto succhiandogli tutta la linfa vitale e lo avrebbe usato fino a farlo a pezzi, fino a quando avesse cessato di esistere se non come parte di lei.

«Devo tornare al lavoro,» disse, scendendo dallo sgabello. «Ci vediamo.»

«Lo spero proprio.»

Per circa un quarto d’ora, Tony e Frank mostrarono le fotografìe di Bobby Valdez ai clienti del Paradise. Mentre si spostavano da un tavolo all’altro, l’orchestra riprese a suonare brani dei Rolling Stones, di Elton John e dei Bee Gees a un volume tale che a Tony iniziarono a vibrare persino i denti. Si rivelò solo una perdita di tempo. Nessuno al Paradise ricordava l’assassino con il viso infantile.

Prima di uscire, Tony si fermò davanti al lungo bancone dove Otto stava preparando alcuni Margaritas. «Mi spieghi una cosa,» urlò cercando di farsi sentire.

«Dica pure,» strillò Otto.

«Ma la gente non viene in questi posti per incontrare i suoi simili?»

«Stabilire un contatto. Vengono per questo.»

«E allora perché diamine ci sono orchestre come questa nei bar per single?»

«Che cosa c’è che non va in questo gruppo?»

«Molte cose. Ma fondamentalmente la musica troppo alta.»

«E allora?»

«E allora come si fa a intavolare una conversazione interessante?»

«Una conversazione interessante?» si stupì Otto. «Ehi, amico. Non vengono qui per chiacchierare, vengono qui per incontrarsi, per vedere se l’altro fa al caso loro e per decidere con chi andare a letto.»

«E niente conversazione?»

«Ma li guardi. Si dia un’occhiata intorno. Di che cosa potrebbero parlare? Se la musica non è abbastanza alta o se si interrompe per un attimo, iniziano a diventare nervosi.»

«Perché dovrebbero sforzarsi di riempire quegli attimi di silenzio.»

«Esattamente. E se ne andrebbero da un’altra parte.»

«Dove la musica è assordante e dove possono comunicare con il linguaggio del corpo.»

Otto si strinse nelle spalle. «È una caratteristica della nostra epoca.»

«Forse avrei dovuto vivere in un’altra epoca,» commentò Tony.

La notte sembrava mite ma sapeva che sarebbe diventata più fredda. Dal mare proveniva una sottile foschia, una specie di soffio umido e appiccicoso che permeava l’aria e si concentrava in tanti aloni attorno alle luci.

Frank lo aspettava al volante della macchina della polizia. Tony si sedette al suo fianco e si allacciò la cintura di sicurezza.

Avevano un’altra pista da controllare prima di smontare per quel giorno. Un paio di persone al bar di Century City avevano affermato di aver visto Bobby Valdez in un locale chiamato The Big Quake sul Sunset Boulevard, a Hollywood.

Il traffico era piuttosto denso in direzione del centro. A volte Frank diventava impaziente e saltava da una corsia all’altra, aprendosi un varco in mezzo al traffico grazie al clacson e all’uso sapiente dei freni, nel tentativo di superare una macchina dopo l’altra, ma non quella sera. Quella sera aveva deciso di seguire il flusso.

Tony si chiese se Frank Howard non avesse per caso discusso di filosofia con Otto.

Dopo un po’, Frank ruppe il silenzio. «Avresti potuto fartela.»

«Chi?»

«Quella bionda. Quella Judy.»

«Ero in servizio, Frank.»

«Avresti potuto organizzare qualcosa per dopo. Ti moriva dietro.»

«Non è il mio tipo.»

«Era stupenda.»

«Era un’assassina.»

«Che cosa?»

«Mi avrebbe mangiato vivo.»

Frank riflette per un paio di secondi, poi proseguì: «Stronzate. Io ci farei un giretto se ne avessi la possibilità.»

«Sai dove trovarla.»

«Magari più tardi torno da quelle parti.»

«Accomodati pure,» disse Tony. «E quando avrà finito con te, dovrò venire a trovarti in ospedale.»

«Diamine, ma si può sapere che cos’hai? Non era così terribile. È facile trattare con gente del genere.»

«Forse è proprio per questo che non mi interessa.»

«Comunque mandala da me.»

Tony Clemenza era stanco. Si passò una mano sul volto, come se la stanchezza fosse una maschera che poteva togliersi. «Era troppo facile, troppo disponibile.»

«Da quando sei diventato un puritano?»

«Non è questo,» rispose Tony. «Oh… sì… è vero, forse lo sono. Solo un po’. Forse da qualche parte nascondo una traccia di puritanesimo. Santo cielo, ho avuto parecchie di quelle che vengono definite ‘relazioni importanti’. Non sono certo casto e puro. Ma non mi ci vedo in un posto come il Paradise, a cercare di accalappiare tutte le donne nel tentativo di soddisfare il mio desiderio di carne fresca. Innanzitutto, non potrei rimanere serio intavolando quel genere di conversazione che si usa per riempire i momenti di silenzio fra una canzone e l’altra. Ma mi ci vedi? ‘Salve, mi chiamo Tony. Tu come ti chiami? Di che segno sei? Ti interessi di numerologia? Ti interessi di filosofia orientale? Credi nell’incredibile totalità dell’energia cosmica? Credi nel destino come mezzo necessario per la presa di coscienza cosmica che racchiude il tutto? Credi sia il destino che ci ha fatto incontrare? Credi sia possibile sbarazzarsi di tutto il karma negativo che abbiamo generato individualmente per creare un’energia positiva insieme? Ti va di scopare?’»

«A parte quando parli di scopare,» commentò Frank, «non ho capito assolutamente niente.»

«Nemmeno io. È proprio questo che voglio dire. In un posto come il Paradise la conversazione è fasulla, giusto quattro stupidate spacciate per questioni serie per far scivolare qualcuno nel proprio letto senza tanti problemi. Al Paradise nessuno chiede a una donna qualcosa di veramente importante. Non le chiedi quali sono i suoi sentimenti, le sue emozioni, il suo talento, le sue paure, le sue speranze, i suoi bisogni, le sue necessità e i suoi sogni. Così finisce che ti ritrovi a letto con una sconosciuta. Oppure, ed è anche peggio, ti ritrovi a fare l’amore con una bomba del sesso, con una fotografia ritagliata da una rivista per soli uomini, un’immagine invece di una donna reale, un pezzo di carne invece di una persona, e questo significa che non stai facendo l’amore. Quell’atto serve solo a soddisfare un bisogno fisico, esattamente come quando ti gratti la schiena o vai di corpo senza fatica. Se un uomo riduce il sesso a questo, allora tanto vale che se ne stia a casa e usi la mano.»

Frank frenò davanti a un semaforo rosso ed esclamò: «Ma con la mano non puoi farti un pompino!»

«Cristo, Frank, a volte sei davvero volgare.»

«Sono solo pratico.»

«Quello che sto cercando di dire è che, almeno per me, non vale la pena ballare se non conosci il tuo partner. Non sono il tipo che va in discoteca e si mette a ballare per conto suo. Devo sapere come si muove la mia compagna, e perché, quello che pensa e quello che prova. Il sesso è dannatamente migliore se quella persona rappresenta qualcosa per te, se è un individuo, una persona autentica e non solo un bel corpicino con le curve al punto giusto. Deve avere una personalità propria, un carattere formato dall’esperienza.»

«Non credo alle mie orecchie,» sbottò Frank mentre ripartiva con il semaforo verde. «E la solita, vecchia lagna sul sesso: se in qualche modo non è implicato l’amore, allora è banale e insoddisfacente.»

«Non sto parlando dell’amore eterno,» proseguì Tony. «Non sto parlando delle promesse di fedeltà assoluta da rispettare fino alla morte. Puoi amare qualcuno per un breve periodo, in molti modi diversi. E puoi continuare ad amare una donna anche quando termina la relazione dal punto di vista fisico. Sono rimasto amico di donne con cui ho fatto l’amore perché non ci siamo mai considerati come un trofeo da aggiungere alla lista; avevamo qualcosa in comune e questo anche dopo aver smesso di andare a letto insieme. Insomma, prima di iniziare una scopatina o prima di mettermi con le chiappe al vento, voglio essere sicuro di potermi fidare di quella donna; voglio che sia speciale, almeno per me, voglio che valga la pena aprirmi nei suoi confronti ed essere parte di lei, anche se per poco tempo.»

«Stronzate,» ribattè Frank con aria di disprezzo.

«Io la penso così.»

«Lascia che ti dica una cosa.»

«Fai pure.»

«Il miglior consiglio che tu abbia mai ricevuto.»

«Ti sto ascoltando.»

«Se credi davvero che esista qualcosa chiamato amore, se in tutta onestà sei convinto che esista un sentimento forte come l’odio e la paura, allora devi essere pronto a soffrire, a soffrire le pene dell’inferno. È una menzogna, un’enorme menzogna. L’amore è qualcosa che hanno inventato gli scrittori per vendere i libri.»

«Non stai parlando sul serio.»

«Invece sì, cazzo.» Frank distolse per un attimo lo sguardo dalla strada e fissò Tony con aria di compatimento. «Quanti anni hai? Trentatré?»

«Quasi trentacinque,» rispose Tony mentre Frank tornava a fissare la strada e sorpassava un camion incredibilmente lento, carico di rottami.

«Be’, io ne ho dieci di più,» proseguì Frank. «Quindi ascolta un vecchio saggio. Prima o poi verrà il giorno in cui crederai di esserti innamorato sul serio di una graziosa signorina, ma quando ti piegherai per baciare i suoi bei piedini, lei ti ricompenserà sferrandoti un calcio sui denti. Puoi essere certo che ti spezzerà il cuore se le farai capire di averne uno. Affetto? Certo. Quello va bene. E lussuria. Lussuria è la parola giusta, amico. Tutto ruota attorno alla lussuria. Ma non parlare di amore. Devi dimenticare tutte queste stronzate sull’amore. Cerca di divertirti. Arraffa tutto quello che puoi intanto che sei giovane. Scopa e fuggi. In questo modo non rimarrai mai ferito. Se continui a fantasticare sull’amore, riuscirai solo a farti prendere per il culo, una volta, due volte, mille volte, fino a quando ti metteranno sotto terra.»

«Secondo me sei troppo cinico.»

Frank si strinse nelle spalle.

Sei mesi prima, il suo matrimonio si era concluso con un divorzio. Quell’esperienza l’aveva reso particolarmente acido.

«E non credo che tu sia davvero così cinico,» proseguì Tony. «Secondo me non sei davvero convinto di quello che dici.»

Frank non rispose.

«Sei molto sensibile,» aggiunse Tony.

Frank si limitò a scrollare le spalle.

Per un paio di minuti Tony cercò di proseguire nella conversazione, ma Frank aveva già espresso il proprio parere sull’argomento. Si trincerò nel suo classico silenzio da mummia. Era comunque sorprendente che Frank avesse parlato tanto, dal momento che non era un gran chiacchierone. Tony si rese conto addirittura che la breve discussione appena conclusa era stata la più lunga che avessero mai avuto.

Tony lavorava con Frank Howard da più di tre mesi. Ma non era ancora sicuro che l’accoppiamento potesse funzionare.

Erano incredibilmente diversi e sotto qualsiasi punto di vista. Tony era un gran parlatore. Frank di solito si limitava a grugnire in segno di risposta. Tony aveva una vasta gamma di interessi oltre al lavoro: film, libri, cibo, teatro, musica, arte, sci, corsa. Per quanto ne sapeva, a Frank non interessava praticamente nulla al di fuori del suo lavoro. Tony era convinto che un investigatore disponesse di molti sistemi per ottenere informazioni da un testimone, inclusi la gentilezza, l’astuzia, la comprensione, l’empatia, l’attenzione, il fascino, l’insistenza, l’intelligenza, oltre, naturalmente, all’intimidazione e, in qualche raro caso, anche la forza. Frank, al contrario, sosteneva che erano sufficienti l’insistenza, l’intelligenza, l’intimidazione e un pizzico di violenza in più rispetto ai canoni previsti dal dipartimento; secondo lui gli altri metodi elencati da Tony erano assolutamente inutili. Per questa ragione, Tony doveva frenarlo dolcemente, ma con aria decisa, almeno due volte la settimana. Frank era solito perdere la pazienza e dare in escandescenze quando troppe cose andavano storte nel corso della stessa giornata. Tony, da parte sua, era quasi sempre calmo. Frank era alto un metro e settantasette e di corporatura robusta. Tony era alto un metro e ottantatré, magro, slanciato e dall’aria muscolosa. Frank era biondo e aveva gli occhi azzurri. Tony era scuro. Frank era decisamente pessimista. Tony era un ottimista. Sembravano due tipi diametralmente opposti e a volte pareva impossibile che potessero lavorare insieme.

Eppure erano molto simili sotto certi aspetti. Innanzitutto, nessuno dei due staccava al termine delle otto ore. Molto spesso, facevano due ore di straordinario, a volte tre, senza essere pagati e nessuno dei due si era mai lamentato. Quando stavano per giungere alla conclusione di un caso, quando le tracce e le prove si facevano sempre più decisive, erano disposti a lavorare anche durante il proprio giorno libero, se era necessario. Nessuno chiedeva loro di sgobbare tanto. Nessuno glielo ordinava. Si trattava di una libera scelta.

Tony desiderava impegnarsi più del dovuto per il dipartimento perché era ambizioso. Non aveva alcuna intenzione di rimanere un agente investigativo per il resto della vita. Voleva diventare perlomeno capitano e magari anche qualcosa di più: forse sarebbe arrivato molto in alto, nell’ufficio del capo, e lo stipendio e la pensione sarebbero stati decisamente migliori di ciò a cui avrebbe potuto aspirare se fosse rimasto un semplice investigatore. Era cresciuto in una famiglia numerosa di origine italiana, nella quale l’arte del risparmio rappresentava una seconda religione, importante quanto il cattolicesimo. Suo padre, Carlo, era un immigrato e faceva il sarto. Il pover’uomo aveva sempre sgobbato duramente per riuscire a vestire e sfamare i figli e per garantire loro un tetto, ma spesso si era trovato sull’orlo del fallimento. La famiglia Clemenza era stata colpita da numerose malattie e i conti dell’ospedale e delle farmacie avevano prosciugato gran parte del denaro faticosamente accantonato. Quando Tony era ancora bambino, prima ancora che riuscisse a capire i problemi legati al denaro e al magro bilancio familiare, prima ancora che iniziasse a conoscere lo spettro della miseria con la quale suo padre viveva praticamente da sempre, aveva sentito ripetere centinaia, forse migliaia di brevi ma incisive lezioni sulla responsabilità economica. Carlo lo istruiva quasi quotidianamente sull’importanza del lavoro, sull’accortezza finanziaria, sull’ambizione e sulla sicurezza del posto di lavoro. Suo padre avrebbe dovuto lavorare per la cia nel dipartimento che si occupava del lavaggio del cervello. Tony era stato indottrinato completamente e aveva assorbito così bene le paure e i principi del padre, che persino all’età di trentacinque anni, con un eccellente conto in banca e un lavoro fìsso, si sentiva a disagio se si assentava dal lavoro per più di due o tre giorni. Molto spesso, quando decideva di prendersi una lunga vacanza, il periodo di riposo si trasformava in un’enorme sofferenza. Ogni settimana faceva molte ore di straordinario perché era il figlio di Carlo Clemenza e il figlio di Carlo Clemenza non avrebbe potuto comportarsi diversamente.

Frank Howard aveva altre ragioni che lo spingevano a offrirsi con tale dedizione al dipartimento. Non sembrava particolarmente ambizioso e nemmeno troppo preoccupato per questioni finanziarie. Per quanto ne sapeva Tony, Frank accettava di fare gli straordinari perché in realtà si sentiva vivo solo quando lavorava. L’unico ruolo che amava interpretare era quello di investigatore della Omicidi: solo in quella veste si sentiva realizzato.

Tony distolse lo sguardo dai fanalini rossi delle automobili che aveva davanti e studiò il viso del compagno. Frank non si accorse neppure di essere osservato. Era concentrato sulla guida e scrutava attentamente il flusso di traffico sul Wilshire Boulevard. La luce verdastra proveniente dalle spie del cruscotto illuminava i suoi lineamenti marcati. Non era bello nel senso classico del termine, ma aveva un suo fascino. Sopracciglia folte. Profondi occhi azzurri. Il naso un po’ troppo importante e affilato. La bocca ben disegnata assumeva spesso un’espressione corrucciata che metteva in evidenza la mascella robusta. Il viso era indubbiamente dotato di un certo fascino e lasciava trasparire tracce di una sincerità ostinata. Non era difficile immaginare Frank che tornava a casa, si sedeva e, immancabilmente ogni notte, cadeva in uno stato di trance che durava fino alle otto del mattino successivo.

Oltre alla disponibilità a lavorare più del necessario, Tony e Frank avevano altri punti in comune. Anche se la maggior parte degli investigatori in borghese avevano rifiutato le vecchie regole sull’abbigliamento e si presentavano in servizio indossando indifferentemente un paio di jeans o abiti sportivi, Tony e Frank erano convinti che fosse meglio portare la tradizionale cravatta. Si consideravano dei professionisti e svolgevano un lavoro che richiedeva una particolare abilità e un certo talento, un lavoro fondamentale e difficile come quello di un avvocato, un insegnante o un assistente sociale; anzi, forse era ancora più difficile e i jeans non contribuivano certo a creare un’immagine professionale. Nessuno dei due fumava. Nessuno dei due beveva quando era in servizio. E nessuno dei due aveva mai cercato di appioppare il proprio lavoro d’ufficio all’altro.

Forse un giorno le cose funzioneranno tra noi, pensò Tony. Forse con il tempo riuscirò a convincerlo a usare più tatto e meno forza con i testimoni. Forse riuscirò a risvegliare il suo interesse per i film e il cibo, se non proprio per i libri, l’arte e il teatro. Il motivo per cui ho tanti problemi ad adattarmi a lui è che forse sto puntando troppo in alto. Ma santo cielo, se soltanto parlasse un po’ di più, invece di starsene lì seduto come una mummia!

Per il resto della carriera come detective della Omicidi, Tony si sarebbe aspettato molto da chiunque avesse lavorato con lui perché per cinque anni, fino al mese di maggio, era stato affiancato da un compagno praticamente perfetto, Michael Savatino. Sia lui sia Michael provenivano da famiglie italiane e condividevano quindi gli stessi ricordi, gli stessi dolori e le stesse gioie. Inoltre, fattore ancora più importante, si avvalevano degli stessi metodi sul lavoro e amavano gli stessi passatempi. Michael era un divoratore di libri, un appassionato di cinema e un eccellente cuoco. Le loro giornate erano sempre state costellate da conversazioni estremamente interessanti.

Nel mese di febbraio, Michael e Paula, sua moglie, erano andati a Las Vegas per un fine settimana. Avevano assistito a due spettacoli. Avevano cenato due volte al Battista’s Hole in the Wall, il miglior ristorante della città. Avevano puntato su una decina di numeri senza vincere nulla. Avevano giocato a black jack e avevano perso sessanta dollari. Poi, un’ora prima della partenza, Paula aveva infilato un dollaro in una slot machine che le era parsa particolarmente invitante, aveva abbassato la leva e aveva vinto poco meno di duecentoventimila dollari.

Il lavoro di poliziotto non era mai stato la massima aspirazione di Michael. Ma, come Tony, era alla ricerca di un posto sicuro. Aveva frequentato l’accademia di polizia e da semplice poliziotto in uniforme era rapidamente diventato investigatore, ma sostanzialmente perché un lavoro del genere offriva una certa sicurezza economica. In marzo, comunque, Michael aveva presentato le dimissioni al dipartimento con sessanta giorni di preavviso e in maggio se n’era andato. Aveva sempre desiderato possedere un ristorante. Cinque settimane prima aveva aperto Savatino’s, un piccolo ma autentico ristorante italiano sul Santa Monica Boulevard, non lontano da Century City.

Un sogno che si era avverato.

Quante probabilità ho di realizzare i miei sogni come ha fatto lui? si chiese Tony mentre studiava la città avvolta dalle tenebre. Quante probabilità ho di andare a Las Vegas, di vincere duecentomila dollari, di lasciare la polizia e di tentare il colpo come artista?

Non era necessario esprimere quella domanda a voce alta. Non aveva bisogno del parere di Frank Howard. Conosceva già la risposta. Quante probabilità aveva? Ben poche. Aveva le stesse probabilità di scoprire che era il figlio disperso di uno sceicco arabo.

Se Michael Savatino aveva sempre sognato di aprire un ristorante, Tony Clemenza sperava un giorno di potersi guadagnare da vivere come artista. Aveva talento. Aveva realizzato opere raffinate con metodi diversi: a penna, ad acquerello e a olio. Non era soltanto dotato dal punto di vista tecnico, possedeva anche una capacità creativa assolutamente unica. Forse se fosse nato in una famiglia della media borghesia con discrete risorse economiche, avrebbe potuto frequentare un’ottima scuola, avrebbe ricevuto una buona educazione dai migliori professori, avrebbe affinato il talento ricevuto da Dio e sarebbe diventato un artista di successo. Invece si era costruito da solo, grazie a centinaia di libri d’arte e con ore e ore di diligenti esercizi di disegno e di sperimentazione con i diversi materiali. Inoltre soffriva di quella perniciosa mancanza di fiducia in se stessi che caratterizza gli autodidatti di qualsiasi settore. Anche se aveva partecipato a quattro concorsi, vincendo per ben due volte il primo premio nella sua categoria, non aveva mai pensato seriamente di lasciare il lavoro e di immergersi in una vita più creativa. Era solo una fantasia piacevole e ricorrente, un bel sogno a occhi aperti. Il figlio di Carlo Clemenza non avrebbe mai rinunciato allo stipendio di fine mese per le incertezze di un lavoro in proprio, a meno di vincere una montagna di soldi a Las Vegas.

Era invidioso del colpo di fortuna di Michael Savatino. Naturalmente, erano rimasti buoni amici ed era davvero felice per Michael. Contento. Sul serio. Ma anche invidioso. Dopotutto era un essere umano e ogni tanto nella sua mente si riaccendeva quell’interrogativo, simile a un’insegna al neon: Non poteva capitare a me?

Frank premette il pedale del freno e suonò il clacson alla Corvet che gli aveva tagliato la strada, strappando Tony dai suoi sogni. «Stronzo!»

«Calmati, Frank.»

«A volte vorrei essere ancora in divisa, per appioppare qualche bella multa.»

«È l’ultima cosa che desideri al mondo.»

«Gli farei un bel culo.»

«E magari salta fuori che è fuori di testa per la droga o che non ha tutte le rotelle a posto. Quando lavori in mezzo al traffico per molto tempo, hai la tendenza a dimenticare che il mondo è pieno di pazzi. Ti abitui alla routine e diventi meno attento. Magari lo fermi oppure ti avvicini con il blocchetto delle multe in mano e quello ti dà il benvenuto con una pistola. Magari ti fa saltare le cervella. No. Sono contento di non avere più a che fare con il traffico. Perlomeno, quando lavori alla squadra Omicidi, sai che genere di persone ti puoi trovare davanti. Sai bene che ci può essere qualcuno che ti aspetta con una pistola, un coltello o una spranga in mano. Quando lavori alla squadra Omicidi è molto meno probabile che ti facciano una bella sorpresina.»

Frank rifiutò di farsi trascinare in un’altra discussione. Continuò a tenere gli occhi fissi sulla strada, mugugnando e trincerandosi dietro il solito silenzio.

Tony sospirò e si mise a osservare il paesaggio circostante con l’occhio dell’artista, pronto a cogliere un dettaglio inaspettato o mai notato prima di allora.

Impressioni.

Ogni scena, ogni paesaggio, ogni strada, ogni edificio, ogni stanza all’interno di una casa, ogni persona, ogni cosa suggerivano una particolare impressione. Se si riusciva a cogliere l’impressione dettata da una scena era possibile spingersi oltre, fino alla struttura che stava alla base. Se si riusciva a fermare il meccanismo che dava forma all’armonia di fondo, era possibile comprendere il significato intrinseco delle cose e quindi dipingerle in modo adeguato. Se ci si limitava ad afferrare i pennelli e ad avvicinarsi alla tela senza aver compiuto una tale analisi, il risultato poteva essere un quadro accettabile, ma non certo un’opera d’arte.

Impressioni.

Mentre Frank Howard svoltava sul Wilshire, dirigendosi verso il bar di Hollywood chiamato The Big Quake, Tony si mise alla ricerca di nuove impressioni legate alla città e alla notte. Arrivando da Santa Monica, vide dapprima la lunga fila di casette affacciate sul mare e i contorni indefiniti delle palme alte e ben ordinate: suggerivano immagini di serenità, cortesia e discreta agiatezza. Entrando a Westwood, il paesaggio sembrava dominato da una forma rettilinea: ammassi di grattacieli e macchie oblunghe di luce provenienti dalle finestre che si aprivano sui lati più scuri degli edifici. Quelle forme precise e perfettamente rettangolari erano la rappresentazione visiva del pensiero moderno e del potere e suggerivano una ricchezza ancora maggiore di quella che traspariva dalle case sul lungomare di Santa Monica. Proseguirono verso Beverly Hills, un angolino isolato all’interno dell’enorme metropoli, un luogo in cui la polizia di Los Angeles poteva passare senza esercitare tuttavia alcuna autorità. A Beverly Hills tutto era morbido, lussureggiante e scintillante in un grazioso susseguirsi di ville enormi, parchi, giardini, negozi esclusivi e automobili costose concentrati in pochi isolati come non avveniva in alcun altro paese della terra. Dal Wilshire Boulevard al Santa Monica Boulevard fino a Doheny, si aveva l’impressione di vivere in un lusso sempre crescente.

Svoltarono a nord, verso Doheny, si arrampicarono sulle colline ripide e si ritrovarono sul Sunset Boulevard, verso il cuore di Hollywood. In un paio di isolati, quella strada sembrava concentrare tutto ciò che l’aveva resa celebre. Sulla destra c’era Scandia, uno dei ristoranti più eleganti della città e uno dei migliori dell’intero paese. Discoteche scintillanti. Un night club specializzato in giochi di prestigio. Un altro locale gestito da un ipnotizzatore. Luoghi di ritrovo. Club del rock and roll. Enormi cartelloni luminosi che pubblicizzavano i film in prima visione e gli attori più famosi del momento. Luci, luci e ancora luci. All’inizio, il boulevard sembrava confermare la tesi sostenuta dalle università e dal governo, secondo cui Los Angeles e i suoi sobborghi costituivano l’area metropolitana più ricca del paese e forse del mondo intero. Ma poco più avanti, proseguendo in direzione est, la patina dorata svaniva. Persino Los Angeles soffriva di senescenza. L’immagine si faceva marginalmente ma inconfondibilmente cancerosa. Nel corpo florido della città si sviluppavano qua e là escrescenze maligne. Bar da quattro soldi, un locale di striptease, una stazione di servizio ormai in rovina, istituti di bellezza dall’aria equivoca, un negozio con libri per adulti e alcuni edifici che avevano urgente bisogno di essere ristrutturati. La malattia non era allo stadio avanzato, come in molti altri quartieri, ma giorno dopo giorno rosicchiava parte del tessuto vitale. Frank e Tony non dovettero comunque giungere sino al focolaio dell’orribile tumore, dal momento che The Big Quake si trovava al limite della zona maligna. Il locale apparve improvvisamente sul lato destro della strada in un baluginare di luci rosse e azzurre.

All’interno ricordava molto il Paradise, anche se l’arredamento puntava decisamente più sulle luci colorate, sull’acciaio e sugli specchi rispetto al bar di Santa Monica. I clienti avevano un’aria più elegante, più au courant, e, in generale, si presentavano decisamente meglio della folla che gremiva il Paradise. Ma Tony ebbe la stessa impressione avvertita a Santa Monica. Immagini di desiderio, bramosia e solitudine. Immagini di disperazione.

Il barista non era in grado di aiutarli e l’unica cliente che fornì qualche informazione utile fu una brunetta alta con gli occhi viola. Era sicura che avrebbero trovato Bobby alla Janus, una discoteca di Westwood. L’aveva incrociato nelle ultime due sere.

Nel posteggio investito dai fasci di luce intermittente rossa e azzurra, Frank borbottò: «Da cosa nasce cosa.»

«Come al solito.»

«Si sta facendo tardi.»

«Già.»

«Vuoi andare subito al Janus o preferisci rimandare tutto a domani?»

«È meglio adesso,» rispose Tony.

«Bene.»

Fecero dietrofront e proseguirono lungo il Sunset, uscendo dalla zona che mostrava segni di tumore urbano, per immettersi sul luccicante Strip e poi di nuovo in mezzo alla ricchezza e ai giardini ben curati, oltre il Beverly Hills Hotel, oltre le ville e le interminabili file di palme gigantesche.

Come faceva spesso quando temeva che Tony intavolasse una conversazione, Frank sintonizzò la radio sulla frequenza della polizia e rimase in ascolto delle comunicazioni diramate alle autopattuglie che controllavano la zona di Westwood. Su quella banda di frequenza non c’era niente di interessante. Una lite in famiglia. Una zuffa all’angolo del Westwood Boulevard e Wilshire. Un individuo sospetto all’interno di una macchina posteggiata nella zona residenziale di Hilgarde aveva attirato l’attenzione ed era quindi meglio controllare.

Nella maggior parte degli altri sedici distretti di polizia della città, le notti non erano altrettanto tranquille, ma Westwood era una zona decisamente privilegiata. Nei distretti Settantasette, Newton e Sudovest, che includevano i quartieri della comunità di colore a sud dell’autostrada di Santa Monica, i poliziotti in servizio non avevano certo il tempo di annoiarsi: nelle loro zone la notte era sempre movimentata. Nella parte orientale della città, nei quartieri abitati da messicani e americani, le bande continuavano a scorrazzare terrorizzando la maggior parte dei cittadini fedeli alla legge. Nel corso della notte si verifìcavano sempre incidenti fra bande rivali nella zona orientale, scontri violenti fra punk e sparatorie fra i macho che ogni notte cercavano di dimostrare la propria virilità con quelle stupide, assurde e sanguinose cerimonie senza tempo che si ripetevano da generazioni, secondo un rituale ormai consolidato. Nella zona nordovest, sull’altro lato delle colline, i ragazzi provenienti dalle campagne bevevano decisamente troppo whisky, fumavano troppa marijuana e sniffavano troppa cocaina: era quindi logico che andassero a cozzare in macchina e in motocicletta, l’uno contro l’altro, a velocità inaudita e con sorprendente regolarità.

Mentre Frank passava davanti all’ingresso di Bel Air e si arrampicava sulla collina che conduceva al campus della UCLA, la scena di Westwood si animò improvvisamente. La radio segnalò la chiamata di una donna in difficoltà. Le informazioni erano sommarie. Apparentemente, si trattava di un tentativo di stupro e di aggressione a mano armata. Non si sapeva se l’assalitore era ancora nei paraggi. Erano stati sparati colpi di arma da fuoco, ma non era stato possibile accertare se la pistola apparteneva alla vittima o all’assalitore. Non si sapeva neppure se c’erano stati dei feriti.

«Forse dovremmo intervenire,» suggerì Tony.

«Quell’indirizzo è a un paio di isolati da qui,» proseguì Frank.

«Potremmo arrivarci nel giro di un minuto.»

«Probabilmente molto prima di una pattuglia.»

«Vuoi andarci?»

«Certo.»

«Li chiamerò per informarli.»

Tony sollevò il microfono mentre Frank svoltava rapidamente a sinistra al primo incrocio. Al secondo isolato svoltarono nuovamente a sinistra e Frank premette il piede sull’acceleratore, per quanto gli fu possibile, lungo una strada stretta e fiancheggiata dagli alberi.

Il cuore di Tony si mise a battere all’impazzata. Avvertiva l’eccitazione di un tempo e una paura gelida gli attanagliava lo stomaco.

Gli venne in mente Parker Hitchison, un collega particolarmente funereo, cupo e pessimista che aveva dovuto sopportare per un po’ durante il secondo anno passato alla polizia, molto tempo prima che diventasse investigatore. Ogni volta che rispondevano a una chiamata, ogni dannatissima volta, sia che si trattasse di un’emergenza con Codice Tre, o di un gatto spaventato finito in cima a un albero, Parker Hitchison sospirava con aria desolata e bofonchiava: «Questa volta è fatta.» Era fastidioso e decisamente di cattivo auspicio e ogni volta, durante ogni turno, giorno dopo giorno, con lo stesso pessimismo sincero e snervante, ripeteva: «Questa volta è fatta.» A Tony pareva di impazzire.

La voce funerea di Hitchison e quelle quattro parole gli risuonavano ancora nella mente in momenti come quello.

Questa volta è fatta.

Frank svoltò nuovamente, andando quasi a sbattere contro una BMW nera posteggiata troppo vicino all’incrocio. Le gomme fischiarono, la macchina slittò e Frank disse: «La casa dovrebbe essere da queste parti.»

Tony cercò di mettere a fuoco gli edifici immersi nell’oscurità, solo parzialmente illuminati dai lampioni. «Credo sia quella,» esclamò.

Era una grande casa in stile neoispanico, con un vasto giardino e leggermente rientrata rispetto alla strada. Tetto in tegole rosse. Stucco color panna. Finestre con le inferriate. Due grandi lampioni in ferro battuto ai lati della porta d’ingresso.

Frank posteggiò sul vialetto circolare.

Scesero dalla berlina.

Tony infilò una mano sotto la giacca ed estrasse dalla fondina la pistola di ordinanza.


Quando Hilary ebbe finito di piangere seduta alla scrivania dello studio, decise di andare al piano di sopra e di rendersi presentabile prima dell’arrivo della polizia. Aveva i capelli completamente scarmigliati, il vestito strappato e le mutandine a brandelli che le penzolavano fra le gambe in modo ridicolo. Non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato la polizia ad arrivare dal momento della diffusione del messaggio radio, ma sicuramente si sarebbero presentati di lì a poco. Era diventata un personaggio famoso dopo aver scritto due film di successo e aver ricevuto una nomination all’Oscar per Pete, l’ambiguo due anni prima. Aveva sempre cercato di difendere la sua privacy evitando la stampa per quanto possibile, ma sapeva che in un caso del genere avrebbe dovuto necessariamente rilasciare una dichiarazione e rispondere ad alcune domande su quanto era accaduto quella notte. Era il genere di pubblicità che non le piaceva. Era imbarazzante. Era sempre umiliante ammettere di essere la vittima di un caso del genere. Anche se in teoria avrebbe dovuto accattivarsi le simpatie e la comprensione della gente, in realtà avrebbe fatto la figura della sciocca, della fanciulla sola alla mercé del primo venuto.

Era riuscita a difendersi dall’attacco di Frye, ma gli amanti delle sensazioni forti non ci avrebbero nemmeno fatto caso. Le fredde immagini della televisione e le foto in bianco e nero dei giornali l’avrebbero dipinta come una donna debole. Lo spietato pubblico americano si sarebbe chiesto perché aveva fatto entrare Frye. Avrebbero insinuato che era stata violentata e che aveva finto di averlo cacciato per crearsi una copertura. Alcuni avrebbero affermato che era stata lei a invitarlo a entrare chiedendogli di essere violentata. E la maggior parte della comprensione le sarebbe pervenuta mescolata a una curiosità morbosa. Davanti ai giornalisti avrebbe potuto contare solo sul proprio aspetto. Non poteva permettere che la fotografassero nello stato pietoso nel quale l’aveva lasciata Bruno Frye.

Mentre si lavava il viso, si pettinava i capelli e si infilava un abito in seta stretto in vita da una cintura, non pensava che in quel modo avrebbe danneggiato la propria credibilità presso la polizia. Non si accorse che, rendendosi presentabile, avrebbe dato adito sicuramente a qualche sospetto e a qualche dubbio e forse sarebbe stata accusata di essere una bugiarda.

Sebbene fosse convinta di aver recuperato la padronanza di sé, Hilary ricominciò a tremare mentre finiva di vestirsi. Le gambe sembravano di gelatina e fu costretta ad appoggiarsi contro l’armadio per un paio di minuti.

La mente brulicava di immagini terrificanti, ricordi dolorosi che avrebbe voluto cancellare per sempre. Dapprima vide Frye che si avvicinava con il coltello, con un ghigno spettrale, poi quell’immagine sembrò mutare, fondendosi in un’altra figura, in un’altra identità: era diventato suo padre, Earl Thomas, ed era Earl che le andava incontro, ubriaco e arrabbiato come sempre, e la colpiva violentemente con quelle sue mani enormi. Scosse la testa e respirò profondamente, riuscendo, con un grande sforzo, a cancellare quella visione.

Ma non riusciva a smettere di tremare.

Le pareva di udire strani rumori in un’altra stanza della casa. Una parte di lei sapeva che erano solo frutto della sua immaginazione, ma l’altra parte era sicura che Frye stesse tornando da lei.

Quando si precipitò al telefono e compose il numero della polizia, non fu più in grado di fornire la dichiarazione calma e ragionata che si era imposta. Gli avvenimenti di quell’ultima ora avevano influito su di lei più profondamente di quanto avesse pensato in un primo momento e le ci sarebbero voluti giorni o forse settimane per riprendersi dallo choc.

Quando riappese il ricevitore si sentì decisamente meglio perché sapeva che stavano per correre in suo aiuto. Mentre scendeva le scale esclamò a voce alta: «Stai calma. Cerca di stare calma. Sei Hilary Thomas. Sei dura. Dura come l’acciaio. Non hai paura. Non hai mai paura. Andrà tutto bene.» Era la stessa litania che aveva ripetuto tante volte da bambina nell’appartamento di Chicago. Quando arrivò al pianterreno, sentì di aver riacquistato il dominio di se stessa.

Era in piedi nell’ingresso e stava osservando fuori della finestra, quando una macchina si fermò nel vialetto. Scesero due uomini. Anche se non erano arrivati con le sirene spiegate, capì che erano della polizia e aprì la porta per farli entrare.

Il primo che notò era di corporatura robusta, biondo, occhi azzurri e la classica voce dura e risoluta dei poliziotti. Aveva in mano una pistola. «Polizia. Lei chi è?»

«Thomas,» rispose. «Hilary Thomas. Sono io che vi ho chiamato.»

«Questa è casa sua?»

«Sì. C’era un uomo…»

Dall’oscurità apparve un secondo detective, più alto e più scuro del precedente, che la interruppe prima che potesse finire la frase. «È ancora nei dintorni?»

«Che cosa?»

«L’uomo che l’ha assalita è ancora qui?»

«Oh, no. E fuggito. Se n’è andato.»

«Da che parte?» chiese l’investigatore biondo.

«E uscito da questa porta.»

«Aveva una macchina?»

«Non lo so,»

«Era armato?»

«No. Voglio dire, sì.»

«Sarebbe a dire?»

«Aveva un coltello. Ma ora non più.»

«Da che parte è fuggito quando è uscito dalla casa?»

«Non lo so. Ero di sopra. Io…»

«Da quanto tempo se n’è andato?» domandò l’investigatore più alto.

«Circa quindici, forse venti minuti fa.»

I due si scambiarono un’occhiata che Hilary non riuscì a decifrare ma che le apparve immediatamente come poco promettente per lei.

«Perché ci ha messo così tanto a chiamarci?» chiese il biondo. Era leggermente ostile.

Hilary ebbe la sensazione di perdere parte del vantaggio di cui disponeva.

«All’inizio ero… confusa,» spiegò. «In preda a una crisi isterica. Ho avuto bisogno di qualche minuto per rimettere insieme le idee.»

«Venti minuti?»

«Forse solo quindici.»

Gli uomini riposero le rivoltelle.

«Abbiamo bisogno di una descrizione,» continuò il bruno.

«Posso fare anche di meglio,» proseguì la donna spostandosi di lato per farli entrare, «posso fornirvi un nome.»

«Un nome?»

«Il suo nome. Lo conosco,» disse. «L’uomo che mi ha assalita: io so chi è.»

I due uomini si guardarono con la stessa espressione di prima.

Hilary pensò: Che cosa ho fatto di male?


Hilary Thomas era una delle donne più belle che Tony avesse mai visto. Sembrava che nelle sue vene scorresse qualche goccia di sangue indiano. Aveva i capelli lunghi e folti, più scuri dei suoi, di un nero corvino. Anche gli occhi erano scuri, con le cornee candide come la neve. La pelle perfetta era colore del miele, probabilmente il risultato di un’attenta esposizione al sole californiano. Il viso, forse un po’ troppo lungo, era bilanciato dagli occhi enormi, dalla forma perfetta del naso aristocratico e dalla pienezza sensuale delle labbra. Era un viso erotico, ma allo stesso tempo intelligente e delicato: il viso di una donna dolce e comprensiva. In quegli occhi affascinanti si leggeva anche il dolore: era il dolore che derivava dall’esperienza. Tony era convinto che non si trattasse solo di un dolore momentaneo, dovuto a ciò che la donna aveva appena vissuto, ma che fosse legato a una sofferenza con radici ben più profonde.

Erano nello studio colmo di libri. Hilary e Tony sedevano alle due estremità del divano di velluto. Erano soli.

Frank era in cucina e stava parlando al telefono con un collega della centrale.

Al primo piano, due poliziotti in uniforme, Whitlock e Farmer, stavano estraendo i proiettili dal muro.

Non era stato chiamato l’esperto per rilevare le impronte digitali perché, secondo quanto affermato dalla donna, il suo assalitore indossava i guanti.

«Che sta facendo adesso?» domandò Hilary Thomas.

«Chi?»

«Il tenente Howard.»

«Sta parlando con la centrale in modo che qualcuno chiami l’ufficio dello sceriffo di Napa County, dove vive Frye.»

«Perché?»

«Be’, perché forse lo sceriffo può scoprire come ha fatto Frye ad arrivare a Los Angeles.»

«Che importanza ha sapere come c’è arrivato?» chiese Hilary. «La cosa importante è che si trova qui e che deve essere fermato e arrestato.»

«Se è arrivato in aereo,» spiegò Tony, «non ha alcuna importanza. Ma se Frye è venuto a Los Angeles in macchina, allora lo sceriffo di Napa County potrebbe scoprire che auto ha usato. Con una descrizione del veicolo e il numero di targa, abbiamo più probabilità di inchiodarlo prima che si allontani troppo.»

Hilary riflette qualche istante, poi domandò: «Perché il tenente Howard è andato in cucina? Perché non ha usato il telefono che c’è qui?»

«Immagino volesse lasciarla tranquilla per qualche minuto,» le spiegò in tono imbarazzato.

«Secondo me non voleva che ascoltassi quello che diceva.»

«Oh, no. Era solo…»

«Sa, ho proprio una strana sensazione,» lo interruppe Hilary. «Mi sembra di essere l’indiziata invece della vittima.»

«È solo tesa,» la rassicurò Tony. «È molto tesa ed è decisamente comprensibile.»

«Non è quello. È il modo in cui mi trattate. Be’… non tanto lei, quanto il suo collega.»

«A volte Frank può sembrare scostante,» spiegò Tony, «ma è un bravo investigatore.»

«Pensa che io stia mentendo.»

Tony rimase sorpreso di fronte alla sua perspicacia. Si agitò sul divano, visibilmente a disagio. «Sono sicuro che non pensa niente del genere.»

«Invece sì,» insistette Hilary. «E non capisco perché.» Aveva gli occhi fissi su Tony. «Mi ha preso di mira. Forza. Perché? Che cosa ho detto di sbagliato?»

Tony sospirò. «Lei è una donna perspicace.»

«Sono una scrittrice. Fa parte del mio lavoro osservare le cose in modo più attento rispetto alla maggior parte della gente. E sono anche testarda. Per cui, se vuole liberarsi di me, le conviene rispondere alla mia domanda.»

«Una delle cose che preoccupano il tenente Howard è il fatto che lei conosca l’uomo che l’ha aggredita.»

«E allora?»

«È piuttosto imbarazzante,» rispose l’uomo, a disagio.

«Me lo dica lo stesso.»

«Be’…» Si schiarì la voce. «Normalmente la polizia è convinta che se la vittima di uno stupro o di un tentativo di stupro conosce il suo assalitore, ci sono buone probabilità che la stessa vittima abbia contribuito al crimine, provocando l’accusato in un modo o nell’altro.»

«Stronzate!»

Hilary si alzò, si diresse verso la scrivania e rimase di spalle per un attimo. Tony si rese conto che stava lottando per mantenere la calma. Le sue parole l’avevano mandata su tutte le furie.

Quando si girò verso di lui, aveva il viso rosso per la collera. «È orribile. Disgustoso. Praticamente tutte le volte che una donna viene violentata da qualcuno che conosce, voi pensate che l’abbia voluto lei.»

«No. Non sempre.»

«Ma è ciò che pensate la maggior parte delle volte,» tuonò lei.

«No.»

Lo guardò. «Smettiamola di giocare con le parole. È ciò che pensate di me. Siete convinti che io l’abbia provocato.»

«No,» ribadì Tony. «Le ho semplicemente spiegato che cosa si pensa normalmente in un caso come questo. Non ho detto che credo ciecamente alle opinioni comuni della polizia. Io non ne sono convinto. Ma il tenente Howard sì. Mi ha chiesto di lui. Voleva sapere che cosa stesse pensando e io gliel’ho detto.»

Hilary aggrottò la fronte. «Allora… lei mi crede?»

«C’è qualche motivo per cui non dovrei?»

«E successo esattamente come le ho spiegato.»

«D’accordo.»

Lo fissò. «Perché?»

«Perché che cosa?»

«Perché lei mi crede e il suo collega no?»

«Riesco a immaginare solo due ragioni per cui una donna possa accusare ingiustamente un uomo di averla violentata. E nel suo caso nessuna delle due avrebbe senso.»

Hilary si appoggiò alla scrivania, piegò le braccia, sollevò la testa e lo guardò visibilmente interessata. «Quali sarebbero queste ragioni?»

«Numero uno, lui ha i soldi e lei no. Lei vuole incastrarlo, sperando di riuscire a spillargli un sacco di quattrini in cambio del ritiro della denuncia.»

«Ma io di soldi ne ho.»

«A quanto pare deve averne molti,» affermò lanciando uno sguardo pieno di ammirazione alla casa superbamente arredata.

«Qual è l’altra ragione?»

«Un uomo e una donna hanno una storia, ma lui la lascia per un’altra. Lei si sente ferita, rifiutata e offesa. Vuole fargliela pagare. Vuole punirlo e così lo accusa di stupro.»

«Come fa a essere sicuro che questo non sia anche il mio caso?» domandò Hilary.

«Ho visto entrambi i suoi film, per cui credo di sapere come ragiona. Lei è una donna molto intelligente, Miss Thomas. Non penso sia così stupida, meschina o vendicativa da mandare un uomo in galera solo perché ha ferito i suoi sentimenti.»

Hilary lo osservò attentamente.

Tony si sentì giudicare.

Convinta che non fosse lui il nemico, Hilary tornò verso il divano e si sedette con un fruscio di seta blu. Il vestito seguiva le forme del corpo e Tony cercò di non lasciar trapelare l’ammirazione per le stupende curve della donna.

«Mi spiace di essere stata sgarbata,» si scusò Hilary.

«Non si preoccupi,» la rassicurò lui. «Certi atteggiamenti danno fastidio anche a me.»

«Immagino che se dovessimo andare in tribunale, l’avvocato di Frye cercherebbe di far credere alla giuria che ho provocato quel figlio di puttana.»

«Può scommetterci.»

«Gli crederebbero?»

«Spesso lo fanno.»

«Ma non voleva solo violentarmi. Voleva anche uccidermi

«Dovrà provarlo.»

«C’è un coltello rotto di sopra…»

«Non può essere collegato a Frye,» le spiegò Tony. «Non ci sono le sue impronte. E si tratta di un normale coltello da cucina. Non possiamo risalire al negozio in cui è stato acquistato e ricollegare tutto a Bruno Frye.»

«Ma sembrava pazzo. È… squilibrato. La giuria probabilmente se ne renderà conto. Diamine, ve ne accorgerete quando lo arresterete. Forse non ci sarà neanche un processo. Si limiteranno a rinchiuderlo.»

«Se è un pazzo, forse sa anche come comportarsi per farsi giudicare normale,» proseguì Tony. «In fin dei conti, fino a questa sera, è sempre stato considerato come un cittadino responsabile e onesto. Quando ha visitato i suoi vigneti vicino a St. Helena, non si è accorta di avere a che fare con un pazzo, vero?»

«No.»

«Non se ne accorgerà neanche la giuria.»

Hilary chiuse gli occhi e si pizzicò il naso. «Allora probabilmente ne uscirà pulito.»

«Mi dispiace doverlo ammettere, ma ci sono buone probabilità che ciò avvenga.»

«E poi tornerà per vendicarsi.»

«Può darsi.»

«Cristo.»

«Voleva sapere come stavano realmente le cose.»

Hilary spalancò gli occhi. «Sì, è vero. E grazie per avermelo detto.» Riuscì persino a sorridere.

Tony ricambiò il sorriso. Avrebbe voluto prenderla fra le braccia, stringerla a sé, consolarla, baciarla, fare l’amore con lei. Ma non poté fare altro che rimanere seduto sul divano, come un bravo rappresentante della legge, con un sorrisetto di circostanza stampato in viso. «A volte il sistema è disgustoso.»

«Quali sono le altre ragioni?»

«Mi scusi?»

«Lei ha affermato che una delle ragioni per cui il tenente Howard non mi crede è perché conosco il mio assalitore. Quali sono gli altri motivi? Che cos’altro gli fa pensare che io stia mentendo?»

Tony stava per risponderle quando Frank Howard entrò nella stanza. «Okay,» esordì Frank in tono brusco. «Lo sceriffo di Napa County cercherà di controllare quando e come questo Frye ha lasciato la città. Abbiamo inoltre messo in circolazione un identikit, basato sulla sua descrizione, Miss Thomas. Sono appena andato in macchina a prendere il modulo per il rapporto.» Le porse il blocco sul quale era appoggiato il foglio e prese una penna dalla tasca interna del soprabito. «Voglio che ripeta ancora una volta a me e al tenente Clemenza ciò che è successo, in modo che io possa annotare ogni dettaglio, usando le sue stesse parole. Dopo di che la lasceremo in pace.»

Hilary li condusse nell’ingresso e cominciò a raccontare la storia dettagliatamente, iniziando con l’improvvisa comparsa di Bruno Frye dall’armadio. Tony e Frank la seguirono verso il divano rovesciato, poi di sopra, in camera da letto, continuando a rivolgerle domande. Durante i trenta minuti necessari per completare il rapporto, la voce di Hilary si fece a tratti flebile e insicura, mentre la donna riviveva quei terribili attimi: ancora una volta Tony provò il desiderio di stringerla fra le braccia per confortarla.

Appena ebbero finito di scrivere il rapporto, arrivarono alcuni giornalisti. Hilary scese per incontrarli.

Contemporaneamente, Frank ricevette una chiamata dalla centrale e rispose dal telefono della camera da letto.

Tony scese per aspettare Frank e per vedere come Hilary Thomas se la sarebbe cavata con i giornalisti.

Si comportò con estrema sicurezza. Affermò di essere molto stanca e di aver bisogno di restare sola. Non li lasciò nemmeno entrare in casa, ma uscì sul portico e i giornalisti si accalcarono davanti a lei. Era arrivata anche un’equipe televisiva, completa di minitelecamera e del classico attore reporter, uno di quegli uomini che ottengono un posto grazie soprattutto ai lineamenti delicati, agli occhi penetranti e alla voce profonda. L’intelligenza e l’abilità giornalistica avevano ben poco a che fare con il successo di un inviato del telegiornale. Anzi, molto spesso tali qualità finivano per risultare addirittura controproducenti. Per ottenere il successo, l’ambizioso reporter televisivo doveva pensare nello stesso modo in cui era strutturato il suo programma: in segmenti di tre, quattro, cinque minuti, senza mai soffermarsi a lungo su un dato argomento e senza mai approfondirlo troppo. Erano presenti anche un reporter e il suo fotografo, sebbene decisamente meno gentili ed eleganti del telecronista. Hilary Thomas si destreggiò facilmente fra le domande, rispondendo solo a quelle che le sembravano opportune ed evitando abilmente quelle che riteneva troppo personali o impertinenti.

Ciò che Tony trovava particolarmente interessante nell’atteggiamento di Hilary era il modo in cui riusciva a tenere i giornalisti fuori di casa e lontani dalla sua vita privata, senza tuttavia offenderli. Non era una cosa facile. Esistevano ottimi giornalisti in grado di scavare sino in fondo per scoprire la verità e scrivere storie avvincenti senza violare i diritti e la dignità della vittima, ma ne esistevano altri che erano esattamente il contrario: uomini sporchi e meschini. Con la nascita di quello che il Washington Post brillantemente definiva come un «giornalismo su misura», la spregevole tendenza a manipolare una storia per sostenere le personali convinzioni politiche e sociali del giornalista e dell’editore, alcuni rappresentanti della stampa, uomini sporchi e meschini, si erano lasciati andare a un’irresponsabilità senza precedenti. Chi criticava le maniere, i metodi o le chiare tendenze di un giornalista, chi osava offenderlo, rischiava di essere dipinto sul giornale come un pazzo, un bugiardo e un criminale; e il giornalista l’avrebbe fatto con un’incredibile noncuranza, poiché considerava se stesso come il paladino della verità e della giustizia in una lotta contro il demonio. Hilary si rendeva chiaramente conto del pericolo e si comportò in modo perfetto. Rispose a quasi tutte le domande, rabbonì i giornalisti, li trattò con rispetto, li colpì con il suo fascino e sorrise persino alla telecamera. Non disse che conosceva il suo assalitore. Non fece il nome di Bruno Frye. Non voleva che i mass media speculassero su un suo precedente legame con l’uomo che l’aveva aggredita.

La sua prontezza di spirito obbligò Tony a rivalutarla. Sapeva già che era una donna intelligente e di talento, ma si rese conto in quel momento che era anche astuta. Era la donna più affascinante che avesse mai incontrato.

Hilary aveva quasi finito con i reporter e si stava abilmente liberando di loro, quando Frank Howard scese le scale e si diresse verso l’entrata, fermandosi accanto a Tony che respirava la fresca brezza notturna. Frank osservò Hilary Thomas che rispondeva alle domande di un giornalista e aggrottò le sopracciglia. «Devo parlarle.»

«Che cosa voleva la centrale?» domandò Tony.

«È il motivo per cui devo parlarle,» rispose Frank in tono duro. Aveva deciso di tenere la bocca chiusa. Non aveva intenzione di rivelare le novità finché non ne fosse stato assolutamente sicuro. Era un’altra delle sue irritanti abitudini.

«Con loro ha quasi finito,» spiegò Tony.

«Ha finito di pavoneggiarsi e di vantarsi.»

«Neanche per idea.»

«Ma certo. Si sta divertendo un mondo.»

«Se l’è cavata molto bene,» commentò Tony, «ma non mi sembra si stia divertendo.»

«La gente del cinema,» continuò Frank sdegnato, «ha bisogno di attenzione e pubblicità come io e te abbiamo bisogno di mangiare.»

I giornalisti erano solo a due metri e mezzo da loro e Tony temeva che potessero sentire le parole di Frank, sebbene fossero impegnati nell’intervista a Hilary Thomas. «Parla piano,» lo rimproverò.

«Non mi interessa se vengono a sapere come la penso,» affermò Frank. «Potrei persino rilasciare una dichiarazione su quei fanatici che inventano storie per ottenere pubblicità sui giornali.»

«Stai forse dicendo che si è inventata tutto? Ma è ridicolo.»

«Vedrai,» rispose Frank.

Tony si sentì improvvisamente a disagio. Hilary Thomas aveva risvegliato il coraggioso cavaliere che era in lui: era suo dovere proteggerla. Non voleva vederla ferita, ma sembrava che Frank dovesse discutere con lei di cose poco piacevoli.

«Devo parlarle e subito,» sbottò Frank. «Con il cavolo che sto qui ad aspettare mentre quella fa una bella sviolinata alla stampa.»

Tony mise una mano sulla spalla del collega. «Aspetta qua. Vado a chiamarla.»

Frank era arrabbiato per quello che la centrale gli aveva comunicato e Tony sapeva che i giornalisti se ne sarebbero accorti e si sarebbero irritati. Se avessero pensato che c’erano stati degli sviluppi nell’indagine, soprattutto se la faccenda diventava piccante con un che di scandaloso, sarebbero rimasti fra i piedi fino all’alba perseguitando tutti quanti. E se Frank aveva davvero notizie poco piacevoli su Hilary Thomas, la stampa ne avrebbe tratto immediatamente titoli da prima pagina e avrebbe sbandierato la notizia con quell’irrispettosa allegria riservata a tutto ciò che è marcio. Più tardi, se l’informazione di Frank fosse risultata errata, la televisione non si sarebbe certo curata di correggere quanto precedentemente affermato e la ritrattazione sui giornali, se mai ce ne fosse stata una, avrebbe occupato poche righe in ventesima pagina. A Tony premeva che Hilary avesse l’opportunità di controbattere a ciò che Frank stava per dirle. Voleva concederle una possibilità di discolparsi prima che tutta la faccenda diventasse una carnevalata pubblicitaria di pessimo gusto.

Si diresse verso i giornalisti e disse loro: «Scusate, signore e signori, ma sono sicuro che Miss Thomas ha raccontato a voi più di quanto abbia riferito a noi. L’avete prosciugata. Il mio collega e io avremmo dovuto smontare un paio d’ore fa e siamo terribilmente stanchi. Abbiamo avuto una brutta giornata, trascorsa a malmenare innocenti sospettati di accettare bustarelle, perciò vi saremmo grati se ci lasciaste finire con Miss Thomas.»

I giornalisti risero divertiti e cominciarono a tempestarlo di domande. Tony rispose per alcuni minuti, senza aggiungere niente a quanto già affermato da Hilary. Dopo di che, spinse la donna in casa e chiuse la porta.

Frank era nell’ingresso. La sua collera non si era placata. Sembrava che, da un momento all’altro, dovesse uscirgli il vapore dalle orecchie. «Miss Thomas, devo rivolgerle qualche altra domanda.»

«Va bene.»

«Sono parecchie. Forse ci vorrà un po’ di tempo.»

«Be’, vogliamo accomodarci nello studio?»

Frank Howard fece strada.

Hilary domandò a Tony: «Che cos’è successo?»

Tony si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Vorrei tanto saperlo.»

Frank aveva raggiunto il centro del soggiorno. Si fermò e si girò a fissarla. «Miss Thomas?»

Hilary e Tony lo seguirono nello studio.


Hilary si sedette sul divano di velluto, accavallò le gambe e si lisciò l’abito di seta. Era nervosa e non riusciva a capire perché fosse tanto antipatica al tenente Howard. Si comportava in modo freddo e distaccato. Era pieno di una collera gelida e aveva lo sguardo duro come l’acciaio. Ripensò agli strani occhi di Bruno Frye e non poté fare a meno di rabbrividire. Il tenente Howard la guardò con aria minacciosa. Le sembrava di essere l’indiziata principale in un processo della Santa Inquisizione. Non si sarebbe sorpresa se Howard l’avesse additata accusandola di stregoneria.

Il tenente Clemenza, decisamente più simpatico, era seduto nella poltrona marrone. Era investito dalla calda luce ambrata proveniente dalla lampada schermata che gettava un’ombra soffusa ai lati della bocca e sul naso e rendeva particolarmente profondi gli occhi. Nel complesso, la luce gli conferiva un aspetto decisamente più gentile e delicato di quanto non fosse in realtà. Avrebbe tanto desiderato che fosse lui a rivolgerle le domande, ma sembrava che per il momento il suo ruolo fosse semplicemente quello dell’osservatore.

Il tenente Howard era rimasto in piedi e la fissava dall’alto senza nascondere il proprio disprezzo. Si rese conto che voleva farle abbassare gli occhi in segno di vergogna e di colpevolezza, come avrebbe fatto un genitore con un bambino capriccioso. Hilary sostenne il suo sguardo senza farsi intimorire fino a quando l’uomo cominciò a camminare nervosamente.

«Miss Thomas,» iniziò Howard. «Nella sua storia ci sono parecchi punti che non mi convincono.»

«Lo so,» rispose. «Le dà fastidio il fatto che conoscessi il mio assalitore. Crede che possa averlo provocato. Non è così che la pensate voi della polizia?»

Howard rimase sorpreso per un attimo ma si riprese rapidamente. «Sì. Questo è il primo punto. Inoltre, non riusciamo a spiegarci come sia entrato. L’agente Whitlock e l’agente Farmer hanno controllato la casa da cima a fondo, più volte, ma non hanno trovato tracce di scasso. Nessuna finestra rotta. Nessuna serratura forzata o scassinata.»

«Quindi crede che l’abbia fatto entrare io,» commentò lei.

«E sicuramente una possibilità.»

«Bene. Faccia pure. Qualche settimana fa, mentre ero a Napa County per alcune ricerche legate a una sceneggiatura, ho perso le chiavi nella tenuta di quell’uomo. Le chiavi di casa, quelle della macchina…»

«È andata in macchina fin là?»

«No. Sono andata in aereo. Ma le chiavi erano tutte insieme. Anche quelle della macchina che avevo noleggiato a Santa Rosa; erano attaccate a una catenella sottile e temevo di perderle, così le ho infilate nel mio portachiavi. Non le ho mai più ritrovate. La società di noleggio auto ha dovuto mandarmene un altro mazzo. E quando sono tornata a Los Angeles, ho dovuto chiamare un fabbro per entrare in casa e per rifare le chiavi.»

«Non ha fatto cambiare le serrature?»

«Mi sembrava una spesa inutile,» rispose. «Le chiavi che avevo perso non erano contrassegnate in alcun modo. Chiunque le avesse trovate non avrebbe saputo come utilizzarle.»

«E non le è venuto in mente che potevano essere state rubate?» chiese il tenente Howard.

«No.»

«Ma ora è convinta che Bruno Frye abbia preso le chiavi con l’intenzione di venire qui a violentarla e ucciderla.»

«Sì.»

«Che cos’aveva contro di lei?»

«Non lo so.»

«C’è qualche motivo per cui avrebbe dovuto essere arrabbiato con lei?»

«No.»

«Un motivo per cui dovesse odiarla?»

«Lo conosco appena.»

«Si è fatto un bel po’ di strada.»

«Lo so.»

«Centinaia di miglia.»

«Senta, è pazzo. E i pazzi fanno cose incomprensibili.»

Il tenente Howard smise di camminare, si bloccò davanti a lei e la fissò come fosse stato uno degli dei arrabbiati rappresentati sui totem. «Non le sembra strano che un pazzo sia riuscito a nascondere così bene la propria follia a casa, mantenendo i nervi saldi, fino ad arrivare qui da lei, in una città sconosciuta, e finalmente scoppiare?»

«Ma certo che mi sembra strano,» bofonchiò. «Molto strano. Ma è la verità.»

«Bruno Frye avrebbe avuto l’opportunità di rubare quelle chiavi?»

«Sì. Uno dei suoi uomini mi condusse a dare un’occhiata in giro. Dovevamo arrampicarci sulle impalcature, tra i tini di fermentazione, in mezzo ai fusti per l’invecchiamento e altri posti piuttosto stretti. La borsa mi sarebbe stata d’impiccio. Mi avrebbe impedito i movimenti. Così la lasciai a casa.»

«In casa di Frye.»

«Sì.»

Era pervaso da una forte energia, era supercaricato. Ricominciò a passeggiare avanti e indietro, dal divano alle finestre, dalle finestre alla libreria per poi tornare al divano, con le ampie spalle ben diritte e la testa eretta.

Il tenente Clemenza le sorrise, ma non servì a rassicurarla.

«E alla tenuta qualcuno si ricorderà che lei ha perso le chiavi?» chiese il tenente Howard.

«Credo di sì. Certamente. Le ho cercate per almeno mezz’ora. Ho chiesto in giro, sperando che qualcuno le avesse viste.»

«Ma nessuno sapeva niente.»

«Esatto.»

«Dove credeva di averle lasciate?»

«Pensavo che fossero in borsa.»

«E l’ultimo posto nel quale ricorda di averle viste?»

«Sì. Avevo usato la macchina a noleggio per raggiungere la tenuta ed ero sicura di aver messo le chiavi in borsa dopo aver posteggiato.»

«Comunque, quando non è riuscita più a trovarle, non le è venuto in mente che qualcuno potesse averle rubate?»

«No. Perché avrebbero dovuto rubare le chiavi e non i soldi? Nel portafogli avevo circa duecento dollari.»

«C’è un’altra cosa che non mi convince. Dopo aver cacciato Frye fuori di casa sotto la minaccia della pistola perché ha aspettato tanto a chiamarci?»

«Non ho aspettato tanto.»

«Venti minuti.»

«Forse meno.»

«Considerando che era stata aggredita e quasi uccisa da un maniaco armato di coltello, venti minuti sono decisamente un’eternità. La maggior parte della gente chiede immediatamente l’intervento della polizia. Pretendono che arriviamo sulla scena del delitto in dieci secondi e diventano furibondi se ci mettiamo anche solo qualche minuto.»

Lei osservò Clemenza, poi Howard e infine le proprie dita intrecciate strettamente ed esangui. Raddrizzò la schiena e le spalle. «Io… credo… credo di essermi lasciata andare.» Era un’ammissione incredibilmente difficile e penosa. Era sempre stata molto orgogliosa della propria forza. «Sono andata alla scrivania, mi sono seduta e ho iniziato a comporre il numero della polizia e… poi… io… mi sono messa a piangere. Ho iniziato a piangere… e non sono più riuscita a smettere.»

«Ha pianto per venti minuti?»

«No. Certo che no. Non sono un tipo piagnucoloso. Voglio dire, non mi lascio andare troppo facilmente.»

«Quanto tempo ci ha messo a riprendere il controllo?»

«Non lo so con certezza.»

«Quindici minuti?» incalzò il tenente Howard.

«Direi meno.»

«Dieci minuti?»

«Forse cinque.»

«E quando ha ripreso il controllo, perché non ci ha chiamato subito? Era seduta proprio davanti al telefono.»

«Sono andata di sopra a lavarmi la faccia e a cambiarmi,» spiegò. «Ve l’ho già detto.»

«Lo so,» esclamò. «Mi ricordo. Si faceva bella per la stampa.»

«No,» sbottò, iniziando ad arrabbiarsi. «Non mi stavo ‘facendo bella’. Ho solo pensato che avrei…»

«Questo è un altro punto che mi lascia sconcertato,» la interruppe Howard. «Mi lascia di stucco. Voglio dire, viene quasi violentata e uccisa, si fa prendere da una crisi di pianto, ha ancora paura che Frye possa tornare a completare il lavoro lasciato in sospeso ma, nonostante tutto, decide di andare di sopra a rendersi presentabile! E pazzesco!»

«Scusate,» intervenne il tenente Clemenza sporgendosi dalla poltrona marrone. «Frank, so che hai in mente qualcosa e so anche dove vuoi andare a parare. Non voglio rovinarti il divertimento o cose del genere. Ma non credo sia possibile fare delle supposizioni sull’onestà e l’integrità di Miss Thomas basandoci sul tempo che ha impiegato per chiamarci. Sappiamo entrambi che molto spesso la gente rimane scioccata dopo un’esperienza del genere. E non sempre si agisce in modo razionale. Il comportamento di Miss Thomas non è poi tanto strano.»

Hilary avrebbe voluto ringraziare il tenente Clemenza per essere intervenuto, ma avvertì un leggero antagonismo fra i due e decise di non alimentare quel principio di incendio.

«Mi stai forse suggerendo di lasciar perdere?» chiese Howard.

«Volevo solo dire che si sta facendo tardi e siamo tutti molto stanchi,» spiegò Clemenza.

«Ammetterai comunque che la sua storia fa acqua da tutte le parti.»

«Io non la metterei su questo piano,» proseguì Clemenza.

«E su che piano la metteresti?» chiese Howard.

«Diciamo che ci sono alcuni punti che ancora non sono chiari.»

Howard lo fissò con aria torva per un attimo, poi annuì. «D’accordo. Va bene. Stavo solo cercando di sottolineare che ci sono almeno quattro punti oscuri nella sua storia. Se sei d’accordo, vorrei continuare.» Si girò verso Hilary. «Miss Thomas, vorrei che ci descrivesse di nuovo il suo aggressore.»

«Perché? Sapete persino come si chiama.»

«Sia gentile.»

Non riusciva a capire dove volesse arrivare con tutte quelle domande. Sapeva che le stava tendendo una trappola, ma non aveva la più pallida idea di che tipo di trappola fosse o che cosa le avrebbe potuto fare. «D’accordo. Ma è l’ultima volta. Bruno Frye è alto, circa un metro e novanta…»

«Niente nomi, per favore.»

«Che cosa?»

«Descriva il suo assalitore senza usare alcun nome.»

«Ma io so come si chiama,» ripetè lentamente e pazientemente.

«Lo faccia per me,» proseguì l’uomo in tono serio.

Hilary sospirò e si appoggiò al divano, fingendosi annoiata. Non voleva che si accorgesse che la stava innervosendo. Che cosa diavolo aveva in mente? «L’uomo che mi ha assalito,» spiegò, «era alto circa un metro e novanta e pesava più o meno cento, centodieci chili. Molto muscoloso.»

«Di che razza?» chiese Howard.

«Bianco.»

«Carnagione?»

«Chiara.»

«Qualche cicatrice o neo?»

«No.»

«Tatuaggi?»

«Sta scherzando?»

«Tatuaggi?»

«No.»

«Qualche segno particolare?»

«No.»

«Zoppicava o aveva qualche difetto fisico?»

«È un figlio di puttana in perfetta forma,» sbottò.

«Colore dei capelli?»

«Biondo scuro.»

«Lunghi o corti?»

«Media lunghezza.»

«Occhi?»

«Sì.»

«Che cosa?»

«Sì, aveva gli occhi.»

«Miss Thomas…»

«Va bene, va bene.»

«E una faccenda seria.»

«Aveva gli occhi azzurri. Una strana sfumatura grigio azzurra.»

«Età?»

«Circa quarant’anni.»

«Qualche caratteristica particolare?»

«Per esempio?»

«Ha accennato a qualcosa riguardo alla sua voce.»

«Esatto. Aveva una voce profonda. Una specie di brontolio. Un tono gracchiante. Grave, rauco e irregolare.»

«Bene,» esclamò il tenente Howard, oscillando leggermente sui due piedi, chiaramente compiaciuto del proprio lavoro. «Abbiamo un’ottima descrizione dell’assalitore. Ora, mi descriva Bruno Frye.»

«L’ho appena fatto.»

«No, no. Partiamo dal presupposto che lei non conosca l’uomo che l’ha aggredita. Ha accettato questo giochetto per farmi contento, si ricorda? Ha appena descritto il suo assalitore, un uomo senza nome. Ora vorrei che mi descrivesse Bruno Frye.»

Hilary si voltò verso il tenente Clemenza. «E davvero necessario?» domandò esasperata.

Clemenza ribattè: «Frank, non puoi cercare di fare un po’ più in fretta?»

«Senti, sto cercando di stabilire una cosa,» sbottò il tenente Howard. «E sto cercando di arrivarci nel modo migliore. E comunque, è lei che ci fa perdere tempo.»

Si voltò verso Hilary che avvertì nuovamente la sgradevole sensazione di essere l’indiziata principale in un processo di altri tempi, con Howard nei panni di un fanatico inquisitore. Se solo Clemenza gliel’avesse permesso, Howard l’avrebbe afferrata e scrollata fino a ottenere la risposta che voleva, indipendentemente dal fatto che fosse la verità.

«Miss Thomas,» l’ammonì, «se si limiterà a rispondere a tutte le mie domande, finiremo nel giro di pochi minuti. Ora, le spiace descrivermi Bruno Frye?»

Con aria disgustata, ripetè: «Circa un metro e novanta, cento, centodieci chili, muscoloso, biondo, occhi grigio azzurri, circa quarant’anni, nessuna cicatrice, nessun segno particolare, nessun tatuaggio e una voce profonda e dal tono gracchiante.»

Frank Howard stava sorridendo. Ma non era un sorriso amichevole. «La descrizione del suo assalitore coincide perfettamente con quella di Bruno Frye. Nessuna discrepanza. Nemmeno una. Ed è ovvio, dal momento che ci ha riferito che si tratta della stessa persona.»

Il suo modo di formulare le domande appariva assolutamente ridicolo, ma c’era sicuramente una ragione. Non era stupido. Hilary sentiva di aver già messo un piede nella trappola, anche se non riusciva a vederla.

«Vuole per caso ripensarci?» chiese Howard. «Forse esiste una minima possibilità che si tratti di qualcun altro? Forse un uomo che ha solo una forte somiglianzà con Frye?»

«Non sono una stupida,» sbottò Hilary. «Era lui.»

«Non esiste la benché minima differenza fra l’assalitore e Frye? Un particolare insignificante?» insisté.

«No.»

«Neppure la forma del naso o la linea della mandibola?» proseguì Howard.

«Neppure quello.»

«E assolutamente certa che Frye e il suo assalitore presentassero lo stesso taglio di capelli, gli stessi zigomi e lo stesso mento?»

«Sì.»

«È sicura oltre qualsiasi ragionevole dubbio che ad assalirla questa sera è stato Bruno Frye?»

«Sì.»

«Sarebbe disposta a giurarlo davanti alla corte?»

«Sì, sì, sì!» ripetè Hilary, stanca di essere tormentata.

«Bene, allora. Bene. Molto bene. Temo che se giurasse in tal senso sarebbe lei a finire in galera. Lo spergiuro è un crimine.»

«Che cosa? Che cosa vuole dire?»

L’uomo fece una smorfia, decisamente meno amichevole del suo sorriso. «Miss Thomas, quello che voglio dire è… lei è una bugiarda.»

Hilary rimase talmente sbalordita di fronte a quell’accusa così diretta e sfacciata e talmente sconcertata per il tono duro della sua voce che, per un attimo, non riuscì a proferire parola. Non capiva neppure che cosa volesse dire Howard.

«Una bugiarda, Miss Thomas. Né più né meno.»

Il tenente Clemenza si alzò dalla poltrona marrone e intervenne: «Frank, sei proprio sicuro di quello che affermi?»

«Oh sì,» rispose Howard. «Ne sono assolutamente certo. Mentre era fuori a parlare con i giornalisti mettendosi bene in posa per i fotografi, mi ha chiamato la centrale. Hanno parlato con lo sceriffo di Napa County.»

«Di già?»

«Oh sì. Si chiama Peter Laurenski. Lo sceriffo Laurenski ha controllato la situazione alla tenuta di Frye, dietro nostra richiesta, e sai che cos’ha scoperto? Ha scoperto che Bruno Frye non è venuto a Los Angeles. Bruno Frye non è mai uscito di casa. In questo preciso momento, Bruno Frye è a Napa County, a casa sua, tranquillo come un agnellino.»

«È impossibile!» gridò Hilary balzando in piedi.

Howard scosse la testa. «La smetta, Miss Thomas. Frye ha spiegato allo sceriffo Laurenski che aveva intenzione di venire a Los Angeles oggi e di fermarsi per una settimana. Una breve vacanza. Ma non è riuscito a liberarsi in tempo e ha dovuto rinviare tutto e rimanersene a casa per terminare alcuni lavori.»

«Lo sceriffo si sbaglia!» insistette Hilary. «Non è possibile che abbia parlato con Bruno Frye.»

«Sta forse dicendo che lo sceriffo mente?» chiese il tenente Howard.

«Deve… deve aver parlato con qualcuno che sta coprendo Frye,» mormorò Hilary, rendendosi conto di quanto fosse poco plausibile una simile teoria.

«No,» proseguì Howard. «Lo sceriffo Laurenski ha parlato con Frye in persona.»

«Ma l’ha visto? Ha davvero visto Frye?» domandò. «O si è limitato a parlare al telefono con qualcuno che fingeva di essere Frye?»

«Non so se abbiano parlato a faccia a faccia oppure al telefono,» rispose Howard. «Ma si ricordi, Miss Thomas, che è stata lei a parlarci della particolare voce di Frye. Estremamente profonda. Gracchiante. Un brontolio gutturale. Secondo lei è possibile che qualcuno l’abbia imitata al telefono?»

«Se lo sceriffo Laurenski non conosce bene Frye, può darsi che si sia fatto trarre in inganno da una pessima imitazione. Forse…»

«E un paese piuttosto piccolo. Un uomo come Bruno Frye, un cittadino importante, è conosciuto praticamente da tutti. E lo sceriffo lo conosce molto bene da più di vent’anni,» annunciò Howard con aria trionfante.

Il tenente Clemenza si sentiva a disagio. A Hilary non importava molto ciò che Howard pensava sul suo conto, ma era fondamentale che almeno lui le credesse. L’espressione di dubbio apparsa nei suoi occhi era bastata a sconvolgerla, quasi quanto l’atteggiamento arrogante di Howard.

Voltò le spalle ai due investigatori e si diresse verso l’ampia vetrata che dava sul roseto, cercando di contenere là propria collera, ma non ci riuscì e si girò di scatto. Furiosa, si rivolse a Howard, sottolineando ogni parola con un pugno assestato sul tavolino di cristallo. «Bruno Frye era qui!» Il vaso pieno di rose vacillò, cadde dal tavolo e rimbalzò sul soffice tappeto, disseminando fiori e acqua dappertutto. «Che cosa mi dice del divano che ha rovesciato? E degli oggetti in porcellana che gli ho lanciato? E dei proiettili che ho sparato? Che cosa mi dice del coltello rotto che ha lasciato qui? E il vestito strappato? E i miei slip?»

«Può darsi si tratti semplicemente di un’ottima messinscena,» rispose Howard. «Può aver fatto tutto da sola, inventandosi qualche dettaglio per suffragare la sua storia.»

«Ma è assurdo!»

Clemenza intervenne. «Miss Thomas, forse era davvero qualcun altro, qualcuno che assomigliava molto a Frye.»

Anche se avesse voluto accettare quella possibilità, non avrebbe potuto farlo. Obbligandola a descrivere più volte l’uomo che l’aveva aggredita e ad affermare che l’assalitore non poteva essere altro che Bruno Frye, il tenente Howard aveva reso difficile, se non impossibile, per lei accettare la possibilità ventilata da Clemenza. E, comunque, non aveva alcuna intenzione di tornare sui suoi passi. Sapeva di avere ragione. «Era Frye,» affermò con calma. «Frye e nessun altro. Non mi sono inventata tutto, non ho sparato nel muro. Non ho rovesciato il divano e strappato i vestiti. Per l’amor del cielo, perché avrei dovuto fare una cosa del genere? Che ragioni potevo avere per inscenare una storia simile?»

«Io avrei qualche idea,» rispose Howard. «Secondo me, conosce Bruno Frye da molto tempo e voi due…»

«Ve l’ho già detto, l’ho incontrato per la prima volta tre settimane fa.»

«Ci ha raccontato molte altre cose che sono risultate false,» proseguì Howard. «Credo che lei conosca Frye da anni, o almeno da parecchio tempo. Probabilmente voi due avevate una storia…»

«No!»

«… e per qualche ragione, lui ha deciso di mollarla. Forse si è semplicemente stancato di lei. Forse c’era un’altra donna. Qualcosa del genere. Non credo sia andata nella sua tenuta per svolgere le ricerche legate al suo lavoro, come ci ha raccontato. Secondo me si è recata laggiù nel tentativo di ritornare con lui. Voleva appianare le cose con qualche bacio, qualche moina…»

«No.»

«… ma lui non ne ha voluto sapere. L’ha rifiutata di nuovo. Mentre era là, ha scoperto che aveva intenzione di venire a Los Angeles per una breve vacanza, così ha deciso di vendicarsi. Sapeva che probabilmente non avrebbe organizzato niente per la prima sera in città, si sarebbe limitato a cenare da solo e sarebbe andato a letto presto. Era anche sicura che nessuno avrebbe potuto garantire per lui nel caso in cui i poliziotti avessero deciso di risalire ai suoi spostamenti di quella sera. Così ha deciso di accusarlo di tentativo di stupro.»

«Dannazione, ma è disgustoso!»

«Ma tutto si è ritorto contro di lei,» soggiunse Howard. «Frye ha cambiato i suoi piani. Non è venuto a Los Angeles. Così abbiamo scoperto il suo sporco gioco.»

«Era qui!» Hilary provò l’impulso di afferrare l’investigatore per il collo e di stringerglielo fino a farlo ragionare. «Senta, ho un paio di amici che mi conoscono piuttosto bene e che potranno raccontarle qualcosa delle mie eventuali relazioni. Le darò l’indirizzo. Vada a trovarli. Le diranno che non c’era assolutamente niente fra me e Bruno Frye. Diamine, aggiungeranno anche che non ho in ballo una storia da un bel po’ di tempo. Sono stata troppo occupata per poter avere una vita privata. Lavoro molte ore al giorno. Non mi rimane molto tempo per le storie d’amore e di sicuro non mi imbarcherei in una relazione con un uomo che abita dall’altra parte dello stato. Lo chieda ai miei amici. Glielo confermeranno.»

«Gli amici sono notoriamente dei testimoni poco attendibili,» spiegò Howard. «Inoltre, può anche darsi che volesse mantenere il segreto sull’intera faccenda: una storia d’amore clandestina. Si arrenda, Miss Thomas, si è messa da sola con le spalle al muro. I fatti sono chiari. Lei dichiara che Frye si trovava in questa casa stasera. Ma lo sceriffo afferma che, mezz’ora fa, Frye era a casa sua. Ora, St. Helena è a più di seicento chilometri in linea d’aria e a più di ottocento chilometri di strada. Non può essere tornato a casa in così poco tempo. E non poteva trovarsi in due posti contemporaneamente perché, nel caso non lo sapesse, questo comporterebbe una grave violazione delle leggi della fisica.»

Il tenente Clemenza propose: «Frank, forse dovresti lasciarmi finire con Miss Thomas.»

«Che cosa c’è da finire? È tutto a posto, finito, kaputt.» Howard puntò un dito accusatore verso la donna. «Lei è dannatamente fortunata, Miss Thomas. Se Frye fosse venuto a Los Angeles e fosse stato trascinato in tribunale, lei avrebbe commesso un grave spergiuro. Avrebbe rischiato di finire in galera. Ed è doppiamente fortunata perché non esiste un modo sicuro per punire quelli che, come lei, si divertono a farci perdere tempo.»

«Non sapevo che avessimo perso tempo,» mormorò Clemenza.

«Diamine, certo che sì.» Howard fissò la donna. «Le dirò una cosa: nel caso Bruno Frye decidesse di denunciarla per calunnia, le assicuro che testimonierò in suo favore.» Quindi si girò e si allontanò, dirigendosi verso la porta dello studio.

Il tenente Clemenza non accennò a muoversi e, ovviamente, aveva qualcosa da aggiungere, ma Hilary non sopportava che quell’altro se ne andasse senza prima aver risposto ad alcune domande. «Aspetti un attimo,» gridò.

Howard si bloccò e si girò a guardarla. «Sì?»

«E adesso? Che cos’ha intenzione di fare della mia denuncia?» chiese.

«Parla seriamente?»

«Sì.»

«Andrò fino alla macchina, annullerò l’identikit di Bruno Frye e poi la mia giornata sarà conclusa. Tornerò a casa e mi berrò un paio di birre gelate.»

«Vuol dire che ha intenzione di lasciarmi qui da sola? E se dovesse tornare?»

«Oh, Cristo!» sbottò Howard. «La smetta di recitare questa commedia!»

Lei gli si avvicinò di qualche passo. «Non mi importa quello che pensa, non mi importa quello che sostiene lo sceriffo di Napa County: io non sto recitando una commedia. Le spiacerebbe lasciare qui un agente per almeno un’ora in modo che possa chiamare un fabbro e farmi cambiare le serrature?»

Howard scosse la testa. «No. Che mi venga un accidente se spreco ancora il tempo prezioso della polizia e il denaro dei contribuenti per fornirle una protezione di cui non ha certo bisogno. La smetta. Ormai è finita. Ha perso. Se ne deve rendere conto, Miss Thomas.» E uscì dalla stanza.

Hilary andò verso la poltrona marrone e si sedette. Era esausta, confusa e spaventata.

Clemenza mormorò: «Farò in modo che gli agenti Whitlock e Farmer rimangano con lei fino a quando avrà cambiato le serrature.»

Hilary alzò lo sguardo verso di lui. «Grazie.»

Clemenza si strinse nelle spalle. Era decisamente a disagio. «Mi dispiace non poter far altro per lei.»

«Non mi sono inventata tutta questa storia,» ripetè.

«Le credo.»

«Frye è stato qui questa sera,» proseguì.

«Non dubito che ci fosse qualcuno ma…»

«Non qualcuno. Frye.»

«Se provasse a riconsiderare la sua deposizione, potremmo continuare a occuparci del caso e…»

«Era Frye,» ripetè senza più rabbia nella voce ma con molta stanchezza. «Era lui e nessun altro.»

Per un lungo istante, Clemenza la osservò con interesse e i suoi occhi color nocciola erano pieni di comprensione. Era un bell’uomo, ma non era l’aspetto che lo rendeva particolarmente attraente: dai suoi lineamenti italiani si sprigionavano un indescrivibile calore e una grande gentilezza. Sul viso aveva dipinto un interessamento autentico e quasi tangibile e Hilary ebbe la certezza che aveva davvero a cuore la sua situazione.

Clemenza la tranquillizzò: «Ha vissuto una brutta esperienza. Ed è scossa. È perfettamente comprensibile. A volte, in casi come questo, succede che la percezione sia distorta. Forse quando riuscirà a calmarsi, ricorderà le cose in modo leggermente… diverso. Passerò da lei domani. Forse avrà qualcosa di nuovo da aggiungere.»

«Sono sicura di no,» disse Hilary senza esitare. «Ma grazie per… essere stato così gentile.»

Le parve che fosse riluttante ad andarsene. Poi uscì e lei rimase sola nello studio.

Per un paio di minuti, non riuscì a trovare la forza di alzarsi dalla poltrona. Era come se fosse sprofondata nelle sabbie mobili e avesse esaurito tutte le forze nell’estenuante e inutile tentativo di fuggire.

Alla fine si alzò, andò alla scrivania e alzò il ricevitore. Pensò di chiamare la tenuta di Napa County ma si rese conto che non avrebbe ottenuto nulla. Conosceva solo il numero dell’ufficio. Non aveva il numero di telefono della casa di Frye. Anche ammesso di riuscire a ottenere il numero tramite il centralino, non avrebbe certo potuto risolvere quell’enigma. Se avesse potuto chiamarlo a casa, le possibilità erano solo due. Uno: Frye non rispondeva e questo non avrebbe dimostrato né che aveva ragione lei né che lo sceriffo Laurenski aveva detto la verità. Due: Frye rispondeva, lasciandola di stucco. E a quel punto? Avrebbe dovuto riesaminare gli avvenimenti di quella sera, accettando il fatto che l’uomo con cui aveva lottato era qualcuno che assomigliava solo a Bruno Frye. O forse non assomigliava per niente a Frye. Forse i suoi sensi erano talmente scossi da farle notare una somiglianzà che non esisteva affatto. Come si fa a capire quando si inizia a perdere il contatto con la realtà? Come inizia la follia? Si insinua lentamente nel corpo o ti assale all’improvviso, senza avvisarti? Doveva considerare la possibilità di essere sul punto di impazzire perché, dopotutto, c’erano già stati casi di follia nella sua famiglia. Per molti anni aveva temuto di morire com’era morto suo padre: con gli occhi spiritati, in preda al delirio, agitando una pistola e cercando di sbarazzarsi di mostri inesistenti. Tale padre, tale figlia?

«L’ho visto,» ripetè a voce alta. «Bruno Frye. In casa mia. Qui. Questa sera. Non l’ho immaginato e non soffro di allucinazioni. L’ho visto, dannazione.»

Aprì le Pagine Gialle e chiamò un fabbro aperto ventiquattr’ore su ventiquattro.


Dopo aver lasciato l’abitazione di Hilary Thomas, Bruno Frye guidò il furgoncino Dodge color grigio fumo fuori di Westwood. Si diresse verso sudovest, a Marina Del Rey, un piccolo porticciolo ai confini della città; un luogo di lussuosi appartamenti, condomini, negozi e ristoranti riccamente addobbati, anche se niente di eccezionale, la maggior parte dei quali godeva di ampia vista sul mare e sulle migliaia di barche attraccate lungo i canali artificiali.

Lungo la costa stava avanzando la nebbia, come una vampata glaciale che si sprigionava dall’oceano. In alcuni punti era fitta, in altri più rada, ma procedeva inesorabilmente.

Parcheggiò il furgoncino in un posteggio nei pressi del molo e rimase seduto al volante per un minuto a contempiare la sua disfatta. Sicuramente la polizia avrebbe iniziato a cercarlo, ma solo fino a quando avesse scoperto che era rimasto nella casa di Napa County per tutta la sera. E anche se avessero iniziato le ricerche nell’area di Los Angeles, non avrebbe corso alcun rischio, dal momento che non sapevano quale macchina stesse guidando. Era sicuro che Hilary Thomas non avesse visto il furgone quando se n’era andato, perché l’aveva posteggiato a tre isolati di distanza.

Hilary Thomas.

Ovviamente non era il suo vero nome.

Katherine. Ecco chi era veramente. Katherine.

«Troia puzzolente,» esclamò ad alta voce.

Lo terrorizzava. Negli ultimi cinque anni, l’aveva ammazzata almeno una ventina di volte, ma lei si era sempre rifiutata di morire. Continuava a tornare in vita con un corpo nuovo, con un nome nuovo, con un’identità nuova e un passato ben costruito. Ma lui era sempre riuscito a riconoscere la Katherine che si nascondeva dietro tutte quelle personalità. L’aveva incontrata molte volte, l’aveva ammazzata molte volte, ma lei non voleva morire. Sapeva come fare per resuscitare dalla tomba e questo lo terrorizzava ancora più di quanto non avesse mai dato a vedere. Aveva paura di lei, ma non poteva permettersi di farglielo capire, perché se avesse cominciato a sospettare di esercitare un tale potere su di lui, l’avrebbe sopraffatto e distrutto.

Ma c’è un modo per ucciderla, pensò Frye. Io l’ho già fatto. L’ho uccisa più volte e più volte ho seppellito il suo cadavere in fosse segrete. La ucciderò di nuovo. E forse questa volta non riuscirà a tornare indietro.

Appena fosse stato abbastanza sicuro di poter ripresentarsi nella casa di Westwood senza correre pericoli, l’avrebbe ammazzata di nuovo. E questa volta sarebbe ricorso a una serie di riti che si augurava potessero cancellare il suo potere soprannaturale di rigenerazione. Aveva letto diversi libri sui morti viventi, sui vampiri e su altre creature. Anche se lei non era niente di tutto questo, anche se era spaventosamente unica, era convinto che i metodi per sterminare i vampiri avrebbero potuto risultare efficaci anche contro di lei. Le avrebbe strappato il cuore ancora pulsante. L’avrebbe trafitto con un paletto di legno. Le avrebbe tagliato la testa. Le avrebbe riempito la bocca di aglio. Avrebbe funzionato. Oh, Dio, doveva funzionare.

Scese dal furgone e si diresse al telefono pubblico più vicino. L’aria umidiccia sapeva vagamente di sale, di alghe e di lubrificante. L’acqua sbatteva contro i pali di sostegno e contro gli scafi delle imbarcazioni aumentando la sensazione di abbandono. Attraverso il plexiglas della cabina telefonica si stagliavano file e file di alberi che si ergevano dalle barche attraccate come una foresta spoglia che fa capolino nell’oscurità. Più o meno nello stesso momento in cui Hilary Thomas stava chiamando la polizia, lui telefonò a Napa County per comunicare che l’attacco era fallito.

L’uomo all’altro capo del filo rimase ad ascoltare senza interromperlo e alla fine commentò: «Mi occuperò io della polizia.»

Parlarono per un altro paio di minuti e alla fine Frye riappese. Uscì dalla cabina e si fermò un istante a guardare sospettoso l’oscurità e le spire di nebbia. Katherine non poteva averlo seguito, ciononostante il fatto di trovarsi al buio, da solo, lo riempiva di terrore. Era un uomo grande e grosso. Non avrebbe dovuto aver paura delle donne. Invece era proprio così. Aveva paura di colei che non voleva morire, di colei che ora si faceva chiamare Hilary Thomas.

Tornò dietro il volante del suo furgoncino dove rimase per qualche minuto prima di rendersi conto che aveva fame. Stava morendo di fame. Lo stomaco brontolava. Era dall’ora di pranzo che non mangiava nulla. Conosceva Marina Del Rey quel tanto che bastava per sapere che non c’erano ristoranti decenti a portata di mano. Si diresse verso sud sulla Pacific Coast Highway, sul Culver Boulevard, poi svoltò a sinistra e proseguì di nuovo verso sud, in direzione di Vista Del Mar. Dovette procedere con cautela, per via della nebbia sempre più fitta che rifletteva la luce dei fari, riducendo così la visibilità a pochi metri. Gli sembrava di guidare sott’acqua, in un oceano fosforescente e tenebroso.

Una ventina di minuti dopo la telefonata a Napa County (e più o meno mentre lo sceriffo Laurenski stava scartabellando alcune pratiche per conto della polizia di Los Angeles) Frye riuscì a trovare un ristorante allettante lungo il ciglio settentrionale di El Segundo. L’insegna rossa e gialla trafiggeva la cortina nebbiosa: GARRIDO’S. Era un locale messicano, ma non una delle solite bettole norte-americana fatte di vetro e cromature dove servivano imitazioni di comida. Quello sembrava genuinamente messicano. Accostò e andò a posteggiare fra due macchine truccate dotate di sollevatori idraulici, estremamente popolari fra i giovani messicani. Dirigendosi verso l’ingresso passò davanti a un’auto che sfoggiava un adesivo di POTERE AI MESSICANI e un secondo di SOSTENITORE DEL SINDACATO DEGLI AGRICOLTORI. Frye sentiva già il profumo delle enchiladas.

All’interno, Garrido’s aveva più l’aspetto di un bar che di un ristorante, ma l’aria che si respirava era impregnata della fragranza tipica della buona cucina messicana. Sulla sinistra c’era il bancone, in legno macchiato e sgretolato, che occupava un intero lato della sala. Una decina di uomini e due graziose señoritas sedevano sugli sgabelli appoggiati al bar e discorrevano in spagnolo. Al centro della sala era disposta un’unica fila di tavoli ricoperti da tovaglie rosse. Erano tutti occupati da gente che beveva e mangiava avidamente. Sulla destra, contro la parete, si aprivano alcuni séparé rivestiti in finta pelle e Frye si accomodò in uno di questi.

La cameriera che si affrettò verso il suo tavolo era bassa, praticamente più larga che alta, con una faccia rotonda e incredibilmente carina. Cercando di superare la voce dolce e lamentosa di Freddie Fender che proveniva dal juke box, domandò a Frye che cosa desiderava mangiare e annotò l’ordinazione: una doppia porzione di chili e due bottiglie di Dos Equis gelata.

Frye indossava ancora i guanti di pelle; se li sfilò e intrecciò le mani.

A parte una biondina seduta in compagnia di uno stallone messicano baffuto, Frye era l’unico a non avere sangue messicano nelle vene. Sapeva di essere osservato, ma non gliene importava nulla.

La cameriera gli servì immediatamente la birra. Frye ignorò il bicchiere e si portò la bottiglia alle labbra. Chiuse gli occhi, rovesciò la testa all’indietro e trangugiò a canna. In meno di un minuto aveva scolato la bottiglia. Consumò la seconda con meno fretta, ma la finì comunque prima dell’arrivo della cena. Ordinò altre due Dos Equis.

Bruno Frye mangiò con voracità e concentrazione assolute, riluttante o incapace di alzare gli occhi dal piatto, incurante di tutta la gente che lo circondava e con la testa abbassata per ingurgitare i bocconi con la frenesia di un affamato sgraziato. Emettendo mormorii di approvazione, continuò a portarsi forchettate di chili alla bocca, a trangugiare con voracità, a masticare velocemente e rumorosamente con le guance rigonfie. Gli servirono anche un piatto di tortillas che utilizzò per raccogliere la deliziosa salsa rimasta nel piatto. Innaffiò il cibo con abbondanti sorsate di birra ghiacciata.

Quando la cameriera passò per chiedergli se andava tutto bene, si accorse immediatamente dell’inutilità della domanda. Frye alzò lo sguardo leggermente annebbiato verso di lei. Con una voce che sembrava venire da lontano ordinò due tacos di manzo, un paio di enchiladas al formaggio, riso, fagioli e altre due bottiglie di birra. La cameriera strabuzzò gli occhi ma era troppo gentile per fare commenti.

Finì il chili prima che potesse servirgli la seconda parte dell’ordinazione, ma, anche con il piatto pulito sotto gli occhi, non riuscì a uscire dallo stato di trance. Su ogni tavolo c’era una ciotola colma di tacos e Frye afferrò la sua. Intinse alcuni tacos nella salsa piccante, se li infilò in bocca e iniziò a masticare rumorosamente con espressione deliziata. Quando arrivò la cameriera con gli altri piatti e le birre, riuscì a mormorare due parole di ringraziamento prima di tuffarsi sull’enchilada al formaggio. Finì i tacos e le altre portate. Sul collo prese a pulsargli vistosamente una vena. Anche la fronte era attraversata da vene in rilievo. Il viso era ricoperto da un leggero strato di sudore che cominciava a colargli anche dall’attaccatura dei capelli. Alla fine, ingoiò l’ultimo boccone di fagioli, lo innaffiò con la birra e spostò di lato i piatti ormai vuoti. Per un po’ rimase seduto con una mano appoggiata sulla gamba e l’altra stretta intorno alla bottiglia a fissare un punto nel vuoto. Lentamente, il sudore evaporò e la musica del juke box cominciò a distrarlo: era un altro brano di Freddie Fender.

Riprese a sorseggiare la birra, mentre osservava gli altri commensali, dimostrando per la prima volta un certo interesse. La sua attenzione venne attirata da un gruppo seduto al tavolo vicino all’ingresso. Due coppiette. Ragazze carine. Giovani attraenti e scuri. Erano tutti sulla ventina. I ragazzi stavano cercando di far colpo sulle donne, facendo i galletti, forse anche troppo, nel tentativo di impressionare le gallinelle.

Frye decise di divertirsi un po’ con loro. Rifletté cercando di trovare un modo per iniziare, mentre sorrideva all’idea della scena che avrebbe provocato.

Chiese il conto alla cameriera e pagò con alcune banconote aggiungendo: «Tenga pure il resto.»

«Lei è molto generoso,» lo ringraziò, sorridendo e continuando ad annuire mentre tornava al registratore di cassa.

Frye si infilò i guanti di pelle.

Scivolando fuori del séparé, prese la sesta bottiglia di birra che era rimasta semipiena. Si diresse verso l’uscita e finse di inciampare in una sedia mentre passava davanti alle coppiette che avevano attirato la sua attenzione. Vacillò un po’, riprese agilmente l’equilibrio e si sporse sul tavolo dei quattro ragazzi che lo guardarono sorpresi, mettendo bene in mostra la bottiglia di birra per dare l’impressione di essere ubriaco.

Cercò di tenere la voce bassa per evitare che gli altri commensali si accorgessero della scenetta che stava mettendo in piedi. Sapeva di poterne affrontare due, ma non voleva che gli si rivoltasse contro un esercito. Con l’occhio offuscato sbirciò il più muscoloso dei due, gli lanciò un sorriso subito smorzato dal ringhio che emise per parlare. «Tieni quella sedia del cazzo al suo posto, imbecille.»

Il ragazzo lo stava guardando sorridente, in attesa che si scusasse. Dopo l’insulto strinse gli occhi e il sorriso gli si congelò sulle labbra.

Prima che potesse alzarsi, Frye si voltò di scatto verso l’altro ragazzo: «Perché non siete usciti con qualche strafiga come quella bionda laggiù? Che cosa pensate di poter fare con due passere raggrinzite come queste?»

E si diresse immediatamente verso l’uscita, per evitare che la rissa iniziasse nel ristorante. Ridacchiando, spinse la porta, uscì vacillante nella nebbia della notte e si affrettò verso il posteggio dall’altra parte della strada.

Era quasi arrivato al furgoncino, quando uno dei due ragazzi che si era lasciato alle spalle gli gridò con un forte accento spagnolo: «Ehi! Aspetta un attimo, amico!»

Frye si voltò, continuando a fingere di essere ubriaco; vacillava e oscillava come se la terra gli stesse scivolando sotto i piedi. «Che cosa c’è?» domandò con aria stupida.

I due ragazzi si fermarono l’uno di fianco all’altro: due apparizioni nella nebbia. Il più muscoloso cominciò a parlare: «Ehi, che cosa diavolo credi di poter fare, amico?»

«State cercando guai?» ribattè Frye, biascicando le parole.

«Cerdo!» esclamò sempre lo stesso.

«Mugriento cerdo!» fece eco il più magro.

«Perdio, smettete di parlare quella cazzo di lingua da scimmie con me. Se dovete dirmi qualcosa, parlate in inglese.»

«Miguel ti ha dato del porco,» tradusse il magro. «E io ho aggiunto che sei uno sporco maiale.»

Frye sorrise e fece un gesto osceno.

Miguel cominciò a caricare e Frye restò immobile, come se non l’avesse nemmeno notato. Miguel si stava avvicinando a capo chino, con i pugni stretti e le braccia lungo i fianchi. Appioppò due colpi secchi e veloci al torace di ferro di Frye. Le mani di granito del ragazzo emisero un rumore sordo, ma Frye accusò i colpi senza battere ciglio. Teneva ancora in mano la bottiglia che mandò in frantumi sulla testa di Miguel. Il vetro esplose e i cocci caddero sull’asfalto del parcheggio con suoni dissonanti. La schiuma della birra si riversò su entrambi. Miguel si accasciò sulle ginocchia, gemendo come se fosse stato colpito da una scure. «Pablo,» chiamò. Afferrando la testa del ragazzo con entrambe le mani, Frye tenne ben salda la presa e conficcò una ginocchiata nel mento della sua vittima. I denti di Miguel si chiusero con un suono secco. Frye lo lasciò andare e il ragazzo cadde di lato, ormai privo di conoscenza, con il fiato che cercava di uscire dalle narici insanguinate.

Mentre Miguel si accasciava sul marciapiede umido, Pablo si avventò su Frye. Aveva un coltello: un’arma lunga e sottile, con tutta probabilità a serramanico, affilata su entrambi i lati come un rasoio. Il magro non aveva la potenza del suo compagno. Si muoveva con la rapidità e la grazia di un ballerino e lanciava colpi a vuoto con la velocità di un lampo, alla ricerca di un’occasione favorevole, nel tentativo di sfruttare il momento opportuno. Il coltello andava e veniva e se Frye non fosse arretrato di scatto, gli avrebbe squarciato la pancia. Pablo si spinse in avanti, senza smettere di agitare il coltello. Indietreggiando, Frye cercò di studiare il modo con cui Pablo usava l’arma e quando arrivò a toccare il furgoncino, aveva già capito come fare per liberarsi di lui. Diversamente da chi era esperto nel maneggiare i coltelli, Pablo agitava la mano con passate lunghe e complete; questo significava che, dopo che la lama era balenata davanti a Frye, gli restava qualche secondo prima che tornasse indietro. In quegli istanti, il coltello non costituiva una minaccia e Pablo diventava vulnerabile. Mentre Pablo stava per affondare il colpo letale, ormai convinto che la sua preda non potesse più sfuggirgli, Frye calcolò la lunghezza del movimento e reagì al momento giusto. Afferrò il polso del ragazzo, lo strinse e lo ritorse, ripiegandolo all’indietro. Pablo ululò dal dolore e lasciò cadere il coltello. Frye si accostò al ragazzo, l’afferrò per il collo e gli conficcò la testa nella fiancata posteriore del furgoncino. Gli torse con più forza il braccio, facendogli toccare le scapole con la mano: sembrava volesse staccarsi da un momento all’altro. Con la mano libera, Frye afferrò il ragazzo per il sedere e lo sollevò da terra prima di mandarlo a sbattere una seconda volta contro il furgoncino, poi una terza, una quarta, una quinta, una sesta, finché non lo sentì più gridare. Lasciò andare Pablo che cadde per terra come un pesante sacco di patate.

Miguel si era raddrizzato sulle ginocchia, appoggiandosi sulle mani. Sputava sangue e frammenti di denti sul macadam nero.

Frye si diresse verso di lui.

«Stai cercando di rialzarti, amico?»

Ridendo sommessamente, gli schiacciò le mani, affondò il tacco sulla mano del ragazzo e poi si ritrasse.

Miguel emise un ululato e cadde di fianco.

Frye gli diede un calcio nella coscia.

Miguel non perse i sensi, ma chiuse gli occhi, augurandosi che quell’uomo se ne andasse.

Frye si sentì attraversare da una scossa di elettricità di milioni di volt che scorreva da una sinapsi all’altra, calda, crepitante e scintillante. Non era una sensazione dolorosa, ma un’esperienza selvaggia ed esaltante, come se fosse appena stato toccato dallo Spirito Santo in persona e si sentisse colmo di una splendida luce brillante e sacra.

Miguel riaprì gli occhi rigonfi.

«Ti è passata la voglia di fare a botte?» gli domandò Frye.

«Ti prego,» riuscì a proferire Miguel fra i denti spezzati e le labbra rotte.

Al settimo cielo, Frye appoggiò un piede sulla gola di Miguel e lo costrinse a rotolare su un fianco.

«Ti prego.»

Frye tolse il piede dalla gola.

«Ti prego.»

Ebbro della sensazione di potere, Frye si sentì fluttuare nell’aria e inferse un calcio nel costato di Miguel. Il ragazzo quasi soffocò dal dolore.

Ridendo a crepapelle, Frye continuò a scalciare ripetutamente finché udì il rumore secco di un paio di costole che si fratturavano. A quel punto, Miguel fece ciò che, con grande orgoglio, era riuscito a evitare negli ultimi minuti. Cominciò a piangere.

Frye tornò al furgoncino.

Pablo era sempre per terra, vicino alle ruote posteriori, disteso sulla schiena in stato di incoscienza.

Approvando ad alta voce ciò che stava per fare, Frye prese a calci anche Pablo sui polpacci, sulle ginocchia, sulle cosce, sui fianchi e sulle costole.

Dalla strada stava arrivando una macchina, ma l’autista si accorse della scena e decise che era meglio non immischiarsi. Ingranò la retromarcia, fece inversione e se ne andò con uno stridio di gomme.

Frye trascinò Pablo vicino a Miguel e allineò i due ragazzi ordinatamente per far strada al furgoncino. Non intendeva investire nessuno. Non intendeva uccidere nessuno. Erano troppe le persone che l’avevano notato nel ristorante. Le autorità non si sarebbero preoccupate di acciuffare il trionfatore di una normale rissa da strada, soprattutto in considerazione del fatto che erano state le due vittime a lanciarsi contro un solo uomo. Ma la polizia avrebbe sicuramente dato la caccia a un assassino, ed era quindi il caso di fare in modo che i due ragazzi sopravvivessero.

Fischiettando allegramente, girò in direzione di Marina Del Rey e si fermò alla prima stazione di servizio aperta. Mentre il benzinaio era impegnato a fare il pieno, controllare il livello dell’olio e pulire il parabrezza, Frye andò al gabinetto. Si era portato appresso l’occorrente per fare la barba e si diede una rinfrescata.

Durante i viaggi, dormiva sempre nel furgoncino che non offriva certo i comfort di un camper vero e proprio: per esempio, non era dotato di acqua corrente. D’altra parte, era più maneggevole, dava meno nell’occhio ed era molto più anonimo di un camper. Per godere dei vantaggi di una casa viaggiante vera e propria avrebbe dovuto fermarsi tutte le sere in un campeggio, noleggiare gli allacciamenti alla fognatura, alla luce elettrica e alla distribuzione idrica, lasciando quindi nome completo e indirizzo ovunque andasse. Sarebbe stato troppo rischioso. Con una roulotte, avrebbe lasciato una traccia riconoscibile anche dal più malandato fra i cani poliziotto e lo stesso sarebbe stato con gli alberghi. Quando la polizia avesse cominciato a ricercarlo, senza alcun dubbio gli impiegati alla reception avrebbero ricordato quell’uomo alto, incredibilmente muscoloso e con gli occhi azzurri penetranti.

Nel bagno, si sfilò i guanti e si tolse il maglione giallo, si lavò il torace e le ascelle con fazzolettini inumiditi e sapone liquido, si spruzzò una buona dose di deodorante e alla fine si rivestì. Aveva la mania dell’igiene: gli piaceva essere sempre pulito e profumato.

Quando si sentiva sporco, stava male e si deprimeva, arrivando persino ad avere paura. Era come se la sporcizia gli riportasse alla memoria chissà quale esperienza da tempo dimenticata, chissà quale ricordo agghiacciante, facendoglielo rivivere in modo confuso. Le poche volte che era andato a dormire senza lavarsi, i suoi incubi erano stati anche peggiori del solito e si era svegliato urlando di terrore. E anche se in quelle rare occasioni non riusciva a ricordare con precisione il sogno, aveva sempre avuto la sensazione di essere intrappolato in un posto lurido, buio, chiuso, come una fossa scavata sotto terra.

Era proprio per evitare un altro incubo di quel genere che era andato a lavarsi nei gabinetti pubblici, si era fatto la barba con un rasoio elettrico, si era tamponato le guance con un dopobarba, si era lavato i denti e si era scaricato. La mattina seguente, si sarebbe fermato in un’altra stazione di servizio a ripetere le stesse procedure, indossando vestiti puliti.

Pagò il benzinaio e tornò verso Marina Del Rey, facendosi strada nella nebbia sempre più fitta. Posteggiò il furgone sullo stesso molo da cui aveva telefonato a Napa County. Uscì all’aria aperta e si diresse verso la cabina telefonica, dove compose lo stesso numero di poche ore prima.

«Pronto?»

«Sono io,» rispose Frye.

«Il peggio è passato.»

«Ha chiamato la polizia?»

«Sì.»

Parlarono per un paio di minuti, poi Frye tornò al furgoncino. Spiegò il materasso nella parte posteriore e accese la torcia che teneva sempre in macchina. Non sopportava il buio completo. Non riusciva a prendere sonno senza uno spiraglio di luce che filtrava da sotto la porta o anche un lumicino che bruciava nella notte. Nell’oscurità iniziava a immaginare strane creature che gli strisciavano addosso, che gli balzavano sulla faccia, che stridevano sulla sua pelle. Senza luce, veniva assalito da sussurri appena accennati ma minacciosi che gli capitava di udire anche qualche secondo dopo là fine dell’incubo. Sussurri agghiaccianti che gli facevano contorcere le budella e sobbalzare il cuore.

Se fosse riuscito a identificare la fonte di quei sussurri o comunque a capire quello che cercavano di dirgli, avrebbe compreso meglio anche i suoi incubi. Sarebbe venuto a conoscenza della causa di quei sogni ricorrenti, del suo terrore e forse sarebbe stato capace di liberarsi di quella prigionia.

Ma ogni volta che si risvegliava e sentiva i sussurri, ogni volta che percepiva l’ultima parte del sogno, non era nelle condizioni di rimanere ad ascoltare e di analizzare la situazione: veniva sempre preso dal panico e il suo unico desiderio era di liberarsi di quei sussurri.

Cercò di addormentarsi alla luce della torcia, ma non ci riuscì. Continuava a rigirarsi. La mente prese a correre. Era completamente sveglio.

Evidentemente era l’idea di non aver finito il lavoro con quella donna che gli impediva di prendere sonno. Si era tanto preparato a quell’omicidio e poi se l’era fatta sfuggire. Era nervoso. Si sentiva vuoto e incompleto.

Aveva cercato di calmare la fame che provava nei confronti di quella donna riempiendosi lo stomaco. Non essendoci riuscito, aveva cercato di distrarsi la mente provocando la rissa con i due messicani. Il cibo e la fatica fisica erano stati i due trucchetti di cui si era sempre servito per acquietare i suoi istinti sessuali e per zittire la voglia di sangue che spesso gli bruciava nelle viscere. A lui piaceva il sesso, un sesso brutale e violento che nessuna donna avrebbe mai accettato, quindi doveva soddisfarsi in altro modo. Gli piaceva uccidere e per questo trascorreva ore e ore a sollevare pesi finché non si sentiva i muscoli di gelatina e la sete di violenza svaniva completamente. Gli psichiatri la chiamavano sublimazione. Ma ultimamente era sempre più difficile annullare i suoi appetiti insaziabili.

Continuava a pensare a quella donna.

Al suo corpo levigato.

Alla pienezza dei suoi fianchi e dei suoi seni.

Hilary Thomas.

No. Era solo una copertura.

Katherine.

Era quello il suo vero nome.

Katherine. Katherine, la puttana. In un corpo nuovo.

Chiudendo gli occhi, riuscì a immaginarla nuda sul letto, inchiodata sotto di lui, con le cosce spalancate, mentre si contorceva, si dimenava, tremando come una lepre davanti alla canna di un fucile. Riusciva a vedere la sua mano che passava sul seno generoso, sul ventre, sulle cosce, sulla montagnetta del sesso… e poi l’altra mano che sollevava il coltello e lo lasciava andare, conficcando la lama affilata nella carne, mentre il sangue iniziava a schizzare. Riusciva a vedere il terrore e il dolore lancinante nei suoi occhi, intanto che le lacerava il petto alla ricerca del cuore da strappare mentre ancora palpitava. Riusciva quasi a sentire il suo sangue caldo e a odorarne la fragranza quasi metallica. Mentre quella visione gli riempiva la mente e prendeva possesso dei suoi sensi, percepì i testicoli che si indurivano, il pene che si contorceva e si rizzava come un secondo coltello e, oh, come avrebbe voluto affondarlo dentro di lei, dentro quel corpo meraviglioso. Prima il pene turgido e pulsante, poi la lama del coltello, per trasmetterle le sue paure e le sue debolezze con un’arma e per succhiarle la forza e la vitalità con l’altra.

Riaprì gli occhi.

Stava sudando.

Katherine. La puttana.

Per trentacinque anni aveva vissuto nella sua ombra e aveva condotto un’esistenza miserabile e permeata dalla paura. Cinque anni prima, era morta di una malattia cardiaca e per la prima volta in vita sua aveva assaggiato il sapore della libertà. Ma continuava a resuscitare, fingendo di essere un’altra, alla ricerca di un modo per riprendere il controllo che aveva sempre avuto su di lui.

Voleva usarla e ammazzarla per dimostrarle che non gli faceva più paura. Che non aveva più alcun potere su di lui. Che ormai era lui il più forte.

Allungò la mano verso gli stracci di pelle scamosciata appoggiati dietro il materasso, li slegò e ne estrasse il coltello di riserva.

Non sarebbe riuscito a dormire se non l’avesse ammazzata.

Quella sera.

Sicuramente non si sarebbe aspettata di rivederlo così presto.

Diede un’occhiata all’orologio. Mezzanotte.

La gente stava tornando a casa dai cinema, dai ristoranti, dalle feste. Ben presto, le strade sarebbero state deserte, le abitazioni buie e silenziose e sarebbero diminuite le possibilità che qualcuno lo notasse e avvertisse la polizia.

Decise di partire alla volta di Westwood alle due in punto.

3

Arrivò il fabbro, cambiò le serrature della porta principale e di quella sul retro e si diresse a Hancock Park per un altro lavoro.

Gli agenti Farmer e Whitlock se ne andarono.

Hilary rimase sola.

Non pensava che sarebbe riuscita a dormire, ma soprattutto era sicura che non avrebbe potuto coricarsi nel suo letto. Quando fece per entrare in quella stanza, davanti agli occhi le si presentarono vivide immagini di terrore. Frye che buttava giù la porta, avanzava verso di lei con quel sorriso demoniaco stampato sul viso, si avvicinava inesorabilmente al letto, improvvisamente ci saltava sopra, correndo sul materasso con il coltello in alto… Come già le era successo, per uno strano gioco della mente, il ricordo di Frye si confondeva con quello del padre, così che per un attimo ebbe la terribile sensazione che fosse stato Earl Thomas, uscito dalla tomba, a tentare di ucciderla. Ma non erano solo quelle vibrazioni demoniache a tenerla lontano dalla stanza. Non voleva dormire nella sua camera finché la porta danneggiata non fosse stata sostituita, cosa che non avrebbe potuto essere fatta prima dell’indomani, dopo aver trovato un falegname. Quella porta non aveva resistito a lungo agli attacchi di Frye e Hilary aveva deciso di sostituirla con una di legno più pesante con la serratura in ottone. Ma se Frye fosse tornato quella notte e fosse riuscito in qualche modo a introdursi in casa, avrebbe potuto entrare tranquillamente nella sua stanza mentre lei dormiva, ammesso che fosse riuscita a prendere sonno.

Prima o poi sarebbe tornato. Ne era sicura come mai le era capitato in vita sua.

Sarebbe potuta andare in un albergo, ma non era da lei. Sarebbe stato come nascondersi, fuggire. Hilary era molto orgogliosa del suo coraggio. Non era mai fuggita da niente e da nessuno; aveva sempre combattuto con tutta la sua ingenuità e la sua forza. Non era fuggita nemmeno dai suoi genitori violenti e insensibili. Non aveva neanche cercato di cancellare il ricordo di quegli ultimi avvenimenti mostruosi e cruenti accaduti nel piccolo appartamento di Chicago; non aveva accettato quel genere di pace che deriva dalla pazzia o dalla comoda amnesia, metodi che di solito la maggior parte della gente utilizza per fuggire dai ricordi sconvolgenti. Non si era mai tirata indietro di fronte alle infinite sfide che aveva incontrato mentre lottava per farsi strada a Hollywood, prima come attrice e poi come sceneggiatrice. Era andata al tappeto molte volte, ma era sempre riuscita a rimettersi in piedi. Sempre. Aveva tenuto duro, aveva combattuto e aveva vinto. Avrebbe vinto quell’assurda battaglia con Bruno Frye, anche se avesse dovuto combattere da sola.

Maledetta polizia!

Decise di dormire in una delle camere degli ospiti, dove c’era una porta che avrebbe potuto chiudere e bloccare dall’interno. Mise le lenzuola e una coperta sul letto matrimoniale e appese gli asciugamani nel bagno degli ospiti.

Andò di sotto, rovistò nei diversi cassetti della cucina, tirò fuori una serie di coltelli e ne esaminò il peso e le lame. Quello da macellaio sembrava il più adatto, ma in mano sua era troppo ingombrante. Non sarebbe stato di grande aiuto in una lotta a corpo a corpo, perché avrebbe avuto bisogno di spazio per riuscire a vibrare un colpo deciso. Avrebbe potuto essere un’ottima arma d’attacco, ma non era adatta per l’autodifesa. Scelse invece un normale coltello con una lama di nove centimetri, abbastanza piccolo da poter stare nella tasca della vestaglia, ma sufficientemente grande da provocare serie ferite in caso di bisogno.

Il pensiero di affondare la lama nella carne di un altro essere umano la disgustava, ma sapeva che lo avrebbe fatto se la sua vita fosse stata in pericolo. Spesso, durante l’infanzia, aveva nascosto un coltello in camera sua, sotto il materasso. Si trattava di un’assicurazione contro gli improvvisi attacchi di violenta pazzia del padre. L’aveva usato una sola volta, l’ultimo giorno, quando Earl aveva cominciato ad avere le allucinazioni derivanti dal delirium tremens e dalla pazzia pura. Aveva visto giganteschi vermi uscire dal muro e granchi immensi che cercavano di entrare dalla finestra. In un impeto di furia schizofrenica e paranoica, Earl aveva trasformato il piccolo appartamento in un fetido ossario e Hilary si era salvata solo grazie al coltello.

Un coltello non era certo paragonabile a una pistola. Sarebbe riuscita a usarlo solo quando Frye fosse stato sopra di lei e forse sarebbe stato troppo tardi. Ma era tutto quello di cui disponeva. I poliziotti si erano portati via la sua calibro 32 automatica quando se n’erano andati, subito dopo il fabbro.

Che vadano all’inferno!

Dopo che gli investigatori Clemenza e Howard avevano lasciato la casa, Hilary e l’agente Farmer avevano avuto uno scontro verbale sulle leggi che regolavano il possesso di un’arma. Al solo pensiero, andò su tutte le furie.

«Miss Thomas, per quanto riguarda la pistola…»

«Che cosa c’è?»

«Deve avere un porto d’armi per tenerla in casa.»

«Lo so e infatti ce l’ho.»

«Posso vederlo?»

«E nel cassetto del comodino. Lo tengo vicino alla pistola.»

«Le spiace se l’agente Whitlock va a prenderlo?»

«Faccia pure.»

Un paio di minuti dopo:

«Miss Thomas, vedo che una volta abitava a San Francisco.

«Ci sono rimasta circa otto mesi. Ho lavorato in alcuni spettacoli teatrali quando cercavo di sfondare come attrice.»

«Su questo documento è riportato l’indirizzo di San Francisco.»

«Avevo affittato un appartamento a North Beach perché costava meno. A quel tempo non avevo molte possibilità economiche. E una donna sola in quel quartiere aveva sicuramente bisogno di una pistola.»

«Miss Thomas, non sa che bisogna chiedere un nuovo permesso quando ci si trasferisce in un’altra città?»

«No.»

«Davvero non lo sa?»

«Senta, io scrivo film. Non mi occupo di armi da fuoco.»

«Se si tiene una pistola in casa, bisogna conoscere le leggi che ne governano la registrazione per l’utilizzo.»

«Va bene, va bene. La denuncerò al più presto.»

«Il punto è che, se la rivuole indietro, deve denunciarla immediatamente.»

«Come sarebbe a dire se la rivoglio?»

«Non posso restituirgliela.»

«Sta scherzando?»

«È la legge, Miss Thomas.»

«Vuol dire che ha intenzione di lasciarmi qui da sola e senza nemmeno una pistola?»

«Non credo ci sia da preoccuparsi…»

«Chi le ha messo in testa un’idea del genere?»

«Sto solo facendo il mio lavoro.»

«Gliel’ha detto Howard, non è vero?»

«Il tenente Howard mi ha consigliato di controllare il porto d’armi, ma non ha…»

«Cristo!»

«Non deve far altro che venire alla centrale, pagare la tassa, compilare un nuovo modulo per ottenere il porto d’armi e noi le restituiremo la pistola.»

«E se Frye dovesse tornare questa notte?»

«È molto improbabile, Miss Thomas.»

«Ma se dovesse succedere?»

«Ci chiami. Ci saranno delle pattuglie in questa zona. Correremo qui e…»

«… giusto in tempo per chiamare un prete e un’agenzia di pompe funebri.»

«Non ha niente da temere ma…»

«Temere? Mi dica, agente Farmer, dovete seguire un corso di frasi fatte prima di diventare piedipiatti?»

«Sto solo facendo il mio dovere, Miss Thomas.»

«Ah… lasciamo perdere.»

Farmer si era portato via la pistola e Hilary aveva imparato una lezione preziosa. Il dipartimento di polizia faceva parte del governo e non ci si poteva certo fidare. Se il governo non riusciva a far quadrare il proprio bilancio e a ridurre l’inflazione, se non riusciva a porre fine alla corruzione dilagante nei suoi uffici, se iniziava persino a perdere il potere e i mezzi per mantenere un esercito e proteggere la nazione, perché mai avrebbe dovuto impedire a un maniaco di farla a pezzi?

Aveva già imparato da tempo che non era facile trovare qualcuno su cui fare affidamento. Non certo i suoi genitori, né i parenti: nessuno voleva essere coinvolto. Nemmeno quei ciarlatani degli assistenti sociali, ai quali si era rivolta in cerca d’aiuto quando era bambina. Né la polizia. Anzi, era sempre più convinta di poter contare solo su se stessa.

E va bene, pensò furiosa. Okay. Me la vedrò io con Bruno Frye.

Come?

In qualche modo.

Uscì dalla cucina con il coltello in mano, si diresse verso il mobile bar rivestito di specchi, incassato in una nicchia tra il soggiorno e lo studio e si versò una dose generosa di Remy Martin in un bicchiere di cristallo. Portò nella camera degli ospiti il coltello e il brandy, e spense tutte le luci, quasi in segno di sfida.

Chiuse a chiave la porta della stanza e cercò qualcosa per barricarla. Contro la parete, era appoggiato un cassettone, un mobile massiccio in pino scuro, più alto di lei. Pesava troppo per riuscire a spostarlo, ma Hilary risolse il problema togliendo tutti i cassetti e mettendoli da parte. Trascinò il mobile sul tappeto, lo spinse contro la porta e rimise i cassetti al loro posto. A differenza di molti cassettoni, questo non aveva gambe; poggiava sul pavimento e aveva un baricentro relativamente basso che lo rendeva un ostacolo praticamente insormontabile per chiunque avesse cercato di entrare.

Andò in bagno, appoggiò il coltello e il brandy sul pavimento, riempì la vasca, si spogliò e si immerse lentamente nell’acqua calda. Da quando era rimasta immobilizzata sotto il corpo di Frye, sul pavimento della camera da letto, e aveva sentito la mano dell’uomo palparle l’inguine, strappandole gli slip, si era sentita sporca, contaminata. Si insaponò con grande soddisfazione e nell’aria si diffuse un gradevole profumo di lillà. Si strofinò con forza con una spugna, fermandosi solo di tanto in tanto per sorseggiare il Remy Martin. Quando si sentì finalmente pulita, appoggiò la saponetta e si immerse ancora di più nell’acqua profumata. Il vapore l’avvolgeva e il brandy la riscaldava internamente: la piacevole combinazione di calore interno ed esterno fece comparire qualche goccia di sudore sulla fronte. Chiuse gli occhi e si concentrò sul contenuto del bicchiere di cristallo.

Il corpo umano non resiste a lungo senza il giusto sostentamento. Il corpo, dopotutto, è una macchina meravigliosa composta da molti tipi di tessuti e liquidi, sostanze chimiche e minerali, un sofisticato insieme con un motore centrale e altri piccoli congegni, un sistema di lubrificazione e uno di ventilazione, diretti dal computer-cervello, con ingranaggi costituiti dai muscoli e una struttura in calce. Per funzionare, questa macchina ha bisogno di diversi elementi, fra i quali l’alimentazione, il riposo e il sonno. Hilary era convinta che non sarebbe riuscita a dormire dopo quello che era successo, che avrebbe trascorso la notte con le orecchie tese come un gatto, pronta a cogliere il minimo segnale di pericolo. Ma quella sera aveva già disperso molte energie e, nonostante la mente si rifiutasse di rilassarsi, il suo inconscio sapeva che era necessario e inevitabile. Quando finì il brandy, il sonno le impediva quasi di tenere gli occhi aperti.

Uscì dalla vasca, aprì lo scarico e si asciugò con un soffice telo, mentre l’acqua scorreva via gorgogliando. Raccolse il coltello e uscì dal bagno, lasciando la luce accesa e la porta socchiusa. Spense le luci della stanza. Muovendosi languidamente nel morbido scintillio e fra le ombre vellutate, appoggiò il coltello sul comodino e scivolò nuda nel letto.

Si sentiva rilassata, come se il calore le avesse ammorbidito le giunture.

Era anche stordita. Effetto del brandy.

Si sdraiò con il viso rivolto verso il cassettone. La barricata era rassicurante. Sembrava solida, impenetrabile. Bruno Frye non sarebbe riuscito a entrare, si disse Hilary. Nemmeno colpendo la porta con la forza di un ariete. Persino un piccolo esercito avrebbe avuto difficoltà a buttarla giù. Neanche un carro armato ce l’avrebbe fatta. E un vecchio, immenso dinosauro? si domandò assonnata. Uno di quei tirannosauri che comparivano nei film comici sui mostri. Godzilla. Godzilla sarebbe forse riuscito a sfondare quella porta…?

Giovedì mattina, alle due, Hilary si addormentò.


Giovedì mattina alle due e venticinque, Bruno Frye passò lentamente davanti alla casa di Hilary. La nebbia si era spostata verso Westwood, ma non era fitta come nei pressi dell’oceano. Riusciva a vedere la casa abbastanza chiaramente e si rese conto che nessuna luce brillava oltre le finestre. Proseguì per due isolati, girò il furgoncino e passò nuovamente davanti alla casa, questa volta persino più lentamente, studiando con attenzione le macchine parcheggiate lungo la strada. Era convinto che i piedipiatti non avrebbero lasciato un uomo a proteggerla, ma non voleva correre rischi. Le macchine erano vuote: non c’era sorveglianza.

Parcheggiò il Dodge fra due Volvo, un paio di isolati più in là, e tornò a piedi verso la casa, attraverso l’oscurità nebbiosa e gli aloni di luce giallognola proiettati dai lampioni.

Attraversando il prato, le scarpe affondarono nell’erba bagnata di rugiada, emettendo un suono che gli ricordò quanto fosse eterea la notte.

Si accovacciò vicino a un cespuglio di oleandro e si guardò alle spalle. Non era scattato alcun allarme. Nessuno lo aveva notato.

Proseguì verso il retro e scavalcò il cancello. Seguì con gli occhi il muro e vide un piccolo quadretto di luce al secondo piano. A giudicare dalle dimensioni, doveva essere la finestra del bagno; la vetrata più a destra lasciava intravedere leggeri tremolii di luce ai bordi delle tende.

Lei era là.

Ne era sicuro.

Avvertiva la sua presenza. Ne sentiva l’odore.

La puttana.

Aspettava di essere presa e usata.

Aspettava di essere uccisa.

Vuole forse uccidermi? si domandò.

Rabbrividì. La voleva, si sentiva eccitato, ma allo stesso tempo ne aveva paura.

Fino ad allora, era sempre morta con facilità. Si era sempre reincarnata in un nuovo corpo, nascosta dietro un altro viso, ma era sempre morta senza lottare. Quella sera, invece, Katherine era stata una vera tigre, incredibilmente forte, lucida e impavida. Era una condizione nuova e non gli piaceva.

Ciononostante, doveva tornare da lei. Se non l’avesse seguita da un’incarnazione all’altra, se non avesse continuato a ucciderla fino a quando non fosse più rinata, non avrebbe mai trovato la pace.

Non cercò di aprire la porta della cucina con le chiavi che aveva rubato dalla borsa di Hilary il giorno in cui era andata da lui. Probabilmente aveva fatto montare una nuova serratura. E anche se la donna non avesse preso queste precauzioni, non sarebbe riuscito comunque a entrare. Martedì sera, la prima volta che aveva cercato di introdursi in casa, la donna era là e lui aveva scoperto che era impossibile aprire la serratura con la chiave se era stata bloccata dall’interno. Quella superiore era scattata senza problemi, ma quella inferiore si poteva aprire solo se veniva chiusa dall’esterno, con una chiave. Così aveva dovuto rinunciarci e tornare la sera successiva, mercoledì, otto ore prima, mentre lei era fuori a cena ed entrambe le chiavi erano utilizzabili. Ma ora lei c’era, e anche se non aveva cambiato la serratura, aveva sicuramente fatto scattare dall’interno uno di quei chiavistelli speciali, impedendo così l’ingresso, indipendentemente dal tipo di chiave.

Si diresse verso l’angolo della casa, vicino a una grande finestra che si affacciava sul giardino. Era divisa in pannelli di vetro da sottili strisce scure di legno laccato. Dall’altra parte si intravedeva lo studio tappezzato di libri. Estrasse una torcia dalla tasca, l’accese e diresse il fascio di luce contro la finestra. Socchiudendo gli occhi, cercò la sporgenza del davanzale e la sbarra orizzontale centrale, finché localizzò la serratura, poi spense la torcia. Aveva un rotolo di nastro adesivo gommato e cominciò a strapparne alcune strisce, ricoprendo il piccolo pannello di vetro più vicino alla serratura. Quando il quadrato fu completamente coperto, sferrò un unico colpo deciso con la mano guantata per frantumarlo. Il vetro si ruppe quasi senza rumore rimanendo attaccato al nastro. Frye fece scivolare dentro la mano e aprì la finestra, la sollevò e si introdusse nello studio. Evitò per un pelo di fare un frastuono infernale andando a sbattere contro un tavolino.

In piedi, al centro della stanza, con il cuore che martellava, Frye tese l’orecchio per avvertire eventuali rumori all’interno della casa.

Regnava il silenzio.

Lei era in grado di risorgere dal regno dei morti e di incarnarsi in un’altra persona, ma evidentemente quello era il limite dei suoi poteri soprannaturali. Ovviamente non poteva vedere e sapere tutto. Era in casa sua, ma lei non lo sapeva ancora.

Sogghignò.

Con la mano destra estrasse il coltello dal fodero fissato alla cintura.

Con la pila nella mano sinistra, scivolò silenziosamente attraverso tutte le stanze del pianterreno. Erano buie e deserte.

Salendo le scale che conducevano al primo piano, si mantenne rasente al muro, nel caso i gradini scricchiolassero. Raggiunse il pianerottolo senza fare il benché minimo rumore.

Esplorò le camere da letto, ma non trovò niente di interessante finché non si avvicinò all’ultima stanza sulla sinistra. Gli sembrò di notare una luce filtrare da sotto la porta e spense la pila. Nel corridoio buio quella debole luce argentata era sufficiente a renderla visibile. Si diresse verso la porta e girò lentamente il pomello. Chiusa.

L’aveva trovata.

Katherine.

Che si faceva passare per una certa Hilary Thomas.

La puttana. La sporca puttana.

Katherine, Katherine, Katherine…

Mentre quel nome gli riecheggiava nella mente, strinse la mano attorno al coltello e lo agitò con piccoli movimenti decisi, come se la stesse accoltellando.

Allungandosi per terra con il viso a livello del pavimento, Frye guardò attraverso lo spiraglio sotto la porta. Un mobile, forse un cassettone, era stato spinto contro la porta all’interno della stanza. Qualche debole raggio di luce, proveniente da un punto imprecisato sulla destra, riusciva comunque a filtrare sotto l’uscio.

Frye era deliziato da quel poco che riusciva a vedere e si sentì invadere da un’ondata di ottimismo. Si era barricata dentro e questo significava che quella sporca puttana aveva paura di lui. Lei aveva paura di lui. Anche se sapeva come resuscitare dalla tomba, aveva paura di morire. O forse sapeva o avvertiva che questa volta non sarebbe più riuscita a tornare in vita. Sarebbe stato maledettamente preciso nel sistemare il cadavere, molto più scrupoloso di quando si era occupato degli altri corpi di donna, di cui lei aveva assunto le fattezze. Le avrebbe strappato il cuore. Glielo avrebbe trafitto con un paletto di legno. Le avrebbe tagliato la testa. Riempito la bocca di aglio. Aveva anche l’intenzione di portarsi via la testa e il cuore, quando se ne fosse andato. Avrebbe sepolto quei macabri trofei in tombe separate, nel terreno consacrato di due cimiteri diversi, lontano dal resto del corpo. Apparentemente, lei si rendeva conto che questa volta intendeva prendere particolari precauzioni, perché gli stava resistendo con una furia e una fermezza mai mostrate prima.

Nella stanza regnava il silenzio.

Stava dormendo?

No, decise. Era troppo spaventata per poter dormire. Probabilmente era seduta sul letto con la pistola in mano.

Se l’immaginò come un topo che si nasconde per sfuggire al gatto: si sentì forte, potente come una forza della natura. Sentiva l’odio ribollirgli dentro. Voleva che si agitasse e tremasse per la paura, come aveva fatto lui per tanti anni. Improvvisamente, provò l’impulso di gridare: voleva urlare il suo nome, Katherine, Katherine… e maledirla. Riuscì a controllarsi solo con un enorme sforzo che gli imperlò la fronte di sudore e gli riempì gli occhi di lacrime.

Si alzò e rimase immobile al buio, considerando le diverse alternative. Avrebbe potuto scagliarsi contro la porta, buttarla giù e spostare il mobile, ma sarebbe stato un suicidio. Non sarebbe riuscito a eliminare la barricata abbastanza velocemente da coglierla di sorpresa. Lei avrebbe avuto tutto il tempo di prendere la mira e scaricargli in corpo una dozzina di proiettili. L’altra alternativa era aspettare che lei uscisse. Se fosse rimasto nel corridoio e non avesse fatto rumore per tutta la notte, con il passare delle ore lei avrebbe abbassato la guardia. Al mattino avrebbe pensato che ormai era salva e che lui non sarebbe tornato mai più. Quando fosse uscita dalla stanza, l’avrebbe afferrata e trascinata sul letto prima ancora che lei si rendesse conto di quello che stava succedendo.

Frye attraversò il corridoio e si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete.

Dopo pochi minuti, cominciò a sentire dei fruscii, dei leggeri passi frettolosi nel buio.

È solo la mia immaginazione, si disse. Quella paura a lui tanto familiare.

Ma, improvvisamente, sentì qualcosa che gli strisciava sulla gamba, sotto i pantaloni.

Non c’è niente, cercò di convincersi.

Qualcosa di orribile e non identificabile gli scivolò sotto la manica e si arrampicò sul braccio mentre qualcosa di piccolo e mortale gli correva sulla spalla fino al collo. Si dirigeva verso la bocca. Serrò le labbra. La cosa proseguì verso gli occhi. Strinse gli occhi. Continuò verso le narici e Frye si passò freneticamente la mano sul viso: non riuscì a trovarla, non riuscì a scacciarla. No!

Accese la torcia. Era l’unica creatura vivente nel corridoio. Non c’era niente che si muovesse sotto i pantaloni. Niente nelle maniche. Niente sul viso.

Fu scosso dai brividi.

Lasciò la torcia accesa.


Giovedì mattina alle nove, Hilary fu svegliata dal telefono. C’era un apparecchio nella stanza degli ospiti. Il volume della suoneria era stato messo per sbaglio al massimo, probabilmente da qualcuno dell’impresa di pulizie che chiamava di tanto in tanto. L’improvviso suono acuto e stridente interruppe il sonno di Hilary che si ritrovò seduta sul letto.

Era Wally Topelis. Mentre faceva colazione, aveva letto sul giornale l’articolo relativo all’aggressione. Era sconvolto e preoccupato.

Prima di aggiungere qualcosa a quanto riportato dal giornale, gli chiese di leggerle l’articolo. Fu contenta di sentire che si trattava di un articoletto di poche righe in sesta pagina, con una fotografia minuscola. Era interamente basato sulle scarne informazioni che lei e il tenente Clemenza avevano fornito ai giornalisti la notte prima. Non si faceva alcun accenno a Bruno Frye, o all’investigatore Frank Howard che la considerava una bugiarda. La stampa era arrivata e se n’era andata giusto in tempo per perdere i particolari succosi che avrebbero permesso all’intera vicenda di finire in una delle prime pagine.

Raccontò tutto a Wally che parve offeso. «Quello stupido, dannatissimo piedipiatti! Se soltanto si fosse sforzato di scoprire qualcosa di più su di te, sul genere di persona che sei, si sarebbe accorto che non avresti mai potuto inventare una storia simile. Ascolta, piccola, me ne occuperò io. Non preoccuparti. Entrerò in azione.»

«Come?»

«Devo chiamare alcune persone.»

«Chi?»

«Che cosa ne dici del capo della polizia, tanto per cominciare?»

«Oh, certo.»

«Vedi, mi deve alcuni favori,» proseguì Wally. «Negli ultimi cinque anni, chi credi abbia organizzato lo spettacolo di beneficenza della polizia? Chi credi che abbia convinto alcune delle star più famose di Hollywood a partecipare senza ricevere un soldo? Chi credi abbia trovato cantanti, attori e prestigiatori disposti a lavorare gratis per la polizia?»

«Tu?»

«Certo, dannazione. Proprio io.»

«Ma che cosa può fare?»

«Può riaprire il caso.»

«Anche se uno dei suoi uomini giura che si tratta di uno scherzo?»

«Il suo uomo è malato nel cervello.»

«Ho il sospetto che questo Frank Howard abbia delle ottime credenziali,» disse.

«E allora significa che giudicano i loro uomini in modo penoso. O si accontentano di poco o sono tutti fuori di testa.»

«Credo comunque che non sarà molto facile convincere il capo della polizia.»

«So essere molto persuasivo, agnellino mio.»

«Ma, anche ammesso che lui ti debba un favore, come può riaprire il caso senza alcuna prova concreta in mano? Può anche darsi che sia il capo, ma dovrà pur seguire le regole.»

«Senti, almeno potrà parlare con lo sceriffo di Napa County.»

«E lo sceriffo Laurenski ripeterà la stessa storia che ha riferito la scorsa notte. Dirà che Frye era a casa a preparare una torta o cose del genere.»

«E allora lo sceriffo è uno stupido incompetente che si è fatto fregare da qualcuno che lavora per Frye. Oppure un bugiardo. O forse è persino coinvolto con Frye in qualche modo.»

«Prova ad andare dal capo con questa teoria,» proseguì, «e ci accuseranno di essere entrambi schizofrenici e paranoici.»

«Se non riuscirò a ottenere niente dai piedipiatti,» sbottò Wally, «vorrà dire che mi rivolgerò a una squadra di investigatori.»

«Investigatori privati?»

«Conosco un’agenzia specializzata. Sono in gamba. Decisamente meglio di molti poliziotti. Indagheranno a fondo sulla vita di Frye e scopriranno ogni minimo segreto. Riusciranno sicuramente a trovare una traccia che farà riaprire il caso.»

«Ma non costerà un sacco di soldi?»

«Faremo a metà,» rispose.

«Oh, no.»

«Oh, sì.»

«E molto generoso da parte tua, ma…»

«Non si tratta di generosità. Tu sei un bene estremamente prezioso, agnellino mio. Mi spetta una percentuale sui tuoi guadagni e quindi considera i soldi spesi per gli investigatori privati come una forma di assicurazione. Voglio solo proteggere i miei interessi.»

«Stai parlando a vanvera e lo sai bene,» lo rimproverò. «Sei molto generoso, Wally. Ma per il momento non assumere nessuno. L’altro investigatore di cui ti ho parlato, Clemenza, ha detto che si sarebbe fermato da me questo pomeriggio per vedere se ricordavo qualcosa di nuovo. Sono convinta che creda ancora alle mie parole, ma è un po’ confuso perché Laurenski ha decisamente ingarbugliato la mia storia. Credo che Clemenza troverà una scusa qualsiasi per poter riaprire il caso. Lascia che prima gli parli. Se la situazione non si sbloccherà, potremo assumere i tuoi investigatori privati.»

«Bene… D’accordo,» bofonchiò Wally con riluttanza. «Ma nel frattempo dirò loro di mandare un uomo per proteggerti.»

«Wally, non ho bisogno di una guardia del corpo.»

«Invece sì, dannazione.»

«Sono rimasta al sicuro tutta la notte e poi…»

«Ascolta, piccola, ti manderò lì qualcuno. Ormai ho deciso. E non provare a discutere con lo zio Wally. Se non lo farai entrare, rimarrà in piedi davanti alla porta d’ingresso come la guardia di un palazzo.»

«Davvero, io…»

«Prima o poi,» proseguì Wally dolcemente, «dovrai renderti conto che non puoi affrontare sempre tutto da sola, contando esclusivamente sulle tue forze. Nessuno lo fa. Nessuno, piccola. Prima o poi tutti hanno bisogno di una mano. Avresti dovuto chiamarmi ieri sera.»

«Non volevo disturbarti.»

«Per l’amor del cielo, non mi avresti disturbato! Io sono tuo amico, anzi, il fatto che tu non mi abbia disturbato, mi disturba ancora di più. Bambina mia, è una bella cosa essere forti, indipendenti e pieni di fiducia in se stessi. Ma quando esageri, quando ti isoli in questo modo è come se prendessi a sberle tutti quelli che ti vogliono bene. Allora, lascerai entrare la guardia che ti sto mandando?»

Hilary sospirò. «Va bene.»

«Bene. Sarà da te fra un’ora. Mi chiamerai quando avrai finito di parlare con Clemenza?»

«D’accordo.»

«Promesso?»

«Lo prometto.»

«Hai dormito, questa notte?»

«Sì. Sembra incredibile.»

«Se non hai riposato abbastanza,» proseguì, «fai un pisolino questo pomeriggio.»

Hilary scoppiò a ridere. «Saresti una stupenda mamma ebraica.»

«Forse questa sera ti porterò una bella tazza di brodo caldo. Arnvederci, piccola.»

«Arnvederci, Wally. Grazie di avermi chiamato.»

Riappese il ricevitore e lanciò un’occhiata al cassettone appoggiato contro la porta. Dopo una notte tanto tranquilla quella barricata sembrava ridicola. Wally aveva ragione: il modo migliore per risolvere l’intera faccenda era quello di assumere guardie del corpo ventiquattr’ore su ventiquattro e di lanciare una squadra di investigatori privati di prim’ordine sulle tracce di Frye. La sua idea di affrontare il problema da sola era semplicemente ridicola. Non poteva certo sprangare le finestre e combattere la Battaglia di Alamo contro Frye.

Balzò fuori del letto, si infilò la vestaglia di seta e si diresse verso il cassettone. Tolse i cassetti e li mise da parte. Quando il mobile fu sufficientemente leggero per essere spostato, lo allontanò dalla porta e lo rimise al suo posto, stando attenta ad appoggiarlo sui segni lasciati sul tappeto. Poi sistemò i cassetti.

Tornò al comodino, afferrò il coltello e sorrise ripensando a quanto era stata ingenua. Un combattimento a faccia a faccia con Bruno Frye? Uno scontro con un maniaco? Come aveva potuto pensare di avere anche solo una possibilità? Frye era molto più forte di lei. Ed era già stata fortunata la notte precedente a riuscire a sfuggirgli. Grazie a Dio, era riuscita ad afferrare la pistola. Ma se avesse provato a lottare, l’avrebbe fatta a pezzi.

Decise di riportare il coltello in cucina e di vestirsi prima che arrivasse la guardia del corpo. Andò verso la porta, girò la chiave, l’apri, fece un passo nel corridoio e lanciò un urlo quando Bruno Frye l’afferrò mandandola a sbattere contro il muro. La testa colpì la parete con un rumore sordo e Hilary si sforzò di scacciare il velo oscuro che le si stava formando davanti agli occhi. Lui l’afferrò per la gola con la mano destra, immobilizzandola. Con la mano sinistra, le strappò la vestaglia e le strizzò i seni nudi, guardandola con aria maliziosa e chiamandola troia e puttana.

Doveva aver ascoltato la conversazione con Wally, doveva aver capito che la polizia le aveva sequestrato la pistola perché non mostrò il benché minimo segno di paura. Non aveva accennato al coltello con Wally e Frye non era preparato. Gli conficcò la lama nella pancia piatta e muscolosa. Per qualche secondo lui sembrò non accorgersene; fece scivolare la mano dal seno, cercando di infilarle le dita nella vagina. Quando Hilary estrasse il coltello, lui fu colto da una fitta di dolore. Spalancò gli occhi e si lasciò sfuggire un gemito acuto. Hilary continuò a infierire con il coltello, colpendolo sul fianco, proprio sotto le costole. Il viso dell’uomo diventò improvvisamente bianco e untuoso come il lardo. Ululò, mollò la presa e inciampò all’indietro, andando a sbattere contro la parete e facendo cadere un quadro.

Un violento brivido di repulsione attraversò il corpo di Hilary quando si rese conto di ciò che aveva fatto. Ma non lasciò cadere il coltello e si preparò a colpirlo di nuovo nel caso l’avesse aggredita.

Bruno Frye si guardò la pancia, sbalordito. La lama era penetrata in profondità. Dalla ferita fuoriusciva un sottile fiotto di sangue che gli macchiò rapidamente il golf e i pantaloni.

Hilary non rimase ad aspettare che quell’espressione di stupore si trasformasse in rabbia e agonia. Si voltò e si precipitò nella stanza degli ospiti, sbattè la porta e la chiuse a chiave. Per circa mezzo minuto si fermò ad ascoltare i gemiti, le imprecazioni e i goffi movimenti di Frye, chiedendosi se avrebbe avuto ancora la forza necessaria per sfondare la porta. Le parve di udire il corpo dell’uomo che si trascinava pesantemente giù per le scale, ma non poteva esserne certa. Si precipitò al telefono. Con le mani esangui e paralizzate, sollevò il ricevitore e compose il numero del centralino. Chiese di parlare con la polizia.


Quella puttana! Quella fottuta puttana!

Frye fece scivolare una mano sotto il pullover giallo e strinse la ferita che gli aveva squarciato le budella e che sanguinava copiosamente. Cercò di stringerne i lembi, nel tentativo di impedire che la vita gli sfuggisse. Sentì il sangue tiepido che colava attraverso le cuciture dei guanti, bagnandogli le dita.

Non era un dolore insopportabile. Solo una sensazione di caldo nello stomaco. Un pizzicore elettrico lungo il fianco sinistro. Una fitta che si ripeteva a intervalli ritmici, con la stessa cadenza del battito cardiaco. Nient’altro.

Tuttavia, sapeva di essere ferito gravemente e di peggiorare con il passare del tempo. Era incredibilmente debole. La sua grande forza l’aveva abbandonato improvvisamente e completamente.

Stringendosi la pancia con una mano e afferrando la balaustra con l’altra, scese al pianterreno sui gradini instabili come quelli della casa dei fantasmi al luna park: sembravano inclinarsi, beccheggiare e rollare continuamente. Quando giunse in fondo alle scale, era bagnato fradicio di sudore.

All’esterno, gli occhi rimasero feriti dalla luce del sole. Era una delle giornate più luminose che avesse mai visto e il sole implacabile alto nel cielo lo colpiva senza pietà. Era come se gli si riflettesse negli occhi, lanciando minuscole saette sulla superficie del cervello.

Piegandosi sulle ferite e imprecando sottovoce, si trascinò lungo il marciapiede fino a quando raggiunse il furgoncino grigio fumo. Si sistemò al posto di guida e chiuse la portiera che sembrava pesare una tonnellata.

Guidò con una mano lungo Wilshire Boulevard, svoltò a destra, proseguì verso Sepulveda e girò a sinistra alla ricerca di una cabina del telefono al riparo da sguardi indiscreti. Ogni buca nella strada gli provocava una fitta al plesso solare. Le automobili attorno a lui sembravano allungarsi, flettersi e gonfiarsi come se fossero state costruite con un metallo magico: dovette concentrarsi per ridare loro una forma più familiare.

Per quanto stringesse la ferita, il sangue continuava a sgorgare. La sensazione di caldo nello stomaco si fece più intensa. Il pizzicore ritmico si trasformò in una stretta pungente. Ma non avvertiva ancora il dolore lancinante che sarebbe sopraggiunto inevitabilmente.

Guidò per un tratto interminabile prima di individuare una cabina del telefono adatta alle sue esigenze. Era situata in un angolo del posteggio di un supermercato, a circa cento metri dal negozio.

Posteggiò il furgone in un angolo per evitare gli sguardi dei clienti del negozio e degli automobilisti di passaggio. Non era una vera e propria cabina, ma una semplice semicupola di plastica che avrebbe dovuto garantire un ottimo isolamento acustico ma che in realtà non era in grado di attutire i rumori in sottofondo; a ogni modo sembrava in funzione ed era sufficientemente riparata. Dietro, si ergeva un alto muro di cemento che separava il posteggio dal terreno di una casa. A destra, alcuni arbusti e due piccole palme proteggevano il telefono dalla strada laterale che conduceva sulla Sepulveda. Nessuno avrebbe potuto accorgersi che era ferito ed era proprio ciò che desiderava.

Scivolò sul sedile accanto a quello del guidatore e scese dal furgoncino. Quando vide il sangue appiccicoso che colava sulle dita strette attorno alla ferita, si sentì quasi svenire e dovette distogliere lo sguardo. Doveva fare solo tre passi per raggiungere il telefono, ma sembrava lontano mille miglia.

Non riuscì a ricordare il numero della sua carta di credito telefonica, che gli era sempre stato familiare come la data di nascita, così addebitò la chiamata a Napa County.

L’operatore fece squillare il telefono sei volte.

«Pronto?»

«Ho una chiamata a carico del destinatario da un certo Bruno Frye. La accetta?»

«Proceda pure.»

Si udì un leggero suono metallico.

«Sono gravemente ferito. Sto… sto per morire,» mormorò Frye all’uomo a Napa County.

«Oh, Cristo. No. No!»

«Dovrò… chiamare un’ambulanza,» proseguì Frye, «e allora… tutti conosceranno la verità.»

Parlarono per un minuto, entrambi spaventati e confusi.

Improvvisamente, Frye sentì che qualcosa si stava lasciando andare dentro di lui. Qualcosa simile a una molla. Un sacchetto di acqua che si rovesciava. Urlò dal dolore.

Il suo interlocutore a Napa County gridò in segno di solidarietà, come se avvertisse lo stesso tormento.

«Devo… chiamare l’ambulanza,» mormorò Frye.

Riappese.

Il sangue era colato lungo i pantaloni e le scarpe e stava sgocciolando sul marciapiede. Frye sollevò il ricevitore e lo appoggiò sulla mensola di metallo. Prese una moneta con le dita intorpidite ma gli cadde dalla mano e lui rimase a osservarla con aria stupida mentre rotolava sull’asfalto. Cercò un’altra monetina. Si sforzò di stringerla per quanto gli fu possibile. La sollevò come se fosse stata un pesante disco di piombo delle dimensioni di un pneumatico e finalmente riuscì a inserirla nella fessura. Fece per comporre lo zero. Ma non aveva abbastanza forza neppure per compiere quel gesto banale. Le braccia muscolose, le ampie spalle, il torace possente, la schiena robusta, il ventre sodo e le cosce poderose sembravano ormai scomparsi.

Non riusciva a telefonare e non riusciva nemmeno a stare in piedi. Cadde a terra, rotolò su un fianco e si ritrovò a faccia in giù sull’asfalto.

Non riusciva a muoversi.

Non vedeva più nulla. Era cieco.

Era circondato dall’oscurità più completa.

Aveva paura.

Cercò di convincersi che sarebbe ritornato dal mondo dei morti come aveva fatto Katherine. Ritornerò e la prenderò, pensò. Ritornerò. Ma in realtà non ne era molto convinto.

Mentre si sentiva sempre più leggero, ebbe un attimo di incredibile lucidità e si chiese se non si fosse sbagliato a proposito di Katherine che ritornava dal mondo dei morti. Era stata solo la sua immaginazione? Aveva forse ucciso solo le donne che le somigliavano? Donne innocenti? Era un pazzo?

Una nuova esplosione di dolore cancellò quei pensieri, costringendolo a riflettere sull’oscurità soffocante nella quale giaceva.

Sentì qualcosa che si muoveva su di lui.

Qualcosa che strisciava sopra di lui.

Qualcosa che strisciava sulle gambe e sulle braccia.

Qualcosa che strisciava sulla faccia.

Cercò di gridare. Non ci riuscì.

Udì i sussurri.

No!

Le viscere si lasciarono andare.

I sussurri si trasformarono in un rabbioso coro sibilante e lo trascinarono via come un grande fiume oscuro.


Giovedì mattina, Tony Clemenza e Frank Howard localizzarono Jilly Jenkins, una vecchia amica di Bobby «Angelo» Valdez. Jilly aveva incontrato il violentatore e assassino con il viso infantile in luglio, ma da allora non ne aveva più sentito parlare. A quell’epoca, Bobby aveva appena lasciato un lavoro alla Lavanderia Vee Vee Gee sull’Olympic Boulevard. Jilly non sapeva nient’altro.

Vee Vee Gee era un grande edificio a un solo piano che risaliva all’inizio degli anni Cinquanta, dove un’intera squadra di architetti un po’ pazzoidi aveva cercato di affiancare un surrogato di gusto spagnolo a un design puramente funzionale. Tony non era mai riuscito a capire come un architetto, per quanto dotato di scarsa sensibilità, potesse cogliere la bellezza in un incrocio così grottesco. Il tetto con le tegole rosso arancio era costellato da decine di comignoli di mattoni e tubi di sfiato in metallo: da almeno metà delle aperture si levavano nuvole di fumo. Gli stipiti delle finestre erano costruiti in legno scuro e massiccio, come se fosse stata la casa di qualche ricco e potente terrateniente, ma le orribili vetrate da quattro soldi erano coperte di ragnatele. Al posto della veranda c’erano alcune stazioni di carico. I muri erano perpendicolari, gli angoli aguzzi e l’intero edificio ricordava una scatola, praticamente l’opposto delle arcate leggiadre e degli spigoli arrotondati delle costruzioni in autentico stile spagnolo. Quel luogo ricordava una vecchia puttana che indossa abiti di classe, nel disperato tentativo di farsi passare per una signora.

«Perché l’hanno fatto?» chiese Tony scendendo dalla macchina della polizia e chiudendo la portiera.

«Fatto che cosa?» replicò Frank.

«Perché hanno costruito tutti questi edifici disgustosi? A che cosa servono?»

Frank strizzò gli occhi. «Che cosa c’è di tanto disgustoso?»

«Non ti dà fastidio?»

«E una lavanderia. Non abbiamo forse bisogno di lavanderie?»

«Mai avuto un architetto in famiglia?»

«Un architetto? No,» rispose Frank. «Perché me lo chiedi?»

«Semplice curiosità.»

«Sai una cosa? A volte non si capisce un accidente quando parli.»

«Me l’hanno già detto,» replicò Tony.

Quando entrarono nell’ufficio e chiesero di parlare con il proprietario, Vincent Garamalkis, ricevettero un’accoglienza a dir poco glaciale. La segretaria era decisamente ostile. La Lavanderia Vee Vee Gee aveva pagato quattro multe nel corso degli ultimi quattro anni per aver assunto stranieri privi di regolari documenti. La segretaria era convinta che Tony e Frank fossero agenti del Servizio Immigrazione. Divenne leggermente più cordiale quando vide il distintivo della polizia di Los Angeles, ma si decise a collaborare solo quando Tony la convinse che non avevano il benché minimo interesse nella nazionalità delle persone che lavoravano alla Vee Vee Gee. Alla fine, seppure riluttante, ammise che Mr Garamalkis era nei dintorni. Stava per accompagnarli da lui quando il telefono squillò e dovette fornire poche, rapide istruzioni, invitandoli a rintracciarlo da soli.

L’enorme stanzone della lavanderia sapeva di sapone, candeggina e vapore. Era un posto umido, caldo e rumoroso. Le enormi lavatrici industriali sbattevano, ronzavano e si agitavano mentre i giganteschi essiccatori giravano e borbottavano senza sosta. Il suono secco e il sibilo delle stiratrici automatiche innervosirono Tony. La maggior parte degli operai che scaricavano i cestelli, quelli che riempivano le macchine e le donne che contrassegnavano la biancheria disposta su lunghi tavoli parlavano in spagnolo e ad alta voce. Mentre Tony e Frank attraversavano il locale da un capo all’altro, il rumore diminuì poiché gli operai smisero di parlare e li osservarono con aria sospetta.

Vincent Garamalkis era seduto in fondo alla stanza. La scrivania sgangherata era appoggiata su una piattaforma di circa un metro, in modo che il padrone potesse sorvegliare i propri operai. Garamalkis si alzò e si avvicinò al bordo della piattaforma quando li vide arrivare. Era un uomo basso e tarchiato, calvo, con i lineamenti duri e gli occhi color nocciola incredibilmente gentili che contrastavano con il resto del viso. Si bloccò con le mani sui fianchi, come se volesse sfidarli a raggiungerlo.

«Polizia,» esclamò Frank, mostrando il distintivo.

«Sì,» bofonchiò Garamalkis.

«Non siamo dell’Immigrazione,» lo rassicurò Tony.

«Perché dovrei aver paura dell’Immigrazione?» chiese Garamalkis in tono di difesa.

«La sua segretaria ne aveva,» proseguì Frank.

Garamalkis li guardò di traverso. «Io sono pulito. Assumo soltanto cittadini degli Stati Uniti o stranieri con regolare permesso.»

«Oh, certo,» esclamò Frank in tono sarcastico. «Com’è vero che gli orsi non cagano più nei boschi.»

«Senta,» intervenne Tony, «a noi non interessa proprio da dove vengono i suoi operai.»

«E allora che cosa volete?»

«Vorremmo rivolgerle qualche domanda.»

«A proposito di che cosa?»

«Di quest’uomo,» spiegò Frank allungando le tre foto segnaletiche di Bobby Valdez.

Garamalkis le osservò per un attimo. «Che cosa volete sapere?»

«Lo conosce?»

«Perché?»

«Vorremmo rintracciarlo.»

«Per che cosa?»

«È scappato.»

«Che cos’ha fatto?»

«Senta,» sbottò Frank, stanco del tono arrogante dell’uomo, «posso renderle tutto molto semplice o molto complicato. Può rispondere qui oppure in città. E se vuole giocare a fare il duro, possiamo chiamare il Servizio Immigrazione. Non ce ne frega veramente un cazzo se lei assume un mucchio di messicani, ma nel caso in cui non volesse collaborare con noi, faremo in modo che passino tutto al setaccio. Mi sono spiegato? È tutto chiaro?»

Intervenne Tony. «Mr Garamalkis, mio padre era un emigrante italiano. È giunto in questo paese con tutti i documenti in regola e alla fine è diventato cittadino americano. Un giorno ha avuto qualche problema con gli agenti del Servizio Immigrazione. Una stupidaggine a livello burocratico. Ma lo hanno perseguitato per più di cinque settimane. Lo chiamavano continuamente al lavoro e venivano a trovarci a casa alle ore più strane. Hanno chiesto una valanga di carte e documenti, ma quando mio padre li ha procurati, hanno affermato che erano falsi. Ci sono state anche delle minacce. Molte minacce. Gli hanno anche dato il foglio di via prima che tutto fosse chiarito. Ha dovuto rivolgersi a un avvocato anche se non poteva permetterselo e mia madre è quasi impazzita. Quindi si renderà conto che quelli del Servizio Immigrazione non mi sono simpatici. Non muoverei un dito per metterli contro di lei. Non muoverei neppure un fottutissimo dito, Mr Garamalkis. »

L’uomo osservò Tony per un attimo, poi scosse la testa e sospirò: «Non vi fanno incazzare? Voglio dire, un paio di anni fa, quando gli studenti iraniani hanno iniziato a fare casino qui a Los Angeles, rovesciando le automobili e cercando di incendiare le case, forse quei dannati agenti del Servizio Immigrazione hanno pensato almeno per un attimo di cacciarli a pedate nel culo dal nostro paese? Diamine, no! Gli agenti erano troppo occupati a rompere le scatole ai miei operai. Eppure le persone che assumo non distruggono le case degli altri. Non rovesciano le macchine e non lanciano pietre ai poliziotti. Sono bravi e onesti lavoratori. Vogliono solo guadagnarsi da vivere, ed è qualcosa che non possono fare al di là del confine. Sapete perché l’Immigrazione passa il suo tempo a dar loro la caccia? Ora ve lo spiego. Credo di averlo capito. E solo perché i messicani non si ribellano. Non sono fanatici politici o religiosi come la maggior parte degli iraniani. Non sono pazzi e nemmeno pericolosi. E per l’Immigrazione è dannatamente più facile e più sicuro prendersela con questa gente che in genere se ne va senza troppe storie. Ah, questo dannato sistema fa veramente schifo.»

«Capisco benissimo quello che vuole dire,» esclamò Tony. «Per cui se fosse così gentile da dare un’occhiata a queste foto segnaletiche…»

Ma Garamalkis non era pronto per rispondere alle loro domande. Aveva ancora un paio di cose da dire. Interruppe Tony e proseguì: «Quattro anni fa, sono stato multato per la prima volta. Le solite cose. Alcuni degli operai messicani non avevano il permesso di soggiorno, altri lavoravano con i documenti scaduti. Dopo essere finito in tribunale, decisi di rigare diritto. Decisi di assumere solo messicani con i documenti in regola. E se non ne avessi trovati a sufficienza, mi sarei rivolto a cittadini americani. Sapete una cosa? Sono stato uno stupido. Sono stato veramente uno stupido a pensare di poter rimanere nel mondo degli affari in quel modo. Vedete, alla maggior parte dei lavoratori posso offrire soltanto un salario minimo. E anche in questo modo, faccio fatica a campare. Il problema è che gli americani non sono disposti a lavorare per uno stipendio così basso. Un cittadino riceve più soldi dalla previdenza sociale se decide di non lavorare rispetto a quello che potrebbe guadagnare con uno stipendio minimo. E i soldi della previdenza sociale sono esentasse! Così sono praticamente impazzito per due mesi, cercando di trovare gente disposta a lavorare e continuando a mandare avanti la lavanderia. Mi è quasi venuto un infarto. Vedete, i miei principali clienti sono alberghi, motel, ristoranti, parrucchieri… Hanno tutti bisogno di riavere la loro roba velocemente e secondo un calendario prestabilito. Se non avessi ricominciato ad assumere i messicani, avrei dovuto chiudere.»

Frank ne aveva abbastanza. Stava per sbottare in qualcosa di poco gentile quando Tony gli appoggiò una mano sulla spalla e gliela strinse delicatamente, invitandolo a portare pazienza.

«Comunque,» proseguì Garamalkis, «sono d’accordo che non sia giusto offrire le medicine gratuite e roba del genere agli immigrati illegali. Ma non capisco perché sia necessario cacciarli quando in fin dei conti non fanno che accettare lavori che nessun altro vuole svolgere. È ridicolo. È uno schifo.» Sospirò nuovamente, lanciò un’occhiata alle foto di Bobby Valdez che aveva ancora in mano e mormorò: «Sì, conosco questo tipo.»

«Ci hanno detto che lavorava qui.»

«Esatto.»

«Quando?»

«All’inizio dell’estate, credo. In maggio. Forse anche in giugno.»

«Dopo che se l’è svignata,» spiegò Frank a Tony.

«Non ne so niente,» si difese Garamalkis.

«Che nome le ha dato?» chiese Tony.

«Juan.»

«E il cognome?»

«Non me lo ricordo. Si è fermato solo sei settimane. Ma dovrebbe essere segnato in archivio.»

Garamalkis scese dalla piattaforma e li guidò attraverso l’enorme stanza piena di vapore e di odore di disinfettante, mentre gli operai li osservavano con aria sospetta. Arrivò in ufficio e chiese alla segretaria di controllare l’archivio. La donna trovò il fascicolo giusto in un minuto. Bobby aveva usato il nome Juan Mazquezza. E aveva fornito un indirizzo su La Brea Avenue.

«Viveva davvero in quell’appartamento?» chiese Frank.

Garamalkis si strinse nelle spalle. «Non è il tipo di lavoro che richiede un controllo accurato delle informazioni fornite da chi viene assunto.»

«Le ha spiegato perché se ne andava?»

«No.»

«Le ha forse detto che intenzioni aveva?»

«Non sono sua madre.»

«Voglio dire, le ha parlato di un altro lavoro?»

«No. Se n’è andato e basta.»

«Se non riusciamo a trovare Mazquezza a questo indirizzo,» proseguì Tony, «vorremmo ritornare qui per parlare con i suoi operai. Forse c’è qualcuno che lo conosce. Magari c’è qualcuno che gli è ancora amico.»

«Potete tornare, se volete,» rispose Garamalkis. «Ma avrete qualche problema a comunicare.»

«E perché?»

Con una smorfia, bofonchiò: «Molti di loro non parlano inglese.»

Tony sorrise e sillabò: «Yo leo, escribo y hablo español.»

«Ah,» esclamò Garamalkis, compiaciuto.

La segretaria consegnò loro una fotocopia del libro paga e Tony ringraziò Garamalkis per la collaborazione.

In macchina, mentre si dirigeva verso La Brea Avenue, Frank disse: «È meglio che lasci fare a te.»

Tony borbottò: «Ma che cosa dici?»

«Sei riuscito a ottenere molte più informazioni di quante ne avrei sapute strappare io.»

Tony fu sorpreso da quel complimento. Per la prima volta da quando lavoravano insieme, Frank aveva ammesso che la tecnica del suo compagno poteva essere efficace.

«Mi piacerebbe avere un pizzico del tuo stile,» proseguì Frank. «Non sempre, sia chiaro. Sono ancora convinto che il mio sistema sia migliore nella maggior parte dei casi, ma ogni tanto capita di imbatterci in tipi che non parlerebbero con me neppure se li interrogassi per un milione di anni, ma che sputano subito il rospo con te nel giro di un minuto. Sì, a volte mi piacerebbe essere un po’ più affabile.»

«Non è difficile.»

«Per me sì. Non ci riesco.»

«Sono sicuro che potresti riuscirci.»

«Tu ci sai fare con la gente,» spiegò Frank. «Io no.»

«Puoi sempre imparare.»

«Figurati. Va bene così com’è. Siamo la classica coppia: poliziotto-cattivo e poliziotto-buono. Con noi è ovvio che funzioni così.»

«Tu non sei un poliziotto cattivo.»

Frank non rispose. Quando si fermarono a un semaforo rosso proseguì: «E c’è un’altra cosa che vorrei dirti, anche se probabilmente non ti piacerà.»

«Sentiamo,» lo esortò Tony.

«Si tratta della donna di ieri sera.»

«Hilary Thomas?»

«Sì. Ti piace, non è vero?»

«Be’… certo. Mi sembra piuttosto carina.»

«Non è questo che intendo dire. Insomma, ti piaceva, le sbavavi dietro.»

«Oh, no. È una bella ragazza, ma io non…»

«Non fare il santerellino con me. Ho notato il modo in cui la guardavi.»

Il semaforo diventò verde.

Proseguirono in silenzio per un isolato.

Alla fine Tony disse: «Hai ragione, ma non mi faccio certo incantare dalla prima ragazza carina che vedo. E tu lo sai.»

«A volte penso che tu sia un eunuco.»

«Hilary Thomas è… diversa. E non mi riferisco soltanto all’aspetto fisico. E molto bella, certo, ma non è solo quello. Mi piace il modo in cui si muove, il modo in cui si comporta. Mi piace stare ad ascoltarla. E non parlo del tono di voce. C’è qualcos’altro. Mi piace il suo modo di esprimersi e il suo modo di pensare.»

«Mi piace come donna,» proseguì Frank, «ma il suo modo di pensare mi lascia indifferente.»

«Non stava mentendo,» proseguì Tony.

«Hai sentito che cosa ha detto lo sceriffo…»

«Forse si è confusa su quanto le è realmente accaduto, ma non si è inventata quella storia di sana pianta. Probabilmente ha visto qualcuno che somigliava a Frye e quindi…»

Frank lo interruppe. «Quello che sto per dirti non ti piacerà di certo.»

«Ti ascolto.»

«Anche se ti ha fatto ribollire il sangue, non avevi il diritto di comportarti in quel modo.»

Tony lo guardò, confuso. «Che cos’ho fatto?»

«In teoria dovresti appoggiare il tuo compagno in una situazione del genere.»

«Non capisco.»

Frank aveva il viso paonazzo. Non si voltò verso Tony e continuò a fissare la strada. «Mentre la stavo interrogando, ti sei schierato dalla sua parte, contro di me.»

«Frank, io non volevo…»

«Hai cercato di impedire che le fossero rivolte alcune domande che sapevo essere importanti.»

«Secondo me eri troppo duro con lei.»

«E allora avresti dovuto esprimere le tue opinioni in modo molto più velato. Con gli occhi. Con un gesto, un battito di ciglia. Di solito fai così. Ma per lei ti sei scagliato contro di me come un cavaliere della Tavola Rotonda.»

«Era appena uscita da un episodio molto doloroso e…»

«Stronzate,» lo interruppe Frank. «Non c’è stato alcun episodio doloroso. Si è inventata tutto!»

«Continuo a non esserne convinto.»

«Perché pensi con le palle invece che con la testa.»

«Frank, non è vero. E non è giusto.»

«Se pensavi che mi stessi comportando in modo troppo brusco, perché non mi hai preso da parte e non mi hai chiesto che cosa avevo in mente?»

«Ma te l’ho chiesto, Cristo!» sbottò Tony, non riuscendo a contenere la rabbia. «Te l’ho chiesto appena hai ricevuto la chiamata dalla Centrale, quando lei era ancora fuori a parlare con i giornalisti. Volevo sapere che cosa stava succedendo, ma tu non hai voluto dirmelo.»

«Non credo che mi avresti ascoltato,» rispose Frank. «Ormai eri partito per lei come un ragazzino alla sua prima cotta.»

«Sono stronzate e lo sai benissimo. Sono un poliziotto esattamente come te e non lascio che i sentimenti personali influenzino il mio lavoro. Ma sai una cosa? Secondo me è quello che stai facendo tu.»

«Facendo che cosa?»

«Credo che ogni tanto i tuoi sentimenti personali influenzino il tuo lavoro,» spiegò Tony.

«Di che diamine stai parlando?»

«Hai l’abitudine di tenermi nascoste le informazioni quando scopri qualcosa di utile,» disse Tony. «E ora che ci penso… lo fai solo quando c’è di mezzo una donna, quando hai per le mani un indizio che può essere usato per farle del male, qualcosa in grado di farla scoppiare a piangere. Eviti di parlarmene e poi glielo spiattelli di colpo in faccia, nel peggiore dei modi.»

«Ottengo sempre quello che voglio.»

«Ma normalmente esistono metodi più semplici e più gentili.»

«I tuoi metodi, immagino.»

«Due minuti fa hai ammesso che il mio sistema funziona.»

Frank non disse nulla. Continuò a fissare le macchine che aveva davanti.

«Vedi, Frank, qualsiasi cosa ti abbia fatto tua moglie con il divorzio, per quanto ti abbia fatto soffrire, non c’è motivo per odiare tutte le donne che incontri.»

«Io non le odio.»

«Forse non a livello conscio, ma inconsciamente…»

«Non tirare in ballo di nuovo quelle cazzate di Freud.»

«Okay. Va bene,» mormorò Tony. «Ma sto rispondendo alla tua accusa con un’altra accusa. Hai detto che ieri sono stato poco professionale. E io ripeto che anche tu sei stato poco professionale. Siamo pari.»

Frank svoltò a destra su La Brea Avenue.

Si fermarono a un altro semaforo.

Diventò verde e proseguirono lentamente attraverso il traffico sempre più intenso.

Nessuno dei due parlò per un paio di minuti.

Finalmente Tony disse: «Nonostante i tuoi difetti, sei un poliziotto dannatamente in gamba.»

Frank lo guardò stupito.

«Parlo sul serio,» aggiunse Tony. «Fra noi esistono alcune divergenze. Spesso ci prendiamo per il verso sbagliato. Forse non riusciremo a lavorare insieme. Forse dovremo chiedere di venire assegnati a compagni diversi. Ma è solo perché siamo fondamentalmente differenti. Anche se con la gente sei tre volte più brusco di quello che dovresti essere, sei comunque bravo nel tuo lavoro.»

Frank si schiarì la voce. «Be’… anche tu.»

«Grazie.»

«Anche se a volte sei un po’ troppo… dolce.»

«E tu a volte sei un gran figlio di puttana.»

«Vuoi chiedere di cambiare compagno?»

«Non lo so ancora.»

«Neanch’io.»

«Ma se non riusciamo ad andare d’accordo, può essere pericoloso continuare a lavorare insieme. Se fra due compagni l’atmosfera è tesa, si rischia di rimanere uccisi.»

«Lo so,» ammise Frank. «Lo so bene. Il mondo è pieno di stronzi, drogati e pazzoidi armati. Devi lavorare con il tuo compagno come se facesse parte di te, come se fosse il tuo braccio. Se non lo fai, rischi di essere spazzato via.»

«Per questo dovremmo pensare seriamente se siamo adatti l’uno all’altro.»

«Già,» mormorò Frank.

Tony iniziò a controllare i numeri segnati sugli edifici. «Dovremmo quasi esserci.»

«Il posto dev’essere quello,» esclamò Frank.

L’indirizzo di Juan Mazquezza indicato sulla busta paga della Vee Vee Gee corrispondeva a un complesso condominiale di sedici palazzine in un isolato occupato da diversi esercizi commerciali, pompe di benzina, un piccolo motel, un negozio di pneumatici e uno di generi alimentari aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Da lontano, i condomini sembravano nuovi e lussuosi, ma osservandoli più da vicino saltavano all’occhio segni di decadimento e di trascuratezza. I muri esterni avevano bisogno di una nuova mano di intonaco. Anche le scale di legno, le ringhiere e le porte dovevano essere ridipinte. Il cartello posto all’entrata, indicante Appartamenti Las Palmeras, era stato mezzo distrutto da un’automobile, ma non era mai stato sostituito. Il complesso Las Palmeras faceva una bella impressione da lontano, perché era immerso nel verde che nascondeva le facciate rovinate degli edifici. Ma persino i giardini, se osservati da vicino, tradivano quell’aria di abbandono che caratterizzava Las Palmeras; l’erba non veniva tagliata da tempo, gli alberi erano spogli e i cespugli avevano bisogno di una bella potata.

Las Palmeras era chiaramente un luogo di passaggio e le poche auto parcheggiate confermavano quell’impressione. Fra queste, due luccicanti macchine nuove facevano bella mostra di sé. Sicuramente appartenevano a ragazzi che le consideravano un autentico status symbol. Una Ford vecchia e arrugginita, con le gomme sgonfie, era stata abbandonata e risultava ormai inutilizzabile. Accanto a questa, era parcheggiata una Mercedes scintillante che portava però i segni del tempo: sul parafango posteriore spiccava un’ammaccatura ormai arrugginita. In tempi migliori, il proprietario si era potuto permettere un’auto da venticinquemila dollari, ma ora sembrava non avesse nemmeno i duecento dollari necessari per pagare il carrozziere. Las Palmeras era un luogo per gente di passaggio. Per alcuni era solo una tappa nella scalata alla ricchezza e al successo. Per altri era l’ultimo gradino prima di cadere nella rovina più totale.

Mentre Frank parcheggiava vicino all’abitazione dell’amministratore, Tony si rese conto che Las Palmeras era una metafora di Los Angeles. Quella Città degli Angeli era forse la zona più ricca di opportunità che fosse mai esistita. Il giro di denaro era incredibile ed esistevano migliaia di modi per farsi un considerevole gruzzolo. Los Angeles produceva così tante storie di successo da poter riempire tutte le pagine di un quotidiano. Ma la stupefacente affluenza di persone portava anche un’incredibile varietà di strumenti per l’autodistruzione facilmente reperibili. Qualsiasi genere di droga poteva essere trovato e acquistato più facilmente e velocemente a Los Angeles che a Boston, New York, Chicago o Detroit. Erba, hashish, eroina, cocaina, eccitanti, tranquillanti, LSD, PCP… La città era un supermercato di droghe. Anche il sesso era decisamente troppo libero. A Los Angeles i principi vittoriani e i tabù erano crollali più velocemente che in ogni altra parte del paese, considerato anche che il paese era il centro della musica rock e il sesso era parte integrante di quel mondo. Ma molti altri fattori avevano contribuito a scatenare la libido del californiano medio. Persino il clima ci aveva messo lo zampino: le calde giornate di afa, la luce accecante, i venti del deserto e dell’oceano avevano un forte potere erotico. Il temperamento latino degli immigrati messicani aveva lasciato un segno sulla popolazione californiana. Ma forse, più di tutto, in California ci si sentiva al polo estremo del mondo, occidentale, sulla soglia di un mondo sconosciuto, di fronte a un abisso di mistero. Raramente ci si rendeva conto di tale confine culturale, a livello cosciente, ma l’inconscio era da tempo imbevuto di quella consapevolezza, di quella sensazione esilarante e a volte persino spaventosa. In qualche modo la combinazione di quegli elementi vinceva le inibizioni ed eccitava le gonadi. Naturalmente, una visione del sesso senza sensi di colpa era più che salutare, ma in alcuni ambienti di Los Angeles, dove persino gli appetiti carnali più bizzarri venivano facilmente soddisfatti, si correva il rischio di diventare sesso-dipendenti. Tony l’aveva visto con i propri occhi. Esistevano persone, tipi particolari, che decidevano di gettare via ogni cosa, denaro, rispetto per se stessi e reputazione per abbandonarsi ai piaceri della carne e ai brevi attimi di eccitazione godereccia. A chi non riusciva a umiliarsi e rovinarsi con il sesso e la droga, Los Angeles offriva una varietà incredibile di religioni e di movimenti politici votati alla violenza. E, naturalmente, Las Vegas era a solo un’ora di distanza a bordo di regolari voli a tariffa economica, o addirittura gratuiti per chi riusciva a farsi passare per un ricco giocatore incallito. Tutti quegli strumenti di autodistruzione erano stati prodotti da quell’incredibile afflusso di persone. Con la sua ricchezza e la sua allegra celebrazione della libertà, Los Angeles offriva sia la mela dorata sia quella avvelenata: era un luogo di passaggio per l’ascesa alle stelle o la discesa agli inferi. Durante la loro scalata, alcune persone si fermavano in luoghi come Las Palmeras, afferravano la mela, si trasferivano a Bel Air, Beverly Hills, Malibù o in qualche altra località sulla costa occidentale e vivevano felici e contenti. Altri assaggiavano il frutto avvelenato durante la parabola discendente e si fermavano a Las Palmeras senza sapere come e perché ci fossero finiti.

L’amministratrice di quella palazzina, per esempio, sembrava non capire che cosa l’avesse condotta in quel posto. Si chiamava Lana Haverby. Era una donna sulla quarantina, con i capelli biondi, la pelle abbronzata e indossava un paio di short e un top. Era molto sicura della propria sensualità. Camminava, si fermava e si sedeva come se fosse costantemente in posa. Le gambe non erano male, ma tutto il resto era ben lungi dall’essere attraente. Sembrava non rendersi conto di quanto fosse grossa: i fianchi e il sedere erano decisamente troppo abbondanti per quegli abiti succinti. Il seno era così prosperoso da risultare grottesco più che attraente. La maglietta aderente metteva in risalto quelle due montagne e sottolineava i grandi capezzoli turgidi, ma sicuramente non dava al seno la forma e il sostegno di cui avrebbe avuto bisogno. Quando non cambiava posizione, quando non cercava di valutare l’effetto che il suo corpo esercitava su Frank e Tony, sembrava confusa, distratta. Lo sguardo vagava da un punto all’altro. Aveva la tendenza a non finire le frasi. E continuava a guardarsi attorno nel salotto buio per osservare quei mobili malandati con espressione meravigliata, come se non avesse idea di come fosse capitata in quel luogo e da quanto tempo ci abitasse. Alzava la testa come se si aspettasse una spiegazione da voci misteriose.

Lana Haverby si sedette su una sedia e i due poliziotti sul divano. La donna osservò la foto di Bobby Valdez.

«Sì,» disse. «Era un tesoro.»

«Abita qui?» domandò Frank.

«Abitava… sì. Appartamento nove… se non sbaglio. Ma non ci sta più.»

«Se n’è andato?»

«Già.»

«Quando?»

«Quest’estate. Mi sembra che fosse…»

«Quando?» incalzò Tony.

«Il primo di agosto,» affermò Lana.

Accavallò le gambe nude, raddrizzò le spalle per spingere in fuori il seno il più possibile.

«Per quanto tempo è rimasto qui?» chiese Frank.

«Mi sembra tre mesi.»

«Viveva solo?»

«Vuole sapere se aveva la ragazza?»

«Una ragazza, un ragazzo, chiunque,» sbottò Frank.

«Era solo,» rispose Lana. «Ed era un tesoro, sapete?»

«Ha lasciato l’indirizzo?»

«No. Ma vorrei lo avesse fatto.»

«Perché? Se l’è svignata senza pagare l’affitto?»

«No. Niente del genere. È solo che mi piacerebbe sapere dove…»

Abbassò la testa, ascoltando di nuovo quei sussurri.

«Dove che cosa?» chiese Tony.

La donna sbattè le palpebre. «Oh… vorrei proprio sapere dove abita per andare a trovarlo. Insomma, quel tipo mi prendeva. Mi eccitava. Mi faceva ribollire il sangue. Ho cercato di portarmelo a letto ma, vedete, era, be’, un po’ timido.»

Non aveva chiesto perché stavano cercando Bobby Valdez, alias Juan Mazquezza. Tony si domandò che cosa avrebbe detto se avesse saputo che il suo tesoruccio timido era in realtà uno stupratore violento e aggressivo.

«Riceveva qualche visita regolare?»

«Juan? No, che io sappia.»

Rimase seduta con le gambe aperte e osservò la reazione di Tony.

«Le ha detto dove lavorava?» proseguì Frank.

«Quando è arrivato, lavorava in una lavanderia. Poi deve aver cambiato posto.»

«Le ha spiegato dove?»

«No. Comunque stava facendo i soldi.»

«Aveva una macchina?» chiese Frank.

«All’inizio no. Ma poi si è preso una Jaguar. Era bellissima.»

«E molto costosa,» aggiunse Frank.

«Sì. L’ha pagata un bel mucchio di dollari e tutta in bigliettoni.»

«E dove ha preso tutti quei soldi?»

«Ve l’ho già detto. Guadagnava molto bene con il suo nuovo lavoro.»

«E proprio sicura di non sapere che cosa facesse?»

«Assolutamente. Non ne ha mai parlato. Ma sapete una cosa? Appena ho visto la Jaguar ho capito… che non si sarebbe fermato qui a lungo,» spiegò. «Sapevo che se ne sarebbe andato di lì a poco.»

Le rivolsero qualche altra domanda, ma Lana Haverby non aveva nulla di interessante da raccontare. Non aveva un grande spirito di osservazione e il ritratto che forniva di Juan Mazquezza era pieno di buchi, come se le tarme le avessero rosicchiato parte dei ricordi.

Quando Tony e Frank si alzarono per andarsene, lei corse alla porta. I seni gelatinosi sobbalzarono e si agitarono in quello che la donna considerava evidentemente un atteggiamento provocante. Camminò sculettando in punta di piedi, secondo un copione che risultava grottesco per chiunque avesse più di vent’anni: quella donna ne aveva almeno quaranta ed era incapace di scoprire e accettare la bellezza tipica della sua età. Cercava di farsi passare per una ragazzina ed era decisamente patetica. Si appoggiò alla porta aperta, con una gamba leggermente piegata come aveva visto fare dalle modelle delle riviste per soli uomini o forse su un calendario di dolciumi: era ovvio che si aspettasse un complimento.

Frank si girò di lato per uscire, evitando per un pelo di sfiorarle il seno. Raggiunse velocemente la macchina senza voltarsi.

Tony sorrise e disse: «Grazie per la collaborazione, signorina.»

Lei alzò lo sguardo e lo fissò come non aveva fatto con nient’altro nell’ultimo quarto d’ora. Negli occhi le apparve un lampo di vitalità, un misto di intelligenza, orgoglio e forse una punta di rispetto per se stessa: qualcosa di decisamente migliore di quanto avesse lasciato intendere fino a quel momento. «Vede, presto anch’io me ne andrò di qua, proprio come ha fatto Juan. Non ho sempre abitato a Las Palmeras. Sono stata anche in ambienti ricchi.»

Tony non aveva voglia di ascoltare quello che aveva da dirgli, ma si sentì intrappolato e ipnotizzato, come l’uomo bloccato per la strada dal Vecchio Marinaio.

«Come quando avevo ventitré anni,» spiegò, «lavoravo come cameriera ma mi sono presto stancata. Vede, è stato quando i Beatles hanno iniziato, circa diciassette anni fa, e poi è esploso tutto quell’affare della musica rock. Capisce? A quei tempi una bella ragazza poteva conoscere i pezzi grossi, fare delle conoscenze interessanti e andarsene in giro con i complessi, viaggiando per tutto il paese. Oh, caspita, amico, quelli sì che erano bei tempi! Sembrava che fosse possibile avere o fare tutto. E quei gruppi avevano davvero tutto e lo distribuivano in giro. Io ero una di loro. Davvero. Sa, sono andata a letto con personaggi molto famosi. Gente molto quotata. E anch’io ero famosa. Tutti mi apprezzavano.»

Iniziò a elencare gruppi rock degli anni Sessanta. Tony non sapeva se fosse davvero andata a letto con tutta quella gente oppure se si fosse immaginata tutto o quasi, ma notò che non parlava mai di singole persone: era stata con interi gruppi, non con individui.

Non si era mai chiesto che fine facessero le ragazzine che si univano ai vari gruppi rock, buttando via i loro anni migliori nel mondo della musica. Ma aveva comunque scoperto quale destino potesse attenderle. Correvano dietro ai propri idoli, offrivano loro una muta dedizione, condividevano con loro la droga e si prestavano come pratici contenitori di sperma delle celebrità, senza pensare a ciò che ne sarebbe derivato. Poi, un bel giorno, la ragazza si trovava rovinata dal troppo alcol, dalla troppa erba, dalla cocaina e magari anche dall’eroina. Iniziava allora a notare le prime rughe attorno agli occhi e alla bocca, mentre i seni floridi davano i primi segni di cedimento: a quel punto veniva scacciata dal letto della celebrità e scopriva che non c’era nessun altro disposto ad accettarla. Se non era contraria a qualche giochetto, poteva ancora guadagnarsi da vivere per qualche anno. Ma per alcune di loro era decisamente troppo difficile poiché si consideravano «fidanzate» e non «puttane». Molte di loro si erano così precluse il matrimonio, perché avevano visto e fatto decisamente troppo per potersi rassegnare a una tranquilla vita fra quattro mura. Una di loro, Lana Haverby, aveva trovato lavoro a Las Palmeras, ma considerava tale sistemazione come provvisoria, nell’attesa di tornare a far parte del bel mondo.

«Quindi non starò qui ancora per molto,» proseguì. «Presto me ne andrò. Può accadere da un momento all’altro, sa? Sento che sta per succedermi qualcosa di bello. Ho delle vibrazioni positive, capisce?»

La sua situazione era indubbiamente triste e Tony non riuscì a dire nulla che potesse rallegrarla. «Ehm… be’… le auguro tutta la felicità di questo mondo,» mormorò in tono stupido. Le passò davanti e uscì.

Il guizzo di vitalità scomparve dai suoi occhi e Lana riprese la posa disperata di prima, con le spalle indietro e il petto in fuori. Il viso era stanco e tirato. La pancia stava ancora lottando contro la cintura dei pantaloncini. E i fianchi erano decisamente troppo larghi per quei giochetti da ragazzina. «Ehi,» sussurrò, «se ti capita di aver voglia di un goccio di vino e, be’, insomma, quattro chiacchiere…»

«Grazie.»

«Voglio dire, fermati pure quando vuoi, sempre che, insomma, tu non sia in servizio.»

«Può darsi che lo faccia,» mentì. Poi, rendendosi conto di essere stato poco convincente e deciso a dire qualcosa prima di andarsene, proseguì: «Hai delle belle gambe.»

Era vero, ma la donna non sapeva accettare un complimento. Fece una smorfia, si afferrò i seni con le mani ed esclamò: «Di solito sono le mie tette che attirano l’attenzione.»

«Be’… ci vediamo,» bofonchiò lui, girandosi e dirigendosi verso la macchina.

Dopo pochi passi, si voltò e notò che la donna era rimasta in piedi accanto alla porta, con la testa piegata da un lato e lontana mille miglia da lui e da Las Palmeras: stava ascoltando i deboli sussurri che cercavano di spiegarle il significato della vita.

Mentre Tony saliva in macchina, Frank esclamò: «Pensavo ti avesse afferrato con i suoi artigli. Stavo per chiamare una squadra speciale per venire in tuo aiuto.»

Tony non trovò la battuta divertente.

«È triste.»

«Che cosa?»

«Lana Haverby.»

«Mi stai prendendo in giro?»

«Tutta la situazione.»

«E solo una puttana da quattro soldi,» sbottò Frank. «Ma che cosa ne dici del nostro amico Bobby che compera una Jaguar?»

«Se non ha rapinato una banca, c’è solo un modo in cui può essersi procurato tutti quei soldi.»

«Droga,» intervenne Frank.

«Cocaina, erba, forse PCP.»

«Questo ci mette su una nuova strada per cercare quel bastardo. Possiamo girare per le strade e mettere sotto torchio gli spacciatori che già conosciamo, le persone che sono state pizzicate perché vendevano droga. Forse anche a loro dà fastidio e, visto che hanno da rimetterci, può darsi che ci consegnino Bobby su un vassoio d’argento, se solo sanno dove abita.»

«Nel frattempo,» intervenne Tony, «è meglio che chiami la Centrale.»

Voleva che controllassero i dati relativi a una Jaguar nera registrata a nome di Juan Mazquezza. Se fossero riusciti a ottenere il numero di targa, sarebbe stato un gioco da ragazzi ritrovare l’auto di Bobby.

Non significava ovviamente che l’avrebbero trovato subito. In un’altra città, un uomo ricercato come Bobby non sarebbe riuscito a rimanere libero per molto tempo. Sarebbe stato individuato o incastrato nel giro di qualche settimana. Ma Los Angeles non era una città come le altre: in termini di superficie era più grande di qualsiasi altro centro urbano del paese. Los Angeles si estendeva su oltre milletrecento chilometri quadrati: copriva una volta e mezzo i sobborghi di New York, dieci volte quelli di Boston ed era grande la metà dello stato di Rhode Island. Considerando anche gli stranieri illegali, che i normali censimenti non comprendevano, nell’intera area metropolitana vivevano circa nove milioni di persone. In quel labirinto di strade, vicoli, autostrade, colline e vallate un evaso intelligente poteva sopravvivere per parecchi mesi, agendo alla luce del sole con estrema tranquillità, come un qualsiasi cittadino.

Tony accese la radio che era rimasta spenta tutta la mattina, chiamò la Centrale e chiese di controllare Juan Mazquezza e la sua Jaguar.

La donna che rispose al centralino aveva una voce suadente. Dopo aver preso nota della richiesta di Tony, lo informò che due ore prima era giunta una chiamata per lui e Frank. Erano le 11.45. Il caso di Hilary Thomas era stato riaperto e gli agenti che avevano risposto alla chiamata alle 9.30 li stavano aspettando a Westwood.

Riappendendo il microfono, Tony lanciò un’occhiata a Frank e sbottò: «Lo sapevo! Dannazione, sapevo che non stava mentendo!»

«Aspetta a parlare,» lo rimproverò Frank. «Probabilmente si tratta di un’altra sua invenzione.»

«Non cedi mai, vero?»

«Non quando so di aver ragione.»

Qualche minuto più tardi, si fermarono davanti alla casa della Thomas. Nel vialetto d’ingresso erano posteggiate due automobili della stampa, una pattuglia della polizia e la station wagon del laboratorio.

Mentre scendevano dalla macchina e si dirigevano verso la casa, un agente in uniforme andò loro incontro. Tony lo conosceva: si chiamava Warren Prewitt. Si fermarono a metà strada.

«Siete stati voi a ricevere la chiamata la scorsa notte?» chiese Prewitt.

«Esatto,» rispose Frank.

«Come mai? Lavorate ventiquattr’ore al giorno?»

«Ventisei,» precisò Frank.

Tony intervenne: «Come sta la donna?»

«Un po’ scossa,» rispose Prewitt.

«È ferita?»

«Qualche escoriazione sul collo.»

«Niente di serio?»

«No.»

«Che cos’è successo?» domandò Frank.

Prewit spiegò in breve ciò che Hilary Thomas gli aveva raccontato.

«Esistono prove che dica la verità?» si informò Frank.

«So come la pensi su questo caso,» ribattè Prewitt. «Ma abbiamo le prove.»

«E sarebbe?» grugnì Frank.

«Si è introdotto in casa attraverso una finestra dello studio. Un bel lavoro. Ha messo del nastro adesivo sul vetro in modo da non far rumore nel romperlo.»

«Potrebbe essere stata lei,» sbottò Frank.

«A rompere il vetro?»

«Sì. Perché no?»

«Be’,» proseguì Prewitt, «non è stata lei a sporcare di sangue tutta la casa.»

«Quanto sangue?» domandò Tony.

«Non tantissimo, ma neanche poco,» spiegò Prewitt. «Ce n’è un po’ sul pavimento dell’ingresso, un’impronta della mano insanguinata sulla parete, alcune gocce sulle scale, un’altra macchia sul muro e tracce di sangue sul pomolo della porta.»

«Sangue umano?» indagò Frank.

Prewitt ammiccò leggermente. «Eh?»

«Volevo sapere se era sangue finto, uno scherzo, insomma.»

«Oh, per l’amor del cielo!» esclamò Tony.

«I ragazzi del laboratorio sono arrivati qui solo tre quarti d’ora fa,» proseguì Prewitt. «Non hanno ancora detto niente. Ma sono sicuro che è sangue umano. Inoltre, tre vicini hanno visto un uomo che si allontanava di corsa.»

«Ah,» mormorò Tony.

Frank scosse la testa con lo sguardo fisso al prato, come se stesse cercando di far appassire l’erba.

«Ha lasciato la casa piegato in due,» continuò Prewitt. «Si stringeva le mani allo stomaco e si trascinava curvo in avanti. Questo conferma la deposizione di Miss Thomas, che afferma di averlo pugnalato due volte al torace.»

«Dov’è andato?» chiese Tony.

«Abbiamo un testimone che sostiene di averlo visto salire su un furgone Dodge grigio a due isolati da qui. Si è allontanato in macchina.»

«Abbiamo il numero di targa?»

«No,» rispose Prewitt, «ma abbiamo sparso in giro la voce. Stiamo cercando il furgone.»

Frank Howard alzò gli occhi. «Vedi, forse questa aggressione non è collegata alla storia che ci ha fatto bere la scorsa notte. Forse ha gridato al lupo e poi questa mattina è stata aggredita sul serio.»

«Non ti sembra una strana coincidenza?» sbottò Tony, esasperato.

«Comunque, le due aggressioni devono essere collegate,» spiegò Prewitt. «La donna giura che si tratta dello stesso uomo.»

Frank incrociò lo sguardo di Tony e proseguì: «Ma non può essere Bruno Frye! Sai anche tu che cos’ha detto lo sceriffo Laurenski.»

«Non ho mai affermato che fosse davvero Frye,» proseguì Tony. «La scorsa notte ho pensato che fosse stata aggredita da qualcuno che somigliava a Frye.»

«Ma lei insisteva…»

«Sì, ma era spaventata e agitata,» incalzò Tony. «Non riusciva a vedere le cose con chiarezza e deve aver scambiato un sosia per il vero Frye. È comprensibile.»

«E poi sarei io a parlare di coincidenze,» lo punzecchiò Frank.

In quel momento l’agente Gurney, compagno di Prewitt, uscì dalla casa e li chiamò: «Ehi, l’hanno trovato! Il tizio che è stato accoltellato!»

Tony, Frank e Prewitt si precipitarono verso la porta.

«Ha appena chiamato la Centrale,» spiegò Gurney. «Un paio di ragazzini con lo skateboard l’hanno trovato circa venticinque minuti fa.»

«Dove?»

«Lungo la Sepulveda. Nel posteggio di un supermercato. Era disteso per terra accanto al furgone.»

«Morto?»

«Stecchito.»

«Aveva qualche documento d’identità?» domandò Tony.

«Sì,» rispose Gurney. «E proprio come ci ha detto la signora. È Bruno Frye.»


Freddo.

Il condizionatore ronzava attraverso le pareti. Nuvole di aria ghiacciata fuoriuscivano da due aperture poste vicino al soffitto.

Hilary indossava un abito color verde mare, decisamente troppo leggero per scacciare i brividi di freddo. Si strinse nelle spalle alla ricerca di un po’ di tepore.

Alla sua sinistra c’era il tenente Howard, visibilmente imbarazzato. Alla sua destra il tenente Clemenza.

Quel locale non sembrava far parte di un obitorio. Assomigliava più alla cabina di una navicella spaziale. Era facile immaginare che oltre quelle pareti grigie si estendesse il gelo dello spazio. Il ronzio costante del condizionatore d’aria somigliava al ruggito lontano dei motori di un razzo. Erano in piedi davanti a una finestra che dava su un’altra stanza, ma Hilary avrebbe preferito scorgere le stelle lontane e l’oscurità infinita oltre quello spesso vetro. Avrebbe preferito mille volte trovarsi nel bel mezzo di un interminabile viaggio intergalattico invece che in un obitorio, in attesa di identificare l’uomo che aveva ucciso.

L’ho ucciso, pensò.

Quelle parole le risuonarono nella mente e aumentarono la sensazione di gelo.

Diede un’occhiata all’orologio.

Le 3.18.

«Ci vorrà solo un minuto,» le assicurò il tenente Clemenza.

Mentre Clemenza parlava, un inserviente spinse nella stanza una barella, fermandosi dall’altra parte della finestra, al centro della vetrata. Sulla barella era appoggiato un corpo, coperto da un lenzuolo. L’inserviente scoprì il cadavere fino al torace e si allontanò.

Hilary osservò il corpo e sentì la testa che girava.

La bocca era completamente secca.

Il volto di Frye era bianco e immobile, ma Hilary aveva la strana sensazione che in qualsiasi momento avrebbe potuto voltare la testa verso di lei e spalancare gli occhi.

«È lui?» chiese il tenente Clemenza.

«È Bruno Frye,» rispose in un soffio.

«Ma è l’uomo che è entrato in casa sua e che l’ha aggredita?» domandò il tenente Howard.

«Non ricominciamo con questa stupida storia,» protestò. «Per favore.»

«No, no,» intervenne Clemenza, «il tenente Howard non ha più dubbi sulla sua storia, Miss Thomas. Vede, sappiamo già che quest’uomo è Bruno Frye. L’abbiamo stabilito grazie ai documenti che aveva addosso. Ma dobbiamo assicurarci che sia l’uomo che l’ha aggredita, l’uomo che lei ha pugnalato.»

La bocca del morto era priva di espressione, senza ghigni né sorrisi, ma Hilary ricordava perfettamente la piega ironica che aveva notato in precedenza.

«È lui,» affermò. «Ne sono certa. Ne sono sempre stata certa. E me lo sognerò di notte per molto tempo.»

Il tenente Howard fece un cenno all’inserviente oltre il vetro e l’uomo ricoprì il cadavere.

Hilary fu scossa da un altro pensiero, agghiacciante per quanto assurdo: e se adesso si siede sulla barella e getta via il lenzuolo?

«Ora l’accompagneremo a casa,» mormorò Clemenza.

Hilary uscì dalla stanza precedendo i due investigatori. Si sentiva in colpa perché aveva ucciso un uomo, ma era decisamente sollevata e contenta che fosse morto.


L’accompagnarono a casa a bordo della macchina della polizia. Frank era al volante e Tony sedeva di fianco a lui. Hilary Thomas aveva preso posto dietro e se ne stava con le spalle leggermente incassate, come se avesse molto freddo nonostante la tiepida giornata di fine settembre.

Tony continuava a trovare qualche scusa per voltarsi e parlare. Non voleva staccarle gli occhi di dosso. Era incantevole e Tony si sentiva come quando, nei grandi musei, si soffermava davanti a un quadro particolarmente delicato, opera di un maestro del passato.

Lei gli rispondeva abbozzando deboli sorrisi, ma non era nello spirito più adatto per chiacchierare. Era immersa nei propri pensieri e trascorse la maggior parte del tempo in silenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino.

Quando giunsero sul vialetto circolare che conduceva a casa sua, Frank si voltò e balbettò: «Miss Thomas… io… be’… le devo le mie scuse.»

Tony non fu sorpreso da quelle parole, ma rimase colpito dalla sincera nota di pentimento nella voce di Frank e dall’espressione supplichevole che apparve sul suo volto: la dolcezza e l’umiltà non erano certamente le caratteristiche fondamentali di Frank.

Anche Hilary Thomas parve sorpresa. «Oh… be’… immagino che stesse solo svolgendo il suo lavoro.»

«No,» esclamò Frank. «È questo il problema. Non stavo facendo il mio lavoro. O, perlomeno, non lo stavo facendo nel modo più corretto.»

«È tutto finito ora,» mormorò Hilary.

«Ma accetta le mie scuse?»

«Be’… ma certo,» disse, visibilmente a disagio.

«Mi sento in colpa per il modo in cui l’ho trattata.»

«Frye non mi darà più fastidio,» proseguì la donna, «e credo che questa sia l’unica cosa importante.»

Tony scese dalla macchina e le aprì la portiera. Non avrebbe potuto scendere da sola perché le portiere posteriori della berlina non avevano le maniglie all’interno: un deterrente per i prigionieri che avevano intenzione di fuggire. E inoltre, Tony voleva accompagnarla fino a casa.

«Forse dovrà testimoniare nel corso dell’inchiesta,» le spiegò mentre si avvicinavano alla casa.

«Perché? Quando l’ho pugnalato, Frye era in casa mia, contro la mia volontà. La mia vita era in pericolo.»

«Oh, non ci sono dubbi che si tratti di un semplice caso di autodifesa,» aggiunse Tony rapidamente. «Nel caso dovesse deporre, sarà solo una formalità. Non c’è la benché minima possibilità che venga accusata di qualcosa, o roba del genere.»

Hilary aprì la porta, si voltò verso di lui e gli regalò un sorriso radioso. «Grazie per avermi creduto la scorsa notte, nonostante quello che aveva affermato lo sceriffo di Napa County.»

«Controlleremo anche lui,» assicurò Tony. «Dovrà spiegarci alcune cose. Se le interessa, le farò sapere perché ha agito in questo modo.»

«Io sono molto curiosa,» affermò Hilary.

«D’accordo. La terrò informata.»

«Grazie.»

«Si figuri.»

Hilary fece un passo verso la casa.

Tony non si mosse.

Lei si voltò a guardarlo.

Lui sorrise stupidamente.

«C’è qualcos’altro?» chiese.

«A dire la verità, sì.»

«Che cosa?»

«Un’altra domanda.»

«Sì?»

Non si era mai sentito così impacciato con una donna prima di allora.

«Verrebbe a cena con me sabato?»

«Oh,» mormorò. «Be’… non credo di potere.»

«Capisco.»

«Voglio dire, mi piacerebbe molto.»

«Sul serio?»

«Ma in questi giorni non ho molto tempo per la vita mondana,» spiegò.

«Capisco.»

«Ho appena concluso un importante affare con la Warner Brothers e sarò occupata giorno e notte.»

«Capisco,» ripetè.

Si sentiva come un ragazzino delle superiori che è appena stato rifiutato dalla cheerleader più famosa della scuola.

«È stato molto gentile a chiedermelo,» riprese lei.

«Certo. Be’… in bocca al lupo con la Warner Brothers.»

«Grazie.»

«Le farò sapere dello sceriffo Laurenski.»

«Grazie.»

Tony sorrise e lei fece altrettanto.

Lui si girò, si incamminò verso l’auto e udì la porta della casa che si chiudeva. Si fermò e si voltò per guardarla.

Un piccolo rospo saltellò fuori dai cespugli bloccandosi sul selciato davanti a Tony. Rimase immobile in mezzo al vialetto e lo fissò, con gli enormi occhi tondi che ruotavano cercando la giusta angolazione e il minuscolo torace verde-marrone che si alzava e abbassava rapidamente.

Tony osservò il rospo ed esclamò: «Ho mollato troppo presto?»

Il rospo emise un suono gracchiante.

«Che cos’ho da perdere?» si chiese Tony.

Il rospo gracidò di nuovo.

«È così che la penso. Non ho niente da perdere.»

Oltrepassò il cupido-anfibio e suonò il campanello. Sentì Hilary Thomas che controllava attraverso lo spioncino e non appena lei aprì la porta, le rivolse una domanda senza lasciarle il tempo di aprir bocca: «Sono così orribile?»

«Che cosa?»

«Assomiglio forse a Quasimodo o roba del genere?»

«Veramente, io…»

«Non uso lo stuzzicadenti in pubblico,» spiegò.

«Tenente Clemenza…»

«È perché sono un poliziotto?»

«Come?»

«Sa che cosa pensa molta gente?»

«Che cosa pensa molta gente?»

«Sostengono che i poliziotti sono socialmente inaccettabili.»

«Be’, io non appartengo a quel genere di persone.»

«Non è una snob?»

«No. È solo che…»

«Forse non ha accettato il mio invito perché non ho un sacco di soldi e non abito a Westwood.»

«Tenente, ho trascorso la maggior parte della mia vita senza una lira e non ho sempre abitato a Westwood.»

«E allora mi chiedo che cosa non va,» esclamò, osservandosi con aria divertita.

Hilary sorrise e scosse la testa. «Non c’è niente che non va, tenente.»

«Sia ringraziato Iddio!»

«Davvero, ho rifiutato per un solo motivo. Non ho tempo per…»

«Miss Thomas, persino il presidente degli Stati Uniti riesce a prendersi una serata di libertà ogni tanto. Persino il presidente della General Motors ha del tempo libero. Persino il Papa. Persino il Signore si è riposato il settimo giorno. Nessuno può essere perennemente occupato.»

«Tenente…»

«Chiamami Tony.»

«Tony, con quello che è successo negli ultimi due giorni, temo che non sarei una compagnia molto divertente.»

«Se volessi andare a cena per farmi quattro risate, inviterei un gruppetto di scimmie.»

Hilary sorrise nuovamente e Tony provò l’impulso di prenderle il viso fra le mani e di coprirlo di baci.

«Mi dispiace. Ma ho bisogno di rimanere sola per qualche giorno.»

«E esattamente ciò di cui non hai bisogno dopo un’esperienza del genere. Devi uscire, stare fra la gente e risollevarti il morale. E non sono l’unico a pensarla in questo modo.» Si voltò e indicò qualcosa sul selciato dietro di lui. Il rospo era ancora lì. Si era girato per osservarli.

«Chiedilo a Mr Rospo,» proseguì Tony.

«Mr Rospo?»

«Un mio conoscente. Una persona molto saggia.» Tony si inginocchiò e fìsso il rospo. «Non ha forse bisogno di uscire e di divertirsi, Mr Rospo?»

La bestiola abbassò leggermente le pesanti palpebre ed emise un divertente gracidio in segno di risposta.

«Hai assolutamente ragione,» proseguì Tony. «E non credi che io sarei la persona giusta per uscire con lei?»

«Screee-ooak,» gracchiò.

«Che cosa le farai se rifiuterà di nuovo il mio invito?»

«Screee-ooak, screee-ooak.»

«Aaah,» esclamò Tony, annuendo soddisfatto mentre si rialzava.

«Allora, che cos’ha detto?» chiese Hilary, con una smorfia. «Che cosa mi farà se non uscirò con te? Mi riempirà di bitorzoli?»

Tony assunse un’aria seria. «Ancora peggio. Mi ha detto che si infilerà dentro casa tua, arriverà fino alla camera da letto e continuerà a gracchiare per tutta la notte senza farti dormire fino a quando non cederai.»

La donna sorrise. «Okay. Mi arrendo.»

«Sabato sera?»

«D’accordo.»

«Passerò a prenderti alle sette.»

«Come devo vestirmi?»

«Sportiva,» rispose.

«Ci vediamo sabato alle sette.»

Tony si voltò verso il rospo e mormorò: «Grazie, amico.»

Il rospo saltellò sul selciato, poi nell’erba, e si nascose fra i cespugli.

Tony lanciò un’occhiata a Hilary. «La gratitudine lo imbarazza sempre.»

Hilary sorrise e chiuse la porta.

Tony ritornò alla macchina e salì, fischiettando allegramente.

Mentre Frank si allontanava dalla casa, chiese: «Che cos’è successo?»

«Ho un appuntamento,» rispose Tony.

«Con lei?»

«Be’, non certo con sua sorella.»

«Un bel colpo.»

«Un bel rospo.»

«Eh?»

«È un gioco di parole.»

Dopo un paio di isolati, Frank proseguì: «Sono le quattro passate. Il tempo di riportare questo macinino al deposito e saranno già le cinque.»

«Hai intenzione di smontare in orario per una volta?» domandò Tony.

«Tanto fino a domani non possiamo fare molto per BobbyValdez.»

«Già,» ammise Tony. «E allora freghiamocene.»

Poco più avanti, Frank bofonchiò: «Perché non andiamo a bere qualcosa?»

Tony lo guardò, sbalordito. Era la prima volta da quando lavoravano insieme che Frank proponeva una cosa del genere.

«Solo un paio di drink,» aggiunse Frank. «A meno che tu non abbia in programma qualcosa…»

«No. Sono libero.»

«Conosci un bar?»

«Il luogo ideale. Si chiama The Bolt Hole.»

«Non è vicino alla Centrale, vero? Non è uno di quei locali sempre pieni di poliziotti?»

«Per quanto ne so, sono l’unico tutore della legge a frequentarlo. È sul Santa Monica Boulevard, dalle parti di Century City. È a un paio di isolati dal mio appartamento.»

«Sembra che possa andare,» ammise Frank. «Ci vedremo là.»

Proseguirono senza parlare fino al garage della polizia: era un silenzio decisamente più amichevole di quello che aveva sempre regnato fra di loro, ma era pur sempre un silenzio.

Che cosa voleva? si chiese Tony. Perché Frank Howard aveva lasciato cadere la sua proverbiale riservatezza?


Alle 4.30, l’ispettore medico di Los Angeles ordinò una parziale autopsia sul corpo di Bruno Gunther Frye. Per quanto possibile, il cadavere doveva essere aperto solo nella zona addominale, al fine di valutare se erano state solo le due ferite a determinare la morte dell’uomo.

L’ispettore medico non si sarebbe occupato personalmente dell’autopsia, poiché doveva prendere un volo per San Francisco alle 5.30 e presenziare a una conferenza. Il compito fu assegnato a un patologo del suo staff.

Il corpo dell’uomo rimase in una stanza gelata insieme con gli altri cadaveri, su una barella fredda, perfettamente immobile sotto un lenzuolo bianco.


Hilary Thomas era esausta. Le ossa le facevano male e le giunture sembravano in fiamme. Era come se ogni singolo muscolo fosse stato messo nel frullatore a massima velocità e poi ricomposto. La tensione emotiva poteva produrre esattamente gli stessi effetti fisiologici di un intenso sforzo fisico.

Era anche decisamente nervosa e troppo tesa per riuscire a rilassarsi con un pisolino. Udì alcuni rumori dovuti al normale assestamento della casa, ma ogni volta ebbe la sensazione che un intruso stesse facendo scricchiolare il pavimento. Quando la leggera brezza autunnale fece sbattere le fronde degli alberi contro una finestra, Hilary pensò immediatamente che qualcuno stesse tagliando il vetro o forzando la serratura. E nel lungo silenzio che seguì, ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di sinistro in quella pace assoluta. Aveva i nervi tesi come le corde di un violino. Un libro era solitamente la miglior cura per allentare la tensione. Passò in rassegna i volumi sulle mensole nello studio e scelse l’ultimo romanzo di James Clavell, ambientato in Oriente. Si versò un bicchiere di Dry Sack con ghiaccio, si sedette nella comoda poltrona marrone e iniziò a leggere.

Venti minuti più tardi, mentre cominciava a perdersi fra le pagine del romanzo, squillò il telefono. Si alzò e afferrò il ricevitore. «Pronto?»

Nessuna risposta.

«Pronto?»

L’interlocutore rimase in ascolto per qualche secondo e poi riappese.

Hilary appoggiò la cornetta e la fissò per un attimo.

Aveva sbagliato numero?

Doveva essere così.

Ma perché non l’aveva detto?

Alcune persone non lo fanno mai, spiegò a se stessa. Esistono i maleducati.

E se non avessero sbagliato numero? E se fosse stato… qualcos’altro?

Smettila di vedere mostri ovunque! ordinò a se stessa. Frye è morto. E stata una brutta esperienza, ma ormai è finita. Hai bisogno di un po’ di riposo, un paio di giorni per recuperare le forze e la tranquillità. Ma devi piantarla di guardarti dietro le spalle e devi andare avanti per la tua strada. Altrimenti finirai rinchiusa in un manicomio.

Si raggomitolò nella poltrona ma fu percorsa da un brivido che le fece venire la pelle d’oca sulle braccia. Andò fino all’armadio e prese una coperta blu e verde che si avvolse intorno alle gambe.

Sorseggiò il Dry Sack.

Riprese a leggere il libro di Clavell.

Ben presto, dimenticò quella strana telefonata.


Alla fine del suo turno, Tony andò a casa, si sciacquò la faccia e si infilò un paio di jeans e una camicia a scacchi blu. Prese anche un giubbotto e raggiunse a piedi The Bolt Hole.

Frank era già arrivato e sedeva in una saletta sul retro. Indossava ancora giacca e cravatta e sorseggiava uno scotch.

The Bolt Hole, o semplicemente The Hole, come lo chiamavano i clienti abituali, non era niente di straordinario: un normalissimo bar di periferia. Negli ultimi vent’anni, in risposta a una cultura sempre più fratturata e spezzettata, l’industria della ristorazione americana si era fatta trascinare dalla frenesia della specializzazione, perlopiù nelle grandi città. The Hole era riuscito a sfuggire a quella tendenza. Non era un bar per gay. Non era un bar per single o per amanti del sesso facile. Non era un bar frequentato prevalentemente da automobilisti, camionisti, uomini d’affari, poliziotti fuori servizio, oppure impiegati di banca: la sua clientela era mista e ben rappresentava l’intera comunità. Non era il genere di locale dove si esibivano le ballerine a seno nudo. Non era il bar dove si ascoltava solo rock and roll oppure musica country. E, grazie al cielo, non era neppure il classico punto di ritrovo degli sportivi, nel quale troneggiava un televisore gigante e la voce di Howard Cosell risuonava amplificata. The Hole era in grado di offrire solo luci soffuse, un ambiente pulito e discreto, sgabelli comodi, un juke box con il volume non troppo alto, hot-dog e hamburger preparati in una minuscola cucina e ottimi drink a prezzi ragionevoli.

Tony si accomodò di fronte a Frank.

Penny, una cameriera con capelli biondo rossicci, guance paffute e una fossetta sul mento, si fermò accanto al tavolo. Scompigliò i capelli di Tony e chiese: «Che cosa vuoi, Renoir?»

«Un milione di dollari, una Rolls-Royce, la vita eterna e l’acclamazione della folla,» rispose Tony.

«Nel frattempo di che cosa potresti accontentarti?»

«Di una bottiglia di Coors.»

«Credo di averla,» annunciò la ragazza.

«Per me un altro scotch,» disse Frank. Quando la cameriera si allontanò in direzione del bar, Frank domandò: «Perché ti ha chiamato Renoir?»

«Era un famoso pittore francese.»

«E allora?»

«Be’, anch’io sono un pittore, anche se non sono né francese né famoso. Penny lo fa solo per prendermi in giro.»

«Tu dipingi quadri?» chiese Frank.

«Di certo non dipingo le case.»

«E perché non me lo hai mai detto?»

«Un paio di volte ho fatto qualche commento sulle opere d’arte,» rispose Tony. «Ma non mi è sembrato che l’argomento ti interessasse. Anzi, forse avresti mostrato più entusiasmo se ti avessi proposto di discutere della grammatica Swahili oppure del processo di decomposizione dei cadaveri dei neonati.»

«Dipinti a olio?» proseguì Frank.

«A olio. Matita e inchiostro. Acquerelli. Un po’ di tutto, ma soprattutto a olio.»

«E da quanto tempo hai questa passione?»

«Da quando ero bambino.»

«Ne hai venduto qualcuno?»

«Non dipingo i quadri per venderli.»

«E allora perché lo fai?»

«Per me stesso.»

«Mi piacerebbe vedere alcune delle tue opere.»

«Il mio museo osserva degli strani orari, ma sono sicuro che possiamo organizzare una visita.»

«Museo?»

«Il mio appartamento. Non ci sono molti mobili, ma è pieno di quadri.»

Penny arrivò con le ordinazioni.

Rimasero senza parlare per un attimo, poi discussero un po’ di Bobby Valdez e ripiombarono nel silenzio.

Nel bar c’erano circa sedici, diciassette persone e molte di loro avevano già ordinato dei panini. L’aria era impregnata del delizioso profumo del manzo affumicato e delle cipolle affettate.

Alla fine, Frank mormorò: «Immagino ti stia chiedendo perché siamo qui.»

«Per bere qualcosa.»

«C’è dell’altro.» Frank mescolò lo scotch con un bastoncino da cocktail. I cubetti di ghiaccio produssero un rumore sordo. «Ci sono un paio di cose che vorrei dirti.»

«Pensavo ne avessimo già parlato questa mattina, in macchina, dopo essere andati alla Vee Vee Gee.»

«Dimentica quello che ho detto.»

«Avevi il diritto di lamentarti.»

«Ero solo incazzato,» sbottò Frank.

«No, forse avevi ragione.»

«Te l’ho già detto, ero incazzato.»

«Va bene,» concesse Tony. «Eri incazzato.»

Frank sorrise. «Avresti potuto discutere con me un po’ di più.»

«Quando uno ha ragione, ha ragione.»

«Mi ero sbagliato su quella Thomas.»

«Ti sei già scusato con lei, Frank.»

«Sento il dovere di scusarmi anche con te.»

«Non ce n’è bisogno.»

«Ma tu hai notato qualcosa, hai capito che stava dicendo la verità. A me non è neppure passato per l’anticamera del cervello. Ero su una pista completamente sbagliata. Diamine, mi ci hai fatto sbattere il naso contro e non me ne sono nemmeno accorto.»

«Be’, restando in tema di nasi, probabilmente non hai fiutato la pista giusta perché il tuo naso era fuori fase.»

Frank annuì con aria triste. La sua faccia larga assomigliava al viso malinconico di un cane bastonato. «È colpa di Wilma. Il mio naso è fuori fase per colpa di Wilma.»

«La tua ex moglie?»

«Già. Questa mattina hai colpito nel segno quando hai detto che sto iniziando a odiare le donne.»

«Deve averti fatto qualcosa di terribile.»

«Non importa quello che mi ha fatto,» mormorò Frank. «Non è un buon motivo per ridurmi in questo stato.»

«Hai ragione.»

«Voglio dire, non è possibile sfuggire alle donne, Tony.»

«Ce ne sono dappertutto,» ammise Tony.

«Cristo, sai da quanto tempo non vado a letto con una donna?»

«No.»

«Da dieci mesi. Da quando mi ha lasciato, quattro mesi prima del divorzio.»

Tony non sapeva che cosa dire. Non conosceva Frank sufficientemente bene per intavolare una discussione sulla sua vita sessuale, ma era ovvio che quell’uomo aveva un disperato bisogno di qualcuno che lo ascoltasse e lo aiutasse.

«Se non mi ributto nel giro un po’ in fretta, tanto vale che mi faccia prete.»

Tony annuì. «Certo che dieci mesi sono lunghi,» bofonchiò in tono goffo.

Frank non rispose. Lasciò vagare lo sguardo sullo scotch come se fosse stata una boccia di cristallo in grado di predire il futuro. Era chiaro che voleva parlare di Wilma, del divorzio e di ciò che sarebbe stato di lui, ma non se la sentiva di obbligare Tony ad ascoltare i suoi guai. Era molto orgoglioso. Voleva essere adulato, lusingato e invitato a parlare con domande discrete e velate.

«Wilma ha forse trovato un altro uomo?» si informò Tony, rendendosi conto di essere andato al nocciolo della questione un po’ troppo rapidamente.

Frank non era ancora pronto a parlare di quell’argomento e finse di non sentire nemmeno la domanda. «Quello che mi scoccia è che inizio a fare troppe cazzate sul lavoro. Sono sempre stato dannatamente in gamba. Quasi perfetto, direi. Fino al divorzio. Poi sono diventato acido con le donne e subito dopo anche con il mio lavoro.» Bevve un lungo sorso di scotch. «E che cosa diamine sta succedendo con quel dannato sceriffo di Napa County? Perché ha mentito per proteggere Bruno Frye?»

«Prima o poi lo scopriremo,» lo tranquillizzò Tony.

«Vuoi qualcos’altro da bere?»

«Va bene.»

Tony si rese conto che sarebbero rimasti a The Bolt Hole per parecchio tempo. Frank voleva parlare di Wilma, voleva liberarsi di tutto il veleno che si era formato dentro di lui e che lo stava divorando da circa un anno, ma sarebbe riuscito a farlo solo molto, molto lentamente.


Per la Morte a Los Angeles quella fu una giornata caotica. Si erano verificate molte morti dovute a cause naturali e di conseguenza non sempre fu necessario ricorrere al bisturi affilato del medico legale. Ma l’ufficio del coroner aveva ben nove casi di cui occuparsi. C’erano state due vittime in un incidente stradale che sicuramente avrebbero richiesto una spiegazione. Due uomini erano morti per ferite di arma da fuoco. Un bambino era stato apparentemente percosso a morte dal padre violento e alcolizzato. Una donna era annegata nella sua piscina e due giovani erano stati stroncati da una probabile overdose. Poi c’era Bruno Frye.

Giovedì sera, alle 19.10, sperando di recuperare il lavoro arretrato, un patologo dell’obitorio cittadino portò a termine un’autopsia parziale sul corpo di Bruno Gunther Frye, di sesso maschile, di origine caucasica, circa quarant’anni di età. Il medico non ritenne necessario sezionare il cadavere a eccezione della zona addominale, poiché si rese immediatamente conto che la morte era stata causata solo ed esclusivamente dalle due ferite inferte in tale punto. La ferita superiore non era grave: il coltello aveva lacerato il tessuto muscolare e sfiorato un polmone. La seconda ferita aveva compiuto un vero scempio: la lama aveva squarciato lo stomaco, perforando, fra l’altro, il piloro e il pancreas. La vittima era deceduta per una forte emorragia interna.

Il patologo ricucì le incisioni e le due ferite incrostate. Ripulì l’addome e il torace dalle tracce di sangue e bile e dai frammenti di tessuto.

Il morto fu trasferito dal tavolo dell’autopsia alla barella. Un inserviente lo portò nella cella frigorifera, dove gli altri cadaveri, già sezionati, esaminati e ricuciti, attendevano pazientemente di essere sepolti con una solenne cerimonia.

Quando l’inserviente se ne andò, Bruno Frye rimase immobile e in silenzio, felice di essere in compagnia di altri morti. Non aveva mai apprezzato con altrettanta gioia la compagnia degli esseri viventi.


Frank Howard si stava ubriacando. Si era già tolto la giacca e la cravatta e si era aperto i primi due bottoni della camicia. Continuava a passarsi le dita fra i capelli, ormai completamente arruffati. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la faccia gonfia. Parlava biascicando le parole, di tanto in tanto si incantava come un disco rovinato e Tony doveva dargli un colpetto esattamente come si fa con la puntina del giradischi. Per ogni birra che Tony beveva, lui si scolava due bicchieri di scotch.

E più beveva, più parlava delle donne della sua vita, più si avvicinava al fradiciume totale, più si focalizzava sul punto più doloroso della sua vita: la perdita di due mogli.

Era stato durante il secondo anno come agente in uniforme presso la polizia di Los Angeles che Frank aveva conosciuto la sua prima moglie, Barbara Ann. Faceva la commessa al reparto gioielleria di un grande magazzino del centro e lo aveva aiutato a scegliere un regalo per la madre. Era stata talmente affascinante, talmente carina, talmente gentile con quei suoi occhioni scuri che non aveva saputo resistere alla tentazione di chiederle di uscire con lui, pur aspettandosi un rifiuto. Invece lei aveva accettato. Sette mesi dopo si erano sposati. Barbara Ann era una pianificatrice: già mesi prima del matrimonio aveva stilato un’agenda dettagliata con i programmi per i primi quattro anni di vita coniugale. Lei avrebbe continuato a lavorare al grande magazzino, ma i suoi guadagni non dovevano assolutamente essere spesi. I suoi soldi sarebbero stati destinati a un libretto di risparmio che avrebbe assicurato il pagamento di una caparra nell’acquisto di una casa. Avrebbero dovuto vivere con il minimo necessario, prelevato dallo stipendio di Frank, in un monolocale piccolo, sicuro e pulito. Avrebbero venduto la Pontiac perché consumava troppo: Barbara Ann poteva andare a piedi al lavoro e lui si sarebbe recato alla Centrale con la Volkswagen della moglie. Aveva persino programmato un menù quotidiano per i primi sei mesi: piatti nutrienti e dal costo contenuto. Frank adorava quell’atteggiamento da severa contabile, che tanto contrastava con il suo carattere. Barbara Ann era una donna serena e cordiale, pronta alla risata, a volte persino frivola e impulsiva, quando non si trattava di questioni finanziarie. Era una meravigliosa compagna di letto, sempre disposta a fare l’amore e se la cavava maledettamente bene. Davanti alla carne, non era più una contabile: non programmava i rapporti, che in genere erano spontanei e passionali. Però aveva programmato l’acquisto di una casa, realizzabile solo quando fossero riusciti ad avere almeno il quaranta per cento del prezzo richiesto. Sapeva già anche quante stanze doveva avere, quale metratura cercare: aveva disegnato uno schizzò del pianterreno della sua casa ideale che teneva in un cassetto e che solo saltuariamente guardava, per sognare a occhi aperti. Aveva una gran voglia di avere dei figli, ma quel desiderio non era realizzabile finché non si fossero stabiliti al sicuro nella nuova casa. Barbara Ann aveva praticamente pensato a ogni eventualità, eccetto il cancro. Aveva contratto una forma di tumore virale, diagnosticato due anni e due giorni dopo il matrimonio. Tre mesi dopo era già morta.

Seduto a un tavolo di The Bolt Hole, con una birra ormai tiepida davanti agli occhi, Tony ascoltava Frank Howard con la crescente convinzione di essere il primo a condividere il dolore di quell’uomo. Barbara Ann era morta nel 1958, ventidue anni prima, e per tutto quel tempo Frank non aveva confidato a nessuno la sofferenza che aveva provato vedendola deperire e poi morire. Un dolore che non si era mai attutito e che lo infiammava dentro in quel momento, esattamente come vent’anni prima. Tracannò ancora uno scotch e andò alla ricerca delle parole adatte per descrivere la sua tragedia. Tony rimase sbalordito dalla sensibilità e dalla profondità di quei sentimenti tanto a lungo nascosti dietro quella faccia teutonica e quegli occhi azzurri, generalmente inespressivi.

In seguito alla perdita di Barbara Ann, Frank si era sentito indebolito, confuso e depresso, ma era sempre riuscito a trattenere le lacrime e l’angoscia, convinto com’era che altrimenti non sarebbe più stato in grado di riprendere il controllo di se stesso. Aveva però cominciato a percepire gli impulsi dell’autodistruzione: una terribile sete di sbornie che non aveva mai conosciuto prima della morte della moglie; la tendenza a guidare più velocemente e incoscientemente, per quanto prudente fosse stato fino a quel momento. Per migliorare le sue condizioni mentali, per cercare di salvarsi da se stesso, si era buttato a capofitto nel lavoro, dedicando la propria esistenza alla polizia di Los Angeles, nel tentativo di mettere a tacere il ricordo di Barbara Ann. La perdita aveva provocato una ferita interna che non si era più rimarginata, anche se l’impegno e la totale dedizione al dipartimento di polizia erano riusciti, se non altro, a placarne le fitte.

Per diciannove anni era riuscito a sopravvivere, persino a gioire del monotono tran tran di un drogato di lavoro. In qualità di agente in uniforme, non poteva fare straordinari; quindi si era iscritto a un corso serale che frequentava anche di sabato per ottenere il diploma di esperto in criminologia. Grazie al diploma e al suo eccellente curriculum di servizio, era riuscito a diventare un investigatore in borghese e, come tale, non era più soggetto ai rigidi orari degli agenti. Durante le giornate nelle quali arrivava a lavorare anche quattordici ore, non pensava ad altro che ai casi a cui era stato assegnato. E anche quando smontava, continuava a rimuginare sulle indagini, fino a escludere ogni possibilità: rifletteva mentre era sotto la doccia, mentre cercava di prendere sonno la notte, esaminava le prove raccolte mentre faceva colazione la mattina o durante le cene solitarie a notte fonda. Praticamente leggeva solo testi di criminologia o ricerche effettuate sui vari tipi di criminali. Per diciannove anni era stato l’agente degli agenti, il detective dei detective.

In tutti quegli anni non si era mai innamorato di una donna. Non aveva nemmeno il tempo di frequentarle e, del resto, non lo riteneva nemmeno molto giusto. Non sarebbe stato leale nei confronti di Barbara Ann. Per alcune settimane, si era imposto una vita dedita al celibato, poi si era concesso uno stacco con una serie di amanti a pagamento. Per un motivo che nemmeno lui riusciva a capire bene, avere rapporti con le prostitute non implicava un tradimento nei confronti della memoria di Barbara Ann; forse perché il fatto di dover pagare per i servizi goduti rendeva il rapporto strettamente commerciale, senza la minima implicazione di cuore.

Poi aveva incontrato Wilma Compton.

Appoggiandosi allo schienale della panca, Frank per poco non rimase soffocato, pronunciando quel nome. Si passò la mano sul viso appiccicaticcio, le dita fra i capelli, e disse: «Ho bisogno di un altro scotch doppio.» Con un grande sforzo riuscì ad articolare le sillabe, ma anche così traspariva in modo evidente lo stato estremo di ebbrezza.

«Certo,» lo rassicurò Tony. «Un altro scotch. Ma forse è anche il caso di mettere qualcosa sotto i denti.»

«Non ho fame,» ribattè Frank.

«Qui fanno dei cheeseburger eccezionali,» incalzò Tony. «Ordiniamone un paio, insieme con le palatine fritte.»

«No. Per me, solo scotch.»

Tony insistè e alla fine Frank dovette accettare l’idea dell’hamburger, ma senza patatine.

Penny annotò l’ordine, ma quando sentì che Frank voleva un altro scotch, non si dimostrò molto entusiasta.

«Non sono venuto con la mia macchina,» la rassicurò Frank, cercando di scandire bene le parole. «Sono venuto con il taxi proprio perché avevo intenzione di ubriacarmi. E prenderò il taxi anche per tornare a casa. Quindi, bambolina mia, portami subito un altro di quei deliziosi scotch.»

Tony fece un cenno con il capo. «Se non riesce a trovare un taxi, lo riaccompagno io.»

Penny servì da bere a entrambi. Tony aveva ancora metà della sua birra, ma ormai si era intiepidita e la ragazza gli portò via il bicchiere.

Wilma Compton.

Wilma aveva trentun anni quando Frank l’aveva conosciuta: dodici meno di lui. Era carina, piccola, gentile e aveva occhi scuri, gambe lunghe e un corpo flessuoso con due fianchi invitanti, culetto piccolo, vitino di vespa e seno fin troppo pieno per le sue dimensioni. Non era certo carina, piccola e gentile come Barbara Ann. Non era dotata dell’acume di Barbara Ann o della natura industriosa di Barbara Ann o della comprensione di Barbara Ann. Ma, almeno in apparenza, richiamava vagamente l’ormai decedutissima moglie, quel tanto che bastava per risvegliare l’interesse di Frank nei confronti di una storia d’amore.

Wilma lavorava come cameriera nel bar dove spesso pranzavano gli agenti di polizia. Nel giro di poco tempo, Frank le aveva chiesto di uscire e lei aveva accettato. Al quarto appuntamento erano finiti a letto. Wilma aveva la stessa sete, la stessa energia e la stessa disponibilità che avevano reso Barbara Ann un’amante impareggiabile. Anche se a volte sembrava completamente assorta nella ricerca del proprio piacere personale più che in quello del partner, Frank cercava di autoconvincersi che prima o poi il suo egoismo sarebbe sparito; imputava quell’atteggiamento al fatto che la ragazza era stata troppo a lungo senza una relazione pienamente soddisfacente. Inoltre, era orgoglioso di riuscire a eccitarla in modo tanto completo.

Per la prima volta dopo Barbara Ann, l’amore era entrato a far parte del rapporto sessuale e pensava di percepire gli stessi sentimenti in Wilma, a giudicare dal modo in cui rispondeva. Dopo due mesi, Frank le aveva chiesto di sposarlo, lei aveva risposto di no e si era rifiutata di uscire ancora con lui. Da allora era riuscito a vederla e a parlarle solo al bar.

Wilma era stata sincera, spiegando le motivazioni del suo rifiuto. Non che avesse qualcosa contro il matrimonio, al contrario, era alla ricerca dell’uomo giusto, ma l’uomo giusto doveva essere dotato di un sostanzioso conto in banca e di un’ottima posizione. Un poliziotto non avrà mai la possibilità di garantire il tenore di vita e la sicurezza che sto cercando, aveva detto. Il suo primo matrimonio, infatti, era fallito sostanzialmente perché lei e il marito non facevano che litigare per colpa delle bollette e dei conti da pagare. Aveva scoperto che i crucci finanziari erano in grado di far svanire l’amore, lasciando solo un crogiuolo pieno di ceneri amare e stizzose. Era stata un’esperienza terribile e aveva giurato a se stessa di non ripetere un’altra volta lo stesso errore. Non escludeva il matrimonio per amore, però doveva assolutamente esserci anche la sicurezza finanziaria. Forse era stata un po’ troppo dura, ma non aveva alcuna intenzione di ritrovarsi nella stessa situazione che aveva già dovuto sopportare un tempo. Al solo pensiero, le tremava ancora la voce e le spuntavano le lacrime agli occhi. Non potrei sopportare la tristezza di un’altra storia d’amore andata in fumo solo per mancanza di soldi, aveva spiegato.

Stranamente, la sua determinazione a sposarsi per denaro non aveva diminuito il rispetto di Frank nei suoi confronti, né spento il suo ardore. Essendo stato solo per tanto tempo, aveva insistito per continuare la relazione, anche a costo di indossare un enorme paio di occhiali dalle lenti rosa per mantenere l’illusione della storia romantica. Le aveva svelato la sua situazione finanziaria, l’aveva praticamente pregata di dare un’occhiata al suo libretto di risparmio e ai suoi certificati di deposito a breve termine che sfioravano la cifra di trentamila dollari. L’aveva illuminata sul suo stipendio, le aveva confidato che sarebbe stato in grado di andare in pensione anche in giovane età e che avrebbero potuto usare i risparmi per mettere in piedi un’attività tutta loro con cui guadagnare altro denaro. Se stava cercando la sicurezza, lui era l’uomo giusto.

Ma trentaduemila dollari e una pensione da agente di polizia non erano sufficienti per Wilma Compton. «Non è male, Frank, però non sei nemmeno proprietario di una casa,» gli aveva fatto notare. Aveva indugiato a lungo sul libretto di risparmio, quasi ne ricavasse un piacere sensuale, e poi aveva aggiunto: «Mi dispiace, Frank, ma io speravo in qualcosa di più. Sono ancora giovane, anzi dimostro almeno cinque anni di meno. Mi rimane ancora un po’ di tempo per guardarmi attorno. Temo proprio che un patrimonio di trentaduemila dollari non sia un gran che, di questi tempi. Non credo che siano sufficienti per garantire il superamento di un’eventuale crisi. Con te non voglio correre il rischio di arrivare alle… bassezze… a cui sono arrivata con il mio primo marito.»

Lui si era sentito morire.

«Cristo, mi sono comportato come un imbecille!» esclamò Frank, picchiando un pugno sul tavolo. «Ero convinto che fosse uguale a Barbara Ann: una ragazza speciale… unica, preziosa. E qualunque cosa facesse, per quanto dura, indelicata e insensibile fosse, trovavo sempre qualche scusa per giustificarla. Splendide scuse. Scuse eleganti, elaborate e creative. Che stupido. Sono stato stupido, stupido, stupido! Più imbecille di un pezzo di somaro! Cristo!»

«Comunque era più che comprensibile,» cercò di calmarlo Tony.

«Sono stato un cretino!»

«Sei stato solo per troppo tempo,» commentò Tony. «Con Barbara Ann hai trascorso due anni meravigliosi. Non speravi di trovare niente di simile e non eri disposto ad accontentarti di qualcosa di meno. E così hai tagliato i ponti con il mondo. Ti sei autoconvinto di non aver bisogno di nessuno, ma tutti abbiamo bisogno di qualcuno, Frank. Tutti abbiamo bisogno di affetto. Nella nostra specie il bisogno di amore e di compagnia è forte almeno quanto quello di cibo e di acqua. E tu ti sei tenuto dentro tutto per tanti anni. Ma quando hai trovato una persona che assomigliava a Barbara Ann, quando hai visto Wilma, non sei più stato capace di reprimere quell’istinto. Diciannove anni di desideri e di bisogno sono esplosi tutti in una volta. Era inevitabile che ti comportassi come uno stupido. Sarebbe stato meglio se Wilma fosse stata una cara ragazza, degna di ciò che avevi da offrirle. Comunque mi sorprende che un tipo come Wilma non ti abbia messo le grinfie addosso anche prima.»

«Sono stato un cretino.»

«No.»

«Un idiota.»

«No, Frank. Sei stato umano,» lo consolò Tony. «Tutto qui. Sei stato umano come tutti noi.»

Penny servì i cheeseburger.

Frank ordinò un altro scotch doppio.

«Vuoi sapere che cosa le ha fatto cambiare idea?» domandò Frank. «Vuoi sapere perché, alla fine, ha accettato di sposarmi?»

«Certo,» rispose Tony. «Ma che ne dici di mangiare il cheeseburger, prima?»

Frank ignorò la proposta. «Mio padre è morto e io ho ereditato tutto. All’inizio sembrava che si trattasse solo di qualche migliaio di dollari, ma poi ho scoperto che il vecchio, negli ultimi trent’anni, aveva fatto collezione di polizze vita da cinque, diecimila dollari l’una. Dopo aver pagato tutte le tasse, l’eredità mi ha fruttato qualcosa come novantamila dollari.»

«Che mi prenda un colpo!»

«I miei averi personali e l’eredità inaspettata sono stati sufficienti per Wilma.»

«Forse ti sarebbe andata meglio se tuo padre fosse morto povero,» commentò Tony.

Gli occhi di Frank cominciarono a inumidirsi e per un attimo sembrò sul punto di scoppiare a piangere. Ma sbattè le palpebre e riuscì a trattenere le lacrime. Con voce appesantita dal dolore, rispose: «Mi vergogno ad ammetterlo, ma quando ho scoperto l’ammontare dell’eredità, ho smesso di dispiacermi per la morte del mio povero vecchio. Le polizze vita sono saltate fuori esattamente a una settimana dal suo funerale e quando sono venuto a saperlo ho subito pensato: Wilma. Mi sono sentito improvvisamente felicissimo. In quel momento, per quel che mi riguardava, mio padre poteva essere morto anche da anni. Mi fa venire il voltastomaco pensare a come mi sono comportato. Non che io e mio padre fossimo mai stati particolarmente uniti, ma sicuramente gli dovevo qualcosa in più. Cristo, che gran figlio di puttana sono stato, Tony.»

«È finita, Frank. Ormai è fatta,» lo consolò Tony. «E, comunque, non eri a posto con il cervello. Non eri responsabile delle tue azioni.»

Frank si portò le mani al viso e così rimase per qualche secondo, tremando ma senza piangere. Infine, alzò lo sguardo e disse: «E allora, quando Wilma ha visto che possedevo qualcosa come centoventicinquemila dollari, ha deciso di sposarmi. Nel giro di otto mesi, mi ha prosciugato le tasche.»

«In questo stato vige la comunione dei beni,» sottolineò Tony. «Com’è riuscita a prendersi anche la metà che spettava a te?»

«Oh, non ha ottenuto niente con il divorzio.»

«Che cosa?»

«Nemmeno un centesimo.»

«E come mai?»

«Ormai era già sparito tutto.»

«Sparito?»

«Puff!»

«Aveva speso tutto?»

«Aveva rubato tutto,» rispose piattamente Frank.

Tony appoggiò il cheeseburger e si pulì la bocca con un tovagliolino di carta. «Ha rubato tutto? E come?»

Frank era ormai quasi completamente ubriaco, ma questa volta riuscì a parlare con incredibile chiarezza e precisione. Riteneva importantissimo che l’atto di accusa nei confronti della donna fosse ben recepito, più di ogni altro dettaglio di quella storia. Wilma gli aveva lasciato soltanto l’indignazione che adesso intendeva condividere con Tony: «Appena tornati dalla luna di miele, ha messo subito in chiaro che voleva occuparsi della contabilità. Intendeva sbrigare di persona tutti i rapporti con la banca, controllare gli investimenti e tenere il bilancio. È andata a iscriversi a un corso di economia e ha messo a punto un budget dettagliato. La sua decisione e il suo atteggiamento da donna d’affari mi rendevano felice perché mi ricordavano tanto Barbara Ann.»

«Le avevi raccontato che anche Barbara Ann si era comportata così?»

«Sì. Oh, Cristo, sì. Sono stato io a farmi prosciugare, certo.»

Tutt’a un tratto, Tony perse l’appetito.

Frank si passò nuovamente la mano tremante fra i capelli. «Insomma, non ho avuto modo di sospettare di lei. Intendo dire, era così buona con me. Aveva imparato a cucinare i miei piatti preferiti, stava sempre ad ascoltare i miei racconti quando tornavo a casa dal lavoro, e sembrava anche interessata. Non esagerava nel chiedere vestiti o gioielli. Di tanto in tanto uscivamo per andare a cena o al cinema, ma per lei era soltanto uno spreco di denaro. Diceva sempre che sarebbe stato meglio starsene a casa a guardare la televisione o a chiacchierare. Non aveva alcuna fretta di acquistare una casa. Era talmente… accomodante. Mi faceva i massaggi quando tornavo stanco e pieno di dolori. E a letto… era favolosa. Perfetta. Però… però… per ogni momento passato a cucinare, ad ascoltarmi, a massaggiarmi, a scopare…»

«Ti spillava dollari su dollari dal conto in banca.»

«Fino all’ultimo centesimo. A eccezione di diecimila dollari investiti in un certificato di deposito a lungo termine.»

«E poi ti ha abbandonato?»

Frank venne scosso da un fremito. «Un giorno sono tornato a casa e ho trovato un messaggio. Diceva: ‘Se vuoi sapere dove sono, chiama questo numero e chiedi di Mr Freyborn.’ Freyborn era un avvocato. Si era rivolta a lui perché curasse la pratica del divorzio. Sono rimasto di pietra. Dopotutto, non avevo mai sospettato nulla… Comunque, Freyborn si rifiutò di dirmi dove si trovava. Si limitò ad assicurarmi che non sarebbe stato difficile trovare un accordo, dal momento che Wilma non chiedeva né alimenti né altro. Non voleva nemmeno un centesimo, mi disse Freyborn. Voleva solo andarsene. È stata dura. Molto dura. Cristo, non riuscivo a capire che cosa avevo fatto di male. Ho persino rischiato di impazzire nel tentativo di immaginare dove fosse l’errore. Sono arrivato a pensare di poter cambiare, di poter diventare una persona migliore e di riconquistarla. Ma poi… due giorni dopo, quando ho dovuto staccare un assegno, mi sono accorto che sul conto c’erano solo tre dollari. Sono subito andato in banca e poi anche alla società finanziaria e alla fine ho scoperto perché non chiedeva nemmeno un centesimo. Si era già presa tutto da sola.»

«Non le avrai permesso di filarsela così facilmente?» chiese Tony.

Frank trangugiò parte del suo scotch. Stava sudando. Aveva la faccia pallida, quasi terrea. «All’inizio sono rimasto intontito, mi era quasi venuta voglia di ammazzarmi. Non che abbia veramente cercato di farlo, però ormai non mi importava più di vivere. Ero confuso, quasi in trance.»

«Ma poi ti sarai risvegliato, no?»

«In parte. Ancora oggi sono un po’ confuso. Ma ne sono uscito, almeno in parte,» rispose Frank. «Poi ho provato vergogna. Mi vergognavo di ciò che le avevo permesso di farmi. Mi ero comportato da somaro, da pezzo di cretino integrale. Non volevo che lo sapesse nessuno, nemmeno il mio avvocato.»

«Questa è stata la prima vera sciocchezza che hai commesso,» ribattè Tony. «Posso capire il resto della storia, ma questo no.»

«Non so perché, ma ho cominciato a pensare che se avessi fatto sapere in giro come mi ero fatto ingannare da Wilma, la gente avrebbe potuto mettere in dubbio l’immagine di Barbara Ann. Temevo che si potesse credere che anche Barbara Ann mi aveva preso in giro come Wilma, e per me la cosa più importante al mondo era mantenere pulita la sua memoria. Mi rendo conto che adesso possa sembrare pazzesco, ma in quel momento la pensavo così.»

Tony non sapeva più che cosa dire.

«Quindi la pratica di divorzio è andata avanti liscia come l’olio,» proseguì Frank. «Niente lunghe discussioni per decidere gli accordi. Anzi, ho rivisto Wilma per qualche minuto soltanto in tribunale e, comunque, non le ho mai più rivolto la parola.»

«E adesso sai dove si trova?»

Frank finì di bere lo scotch. Quando riprese a parlare, la sua voce era diversa, sommessa, quasi un sussurro, non tanto per evitare che i presenti nel locale sentissero la sua storia, quanto per mancanza assoluta di energia. «Dopo il divorzio, cominciai a incuriosirmi. Sulla base del certificato di deposito che mi aveva lasciato, sono riuscito a strappare un prestito e ho assunto un investigatore privato per scoprire dov’era e che cosa stava facendo. Sono venuto a sapere un bel mucchio di cose interessantissime. Nove giorni dopo la sentenza definitiva di divorzio, si è risposata con un tizio dell’Orange County, un certo Chuck Pozley. È proprietario di una sala giochi a Costa Mesa. Dovrebbe valere intorno agli ottantamila dollari. La mia impressione è che Wilma avesse preso in considerazione l’idea di sposarlo prima che ereditassi i soldi di mio padre. Poi però ha preferito sposare me, spennarmi fino all’osso e tornare da lui con i miei soldi. Hanno usato parte del capitale per aprire altri due locali e sembra che se la cavino niente male.»

«Oh, Cristo,» esclamò Tony.

Solo quella mattina non sapeva niente della vita di Frank Howard, ma ormai ne conosceva tutti i dettagli. Anzi, più di quanto avesse desiderato sapere. Era sempre stato un ottimo ascoltatore, ma quella qualità era stata tanto una benedizione quanto una maledizione. Michael Savatino, il suo ex compagno, diceva sempre che il motivo per cui era diventato un detective era perché la gente si fidava di lui e si dimostrava sempre ben disposta a raccontargli tutto. E, sempre secondo Michael, la gente era disposta a parlare con lui semplicemente perché era un buon ascoltatore. Secondo Michael, la sua era una qualità rarissima in un mondo di egoisti, di arrivisti e di egocentrici. Tony sapeva ascoltare con disponibilità e attenzione qualsiasi tipo di persona perché, come un pittore resta affascinato dalle sfumature nascoste dei propri modelli, lui era alla ricerca del significato generale dell’esistenza umana. Persino in quel momento, ascoltando Frank, gli venne da pensare a una frase di Emerson che aveva letto molto tempo prima: La Sfinge deve risolvere il suo enigma. Quindi, se la storia è racchiusa nel singolo uomo, tutto sarà spiegabile attraverso l’esperienza individuale. Gli uomini, le donne e i bambini erano simili a grandi rompicapi e Tony non si annoiava mai ad ascoltare le loro storie.

Tony si allungò per udire meglio le paròle sommesse di Frank. «Pozley sapeva che cosa mi aveva riservato Wilma. Probabilmente si vedevano un paio di volte la settimana, mentre io ero al lavoro. Quindi per tutto il tempo in cui ha interpretato il ruolo di brava mogliettina, non ha fatto altro che derubarmi e scopare con il suo Pozley. Più ci pensavo e più mi infuriavo, finché sono giunto alla conclusione di raccontare tutto al mio avvocato.»

«Ma ormai era troppo tardi?»

«Più o meno. Oh, sicuramente avrei potuto intentare una causa legale contro di lei. Ma il fatto di non averla accusata del furto durante la procedura di divorzio avrebbe gravato pesantemente su di me. Avrei dovuto spendere i pochi soldi rimasti in avvocati e con tutta probabilità avrei perso la causa comunque. E così ho deciso di buttarmi tutto dietro le spalle. Credevo di potermi rituffare nel lavoro, come avevo fatto dopo la morte di Barbara Ann. Ma ero molto più distrutto di quanto immaginassi. Non riuscivo più a lavorare. Ogni donna con cui mi trovavo ad avere a che fare, be’… non so… era come se in ognuna di loro riconoscessi Wilma. Bastava un niente per scattare con violenza con le donne che dovevo interrogare. Anzi, molto presto cominciai a comportarmi male con tutti i testimoni, donne e uomini. Cominciai a perdere di vista le cose, non notavo più nemmeno gli indizi che avrebbe saputo raccogliere anche un bambino. Presi a litigare con il mio compagno e adesso eccomi qua.» Per un secondo gli mancò la voce e dovette lottare con se stesso per riuscire a proseguire. «Dopo la morte di Barbara Ann, se non altro, ero riuscito a lavorare. Mi era rimasto qualcosa. Ma Wilma si è presa tutto. I miei soldi e il mio orgoglio, persino le mie ambizioni. Ormai non mi importa più niente di niente.» Scivolò fuori della panca e rimase in piedi, oscillando come un burattino. «Scusami. Devo andare a pisciare.» Vacillante, si diresse verso la toilette, facendo attenzione a tenere a debita distanza chiunque incontrasse sulla sua strada.

Tony sospirò e chiuse gli occhi. Si sentiva spossato, sia fisicamente sia spiritualmente.

Penny si avvicinò al tavolo e gli disse: «Gli faresti un grande favore se lo riaccompagnassi a casa. Domani mattina si sentirà come una capra mezzo morta.»

«E come si sente una capra mezzo morta?»

«Molto peggio di una capra in buona salute e molto peggio di una capra morta,» rispose lei.

Tony pagò le consumazioni e rimase ad aspettare il suo compagno. Passati cinque minuti, prese la giacca e la cravatta di Frank e andò a cercarlo.

La toilette era angusta: una cabina, un orinatoio, un lavandino. Sapeva di disinfettante al pino misto a urina.

Frank era davanti al muro ricoperto di scritte contro il quale batteva le mani aperte provocando un rumore secco che riecheggiava nella piccola stanza. BAM BAM BAM BAM! Nel locale non si udiva nulla a causa del brusio e della musica, ma all’interno del gabinetto Tony si sentì perforare i timpani.

«Frank?»

BAM BAM BAM BAM BAM BAM BAM!

Gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla, lo scostò delicatamente dalla parete e lo fece voltare verso di sé.

Frank stava piangendo. Aveva gli occhi gonfi e arrossati. La faccia era rigata dalle lacrime. Le labbra erano gonfie e scomposte: tremavano per il dolore. Ma piangeva silenziosamente, senza singhiozzi o scossoni, con la voce strozzata in gola.

«Stai calmo,» lo tranquillizzò Tony. «Si sistemerà tutto quanto. Non hai bisogno di Wilma. Stai molto meglio senza di lei. Hai molti amici. Ti aiuteremo tutti a venirne fuori, se solo ce lo permetterai, Frank. Ti aiuterò. Ci tengo, Frank. Ci tengo davvero.»

Frank chiuse gli occhi. Storcendo le labbra, si mise a singhiozzare, ma sempre in silenzio, producendo un leggero sibilo a ogni respiro. Allungò una mano, alla ricerca di un sostegno, e Tony gli circondò le spalle con un braccio.

«Voglio tornare a casa,» biascicò Frank. «Voglio solo andare a casa.»

«D’accordo. Ti accompagno io. Appoggiati.»

Abbracciati come due vecchi compagni dì guerra, lasciarono The Bolt Hole. A piedi raggiunsero il condominio dove abitava Tony e poi salirono sulla sua jeep.

A metà strada, Frank emise un sospiro e mormorò: «Tony… ho paura.»

Tony gli lanciò un’occhiata.

Frank era sprofondato nel sedile. Appariva piccolo e indifeso e i vestiti sembravano troppo grandi per lui. Il viso era segnato dalle lacrime.

«Di che cosa hai paura?»

«Non voglio restare da solo,» rispose Frank mentre piangeva sommessamente e tremava per gli effetti dell’alcol e forse anche della paura.

«Non sei solo,» gli fece notare Tony.

«Ho paura di… morire solo.»

«Non sei solo e non stai morendo, Frank.»

«Tutti invecchiano… velocemente. E a me… piacerebbe avere qualcuno al mio fianco…»

«Troverai qualcuno.»

«Voglio qualcuno da ricordare e da amare.»

«Non preoccuparti,» lo rassicurò Tony.

«Mi spaventa l’idea.»

«Troverai qualcuno.»

«No.»

«Sì, invece.»

«Non troverò nessuno,» ripetè Frank, chiudendo gli occhi e appoggiando il capo contro il finestrino.

Quando arrivarono a casa, Frank stava già dormendo come un bambino. Tony cercò di svegliarlo ma Frank non voleva tornare in sé. Inciampando, mormorando parole incomprensibili, sospirando affannosamente, si fece trasportare fino alla porta di casa. Tony l’appoggiò contro il muro e, tenendolo con una mano, gli frugò nelle tasche alla ricerca della chiave. Quando finalmente riuscirono a raggiungere la camera da letto, Frank rovinò sul materasso come un sacco di patate e iniziò a russare.

Tony lo spogliò, sollevò le coperte, aiutò il compagno a sistemarsi nel letto e gli rimboccò le lenzuola. Nel frattempo Frank continuò a sbuffare e a russare.

In cucina, in un cassetto pieno di cianfrusaglie vicino al lavandino, Tony trovò una penna, un blocco e un rotolo di scotch. Scrisse un messaggio e lo appese sullo sportello del frigorifero.


Caro Frank,

quando domani mattina ti sveglierai, ricorderai tutto ciò che mi hai raccontato e con tutta probabilità ti sentirai in imbarazzo. Non ti preoccupare. Tutto quello che mi hai confidato rimarrà fra noi due. Anzi, domani ti racconterò anch’io qualche segreto della mia vita, così saremo pari. Dopotutto, gli amici servono anche per sfogarsi.

Tony


Uscì e chiuse la porta.

Tornando a casa, ripensò al povero Frank tutto solo e si rese conto che la sua situazione non era decisamente migliore. Aveva ancora un padre, ma Carlo era molto malato e difficilmente sarebbe sopravvissuto più di cinque, dieci anni al massimo. I fratelli e le sorelle di Tony erano sparsi un po’ ovunque e, d’altra parte, non si sentiva vicino a nessuno di loro in particolare. Aveva un sacco di amici, ma non del genere che si desidera avere attorno da vecchi. Sapeva bene che cosa intendeva dire Frank. Sul letto di morte, c’era un solo genere di mani in grado di consolarti o di infonderti coraggio: le mani di una moglie, dei figli o dei genitori. Si stava costruendo un’esistenza che, alla fine, si sarebbe rivelata un semplice tempio vuoto di solitudine. Aveva trentacinque anni, era ancora giovane, ma non aveva mai pensato seriamente al matrimonio. Tutt’a un tratto ebbe la sensazione che il tempo gli stesse scorrendo sotto le dita. Gli anni passavano troppo velocemente. Sembrava ieri che aveva vent’anni, ma ne erano già passati altri dieci.

Forse Hilary Thomas è la persona giusta, pensò mentre parcheggiava davanti a casa. E una donna speciale. Ne sono sicuro. E molto speciale. Forse anche lei pensa che io sia speciale. Potrebbe funzionare. Perché no?

Rimase seduto per qualche istante nella jeep a fissare il cielo della notte, a pensare a Hilary Thomas, alla vecchiaia e alla morte solitaria.


Alle 22.30, Hilary era completamente assorbita dal romanzo di James Clavell. Stava finendo di sgranocchiare una mela con un pezzo di formaggio, quando il telefono prese a squillare.

«Pronto?»

Silenzio.

«Chi è?»

Niente.

Hilary sbattè giù il ricevitore, come consigliano sempre di fare in caso di minacce o telefonate oscene. Riappendi e basta, dicono sempre. Non incoraggiare chi ha chiamato. Riappendi subito. Era riuscita a fargli rimbombare l’orecchio, ma questo non l’aiutava a sentirsi meglio.

Era sicura che non si era trattato di un errore. Due volte in una sera, senza nemmeno una parola di scuse. Non era possibile. Senza contare che quel silenzio lasciava trasparire una velata minaccia.

Nemmeno dopo la nomination all’Oscar aveva sentito il bisogno di far togliere il suo nome dall’elenco telefonico. Gli autori non godevano della stessa popolarità degli attori o dei registi. Il pubblico in genere non ricordava mai il nome di chi aveva scritto la sceneggiatura dei film migliori. La maggior parte degli autori che chiedeva di togliere il proprio nome dagli elenchi telefonici lo faceva per prestigio: il fatto di non comparire significava che lo scrittore era talmente indaffarato a concentrarsi sulle sue idee da non avere nemmeno il tempo di evadere chiamate indesiderate. Ma Hilary non soffriva di questo problema e, per lei, restare sull’elenco telefonico equivaleva a non esserci affatto.

Ovviamente questo poteva non essere più vero. Forse tutte quelle chiacchiere sui suoi due incontri con Bruno Frye l’avevano fatta diventare un oggetto di pubblico interesse, là dove due sceneggiature di successo non erano riuscite. La storia di una donna che lotta contro un probabile stupratore e che, la seconda volta, lo ammazza può sempre affascinare un certo tipo di menti malate. Poteva esserci in giro una bestia vogliosa di dimostrare a tutti che sarebbe stata in grado di riuscire dove Bruno Frye aveva fallito.

Decise di chiamare la sede della compagnia telefonica immediatamente la mattina successiva, per richiedere un numero nuovo da non pubblicare sugli elenchi.


A mezzanotte l’obitorio della città era tranquillo come una tomba, com’era stato descritto una volta dal patologo di turno. Anche il corridoio scarsamente illuminato era immerso nel silenzio. Il laboratorio era al buio. La stanza piena di cadaveri era fredda, tetra e silenziosa, fatta eccezione per il ronzio delle bocchette che immettevano aria fredda dalle tubazioni.

Mentre giovedì notte diventava venerdì mattina, all’obitorio c’era un solo inserviente di turno. Era seduto davanti a una scrivania di metallo e legno, in una stanzetta accanto all’ufficio del coroner. Si chiamava Albert Wolwicz. Ventinove anni, divorziato, era padre di una bambina di nome Rebecca. Sua moglie si era assicurata la sua custodia e ormai entrambe vivevano a San Diego. Ad Albert non importava fare quel turno da (perdonate l’espressione) oltretomba. Si occupava dell’archivio, stava ad ascoltare la radio, poi tornava all’archivio e di tanto in tanto leggeva un paio di capitoli di un romanzo di Stephen King, sempre stracolmo di vampiri latitanti dalle parti del New England. E se la città se ne stava tranquilla per tutta la notte, se i piedipiatti o gli addetti al trasporto dei cadaveri non arrivavano di corsa a portare qualche reduce da una rissa o da un incidente, il lavoro sarebbe stato facile come bere un bicchier d’acqua sino alla fine del turno.

Dieci minuti dopo mezzanotte, il telefono squillò.

Albert prese il ricevitore e rispose: «Obitorio.»

Silenzio.

«Pronto?» ripetè Albert.

L’uomo all’altro capo del filo iniziò a gemere e a piangere.

«Chi è?»

Ma l’altro non riuscì a rispondere a causa delle lacrime.

I suoni che emetteva erano quasi una parodia del dolore: singhiozzi esagerati e isterici, i più strani che Albert avesse mai udito. «Se mi dice che cos’è successo, forse la posso aiutare.»

Ma l’altro riattaccò.

Albert rimase a fissare il ricevitore per qualche istante, scrollò le spalle e alla fine riappese.

Cercò di riprendere la lettura del romanzo di Stephen King, ma ormai era convinto di aver udito un tramestio fuori della porta che gli stava alle spalle. Continuò a voltarsi, ma non c’era nessuno. O niente.

4

Venerdì mattina.

Ore nove.

Due uomini della Camera Mortuaria di Angels’ Hill di West Los Angeles arrivarono all’obitorio per ritirare il corpo di Bruno Gunther Frye. Lavoravano in collaborazione con l’impresa di pompe funebri Forever View nella città di St. Helena, dove aveva vissuto il defunto. Uno dei due uomini firmò il regolare permesso e il cadavere fu trasferito nella parte posteriore del carro funebre Cadillac.


Frank Howard non sembrava reduce da una sbornia. La pelle non aveva il classico colorito giallastro tipico di chi ha alzato il gomito, ma, al contrario, appariva rosea e piena di salute. Gli occhi azzurri erano luminosi. Apparentemente, quella confessione gli aveva fatto un gran bene, a livello sia fisico sia spirituale.

Prima in ufficio e poi in macchina, Tony avvertì l’imbarazzo che aveva previsto e fece del suo meglio per mettere Frank a proprio agio. Frank sembrava essersi reso conto che fra loro non era cambiato niente e che, addirittura, il loro rapporto era decisamente migliorato rispetto a tre mesi prima. Nel corso della mattinata, sperimentarono una sintonia tale che avrebbe permesso loro di lavorare insieme come se fossero stati una persona sola. Non regnava ancora la perfetta armonia che Tony aveva conosciuto con Michael Savatino, ma ormai sembrava non ci fossero più ostacoli alla nascita di un’amicizia profonda quanto quella che l’aveva unito al suo precedente compagno. Avevano ancora bisogno di un po’ di tempo, forse qualche mese, per trovare un’intesa perfetta, ma alla fine si sarebbe sicuramente creato un legame a livello psichico che avrebbe reso il loro lavoro incredibilmente più semplice.

Venerdì mattina, lavorarono al caso di Bobby Valdez. Non avevano molte piste da seguire e le prime due non portarono a nulla.

Il rapporto su Juan Mazquezza del dipartimento della motorizzazione si rivelò una vera delusione. Bobby Valdez aveva usato un falso certificato di nascita e altri documenti contraffatti per ottenere una patente a nome di Juan Mazquezza. L’ultimo indirizzo fornito dal dipartimento era quello degli appartamenti Las Palmeras in La Brea Avenue, che Bobby aveva abbandonato in luglio. Esistevano altri due Juan Mazquezza negli archivi del dipartimento della motorizzazione. Il primo era un ragazzo di diciannove anni che viveva a Fresno. L’altro Juan era un uomo di sessantasette anni di Tustin. Entrambi possedevano automobili con targhe californiane, ma nessuno dei due aveva una Jaguar. Non era mai stata registrata un’automobile a nome del Juan Mazquezza che abitava in La Brea Avenue, e quindi era ovvio che Bobby avesse comprato la Jaguar usando un altro nome falso. Evidentemente disponeva di una vasta gamma di documenti contraffatti di ottima qualità.

Erano a un punto morto.

Tony e Frank ritornarono alla Lavanderia Vee Vee Gee e interrogarono gli operai che avevano lavorato con Bobby quando si faceva passare per Mazquezza. Speravano che qualcuno fosse rimasto in contatto con lui e potesse quindi fornire informazioni sul suo attuale domicilio. Ma tutti riferirono che Juan era un tipo solitario: nessuno sapeva dov’era finito.

Un altro punto morto.

Lasciata la Vee Vee Gee, si fermarono per il pranzo in una trattoria che a Tony piaceva molto. Oltre al locale principale, il ristorante aveva una terrazza all’aperto con una dozzina di tavoli posti sotto grandi ombrelloni a strisce bianche e blu. Tony e Frank mangiarono una frittata al formaggio e un’insalata respirando la tiepida aria autunnale.

«Domani sera hai qualcosa da fare?» chiese Tony.

«Io?»

«Tu.»

«No. Niente.»

«Bene. Ho organizzato qualcosa.»

«Che cosa?»

«Un appuntamento alla cieca.»

«Per me?»

«Tu rappresenti solo il cinquanta per cento.»

«Parli sul serio?»

«L’ho chiamata questa mattina.»

«Scordatelo,» sbottò Frank.

«È il tipo adatto a te.»

«Odio gli incontri combinati.»

«È molto bella.»

«Non mi interessa.»

«E anche dolce.»

«Non sono un ragazzino.»

«E chi ha detto che lo sei?»

«Non c’è bisogno che tu mi sistemi con qualcuno.»

«A volte lo si fa per un amico. Non credi?»

«Posso farcela anche da solo.»

«Solo un pazzo rifiuterebbe di uscire con questa donna.»

«E allora sono un pazzo.»

Tony sospirò. «Fai come vuoi.»

«Senti, per quanto riguarda ieri sera a The Bolt Hole…»

«Sì?»

«Non cercavo la tua compassione.»

«Prima o poi tutti hanno bisogno di un po’ di compassione.»

«Volevo solo che tu capissi perché avevo la luna storta.»

«L’ho capito benissimo.»

«Non volevo darti l’impressione di essere un nevrotico o un imbecille che non sa in che modo trattare le donne.»

«Non mi hai dato assolutamente quell’impressione.»

«Non mi sono mai lasciato andare così prima di ieri.»

«Ci credo.»

«Non ho mai… pianto in quel modo.»

«Lo so.»

«Immagino sia stata la stanchezza.»

«Certo.»

«Forse è stata colpa di tutti quegli scotch.»

«Forse.»

«Ho bevuto un po’ troppo.»

«Parecchio.»

«L’alcol mi rende sentimentale.»

«Forse.»

«Ma ora sto bene.»

«E chi ha detto che stai male?»

«Posso decidere da solo con chi uscire, Tony.»

«Come preferisci.»

«D’accordo?»

«D’accordo.»

Si concentrarono su quello che stavano mangiando.

In quella zona c’erano molti uffici e decine di segretarie camminavano lungo il marciapiede per recarsi a pranzo.

La terrazza del ristorante era piena di fiori che profumavano l’aria tiepida. Il rumore della strada era tipico di Los Angeles. Non si udiva l’incessante stridio dei freni e il suono dei clacson che caratterizzavano New York, Chicago e molte altre città. Solo il mormorio ipnotico dei motori. E il sibilo delle macchine che sfrecciavano. Quasi una nenia. Rilassante. Come le onde sulla spiaggia. Prodotto dalle macchine ma in qualche modo naturale e primitivo. Delicatamente e inaspettatamente erotico. Persino i rumori del traffico si conformavano alla personalità subtropicale della città. Dopo un paio di minuti di silenzio, Frank chiese: «Come si chiama?»

«Chi?»

«Non fare il finto tonto.»

«Janet Yamada.»

«Giapponese?»

«Ti sembra forse italiana?»

«Che tipo è?»

«Intelligente, spiritosa, carina.»

«Che cosa fa?»

«Lavora in municipio.»

«Quanti anni ha?»

«Trentasei, trentasette.»

«Non è troppo giovane per me?»

«Santo cielo, ne hai solo quarantacinque!»

«Come fai a conoscerla?»

«Siamo usciti insieme per un po’,» rispose Tony.

«Che cosa c’era che non andava?»

«Niente. Abbiamo solo scoperto che andavamo più d’accordo come amici che come amanti.»

«Credi che mi potrebbe piacere?»

«Ne sono certo.»

«E io piacerò a lei?»

«Se non ti metti le dita nel naso e se non mangi con le mani.»

«Va bene,» mormorò Frank. «Uscirò con lei.»

«Se ti pesa tanto, forse è meglio lasciar perdere.»

«No. Ci andrò. Andrà tutto bene.»

«Non devi accettare solo per farmi un favore.»

«Dammi il suo numero di telefono.»

«Forse non è stata una buona idea. Mi sembra di averti costretto a fare ciò che non volevi.»

«Non mi hai costretto.»

«Forse dovrei chiamarla e annullare tutto,» proseguì Tony.

«No, ascolta, io…»

«Non dovrei combinare questi appuntamenti. Non è il mio compito.»

«Dannazione, io voglio uscire con lei!» sbottò Frank.

Tony sorrise. «Lo so.»

«Sono forse stato manipolato?»

«Ti sei manipolato da solo.»

Frank cercò di fingersi accigliato, ma non ci riuscì. Fece una smorfia. «Vuoi che usciamo insieme sabato sera?»

«Assolutamente no. Devi arrangiarti da solo, amico.»

«Ovviamente,» lo rimproverò Frank, «non vorrai dividere Hilary Thomas con qualcun altro.»

«Esattamente.»

«Credi davvero che fra voi due possa funzionare?»

«Guarda che non abbiamo ancora parlato di matrimonio. È solo il primo appuntamento.»

«Ma non credi che sia un po’… azzardato, anche solo per un appuntamento?»

«E perché mai?» domandò Tony.

«Be’, lei ha un sacco di soldi.»

«Mi sembra un’osservazione da maschio sciovinista.»

«Non credi che renderà tutto più difficile?»

«Quando un uomo è ricco, deve forse limitarsi a uscire con donne che possiedono la stessa quantità di denaro?»

«È diverso.»

«Quando un re decide di sposare una povera commessa, allora si tratta di una storia romantica. Ma quando una regina decide di sposare un povero commesso, allora ecco che quella donna si sta facendo incastrare. È un classico.»

«Be’… in bocca al lupo.»

«Anche a te.»

«Pronto per ritornare al lavoro?»

«Sì,» rispose Tony. «Andiamo a cercare Bobby Valdez.»

«Sarebbe più facile con il giudice Crater.»

«O Amelia Earhart.»

«O Jimmy Hoffa.»


Venerdì pomeriggio.

Ore tredici.

Il corpo giaceva sul tavolo di preparazione della camera mortuaria di Angels’ Hill a West Los Angeles. Dall’alluce del piede destro penzolava un cartellino che identificava il cadavere come quello di Bruno Gunther Frye.

Un imbalsamatore specializzato stava preparando la salma per il trasporto a Napa County. Gli intestini e tutti gli organi interni vennero estratti dal corpo attraverso l’unica apertura naturale disponibile. A causa delle ferite da arma da taglio e dell’autopsia effettuata la notte precedente, non era rimasto molto sangue nel cadavere, ma anche i pochi fluidi rimasti vennero prelevati fino all’ultima goccia; al loro posto venne iniettato il liquido da imbalsamazione.

Affaccendandosi sul corpo, il tecnico mortuario si mise a fischiettare un brano di Donny e Marie Osmond.

La camera mortuaria di Angels’ Hill non garantiva il servizio della ricomposizione estetica, che sarebbe stata effettuata dall’impresario di pompe funebri di St. Helena. L’imbalsamatore di Angels’ Hill si limitò a chiudere per sempre gli occhi ormai ciechi e a immobilizzare le labbra con una serie di punti interni in modo che la bocca restasse vagamente sorridente per l’eternità. Si trattava di un lavoro meticoloso: i punti non sarebbero stati visibili agli occhi di chi fosse andato a porgere l’estremo saluto, se mai ci fosse stato qualcuno.

Poi la salma venne avvolta in un lenzuolo bianco e riposta in una misera bara di alluminio, fabbricata e sigillata in base alle norme statali per il trasporto di morti con qualsiasi mezzo. A St. Helena, il cadavere sarebbe stato riposto in una bara più elegante, scelta direttamente dalla famiglia o dagli amici del compianto.

Venerdì ore 16. Il corpo venne trasferito all’aeroporto internazionale di Los Angeles e caricato su un turbo elica merci della California Airways con destinazione Monterey, Santa Rosa e Sacramento. Al secondo scalo sarebbe stato scaricato.

Venerdì ore 18.30. All’aeroporto di Santa Rosa non c’era nessuno della famiglia di Bruno Frye ad accogliere la salma. Non aveva parenti. Era l’ultimo della stirpe. Suo nonno aveva concepito un’unica figlia, Katherine, che non aveva avuto eredi. Bruno era stato adottato. E non si era mai sposato.

Due delle tre persone che stavano aspettando al terminal arrivavano direttamente dall’impresa di pompe funebri Forever View. Il proprietario era Mr Avril Thomas Tannerton che, con la sua attività, serviva St. Helena e le comunità di quella zona. Quarantatreenne, di bell’aspetto, era leggermente paffuto, ma non grasso, con una chioma di capelli biondo rossicci, una generosa manciata di lentiggini, occhietti vivaci e un sorriso caloroso che difficilmente riusciva a dissimulare. Era andato a Santa Rosa con l’assistente di ventiquattro anni, Gary Olmstead, un ragazzo fisicamente poco dotato che raramente parlava più dei morti con cui aveva a che fare. Tannerton richiamava vagamente l’immagine del cantore, con una patina di rispetto che nascondeva un animo bonariamente malizioso; Olmstead aveva una faccia lunga, addolorata, ascetica, che ben si adattava alla sua professione.

Il terzo uomo era Joshua Rhinehart, avvocato di Frye e suo esecutore testamentario. Sessantenne, aveva l’aspetto giusto per intraprendere con successo la carriera diplomatica o politica. La ricca chioma pettinata all’indietro non era bianca, né giallastra, ma quasi argentata. La fronte era spaziosa, il naso importante, la mascella squadrata. Gli occhietti marroni erano limpidi e vivaci.

Il corpo di Bruno Frye venne trasferito dall’aereo al carro funebre che l’avrebbe portato a St. Helena. Joshua Rhinehart lo seguì con la sua auto privata.

Joshua Rhinehart non si era recato a Santa Rosa con Avril Tannerton per affari o per obblighi di tipo personale. Erano anni che si occupava della Shade Tree Vineyards, la società che da generazioni apparteneva alla famiglia di Frye, ma ormai non aveva più bisogno della rendita derivante da quella attività, che era diventata sempre più onerosa. Aveva continuato a occuparsi degli affari della famiglia di Frye soprattutto in ricordo dei tempi in cui aveva dovuto lottare per mettere in piedi uno studio professionale nel bel mezzo della campagna di Napa County, quando era stato aiutato dalla decisione di Katherine Frye di affidare a lui tutti gli affari di famiglia. Il giorno prima, quando era venuto a sapere della morte di Bruno, non aveva provato alcun dolore. Né Katherine, né il figlio adottivo avevano mai ispirato il suo affetto e, del resto, nemmeno loro avevano mai incoraggiato il nascere di un rapporto di amicizia.

Joshua aveva accompagnato Avril Tannerton all’aeroporto di Santa Rosa solo perché voleva occuparsi di persona dell’arrivo della salma, nel caso in cui fosse intervenuta la stampa a provocare qualche carosello sull’accaduto. Anche se Bruno era stato un tipo instabile, malato e forse persino malvagio, Joshua aveva tutte le intenzioni di organizzare per lui un funerale dignitoso. Sentiva di dovergli almeno questo. Inoltre Joshua era sempre stato un accanito promotore e sostenitore della Napa Valley, di cui aveva sempre difeso la qualità della vita e la squisitezza del vino. Non voleva che l’intera comunità venisse macchiata dalle gesta criminali di un unico uomo.

Fortunatamente, all’aeroporto non si presentò neppure un giornalista.

Ripresero in direzione di St. Helena, fra le ombre del crepuscolo e la luce sempre più fioca. Attraversarono la parte meridionale della Sonoma Valley, sbucarono nella Napa Valley e poi proseguirono verso nord, verso la sera incipiente. Al seguito del carro funebre, Joshua ebbe la possibilità di ammirare la campagna circostante, un panorama che da trentacinque anni lo colmava di gioia. Le creste delle montagne erano coperte di pini, abeti e betulle, illuminati dal sole calante e ormai quasi scomparsi dalla vista. Le pareti rocciose erano bastioni veri e propri, capaci di arginare la corruzione di un mondo esterno meno civile di quello che giaceva all’interno della valle. Ai piedi delle montagne, i terreni collinari erano costellati di querce scure e ricoperti di prati ormai inariditi che, alla luce del giorno, apparivano biondi e soffici come la barba del granturco. Ma il tramonto stava risucchiando tutti i colori e l’erba scintillava in ondate oscure, immersa nel declino e presa dal fluire di una dolce brezza. Oltre i confini di paesi pittoreschi, sulle colline e su gran parte della pianura, si stendevano vigneti a perdita d’occhio. Nel 1880, Robert Louis Stevenson aveva scritto di Napa Valley: «Ogni piccolo fazzoletto di terra viene messo alla prova da svariati generi di vite. Alcuni muoiono, altri si salvano, ma solo pochi diventano i migliori. E, poco per volta, vanno alla ricerca disperata del loro Clos Cougeot e Lafite… e il vino diventa poesia in bottiglia.» Ai tempi della luna di miele di Stevenson, quando cioè stava scrivendo Silverado Squatters, nella vallata c’erano solo pochi ettari di vigneti. Con l’avvento della Grande Peste, il Proibizionismo, nel 1920, gli ettari di terreno coltivati a viti da vino erano già quattromila. Ormai, i vigneti coprivano dodicimila ettari di terreno ed erano in grado di produrre frutti dolci e molto meno acidi di qualsiasi altra terra al mondo, magari anche più fertile della Sonoma Valley, che era già il doppio di Napa Valley per dimensioni. Tra i numerosissimi vigneti si incastravano le cantine e le case di campagna che un tempo erano state abbazie, monasteri o missioni in stile spagnolo. Grazie a Dio, soltanto un paio di cantine avevano optato per un aspetto industriale e, nell’insieme, spiccavano come un pugno nell’occhio. In genere l’opera dell’uomo non deturpava l’impressionante bellezza naturale di quel luogo unico e idilliaco. Sempre al seguito del carro funebre, in direzione della Forever View, Joshua osservò le luci che si accendevano dietro le finestre delle case: luci giallastre che conferivano un’atmosfera calda e familiare alla sera calante. Il vino è poesia in bottiglia, pensò Joshua, e la terra che lo genera è il più grande dei capolavori divini: la mia terra, la mia casa, come sono fortunato a essere in un posto come questo, quando al mondo ne esistono altri molto meno affascinanti e meno piacevoli in cui sarei potuto incappare.

Sarebbe stato come morire. In una bara di alluminio.

Forever View si trovava a un centinaio di metri di distanza dalla superstrada, poco più a sud di St. Helena. Era una costruzione bianca, in stile coloniale, con un vialetto d’ingresso circolare davanti al quale era stato sistemato un discretissimo cartello verde e bianco scritto a mano. Al calare della sera, si accendeva automaticamente una luce bianca che illuminava il cartello, mentre una serie di lampioni lanciava sul vialetto una pallida luce ambrata.

Non c’erano giornalisti in attesa nemmeno a Forever View. Joshua si compiacque nel constatare che la stampa di Napa Valley condivideva la sua stessa avversione nei confronti della pubblicità negativa.

Tannerton condusse il carro funebre nella parte posteriore della grande costruzione bianca. Con l’aiuto di Olmstead trasportò la bara all’interno.

Joshua andò a raggiungerli nel laboratorio.

Era stato fatto uno sforzo per conferire alla stanza un aspetto leggermente brioso. Il soffitto era stato rivestito con piastrelle fonoassorbenti elegantemente disposte. Le pareti erano verniciate di azzurro, lo stesso azzurro delle lenzuola dei neonati, lo stesso azzurro che contraddistingue la nuova vita. Tannerton sfiorò un interruttore sulla parete e nella stanza si cominciò a diffondere una musica dal ritmo ben equilibrato, niente di assordante o troppo melenso.

Comunque, agli occhi di Joshua, quel posto manteneva il sapore della morte, nonostante Avril Tannerton avesse fatto di tutto per mascherarlo. Nell’aria circolava l’aroma pungente dei liquidi per l’imbalsamazione e il profumo dolciastro dei garofani gli ricordava le corone funebri. Il pavimento era rivestito di piastrelle bianche lucenti, lavate di fresco, leggermente scivolose per chi avesse indossato scarpe con la suola di cuoio, come Joshua. Alla prima occhiata, quel pavimento lasciava un’impressione di apertura, di pulizia, ma in seguito Joshua dovette constatare la triste praticità di quel rivestimento. Era necessario che fosse impermeabile, capace di resistere agli effetti corrosivi di eventuali gocce di sangue, di bile o di altre sostanze ancor più perniciose.

I clienti di Tannerton, i parenti delle salme, non entravano mai in quella stanza, dove l’amara realtà della morte era fin troppo evidente. Nell’ala anteriore della casa, dove le camere ardenti erano decorate con tende di velluto color porpora, dove l’impianto di illuminazione era espressamente soffuso, le scritte «trapassato» o «chiamato dal Signore» potevano anche essere prese sul serio; in quegli ambienti, l’atmosfera incoraggiava la fede nel paradiso e nell’ascesa dello spirito. Ma nel laboratorio, con la puzza dei liquidi per l’imbalsamazione che indugiava nell’aria e la scintillante disposizione degli strumenti da lavoro ben allineati su vassoi smaltati, la morte appariva tristemente oggettiva e inequivocabilmente definitiva.

Olmstead sollevò il coperchio della bara di alluminio.

Avril Tannerton ripiegò il lenzuolo di plastica, scoprendo il corpo del morto dalla vita in su.

Joshua abbassò lo sguardo sul cadavere ormai ingiallito e rabbrividì. «Orrendo.»

«Mi rendo conto che questo sia un momento difficile per lei,» commentò Tannerton con il tono di chi è esperto nel dolore.

«Per niente,» ribattè Joshua. «Non voglio fare l’ipocrita che fìnge di provare dolore. Conoscevo molto poco quest’uomo. E anche quel poco non mi piaceva per niente. Il nostro era un rapporto esclusivamente di lavoro.»

Tannerton battè le palpebre. «Oh, be’… allora forse preferisce che l’organizzazione del funerale venga curata da uno degli amici del defunto.»

«Non credo che abbia mai avuto amici,» commentò Joshua.

Per un istante rimasero silenziosi a fissare la salma.

«Orrendo,» ripetè Joshua.

«Ma è naturale,» spiegò Tannerton. «Non è ancora stato fatto un lavoro di ricostruzione. Se avessi avuto la possibilità di occuparmene subito dopo la morte, avrebbe avuto sicuramente un aspetto migliore.»

«Ma ora non può farci niente?»

«Certo che sì. Ma non sarà facile. Ormai è morto da un giorno e mezzo e, anche se è stato tenuto in frigorifero…»

«Quelle ferite,» lo interruppe bruscamente Joshua fissando con fascino morboso l’addome tremendamente rovinato. «Santo Dio, l’ha pugnalato sul serio.»

«La maggior parte di questo scempio è stato compiuto dal coroner,» spiegò Tannerton. «Questa e quest’altra sono ferite da arma da taglio.»

«Il patologo ha fatto un ottimo lavoro con le labbra,» aggiunse Olmstead con tono soddisfatto.

«Già, trovi anche tu?» commentò Tannerton, sfiorando le labbra sigillate del cadavere. «È difficile trovare un coroner che abbia il gusto dell’estetica.»

«Rarissimo,» rincarò Olmstead.

Joshua scosse il capo. «Ancora faccio fatica a crederci.»

«Cinque anni fa ho seppellito sua madre,» iniziò a raccontare Tannerton. «È stato in quel momento che l’ho conosciuto. Mi è subito sembrato un po’… strano, ma pensavo che fosse solo per il colpo e il dolore. Era un uomo importante, un personaggio di spicco della comunità.»

«Era freddo,» s’intromise Joshua. «Era un uomo estremamente freddo e controllato. Negli affari, era malvagio. Non si accontentava di vincere la battaglia contro un avversario. Se possibile, arrivava anche a distruggerlo completamente. Ho sempre creduto che fosse capace di crudeltà e violenza fisica. Ma chi avrebbe mai detto che sarebbe arrivato a un tentativo di stupro? A un tentativo di omicidio?»

Tannerton spostò lo sguardo su Joshua e disse: «Mr Rhinehart, avevo sentito dire che lei non ricorre mai a eufemismi. Lei è ammirato e rispettato perché dice sempre quello che pensa. Ma…»

«Ma che cosa?»

«Quando si parla di un morto, non crede che bisognerebbe?…»

Joshua sorrise. «Figliolo, sono un vecchio bastardo irascibile e forse non così rispettato. Anzi! Finché potrò servirmi dell’arma della verità, non mi farò scrupoli di ferire la sensibilità di chi rimane in vita. Be’, ho anche fatto piangere bambini e vecchie nonnette. Ho poca comprensione per gli stupidi e per i figli di puttana quando sono in vita. Quindi, perché dovrei cominciare ad averne quando sono morti?»

«E solo che non sono abituato a…»

«Ma certo. La sua professione le impone di parlare sempre bene dei morti, a prescindere da chi fossero in vita e dalle nefandezze che possono aver compiuto. Non gliene voglio per questo, è il suo mestiere.»

Tannerton non sapeva più che cosa dire e richiuse il coperchio della bara.

«Forza con i preparativi,» riprese Joshua. «Vorrei tornare a casa per cena, ammesso che abbia fame quando uscirò da questo posto.» Andò a sedersi su uno sgabello accanto a un contenitore di vetro dov’erano disposti gli arnesi del mestiere.

Tannerton gli si piazzò di fronte, come un sacco lentigginoso e capelluto. «Crede sia il caso di organizzare la solita camera ardente per le visite?»

«Solita?»

«Con la bara aperta. Secondo lei sarebbe offensivo se evitassimo di farlo?»

«Non ci avevo ancora pensato,» rispose Joshua.

«A dire la verità, non so fino a che punto riusciremo a rendere presentabile il defunto,» spiegò Tannerton. «Quelli di Angels’ Hill non ci hanno fatto molto caso durante l’imbalsamazione. Ha il viso leggermente svuotato e tirato. Non sono soddisfatto, non sono per niente soddisfatto. Potrei cercare di gonfiarlo un po’ di più, ma un lavoro di questo genere raramente dà buoni risultati. Per quanto riguarda l’estetica, be’… comincio a chiedermi se non sia passato un po’ troppo tempo. Insomma, ha tutta l’aria di essere rimasto esposto al sole per un paio d’ore dopo la morte. Inoltre è rimasto diciotto ore in frigorifero prima di essere sottoposto all’imbalsamazione. Sono sicuro di poter ottenere un risultato migliore, ma non credo di riuscire a riportargli sul viso l’espressione che aveva da vivo. Capisce, dopo tutto quello che ha passato, dopo essere stato esposto al calore del sole e dopo tutto questo tempo, la composizione dell’epidermide è cambiata radicalmente. Cipria e trucco non servirebbero gran che. Credo che forse…»

Ormai nauseato, Joshua lo interruppe: «Allora scegliamo la bara chiusa.»

«Niente aperture?»

«Niente aperture.»

«Ne è sicuro?»

«Assolutamente.»

«Bene. Vediamo un po’… preferisce che venga seppellito con uno dei suoi vestiti?»

«È necessario, considerando che la bara resterà chiusa?»

«Per me sarebbe più semplice se indossasse una delle nostre vestaglie funebri.»

«Perfetto.»

«Bianca o di un bel blu notte?»

«Non ha niente a pois?»

«A pois?»

«Niente di arancione a strisce gialle?»

Un sorriso appena accennato comparve sul volto serio dell’impresario di pompe funebri che dovette lottare per riuscire a nasconderlo. Joshua ebbe l’impressione che, in privato, Avril fosse un tipo divertente, un giocherellone pronto a farsi una bella bevuta in compagnia, ma evidentemente la sua immagine pubblica gli richiedeva di essere sempre serio e discreto. Si era preoccupato visibilmente quando aveva permesso all’Avril privato di avere il sopravvento su quello pubblico. E un probabile candidato a un esaurimento nervoso, pensò Joshua.

«Allora optiamo per quella bianca,» decise Joshua.

«E la bara? Che genere…»

«Lascio a lei la scelta.»

«Molto bene. Più o meno in che prezzo vuole stare?»

«Può scegliere anche la più costosa. Può permetterselo.»

«Si dice in giro che l’eredità si aggiri intorno ai due, tre milioni di dollari.»

«Forse anche il doppio,» corresse Joshua.

«Ma non viveva da ricco.»

«Non è nemmeno morto da ricco,» fece notare Joshua.

Tannerton rimase a riflettere per un istante prima di proseguire: «Vuole un servizio religioso?»

«Non andava in chiesa.»

«Allora chiamo un pastore?»

«Come preferisce.»

«Terremo un breve servizio funebre al cimitero,» spiegò Tannerton. «Leggerò un brano tratto dalla Bibbia, o magari anche soltanto un brano ispirato a qualche opera non ben identificata.»

Presero accordi sull’orario della funzione: domenica, alle due del pomeriggio. Bruno sarebbe stato seppellito accanto a Katherine, la madre adottiva, nel cimitero di Napa County.

Mentre Joshua stava per andarsene, Tannerton disse: «Spero che fino a questo momento il mio servizio sia stato di suo gradimento e le garantisco che farò tutto quanto è in mio potere perché anche il resto fili liscio come l’olio.»

«Bene,» rispose Joshua. «Di una cosa mi ha convinto. Domani stenderò un testamento nuovo. Quando arriverà anche la mia ora, è mia intenzione essere cremato.»

Tannerton annuì. «Possiamo occuparci anche di questo.»

«Non mi faccia fretta, figliolo. Non mi faccia fretta.»

Tannerton arrossì. «Oh, non intendevo dire…»

«Lo so, lo so, si calmi.»

Tannerton si schiarì la voce, imbarazzato. «La… ehm… l’accompagno io alla porta.»

«Non ce n’è bisogno. Troverò da solo la strada.»

Fuori, erano calate le tenebre, scure e profonde. Sopra la porta di servizio c’era un’unica lampadina che illuminava l’oscurità vellutata solo per pochi metri.

Nel tardo pomeriggio si era alzata una leggera brezza che, con il calar della sera, si era trasformata in vento. L’aria era agitata e fredda: il vento sibilava e fischiava.

Joshua si diresse alla macchina, parcheggiata oltre il semicerchio di luci pallide. Mentre stava per aprire la portiera, venne colto dalla strana impressione di essere osservato. Si voltò a guardare la casa, ma alle finestre non c’era nessuno.

Qualcosa si muoveva nell’ombra, a pochi metri di distanza. Dalle parti del garage. Fu soltanto una sensazione. Joshua aguzzò la vista, che ormai non era più quella di un tempo: non riuscì a intravedere nulla nel buio della notte.

Sarà il vento, pensò. Il vento che agita i rami delle piante e i cespugli oppure che trascina via con sé un giornale abbandonato per strada.

Ma qualcosa si mosse di nuovo. E questa volta la vide. Era accucciata davanti a una fila di arbusti che fiancheggiava il garage. Non riuscì a coglierne i particolari. Era soltanto un’ombra, una macchia nera e rossastra che si stagliava sul fondo scuro della sera, impalpabile, goffa e indefinita come tutte le ombre. Ma questa si muoveva.

Sarà un cane, pensò Joshua. Un cane randagio. Oppure un ragazzino in vena di scherzi. «C’è qualcuno?» Nessuna risposta. Si scostò leggermente dall’auto.

L’ombra arretrò di qualche passo lungo la fila di arbusti. Si fermò in un punto particolarmente scuro, sempre accucciata, sempre vigile.

Non è un cane, pensò Joshua. È troppo grosso per essere un cane. Forse è un ragazzino. Forse è alle prese con qualche scherzetto. Forse ha in mente di compiere un atto vandalico.

«Chi va là?» Silenzio.

«Forza, fatti vedere.»

Nessuna risposta. Solo il sussurro del vento. Joshua si mosse verso l’ombra nascosta fra gli arbusti, ma venne immediatamente bloccato dall’improvvisa consapevolezza del pericolo che stava per correre. Un tremendo pericolo. Mortale. Di fronte a quella minaccia provò tutta la serie di possibili reazioni animali: il brivido lungo la spina dorsale, i capelli che gli si rizzavano sulla testa e il cranio che si stringeva, il cuore che iniziava a sobbalzare, la bocca che si prosciugava, le mani che si stringevano e l’udito che tutt’a un tratto si faceva più acuto che mai. Joshua s’inarcò, drizzando le possenti spalle, inconsciamente alla ricerca di una posizione di difesa. «Chi c’è?» ripetè.

L’ombra si voltò e andò a schiantarsi contro gli arbusti. Poi si precipitò nei vigneti che circondavano la proprietà di Avril Tannerton. Per qualche secondo ancora, Joshua udì il rumore che si affievoliva gradatamente, il tonfo sordo di passi che correvano e il respiro affannoso sempre più lontano. Poi il vento rimase l’unico suono nella notte.

Voltandosi un paio di volte, si diresse nuovamente alla macchina. Salì a bordo, chiuse la portiera. Con la serratura.

In quel momento, l’incontro cominciò ad assumere una sfumatura irreale, sempre più onirica. C’era veramente qualcuno nascosto nell’ombra che lo stava osservando? C’era stato veramente un pericolo oppure era stato solo frutto della sua immaginazione? Dopo aver trascorso mezz’ora nel mostruoso laboratorio di Avril Tannerton, era possibile sussultare al minimo rumore e mettersi alla ricerca di orrende creature nella notte? Mentre i muscoli si rilassavano, mentre il cuore rallentava i battiti, Joshua cominciò a pensare di essersi comportato da stupido. A posteriori, il pericolo che aveva percepito con tanta forza nell’aria assumeva il sapore della fantasia, della stravaganza dettata dalla notte e dal vento.

Al massimo, poteva essere stato un ragazzino. Un vandalo.

Mise in moto la macchina e si diresse verso casa, sorpreso e divertito dall’effetto che il laboratorio di Tannerton aveva avuto su di lui.


Sabato sera, alle sette in punto, Anthony Clemenza arrivò davanti alla casa di Hilary con la sua jeep blu.

La ragazza gli andò incontro. Indossava un morbido vestito di seta verde smeraldo con le maniche lunghe e una profonda scollatura. Erano più di quattordici mesi che non aveva un appuntamento galante e aveva quasi dimenticato qual era l’abbigliamento più adatto per il rituale del corteggiamento: aveva impiegato due ore per decidere come vestirsi e si era sentita come una liceale al suo primo appuntamento. Aveva accettato l’invito di Tony perché era l’uomo più interessante che avesse conosciuto negli ultimi tempi, ma anche perché voleva sforzarsi di vincere la sua naturale tendenza a estraniarsi dal resto del mondo. L’affermazione di Wally Topelis l’aveva colpita: Wally era convinto che lei utilizzasse la riservatezza come scusa per chiudersi nel proprio guscio e Hilary si era resa conto di quanta verità fosse racchiusa in quelle parole.

Evitava di stringere amicizie e di trovarsi degli amanti perché temeva il dolore che solo gli amici e gli amanti possono infliggere con i loro rifiuti e i loro tradimenti. Ma proteggersi dal dolore significava anche negare a se stessi il piacere della vera amicizia con persone che non l’avrebbero tradita. Dai genitori alcolizzati aveva imparato che alle manifestazioni di affetto seguivano sempre esplosioni di collera e di furia e punizioni inaspettate.

Era sempre pronta a rischiare quando si trattava di lavoro, ora era giunto il momento di affrontare anche la vita privata con lo stesso spirito d’avventura. Mentre si dirigeva verso la jeep con passo aggraziato, si sentì tesa per il coinvolgimento emotivo che quella danza a due avrebbe significato, ma nello stesso tempo si sentì attraente, giovane e felice come da tempo non le capitava.

Tony si precipitò ad aprirle la portiera. Inchinandosi davanti a lei, recitò: «La carrozza reale vi sta aspettando.»

«Oh, ci deve essere un errore. Non sono la regina.»

«Per me lo siete.»

«Sono solo una povera ragazza che lavora.»

«Siete molto più carina della regina.»

«Non fatevi sentire dalla regina! Potrebbe chiedere la vostra testa.»

«Troppo tardi.»

«Eh?»

«Ormai, l’ho già persa per voi.»

Hilary sospirò.

«Troppo mieloso?» domandò Tony.

«Dopo questa sdolcinatura, ho bisogno di un po’ di limone.»

«Ma ti è piaciuta?»

«Sì, lo ammetto. Devo essere affamata di complimenti,» affermò, salendo sulla jeep con un frusciare di seta.

Mentre si dirigevano verso il Westwood Boulevard Tony chiese: «Ti sei offesa?»

«Per che cosa?»

«Per via di questa carretta.»

. «E perché mai dovrei offendermi per una jeep? Forse parla? Forse è capace di insultarmi?»

«Non è una Mercedes.»

«Una Mercedes non è una Rolls-Royce. E una Rolls-Royce non è una Toyota.»

«Tutto questo mi puzza di filosofia Zen.»

«Se pensi che sia una snob, perché mi hai chiesto di uscire?»

«Non penso che tu sia snob,» si scusò Tony, «ma Frank sostiene che ci sentiremo imbarazzati perché tu hai più soldi di me.»

«Be’, visti i precedenti, direi che Frank non è un gran che nel giudicare le persone.»

«Ha i suoi problemi,» le spiegò Tony, immettendosi sul Wilshire Boulevard. «Ma sta cercando di uscirne.»

«Certo che a Los Angeles non se ne vedono molte di macchine come questa.»

«Di solito le donne mi chiedono se è la mia seconda automobile.»

«A me non interessa.»

«A Los Angeles si dice che si è ciò che si guida.»

«Ah, davvero? Allora tu sei una jeep. E io una Mercedes. Quindi siamo due automobili, non due persone. Dovremmo andare da un benzinaio a farci cambiare l’olio e non al ristorante a cenare. Ma ti sembra logico?»

«No, per niente,» rispose Tony. «A dire la verità, ho una jeep perché in inverno mi piace andare a sciare. Con questo carro armato sono sicuro di poter arrivare ovunque, anche con il brutto tempo.»

«Mi piacerebbe imparare a sciare.»

«Ti insegnerò io. Bisognerà aspettare ancora qualche settimana, ma tra poco cadrà la prima neve a Mammoth.»

«E chi ti dice che tra qualche settimana saremo ancora amici?»

«E perché no?»

«Magari litigheremo furiosamente questa sera, al ristorante.»

«Per che cosa?»

«Politica.»

«Considero i politici dei bastardi affamati di potere, troppo incompetenti per vedere oltre il proprio naso.»

«Sono d’accordo.»

«Sono un fautore del libero arbitrio.»

«In un certo senso, anch’io.»

«E allora perché dovremmo discutere?»

«Forse litigheremo per questioni religiose.»

«Sono cattolico di nascita. Ma ormai mi considero ateo.»

«Anch’io.»

«A quanto pare non riusciamo a litigare.»

«Be’,» riprese Hilary, «forse apparteniamo a quel genere di persone che discutono per delle sciocchezze.»

«Per esempio?»

«Be’, visto che stiamo andando in un ristorante italiano, forse a te piace la bruschettà mentre io la odio.»

«E dovremmo litigare per quello?»

«Oppure per le fettuccine o le lasagne.»

«No. Ti piacerà tutto. Aspetta e vedrai.»

La portò al Ristorante Savatino sul Santa Monica Boulevard. Era un locale piccolo, con non più di sessanta coperti, disposti in modo tale da sembrare la metà. Era accogliente, simpatico, il genere di ristorante nel quale si può perdere la nozione del tempo e rimanere seduti a tavola per ore senza accorgersene. Le luci erano calde e discrete. Il sottofondo di musica lirica, principalmente Gigli, Caruso e Pavarotti, era regolato in modo tale da poter essere apprezzato senza impedire la conversazione. Le pareti erano forse troppo decorate, ma su una di esse faceva bella mostra un murale che Hilary trovò semplicemente favoloso. Il dipinto occupava l’intera parete e rappresentava alcuni aspetti caratteristici della vita italiana: uva, vino, pasta, donne dagli occhi scuri, affascinanti uomini mediterranei, una nonnina deliziosa e grassoccia, un gruppo di persone che ballavano al suono di una fisarmonica, un picnic sotto gli ulivi e altro ancora. Hilary non aveva mai visto niente di simile: non era completamente realistico, né stilizzato, né astratto o impressionistico, ma ricordava piuttosto un dipinto surrealista, come se fosse nato dalla fantasiosa collaborazione di Andrew Wyeth e Salvador Dalì.

Michael Savatino, il proprietario del locale, era una persona estremamente gioviale che risultò essere un ex poliziotto. Baciò la mano di Hilary, abbracciò Tony e gli punzecchiò la pancia, raccomandandogli di mangiare un po’ di pasta per mettere su qualche chilo. Poi insisté perché andassero in cucina a vedere la sua nuova macchina per il cappuccino. Uscendo dalla cucina, incontrarono Paula, la moglie di Michael, una bionda appariscente che ricominciò con baci e abbracci. Alla fine Michael prese Hilary a braccetto e accompagnò la coppia al loro tavolo. Ordinò al sommelier una bottiglia di Brunello di Montalcino Biondi-Santi che stappò lui stesso. Dopo il brindisi di rito, Michael li lasciò, ammiccando a Tony in segno di approvazione per la scelta della compagna; vide che Hilary aveva notato la sua manovra e se ne andò ridendo e strizzando l’occhio alla ragazza.

«Dev’essere un uomo delizioso,» commentò Hilary.

«E un tipo in gamba.»

«Ti piace molto.»

«Lo adoro. Quando lavoravamo insieme alla Omicidi era il compagno ideale.»

Discussero dell’attività della polizia e del lavoro dello sceneggiatore. Era così naturale chiacchierare con lui che a Hilary sembrava di conoscerlo da anni. Non c’era traccia dell’imbarazzo tipico del primo appuntamento.

A un certo punto, Tony notò che Hilary osservava il murale; «Ti piace quel dipinto?» domandò.

«È stupendo.»

«Davvero?»

«Non sei d’accordo?»

«Non è male.»

«Altro che se non è male. Sai chi l’ha fatto?»

«Un artista non molto fortunato,» spiegò Tony. «L’ha dipinto in cambio di cinquanta pasti gratis.»

«Solo cinquanta? Michael ha fatto un buon affare.»

Continuarono a parlare di film, libri, musica e teatro.

La cena fu incantevole quanto la conversazione. Ordinarono un antipasto leggero: due crépes, una con la ricotta e un’altra con salsa di funghi, carne, peperoni, cipolla e aglio. L’insalata era croccante e saporita, arricchita da sottili fettine di funghi crudi. Tony scelse la carne, vitello alla Savatino, una specialità della casa: tenere scaloppine ricoperte da un velo di salsa, rondelle di cipolle e zucchine alla griglia. Alla fine fu servito un ottimo cappuccino.

A quel punto, Hilary lanciò un’occhiata all’orologio e scoprì con stupore che erano già le ventitré e dieci.

Michael Savatino si fermò un attimo al loro tavolo e riferì a Tony: «Con questa siamo a ventuno.»

«Oh, no. Ventitré.»

«Non secondo i miei calcoli.»

«I tuoi calcoli sono sbagliati.»

«Ventuno,» insistè Michael.

«Ventitré,» ripetè Tony. «Anzi, visto che siamo in due, arriviamo a ventiquattro.»

«No, no,» replicò Michael. «Contiamo le visite, non il numero dei coperti.»

Hilary li ascoltò perplessa e poi domandò: «Sbaglio o state dando davvero i numeri?»

Michael scosse la testa, esasperato dalla cocciutaggine di Tony. Si rivolse a Hilary e le spiegò: «Quando ha dipinto il murale, io avrei voluto pagarlo in contanti, ma sapevo che non avrebbe mai accettato. Ha voluto barattare quel dipinto con dei pranzi gratuiti. Gliene ho proposti almeno cento. Lui ne voleva solo venticinque. Alla fine abbiamo raggiunto l’accordo su cinquanta. Sottovaluta le sue capacità ed è una cosa che mi fa andare in bestia.»

«Vuol dire che l’ha dipinto Tony?»

«Non gliel’ha detto?»

«No.»

Hilary guardò Tony che sorrise imbarazzato.

«Ecco perché va in giro con quella jeep,» proseguì Michael. «Quando vuole arrampicarsi sulle colline per dipingere un paesaggio, quella macchina lo porta ovunque.»

«Mi ha detto che la usa per andare a sciare.»

«Anche. Ma principalmente l’ha comperata per andare sulle colline a dipingere. Dovrebbe essere orgoglioso delle sue opere, ma è più facile cavare un ragno da un buco che convincerlo a parlare dei suoi quadri.»

«Sono un dilettante,» replicò Tony. «Non c’è niente di più noioso di un dilettante che parla in continuazione della sua fantomatica ‘arte’.»

«Quel dipinto non è opera di un dilettante,» puntualizzò Michael.

«Decisamente no,» rincarò Hilary.

«Siete miei amici,» continuò Tony, «ed è logico che esageriate con i complimenti. Ma nessuno di voi è un critico d’arte.»

«Ha vinto due premi,» confidò Michael a Hilary.

«Premi?» domandò Hilary a Tony.

«Niente di importante.»

«Entrambe le volte è risultato il migliore,» continuò Michael.

«Di che mostre si trattava?» chiese Hilary.

«Niente di serio,» tergiversò Tony.

«Sogna di guadagnarsi da vivere con i suoi quadri,» spiegò Michael, «ma non fa niente di concreto.»

«Perché è solo un sogno,» si schermì Tony. «Sarei uno stupido se pensassi di poter campare facendo il pittore.»

«In realtà non ci ha mai provato,» mormorò Michael rivolgendosi a Hilary.

«Un pittore non può contare su uno stipendio fisso,» continuò Tony. «E nemmeno sull’assistenza sanitaria o sulla pensione.»

«Ma se riesci a vendere anche solo due quadri al mese, a metà del loro valore reale, guadagni comunque più di quello che prendi come poliziotto,» affermò Michael.

«E se non vendo niente per un mese oppure per sei mesi, chi paga l’affitto?»

Rivolgendosi a Hilary, Michael continuò: «Il suo appartamento è stracolmo di quadri. È seduto su una fortuna, ma non farà mai niente per sfruttarla.»

«Sta esagerando,» fu il commento di Tony.

«Ah, ci rinuncio!» esclamò Michael. «Forse lei riuscirà a farlo ragionare, Hilary.» Mentre si allontanava dal loro tavolo, ripetè: «Ventuno.»

«Ventitré,» replicò Tony.

Più tardi, mentre tornavano a casa, Hilary suggerì: «Ma perché non provi almeno a portare alcuni dei tuoi quadri in una galleria per vedere se accettano di venderli?»

«Non lo farebbero.»

«Almeno potresti tentare.»

«Hilary, non sono abbastanza bravo.»

«Quel dipinto è stupendo.»

«C’è una bella differenza fra un murale per un ristorante e la vera arte.»

«Quel dipinto è un’opera d’arte.»

«Ti ricordo nuovamente che non sei un’esperta.»

«Acquisto quadri non solo per mio diletto, ma anche come investimento.»

«Con l’aiuto del direttore di una galleria per quanto riguarda l’investimento?» domandò.

«Esatto. Wyant Stevens a Beverly Hills.»

«Allora l’esperto è lui, non tu.»

«Perché non gli mostri qualcuno dei tuoi quadri?»

«Non sopporto le sconfitte.»

«Scommetto che non li rifiuterebbe.»

«Non potremmo parlare d’altro

«Perché?»

«Mi sto annoiando.»

«Sei testardo.»

«E annoiato.»

«Di che cosa vorresti parlare?»

«Be’, per esempio si potrebbe decidere se è il caso che mi fermi da te per un bicchiere di brandy.»

«Ti andrebbe di bere un brandy?»

«Cognac?»

«È l’unica cosa che ho.»

«Che marca?»

«Remy Martin.»

«Il migliore.» Sorrise. «Ma, caspita, non so. E terribilmente tardi.»

«Se non entri, dovrò bere da sola.» Quella schermaglia la divertiva.

«Non posso lasciarti bere da sola.»

«E il primo passo verso l’alcolismo.»

«È vero.»

«Se non entri a bere qualcosa con me, sarà come iniziarmi sulla strada del vizio e della perdizione.»

«Non potrei mai perdonarmelo.»

Un quarto d’ora dopo erano seduti l’uno accanto all’altra sul divano, di fronte al camino, sorseggiando il Remy Martin.

Hilary si sentiva la testa leggera, non per il cognac ma per il fatto di essere accanto a lui: si chiedeva se avrebbero finito con il fare l’amore. Non era mai andata a letto con un uomo al primo appuntamento. In genere, prima di farsi coinvolgere in una storia, studiava e valutava l’altro per settimane, a volte anche per mesi. Più di una volta, la sua perenne indecisione le aveva fatto perdere uomini che avrebbero potuto essere amanti stupendi e ottimi amici. Ma dopo una sola serata trascorsa con Tony Clemenza si sentiva perfettamente a suo agio. Era incredibilmente attraente. Alto. Scuro di carnagione. Una bellezza selvaggia. Possedeva l’autorità e la sicurezza di un poliziotto, ma era dolce. Sorprendentemente dolce. E sensibile. Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui si era lasciata accarezzare e possedere, da quando aveva condiviso il piacere con un’altra persona. Come aveva potuto lasciar trascorrere tutto quel tempo? Immaginava di essere fra le sue braccia, nuda sotto di lui. Mentre si lasciava andare a quelle fantasie, si rese conto che probabilmente anche la mente di Tony era occupata dagli stessi, dolci pensieri.

Il telefono squillò.

«Maledizione!» esclamò Hilary.

«Qualcuno che non hai voglia di sentire?»

Hilary si girò a guardare il telefono, appoggiato su un angolo della scrivania. Continuava a squillare.

«Hilary?»

«Scommetto che è lui.»

«Lui chi?»

«Continuo a ricevere quelle telefonate…»

Il suono stridente riempiva l’aria.

«Quali telefonate?»

«Da un paio di giorni, il telefono squilla, ma dall’altra parte nessuno risponde. E già successo sei o sette volte.»

«E non dice niente?»

«Si limita ad ascoltare. Penso sia qualche squilibrato montato dalla notizia apparsa sui giornali a proposito di Frye.»

Il suono insistente le fece digrignare i denti.

Si alzò e si avvicinò al telefono.

Tony la seguì. «Il tuo numero è sull’elenco?»

«La prossima settimana me ne daranno uno nuovo che non comparirà sull’elenco.»

Raggiunsero la scrivania e rimasero a fissare il telefono. Continuava a squillare.

«È lui. Ne sono sicura. Nessun altro lo farebbe suonare così a lungo.»

Tony afferrò la cornetta. «Pronto!»

Non rispose nessuno.

«Casa Thomas,» esclamò Tony. «Parla l’investigatore Clemenza.»

Clic.

Tony riappese il ricevitore. «Ha riattaccato. Forse l’ho spaventato una volta per tutte.»

«Lo spero.»

«Comunque sia, è meglio che il tuo numero non compaia più sull’elenco telefonico.»

«Oh, non ho alcuna intenzione di cambiare idea.» «Lunedì mattina chiamerò immediatamente la compagnia telefonica e li informerò che la polizia di Los Angeles gradirebbe un lavoro veloce.»

«Puoi farlo?»

«Certo.»

«Grazie, Tony.» Si raggomitolò su se stessa. Aveva freddo.

«Cerca di stare tranquilla,» le raccomandò Tony. «Secondo le statistiche, i maniaci che si divertono a spaventare le persone con le telefonate non vanno mai oltre. In genere si accontentano della telefonata. Di solito non sono tipi violenti.»

«Di solito?» .

«Quasi mai.»

Hilary abbozzò un sorriso. «Non è un gran che.»

Con la telefonata era svanita ogni probabilità di finire la serata nello stesso letto. Non era più dell’umore giusto e Tony se ne accorse.

«Vuoi che mi fermi ancora un po’, nel caso richiamasse?»

«Sei molto gentile, ma immagino che tu abbia ragione. Non è pericoloso. Se lo fosse, non si sarebbe limitato a telefonare. A ogni modo l’hai spaventato. Probabilmente pensa che la polizia sia qui ad aspettarlo.»

«Hai riavuto la tua pistola?»

Lei annuì. «Ieri sono andata in città a compilare il modulo che avrei dovuto presentare quando mi sono trasferita. Se il tipo della telefonata si fa vedere, posso farlo secco legalmente.»

«Non penso proprio che ti disturberà ancora, almeno per questa notte.»

«Certo, hai ragione.»

Per la prima volta in tutta la serata, si sentirono leggermente imbarazzati.

«Be’, è meglio che vada.»

«Sì, è tardi.»

«Grazie per il cognac.»

«Grazie per la stupenda cena.»

Sulla porta, le chiese: «Che cosa fai domani sera?»

Stava per mentirgli, quando si ricordò di come si era sentita, seduta accanto a lui sul divano. Ripensò anche alle parole di Wally Topelis e al pericolo di diventare un’eremita. Sorrise e rispose: «Sono libera.»

«Ottimo. Che cosa ti piacerebbe fare?»

«Quello che vuoi.»

Tony riflette un attimo. «E se passassimo insieme tutta la giornata?»

«Be’… perché no?»

«Cominceremo con un bel pranzetto. Passo a prenderti a mezzogiorno.»

«Ti aspetto.»

Le pose un bacio leggero e affettuoso sulle labbra. «A domani,» la salutò.

«A domani.»

Lo guardò allontanarsi, poi chiuse la porta.


Il corpo di Bruno Frye rimase solo e senza sorveglianza al Forever View per tutta la giornata di sabato.

Venerdì notte, dopo che Joshua Rhinehart se n’era andato, Avril Tannerton e Gary Olmstead avevano trasferito la salma in un’altra bara, un modello placcato in ottone con l’interno in velluto e seta. Avevano fatto scivolare il corpo in una veste bianca per la sepoltura, gli avevano messo le braccia lungo i fianchi e lo avevano coperto fino a metà torace con una leggera trapunta di velluto bianco. Viste le pessime condizioni, Tannerton non aveva voluto perdere tempo nel tentativo di rendere presentabile la salma. Gary Olmstead trovava abbietto e irrispettoso seppellire un corpo senza un minimo di trucco ma Tannerton lo convinse che anche i cosmetici avrebbero potuto fare ben poco per il viso ormai contratto di Bruno Frye.

«E inoltre,» aveva aggiunto Tannerton, «tu e io saremo le ultime persone a vederlo. Dopo che l’avremo sigillata, questa bara non verrà mai più aperta.»

Alle 21.45 di venerdì, chiusero e sigillarono il coperchio della cassa. Poi Olmstead se ne andò a casa dalla moglie e dal figlio, mentre Avril salì al primo piano: abitava sopra le camere mortuarie.

Sabato mattina di buon’ora Tannerton partì per Santa Rosa, con la sua Lincoln grigio metallizzato. Si portò una borsa per la notte, in quanto non aveva intenzione di tornare prima di domenica mattina alle dieci. Il funerale di Bruno Frye era l’unica cosa di cui dovesse occuparsi in quei giorni. Dato che nessuno sarebbe venuto a vegliare la salma, non c’era motivo che rimanesse al Forever View; era sufficiente che fosse presente per il rito funebre di domenica.

A Santa Rosa lo aspettava l’ultima di una lunga lista di amanti: Avril amava cambiare. Si chiamava Helen Virtillion. Era una bella donna, sulla trentina, magra, ben curata, con un prorompente seno ben sodo che Avril trovava irresistibile.

Molte donne erano attratte da Avril Tannerton, soprattutto per il lavoro che svolgeva. Naturalmente alcune fuggivano quando scoprivano che gestiva un’impresa di pompe funebri, ma molte altre rimanevano affascinate ed eccitate di fronte a quella strana professione.

Avril capiva che cosa lo rendeva desiderabile. Quando un uomo ha a che fare con i cadaveri, parte del mistero della morte gli penetra nelle ossa. Nonostante le lentiggini, l’aspetto da ragazzino, il sorriso disarmante, il senso dello humour e la grande affabilità, alcune donne lo trovavano misterioso ed enigmatico. Inconsciamente, pensavano che non sarebbero morte fino a quando fossero rimaste fra le sue braccia, come se i suoi servigi ai defunti potessero dispensare lui e chi gli stava vicino dalla fine inevitabile. Quell’atavica fantasia era simile alla segreta speranza di molte ragazze che sposano un medico perché sono inconsciamente convinte che il marito le possa, proteggere da tutte le malattie del mondo.

Perciò, per tutta la giornata di sabato, il corpo di Bruno Frye rimase solo, mentre Avril Tannerton faceva l’amore con Helen Virtillion a Santa Rosa.

Domenica mattina, due ore prima dell’alba, ci fu un improvviso trambusto alle pompe funebri, ma Tannerton non era presente per accorgersene.

Le luci del laboratorio si accesero improvvisamente, ma Tannerton non era là per vederle.

Il sigillo della bara venne spezzato e il coperchio gettato via. La sala si riempì di grida di rabbia e di dolore, ma Tannerton non era là per udirle.


Domenica mattina, verso le dieci, mentre Tony era in cucina a bere un bicchiere di succo di pompelmo, squillò il telefono. Era Janet Yamada, la donna che era uscita con Frank Howard la sera precedente.

«Com’è andata?» domandò Tony.

«Splendidamente, una serata meravigliosa.»

«Davvero?»

«Certo. È uno zuccherino.»

«Frank è uno zuccherino?»

«Avevi detto che era un tipo freddo, distante, ma non è affatto vero.»

«Ah no?»

«Ed è così romantico.»

«Frank?»

«E chi, se no?»

«Frank Howard è romantico?»

«Oggigiorno non esistono più uomini con l’animo sensibile,» continuò Janet. «A volte penso che il romanticismo e la cavalleria siano stati gettati dalla finestra quando hanno avuto inizio la rivoluzione sessuale e il movimento femminista. Invece Frank ti aiuta a infilarti il cappotto, ti apre la porta e ti scosta la sedia per farti accomodare. Mi ha persino portato un mazzo di rose. Sono stupende.»

«Pensavo avresti avuto problemi a comunicare con lui.»

«Oh, no. Abbiamo molti interessi in comune.»

«E cioè?»

«Per esempio il baseball.»

«È vero! Mi ero dimenticato che ti piaceva.»

«Sono una fanatica.»

«E così avete parlato di baseball per tutta la sera.»

«Oh no. Abbiamo chiacchierato anche di molte altre cose. Di film…»

«Film? Vuoi dire che Frank è un appassionato di cinema?»

«Conosce a memoria tutte le battute dei vecchi film di Bogart. Ne abbiamo anche recitate alcune insieme.»

«Sono tre mesi che gli parlo di film e non ha mai aperto bocca.»

«E parecchio che non va al cinema, ma questa sera ce lo porto.»

«Uscite di nuovo?»

«Sì. Ti ho chiamato per ringraziarti. Sei stato carino a farmelo conoscere.»

«Sono o non sono un mago nel combinare gli appuntamenti?»

«Volevo inoltre dirti che se anche non dovesse accadere nulla fra noi, cercherò di essere gentile con lui. Mi ha raccontato di Wilma. Che storia schifosa! Mi rendo conto che è stato un duro colpo per lui e non mi piace che venga ferito un’altra volta.»

Tony era sbalordito. «Ti ha raccontato di Wilma la prima volta che siete usciti?»

«Mi ha confessato che di solito non riesce a parlarne, ma poi tu gli hai fatto capire molte cose.»

«Io?»

«Dopo che lo hai aiutato ad accettare ciò che è successo, riesce a parlarne senza soffrire.»

«Mi sono limitato a stare ad ascoltarlo quando ha vuotato il sacco.»

«Pensa che tu sia un tipo veramente in gamba.»

«Frank sì che sa giudicare le persone, non trovi?»

Più tardi, contento per l’ottima impressione che Frank aveva fatto a Janet Yamada e sperando nell’evoluzione della sua storia con Hilary, Tony si diresse verso Westwood. Hilary lo stava aspettando: uscì di casa mentre lui entrava nel vialetto d’ingresso. Era deliziosa con un paio di pantaloni neri, una camicetta azzurra e una leggera giacca di velluto. Quando le aprì la portiera, Hilary gli diede un rapido bacio sulla guancia e Tony avvertì una fresca fragranza al limone.

Sarebbe stata una splendida giornata.


Stravolto dopo una notte insonne, trascorsa con Helen Virtillion, Avril Tannerton tornò da Santa Rosa poco prima delle dieci di domenica.

Non guardò dentro la bara.

Tannerton si recò con Gary Olmstead al cimitero per preparare la tomba per la cerimonia del pomeriggio. Montarono la struttura che sarebbe stata utilizzata per calare la bara sotto terra e con i fiori e l’erba cercarono di rendere la tomba il meno spettrale possibile.

Alle 12.30 Tannerton usò una pelle di daino per togliere la polvere e le impronte dalla bara di ottone di Bruno Frye. Passando la mano sugli spigoli smussati della cassa, ripensò allo stupendo seno di Helen Virtillion.

Non guardò dentro la bara.

All’una Tannerton e Olmstead caricarono la cassa sul carro funebre.

Nessuno guardò dentro la bara.

Alle 13.30 si diressero verso il Napa County Memorial Park. Joshua Rhinehart e pochi altri conoscenti seguirono con le loro macchine. Considerando il fatto che si trattava del funerale di un uomo ricco e influente, il corteo funebre era incredibilmente ridotto.

Era una giornata fresca e luminosa. Gli alberi ad alto fusto proiettavano l’ombra sulla strada e il carro funebre attraversò strisce di luce e ombra.

Al cimitero, la cassa venne appoggiata su un’imbracatura sopra la tomba e una quindicina di persone si raggnipparono per ascoltare il breve servizio funebre. Gary Olmstead si appostò vicino alla pulsantiera, nascosta dai fiori, collegata all’imbracatura che avrebbe calato la bara nella fossa. Avril era davanti alla tomba e leggeva alcuni versi. Joshua Rhinehart era accanto a lui. Le altre persone erano disposte ai lati della tomba. C’erano alcuni viticoltori con le mogli. Avevano venduto i loro raccolti alla cantina di Bruno Frye e consideravano la loro presenza al funerale come un obbligo sociale. Per lo stesso motivo erano intervenuti anche i dirigenti dello Shade Tree Vineyards con le rispettive mogli. Nessuno versò una lacrima.

E nessuno ebbe l’opportunità o il desiderio di guardare dentro la bara.

Tannerton finì di leggere. Lanciò un’occhiata a Gary Olmstead e annuì.

Olmstead premette un bottone. Il piccolo motore elettrico iniziò a ronzare. La bara venne calata lentamente nella terra.


Hilary non ricordava di essersi mai divertita tanto come durante la prima giornata trascorsa interamente con Tony Clemenza.

Andarono a pranzo allo Yamashiro Skyroom, sulle colline di Hollywood. Il cibo non era eccezionale, anzi piuttosto banale, ma l’atmosfera e la splendida posizione lo rendevano perfetto per una cena o un pranzo diverso dal solito. Il ristorante era stato costruito in un autentico palazzo giapponese che in passato era appartenuto a una ricca famiglia. Era circondato da quattro ettari di giardini ornamentali perfettamente curati. Dal punto più alto, si godeva una vista impareggiabile dell’intera città di Los Angeles. La giornata era talmente limpida che Hilary riuscì a scorgere persino Long Beach e Palo Verde.

Dopo pranzo, raggiunsero Griffith Park. Per circa un’ora gironzolarono per lo zoo di Los Angeles, dando da mangiare agli orsi mentre Tony si esibiva in esilaranti imitazioni dei versi degli animali. In seguito decisero di visitare una speciale mostra di ologrammi nell’Osservatorio di Griffith Park.

Più tardi si avventurarono lungo la Melrose Avenue, gironzolando fra i negozi di antiquariato senza comprare nulla ma curiosando qua e là e scambiando quattro chiacchiere con i proprietari.

All’ora dell’aperitivo, si diressero a Tonga Lei per un Mai Tais.

Rimasero a lungo a osservare il sole che si tuffava nell’oceano e le onde che si frangevano ritmicamente sulla spiaggia.

Sebbene Hilary vivesse a Los Angeles già da parecchio tempo, il suo mondo era sempre ruotato attorno al proprio lavoro, alla casa, alle rose, al lavoro, agli studi cinematografici, al lavoro, ai pochi ristoranti eleganti nei quali la gente dello spettacolo si ritrovava per discutere di affari. Non era mai stata allo Yamashiro Skyroom, allo zoo, allo show degli ologrammi, nelle botteghe di antiquariato o a Tonga Lei. Per lei era tutto nuovo. Le sembrava di essere una turista o, meglio ancora, una prigioniera appena rilasciata dopo una condanna lunghissima trascorsa nel più assoluto isolamento.

Ma non erano solo i luoghi visitati a rendere tanto speciale quella giornata. Non sarebbero stati altrettanto interessanti e divertenti se ad accompagnarla non ci fosse stato Tony. Era così affascinante, così sagace e così pieno di energie da rendere ancora più radiosa quella giornata.

Dopo aver sorseggiato lentamente un paio di Mai Tais, si ritrovarono con una fame da lupi. Si diressero verso San Fernando Valley per cenare al Mel’s Landing, un altro locale di cui Hilary non aveva mai sentito parlare. Il Mel’s era un ristorantino senza troppe pretese e dai prezzi accessibili dove si mangiava il pesce migliore che Hilary avesse mai assaggiato.

Mentre divoravano frutti di mare enormi, iniziarono a discutere dei vari locali nei quali erano soliti recarsi a cena: Hilary scoprì che Tony ne conosceva molti più di lei. Hilary non andava oltre quei pochi ristoranti di lusso dove si recavano gli attori e i pezzi grossi dell’industria cinematografica. Le trattorie fuori mano, i caffè seminascosti che servivano le specialità della casa e i ristorantini a conduzione familiare con i loro piatti semplici ma deliziosi sembravano rappresentare un altro aspetto della città che non si era mai presa la briga di conoscere. Si rese conto di essere diventata ricca senza assaporare la gioia e la libertà che tale ricchezza poteva offrirle.

Mangiarono troppi frutti di mare, troppi crostacei e troppi gamberi. E bevvero anche troppo vino bianco.

Considerando l’enorme quantità di cibo divorato, Hilary fu sorpresa nel notare che erano riusciti comunque a chiacchierare. Non avevano mai smesso di parlare. Normalmente, era piuttosto riservata quando usciva con un uomo per la prima volta, ma con Tony era diverso. Voleva sapere che cosa ne pensava lui di una valanga di argomenti: da Mork e Mindy al dramma shakespeariano, dalla politica all’arte. Gente, cani, religione, architettura, sport, Bach, moda, cibo, femminismo, cartoni animati del sabato… sembrava fosse di vitale importanza conoscere la sua opinione su quelle e altre mille questioni. E non vedeva l’ora di spiegargli ciò che pensava lei per sapere che cosa ne pensava lui: alla fine gli comunicò quello che pensava avesse pensato dei suoi pensieri. Continuarono a parlare ininterrottamente, come se qualcuno li avesse informati che Dio avrebbe reso tutti gli uomini sordi e muti allo spuntare del sole. Hilary era ubriaca, ma non tanto per il vino, quanto per l’intimità e la spontaneità che trasparivano da quella conversazione; era intossicata da tutte quelle parole, da quella micidiale pozione alla quale non si era ancora abituata.

Quando giunsero davanti a casa e decisero di fermarsi per il bicchiere della staffa, Hilary ebbe la certezza che avrebbero finito per fare l’amore. Lo desiderava moltissimo e il solo pensiero di stringerlo a sé la riempì di eccitazione. E sapeva che anche lui la desiderava: glielo si leggeva negli occhi. Ma per il momento erano stracolmi di cibo e Hilary ritenne più opportuno versare un po’ di crema di menta e ghiaccio per entrambi.

Si erano appena seduti quando squillò il telefono.

«Oh, no!» esclamò.

«Ti ha richiamato dopo l’altra notte?»

«No.»

«E stamattina?»

«No.»

«Forse non è lui.»

Andarono entrambi verso il telefono.

Hilary esitò un attimo, poi sollevò la cornetta. «Pronto?»

Silenzio.

«Maledizione!» urlò, sbattendo con tale forza il ricevitore da temere di averlo rotto.

«Non devi innervosirti.»

«Non ci riesco,» mormorò.

«È solo un verme schifoso che non sa come trattare le donne. Ne ho visti tanti. Se avesse la possibilità di stare con una donna, se una donna gli si offrisse su un piatto d’argento, scapperebbe via terrorizzato.»

«Comunque mi fa paura.»

«Non è pericoloso. Torniamo sul divano. Siediti. Cerca di dimenticarlo.»

Si rimisero sul divano e sorseggiarono la crema di menta in silenzio per un paio di minuti.

Poi Hilary borbottò: «Dannazione.»

«Domani pomeriggio avrai il numero nuovo. E a quel punto non potrà più darti fastidio.»

«Ma mi ha rovinato la serata. Ero così contenta.»

«Io lo sono ancora.»

«È solo che… speravo in qualcos’altro oltre a un bicchiere accanto al camino.»

Tony la fissò. «Davvero?»

«Tu no?»

Tony le regalò un sorriso speciale: non era solo la particolare configurazione della bocca, ma includeva il viso nel suo insieme e gli occhi scuri ed espressivi. Era il sorriso più spontaneo e decisamente più affascinante che avesse mai visto. Lui la punzecchiò: «Devo ammettere che anch’io speravo di assaggiare qualcosa di più della crema di menta.»

«Dannato telefono.»

Tony si chinò e la baciò. Lei socchiuse le labbra e per un dolcissimo attimo le lingue si sfiorarono. Tony si allontanò e la guardò accarezzandole delicatamente il viso. «Forse siamo ancora dell’umore giusto.»

«E se il telefono squilla di nuovo?»

«Non succederà.»

La baciò sugli occhi, poi sulle labbra e le appoggiò una mano sul seno.

Hilary si distese e lui fece altrettanto. Lei gli mise una mano sul braccio e avvertì la massa dei muscoli sotto la camicia.

Continuando a baciarla, Tony le accarezzò il collo con la punta delle dita e iniziò a sbottonarle la camicetta.

Hilary sfiorò la sua coscia muscolosa. Era così forte. Fece scivolare la mano e sentì la sua erezione, calda e dura come l’acciaio. Lo immaginò mentre entrava dentro di lei, spingendosi sempre più in fondo, e fu pervasa da un brivido di piacere.

Lui avvertì la sua eccitazione e si fermò un attimo ad accarezzare dolcemente il rigonfiamento del seno che sbucava dalla camicetta sbottonata. Le dita sembravano lasciare una traccia gelida sulla sua pelle infuocata: Hilary assaporò quella sensazione piacevole quanto il suo tocco delicato.

Il telefono squillò.

«Fai finta di niente,» suggerì Tony.

Lei cercò di seguire il suo consiglio. Gli mise le braccia al collo e si distese sul divano attirandolo a sé. Lo baciò con passione, stringendo le labbra contro le sue, leccando e mordicchiando.

Il telefono continuava a suonare.

«Dannazione!»

Si misero a sedere.

I trilli continuavano a risuonare nella casa.

Hilary si alzò.

«Non farlo,» disse Tony. «Parlargli non è servito. Lascia che me ne occupi io e vediamo che cosa succede.»

Si alzò e andò verso il telefono. Sollevò il ricevitore e non disse nulla. Si limitò ad ascoltare.

Hilary capì dalla sua espressione che l’altro non stava parlando. Tony era deciso a resistere. Guardò l’orologio.

Passarono trenta secondi. Un minuto. Due minuti.

La prova di resistenza ingaggiata dai due uomini ricordava vagamente un gioco per bambini, ma non c’era niente di infantile in quella storia. Faceva venire i brividi. Hilary aveva la pelle d’oca.

Due minuti e mezzo.

Sembravano un’eternità.

Alla fine, Tony depose il ricevitore. «Ha riappeso.»

«Senza dire nulla?»

«Neanche una parola. Ma ha riattaccato per primo e credo sia importante. Ho pensato che non avrebbe gradito la stessa medicina che cercava di somministrare a te. Crede di poterti spaventare. Ma tu ti aspetti la chiamata e ti limiti ad ascoltarlo, come fa lui. All’inizio crede che tu sia solo gentile ed è sicuro di potercela fare. Ma se continui a rimanere in silenzio, si chiede se per caso non hai in mente qualcosa. Forse hai il telefono sotto controllo? Forse la polizia sta cercando di localizzare la chiamata? Sei proprio tu che rispondi al telefono? Inizia a pensare a queste cose, si spaventa e riappende.»

«Lui ha paura? Be’, è confortante,» mormorò.

«Non credo che abbia il coraggio di richiamare. Almeno non prima di domani. Ma sarà troppo tardi, perché avrai già cambiato numero.»

«Comunque, non sarò tranquilla fino a quando quelli del telefono non avranno finito.»

Tony allargò le braccia e lei si lasciò stringere. Si baciarono di nuovo.

Era ancora incredibilmente bello, dolce e piacevole, ma mancava la passione irrefrenabile che li aveva assaliti poco prima. Entrambi si resero conto dolorosamente della differenza.

Ritornarono sul divano ma solo per finire la crema di menta e per parlare. Alle 12.30, Tony decise di tornare a casa. Si erano comunque accordati per trascorrere il fine settimana successivo in giro per musei. Sabato sarebbero andati al Norton Simon Museum di Pasadena per ammirare i quadri degli espressionisti tedeschi e gli arazzi del Rinascimento. Domenica si sarebbero recati al J. Paul Getty Museum, che vantava una delle collezioni più ricche del mondo. Naturalmente, fra un museo e l’altro, avrebbero gustato una valanga di buon cibo, avrebbero chiacchierato di mille cose e, lo speravano ardentemente, avrebbero ripreso da dove avevano interrotto.

Davanti alla porta, mentre Tony stava per andarsene, Hilary si rese improvvisamente conto che non avrebbe sopportato di rimanere cinque giorni senza vederlo.

«Che cosa ne dici di mercoledì?»

«Per che cosa?»

«Hai impegni per cena?»

«Oh, probabilmente mi farò un paio di uova che stanno diventando vecchie nel frigorifero.»

«Sono micidiali per il colesterolo.»

«E forse toglierò la muffa dal pane e mi farò un toast. E dovrei anche finire il succo di frutta che ho comprato due settimane fa.»

«Povero caro.»

«E la vita dello scapolo.»

«Non posso permettere che mangi ùóva vecchie e pane ammuffito. Soprattutto considerando il fatto che sono bravissima a preparare filetti di sogliola con insalata mista.»

«Una cenetta leggera ma deliziosa,» commentò.

«Non vorrai forse trovarti con la pancia strapiena e gli occhi pesanti!»

«Non si sa mai che cosa può succedere dopo.»

Hilary fece una smorfia. «Esatto.»

«Ci vediamo mercoledì.»

«Alle sette?»

«Sette in punto.»

Si scambiarono un ultimo bacio e poi lui si allontanò nel vento freddo della notte.

Mezz’ora più tardi, distesa sul letto, Hilary sentì il corpo che le doleva per la frustrazione. Aveva il seno gonfio e teso e desiderava ardentemente che le mani di Tony glielo massaggiassero dolcemente. Chiuse gli occhi e le parve di avvertire le sue labbra sui capezzoli induriti. Il ventre ebbe un fremito mentre Hilary immaginava le braccia possenti di Tony che la stringevano e il suo corpo che si muoveva lentamente dentro di lei. Si sentiva bagnata, calda e piena di desiderio. Si rigirò nel letto per più di un’ora, poi decise di alzarsi e di prendere un tranquillante.

Mentre il sonno stava per avere il sopravvento, intavolò una conversazione alquanto confusa con se stessa.

Mi sto innamorando?

No. Certo che no.

Forse. Forse sì.

No. L’amore è pericoloso.

Forse con lui funzionerà.

— Ricordati Earl ed Emma.

Tony è diverso.

Tu hai voglia. Tutto qui. Hai solo voglia.

Anche questo è vero.

Si addormentò e sognò. Alcuni sogni le parvero dorati ma leggermente confusi. In uno di questi era nuda con Tony, distesa in un prato la cui erba ricordava le piume di un uccello. Il prato era posto sulla sommità di una roccia e il vento caldo era più limpido dei raggi del sole, più forte della corrente elettrica e più trasparente di qualsiasi altra cosa al mondo.

Ma ebbe anche qualche incubo. In uno si ritrovò nel vecchio appartamento di Chicago proprio mentre le pareti le si stringevano addosso. Alzò lo sguardo e vide che il soffitto era scomparso. C’erano invece Earl ed Emma che la fissavano, con le facce enormi e una smorfia sulle labbra, mentre le pareti cercavano di schiacciarla. Quando aprì la porta per fuggire dall’appartamento, si imbattè in un gigantesco scarafaggio, un insetto mostruoso più grande di lei che aveva tutta l’intenzione di volerla mangiare viva.


Alle tre del mattino, Joshua Rhinehart si svegliò, brontolando e lottando con le lenzuola aggrovigliate. A cena aveva bevuto un po’ troppo ed era una cosa alquanto insolita per lui. Il ronzio alle orecchie se n’era andato ma la vescica lo stava facendo impazzire. A ogni modo, non era stato solo un bisogno fisiologico a rendere agitato il suo sonno. Aveva avuto un incubo legato al laboratorio di Tannerton: molti cadaveri, copie esatte di Bruno Frye, si erano alzati dalle casse e dai tavoli d’acciaio per l’imbalsamazione. Nell’oscurità della notte si era precipitato oltre Forever View, ma quei corpi l’aveva inseguito, squarciando le tenebre per riuscire a raggiungerlo e chiamandolo più volte con la piatta voce della morte.

Joshua Rhinehart rimase sdraiato sulla schiena, al buio, con lo sguardo fisso al soffitto che non era in grado di vedere. L’unico rumore era il ticchettio quasi impercettibile della sveglia elettronica posta sul comodino.

Fino alla morte della moglie, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva sognato ben poche volte. E non aveva mai avuto un incubo. Nemmeno uno in cinquantotto anni di vita. Ma da quando Cora se n’era andata, era cambiato tutto. Gli capitava di sognare almeno un paio di volte la settimana e molto spesso si trattava di incubi. La maggior parte delle volte aveva l’impressione di perdere qualcosa di terribilmente importante ma indescrivibile; ne derivava sempre una ricerca frenetica e senza speranze. Non aveva certo bisogno di uno psichiatra da cinquanta dollari a visita per capire che quei sogni si riferivano a Cora e alla sua morte prematura. Non aveva ancora imparato a vivere senza di lei. Forse non ci sarebbe mai riuscito. A volte gli incubi erano invece popolati da morti viventi che assumevano le sue sembianze, quasi a simboleggiare la sua stessa mortalità. Ma quella sera assomigliavano tutti in modo sorprendente a Bruno Frye.

Scese dal letto, si stirò e sbadigliò. Si trascinò fino al bagno senza nemmeno accendere la luce. Due minuti più tardi fece per ritornare a letto e si fermò davanti alla finestra. I vetri erano freddi al tatto. Fuori soffiava un forte vento che premeva sul vetro producendo un gemito quasi animalesco. La valle era silenziosa e buia, a eccezione della luce nei vigneti. In cima alle colline, in direzione nord, scorse la Shade Tree Vineyards.

Improvvisamente la sua attenzione fu attirata da un puntino bianco a sud del vigneto, una luce vaga e indistinta proveniente più o meno dalla casa di Frye. Luce nella casa di Frye? Non doveva esserci nessuno. Bruno viveva da solo. Joshua strabuzzò gli occhi, ma senza occhiali non riusciva a mettere a fuoco nulla. Era difficile dire se la luce proveniva davvero dalla casa di Frye o da una delle costruzioni sorte in mezzo alla tenuta. Continuò a fissare quel punto luccicante e si convinse sempre più che non era una vera luce: era pallida e tremolante, probabilmente solo un riflesso della luna.

Si avvicinò al comodino e cercò a tastoni gli occhiali: non voleva accendere la luce e rimanere così abbagliato. Prima di riuscire a trovarli, rovesciò il bicchiere d’acqua posto accanto alla sveglia.

Quando tornò alla finestra, la misteriosa luce sulla collina era scomparsa. Decise comunque di restare a controllare, come un vigile guardiano. Era l’esecutore testamentario di Frye ed era suo dovere ripartire i beni secondo la volontà del defunto. Se i ladri stavano svaligiando quella casa, doveva intervenire. Rimase immobile per quindici minuti, lo sguardo verso le colline, ma la luce non si riaccese.

Alla fine si convinse che la vista lo aveva ingannato e tornò a letto.


Lunedì mattina. Mentre in coppia con Tony cercava di seguire possibili indizi su Bobby Valdez, Frank riferì animatamente della serata trascorsa con Janet Yamada. Janet era talmente carina. Janet era talmente intelligente. Janet era talmente comprensiva. Janet era questo. Janet era quello. Tony non ne poteva più di Janet Yamada ma lasciò che l’amico si sfogasse a ruota libera. Era bello vedere che Frank parlava e si comportava come un qualsiasi essere umano.

Prima di mettersi in strada, Tony e Frank avevano parlato con due membri della Narcotici, gli investigatori Eddie Quevedo e Carl Hammerstein. I due avevano ipotizzato la probabilità che Bobby Valdez stesse spacciando cocaina o polvere d’angelo per poter continuare con il poco proficuo mestiere di stupratore. Sul mercato della droga di Los Angeles erano queste due sostanze, tanto illegali quanto conosciute, a rendere più soldi di qualsiasi altra. Gli spacciatori riuscivano ancora ad arricchirsi con l’eroina e l’erba, che però avevano smesso di essere gli articoli più redditizi del settore. Secondo la Narcotici, se Bobby era coinvolto nel traffico degli stupefacenti, doveva per forza essere uno spacciatore da strada, l’ultimo anello della grande catena, l’uomo che vendeva direttamente agli acquirenti. Quando era uscito di prigione in aprile era praticamente senza un centesimo e, per diventare produttore o importatore di stupefacenti, avrebbe avuto bisogno di ingenti capitali. «Dovete cercare un qualsiasi spacciatore da strapazzo,» aveva consigliato Quevedo. «Indagate per le strade.» Hammerstein aveva aggiunto: «Vi forniremo una lista di nomi e indirizzi di tutti coloro che sono stati schedati per traffico di stupefacenti. Con tutta probabilità molti sono tornati a spacciare, anche se non siamo ancora riusciti a prenderli con le mani nel sacco. Metteteli sotto pressione. Prima o poi troverete qualcuno che ha incontrato per strada Bobby o che sa dove si è nascosto.» Sulla lista di Quevedo e Hammerstein c’erano ventiquattro nomi.

I primi tre non erano in casa. Altri tre giurarono di non conoscere alcun Bobby Valdez o Juan Mazquezza: comunque nessuno che somigliasse al tizio della foto segnaletica.

Il settimo della lista era Eugene Tucker. Questa volta fecero centro, senza nemmeno dover ricorrere alle minacce.

La maggior parte dei neri ha la pelle di una sfumatura più o meno scura di marrone ma Tucker era veramente nero. Aveva il viso rotondo e liscio, nero come la pece. Gli occhi scuri erano molto più chiari della pelle. Aveva una barba riccioluta, innevata qua e là da piccoli ciuffetti candidi che, a parte il bianco degli occhi, erano l’unica cosa che spiccava in mezzo a tutto quel nero. Indossava persino camicia e calzoni neri. Era robusto, con il torace ampio, le braccia enormi e il collo largo come una trave portante. Aveva l’aria di chi spacca in due i binari della ferrovia, tanto per esercitarsi o divertirsi.

Tucker abitava sulle colline di Hollywood, in una villetta a schiera spaziosa e arredata con gusto. Nel salotto c’erano solo quattro pezzi: un divano, due sedie e un tavolino da caffè. Niente tavolo od oggetti d’arredamento. Niente stereo. Niente televisore. Non c’erano nemmeno lampade: alla sera la stanza veniva illuminava unicamente dalla lampadina che pendeva dal soffitto. Ma quegli unici pezzi erano di ottima qualità e ognuno di loro metteva in risalto l’altro. Tucker era un appassionato di antichità cinesi. Il divano e le sedie, rivestiti in tessuto verde giada, avevano la struttura in legno di palissandro lavorata a mano. Erano esemplari unici di un paio di secoli prima, incredibilmente pesanti e ben conservati. Anche il tavolino era in legno di palissandro orlato da un sottile intarsio di avorio. Tony e Frank si accomodarono sul divano, mentre Tucker si appollaiò sull’orlo della sedia di fronte.

Tony fece scorrere la mano lungo il bracciolo del divano e osservò: «Mr Tucker, è un oggetto stupendo.»

Tucker alzò un sopracciglio. «Lei se ne intende?»

«Non saprei dirne con esattezza il periodo,» rispose Tony. «Ma di arte cinese ne so quel tanto che basta per rendermi conto che questo divano non è un’imitazione acquistata in saldo ai grandi magazzini.»

Tucker scoppiò a ridere, felice che Tony avesse riconosciuto il valore del divano. «So che cosa sta pensando,» disse allegramente. «Si sta domandando come un ex galeotto, uscito di galera da soli due anni, possa permettersi tutto questo: una casa da milleduecento dollari al mese arredata con pezzi d’antiquariato cinese. Forse sospetta che abbia ripreso a spacciare eroina o chissà che altro.»

«A dire il vero, non stavo pensando a niente del genere,» rispose Tony. «Mi sto chiedendo come diavolo ha fatto, ma so che non è grazie allo spaccio di droga.»

«E come fa a esserne tanto sicuro?»

«Se lei fosse uno spacciatore di droga con la passione per l’antiquariato cinese,» spiegò Tony, «arrederebbe tutta la casa in un colpo solo e non un pezzo alla volta. E evidente che sta guadagnando bene, ma non come ai tempi in cui vendeva stupefacenti.»

Tucker scoppiò nuovamente a ridere, applaudendo con le grandi mani nere. Si voltò verso Frank e disse: «Il suo compagno è perspicace.»

«Un vero Sherlock Holmes,» confermò Frank.

«Soddisfi la mia curiosità,» riprese Tony. «Che cosa fa adesso?»

Tucker si sporse in avanti, improvvisamente corrucciato. Sventolò un pugno e assunse un’espressione imponente, cattiva e minacciosa. Rispose con un grugnito: «Disegno vestiti.»

Tony rimase a bocca aperta.

Lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia, Tucker scoppiò a ridere di nuovo. Era uno degli uomini più allegri che Tony avesse mai conosciuto. «Disegno vestiti da donna,» spiegò. «È la verità. Il mio nome sta cominciando a essere conosciuto nell’ambiente californiano e un giorno diventerà una firma vera e propria. Potete esserne certi.»

Incuriosito, Frank proseguì: «Secondo le nostre informazioni, lei ha scontato quattro anni su otto di sentenza per spaccio di eroina e cocaina. Tutto questo che cos’ha a che vedere con la creazione di vestiti da donna?»

«Un tempo ero uno sporco figlio di puttana,» rispose Tucker. «E in prigione ero anche peggiorato. Incolpavo la società per tutto quello che mi era successo. Incolpavo la maledetta struttura dei bianchi. Incolpavo il mondo intero e non mi addossavo alcuna responsabilità. Pensavo di essere un vero duro, ma ancora non ero cresciuto. Non ci si può considerare uomini veri finché non si è disposti ad affrontare le proprie responsabilità. Molti non le affrontano mai.»

«E che cos’è stato a farla cambiare?» domandò Frank.

«Un’inezia,» spiegò Tucker. «E incredibile come a volte un piccolo dettaglio possa cambiare la vita di una persona. Nel mio caso si è trattato di un programma televisivo. Al telegiornale delle sei, trasmettevano una serie di servizi su persone di colore che erano riuscite a sfondare nella vita.»

«Li ho visti anch’io,» confermò Tony. «Sono passati più di cinque anni, ma me li ricordo ancora.»

«Erano molto interessanti,» continuò Tucker. «Proponevano un’immagine di nero che raramente la gente conosce. All’inizio tutti credevano che si sarebbero rivelati ridicoli. Pensavamo che il reporter avrebbe fatto sempre la stessa domanda a tutti gli intervistati: ‘Perché i poveri uomini di colore non possono lavorare e arricchirsi come Sammy Davis Jr?’ Ma non si sono rivolti a personaggi della televisione o del cinema.»

Tony ricordava che si era trattato di un gran bell’esempio di giornalismo, soprattutto per la televisione, dove le notizie, e soprattutto quelle a carattere umano, raggiungevano la profondità di una tazza da tè. I reporter avevano intervistato uomini e donne d’affari di colore che erano riusciti a sfondare, gente che aveva iniziato dal nulla e che aveva fatto i miliardi; avevano parlato di rappresentanti del mondo dell’edilizia, del mercato della ristorazione, del proprietario di una catena di saloni di bellezza. In totale una decina di persone. Tutti erano concordi nell’affermare che il colore della pelle ostacolava la strada del successo, ma non come pensavano prima di iniziare la carriera. Anzi, era più facile sfondare a Los Angeles che in Alabama o nel Mississippi o persino a Boston e New York. C’erano più miliardari di colore a Los Angeles che nel resto della California e negli altri quarantanove stati della federazione. A Los Angeles, tutti ingranavano la quarta; il californiano meridionale tipico non si limitava ad abituarsi ai cambiamenti, ma li cercava attivamente e ci sguazzava dentro. L’atmosfera costantemente innovativa e sperimentale attirava qualche folle, ma anche molte delle menti più brillanti e progredite della nazione, motivo per cui la maggior parte dei risultati culturali, scientifici e industriali provenivano da quella regione. Erano pochi i californiani del sud ad avere tempo e pazienza da sprecare in atteggiamenti fuori moda, come per esempio il pregiudizio razziale. Naturalmente c’erano razzisti anche a Los Angeles. Ma mentre una famiglia di proprietari terrieri in Georgia poteva richiedere sei generazioni per superare i pregiudizi nei confronti dei neri, nel sud della California la trasformazione arrivava a compiersi nel giro di una sola. Come aveva dichiarato uno degli intervistati del servizio televisivo: «Ormai i musi neri di Los Angeles sono i messicani.» Ma anche questo stava cambiando. La cultura ispanica veniva considerata sempre con maggior rispetto, mentre la gente di colore continuava a mettere a segno sempre più successi. A spiegazione dell’insolita fluidità delle strutture sociali della California del Sud e dell’entusiasmo con cui i suoi abitanti accettavano i cambiamenti, gli intervistatori avevano addossato la responsabilità alla geologia. Quando si vive su una delle faglie più pericolose del mondo, quando la terra può tremare, muoversi e cambiare da un momento all’altro senza il minimo preavviso, la consapevolezza dell’instabilità può arrivare a influenzare inconsciamente l’atteggiamento di una persona nei confronti di mutamenti meno cataclismici? Per la maggior parte, gli intervistati di colore si erano rivelati d’accordo con quella teoria. Anche Tony ne sembrava convinto.

«Hanno presentato una decina di ricconi neri,» riprese Eugene Tucker. «Molti, tra cui anch’io, si sono messi a fischiare il programma e gli intervistati sono stati soprannominati Zio Tom. Ma poi ci ho riflettuto. Se quelli che erano apparsi in televisione ce l’avevano fatta nel mondo dei bianchi, perché non dovevo tentare anch’io? Mi ritenevo furbo e intelligente come le persone che avevo visto parlare, anzi in alcuni casi ancora più in gamba. E nella mia mente si è accesa una lampadina, una nuova immagine del nero, una nuova idea. Los Angeles era la mia casa. Se era vero che sapeva offrire quelle possibilità, perché non dovevo approfittarne? Sicuramente alcuni degli intervistati avevano dovuto comportarsi come lo Zio Tom per arrivare in alto. Ma una volta raggiunto il successo, una volta guadagnato il primo miliardo, non si è più l’uomo di nessuno.» Sorrise. «È stato così che ho deciso di diventare ricco.»

«Detto, fatto,» commentò Frank, impressionato.

«Detto, fatto.»

«Il potere dell’ottimismo.»

«Il potere del realismo,» lo corresse Tucker.

«Ma perché la moda femminile?» domandò Tony.

«Mi sono sottoposto ad alcuni test attitudinali e ho scoperto di essere portato per il lavoro di stilista o per qualsiasi attività collegata con l’arte. Poi ho cercato di scoprire qual era l’oggetto che più mi sarei divertito a creare. Mi è venuto in mente che mi era sempre piaciuto aiutare le ragazze a scegliere i propri vestiti. Mi piaceva accompagnarle a fare spese. E mi sono accorto che, quando si mettevano il vestito scelto da me, ricevevano più complimenti del solito. Così mi sono iscritto a un corso universitario riservato ai detenuti e ho iniziato a studiare design. Ho frequentato anche diversi corsi di economia. Quando sono uscito, ho lavorato per un po’ in un fast food. Abitavo in una camera ammobiliata da quattro soldi e dovevo ridurre le spese al minimo. Ho disegnato qualche modello, ho pagato una sarta perché me lo realizzasse e ho iniziato a vendere le mie creazioni. All’inizio non è stato per niente facile. Anzi, è stato durissimo! Ogni volta che mi arrivava l’ordine di un negozio, dovevo portarlo in banca per strappare un prestito che mi sarebbe servito per produrre i vestiti. Caspita, mi sono arrampicato sui vetri. Ma poi la situazione è migliorata e adesso me la cavo bene. Aprirò un negozio tutto mio in un bel quartiere e prima o poi vedrete un’insegna a Beverly Hills con la scritta ‘Eugene Tucker’. Ve lo garantisco.»

Tony scosse il capo. «Lei è una forza.»

«Non è questo,» rispose Tucker. «E solo che vivo in un posto forte in un momento forte.»

Frank teneva in mano la busta con le foto segnaletiche di Bobby «Angelo» Valdez. Se la battè sulla gamba, lanciò un’occhiata a Tony e disse: «Credo che stavolta ci siamo rivolti alla persona sbagliata.»

«Così pare.»

Tucker si sporse in avanti. «Che cosa volevate?»

Tony iniziò a parlargli di Bobby Valdez.

«Be’, non bazzico più l’ambiente di una volta,» rispose Tucker, «però non ho perso tutti i contatti. Ogni settimana, dedico una ventina di ore del mio tempo alla Self-Pride, un’associazione della città che combatte la droga. In un certo senso, credo di avere ancora qualche debito da pagare, giusto? I volontari della Self-Pride trascorrono la metà del proprio tempo a parlare con i ragazzi e l’altra metà a preparare un programma di raccolta di informazioni, una specie di telefono azzurro, sapete che cosa vuoi dire?»

«Ricevete chiamate di denuncia?» domandò Tony.

«Esatto. Esiste un numero telefonico che la gente può chiamare per sporgere denunce anonime nei confronti di eventuali spacciatori. Comunque, alla Self-Pride non aspettiamo che la gente ci chiami. Battiamo a tappeto le zone dove sappiamo che lavorano gli spacciatori. Bussiamo alle porte, parliamo con i ragazzi e con i genitori e cerchiamo di strappare ogni minima informazione. Poi apriamo un dossier per ogni spacciatore e, quando riteniamo di avere abbastanza carne sul fuoco, passiamo la pratica al dipartimento di polizia. Quindi, se questo Valdez sta spacciando, c’è qualche possibilità che io abbia informazioni sul suo conto.»

«Devo ammettere che Tony ha ragione, lei è una forza,» confermò Frank.

«No, non ho alcun bisogno di pacche amichevoli sulle spalle per il lavoro che svolgo con la Self-Pride. Non sono alla ricerca di complimenti. Ai miei tempi ho trasformato in drogati molti ragazzi che magari oggi sarebbero persone normali se non mi fossi messo sulla loro strada. Per pareggiare i conti, ci vorrà molto tempo.»

Frank prese le fotografie e le allungò a Tucker. Il negro osservò tutt’e tre le pose. «Conosco questo bastardo. E uno dei trenta su cui stiamo lavorando in questo periodo.»

Il cuore di Tony prese a battere all’impazzata.

«Ma adesso non si fa chiamare Valdez,» fece notare Tucker.

«Juan Mazquezza?»

«Nemmeno. Credo che si faccia chiamare Ortiz.»

«Sa dove possiamo trovarlo?»

Tucker si alzò. «Fatemi telefonare all’ufficio informazioni della Self-Pride. Forse loro hanno l’indirizzo.»

«Splendido,» commentò Frank.

Tucker stava per dirigersi al telefono della cucina quando si fermò di colpo e si voltò a guardarli. «Potrebbero volerci un paio di minuti. Se volete approfittarne per dare un’occhiata ai miei disegni, potete andare nello studio.» E indicò la porta che si apriva sul salotto.

«Certo,» accettò Tony. «Io li guardo volentieri.»

Insieme con Frank si diresse nello studio, ancora più vuoto del salotto. C’erano un costosissimo tavolo da disegno con una lampada, uno sgabello con il sedile imbottito, un raccoglitore a molla sul tavolo e un contenitore su rotelle per gli arnesi dell’artista. Accanto a una delle finestre posava un manichino con la testa timidamente inclinata e le braccia spalancate; ai suoi piedi giacevano pezzi di stoffa. Non c’erano scaffali, né armadietti; per terra, lungo la parete, erano allineati mucchi di schizzi e blocchi da disegno, insieme con gli attrezzi da lavoro. Era evidente che Eugene Tucker nutriva la ferma convinzione di riuscire, prima o poi, ad ammobiliare l’intera casa con pezzi di arredamento dello stesso valore di quelli del salotto. Nel frattempo, senza curarsi della scomodità, non intendeva sprecare soldi in mobili provvisori da quattro soldi.

La quintessenza dell’ottimismo californiano, pensò Tony.

A una parete erano stati appesi alcuni schizzi a matita e altri a colori, frutto dell’opera di Tucker. I suoi vestiti erano perfetti, morbidi, femminili ma non frivoli. Era dotato di un eccezionale senso del colore e del tocco, capace di rendere speciale un vestito con un dettaglio azzeccato. I disegni rivelavano chiaramente un gran talento.

A Tony risultava ancora difficile credere che quel nero grande e grosso potesse guadagnarsi da vivere disegnando vestiti da donna. Ma si rese conto di avere anche lui, come Tucker, una doppia personalità. Durante il giorno faceva il detective per la Omicidi, insensibile e indurito dalla violenza con la quale aveva imparato a convivere, ma di sera diventava un artista e si curvava sulle tele per dipingere senza sosta. In un certo senso, si sentiva molto simile a Eugene.

Mentre i due detective stavano osservando l’ultimo degli schizzi, fece ritorno Tucker. «Allora, che cosa ne dite?»

«Meravigliosi,» esclamò Tony. «Dimostra di avere un ottimo gusto per i colori e per le linee.»

«Davvero in gamba,» aggiunse Frank.

«Lo so,» ammise Tucker ridendo.

«Alla Self-Pride c’è la pratica di Valdez?» domandò Tony.

«Sì. Ma adesso si chiama Ortiz, come pensavo. Jimmy Ortiz. Dalle informazioni che siamo riusciti a raccogliere sembra che più che altro spacci polvere d’angelo. Mi rendo conto di non essere la persona più adatta a puntare un dito accusatore nei confronti di qualcuno ma, per quanto mi riguarda, chi spaccia quel genere di droga è il bastardo più pericoloso che possa esistere sul mercato. Insomma, quella polvere è un autentico veleno. Si beve le cellule cerebrali a una velocità impressionante. Non abbiamo ancora informazioni sufficienti per passare la pratica alla polizia, ma ci stiamo lavorando sopra.»

«L’indirizzo?» domandò Tony.

Tucker gli allungò un foglietto di carta sul quale aveva annotato l’indirizzo in bella scrittura. «È un elegante quartiere residenziale poco più a sud del Sunset, a un paio di isolati da La Cienega.»

«Lo troveremo,» assicurò Tony.

«A giudicare da ciò che mi avete detto,» riprese Tucker, «e da quello che siamo venuti a sapere noi alla Self-Pride, direi che questo non è il genere di criminale capace di riabilitarsi. Sarebbe meglio farlo sparire dalla circolazione per un bel po’!»

«È quello che stiamo cercando di fare,» spiegò Frank.

Tucker li riaccompagnò alla porta d’ingresso e uscì sulla veranda che offriva uno splendido panorama di Los Angeles. «Non è meraviglioso?» chiese Tucker. «Non è unico?»

«Davvero incredibile,» ammise Tony.

«È una città eccezionale,» riprese Tucker, colmo di orgoglio e affetto, come se fosse stato lui a creare quella metropoli. «Ho sentito dire che i burocrati di Washington hanno portato a termine uno studio sul trasporto di massa per Los Angeles. Intendevano farci digerire qualcuna delle loro idee, ma hanno scoperto che la costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità sarebbe costata qualcosa come cento miliardi di dollari, per trasportare solo il dieci per cento dei passeggeri in transito ogni giorno. Non si sono ancora resi conto dell’estensione di queste zone.» Ormai era in brodo di giuggiole, con il faccione illuminato dal piacere e le mani impegnate a gesticolare. «Non hanno ancora capito che Los Angeles significa spazio. Spazio, mobilità e libertà. Questa città ha bisogno di potersi muovere, sia fisicamente sia spiritualmente. Anche psicologicamente. A Los Angeles esiste la possibilità di fare praticamente tutto. Qui è possibile prendere in mano il proprio futuro e modellarselo su misura. E fantastico. Amo questa città. Dio, quanto la amo!»

Tony rimase talmente colpito dai sentimenti di Tucker che decise di svelargli il suo sogno segreto. «Mi sarebbe piaciuto fare l’artista e guadagnarmi da vivere con l’arte. Dipingo.»

«E allora perché fa il poliziotto?» gli chiese Tucker.

«Perché lo stipendio è sicuro.»

«Al rogo gli stipendi sicuri.»

«Ma me la cavo bene con il mio lavoro e non mi dispiace.»

«Se la cava bene anche con l’arte?»

«Credo di sì.»

«E allora lasci perdere. Amico, qui siamo alle frontiere del mondo occidentale, al limite delle possibilità. Bisogna buttarsi. Bisogna decollare. È una sensazione da brivido e il fondo è talmente lontano che difficilmente ci si sfracella. Al contrario, forse anche lei riuscirà a fare come me. Forse anche lei non cadrà. Per me è stato come cadere all’insù

I due investigatori si diressero verso il vialetto, oltre una siepe verde giada piena di foglie grasse e succose. La macchina era parcheggiata all’ombra di un’imponente palma da datteri. Mentre Tony apriva la portiera, Tucker gli urlò dalla veranda: «Si butti! Si butti e cominci a volare!»

«Davvero un bel tipo,» commentò Frank mentre si allontanavano dalla villetta.

«Già,» ammise Tony, domandandosi che sensazione si provasse a volare.

Mentre si dirigevano all’indirizzo fornito da Tucker, Frank riprese a sproloquiare di Janet Yamada. Ancora imbevuto dei consigli di Eugene Tucker, Tony gli prestò poca attenzione. Ma Frank non se ne accorse nemmeno. Quando parlava di Janet Yamada, non tentava nemmeno di intavolare una conversazione: si limitava al soliloquio.

Un quarto d’ora più tardi trovarono il condominio dove abitava Jimmy Ortiz. Il parcheggio sotterraneo era protetto da un cancello di ferro che si apriva con un comando elettronico e quindi non riuscirono a controllare se c’era una Jaguar nera.

Gli appartamenti erano disposti su due piani, con le scale e i passaggi all’aperto. Il complesso si affacciava su una piscina gigantesca e su un parco lussureggiante. C’era persino una vasca per l’idromassaggio accanto alla quale due ragazze in bikini e un giovanotto erano intenti a sorseggiare un martini fra una risata e l’altra, mentre dal vortice d’acqua sottostante esalavano i fumi del vapore.

Frank si fermò sul bordo della Jacuzzi e chiese dove abitava Jimmy Ortiz.

Una delle ragazze cinguettò: «È quel ragazzo carino con i baffi?»

«Con un viso da bambino,» precisò Tony.

«È lui,» esclamò la ragazza.

«Adesso ha i baffi?»

«Sempre che sia lo stesso. Quello che dico io guida una Jaguar stupenda.»

«È lui,» sbottò Frank.

«Credo che abiti lassù,» proseguì la ragazza, «nell’edificio quattro, al secondo piano, proprio in fondo.»

«È in casa?» domandò Frank.

Nessuno seppe rispondere.

Tony e Frank raggiunsero l’edifìcio quattro e salirono al secondo piano. Un balcone correva lungo i quattro appartamenti che si affacciavano sul cortile. Di fronte alle prime tre porte erano stati sistemati vasi di edera e altre piante rampicanti per regalare un po’ di verde anche al secondo piano, sprovvisto di giardino. Ma non c’era niente davanti all’ultimo appartamento.

La porta era socchiusa.

Tony incrociò lo sguardo di Frank. Entrambi avevano l’aria preoccupata.

Perché la porta era socchiusa?

Forse Bobby sapeva che stavano arrivando?

Si sistemarono ai lati dell’ingresso e rimasero in attesa, con le orecchie tese.

Si udivano solo le voci dei ragazzi vicino alla Jacuzzi.

Frank alzò un sopracciglio, con aria interrogativa.

Tony indicò il campanello.

Dopo un attimo di esitazione Frank lo premette.

All’interno si udì uno scampanellio.

Rimasero in attesa, gli occhi fissi sulla porta.

Improvvisamente l’aria sembrò farsi immobile e incredibilmente pesante. Umida. Spessa. Sciropposa. Tony faceva fatica a respirare: era come se stesse inalando dei fluidi.

Nessuna risposta.

Frank suonò di nuovo.

Ancora niente. Tony infilò la mano sotto la giacca e afferrò la rivoltella. Si sentiva debole. Aveva lo stomaco in subbuglio.

Frank estrasse la pistola, tese l’orecchio per individuare eventuali movimenti all’interno e spalancò la porta con un calcio.

L’ingresso era deserto.

Tony si sporse per controllare. La parte del soggiorno che riusciva a intravedere era immersa nella penombra. Le tende erano tirate e non si vedeva alcuna luce.

Tony gridò: «Polizia!»

La sua voce risuonò lungo il balcone.

Un uccellino si mise a cinguettare fra i rami di un ulivo.

«Vieni fuori con le mani alzate, Bobby!»

Dalla strada si udì il clacson di un’auto.

In un altro appartamento squillò il telefono, appena percettibile.

«Bobby!» urlò Frank. «Hai sentito quello che ha detto? Siamo della polizia. Ormai è finita. Vieni fuori subito. Coraggio! Muoviti

Nel giardino i ragazzi erano ammutoliti. Tony ebbe la sensazione che gli occupanti degli altri appartamenti stessero scivolando silenziosamente verso le finestre per sbirciare fuori.

Frank alzò il tono della voce: «Non vogliamo farti del male, Bobby!»

«Dagli retta!» gli suggerì Tony. «Non costringerci a usare la forza. Vieni fuori senza fare storie.» Bobby non rispose.

«Se fosse in casa,» mormorò Frank, «almeno ci manderebbe affanculo.»

«E adesso?» domandò Tony.

«Cristo, non mi va per un cazzo. Forse è il caso di chiamare una squadra di rinforzo.» «Probabilmente non è armato.» «Stai scherzando.»

«Non è mai stato arrestato per possesso di armi. E solo un verme schifoso a eccezione di quando è con una donna.»

«E un assassino.»

«Di donne. È pericoloso solo per le donne.»

Tony gridò nuovamente: «Bobby, è la tua ultima possibilità! Maledizione, esci lentamente con le mani alzate!»

Silenzio.

Il cuore di Tony batteva furiosamente.

«Va bene,» sbottò Frank. «Vediamo di farla finita.»

«Se la memoria non mi inganna, l’ultima volta che ci siamo trovati in un caso del genere, sei andato avanti tu.»

«Sì. Il caso Wilkie-Pomeroy.»

«Quindi immagino tocchi a me,» proseguì Tony.

«So che non vedi l’ora di farlo.»

«Oh, certo.»

«Con tutto il cuore.»

«Peccato che ora sia finito in gola.»

«Vai a prenderlo, tigre.»

«Coprimi.»

«L’ingresso è troppo stretto per poterti coprire. Quando sarai dentro, non riuscirò a vedere niente.»

«Cercherò di stare basso,» sussurrò Tony.

«Vedi di strisciare. Proverò a guardarti sopra le spalle.»

«Mi raccomando.»

Tony aveva lo stomaco contratto. Respirò a fondo un paio di volte e cercò di calmarsi. In realtà, il cuore prese a battergli ancora più forte. Alla fine, si chinò e si lanciò all’interno dell’appartamento con la pistola spianata. Attraversò rapidamente l’ingresso e si bloccò davanti al soggiorno, per individuare eventuali ombre: ormai era certo di beccarsi una pallottola in mezzo agli occhi.

Il locale era illuminato debolmente da sottili fasci di luce che filtravano attraverso le aperture delle pesanti tende. Le grandi ombre sembravano appartenere solo a divani, sedie e tavoli. Il soggiorno era ingombro di mobili costosi ma decisamente privi di gusto. Un raggio di sole andava a colpire un divano di velluto rosso sulla cui spalliera in finta quercia risaltava un enorme e grottesco giglio in ferro battuto.

«Bobby?»

Nessuna risposta.

Da qualche parte ticchettava un orologio.

«Non vogliamo farti del male, Bobby.»

Silenzio.

Tony trattenne il fiato.

Sentì il respiro di Frank.

Nient’altro.

Lentamente e con molta cautela si alzò.

Nessuno sparo.

Camminò rasente al muro fino a quando trovò l’interruttore della luce. Nell’angolo si accese una lampada: sul paralume era rappresentata una corrida. Tony vide che il soggiorno e la sala da pranzo erano deserti.

Frank lo raggiunse e fece un cenno con la testa in direzione dell’armadio posto nell’ingresso.

Tony indietreggiò di un passo.

Tenendo la pistola all’altezza della pancia, Frank aprì delicatamente la porta. Nell’armadio c’erano solo un paio di giacche e alcune scatole di scarpe. Attraversarono il soggiorno, mantenendosi a debita distanza per non fornire un bersaglio troppo facile. C’era un ridicolo mobiletto per i liquori con i profili in ferro nero e la vetrinetta dipinta di giallo. In mezzo alla stanza c’era un tavolino rotondo: un affare ottagonale con al centro un braciere in ottone assolutamente inutile. Il divano e le sedie con lo schienale alto erano rivestiti in velluto rosso con frange dorate e inserti neri. Le tende erano in broccato giallo e arancio e il tappeto verde era spesso e ispido. Decisamente un posto orribile nel quale vivere.

Ma anche un posto assurdo nel quale morire.

Oltrepassarono la sala da pranzo e diedero un’occhiata nella minuscola cucina. Regnava un caos incredibile. Il frigorifero e alcuni armadietti erano spalancati. Il pavimento era ingombro di lattine, barattoli e scatole. Sembrava fosse passato un uragano. Molti vasetti si erano rotti e i frammenti di vetro luccicavano in mezzo al cibo sparpagliato per terra. Una pozza di sherry risaltava come un’ameba rossastra sulle piastrelle gialle, mentre le ciliegine si erano sparse ovunque. I fornelli erano letteralmente coperti di crema al cioccolato. C’erano cornflakes dappertutto, E sottaceti. Olive. Spaghetti. Qualcuno aveva usato la senape e la marmellata per scarabocchiare quattro volte la stessa parola sull’unica parete vuota della cucina:


Cocodrilos

Cocodrilos

Cocodrilos

Cocodrilos


«Che lingua è?» bisbigliò Frank.

«Spagnolo.»

«Che cosa significa?»

«Coccodrilli.»

«Perché coccodrilli?»

«Non lo so.»

«Mi viene la pelle d’oca,» mormorò Frank.

Tony era d’accordo. La situazione era decisamente strana. Tony non riusciva a capire che cosa stesse succedendo, ma sapeva con certezza che si trovavano in grave pericolo. Avrebbe tanto voluto sapere da che parte sarebbe sbucato.

Diedero un’occhiata in un’altra stanzetta, stracolma di mobili come le due precedenti. Bobby non era lì e nemmeno nell’armadio.

Ritornarono lentamente nell’ingresso, verso le due camere da letto e i bagni senza fare il benché minimo rumore.

Nella prima camera e nel bagno non trovarono niente di strano.

Nella camera principale regnava invece un terribile caos. Tutti i vestiti erano stati tolti dall’armadio e sparpagliati in giro. Erano ammucchiati sul pavimento, ammonticchiati sul letto o gettati alla rinfusa sui mobili. Non un solo abito era stato risparmiato. Dalle camicie penzolavano i colletti e le maniche. Tutte le etichette delle giacche e dei cappotti erano state strappate. I pantaloni erano completamente scuciti. La persona che aveva compiuto quello scempio doveva aver agito in preda a una furia cieca, ma nonostante tutto si era comportata in modo incredibilmente metodico.

Ma chi era stato?

Qualcuno che nutriva rancore nei confronti di Bobby?

Bobby stesso? Perché mai avrebbe dovuto mettere a soqquadro la cucina e distruggere i suoi stessi vestiti?

E che cosa c’entravano i coccodrilli?

Tony aveva la sensazione di aver passato in rassegna la casa troppo velocemente, lasciandosi così sfuggire qualche particolare importante. Era come se avesse in testa una vaga spiegazione per ciò che stava accadendo, ma non riuscisse a metterla a fuoco.

La porta del secondo bagno era chiusa. Era l’unico locale nel quale non avevano ancora guardato.

Frank puntò la pistola verso la porta e continuò a fissarla mentre si rivolgeva a Tony: «Se non è scappato prima del nostro arrivo, deve per forza essere in bagno.»

«Chi?»

Frank gli lanciò un’occhiata perplessa. «Ma Bobby, naturalmente. Chi altri?»

«Credi sia stato lui a ridurre la casa in questo stato?»

«Be’… tu che cosa ne pensi?

«C’è qualcosa che non quadra.»

«Ah sì? E che cosa?»

«Non lo so.»

Frank fece un passo verso la porta del bagno.

Tony ebbe un attimo di esitazione e rimase con le orecchie tese.

La casa era silenziosa come una tomba.

«In bagno ci deve essere qualcuno,» mormorò Frank.

Presero posizione ai lati della porta.

«Bobby! Mi senti?» gridò Frank. «Non puoi stare lì dentro per sempre! Vieni fuori con le mani alzate!»

Non uscì nessuno.

Tony incalzò: «Anche se non sei Bobby Valdez, ti consiglio di uscire subito. Chiunque tu sia.»

Dieci secondi. Venti. Trenta.

Frank afferrò il pomolo e lo ruotò lentamente fino a far scattare la serratura. Spalancò la porta e si ritrasse immediatamente indietro, contro il muro, per evitare eventuali proiettili, coltelli e altri oggetti che avrebbero potuto dargli il benvenuto.

Nessun colpo di arma da fuoco. Nessun movimento.

L’unica cosa che proveniva dal bagno era un puzzo insopportabile. Urina. Escrementi.

Tony sussultò. «Cristo!»

Frank si coprì il naso e la bocca con una mano.

Il bagno era vuoto. Il pavimento era coperto da pozzanghere di urina giallastra mentre il water, il lavandino e le pareti della doccia erano imbrattati di escrementi.

«In nome del cielo, che cosa sta succedendo?» mormorò Frank.

Sulla parete del bagno qualcuno aveva scritto due volte con le feci una parola in spagnolo:


Cocodrilos

Cocodrilos


Tony e Frank ritornarono rapidamente al centro della stanza da letto, inciampando nelle camicie lacerate e nei vestiti fatti a pezzi. Dovettero raggiungere l’anticamera per sfuggire al fetore che ormai aveva invaso anche la stanza.

«Chiunque sia stato, deve odiare davvero Bobby,» disse Frank.

«Allora non credi più che sia stato Bobby.»

«E perché avrebbe dovuto? Non avrebbe senso. Cristo, è semplicemente pazzesco. Mi è venuta la pelle d’oca.»

«E spaventoso,» convenne Tony.

Aveva i muscoli dello stomaco ancora contratti per la tensione e il cuore batteva furiosamente anche se un po’ meno di quando si era introdotto nell’appartamento. Rimasero entrambi in silenzio per un attimo, in attesa di udire i passi dei fantasmi.

Tony notò un piccolo ragno scuro che si arrampicava lungo il muro del corridoio.

Alla fine Frank ripose la pistola, prese un fazzoletto e si asciugò la faccia imperlata di sudore.

Tony rimise la rivoltella nella fondina e disse: «Non possiamo andarcene mettendo solo i sigilli. Voglio dire, ormai siamo in ballo. Ci sono troppi particolari che esigono una spiegazione.»

«D’accordo,» approvò Frank. «Dobbiamo chiedere aiuto, ottenere un mandato e perquisire la casa da cima a fondo.»

«Cassetto per cassetto.»

«Che cosa pensi di trovare?»

«Dio solo lo sa.»

«Ho visto un telefono in cucina,» disse Frank.

Frank proseguì attraverso il soggiorno, girò l’angolo ed entrò in cucina. Prima ancora che Tony arrivasse alla sala da pranzo, Frank gridò: «Oh, Cristo!» e cercò di fare un passo indietro.

«Che cosa c’è?»

Le parole di Tony furono interrotte da un violento scoppio. Frank lanciò un urlo e cadde di lato, aggrappandosi al bancone per cercare di rimanere in piedi.

Nell’appartamento risuonò un altro scoppio, che rimbalzò da una parete all’altra: Tony si rese conto che era un colpo di arma da fuoco.

Ma la cucina era deserta!

Tony afferrò la pistola ma ebbe l’impressione di muoversi al rallentatore mentre il mondo proseguiva la sua corsa a velocità supersonica.

Il secondo proiettile colpì Frank alla spalla facendolo girare su se stesso. Cadde pesantemente fra le pozzanghere di sherry, gli spaghetti, i cornflakes e i vetri.

Mentre Frank si accasciava, Tony ebbe modo di scorgere finalmente Bobby Valdez. Stava scivolando fuori dell’armadietto posto sotto il lavandino, un nascondiglio che non avevano nemmeno preso in considerazione perché sembrava decisamente troppo piccolo per poter celare un uomo. Bobby si dimenava e strisciava come un serpente nella tana. Le gambe erano ancora sotto il lavandino, ma lui si era spinto fuori con un braccio e reggeva una calibro 32 nell’altra mano. Era nudo. Sembrava stesse male. Gli occhi erano enormi, spiritati e infossati nelle occhiaie scure e gonfie. Il volto era incredibilmente pallido e le labbra esangui. Tony prese nota di tutti quei dettagli in una frazione di secondo, con i sensi acuiti da una scarica di adrenalina.

Frank era appena caduto e Tony stava per impugnare la pistola quando Bobby fece fuoco per la terza volta. Il proiettile si conficcò nella parete e Tony fu investito da un’esplosione di pezzi di intonaco.

Istintivamente si buttò a terra, girandosi di scatto, e la spalla sbattè con forza contro il pavimento. Gemendo per il dolore, rotolò lontano dalla zona di tiro. Si nascose dietro una sedia del soggiorno e finalmente riuscì ad afferrare la pistola.

Erano passati solo sei o sette secondi da quando Bobby aveva fatto fuoco per la prima volta.

Qualcuno stava balbettando: «Gesù, Gesù, Gesù, Gesù,» con voce tremante e acuta.

Improvvisamente, Tony si rese conto che quella voce era la sua. Si morsicò le labbra e cercò di reprimere l’attacco di isterismo.

Si rese conto di che cosa c’era che non quadrava, capì che cos’avevano tralasciato. Bobby Valdez vendeva polvere d’angelo e questo avrebbe dovuto suggerire qualcosa riguardo alle condizioni dell’appartamento. Avrebbero dovuto sapere che spesso gli spacciatori erano così stupidi da usare ciò che vendevano. La polvere d’angelo era un tranquillante per animali che produceva effetti difficilmente prevedibili nei tori e nei cavalli. Negli esseri umani poteva produrre tranquilli stati di trance, strane allucinazioni o incredibili attacchi di rabbia e violenza inaudita. Come aveva detto Eugene Tucker, la polvere d’angelo era un autentico veleno: divorava letteralmente le cellule del cervello e distruggeva la mente. Imbottito di polvere d’angelo e carico di energia perversa, Bobby aveva distrutto la cucina e ridotto in quello stato pietoso il resto della casa. Inseguito da feroci quanto immaginali coccodrilli e cercando disperatamente di sfuggire alle loro fauci, si era nascosto sotto il lavandino chiudendo lo sportello. Tony non aveva pensato di guardare in quell’armadietto perché non si era reso conto di avere a che fare con un pazzo furioso. Avevano controllato l’appartamento con attenzione, pronti alle eventuali mosse di uno stupratore mentalmente disturbato e di un violento assassino, ma non si aspettavano certo l’atteggiamento irrazionale di un pazzo sotto l’effetto della droga. Gli assurdi atti di vandalismo in cucina e in camera, le scritte apparentemente senza senso sulle pareti e la disgustosa scena del bagno erano segni tipici della particolare follia indotta dalla polvere d’angelo. Tony non aveva mai lavorato alla Narcotici, ma si rendeva conto che avrebbe dovuto riconoscere comunque quegli indizi. Se li avesse interpretati nel modo corretto, probabilmente avrebbe controllato sotto il lavandino e in qualsiasi altro posto sufficientemente grande per nascondere un uomo, per quanto scomodo. Succedeva spesso che una persona sotto l’effetto di quella droga si abbandonasse completamente alla propria paranoia e cercasse di sfuggire a un mondo ostile rifugiandosi in luoghi angusti, bui e simili al grembo materno. Ma sia lui sia Frank avevano male interpretato quegli indizi e ora erano nei guai fino al collo.

Frank era stato colpito due volte. Era gravemente ferito. Forse stava morendo. Forse era già morto.

No!

Tony cercò di allontanare quel pensiero dalla mente e di trovare il modo migliore per annientare Bobby.

In cucina Bobby iniziò a gridare con voce terrorizzata: «Hay muchos cocodrilos

Tony tradusse mentalmente: Ci sono molti coccodrilli!

«Cocodrilos! Cocodrilos! Cocodrilos! Ah! Ah! Aaaah!»

L’urlo di terrore si trasformò rapidamente in un rantolo agonizzante.

Sembra che lo stiano mangiando vivo, pensò Tony rabbrividendo.

Continuando a gridare, Bobby si precipitò fuori della cucina. Sparò un colpo sul pavimento, con l’intenzione di uccidere uno dei coccodrilli.

Tony si nascose dietro la sedia. Aveva paura ad alzarsi e prendere la mira: temeva che Bobby lo facesse fuori prima ancora che potesse premere il grilletto.

Agitandosi in modo convulso, nel tentativo di sfuggire alle fauci dei coccodrilli, Bobby fece fuoco altre due volte.

Finora ha sparato sei colpi, pensò Tony. Tre in cucina e tre qui. Quanti potrà averne in tutto? Otto? Forse dieci?

Bobby premette il grilletto altre tre volte. Una delle pallottole rimbalzò contro qualcosa.

Aveva sparato nove colpi. Gliene restava uno.

«Cocodrilos!»

Il decimo colpo esplose fragorosamente e di nuovo il proiettile rimbalzò con un sibilo acuto.

Tony uscì dal nascondiglio. Bobby era a meno di tre metri. Tony strinse la pistola con entrambe le mani e la puntò contro il torace nudo dell’uomo. «Va bene, Bobby. Stai calmo. È tutto finito.»

Bobby parve sorpreso di vederlo. Era talmente perso nelle proprie allucinazioni da non ricordare di aver intravisto Tony in cucina pochi istanti prima.

«Coccodrilli,» balbettò Bobby.

«Non ci sono coccodrilli,» lo tranquillizzò Tony.

«Sono enormi.»

«No. Non ci sono coccodrilli.»

Bobby lanciò un grido, spiccò un salto e fece una piroetta cercando di sparare a qualcosa che si muoveva sul pavimento, ma la pistola era scarica.

«Bobby,» mormorò Tony.

Piagnucolando, Bobby si voltò e lo fissò diritto negli occhi.

«Bobby, voglio che tu ti distenda a faccia in giù sul pavimento.»

«Così mi prenderanno,» farfugliò Bobby. Aveva gli occhi fuori delle orbite. Stava tremando violentemente. «Mi mangeranno.»

«Ascoltami, Bobby. Ascoltami attentamente. Non ci sono coccodrilli. È solo un’allucinazione. È tutto dentro la tua testa. Mi hai capito?»

«Sono usciti dal water,» proseguì Bobby. «E anche dallo scarico della doccia. E dal lavandino. Oh, Cristo, sono enormi. Sono davvero giganteschi. E stanno cercando di strapparmi il pisello.» La paura si stava trasformando in rabbia; la faccia divenne paonazza e le labbra si strinsero in una smorfia cattiva. «Ma non glielo permetterò. Non riusciranno a mangiarmi il pisello. Prima li ammazzerò tutti!»

Tony si rendeva conto di non poter fare molto per Bobby e la sua frustrazione era accentuata dalla consapevolezza che forse Frank stava perdendo molto sangue e aveva urgente bisogno di cure mediche. Decise di assecondare le macabre fantasie di Bobby per poterle controllare. «Ascoltami,» mormorò in tono rassicurante, «tutti i coccodrilli sono ritornati giù negli scarichi. Non li hai visti? Non hai sentito che scivolavano lungo le tubature, fuori di questa casa? Hanno capito che siamo venuti ad aiutarti e che quindi erano in minoranza. Se ne sono andati tutti.»

Bobby lo fissò con occhi vitrei che non avevano più nulla di umano.

«Se ne sono andati tutti,» ripetè Tony.

«Via?»

«Non possono più farti del male.»

«Bugiardo.»

«No. Sto dicendo la verità. Tutti i coccodrilli se ne sono andati e…»

Bobby gli scagliò addosso la pistola.

Tony si abbassò rapidamente.

«Fottuto poliziotto! Figlio di puttana!»

«Stai calmo, Bobby.»

Bobby fece un passo verso di lui.

Tony si ritrasse.

Bobby non si preoccupò di aggirare la sedia. Si limitò a farla cadere con rabbia, anche se era piuttosto pesante.

Tony sapeva che un uomo sotto l’effetto della polvere d’angelo era spesso dotato di una forza sovrumana. A volte, quattro o cinque poliziotti nerboruti facevano fatica a bloccare un unico individuo. Esistevano varie teorie mediche sulle cause che potevano determinare questo incredibile aumento di forza fisica, ma non erano certo di aiuto per il povero agente che si trovava a dover affrontare un pazzoide squilibrato con la forza di cinque o sei uomini. Tony era convinto che alla fine avrebbe dovuto usare la pistola per fermare Bobby, anche se per natura era contrario a tali metodi.

«Ti ammazzerò,» grugnì Bobby. Aveva le mani strette ad artiglio. La faccia era paonazza e dagli angoli della bocca fuoriusciva della bava.

Tony mise il grande tavolo ottagonale fra loro. «Fermati immediatamente, maledizione!»

Non voleva essere costretto a uccidere Bobby Valdez. Durante tutti gli anni trascorsi con la polizia, aveva sparato solo a tre uomini e si era sempre trattato di legittima difesa. Nessuno dei tre era comunque morto.

Bobby fece per aggirare il tavolo.

Tony si allontanò.

«Ora sono io il coccodrillo,» sbraitò Bobby.

«Non voglio farti del male.»

Bobby si fermò, afferrò il tavolo e lo scagliò lontano; Tony andò a sbattere contro la parete e Bobby corse verso di lui, strillando parole incomprensibili. Tony premette il grilletto e il proiettile colpì Bobby alla spalla sinistra, facendolo ruotare e cadere sulle ginocchia. Incredibilmente, Bobby si rialzò con il braccio sinistro penzolante che sanguinava e si mise a ululare per la collera più che per il dolore. Si precipitò accanto al camino, prese una pinza di ottone e la scaraventò contro Tony che dovette abbassarsi per schivarla. Bobby gli si avventò contro con un attizzatoio di ferro e lo abbassò con forza sulla coscia di Tony che si lasciò sfuggire un gemito. Fortunatamente il colpo non ruppe alcun osso, ma fu sufficiente a far crollare a terra Tony proprio mentre Bobby stava per sferrargli la mazzata decisiva sulla testa. A quel punto Tony fece fuoco a distanza ravvicinata e Bobby fu catapultato di lato e, con un ultimo grido acuto, fracassò una sedia e rovinò a terra, con il sangue che zampillava come una macabra fontana. Si agitò, si contorse, gorgogliò aggrappandosi al tappeto, si morsicò il braccio ferito, ebbe un sussulto e alla fine rimase perfettamente immobile.

Ansimando e imprecando, Tony ripose la pistola e si trascinò fino al telefono che aveva notato su un tavolino. Compose lo zero e spiegò all’operatore chi era, dove si trovava e che cosa voleva. «Innanzitutto un’ambulanza e poi la polizia,» ordinò.

«Sissignore,» rispose l’operatore.

Riappese e avanzò zoppicando verso la cucina.

Frank Howard era ancora disteso sul pavimento, in mezzo all’immondizia. Era riuscito solo a girarsi sulla schiena.

Tony si inginocchiò accanto a lui.

Frank aprì gli occhi. «Sei ferito?» domandò in un soffio.

«No.»

«L’hai preso?»

«Sì.»

«È morto?»

«Sì.»

«Bene.»

Frank aveva un aspetto terribile. Il viso era pallido come un cencio e madido di sudore. La parte bianca degli occhi aveva assunto un colorito giallastro che Tony non aveva mai visto prima di allora e l’occhio destro era iniettato di sangue. Le labbra erano leggermente violacee. La spalla destra e la manica della camicia erano inzuppate di sangue. La mano sinistra era stretta sulla ferita allo stomaco che aveva perso molto sangue e la camicia e i pantaloni erano bagnati e appiccicosi.

«Come va?» chiese Tony.

«All’inizio, faceva un male cane. Non ho potuto fare a meno di gridare. Poi ha iniziato a migliorare. Adesso sento solo un gran caldo.»

Tony si era talmente concentrato su Bobby Valdez che non aveva nemmeno udito le urla di Frank.

«Credi che un laccio emostatico potrebbe servire a qualcosa?»

«No. La ferita è troppo in alto, nella spalla. Non c’è spazio per mettere il laccio.»

«Stanno arrivando i soccorsi,» lo tranquillizzò Tony. «Li ho chiamati.»

Si udivano le sirene in lontananza. Non potevano già essere l’ambulanza e la macchina della polizia che aveva richiesto. Probabilmente li aveva già chiamati qualcun altro.

«Ci saranno un paio di agenti,» disse Tony. «Di sicuro avranno in macchina una cassetta per il pronto soccorso.»

«Non lasciarmi.»

«Ma se hanno la cassetta del pronto soccorso…»

«Non credo sia sufficiente. Non lasciarmi,» lo implorò Frank.

«D’accordo.»

«Ti prego.»

«Va bene, Frank.»

Stavano tremando entrambi.

«Non voglio rimanere solo,» mormorò Frank.

«Rimarrò qui.»

«Ho cercato di sedermi,» proseguì Frank.

«Cerca di stare calmo.»

«Non ci sono riuscito.»

«Presto starai bene di nuovo.»

«Forse sono paralizzato.»

«Hai subito un bello choc, tutto qua. E hai perso molto sangue. E ovvio che ti senta debole.»

Le sirene si spensero davanti al complesso residenziale.

«L’ambulanza non può essere lontana,» lo rincuorò Tony.

Frank chiuse gli occhi, sussultò e gemette.

«Ti rimetterai presto, amico.»

Frank aprì gli occhi. «Tony, devi venire in ospedale con me.»

«Va bene.»

«E starai nell’ambulanza con me.»

«Non so se mi lasceranno.»

«Devi farlo.»

«D’accordo. Certo.»

«Non voglio rimanere solo.»

«Okay,» mormorò Tony. «Li costringerò a farmi salire su quella dannata ambulanza anche a costo di minacciarli con la pistola.»

Frank cercò di abbozzare un sorriso, ma sul viso si dipinse una maschera di dolore. «Tony?»

«Che cosa c’è, Frank?»

«Ti dispiace… stringermi la mano?»

Tony afferrò la mano destra del compagno. Il proiettile gli era penetrato nella spalla e Tony pensava che Frank non sarebbe riuscito a muovere l’estremità, ma le dita gelide si strinsero attorno alla sua mano con una forza incredibile.

«Sai una cosa?» chiese Frank.

«Che cosa?»

«Dovresti fare come dice lui.»

«Lui chi?»

«Eugene Tucker. Dovresti buttarti. Provare. Fare davvero quello che vuoi con la tua vita.»

«Non preoccuparti per me. Devi risparmiare le forze per ristabilirti presto.»

Frank sembrava agitato. Scosse la testa. «No, no, no. Devi ascoltarmi. È importante… quello che sto per dirti… è maledettamente importante.»

«Va bene,» sussurrò Tony. «Rilassati. Non sforzarti troppo.»

Frank tossì e sulle labbra bluastre apparvero poche gocce di sangue.

Il cuore di Tony batteva all’impazzata. Dov’era quella maledetta ambulanza? Perché quei bastardi ci stavano mettendo così tanto?

La voce di Frank si era fatta fioca e l’uomo dovette fermarsi ripetutamente per prendere fiato. «Se vuoi essere un pittore… devi buttarti. Sei ancora giovane… puoi farcela.»

«Frank, per favore, per l’amor del cielo, risparmia le forze.»

«Ascoltami! Non perdere più… tempo. La vita è maledettamente corta… per sprecarne anche solo un attimo.»

«Smettila di parlare così. Ho un sacco di anni davanti a me, e anche tu.»

«Passano così in fretta… così fottutamente in fretta. Volano in un soffio.»

Frank respirava affannosamente. Strinse con maggior forza la mano di Tony.

«Frank? Che cos’hai?»

Frank non disse nulla. Fu scosso da un brivido. Poi iniziò a piangere.

«Lascia che vada a prendere la cassetta del pronto soccorso.»

«Non lasciarmi. Ho paura.»

«Ci vorrà solo un minuto.»

«Non lasciarmi.» Aveva le guance rigate di lacrime.

«D’accordo. Rimarrò qui. Arriveranno fra pochi minuti.»

«Oh, Cristo,» balbettò Frank.

«Ma se il dolore sta peggiorando…»

«Non mi fa… molto male.»

«E allora che cosa c’è? Che cosa c’è che non va?»

«Sono solo imbarazzato. Non voglio che lo sappia… nessuno.»

«Sapere che cosa?»

«Io… ho perso il controllo. Insomma… io… mi sono fatto la pipì addosso.»

Tony non sapeva che cosa dire.

«Non voglio che ridano di me.»

«Nessuno riderà di te.»

«Ma, Cristo, me la sono fatta addosso… come un bambino.»

«Con tutto questo casino sul pavimento, chi vuoi che se ne accorga?»

Frank si mise a ridere, gemendo contemporaneamente per il dolore, e strinse la mano di Tony ancora più forte.

Un’altra sirena. A pochi isolati di distanza. Si stava avvicinando rapidamente.

«L’ambulanza sarà qui fra un minuto.»

Con il passare del tempo, la voce di Frank si faceva sempre più debole. «Ho paura, Tony.»

«Ti prego, Frank, ti prego, non aver paura. Sono qui io. Tutto andrà bene.»

«Voglio… che qualcuno si ricordi di me,» mormorò Frank.

«Che cosa vuoi dire?»

«Quando me ne sarò andato… voglio che qualcuno si ricordi di me.»

«Rimarrai fra noi ancora per un sacco di tempo.»

«Chi si ricorderà di me?»

«Io. Io mi ricorderò di te.»

La sirena era a un solo isolato di distanza.

«Sai una cosa? Credo… forse ce la farò. Il dolore è scomparso improvvisamente.»

«Davvero?»

«E un bene, no?»

«Certo.»

La sirena si spense mentre l’ambulanza si fermava con uno stridio di freni praticamente sotto le finestre dell’appartamento.

La voce di Frank era così sottile che Tony dovette avvicinarsi per poterlo udire. «Tony… stringimi.» Lasciò andare la mano di Tony. Le dita gelide mollarono la presa. «Stringimi, per favore. Cristo. Stringimi, Tony. Ti prego.»

Per un attimo, Tony temette di peggiorare le condizioni del compagno, ma si rese immediatamente conto che non aveva più alcuna importanza. Si sedette sul pavimento in mezzo alla sporcizia e al sangue. Infilò un braccio sotto le spalle di Frank e lo aiutò a mettersi seduto. Frank tossì debolmente e la mano sinistra gli scivolò dalla pancia: dall’orrenda ferita dell’addome fuoriuscivano le budella. Frank aveva iniziato a morire quando Bobby aveva premuto il grilletto: non aveva mai avuto la benché minima speranza di sopravvivere.

«Stringimi.»

Tony abbracciò Frank come meglio poté e lo strinse, lo strinse a sé come un padre avrebbe fatto con un bambino spaventato. Lo strinse e lo cullò dolcemente, mormorandogli parole di conforto. Continuò a parlargli anche quando si rese conto che ormai era morto. Continuò a cullarlo dolcemente e serenamente, sussurrandogli tenere parole rassicuranti.


Lunedì pomeriggio alle quattro, l’operaio della società dei telefoni si presentò a casa di Hilary che gli mostrò dov’erano collocati i cinque apparecchi. L’uomo stava per iniziare a lavorare quando il telefono della cucina squillò.

Hilary temette che fosse il solito interlocutore anonimo. Non voleva rispondere, ma l’operaio continuò a fissarla e al quinto squillo fu costretta ad afferrare il ricevitore. «Pronto?»

«Hilary Thomas?»

«Sì.»

«Sono Michael Savatino. Ricorda il Ristorante Savatino?»

«Oh, ma certo. Non dimenticherò mai lei e il suo meraviglioso ristorante. Abbiamo mangiato benissimo.»

«Grazie. Facciamo del nostro meglio. Senta, Miss Thomas…»

«La prego, mi chiami Hilary.»

«Hilary, allora. Ha già sentito Tony oggi?»

Improvvisamente si rese conto che la sua voce era carica di tensione. Capì, anche se a livello inconscio, che era successo qualcosa di terribile a Tony. Rimase per un attimo senza fiato e con la vista annebbiata.

«Hilary? È sempre lì?»

«È da ieri sera che non lo sento. Perché?»

«Non vorrei allarmarla. C’è stato un piccolo incidente…»

«Oh, mio Dio.»

«… comunque Tony non è ferito.»

«Ne è sicuro?»

«Solo qualche graffio.»

«È in ospedale?»

«No, no. Davvero, sta bene.»

La stretta allo stomaco si allentò leggermente.

«Che tipo di incidente?» domandò.

In poche parole, Michael le riferì della sparatoria.

Tony sarebbe potuto morire. Hilary si sentì estremamente debole.

«Tony l’ha presa male,» proseguì Michael. «Decisamente male. Quando lui e Frank hanno iniziato a lavorare insieme, non andavano molto d’accordo. Ma poi le cose erano cambiate. Negli ultimi giorni, avevano imparato a conoscersi. E avevano finito col diventare molto amici.»

«Dov’è Tony adesso?»

«A casa sua. La sparatoria è avvenuta questa mattina alle undici è mezzo. E tornato a casa verso le due e io sono stato con lui fino a pochi minuti fa. Avrei voluto fermarmi, ma ha insistito perché tornassi al ristorante. Gli ho chiesto di venire con me, ma non ha voluto. Non lo ammetterà mai, ma ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino.»

«Andrò da lui,» esclamò Hilary.

«Speravo proprio che lo facesse.»

Hilary si diede una rinfrescata e si cambiò d’abito. Era pronta per uscire quindici minuti prima che l’operaio finisse con i telefoni e quel quarto d’ora le parve interminabile.

Mentre si dirigeva a casa di Tony, ripensò a come si era sentita quando aveva creduto che Tony fosse seriamente ferito, forse addirittura morto. Aveva sentito una stretta allo stomaco e un insopportabile senso di vuoto si era impadronito di lei.

La sera precedente, prima di riuscire a prendere sonno, si era chiesta se per caso non fosse innamorata di Tony. Era possibile che amasse qualcuno dopo le torture fisiche e psicologiche che aveva dovuto patire da bambina, dopo quello che aveva appreso sulla terribile natura umana? E poteva amare un uomo che conosceva solo da pochi giorni? La situazione non era ancora ben chiara ma era certa che in tutta la sua vita non aveva mai provato una simile paura all’idea di perdere qualcuno.

Giunta davanti all’appartamento di Tony, posteggiò accanto alla jeep blu.

Abitava in un edificio a due piani. Sul balcone, accanto a uno degli appartamenti, erano appese delle campanelle che risuonavano malinconicamente nella brezza autunnale.

Quando lui aprì la porta, non parve sorpreso di vederla. «Immagino ti abbia chiamato Michael.»

«Sì. Perché non l’hai fatto tu?» chiese.

«Probabilmente ti avrà riferito che sono uno straccio. Come puoi vedere, ha esagerato.»

«È solo preoccupato per te.»

«Posso farcela,» disse, abbozzando un sorriso. «Sto bene.»

Nonostante cercasse di non esternare il dolore che provava per la morte di Frank, Hilary notò lo sguardo perso e gli occhi privi di espressione.

Avrebbe voluto abbracciarlo e consolarlo, ma non era molto brava a trattare la gente soprattutto in un momento simile. Si rese conto inoltre che lui non era ancora pronto ad accettare l’appoggio che avrebbe potuto offrirgli.

«Sto bene.»

«Comunque ti spiace se entro?»

«Oh, certo. Scusami.»

Viveva in un minuscolo appartamento, tipico da scapolo, anche se il soggiorno era incredibilmente grande e aerato. Aveva il soffitto alto e una fila di finestre sul versante nord.

«Un’ottima luce per un pittore,» commentò Hilary.

«È per questo che ho deciso di affittare questo buco.»

Assomigliava più a uno studio che a un soggiorno. Alle pareti erano appese una decina di quadri. Appoggiate contro il muro, erano state impilate molte altre tele, sessanta, forse settanta in tutto. Un paio di cavalietti reggevano le opere ancora incompiute. C’erano anche un grande tavolo da disegno, uno sgabello e un armadietto con gli attrezzi del mestiere. La libreria era stracolma di libri d’arte. Le uniche concessioni all’arredamento tipico di un soggiorno erano due divani, due tavolini e due lampade, raggnippati in un angolo. Nonostante fosse molto particolare, il locale si presentava caldo e accogliente.

«Avevo deciso di ubriacarmi,» disse Tony chiudendo la porta. «Ubriacarmi sul serio. Mi stavo giusto versando il primo drink quando hai suonato. Vuoi qualcosa?»

«Che cosa stavi bevendo?» chiese lei.

«Bourbon.»

«Va bene anche per me.»

Tony andò in cucina a preparare i drink e Hilary ne approfittò per dare un’occhiata da vicino ai suoi quadri. Alcuni erano iperrealistici: i particolari erano così dettagliati, così accurati e rappresentati in modo così preciso che i quadri sembravano andare oltre la semplice fotografia. Alcune tele erano di ispirazione surrealistica, ma lo stile era fresco e originale, ben lontano da quello di Dalì, Ernst, Mirò o Tanguy. Ricordavano più l’opera di René Magritte, ma neppure lui aveva utilizzato dettagli così precisi nelle sue opere ed era quella visione incredibilmente realistica di Tony che rendeva gli elementi surrealisti così unici.

Tony ritornò dalla cucina con due bicchieri di bourbon e Hilary esclamò: «Le tue opere sono così fresche ed eccitanti.»

«Davvero?»

«Michael ha ragione. I tuoi quadri sarebbero facilissimi da vendere.»

«È carino pensare una cosa del genere. È un bel sogno.»

«Se solo provassi a…»

«Come ti ho già detto, sei molto gentile, ma non sei un’esperta.»

Non era Tony che stava parlando. Aveva la voce dura e tagliente. Era stanco, teso e depresso.

Hilary cercò di punzecchiarlo, nel tentativo di rianimarlo un po’. «Pensi di essere in gamba,» esordì, «ma in realtà sei sordo. Quando si tratta del tuo lavoro, non vuoi sentire. Non vuoi vedere le effettive possibilità.»

«Sono solo un dilettante.»

«Stronzate.»

«Un dilettante piuttosto bravo

«A volte fai davvero venire il nervoso,» sbottò lei.

«Non voglio parlare di arte.»

Tony accese lo stereo: una sinfonia di Beethoven interpretata da Ormandy. Poi andò verso uno dei divani nell’angolo della stanza.

Lei lo seguì e gli si sedette accanto. «Di che cosa vuoi parlare?»

«Di cinema,» rispose.

«Davvero?»

«Magari di libri.»

«Sul serio?»

«O di teatro.»

«In realtà tu vuoi parlare di quello che è successo oggi.»

«No. Quella è l’ultima cosa.»

«Ma devi parlarne, anche se non ne hai voglia.»

«Voglio solo dimenticare tutto, cancellarlo dalla mia mente.»

«Allora vuoi giocare a fare lo struzzo,» proseguì lei. «Credi di poter nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere niente.»

«Esatto.»

«La settimana scorsa, quando volevo fuggire dal mondo, quando volevi convincermi a uscire con te, dicevi che non era giusto che una persona si chiudesse in se stessa dopo un’esperienza spiacevole. Sostenevi che era meglio condividere le proprie emozioni con qualcun altro.»

«Avevo torto.»

«Invece avevi ragione.»

Tony chiuse gli occhi senza dire una parola.

«Vuoi che me ne vada?» domandò.

«No.»

«Se vuoi me ne vado. E non mi offendo.»

«Ti prego, rimani.»

«Va bene. Di che cosa vuoi parlare.»

«Di Beethoven e del bourbon.»

«Come vuoi.»

Rimasero seduti sul divano, a fianco a fianco, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata indietro. Ascoltarono la musica e sorseggiarono il bourbon, mentre il sole si trasformava in una palla infuocata oltre le grandi finestre. Lentamente, la stanza si riempì di ombre.


Lunedì sera, Avril Tannerton scoprì che qualcuno si era introdotto a Forever View. Se ne accorse quando scese in cantina, dove aveva allestito un piccolo laboratorio di falegnameria; notò che uno dei vetri della finestra era stato accuratamente coperto con del nastro adesivo e poi rotto per poter forzare la serratura. Era una finestra decisamente piccola ma un uomo robusto avrebbe potuto infilarcisi se solo avesse voluto.

Avril era sicuro che non ci fosse nessuno in casa in quel momento. Inoltre sapeva che la finestra non era stata rotta venerdì notte perché se ne sarebbe accorto dal momento che aveva trascorso un’ora nel laboratorio cercando di portare a termine la sua ultima creazione: un armadietto per i suoi fucili e le pistole. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di rompere la finestra in pieno giorno o quando Tannerton era a casa, quindi era da escludere anche la notte di domenica. L’uomo concluse che l’intruso doveva essersi intrufolato in casa sabato notte, mentre si trovava da Helen Virtillion a Santa Rosa. A Forever View non c’era nessuno sabato, a eccezione del corpo di Bruno Frye. Evidentemente il ladro sapeva che la casa era deserta e ne aveva approfittato.

Un ladro.

Ma che senso aveva?

Un ladro?

Non pensava che avessero rubato nulla dalle stanze aperte al pubblico del primo piano o dal suo appartamento. Era sicuro che avrebbe notato le tracce di un furto immediatamente dopo il suo ritorno, domenica mattina. Invece, le pistole erano ancora al loro posto, come pure la collezione di monete antiche: in pratica, i principali obiettivi di un eventuale ladro non erano stati toccati.

Nel laboratorio di falegnameria, a destra della finestra rotta, c’erano attrezzi che potevano valere circa duemila dollari. Alcuni erano appesi ordinatamente alla parete, mentre altri erano appoggiati in una rastrelliera. Ma non mancava nulla.

Non era stato rubato niente.

Nessun atto di vandalismo.

Perché mai un ladro avrebbe dovuto introdursi in casa sua solo per dare un’occhiata in giro?

Avril osservò i frammenti di vetro e il nastro adesivo sul pavimento, poi la finestra rotta; controllò la cantina cercando di valutare la situazione e improvvisamente si rese conto che era stato rubato qualcosa. Erano scomparsi tre sacchi di calcina da venticinque chili ciascuno. In primavera, lui e Gary Olmstead avevano abbattuto il vecchio portico in legno posto davanti all’impresa di pompe funebri, per poi ricostruirlo in mattoni in modo estremamente professionale. Avevano anche provveduto a rifare il marciapiede ormai consunto e pieno di crepe, utilizzando mattoni dello stesso tipo. Al termine dei lavori, si erano ritrovati con tre sacchi di calcina avanzata, ma avevano pensato di conservarla per il patio che Avril aveva intenzione di costruire in estate. E ora quei tre sacchi di calcina erano scomparsi.

Invece che far luce sulla vicenda, quella scoperta non fece che renderla ancora più inspiegabile. Sconcertato e perplesso, Avril continuò a fissare il punto esatto in cui erano stati sistemati i sacchi.

Perché mai un ladro avrebbe dovuto tralasciare i costosi fucili, le monete preziose e gli altri oggetti di valore per impossessarsi di tre sacchi di calcina?

Tannerton si grattò la testa. «Molto strano,» bofonchiò.


Dopo essere rimasto seduto accanto a Hilary per una ventina di minuti nell’oscurità crescente, dopo aver ascoltato Beethoven, dopo aver sorbito qualche bicchierino di bourbon, Tony si ritrovò a parlare di Frank Howard. Non aveva alcuna intenzione di aprirsi l’animo davanti a lei, ma poi aveva cominciato a parlare; senza alcun preavviso gli era uscita una mezza frase e le parole avevano iniziato a fluire liberamente dalla bocca. Parlò ininterrottamente per mezz’ora, fermandosi solo per qualche sorso di bourbon; raccontò della prima impressione che aveva avuto di Frank, l’attrito iniziale che si era venuto a creare tra di loro, gli episodi comici e complessi del lavoro, la serata nebulosa passata a The Bolt Hole, l’appuntamento al buio con Janet Yamada e il rapporto affettuoso e comprensivo che era nato negli ultimi tempi. Quando infine arrivò all’appartamento di Bobby Valdez, prese a parlare sommessamente, con voce esitante. Chiudendo gli occhi, vedeva ancora la cucina disseminata di immondizia e sangue con la stessa chiarezza con cui notava i dettagli del suo salotto a occhi aperti. Cercando di spiegare a Hilary come ci si sente a tenere fra le braccia un amico in punto di morte, iniziò anche a tremare. Provò un’ondata di freddo intenso: si sentiva la carne e le ossa di pietra e il cuore di ghiaccio. I denti presero a battere. Comodamente sdraiato sul divano, immerso nelle ombre color porpora, versò le prime lacrime che, sulla pelle gelata, sembrarono ustionanti. Erano lacrime alla memoria di Frank Howard.

Hilary gli prese la mano. Poi lo strinse come lui aveva stretto Frank. Prese un tovagliolino per asciugargli il viso. Lo baciò sulle guance e sugli occhi.

All’inizio si limitò a offrire un po’ di consolazione ed era esattamente quello che anche lui stava cercando; poi, senza grandi sforzi da parte di nessuno dei due, quel gesto assunse gradualmente un altro significato. Tony l’abbracciò e, a quel punto, non fu più evidente chi stava abbracciando chi. Con le mani lui iniziò ad accarezzarle la schiena su e giù, e rimase sorpreso dalle splendide forme che stava toccando: la fermezza, la forza e la flessibilità di quel corpo sotto la camicetta lo eccitarono. Anche le mani di Hilary presero a vagabondare su di lui per accarezzare, stringere e assaporare i suoi muscoli possenti. Lo baciò all’angolo della bocca e Tony, preso dalla bramosia, ricambiò con passione. Le lingue si scontrarono e i baci si incendiarono, facendosi sempre più arditi: quando si staccarono il respiro era diventato affannoso.

Si resero subito conto di quello che stava succedendo e, al ricordo dell’amico che avevano iniziato a compiangere, l’imbarazzo ebbe il sopravvento. Se in quel momento avessero prestato ascolto alle proprie, disperate esigenze, sarebbe stato come ridere a un funerale. Per un istante, pensarono di essere stati sul punto di commettere un atto imponderato e profondamente blasfemo.

Ma il desiderio era tanto travolgente che riuscirono a superare tutti i dubbi sull’opportunità di fare l’amore proprio quella sera, fra tutte le sere. Ripresero a baciarsi timidamente poi, colti dalla sete, si lasciarono trasportare dal mare delle sensazioni. Le mani di Hilary si muovevano esigenti su di lui che ricambiava ogni attenzione. Tony capì che sarebbe stato giusto per tutt’e due assicurarsi un tocco di piacere. Fare l’amore in quel momento non sarebbe stato irrispettoso nei confronti dell’amico morto; sarebbe semplicemente stata una reazione nei confronti dell’ingiustizia della morte in sé e per sé. La loro sete insaziabile era il risultato di una serie di motivazioni fra le quali il disperato bisogno di dimostrare a se stessi di essere ancora vivi, pienamente, inequivocabilmente e felicemente vivi.

Per tacito accordo, si alzarono dal divano e si diressero in camera da letto.

Uscendo, Tony accese una lampada del salotto la cui luce illuminò il letto, filtrando attraverso la porta. Una luce soffusa. Calda e dorata. Sembrava che la luce amasse Hilary, perché su di lei aveva un riflesso del tutto particolare: le accarezzava il corpo, accentuava con amore la sfumatura bronzea della pelle, aggiungeva lucentezza ai capelli neri e le risplendeva negli occhi.

Si fermarono di fianco al letto, si abbracciarono, si baciarono e poi iniziarono a spogliarsi. Tony le sbottonò la camicetta, poi gliela sfilò. Le sganciò il reggiseno che cadde per terra mollemente. Aveva un seno meraviglioso: tondo, pieno e alto. I capezzoli erano grandi e ben eretti; Tony si chinò in avanti e glieli baciò. Lei gli afferrò la testa e lo costrinse ad alzarsi a baciarla sulla bocca. Sospirava. Le mani di Tony presero a tremare per l’eccitazione mentre le slacciava la cintura e le apriva i jeans. I pantaloni scivolarono a terra, accarezzandole le gambe.

Tony cadde in ginocchio davanti a lei con l’intenzione di sfilarle gli slip e fu allora che si accorse della lunga cicatrice sul fianco sinistro. Partiva dal ventre piatto per arrivare fin sulla schiena. Quello non era il risultato di un intervento: neppure un chirurgo alle prime armi l’avrebbe ridotta così. Tony aveva già visto ferite da armi da fuoco o da taglio e, nonostante la luce soffusa, si accorse subito che quella cicatrice era l’effetto di un proiettile o di una lama. Era stata ferita gravemente. L’idea del dolore che aveva dovuto sopportare fece nascere in lui un senso di protezione nei suoi confronti. Aveva già in mente un centinaio di domande su quella cicatrice, ma non era sicuramente il momento adatto per rivolgergliele. Le baciò la striscia di pelle raggrinzita con delicatezza e sentì Hilary irrigidirsi sotto il suo tocco. Evidentemente quel segno la metteva in imbarazzo. Avrebbe voluto rassicurarla che quel dettaglio non toglieva niente alla sua bellezza e al suo fascino e che, al contrario, quel piccolo difetto non faceva che mettere in risalto l’incredibile perfezione del resto del corpo.

Ma per tranquillizzarla doveva passare ai fatti, tralasciando le parole. Le sfilò gli slip. Poi, lentamente, le fece scorrere le mani lungo le gambe, lungo le cosce. Le baciò il cespuglio di peli neri lucenti che si arruffarono contro la sua faccia. Rialzandosi, le afferrò le natiche e ne massaggiò la pelle tesa e liscia, mentre lei premeva contro di lui, sfiorandogli nuovamente le labbra. Il bacio durò qualche secondo e alla fine Hilary sussurrò: «Prendimi.»

Mentre lei si apprestava a infilarsi nel letto, Tony si spogliò a sua volta. Poi si distese al suo fianco e la prese fra le braccia.

Si esplorarono a vicenda, sempre più affascinati dalla pelle, dalle forme, dalle curve, dall’elasticità di entrambi, mentre l’erezione di Tony pulsava di desiderio.

Poi, ancora prima di penetrarla, Tony provò una strana sensazione, quasi si stesse fondendo con lei, come se stessero per diventare tutt’uno, non tanto fisicamente e sessualmente, quanto spiritualmente. Era come se fossero sul punto di mescolarsi miracolosamente in un’incredibile osmosi psichica. Sopraffatto dal calore di Hilary, eccitato dalle promesse di quello splendido corpo, ma più di ogni altra cosa colpito dai sussurri e dai movimenti che la rendevano unica nel suo genere, a Tony parve di avere assaggiato una nuova droga dal gusto esotico. Le percezioni superavano di gran lunga la portata dei sensi e Tony cominciò a vedere attraverso gli occhi di Hilary, a toccare con le mani di Hilary, a baciare con la bocca di Hilary. Due menti accoppiate, due cuori sincronizzati.

I baci infuocati alimentarono la sua voglia di assaggiare tutto di lei, ogni singola porzione del suo corpo. E così fece, finché giunse all’incrocio delle cosce. A quel punto lei spalancò le gambe e Tony cominciò a leccarle la fonte della sua umidità, a schiuderle le pieghe segrete della carne finché la lingua trovò la dolce protuberanza. La sfiorò facendola sussultare di piacere.

Hilary iniziò a gemere e a dimenarsi in preda all’impeto della passione.

«Tony!»

La fece godere con la lingua, i denti e le labbra.

Lei inarcò la schiena e si aggrappò alle lenzuola, cullandosi nell’estasi.

Lui le fece scivolare le mani sulle natiche e l’attirò verso di sé.

«Oh, Tony! Sì, sì!»

Hilary respirava affannosamente, freneticamente. Cercò di staccarsi dalla sua presa, percependo la crescente intensità del piacere, ma subito dopo si arrese, pronta a chiedere di più. Infine iniziò a tremare e i sussulti gradualmente si trasformarono in armonici brividi di puro piacere. Annaspò alla ricerca del respiro, rovesciò la testa all’indietro e urlò. Poi si fece trasportare dalle sensazioni e godette senza sosta, mentre i muscoli flessuosi si contraevano, si rilassavano, si contraevano, si rilassavano fino all’esaurimento. Alla fine si lasciò andare, sospirando.

Tony sollevò il capo, le baciò il ventre e tornò a solleticarle i capezzoli con la lingua.

Lei allungò una mano verso il basso e lo afferrò per la protuberanza d’acciaio. Tutt’a un tratto, pregustando l’unione finale e completa, si sentì pervadere da una nuova tensione erotica.

Lui l’aprì con le dita e a quel punto lei mollò la presa per permettergli di penetrarla senza ostacoli.

«Sì, sì, sì,» sussurrò, mentre lui la riempiva. «Tesoro. Oh, tesoro, tesoro.»

«Sei stupenda.»

Non era mai stato tanto bello. Si appoggiò sulle mani e osservò la sua bellezza dall’alto. Si fissarono negli occhi e Tony ebbe la sensazione di riuscire a guardare dentro di lei, di cogliere l’essenza di Hilary Thomas, di arrivare alla sua anima. Quando entrambi chiusero gli occhi, il senso di unione profonda non si ruppe.

Tony aveva fatto l’amore con altre donne, ma non si era mai sentito così vicino come con Hilary. Per questo motivo, volle farlo durare il più possibile, per giungere insieme all’orgasmo, per spiccare il volo insieme. Ma questa volta non riuscì a conservare l’autocontrollo che in genere dimostrava di avere a letto. Si stava rapidamente avvicinando all’orlo del precipizio e non riusciva a fare niente per fermarsi. Non perché lei fosse più stretta, più scivolosa o più passionale di altre donne, e non era neanche merito dei muscoli vaginali eccezionalmente ben esercitati. I seni, per quanto perfetti, non c’entravano, così come non c’entrava la pelle, sicuramente vellutata, ma non più di quella di molte altre. Più di ogni altra cosa importava il fatto che per lui Hilary era speciale, eccezionalmente speciale, e tale da renderla insopportabilmente eccitante ai suoi occhi.

Percependo il sopraggiungere del suo orgasmo, Hilary lo attirò verso di sé, senza rendersi minimamente conto del peso che la sovrastava. Il seno si appiattì contro il suo torace e lei sollevò i fianchi: l’unione fu totale, mentre lui colpiva con più forza e frequenza.

Quasi per miracolo, anche lei riprese a godere, mentre lui schizzava senza più controllo. Lo strinse forte a sé, sussurrando di continuo il suo nome, mentre lui eruttava dentro di lei intensamente, violentemente, eternamente, spingendosi nei meandri più reconditi. Mentre si svuotava, percepì un’ondata di tenerezza, di affetto e di doloroso bisogno e, in quel momento, capì che non sarebbe mai più stato capace di staccarsi da lei.

Rimasero sdraiati a letto, l’uno accanto all’altra, con le mani intrecciate e il cuore che tornava a pulsare con regolarità.

Hilary era fisicamente ed emotivamente stravolta da quell’esperienza. Quegli orgasmi, intensi e ripetuti, l’avevano lasciata senza parole. Non aveva mai provato nulla di simile. Ogni orgasmo l’aveva trafìtta come un lampo, facendola sobbalzare come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Ma Tony le aveva regalato qualcosa che andava oltre il semplice piacere sessuale: era una sensazione nuova, meravigliosa e possente che le parole non erano in grado di spiegare.

Sicuramente per molte persone la parola «amore» avrebbe potuto descrivere perfettamente quello che provava in quel momento, ma lei non era ancora pronta per accettare una simile definizione. Per molto, molto tempo, fin da quando era bambina, il termine «amore» era sempre stato strettamente collegato a «dolore».

Non voleva ammettere di essere innamorata di Tony, non osava crederci, perché in tal caso si sarebbe ritrovata senza difese e pericolosamente vulnerabile.

D’altro canto, era diffìcile immaginare Tony che le faceva del male. Non era come Earl, suo padre. Era diverso da tutti gli uomini che aveva conosciuto. Possedeva una dolcezza e una tenerezza tali per cui Hilary sentiva che sarebbe stata perfettamente al sicuro fra le sue braccia. Forse con lui era il caso di rischiare. Forse con lui ne sarebbe valsa la pena.

Poi pensò a quello che avrebbe provato se, dopo aver riposto tutta la sua fiducia in lui, le cose fra loro fossero andate storte. Sarebbe stato un duro colpo. Non era sicura di poter sopportare un dolore simile.

Era un vero problema.

Di non facile soluzione.

Ma non era il caso di pensarci in quel momento. Voleva rimanere distesa accanto a lui, nell’atmosfera magica che avevano creato insieme.

Ripercorse con il pensiero quegli attimi di passione, le sensazioni erotiche che l’avevano svuotata e che sembravano indugiare ancora sul suo corpo caldo.

Tony si girò su un fianco e la guardò. Le baciò la gola e le guance. «Un penny per i tuoi pensieri.»

«Valgono molto di più.»

«Allora un dollaro.»

«Ancora di più.»

«Cento dollari?»

«Forse anche centomila.»

«Che pensieri costosi.»

«In realtà non sono pensieri. Sono ricordi.»

«Ricordi da centomila dollari?»

«Mmmm.»

«Di che cosa?»

«Di quello che abbiamo fatto qualche minuto fa.»

«Sai una cosa? Mi hai sorpreso. Sembri così casta e pura, quasi angelica, invece nascondi un ardore e una passione incredibili.»

«So essere passionale,» ammise.

«Molto passionale.»

«Ti piace il mio corpo?»

«È splendido.»

Scambiarono qualche battuta scherzosa, sussurrandosi dolci paroline senza senso. Erano talmente felici che bastava un niente per farli ridere.

Poi Tony assunse un tono più serio: «Naturalmente avrai capito che non ho intenzione di lasciarti scappare.»

Hilary capì che era pronto a impegnarsi seriamente se lei avesse fatto altrettanto. Ma era quello il problema. Lei non era pronta. E non sapeva se lo sarebbe mai stata. Lo desiderava, oh, Dio, quanto lo desiderava! Non c’era nulla di più eccitante o allettante di loro due che vivevano insieme, arricchendosi a vicenda con talenti e interessi diversi. Ma Hilary temeva il dolore e lo sgomento che avrebbe provato se lui avesse smesso di amarla. Ormai quei terribili anni passati nell’appartamento di Chicago con Earl ed Emma appartenevano al passato, ma non era facile scordare ciò che le avevano insegnato. Aveva paura di impegnarsi.

Cercando di sorvolare sull’implicita domanda racchiusa in quella frase, Hilary chiese in tono scherzoso: «Non mi lascerai mai più

«Mai.»

«Non credi sia difficile fare il poliziotto con una donna fra le braccia?»

Lui la guardò dritto negli occhi, per essere sicuro che avesse capito.

In tono nervoso, Hilary replicò: «Non farmi fretta, Tony. Ho bisogno di tempo. Ho bisogno di un po’ di tempo.»

«Pensaci pure con calma.»

«Sono tanto felice e voglio godermi questa sensazione. Non è il momento di parlare di cose serie.»

«Cercherò di fare lo stesso,» mormorò Tony.

«Di che cosa possiamo parlare?»

«Voglio sapere tutto di te.»

«Ma questa è una domanda seria.»

«Propongo una cosa: facciamo un po’ i seri e un po’ gli stupidi. A rotazione.»

«D’accordo. Prima domanda.»

«Che cosa preferisci a colazione?»

«Cornflakes.»

«E a pranzo?»

«Cornflakes.»

«E a cena?»

«Cornflakes.»

«Aspetta un attimo… »

«Che cosa c’è?»

«Immagino che tu parlassi seriamente riguardo alla colazione, ma poi mi hai dato due risposte stupide di fila.»

«Ma io adoro i cornflakes.»

«Adesso mi devi due risposte serie.»

«Spara pure.»

«Dove sei nata?»

«A Chicago.»

«E sei cresciuta lì?»

«Sì.»

«I genitori?»

«Non so chi siano i miei genitori. Sono nata da un uovo. Un uovo di anatra. Un vero miracolo. Probabilmente l’hai letto sui giornali. A Chicago c’è persino una chiesa dedicata a quell’avvenimento. Nostra Signora dell’Uovo d’Anatra.»

«Davvero divertente.»

«Grazie.»

«Genitori?» le domandò di nuovo.

«Non è giusto. Non puoi rivolgermi la stessa domanda due volte.»

«Chi l’ha detto?»

«Lo dico io.»

«È così orribile?»

«Che cosa?»

«Quello che ti hanno fatto i tuoi genitori.»

Hilary cercò di sviare da quella domanda. «Perché credi che mi abbiano fatto qualcosa di orribile?»

«Ti ho già chiesto di loro e della tua infanzia. Hai sempre evitato di rispondere. Sei sempre riuscita a cambiare argomento. Pensavi non me ne fossi accorto, invece l’ho notato.»

La stava fissando con uno sguardo incredibilmente penetrante. Riusciva quasi a metterle paura.

Hilary chiuse gli occhi in modo che non potesse leggere dentro di lei.

«Raccontami,» insistè lui.

«Erano alcolizzati.»

«Tutt’e due?»

«Sì.»

«Cattivi?» .

«Oh, sì.»

«Violenti?»

«Sì.»

«E?»

«Adesso non ho voglia di parlarne.»

«Potrebbe farti bene.»

«No. Ti prego, Tony. Sono felice. E non lo sarò più se… mi costringerai a parlare di… loro. È stata una serata splendida. Non roviniamola.»

«Prima o poi, dovrai parlarmene.»

«Va bene, ma non stasera.»

Tony sospirò: «D’accordo. Vediamo… Qual è il personaggio della televisione che preferisci?»

«Kermit, la Rana.»

«E il personaggio umano della televisione che preferisci?»

«Kermit, la Rana.»

«Veramente ho detto umano

«Secondo me, è uno dei personaggi più umani della televisione.»

«Bella risposta. E che cosa mi dici della cicatrice?»

«Kermit ha una cicatrice?»

«Volevo dire la tua.»

«Ti dà fastidio?» chiese, cercando di eludere quella domanda.

«No. Anzi, ti rende ancora più bella.»

«Davvero?»

«Certo.»

«Ti spiace se controllo con la mia macchina della verità?»

«Hai una macchina della verità?»

«Oh, sicuro,» mormorò. Allungò la mano e afferrò il suo pene flaccido. «La mia macchina della verità funziona in modo molto semplice. Non è possibile sbagliare. Bisogna solo infilare la spina,» cinguettò stringendo la mano, «nella presa B.»

«Presa B?»

Scivolò sul letto e lo prese in bocca. Nel giro di pochi secondi, il pene si gonfiò, si irrigidì e prese a pulsare. Dopo un paio di minuti, Tony non fu più in grado di controllarsi.

Lei alzò lo sguardo e fece una smorfia. «Non stavi mentendo.»

«Devo ripetermi. Non sei decisamente una santerellina.»

«Vuoi di nuovo il mio corpo?»

«Voglio di nuovo il tuo corpo.»

«E la mia testa?»

«Non è compresa nell’offerta?»

Questa volta, Hilary si mise a cavalcioni sopra di lui e iniziò a muoversi avanti e indietro, a destra e sinistra, su e giù. Gli sorrise mentre lui le massaggiava i seni, poi non si accorse più di niente. Non avvertì i movimenti dei loro corpi o le spinte di Tony: tutto sfumò in un fluire caldo e incessante, che sembrava non avere né inizio né fine.

A mezzanotte, andarono in cucina e prepararono qualcosa da mangiare: un po’ di formaggio, del pollo avanzato, della frutta e un po’ di vino bianco ghiacciato. Portarono tutto in camera da letto e spiluccarono qualcosa, perdendo ben presto interesse al cibo.

Sembravano una coppia di adolescenti, ossessionati dal proprio corpo e dotati di un vigore illimitato. Mentre si muovevano all’unisono, Hilary si rese conto che non si trattava semplicemente di una serie di atti sessuali: era un importante rituale, una cerimonia dal significato profondo che l’avrebbe ripulita da tutte le paure del passato. Si stava donando a un’altra persona in un modo che solo pochi giorni prima avrebbe considerato impensabile. Stava allontanando il proprio orgoglio, si stava inginocchiando davanti a lui, rischiando l’umiliazione e il rifiuto, nella fragile speranza che lui non abusasse della sua debolezza. Ma non l’aveva delusa. Molte cose sarebbero sembrate degradanti con l’uomo sbagliato, ma con Tony ogni gesto era esaltante, piacevole e gioioso. Non riusciva ancora a confessargli che l’amava, almeno non con le parole, ma glielo stava rivelando in altri modi: supplicandolo di fare quello che voleva con il suo corpo, offrendosi senza difese, aprendosi completamente fino a succhiargli tutto il vigore, inginocchiata davanti a lui.

L’odio nei confronti di Earl ed Emma era più forte che mai, perché era per colpa loro che non riusciva a esprimere i propri sentimenti. Si chiese che cos’avrebbe mai dovuto fare per spezzare le catene che la tenevano prigioniera.

Rimasero distesi sul letto per un po’, stringendosi l’uno all’altra, senza bisogno di dire nulla.

Poi, alle quattro e mezzo, Hilary mormorò: «È meglio che vada a casa.»

«Rimani.»

«Nel senso che saresti in grado di rifarlo?»

«Mio Dio, no! Sono esausto. Voglio solo averti vicina. Dormi qui.»

«Se mi fermo, non riusciremo a dormire.»

«Vuoi dire che tu potresti rifarlo?»

«Sfortunatamente, amico mio, non ce la farei. Ma domani devo lavorare e immagino anche tu. Siamo troppo eccitati e troppo presi l’uno dall’altra per riposare, se restiamo nello stesso letto. Non faremmo altro che continuare a parlare e accarezzarci, senza riuscire a prendere sonno.»

«Be’, comunque dovremo imparare a dormire insieme. Dopotutto, passeremo tanto tempo nello stesso letto, non credi?»

«Moltissimo,» ammise lei. «Ma la prima notte è la peggiore. Quando non sarà più una novità ce la faremo. E io inizierò a presentarmi a letto con i bigodini e la crema sulla faccia.»

«Io invece inizierò a fumare i sigari e a guardare la televisione.»

«Un vero peccato,» mormorò lei.

«Comunque, ci vorrà un po’ di tempo per farci l’abitudine.»

«Un bel po’.»

«Magari cinquant’anni.»

«O sessanta.»

Scherzarono per un altro quarto d’ora, poi Hilary si alzò e si vestì. Tony si infilò un paio di jeans.

Mentre si avviavano verso la porta, Hilary si fermò in soggiorno per ammirare uno dei quadri. «Voglio portare sei delle tue opere migliori da Wyant Stevens a Beverly Hills per vedere se ha intenzione di esporli.»

«Non lo farà.»

«Voglio provarci.»

«È una delle migliori gallerie.»

«Perché partire dal basso?»

La fissò, ma parve non vederla neppure. Alla fine mormorò: «Forse dovrei buttarmi.»

«Buttarti?»

Gli riferì il caloroso consiglio ricevuto da Eugene Tucker, l’ex galeotto di colore che disegnava abiti da donna.

«Tucker ha ragione,» replicò Hilary. «E non devi neppure buttarti. Basta un saltello. Non devi lasciare il lavoro alla polizia, si tratta solo di tastare il terreno.»

Tony si strinse nelle spalle. «Wyant Stevens non mi prenderà neppure in considerazione ma non mi costa nulla fare un tentativo.»

«Vedrai che non sarà così,» lo incoraggiò. «Scegli una mezza dozzina di quadri, fra quelli che ritieni più rappresentativi. Cercherò di fissarti un appuntamento con Wyant questo pomeriggio o al massimo domani.»

«Puoi prenderli anche subito,» rispose. «Portateli via. E quando ti capita di vedere Stevens, puoi mostrarglieli.»

«Ma sono sicura che vorrà conoscerti.»

«Se gli piace il modo in cui dipingo, allora vorrà conoscermi. E in tal caso sarò felice di andare da lui.»

«Tony, veramente…»

«Non voglio essere presente quando ti dirà che si tratta di una discreta opera da dilettante.»

«Sei impossibile.»

«Prudente.»

«Pessimista.»

«Realista.»

Non aveva tempo di esaminare le sessanta tele accatastate in soggiorno. Rimase sorpresa nello scoprire che ne aveva altre cinquanta nell’armadio, oltre a un centinaio di disegni a penna, altrettanti acquerelli e uria quantità indescrivibile di schizzi a matita. Voleva vederli tutti, ma solo quando fosse stata riposata e in grado di apprezzarli. Scelse sei delle dodici tele appese alle pareti del soggiorno. Tony l’aiutò ad avvolgere i quadri in un vecchio lenzuolo.

Tony si infilò una camicia e un paio di scarpe e l’aiutò a caricare le tele nel baule dell’automobile.

Hilary e Tony rimasero a guardarsi a lungo, senza avere il coraggio di salutarsi.

Il fascio di luce del lampione li sfiorava appena. Lui la baciò dolcemente.

La notte era fresca e silenziosa. Il cielo era pieno di stelle.

«Tra poco spunterà l’alba,» mormorò lui.

«Vuoi cantare ‘due amanti innamorati’ con me?»

«Sono stonato come una campana.»

«Non ci credo.» Si strinse a lui. «Secondo me, tu sei bravissimo a fare tutto.»

«Che sviolinata!»

«Ma è vero.»

Si diedero un ultimo bacio, poi Tony le aprì la portiera della macchina.

«Oggi non vai a lavorare?» chiese lei.

«No. Non dopo… Frank. Dovrò semplicemente andare per stendere il rapporto, ma non ci metterò più di un’ora. Mi prenderò qualche giorno di riposo. E avrò molto tempo Ubero.»

«Ti chiamo questo pomeriggio.»

«Aspetterò con ansia.»

Hilary si allontanò lungo le strade deserte. Dopo pochi isolati, lo stomaco iniziò a brontolarle per la fame. Si ricordò di non avere in casa niente per la colazione. Sarebbe dovuta andare a fare la spesa dopo l’arrivo dell’operaio del telefono, ma poi si era precipitata a casa di Tony. Svoltò a sinistra e si diresse verso un supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro per comprare uova e latte.


Tony sapeva che Hilary non avrebbe impiegato più di dieci minuti per tornare a casa, a quell’ora del mattino, ma aspettò un quarto d’ora prima di chiamarla per assicurarsi che fosse arrivata sana e salva. Il telefono sembrava fuori uso. Tony sentì solo dei suoni computerizzati, il brusio tipico delle macchine, poi qualche ticchettio, un colpo secco e il sibilo della comunicazione interrotta. Riappese, compose di nuovo il numero, facendo attenzione a ogni singola cifra, ma il telefono continuò a non dare segni di vita.

Era sicuro che il nuovo numero fosse esatto. Quando gliel’aveva dato, aveva controllato due volte per essere sicuro di scriverlo in modo corretto. E Hilary l’aveva letto da una copia dell’ordine della compagnia dei telefoni. Non era possibile che si fosse sbagliata.

Chiamò il centralino ed espose il suo problema. L’operatrice cercò di chiamare quel numero ma neppure lei riuscì a mettersi in contatto.

«Forse hanno riappeso male?» chiese Tony.

«Non sembra.»

«Che cosa può fare?»

«Riferirò che il telefono non funziona,» rispose la donna. «Se ne occuperà il servizio guasti.»

«Quando?»

«Questo numero appartiene a una persona anziana o a un invalido?»

«No.»

«Allora dovrà seguire le normali procedure,» spiegò lei. «Uno dei nostri tecnici passerà a controllarlo dopo le otto.»

«Grazie.»

Tony riappese il ricevitore. Era seduto sul bordo del letto. Osservò con aria pensosa le lenzuola sgualcite sulle quali si era distesa Hilary e fissò il foglio di carta con il nuovo numero di telefono.

Non funzionava?

Era possibile che il tecnico avesse commesso un errore nel collegare il telefono di Hilary. Era possibile, ma improbabile. Decisamente improbabile.

Improvvisamente, ripensò alle telefonate anonime che aveva ricevuto Hilary. In genere, gli uomini che si divertivano in quel modo erano deboli, inoffensivi, sessualmente poco attivi. Quasi sempre erano incapaci di stabilire una relazione normale e, di solito, erano troppo introversi e timidi per diventare qualcuno. In genere. Quasi sempre. Di solito. Ma non era possibile che quel pazzoide fosse l’unico su un milione a essere effettivamente pericoloso?

Tony si portò una mano allo stomaco. Iniziava a sentire la nausea.

Se gli allibratori di Las Vegas avessero accettato le scommesse sulle probabilità che aveva Hilary Thomas di essere la vittima di due maniaci in meno di una settimana, sarebbero state astronomiche. D’altra parte, negli anni trascorsi presso il dipartimento di polizia di Los Angeles, Tony aveva visto accadere le cose più improbabili: ormai aveva imparato ad aspettarsi anche ciò che appariva assolutamente impossibile.

Pensò a Bobby Valdez. Nudo. Che strisciava fuori di quel mobiletto. Con gli occhi spalancati. La pistola in mano.

Fuori della finestra, nel cielo ancora buio, un uccello lanciò un grido. Era un urlo acuto, che cresceva di intensità mentre l’uccello saltellava da un ramo all’altro: sembrava che fosse inseguito da qualcosa di enorme, implacabile e vorace.

Tony aveva la fronte imperlata di sudore.

Si alzò dal letto.

A casa di Hilary stava accadendo qualcosa. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa di terribile.


Poiché Hilary si era fermata al supermercato per comprare l’occorrente per la colazione, era arrivata a casa almeno mezz’ora dopo aver lasciato l’appartamento di Tony. Era affamata e piacevolmente distrutta. Aveva un’incredibile voglia di omelette al formaggio con il prezzemolo e poi sognava una bella dormita di almeno sei ore. Era troppo stanca per mettere la Mercedes in garage, così decise di parcheggiarla sul vialetto d’ingresso.

I nebulizzatori automatici dell’impianto di irrigazione spruzzavano l’acqua sull’erba emettendo un leggero sibilo. Una brezza gentile faceva frusciare le fronde delle palme.

Entrò in casa dall’ingresso principale. Il salotto era immerso nel buio ma, prima di uscire, era stata previdente e aveva lasciato accesa la luce dell’ingresso. Con la borsa della spesa in una mano, chiuse a doppia mandata la porta.

Accese la luce del salotto e impiegò qualche secondo per rendersi conto che la stanza era stata completamente distrutta. Gli abat jour erano in frantumi, con le stoffe a brandelli. La vetrinetta era ridotta in mille pezzi così come le preziose porcellane che conteneva; i frammenti di quelli che un tempo erano stati splendidi oggetti d’arte erano sparsi sul caminetto e per terra. Il divano e la poltrona erano stati squarciati e la stanza era piena di pezzi di gommapiuma e batuffoli di cotone. Due sedie erano ormai ridotte a un semplice ammasso di legno dopo essere state probabilmente scagliate più volte contro il muro. L’intonaco cadeva a pezzi. Le gambe del tavolinetto antico erano spezzate; tutti i cassetti erano stati tolti e sfondati. I quadri non erano stati spostati ma erano tagliati in più punti. La cenere era stata tolta dal camino e sparsa sullo stupendo tappeto Edward Fields. Non si era salvato niente: persino il parafuoco era stato distrutto e tutte le piante erano state strappate dai vasi e fatte in mille pezzi.

Passato lo stupore e lo choc iniziali, Hilary venne sopraffatta da una rabbia furiosa nei confronti dei vandali. «Figli di puttana,» mormorò fra i denti.

Aveva trascorso molte ore per scegliere personalmente gli oggetti di quella stanza. Alcuni erano costati un’autentica fortuna, ma non era il danno economico che la infastidiva, in quanto la maggior parte di quegli oggetti erano assicurati. Ma il loro valore affettivo non poteva essere ricomprato: erano stati i primi oggetti che avesse mai posseduto. Gli occhi le si velarono di lacrime.

Stordita e incredula, si aggirò ancora in mezzo a quello scempio prima di rendersi conto che forse anche lei era in pericolo. Si bloccò con le orecchie tese: la casa era immersa nel silenzio.

Un brivido gelido le corse lungo la schiena e per un attimo le sembrò di sentire qualcuno respirarle sul collo.

Si girò di scatto.

Non c’era nessuno.

L’armadio dell’ingresso era ancora chiuso come quando era entrata in casa. Lo fissò, nel timore che si potesse spalancare da un momento all’altro. Se qualcuno si fosse nascosto là dentro ad aspettarla, probabilmente si sarebbe già fatto vedere.

È assurdo, pensò. Non può succedere un’altra volta. E impossibile. È ridicolo. Non è vero?

Avvertì un rumore dietro di lei.

Si girò, preparandosi a colpire l’assalitore con il braccio libero.

Ma non c’era nessuno. Era sola nella stanza.

Nonostante tutto, era convinta che ciò che aveva udito non era un semplice scricchiolio del parquet. Sapeva di non essere sola in casa. Avvertiva un’altra presenza.

Di nuovo quel rumore.

In sala da pranzo.

Un colpo secco. Un tintinnio. Come se qualcuno avesse appoggiato un piede sui cocci di vetro o di porcellana.

Un altro passo.

La sala da pranzo si trovava a pochi metri da Hilary. Era immersa nel buio.

Un altro passo: crac.

Hilary cominciò ad arretrare, allontanandosi dalla fonte del rumore, dirigendosi verso la porta d’ingresso che le sembrava irraggiungibile. Perché mai l’aveva chiusa a chiave?

Un uomo emerse dall’oscurità della sala da pranzo e avanzò nella penombra: era alto, robusto e con le spalle larghe. Si fermò per un attimo, poi fece un passo nel salotto illuminato.

«No!» urlò Hilary.

Sbalordita, si fermò. Con il cuore che le batteva all’impazzata e le labbra secche, prese a scuotere la testa: no, no, no.

L’uomo stringeva in mano un lungo coltello affilato e luccicante. Le sorrise. Era Bruno Frye.


Tony era contento che le strade fossero deserte; non avrebbe sopportato di perdere un secondo più del necessario. Aveva già il terrore di arrivare troppo tardi. Pigiò sull’acceleratore e poco dopo raggiunse la prima discesa subito fuori Beverly Hills; il motore rombava e i finestrini e gli oggetti sul cruscotto tintinnavano. Ai piedi della collina il semaforo era rosso. Tony non sfiorò neppure il freno. Si limitò a suonare il clacson e attraversò l’incrocio a tutta velocità. Si incuneò in un canale di scolo che ad andatura normale sarebbe passato inosservato ma in quel momento gli parve incredibilmente profondo. Per una frazione di secondo si sentì sospeso in aria, poi sbattè la testa contro il tettuccio nonostante la cintura di sicurezza. La jeep atterrò pesantemente sull’asfalto e un rumore di ferraglia riecheggiò assieme allo stridio delle gomme. La macchina cominciò a sbandare, con la coda che slittava e le gomme che fumavano. Per un istante, Tony temette di perdere il controllo, poi il volante rispose nuovamente ai suoi comandi e si ritrovò oltre la metà della collina successiva senza neanche sapere come.

Viaggiava a sessanta chilometri l’ora, ma accelerò immediatamente fino a cento. Decise che non era il caso di esagerare, visto che era quasi arrivato. Se si fosse schiantato contro un lampione o si fosse ammazzato fuori strada, non sarebbe stato di grande aiuto a Hilary.

Comunque continuò a ignorare i limiti di velocità. Andava troppo forte, tagliando le curve una dopo l’altra e ringraziando il cielo di non incrociare auto che venissero in senso contrario. I semafori erano tutti contro di lui, quasi fossero un segno del destino, ma Tony li ignorò. Non aveva paura di essere multato per guida pericolosa. Se l’avessero fermato, avrebbe mostrato il distintivo e trascinato i colleghi in uniforme da Hilary. Ma preferiva rinunciare ai rinforzi, perché avrebbe significato fermarsi, identificarsi e spiegare l’emergenza. Se l’avessero fatto accostare, avrebbe perso come minimo un minuto prezioso.

E aveva il presentimento che un minuto avrebbe potuto significare la vita o la morte di Hilary.


Mentre fissava Bruno Frye che si avvicinava, Hilary pensò di essere impazzita. Quell’uomo era morto. Morto! L’aveva accoltellato due volte, aveva visto il suo sangue. L’aveva riconosciuto anche all’obitorio: era rigido, livido e senza vita. Gli avevano fatto l’autopsia. Era stato steso il certificato di morte. I morti non camminano. Eppure lui era tornato fra i vivi, era uscito dalla sala da pranzo quale ospite decisamente indesiderato, con un coltello in mano, per finire ciò che aveva iniziato la settimana precedente. Ma era semplicemente impossibile.

Hilary chiuse gli occhi e pregò che sparisse, ma un secondo più tardi, quando si obbligò a guardare nuovamente, lui era ancora lì.

Hilary era pietrificata. Voleva correre ma il suo corpo era rigido, bloccato, e lei non aveva la forza di farlo muovere. Si sentiva debole e fragile come una vecchietta: era sicura che se fosse riuscita in qualche modo a sbloccarsi e a fare un passo, sarebbe crollata.

Non riusciva a parlare, ma dentro di sé stava urlando.

Frye si fermò a un metro e mezzo da lei, con un piede su un pezzo dell’imbottitura strappata. Era cadaverico, tremava vistosamente ed era sicuramente sull’orlo di una crisi isterica.

Un morto poteva essere isterico?

Doveva essere impazzita. Era l’unica soluzione. Si trattava di pazzia pura. Ma sapeva che non era così.

Un fantasma? Lei non credeva ai fantasmi. Inoltre, uno spirito non dovrebbe essere inconsistente, trasparente o perlomeno luminoso? Un’apparizione poteva essere così reale, convincente e terrificante come quel morto in piedi?

«Puttana,» la insulto. «Sporca puttana!»

Quella voce roca e dal tono gracchiante era inconfondibile.

Ma, pensò Hilary terrorizzata, le sue corde vocali avrebbero già dovuto cominciare a decomporsi. La sua gola dovrebbe essere bloccata dalla putrefazione.

Sentì nascere in lei una risatina isterica ma si controllò. Se avesse cominciato a ridere, non si sarebbe più fermata.

«Mi hai ucciso,» l’accusò minaccioso, sempre sull’orlo della crisi isterica.

«No,» rispose Hilary. «Oh no. No.»

«Invece sì,» urlò lui brandendo il coltello. «Mi hai ucciso! Non mentire. Ne sono sicuro. Pensavi non lo sapessi? Oh, Cristo! Mi sento così strano, così solo, abbandonato e vuoto.» La sua voce tradiva una sofferenza mista a rabbia. «Così vuoto e spaventato. E tutto per colpa tua.»

Si avvicinò lentamente, camminando fra gli oggetti in frantumi.

Hilary vide che gli occhi del morto non erano vuoti o velati dalla cataratta. Quegli occhi erano grigio azzurri, vivaci e colmi di una rabbia gelida.

«Questa volta morirai per sempre,» sibilò Frye avvicinandosi. «Non tornerai mai più.»

Hilary cercò di allontanarsi, fece un passo indietro ma le gambe cedettero.

Riuscì tuttavia a non cadere. Le era rimasta più forza di quanto pensasse.

«Questa volta,» continuò Frye, «prenderò ogni precauzione. Non avrai più alcuna possibilità di tornare. Ti strapperò quel maledetto cuore.»

Hilary indietreggiò ancora, ma era inutile: non poteva scappare. Non avrebbe avuto il tempo di raggiungere la porta e sbloccare entrambe le serrature. Se ci avesse provato, lui le sarebbe stato subito addosso, affondandole il coltello nella schiena.

«Ti trafiggerò il cuore con un picchetto.»

Se fosse corsa verso le scale per cercare di prendere la pistola nella sua camera, non sarebbe sicuramente stata fortunata come la volta precedente. Lui l’avrebbe afferrata prima che potesse raggiungere il primo piano.

«Ti taglierò quella fottuta testa.»

La sovrastava, sempre più vicino.

Hilary non poteva fuggire né nascondersi.

«Ti taglierò la lingua. Ti riempirò quella schifosa bocca di aglio, così non potrai più ammaliare il diavolo per resuscitare dall’inferno.»

Hilary sentiva il cuore che batteva all’impazzata. Le mancava il fiato per la paura.

«Ti strapperò gli occhi.»

Era agghiacciata, incapace di muoversi.

«Ti strapperò gli occhi riducendoli in poltiglia, così non vedrai più la strada del ritorno.»

Hilary lanciò un urlo.

Frye sollevò il coltello. «Ti taglierò le mani, così non tornerai mai più dall’inferno.»

Il coltello rimase sospeso per un’eternità, mentre il terrore distorceva la cognizione del tempo di Hilary. Si sentiva attratta, quasi ipnotizzata, da quell’arma luccicante.

«No!»

La lama affilata prese a scintillare.

«Puttana.»

Il coltello cominciò ad abbassarsi verso il suo viso, giù, giù, sempre più giù, in un lento movimento di morte.

Hilary aveva ancora in mano il sacchetto della spesa. Con un gesto istintivo, senza pensare a quello che stava facendo, lo afferrò con entrambe le mani e lo sollevò, puntandolo in direzione del coltello, cercando disperatamente di fermare quella mano assassina.

La lama si conficcò nel sacchetto, colpendo il cartone del latte.

Frye ringhiò per la rabbia.

Il sacchetto cadde dalle mani di Hilary. Le uova, il latte e il burro si sparsero sul pavimento.

Frye perse il coltello e si chinò per raccoglierlo.

Hilary corse verso la scala. Sapeva di avere semplicemente rimandato l’inevitabile. Non aveva guadagnato più di due o tre secondi e non sarebbero certo stati sufficienti per salvarla.

Qualcuno suonò il campanello della porta.

Sorpresa, si fermò ai piedi della scala e si girò.

Frye si era bloccato con il coltello in mano.

I loro sguardi si incrociarono e Hilary lesse l’indecisione sul viso dell’uomo.

Frye si diresse verso di lei, ma aveva perso la sua aria spavalda. Continuò a lanciare occhiate nervose verso l’ingresso e la porta.

Il campanello suonò nuovamente.

Tenendosi alla ringhiera e indietreggiando sulla scala, Hilary gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

Fuori della porta qualcuno urlò: «Polizia!»

Era Tony.

«Polizia! Aprite la porta!»

Hilary non sapeva perché Tony fosse lì, ma non era mai stata così felice nel sentire la voce di qualcuno.

Frye si fermò quando udì la parola «polizia». Guardò Hilary, poi la porta, poi ancora la donna, calcolando le proprie possibilità.

Hilary continuò a urlare.

Alcuni vetri andarono in frantumi con un fragore tale da far sobbalzare Frye per la sorpresa mentre i frammenti affilati si spargevano sul pavimento.

Hilary capì che Tony aveva rotto la finestra vicino alla porta, sebbene non riuscisse a vedere chiaramente l’ingresso.

«Polizia!»

Frye le lanciò un’occhiata. Hilary non aveva mai visto un odio così profondo come quello che sfigurava il viso dell’uomo e gettava un lampo di pazzia in quegli occhi.

«Hilary!» gridò Tony.

«Tornerò,» l’avvertì Frye.

Il morto si girò e attraversò correndo il salotto, verso la sala da pranzo, probabilmente nel tentativo di fuggire dalla porta della cucina.

Singhiozzando, Hilary si precipitò giù dalla scala, verso la porta da dove Tony la stava chiamando attraverso il vetro rotto.


Tony tornò dal giardino posto sul retro, ripose la pistola d’ordinanza ed entrò in cucina.

Hilary era in piedi al centro della stanza. Sul bancone, a poca distanza dalla mano destra, c’era un coltello.

Tony chiuse la porta e disse: «Nel roseto non c’è nessuno.»

«Chiudila a chiave,» ordinò lei.

«Che cosa?»

«La porta. Chiudila a chiave.»

Tony obbedì.

«Hai guardato dappertutto?»

«In ogni angolo.»

«Attorno alla casa?»

«Sì.»

«Anche fra i cespugli?»

«Certo.»

«E adesso?»

«Chiamerò la Centrale e mi farò mandare un paio di agenti per il rapporto.»

«Non servirà a niente.»

«Non si può mai dire. Magari un vicino ha visto qualcuno che si aggirava da queste parti. O forse l’hanno visto mentre scappava.»

«Secondo te un morto deve scappare? Un fantasma non può svanire di punto in bianco?»

«Tu non credi ai fantasmi.»

«Forse non era un fantasma,» sbottò. «Forse era un cadavere ambulante. Semplicemente un tranquillo e pacifico cadavere ambulante.»

«Tu non credi nemmeno agli zombie.»

«Ah no?»

«Sei troppo intelligente per quelle stupidaggini.»

Hilary chiuse gli occhi e scosse la testa. «Non so più a che cosa credere.»

La sua voce tremante lo preoccupava. Stava per avere un attacco di nervi.

«Hilary… sei sicura di quello che hai visto?»

«Era lui

«Ma come è possibile?»

«Era Frye,» insistè.

«Giovedì scorso l’hai visto anche tu all’obitorio.»

«Ed era morto?»

«Ma certo che era morto.»

«E chi l’ha detto?»

«I medici. I patologi.»

«Anche i medici possono sbagliare.»

«Nello stabilire se una persona è morta oppure no?»

«Ogni tanto si leggono episodi del genere sul giornale,» spiegò Hilary. «Decidono che un tizio è spacciato e firmano il certificato di morte, poi il cadavere improvvisamente si mette a sedere sul tavolo. Può succedere. Non molto spesso. Ammetto che non si verifica tutti i giorni. Forse è un caso su un milione.»

«Diciamo pure un caso su dieci milioni.»

«Comunque può succedere.»

«Non in questo caso.»

«L’ho visto! Qui. Proprio qui. Oggi.»

Tony le si avvicinò, la baciò sulla guancia e le prese la mano gelida. «Ascoltami, Hilary, Frye è morto. A causa delle coltellate Frye ha perso metà del sangue che aveva in corpo. L’hanno trovato in un’enorme pozza rossa. Ha perso tutto quel sangue e poi è rimasto sotto il sole per parecchie ore. Non sarebbe potuto sopravvivere.»

«Forse ce l’ha fatta.»

Tony si portò la mano di Hilary alle labbra e le baciò le dita pallide. «No,» mormorò con fermezza. «Frye ha perso troppo sangue ed è morto.»

Tony era convinto che quella temporanea confusione e quell’accavallarsi di ricordi fossero dovuti allo choc subito. Hilary stava semplicemente confondendo quell’aggressione con quella della settimana precedente. Nel giro di un paio di minuti avrebbe ripreso il controllo di se stessa e tutto si sarebbe chiarito: si sarebbe accorta che quell’ultima aggressione non era opera di Bruno Frye. Non doveva far altro che accarezzarla e parlarle in tono rassicurante, rispondendo alle sue strane domande nel modo più ragionevole possibile, fino a quando fosse tornata completamente in sé.

«Forse Frye non era morto quando è stato ritrovato in quel posteggio del supermercato,» proseguì lei. «Forse era solo in coma.»

«Il coroner se ne sarebbe accorto durante l’autopsia.»

«Forse non ha fatto l’autopsia.»

«Se non lui, un altro medico del suo staff.»

«Be’, forse quel giorno erano particolarmente occupati, con un sacco di cadaveri, e hanno deciso di stendere un rapporto veloce senza portare a termine il lavoro.»

«Impossibile,» replicò Tony. «L’ufficio di patologia è straordinariamente efficiente.»

«Almeno non potremmo controllare?»

Tony annuì. «Certo. Possiamo farlo. Ma dimentichi che Frye è passato anche fra le mani degli impresari delle pompe funebri. Il poco sangue rimasto sarà stato tolto per introdurre il liquido per l’imbalsamazione.»

«Ne sei sicuro?»

«Per essere spedito a St. Helena deve essere stato imbalsamato o cremato. È la legge.»

Hilary riflette un attimo, poi proseguì: «E se fosse uno di quegli strani casi? Un caso su dieci milioni? E se l’avessero dichiarato morto per sbaglio? Se il coroner non avesse effettuato l’autopsia? E se Frye si fosse messo a sedere sul tavolo dell’imbalsamazione, proprio mentre l’impresario delle pompe funebri stava per iniziare il lavoro?»

«Ti stai arrampicando sui vetri, Hilary. Ti renderai conto anche tu che se fossero successe cose simili saremmo venuti a saperlo. Se un impresario delle pompe funebri si fosse ritrovato con un cadavere che non era un cadavere ma il corpo ormai privo di sangue di un essere umano, puoi stare certa che l’avrebbe trasportato d’urgenza al più vicino ospedale. Probabilmente avrebbe avvertito anche l’ufficio del coroner. Oppure l’avrebbe fatto l’ospedale. In ogni caso, saremmo venuti a saperlo immediatamente.»

Hilary riflette su quelle parole. Tenne lo sguardo fisso sul pavimento mordicchiandosi il labbro. Alla fine, domandò: «E che cosa mi dici dello sceriffo Laurenski di Napa County?»

«Non siamo ancora riusciti ad avere una risposta.»

«Perché no?»

«Perché lui sta eludendo le nostre domande. Non risponde alle nostre chiamate e non ci ha neppure ritelefonato.»

«Be’, e secondo te non c’è qualcosa di strano in tutto questo? Deve essere una specie di cospirazione e c’è di mezzo anche lo sceriffo di Napa County.»

«A che genere di cospirazione ti riferisci?»

«Io… non lo so.»

Continuando a parlarle con dolcezza, sempre convinto che alla fine avrebbe accettato le sue spiegazioni logiche e razionali, Tony proseguì: «Una cospirazione tra Frye, Laurenski e magari Satana in persona? Una cospirazione per sconfiggere la Morte? Una cospirazione malvagia per resuscitare dalla tomba? Una cospirazione per ottenere la vita eterna? Secondo me non ha senso. Tu che cosa ne dici?»

«E vero. Non ha assolutamente senso,» sbottò Hilary con aria irritata.

«Bene. Sono contento che la pensi così. Se tu avessi detto il contrario, mi sarei preoccupato.»

«Eppure, maledizione, qui sta succedendo qualcosa di strano. Qualcosa di straordinario. E secondo me c’è lo zampino dello sceriffo Laurenski. Dopotutto, la settimana scorsa ha protetto Frye, ha mentito per lui e ora sta cercando di evitarvi perché non sa come giustificare le sue azioni. Non ti sembra un comportamento sospetto? Non ti sembra l’atteggiamento di un uomo implicato in qualcosa di losco?»

«No. Mi sembra semplicemente un poliziotto imbarazzato. Ha commesso un grave errore ed è un rappresentante della legge. Ha coperto un pezzo grosso locale perché era sicuro che non potesse essere colpevole di violenza e tentato omicidio. Mercoledì scorso non è riuscito a mettersi in contatto con Frye, ma ha finto di avergli parlato. Era assolutamente convinto che Frye non era l’uomo che stavamo cercando. Ma si era sbagliato. E ora prova una tremenda vergogna.»

«E tu ne sei convinto?»

«Alla Centrale tutti ne sono convinti.»

«Bene, io no.»

«Hilary…»

«Io ho visto Bruno Frye oggi!»

Invece di ritornare gradualmente in sé, Hilary stava peggiorando, trincerandosi dietro l’oscura fantasia dei morti viventi e delle macabre cospirazioni. Tony decise di trattarla in modo più brutale.

«Hilary, non hai visto Bruno Frye. Non era qui. Non oggi. E morto. Morto e sepolto. L’uomo che ti ha assalita oggi era un altro. Hai subito uno choc. Sei confusa. È perfettamente comprensibile. Comunque…»

Lei liberò la mano dalla stretta di Tony e si allontanò di qualche passo. «Non sono confusa. Frye era qui. E ha detto che sarebbe tornato.»

«Un minuto fa, hai ammesso che la tua storia non ha senso. Non è forse vero?»

Seppure con riluttanza, Hilary mormorò: «Sì. È quello che ho detto. Non ha senso. Ma è successo

«Credimi, conosco bene l’effetto che un forte choc può avere sulle persone. Può distorcere le percezioni e i ricordi. E inoltre…»

«Hai intenzione di aiutarmi o no?» domandò.

«Ma certo che ti aiuterò.»

«E come? Che cosa possiamo fare?»

«Per cominciare, stenderemo un rapporto sull’aggressione.»

«Non sarà troppo imbarazzante? Quando racconterò che un morto ha cercato di uccidermi, non credi che vorranno rinchiudermi per qualche giorno per sottopormi a una perizia psichiatrica? Tu mi conosci molto meglio di loro, ma sei comunque convinto che sia pazza.»

«Non ho detto che sei pazza,» replicò, sconcertato dal suo tono di voce, «sei solo turbata.»

«Maledizione.»

«È comprensibile.»

«Maledizione.»

«Hilary, ascoltami. Quando arriveranno gli agenti, tu non dirai una sola parola su Frye. Devi cercare di calmarti, di recuperare il controllo di te stessa…»

«Ma io ho il controllo di me stessa!»

«… e di ricordare esattamente che aspetto aveva il tuo assalitore. Se riuscirai a rilassarti, ricorderai molte più cose e tu stessa ne sarai sorpresa. A quel punto vedrai tutto in modo molto più razionale e ti renderai conto che quell’uomo non era Bruno Frye.»

«Era lui.»

«Forse assomigliava a Frye, ma…»

«Ti stai comportando proprio come ha fatto Frank Howard l’altra volta,» sbottò.

Tony continuò pazientemente: «Almeno quella volta stavi accusando un uomo che era vivo

«Sei esattamente come tutti gli altri,» bofonchiò lei, con la voce incrinata.

«Io voglio aiutarti.»

«Stronzate.»

«Hilary, non puoi trattarmi così.»

«Sei tu che hai cominciato.»

«Io ti voglio bene.»

«E allora dimostramelo!»

«Sono qui, no? Che altre prove vuoi?»

«Devi credermi. Sarebbe la prova migliore.»

Tony si rese conto che era profondamente insicura, probabilmente a causa delle brutte esperienze avute con le persone che aveva amato e di cui si era fidata. Dovevano averla ferita e tradita in modo brutale, altrimenti non si sarebbe spiegato un atteggiamento simile. Soffriva ancora molto per quelle ferite a livello emotivo e cercava un appoggio leale e sicuro. Quando lui aveva espresso i propri dubbi sulla sua storia, lei aveva iniziato ad allontanarsi, anche se Tony non si sarebbe mai sognato di mettere in dubbio la sua buona fede. Ma, dannazione, non era giusto assecondarla in quella folle idea: la cosa migliore era cercare di riportarla dolcemente alla realtà.

«Frye è stato qui oggi,» insistè. «Frye e nessun altro. Ma non lo dirò alla polizia.»

«Bene,» sospirò lui, sollevato.

«Perché non ho intenzione di chiamare la polizia.»

«Che cosa?»

Senza una parola, lei si voltò e uscì dalla cucina.

Tony la seguì nella sala da pranzo completamente distrutta. «Dovrai fare una deposizione.»

«Non devo proprio fare niente.»

«L’assicurazione non ti risarcirà se non presenterai il rapporto della polizia.»

«A questo penserò poi,» disse entrando in soggiorno.

Proseguì in direzione delle scale, con Tony che la seguiva a breve distanza. «Dimentichi una cosa,» esclamò lui.

«E sarebbe?»

«Sono un investigatore.»

«E allora?»

«Ora che sono a conoscenza della situazione, il mio dovere è quello di presentare un rapporto.»

«Fai pure.»

«Per il rapporto ho bisogno della tua deposizione.»

«Non puoi obbligarmi a collaborare. Non ho alcuna intenzione di farlo.»

Quando raggiunsero le scale, lui l’afferrò per un braccio. «Aspetta un attimo. Ti prego, aspetta.»

Lei si voltò e lo fissò. La paura si era trasformata in rabbia. «Lasciami stare.»

«Dove stai andando?»

«Di sopra.»

«Che cosa hai intenzione di fare?»

«Preparo la valigia e mi trasferisco in un albergo.»

«Puoi stare da me.»

«Non credo tu voglia una pazza in giro per casa,» sbottò in tono sarcastico.

«Hilary, non fare così.»

«Potrei essere colta da un raptus e ucciderti nel sonno.»

«So benissimo che non sei pazza.»

«Oh, certo. Credi sia solo un po’ confusa. Leggermente svitata. Ma non pericolosa.»

«Sto solo cercando di aiutarti.»

«Bel modo di aiutarmi!»

«Non potrai vivere per sempre in un hotel.»

«Tornerò a casa quando l’avranno acciuffato.»

«Ma se non presenti una denuncia formale, nessuno si metterà a cercarlo.»

«Lo cercherò io.»

«Tu?»

«Io.»

Tony si stava innervosendo. «A che gioco vuoi giocare, Hilary Thomas? Alla Giovane Detective?»

«Potrei assumere degli investigatori privati.»

«Oh, davvero?» chiese bruscamente. Sapeva che rischiava di allontanarla ancora di più, ma ormai si era spazientito.

«Davvero. Investigatori privati.»

«E chi? Philip Marlowe? Jim Rockford? Sam Spade?»

«Sei un figlio di puttana dannatamente sarcastico.»

«Sei tu che mi costringi a esserlo. Forse il sarcasmo riuscirà a svegliarti.»

«Si dà il caso che il mio agente conosca alcuni investigatori privati di prim’ordine.»

«Ti dirò una cosa: non è un lavoro per loro.»

«Fanno di tutto, basta pagarli.»

«Non tutto.»

«Ma questo sì.»

«È un lavoro per la polizia.»

«La polizia si limiterebbe a controllare tutti i ladri schedati, gli stupratori schedati e…»

«E un’ottima tecnica investigativa: precisa ed efficace.»

«Ma questa volta non può funzionare.»

«Perché? Perché l’assalitore è un morto che cammina?»

«Esatto.»

«Allora forse la polizia dovrebbe controllare i ladri e gli stupratori schedati e già morti

Hilary gli lanciò un’occhiata piena di rabbia mista a disgusto. «Per risolvere il caso,» proseguì lei, «bisogna scoprire come faceva Bruno Frye a essere morto stecchito la settimana scorsa e ancora vivo oggi.»

«Per l’amor del cielo, ti rendi conto di quel che dici?»

Era davvero preoccupato per lei. Quella cocciuta irrazionalità lo spaventava.

«So quello che dico,» replicò. «E riconosco anche quello che vedo. Non solo ho visto Bruno Frye, poco fa, in questa casa. L’ho anche sentito. Aveva quella voce gutturale, unica e inimitabile. Era lui. Nessun altro. L’ho visto e l’ho sentito mentre minacciava di tagliarmi la testa e di riempirmi la bocca di aglio, come se fossi un vampiro o qualcosa del genere.»

Vampiro.

Quella parola fece sussultare Tony perché rappresentava un ovvio, anche se sorprendente, collegamento con gli oggetti trovati il giovedì precedente nel furgone grigio di Bruno Frye. Erano strani oggetti di cui Hilary non poteva essere a conoscenza e che lui stesso aveva quasi dimenticato fino a quel momento. Si sentì attraversare da un brivido gelido.

«Aglio?» domandò. «Vampiri? Hilary, di che cosa stai parlando?»

Lei si liberò dalla sua stretta e corse su per le scale.

Lui la raggiunse. «Che cosa c’entrano i vampiri?»

Hilary continuò a salire i gradini, rifiutandosi di rispondere e anche solo di guardare in faccia Tony. «Non è una bella storia? Sono stata aggredita da un morto vivente che pensava fossi un vampiro. Oh, accidenti! Ora hai la certezza che sono impazzita. Chiama subito una bella ambulanza! E metti la camicia di forza a questa signora un po’ matta prima che si faccia male! Accompagnala subito in una comoda stanza imbottita, poi chiudi la porta e getta via la chiave!»

Mentre Hilary stava per infilarsi in una camera da letto del primo piano, Tony riuscì a raggiungerla. L’afferrò per un braccio.

«Lasciami stare, dannazione!»

«Ripeti quello che ha detto.»

«Me ne andrò in un albergo e poi risolverò questa faccenda a modo mio.»

«Voglio che tu mi ripeta tutto quello che ha detto.»

«Non puoi fare niente per fermarmi,» ruggì. «E ora lasciami andare.»

Tony alzò la voce per farsi sentire. «Devo sapere quello che ha detto sui vampiri, maledizione!»

I loro occhi si incontrarono. Hilary sembrò riconoscere la paura e la confusione nello sguardo di Tony e smise di divincolarsi. «Che cosa c’è di così importante?»

«La faccenda dei vampiri.»

«Perché?»

«Pare che Frye fosse ossessionato dalle scienze occulte.»

«E tu come lo sai?»

«Abbiamo trovato alcuni oggetti nel suo furgone.»

«Che tipo di oggetti?»

«Non ricordo esattamente. Un mazzo di tarocchi. Una tavoletta per comunicare con i morti, una decina di crocefissi…»

«Sui giornali non hanno scritto niente.»

«Non abbiamo informato la stampa. E comunque, quando abbiamo fatto l’inventario degli oggetti rinvenuti nel furgone, i giornali avevano già pubblicato l’intera vicenda e i giornalisti erano già giunti alla conclusione. Non era un caso particolarmente succulento e nessuno aveva interesse a riproporlo nei giorni successivi. Ma lascia che ti spieghi che cos’altro abbiamo trovato. Sacchettini pieni di aglio attaccati alle portiere. Due picchetti di legno molto appuntiti. Una mezza dozzina di libri sui vampiri, sugli zombie e sulle altre specie dei cosiddetti ‘morti viventi’.»

Hilary rabbrividì. «Ha detto che mi avrebbe strappato il cuore e che lo avrebbe trafitto con un picchetto.»

«Cristo.»

«Voleva anche strapparmi gli occhi, affinchè non vedessi più la strada del ritorno. Ha detto proprio così. Sono le sue esatte parole. Temeva che potessi ritornare dal regno dei morti dopo che mi aveva ucciso. Era completamente pazzo. Eppure lui è tornato dalla tomba, non è vero?» Si mise a ridere, in modo quasi isterico. «Voleva tagliarmi le mani per non farmi più tornare.»

Tony si sentì gelare: quell’uomo era stato a un passo dal mettere in pratica le proprie minacce.

«Era lui,» insistè Hilary. «Non capisci? Era Frye.»

«Non poteva essere truccato?»

«Che cosa?»

«Non poteva trattarsi di qualcuno truccato in modo da assomigliare a Frye?»

«E chi mai avrebbe fatto una cosa del genere?»

«Non lo so.»

«Che cosa ci avrebbe guadagnato?»

«Non lo so.»

«Mi accusavi di arrampicarmi sui vetri. Be’, tu stai facendo anche peggio. Stai blaterando stupidaggini senza senso.»

«Ma non poteva essere qualcun altro truccato come lui?» ripetè Tony.

«Impossibile. Da vicino, non c’è trucco che tenga. E il corpo era quello di Frye. Stessa altezza e stesso peso. Stessa struttura. Stessi muscoli.»

«Ma se fosse stato qualcuno truccato, in grado di imitare la voce di Frye…»

«Sarebbe tutto più semplice, vero?» lo aggredì lei. «La tua versione, per quanto bizzarra e inspiegabile, è più facile da accettare della mia storia del morto vivente. Ma hai accennato alla sua voce e qui la tua teoria non regge. Nessuno potrebbe imitare quella voce. Oh, un bravo imitatore potrebbe riprodurre il tono basso, la cadenza, e l’accento, ma non quell’orribile suono gracchiante e stridente. Può parlare così solo chi ha una malformazione alla laringe oppure le corde vocali troppo tirate. Probabilmente Frye è nato con qualche difetto alla laringe. Oppure è rimasto ferito alla gola quando era bambino. Magari tutt’e due le cose. A ogni modo, è stato Bruno Frye a parlarmi, e non qualcuno che gli assomigliava. Scommetterei fino all’ultimo centesimo.»

Tony non era più tanto sicuro che Hilary fosse in preda a una crisi isterica o in stato confusionale. Aveva lo sguardo attento e si esprimeva con frasi decise. Sembrava una donna completamente padrona di se stessa.

«Ma Frye è morto,» obiettò Tony.

«Era qui.»

«Ma com’è possibile?»

«È proprio quello che intendo scoprire.»

Tony si ritrovò a passeggiare in un meandro del proprio cervello, pieno di eventi assolutamente impossibili. Gli parve di ricordare qualcosa relativo a una storia di Sherlock Holmes. Holmes aveva spiegato a Watson che, dopo aver eliminato tutte le possibilità a eccezione di una, l’ultima rimasta, per quanto assurda o improbabile, deve corrispondere alla verità.

Forse l’impossibile era possibile?

Un morto poteva camminare?

Ripensò all’impiegabile legame fra le minacce dell’assalitore e gli oggetti trovati nel furgone di Bruno Frye. Ripensò a Sherlock Holmes e alla fine disse: «Va bene.»

«Va bene che cosa?» domandò Hilary.

«Va bene, forse era Frye.»

«Era lui.»

«Forse… in qualche modo… Dio solo sa come… forse è sopravvissuto a quelle pugnalate. Sembra assolutamente impossibile, ma non posso escluderlo.»

«Quale concessione!» sbottò Hilary. Era ancora arrabbiata e non l’avrebbe perdonato facilmente.

Si allontanò da lui ed entrò in camera.

Lui la seguì.

Si sentiva un po’ stupido. Sherlock Holmes non aveva parlato di quello che si provava una volta giunti alla conclusione che niente era impossibile.

Hilary prese una valigia dall’armadio, l’appoggiò sul letto e iniziò a riempirla di vestiti.

Tony si avvicinò al telefono e alzò il ricevitore. «Non c’è la linea. Deve aver tagliato i fili. Dovremo usare il telefono dei vicini per riferire quanto è successo.»

«Non ho intenzione di dire niente.»

«Non preoccuparti. Ora tutto è diverso. Sosterrò la tua tesi.»

«E troppo tardi,» ribatté aspramente.

«Che cosa vuoi dire?»

Hilary non rispose. Afferrò una camicia con tale forza da far cadere la gruccia.

«Spero che tu non abbia davvero intenzione di nasconderti in un albergo e di assumere investigatori privati.»

«Oh, certo. E esattamente quello che voglio fare,» sbottò lei, piegando la camicetta.

«Ma ho detto che ti credo.»

«E io ho detto che è troppo tardi. Ormai è troppo tardi.»

«Perché rendi tutto così difficile?»

Hilary non rispose. Appoggiò la camicetta nella valigia e ritornò all’armadio per prendere altri vestiti.

«Ascolta,» proseguì Tony, «mi sono limitato a esprimere qualche ragionevole dubbio. I dubbi che avrebbe avuto chiunque in una situazione come questa. Insomma, gli stessi che avresti sollevato tu se io ti avessi detto di aver visto un morto che camminava. Se fossi stato al tuo posto, mi sarei aspettato un certo scetticismo e non mi sarei arrabbiato con te. Si può sapere perché te la sei presa tanto?»

Hilary ritornò verso il letto con un paio di camicette e iniziò a piegarle. Parlò senza nemmeno guardare Tony. «Io mi fidavo di te… mi fidavo ciecamente.»

«Non ho tradito la tua fiducia.»

«Sei come tutti gli altri.»

«Quello che è successo a casa mia non ha rappresentato niente di speciale?»

Lei non disse nulla.

«Vuoi farmi credere che quello che hai provato questa notte, non solo con il corpo, ma anche con il cuore e con la testa, è quello che provi normalmente con tutti gli uomini?»

Hilary cercò di non ascoltarlo. Si concentrò su quello che stava facendo, sistemò la seconda camicetta nella valigia e iniziò a piegare la terza. Ma le tremavano le mani.

«Be’, per me è stato qualcosa di speciale,» proseguì Tony con aria decisa. «E stato perfetto. Meglio di quanto ci si possa aspettare. E non mi riferisco solo al sesso. Il fatto di stare insieme. Di condividere qualcosa. Mi sei entrata dentro come nessun’altra donna è mai riuscita a fare. Quando te ne sei andata, stanotte, ti sei appropriata di una parte di me, un pezzetto del mio cuore, qualcosa di vitale. Per il resto della mia vita, mi sentirò completo solo quando sarò con te. Quindi, se credi che ti lascerò andare via così, ti sbagli di grosso. Sono disposto a tutto pur di tenerti con me, Hilary.»

Lei aveva smesso di piegare la camicetta. Era rimasta ferma e immobile, con lo sguardo sulla valigia.

In quel momento, Tony avrebbe dato tutto l’oro del mondo pur di conoscere i suoi pensieri.

«Ti amo,» le sussurrò.

Senza distogliere lo sguardo, lei rispose con voce tremante: «La gente mantiene forse gli impegni? Mantiene forse le promesse? Promesse di questo tipo? Quando qualcuno dice: ‘ti amo’ pensi ci creda davvero? I miei genitori si sussurravano tenere parole d’amore e due minuti dopo mi picchiavano a sangue. E io a chi dovrei credere? A te? E perché mai? Non finirà forse in modo doloroso? Non finisce sempre così? Preferisco stare da sola. Sono in grado di prendermi cura di me stessa. Starò benissimo. Non voglio rimanere ferita un’altra volta. Sono stanca di essere ferita. Dannatamente stanca! Non voglio prendermi un impegno e correre dei rischi. Non posso. Non ce la faccio.»

Tony l’afferrò per le spalle e la costrinse a guardarlo negli occhi. Hilary aveva le labbra che tremavano e gli occhi pieni di lacrime, che riuscì tuttavia a trattenere.

«Tu provi gli stessi sentimenti per me,» mormorò Tony. «Lo so. Lo sento. Ne sono sicuro. Tu non mi stai rifiutando perché ho dubitato della tua storia. Questo non c’entra assolutamente. Vuoi rifiutarmi perché ti stai innamorando e ne sei terrorizzata. Terrorizzata per colpa dei tuoi genitori. Per colpa di quello che ti hanno fatto, per tutte le botte che hai preso, e per una valanga di altre ragioni che non mi hai ancora spiegato. Vuoi fuggire dai tuoi sentimenti perché la tua infanzia ti ha distrutto a livello emotivo. Ma tu mi ami. Mi ami davvero. E lo sai anche tu.»

Hilary non riusciva a parlare. Si limitò a scuotere la testa: no, no, no.

«Non dirmi che non è vero,» proseguì Tony. «Abbiamo bisogno l’uno dell’altra, Hilary. Io ho bisogno di te perché per tutta la vita ho avuto paura di rischiare con le cose: il denaro, la carriera, l’arte. Sono sempre stato disposto nei confronti delle persone, pronto a stabilire nuove relazioni, ma non ho mai saputo modificare le circostanze. Con te, grazie a te, per la prima volta, provo il desiderio di allontanarmi, seppure cautamente, dalla sicurezza dello stipendio fisso da poliziotto. E ora, quando penso seriamente a guadagnarmi da vivere dipingendo, non mi sento più in colpa, come una volta. Non sento più le prediche di mio padre sul denaro, sulla responsabilità e sulla crudeltà del destino, come succedeva prima. Se penso alla vita dell’artista, non rivivo più automaticamente le crisi finanziarie che la mia famiglia ha dovuto sopportare, quando non avevamo abbastanza da mangiare e rischiavamo di restare senza nemmeno un tetto. Finalmente sono riuscito a gettarmi tutto dietro le spalle. Non sono ancora sufficientemente forte per mollare il lavoro e buttarmi. Mio Dio, no. Non ancora. Ma, grazie a te, riesco a immaginarmi nelle vesti di un pittore, e riesco a farlo seriamente, anche se fino a una settimana fa mi sembrava assolutamente impossibile.»

Hilary aveva il volto rigato di lacrime. «Sei così bravo,» mormorò. «Sei un artista meravigliosamente sensibile.»

«E tu hai bisogno di me proprio come io ne ho di te,» continuò Tony. «Senza di me, continueresti a rinchiuderti nel tuo guscio, sempre di più. E saresti sempre più sola e amareggiata. Hai sempre osato rischiare con le cose, il denaro e la tua carriera. Ma non te la sei mai sentita di rischiare con le persone. Vedi? Siamo diametralmente opposti. Ma ci completiamo. Abbiamo parecchie cose da insegnare l’uno all’altra. Possiamo aiutarci a crescere. E come se ognuno di noi fosse solo una persona a metà: e ora abbiamo trovato la parte mancante. Io sono tuo. Tu sei mia. E una vita che brancoliamo nel buio, cercandoci disperatamente.»

Hilary lasciò cadere la camicetta gialla che stava per riporre nella valigia e gli gettò le braccia al collo.

Tony l’abbracciò, baciandole le labbra salate di lacrime.

Per un paio di minuti rimasero stretti l’uno all’altra. Nessuno dei due riusciva a parlare.

Alla fine Tony mormorò: «Guardami negli occhi.»

Lei alzò la testa.

«Hai gli occhi così scuri,» sussurrò lei.

«Dimmelo.»

«Dirti che cosa?»

«Quello che voglio sentire.»

Lo baciò agli angoli della bocca.

«Dimmelo,» ripetè.

«Io… ti amo.»

«Di nuovo.»

«Ti amo, Tony. Davvero.»

«Era così difficile?»

«Sì. Per me lo era.»

«Se continuerai a ripeterlo, sarà sempre più facile.»

«Cercherò di fare molta pratica,» mormorò Hilary.

Stava ridendo e piangendo allo stesso tempo.

Tony avvertì una strana sensazione al petto, come se fosse sul punto di esplodere per la gioia. Nonostante la notte insonne, si sentiva completamente sveglio, pieno di energia e consapevole di avere fra le braccia una donna davvero speciale: il suo calore, il corpo sinuoso, la pelle morbida, lo spirito vivace, il profumo appena accennato e l’odore della sua pelle e dei suoi capelli lo rendevano pieno di vita.

«Ora che ci siamo trovati, tutto andrà bene,» esclamò Tony.

«No, almeno fino a quando non risolveremo il caso di Bruno Frye. O chiunque sia. Qualunque cosa sia. Non sarò tranquilla fino a quando non sapremo che è morto e sepolto, una volta per tutte.»

«Se resteremo uniti,» proseguì Tony, «ne usciremo sani e salvi. Non riuscirà a mettere le mani su di te fino a quando ci sarò io nei dintorni. Te lo prometto.»

«E io ti credo. Comunque… mi fa paura.»

«Non devi.»

«Non posso farci niente. E, a ogni modo, credo sia giusto avere paura di lui.»

Tony pensò allo scempio del piano inferiore, ai picchetti appuntiti e ai sacchettini pieni di aglio che avevano trovato nel furgone di Frye e decise che Hilary aveva ragione. Era giusto avere paura di Bruno Frye.

Un morto che camminava?

Hilary rabbrividì e Tony provò un senso di inquietudine.

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