EDUCAZIONE E PRIME AVVENTURE DEL VAMPIRO LESTAT

PARTE I L’ASCESA DI LELIO

1.

Nell’inverno del mio ventunesimo anno uscii solo, a cavallo, per sterminare un branco di lupi.

Avvenne nelle terre di mio padre in Alvernia, Francia, negli ultimi decenni precedenti la rivoluzione francese.

Era l’inverno peggiore che ricordassi; i lupi rubavano le pecore ai nostri contadini e la notte si aggiravano persino per le vie del villaggio.

Per me erano anni amari. Mio padre era il marchese, e io ero il settimo figlio maschio, il più giovane dei tre sopravvissuti fino all’età adulta. Non avevo diritto al titolo e alla terra e non avevo prospettive. Anche in una famiglia ricca quella sarebbe stata la sorte di un figlio cadetto; ma la nostra ricchezza era stata consumata da molto tempo. Il mio fratello maggiore Augustin, che era il legittimo erede di quanto avevamo, aveva speso la modesta dote della moglie dopo il matrimonio.

Il castello di mio padre, la tenuta e il vicino villaggio erano il mio universo. Ed ero nato irrequieto… ero il sognatore, l’arrabbiato, il contestatore. Non mi andava di stare seduto accanto al fuoco a parlare delle guerre passate e dei tempi del Re Sole. Per me la storia non aveva significato.

Ma in quel mondo all’antica ero diventato il cacciatore. Portavo fagiani e altra selvaggina, e le trote dei ruscelli di montagna, tutto ciò che riuscivo a trovare, per sfamare la famiglia. Ormai era diventata la mia vita, una vita che non spartivo con nessun altro… Ed era un bene che l’avessi accettata perché quelli erano anni in cui avremmo potuto effettivamente morire di fame.

Naturalmente era un’occupazione nobile andare a caccia nelle terre avite, e noi soli ne avevamo il diritto. Neppure il più ricco dei borghesi poteva imbracciare il fucile nelle mie foreste. Comunque, non aveva bisogno del fucile. Lui aveva il denaro.

Per due volte, nella mia esistenza, avevo cercato di sottraimi a quella vita, ma ero stato riportato indietro con le ali spezzate. Ne parlerò in seguito.

Ora sto pensando alla neve che copriva le montagne e ai lupi che spaventavano i paesani e rubavano le mie pecore. E sto pensando al detto così comune nella Francia di quei tempi: chi viveva in Alvernia, non poteva essere più lontano da Parigi.

Poiché ero un signore, anzi l’unico signore che potesse andare a cavallo e sparare con il fucile, era naturale che i paesani venissero da me a lamentarsi dei lupi e a chiedermi di dargli la caccia. Era mio dovere.

Non avevo paura dei lupi. In tutta la mia vita non avevo mai sentito di un lupo che avesse attaccato un uomo. Li avrei avvelenati, se avessi potuto; ma la carne era troppo scarsa per usarla come esca.

Perciò in una fredda mattina di gennaio, molto presto, mi armai per uccidere i lupi a uno a uno. Avevo tre pistole a pietra focaia, e un eccellente fucile dello stesso tipo. Li portai con me assieme ai miei moschetti e alla spada di mio padre. Ma, prima di lasciare il castello, aggiunsi al mio piccolo arsenale un paio d’armi antiche che non avevo mai degnato della mia attenzione.

Il nostro castello era pieno di vecchie armature. I miei antenati avevano combattuto in una quantità di nobili guerre fin dai tempi della Crociata di san Luigi. E alle pareti, sopra quella ferraglia cigolante, c’erano lance, mazze, mazzafrusti e mazze ferrate.

Era un mazza molto grande, una specie di bastone chiodato, quella che portai con me quel mattino, e presi anche un mazzafrusto, una sfera di ferro fissata a una catena, che poteva essere avventata con forza immensa contro l’assalitore.

Bisogna tener conto che era il secolo decimottavo, quando i parigini in parrucca bianca portavano scarpe di raso con i tacchi alti, fiutavano tabacco e si asciugavano il naso con i fazzoletti ricamati.

E io stavo andando a caccia con stivali di pelle greggia e giubba di daino, con queste armi antiche legate alla sella, e, accanto a me, i miei due mastini più grossi con i collari chiodati.

Era la mia vita, ed era come se vivessi nel Medioevo. Conoscevo abbastanza i viaggiatori eleganti sui percorsi postali per rendermene conto acutamente. I nobili della capitale chiamavano «acchiappalepri» i signorotti di campagna. Naturalmente, noi li disprezzavamo e li chiamavamo lacchè dei reali. Il nostro castello esisteva da mille anni, e neppure il grande cardinale Richelieu, nella sua guerra contro di noi, era riuscito ad abbatterne le antiche torri. Ma, come ho già detto, non prestavo molta attenzione alla storia.

Ero infelice e inferocito, mentre salivo sulla montagna. Aspiravo a una bella battaglia con i lupi. Secondo i paesani, ce n’era un branco di cinque, e io avevo le mie armi da fuoco e due cani con mascelle abbastanza forti da spezzare la spina dorsale d’un lupo.

Per un’ora continuai a salire. Poi arrivai in una valletta che conoscevo molto bene e che nessuna nevicata poteva mascherare. E quando mi avviai attraverso l’ampio campo deserto verso il bosco spoglio, sentii il primo ululato.

Dopo pochi attimi ne sentii un altro e un altro ancora. Il coro era così armonizzato che non avrei saputo dire quanti fossero i componenti del branco; capivo solo che mi avevano visto e si scambiavano il segnale di riunirsi… esattamente ciò che avevo sperato.

Non credo di aver provato la minima paura. Eppure percepivo qualcosa che mi faceva accapponare la pelle delle braccia. La campagna immensa sembrava vuota. Preparai le armi. Ordinai ai cani di smettere di ringhiare e di seguirmi, ed ebbi la vaga idea che avrei fatto bene a lasciare il prato scoperto e addentrarmi in fretta nel bosco. I cani mi diedero l’allarme abbaiando. Girai la testa e vidi i lupi, molto più indietro, che correvano sulla neve nella mia direzione. Erano tre giganteschi lupi grigi, e avanzavano in linea.

Corsi verso la foresta.

Sembrava che ci sarei riuscito facilmente prima che mi raggiungessero, ma i lupi sono animali molto astuti, e mentre galoppavo verso gli alberi vidi il resto del branco, cinque esemplari adulti, che usciva davanti a me sulla sinistra. Era un’imboscata: non sarei arrivato in tempo alla foresta. E il branco era formato da otto lupi, non da cinque come avevano detto i paesani.

Persino allora non ebbi paura. Non considerai il fatto ovvio che erano affamati, altrimenti non si sarebbero avvicinati al villaggio. Avevano dimenticato l’abitudine di stare lontani dagli uomini.

Mi preparai alla battaglia. Infilai il mazzafrusto nella cintura e presi la mira con il fucile. Abbattei un grosso maschio a una certa distanza da me ed ebbi il tempo di ricaricare mentre i miei cani e il branco si scontravano.

I lupi non riuscivano ad addentare i miei cani al collo perché portavano i collari chiodati. E nella prima schermaglia i cani abbatterono uno dei lupi. Io sparai e ne stesi un secondo.

Ma il branco aveva circondato i cani. Mentre continuavo a sparare, ricaricando più in fretta che potevo e cercando di prendere la mira con cura, vidi il mastino più piccolo cadere con le zampe posteriori spezzate. Il sangue scorse sulla neve: il secondo cane si scostò dai lupi che cercavano di divorare il suo compagno morente: in meno di due minuti le belve sventrarono anche il secondo.

I mastini erano animali poderosi, come ho detto. Li avevo allevati e addestrati personalmente. Ognuno pesava più di duecento libbre. Andavo sempre a caccia con loro e, sebbene adesso li chiami semplicemente «cani», allora li conoscevo solo per nome; e quando li vidi morire mi resi conto per la prima volta di ciò che poteva accadere.

Ma tutto questo era successo in pochi minuti.

Quattro lupi erano morti, un altro era storpiato irrimediabilmente. Ne restavano tre. Uno aveva interrotto il banchetto selvaggio per fissarmi con gli occhi obliqui.

Sparai con il fucile, lo mancai, sparai con il moschetto e la mia cavalla s’impennò mentre il lupo sfrecciava verso di me.

Come tirati da fili, gli altri lupi si voltarono e abbandonarono le vittime appena uccise. Strattonai le redini e lasciai che la cavalla corresse verso il riparo della foresta.

Non mi voltai neppure quando sentii ringhiare e sbattere le fauci, ma poi sentii le zanne scalfirmi la caviglia. Presi l’altro moschetto, mi girai verso sinistra e sparai. Mi sembrò che il lupo cadesse sulle zampe posteriori, ma lo persi di vista subito, e la mia cavalla s’impennò di nuovo. Per poco non finii a terra. Sentii le zampe posteriori della cavalla cedere sotto di me.

Eravamo quasi arrivati alla foresta, e balzai via prima che cadesse. Avevo ancora una pistola carica. Mi voltai, la strinsi con entrambe le mani, mirai al lupo che correva verso di me e gli feci esplodere il cranio.

In realtà i lupi rimasti erano ancora due. La cavalla lanciò un nitrito sconvolgente che divenne uno strido acutissimo, il suono più tremendo che avessi mai udito da un essere vivente. I due lupi le erano piombati addosso.

Corsi sulla neve, sentii sotto di me la consistenza del terreno roccioso, e arrivai agli alberi. Se avessi potuto ricaricare, li avrei uccisi da lassù. Ma non c’era un solo albero con i rami abbastanza bassi su cui aggrapparmi.

Spiccai un balzo cercando di afferrarmi; i miei piedi scivolarono sulla corteccia gelata e caddi mentre i lupi si avvicinavano. Non avevo il tempo di caricare l’unica pistola che mi era rimasta. Dovevo usare il mazzafrusto e la spada, perché avevo perso la mazza molto più indietro.

Credo che, mentre mi rialzavo, sapessi che probabilmente sarei morto. Ma non pensai neppure per un momento di arrendermi. Ero furioso, fuori di me. Quasi ringhiavo mentre fronteggiavo i due lupi e guardavo negli occhi il più vicino.

Mi piantai a gambe larghe per stare più saldo. Strinsi il mazzafrusto nella sinistra e sguainai la spada. I lupi si fermarono. Il primo mi fissò, poi piegò la testa e si spostò di qualche passo a lato. L’altro restò come in attesa d’un segnale invisibile. Il primo mi guardò di nuovo con quella strana espressione calma, e si avventò.

Cominciai a mulinare in cerchio il mazzafrusto. Sentivo il mio respiro ringhiante; piegavo le ginocchia per sporgermi in avanti. Mirai alle fauci dell’animale con tutte le mie forze, ma lo scalfii appena.

Il lupo schizzò via, il secondo mi corse intorno in cerchio; avanzava saltellando verso di me e poi arretrava. Entrambi piombarono poi abbastanza vicini perché mi mettessi di nuovo a roteare il mazzafrusto e menar fendenti con la spada, poi corsero via di nuovo.

Non so per quanto tempo continuassero; ma capivo la loro strategia. Volevano sfinirmi e avevano la forza per farlo. Per loro era diventato un gioco.

Giravo su me stesso, tiravo affondi, indietreggiavo, rischiavo di cadere in ginocchio. Probabilmente la scena non si protrasse per più di mezz’ora. Ma è impossibile misurare il tempo in certi casi.

Quando mi sentii mancare le gambe, tentai un’ultima mossa disperata. Restai immobile con le armi al fianco. E questa volta si avventarono per finirmi, proprio come avevo sperato.

All’ultimo momento roteai il mazzafrusto, sentii la sfera spezzare l’osso, vidi la testa del lupo sollevarsi di scatto verso destra e con la spada gli squarciai il collo.

L’altro lupo era al mio fianco. Sentii le zanne affondarmi nelle brache. Di lì a un attimo mi avrebbe divelto la gamba. Lo colpii al muso e gli spaccai un occhio. Il lupo lasciò la presa. Balzai indietro; avevo di nuovo spazio sufficiente per usare la spada, e l’affondai fino all’impugnatura nel petto dell’animale, prima di estrarla.

Era tutto finito.

I lupi erano morti. Io ero vivo.

Nella valle ammantata di neve gli unici suoni erano il mio respiro e il rantolo della cavalla che giaceva poco lontano da me.

Non ero sicuro che avessi conservato la ragione. Non ero sicuro che le cose che mi passavano per la mente fossero pensieri. Avrei voluto lasciarmi cadere nella neve, eppure mi allontanavo dai lupi morti, mi avviavo verso la cavalla morente.

Quando mi avvicinai, alzò il collo, cercò di sollevarsi sulle zampe anteriori e lanciò di nuovo uno dei quei terribili nitriti supplichevoli. Il suono echeggiò tra le montagne. Sembrava raggiungere il cielo. Mi fermai a guardare il suo corpo dilaniato sul candore della neve, i quarti posteriori paralizzati, le zampe anteriori che annaspavano, il muso levato verso l’alto, gli orecchi ripiegati all’indietro, i grandi occhi innocenti che roteavano mentre lanciava quel grido. Era come un insetto semischiacciato sul pavimento, ma non era un insetto. Era la mia cavalla, e soffriva. Tentò nuovamente di alzarsi.

Presi il fucile dalla sella. Lo caricai. E, mentre la cavalla scuoteva la testa e cercava invano di sollevarsi di nuovo con quel nitrito stridulo, le sparai al cuore.

Adesso era tutto a posto. Giaceva immobile e morta, il suo sangue scorreva e nella valle regnava il silenzio. Rabbrividivo. Sentii un suono soffocante che usciva dalla mia bocca, e vidi il vomito sulla neve prima ancora di capire che era il mio. Avevo addosso l’odore dei lupi e l’odore del sangue. Quando tentai di camminare, per poco non caddi.

Ma non mi fermai neppure per un momento. Tornai ai lupi morti, a quello che per poco non mi aveva ucciso, l’ultimo, e me lo issai sulle spalle. Poi mi misi in cammino per tornare a casa.

Impiegai due ore, credo.

Non lo so. Ma ciò che avevo imparato o provato mentre combattevo contro i lupi continuava a ripetersi nella mia mente durante il cammino. Ogni volta che inciampavo e cadevo, qualcosa dentro di me s’induriva.

Quando arrivai alla porta del castello, non ero più Lestat, credo. Ero qualcun altro. Entrai barcollando nella grande sala con il lupo sulle spalle. Il caldo della carcassa si era quasi dileguato, e il fulgore del fuoco mi irritava gli occhi. Ero al di là dello sfinimento.

E, sebbene cominciassi a parlare mentre vedevo i miei fratelli alzarsi da tavola e mia madre fare una carezza rassicurante a mio padre, che già allora era cieco e voleva sapere cosa stava succedendo, non so che cosa dissi. So che la mia voce era inespressiva; e sentivo la semplicità della descrizione.

«E poi… e poi…» Qualcosa del genere.

Ma mio fratello Augustin mi scosse all’improvviso. Venne verso di me, con la luce del fuoco alle spalle, e spezzò la mia voce monotona con le sue parole.

«Piccola carogna», disse freddamente. «Tu non hai ucciso otto lupi!» La sua faccia aveva un’espressione di disgusto.

Ma la cosa più straordinaria fu questa; non appena ebbe parlato, si rese conto di aver commesso un errore.

Forse era la mia espressione. Forse era il mormorio scandalizzato di mia madre o il silenzio dell’altro fratello. Probabilmente era la mia faccia. Comunque fu una cosa istantanea, e Augustin assunse una stranissima aria d’imbarazzo.

Incominciò a balbettare che era incredibile, e che dovevo aver rischiato la vita, e disse che i servitori dovevano portarmi subito un brodo, e così via. Ma fu inutile. Ciò che era avvenuto in quel momento era irreparabile. Poi, ricordo che ero sdraiato, solo, nella mia camera. Non c’erano i cani sul letto con me, come sempre d’inverno, perché adesso erano morti. E, sebbene non ci fosse il fuoco acceso, mi infilai sotto le coperte, sporco e insanguinato, e piombai in un sonno profondo.

Rimasi nella mia stanza per diversi giorni.

Sapevo che i paesani erano saliti sulla montagna, avevano trovato i lupi e li avevano portati al castello; lo sapevo perché Augustin era venuto a dirmelo. Ma io non rispondevo.

Passò una settimana, credo. Quando sopportai l’idea di avere vicino altri cani, scesi nel mio canile e portai di sopra due cuccioli, già piuttosto grandi, e mi tennero compagnia. La notte dormivo in mezzo a loro.

I servitori andavano e venivano. Ma nessuno mi disturbava.

Poi mia madre entrò nella mia camera, quasi furtivamente.

2.

Era sera. Stavo seduto sul letto, con uno dei cani sdraiati accanto a me e l’altro steso sotto le mie ginocchia. Il fuoco sul camino ruggiva.

E finalmente venne mia madre. Come avrei dovuto aspettarmi, immagino.

La riconobbi dal movimento nell’ombra; e mentre avrei gridato «Via! Via!» se fosse stato un altro ad avvicinarsi, non le dissi nulla.

Nutrivo un grande amore, incrollabile, per lei. Credo che nessun altro le volesse tanto bene. E una cosa che me la rendeva sempre cara era il fatto che non diceva mai niente di ordinario.

«Chiudi la porta», «Mangia la zuppa», «Stai fermo»… erano frasi che non uscivano mai dalle sue labbra. Leggeva sempre; anzi, era l’unica della nostra famiglia che avesse un’istruzione, e quando parlava non lo faceva mai a sproposito. Perciò non mi risentii della sua presenza.

Al contrario, destò la mia curiosità. Che cosa avrebbe detto? E avrebbe cambiato qualcosa per me? Non avevo desiderato che venisse e non avevo neppure pensato a lei; non distolsi gli occhi dal fuoco per guardarla.

Ma tra noi c’era un’intesa foltissima. Quando avevo cercato di fuggire da quella casa ed ero stato riportato indietro, era stata lei a mostrarmi la via per uscire dalla sofferenza. Aveva fatto miracoli per me, anche se nessuno intorno a noi l’aveva mai notato.

Il suo primo intervento era stato quando avevo dieci anni e il vecchio parroco, che mi aveva insegnato qualche poesia a memoria e qualche inno in latino, voleva mandarmi a scuola in un vicino convento.

Mio padre disse di no: potevo imparare a casa mia tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Mia madre si staccò dai libri e s’impegnò in una battaglia contro di lui. Sarei andato, disse, se volevo andare. E vendette uno dei suoi gioielli per pagarmi libri e vestiti. Tutti i gioielli li aveva ereditati da una nonna italiana; ognuno aveva una sua storia, e per lei era doloroso sacrificarli. Ma lo fece immediatamente.

Mio padre s’irritò e le ricordò che, se questo fosse successo prima che diventasse cieco, sarebbe stato lui ad averla vinta. I miei fratelli gli assicurarono che il suo figliolo minore non sarebbe stato lontano a lungo: sarebbe tornato di corsa non appena gli avessero fatto fare qualcosa che non voleva.

Ma non tornai a casa di corsa. La scuola del convento mi piaceva.

Amavo la cappella e gli inni, la biblioteca con migliaia di vecchi libri, le campane che segnavano le fasi della giornata, i rituali sempre ripetuti. Amavo quella pulizia, il fatto che tutto era ben tenuto e in ordine e che il lavoro non si fermava mai nella grande casa e nell’orto.

Quando venivo corretto, e non accadeva spesso, ero felice perché per la prima volta in vita mia qualcuno cercava di vedere in me una persona buona e capace di imparare.

Dopo meno di un mese dichiarai la mia vocazione. Volevo entrare nell’ordine. Volevo passare la vita in quel chiostro immacolato, nella biblioteca a scrivere sulla pergamena e a imparare a leggere i libri antichi. Volevo rimanere rinchiuso per sempre assieme a coloro che mi credevano capace di essere buono, se volevo.

Ero benvoluto. E questo era molto insolito. Lì dentro non causavo infelicità o collera a nessuno.

Il padre superiore scrisse subito per chiedere il permesso di mio padre. E francamente io credevo che mio padre sarebbe stato ben contento di liberarsi di me.

Ma tre giorni dopo vennero i miei fratelli per riportarmi a casa. Piansi e implorai per restare, ma il padre superiore non poté far nulla.

Appena arrivammo al castello, i miei fratelli mi portarono via i libri e mi rinchiusero. Non capivo perché fossero tanto furiosi. Sembravano convinti che mi fossi comportato da sciocco. Non riuscivo a smettere di piangere. Camminavo avanti e indietro, prendevo a pugni quel che mi capitava sottomano e sferravo calci alla porta.

Poi mio fratello Augustin incominciò a venire a parlarmi. Dapprima girò intorno all’argomento; ma alla fine avevo capito chiaramente che un membro di una grande famiglia francese non poteva diventare un povero frate insegnante. Com’era possibile che avessi frainteso tutto? Mi avevano mandato al convento perché imparassi a leggere e a scrivere. Perché dovevo sempre spingermi all’estremo? Perché mi comportavo abitualmente come un pazzo?

In quanto all’idea di diventare un prete con qualche prospettiva interessante nell’ambito della chiesa, ebbene, ero il figlio minore, no? Dovevo pensare ai miei doveri verso i nipoti.

In parole chiare, ecco che cosa significava: Non abbiamo denaro per lanciarti in una carriera ecclesiastica, per farti diventare vescovo o cardinale come sarebbe doveroso per il nostro rango; quindi dovrai vivere qui il resto della tua vita, da illetterato e da straccione. Vieni nella sala grande e gioca a scacchi con tuo padre.


Quando capii, piansi a tavola e mormorai parole che nessuno comprese affermando che la nostra casa era il caos, e per punizione fui mandato in camera mia.

Mia madre venne da me. «Tu non sai cos’è il caos. Perché usi queste parole?»

«Io lo so», dissi. Cominciai a descriverle la sporcizia e la decadenza che regnavano dovunque, e a spiegarle che invece il convento era lindo e ordinato; un posto dove, impegnandosi, si poteva realizzare qualcosa.

Non mi contraddisse. E, sebbene fossi giovanissimo, capivo che era toccata dall’eccezionalità di ciò che le dicevo.

L’indomani mattina mi portò con sé a fare un viaggio.

Dopo mezza giornata arrivammo all’imponente chàteau di un nobile nostro vicino; e mia madre e il nobile mi portarono al canile. Mia madre mi disse di scegliere quelli che preferivo in una cucciolata di mastini.

Non avevo mai visto nulla di tenero e amabile come quei cuccioli. E i cani adulti che ci osservavano sembravano leoni insonnoliti. Magnifici.

Ero quasi troppo emozionato per compiere la scelta. Portai via il maschio e la femmina che mi consigliò il nobiluomo, e durante il viaggio di ritorno li tenni sulle ginocchia, dentro una cesta.

Dopo meno di un mese, mia madre mi comprò il primo moschetto a pietra focaia e il mio primo cavallo.

Non mi disse mai perché l’aveva fatto. Ma io compresi, a mio modo, ciò che mi aveva dato. Allevai i cani, li addestrai, e li usai per creare un grande canile.

Con quei cani diventai un vero cacciatore; e a sedici anni vivevo quasi sempre all’aperto.

Ma a casa ero una seccatura, più che mai. Nessuno voleva ascoltarmi quando parlavo di rimettere in ordine le vigne e coltivare i campi trascurati e fare in modo che i fittavoli smettessero di derubarci.

Non potevo realizzare nulla. Il flusso silenzioso della vita immutabile mi appariva letale.

Andavo in chiesa tutti i giorni festivi, tanto per rompere la monotonia della mia esistenza. E quando c’erano le fiere ero sempre presente, ansioso di assistere ai piccoli spettacoli che non avevo modo di vedere in nessun’altra occasione… qualunque cosa pur di spezzare l’andazzo abituale.

Forse erano sempre gli stessi giocolieri e mimi e acrobati degli anni passati, ma non aveva importanza. Era qualcosa di più del cambiamento delle stagioni e delle chiacchiere oziose sulle glorie di un tempo.

Ma una volta, quando avevo sedici anni, venne una troupe di comici italiani con un carro sul quale montarono il palcoscenico più elaborato che avessi mai visto. Recitarono una vecchia commedia italiana con Pantalone e Pulcinella e i due innamorati Lelio e Isabella, e l’anziano dottore e tutti i vecchi trucchi.

Io assistevo, rapito. Non avevo mai visto nulla di simile: l’ingegnosità, la sveltezza, la vitalità. Ero entusiasta persino quando le parole venivano pronunciate tanto in fretta che non riuscivo a seguirle.

Allorché i comici ebbero finito ed ebbero fatto la colletta tra la folla, mi trattenni alla locanda e offrii loro il vino che non avrei potuto permettermi, solo per parlare.

Provavo un amore inesprimibile per quegli uomini e per quelle donne. Mi spiegarono che ogni attore aveva un suo ruolo per la vita, e che non imparavano a memoria le parole ma improvvisavano tutto sul palcoscenico. Conoscevi il tuo nome e il tuo personaggio, lo comprendevi e lo facevi parlare e agire come ritenevi che dovesse fare. Quella era la trovata geniale.

Si chiamava commedia dell’arte.

Ero incantato. M’innamorai della ragazza che impersonava Isabella.

Salii sul carro con i comici ed esaminai i costumi e gli scenari dipinti; e, quando tornammo a bere nella taverna, mi lasciarono interpretare Lelio, il giovane innamorato d’Isabella, e batterono le mani e dissero che avevo il dono del teatro. Sapevo improvvisare come loro.

All’inizio pensavo che lo dicessero per adularmi: comunque non aveva importanza, fosse adulazione o no.

L’indomani mattina, quando il carro lasciò il villaggio, io ero a bordo. Ero nascosto con poche monete che ero riuscito a risparmiare e tutti i miei indumenti legati in una coperta. Intendevo diventare attore.

Nella vecchia commedia italiana Lelio deve essere molto bello; è l’amoroso, come ho spiegato, e non porta la maschera. Se ha belle maniere, dignità, portamento aristocratico, tanto meglio, perché fanno parte del ruolo.

Bene, i comici pensavano che avessi tutte queste doti. Mi prepararono subito per la prossima rappresentazione. E il giorno prima dello spettacolo andai in giro con gli altri per la cittadina, molto più grande e interessante del mio villaggio, a fare pubblicità alla commedia.

Mi sentivo in paradiso. Ma il viaggio e i preparativi e il cameratismo degli altri attori non mi diedero la stessa estasi che conobbi quando, finalmente, mi presentai sul piccolo palcoscenico.

Mi lanciai a corteggiare Isabella. Mi scoprii una capacità di inventare versi e frasi spiritose che non sapevo di possedere. Sentivo la mia voce echeggiare tra i muri intorno a me. Sentivo le risate degli spettatori. Dovettero quasi trascinarmi via dal palcoscenico per fermarmi: ma tutti compresero che era stato un grande trionfo.

Quella notte, l’attrice che faceva la parte dell’amorosa mi concesse un suo riconoscimento molto intimo. Mi addormentai fra le sue braccia; l’unica cosa che ricordo fu che mi disse che a Parigi avremmo recitato alla fiera di St.-Germain, e poi avremmo lasciato la compagnia e saremmo rimasti nella capitale a lavorare nel Boulevard du Temple fino a che non fossimo entrati nella Comédie-Francaise e avessimo incominciato a recitare davanti alla regina Maria Antonietta e al re Luigi. Quando mi svegliai l’indomani mattina, lei se n’era andata e se n’erano andati tutti i comici, ma c’erano i miei fratelli.

Non seppi mai se i miei compagni erano stati corrotti o semplicemente intimiditi. È più probabile che fosse vera questa seconda versione. Fatto sta che mi portarono di nuovo a casa.

La mia famiglia, naturalmente, era inorridita di ciò che avevo fatto. Voler diventare frate a dodici anni è scusabile. Ma il teatro puzzava di diabolico. Persino il grande Molière non aveva avuto una sepoltura cristiana. E io ero scappato con una compagnia di vagabondi italiani, m’ero dipinto la faccia di bianco e avevo recitato con loro per denaro su una pubblica piazza.

Mi picchiarono, e quando imprecai contro tutti mi picchiarono ancora.

La punizione peggiore era vedere l’espressione di mia madre. Non le avevo neppure detto che intendevo partire. E l’avevo ferita; questo non era mai accaduto prima. Ma lei non ne parlò mai.

Quando venne da me mi ascoltò piangere. Vidi le lacrime nei suoi occhi. E mi posò la mano sulla spalla; per lei era un gesto eccezionale. Non le dissi cosa avevo provato in quei pochi giorni. Ma credo che lo sapesse. Avevo perduto qualcosa di magico. E ancora una volta sfidò mio padre. Pose fine alla recriminazione, alle botte e alle restrizioni.

Mi fece sedere a tavola accanto a lei. Mi parlava, teneva conversazioni che le erano innaturali; e continuò a farlo fino a che ebbe attenuato e disperso il rancore della famiglia.

Poi, come aveva fatto in passato, vendette un altro dei suoi gioielli e mi comprò lo splendido fucile da caccia che avevo portato con me per ucciderei lupi.

Era un’arma eccezionale e costosa; e nonostante la mia tristezza ero ansioso di provarla. E mia madre aggiunse un altro dono, un’agile cavalla baia forte e veloce. Ma erano cose da poco, in confronto alla consolazione che lei mi aveva dato.

Tuttavia l’amarezza che avevo dentro non si placò.

Non dimenticavo cosa avevo provato quando ero Lelio. Diventai un po’ più crudele a causa di ciò che era accaduto, e non andai mai più alla fiera del villaggio. Mi convinsi che non mi sarei mai allontanato di lì; e stranamente, via via che la disperazione diventava più profonda, io mi rendevo sempre più utile.

Ero il solo che ispirasse paura ai servitori e ai fittavoli… e avevo appena diciotto anni. Ero il solo che procurava il cibo. E, per qualche stranissima ragione, questo mi dava soddisfazione. Non sapevo perché, ma mi piaceva sedere a tavola e pensare che tutti mangiavano ciò che avevo procacciato io.


Quei momenti, dunque, mi avevano legato a mia madre. Quei momenti ci avevano dato un affetto reciproco ignorato e probabilmente ineguagliabile nelle vite di coloro che ci stavano intorno.

Adesso era venuta da me in quel momento strano quando, per ragioni che non capivo, non sopportavo la compagnia di un’altra persona.


Con gli occhi fissi sul fuoco, la vidi sedere sul materasso di paglia accanto a me.

Silenzio. Soltanto lo scoppiettare del fuoco e il respiro profondo dei cani addormentati.

Poi la guardai e trasalii.

Per tutto l’inverno era stata tormentata dalla tosse e adesso appariva sofferente; la sua bellezza, che per me era sempre stata importante, per la prima volta mi appariva vulnerabile.

Il viso era squadrato, gli zigomi perfetti, molto alti e distanti ma delicati. La linea della mascella era forte ma squisitamente femminile. Aveva gli occhi di un limpido azzurro-cobalto, frangiato da folte ciglia biondocenere.

Se c’era un difetto in lei, era forse che i suoi lineamenti erano troppo minuti, troppo felini, e la facevano sembrare una bambina. Gli occhi parevano diventare ancora più piccoli quando era in collera e, anche se la bocca era dolce, spesso appariva dura. Non si piegava verso il basso, non si storceva: era come una rosellina rosea. Ma le guance erano lisce, il viso magro, e quando assumeva un’aria molto seria la bocca, senza cambiare, diventava cattiva.

Adesso aveva il viso un po’ scavato. Ma per me era ancora bella. E lo era davvero. Mi piaceva guardarla. Aveva folti capelli biondi, e io li avevo ereditati da lei.

In realtà le somiglio, almeno superficialmente. Ma i miei lineamenti sono più grandi e più rozzi e la mia bocca è più mobile e a volte assume un’espressione molto dura. E si può notare il senso dell’humour, la mia capacità di un’ilarità quasi isterica che ho sempre posseduto per quanto fossi infelice. Mia madre non rideva spesso. Sapeva apparire profondamente fredda. Tuttavia aveva sempre una dolcezza infantile. Dunque, la guardai mentre sedeva sul mio letto, anzi la fissai, credo. E subito cominciò a parlarmi.

«So com’è», mi disse. «Tu li odii. Per ciò che hai dovuto sopportare e per ciò che non sanno. Non hanno abbastanza immaginazione per capire che cosa ti è accaduto sulla montagna.»

Provai una gioia gelida a quelle parole; e le rivolsi un ringraziamento silenzioso… aveva compreso perfettamente.

«Fu la stessa cosa la prima volta che partorii un figlio», disse lei. «Patii per dodici ore, prigioniera della sofferenza. Sapevo che l’unica liberazione possibile era il parto o la morte. Quando tutto finì, avevo tra le braccia tuo fratello Augustin; ma non volevo vicino a me nessun altro. E non perché li ritenessi colpevoli. Ma avevo sofferto tanto, per ore e ore, ed ero discesa all’inferno e ne ero uscita. Loro non avevano conosciuto l’inferno. E sentivo la quiete, il silenzio. In quell’atto comune e volgare del parto, avevo compreso il significato della solitudine assoluta.»

«Sì, è così», risposi. Ero un po’ scosso.

Non reagì. Mi sarei sorpreso se l’avesse fatto. Aveva detto ciò che era venuta a dire e non intendeva conversare. Ma mi posò la mano sulla fronte in un gesto molto inconsueto, e quando osservò che dopo tutto quel tempo avevo ancora addosso gli indumenti insanguinati della caccia, me ne accorsi anch’io, e compresi che il mio comportamento era innaturale.

Per un po’ mia madre rimase in silenzio.

E mentre guardavo il fuoco, avrei voluto dirle tante cose, in particolare che le volevo molto bene.

Ma ero diffidente. Lei aveva l’abitudine di escludermi quando le parlavo, e al mio amore si mescolava un profondo risentimento nei suoi confronti.

Per tutta la vita l’avevo vista leggere i suoi libri italiani e scrivere lettere a Napoli, la città dov’era cresciuta; tuttavia non aveva mai avuto la pazienza d’insegnare l’alfabeto a me e ai miei fratelli. E non era cambiato nulla, dopo il mio ritorno dal convento. Avevo vent’anni e non sapevo leggere e scrivere altro che poche preghiere e il mio nome. Odiavo i suoi libri, odiavo l’attenzione che lei gli dedicava.

E vagamente odiavo il fatto che soltanto la mia estrema sofferenza poteva ispirarle calore e interesse.

Eppure era stata la mia salvatrice. E non c’era altri che lei. Ed ero stanco d’essere solo, come può esserlo soltanto un giovane.

Adesso era lì, fuori dai confini della sua biblioteca, e la sua attenzione era rivolta a me.

Finalmente mi convinsi che non si sarebbe alzata per andarsene, e mi decisi a parlarle.

«Madre», dissi a voce bassa, «c’è qualcosa di più. Prima che accadesse, c’erano momenti in cui sentivo cose terribili.» La sua espressione non cambiò. «Voglio dire, a volte sogno che potrei ucciderli tutti», dissi. «Uccido i miei fratelli e mio padre, nel sogno. Passo da una stanza all’altra sterminandoli come ho sterminato i lupi. Scopro in me stesso il desiderio di uccidere…»

«Anch’io, figliolo», disse lei. «Anch’io.» Mentre mi guardava, il suo viso s’illuminò di un sorriso stranissimo.

Mi protesi per scrutarla più da vicino. Abbassai la voce. «Vedo me stesso urlare, quando avviene», continuai. «Vedo la mia faccia contratta in smorfie terribili e sento l’urlo che esce dalla mia gola. La mia bocca è atteggiata in una ‘O’ perfetta e ne erompono grida.»

Mia madre annuì con la stessa aria di comprensione, come se una luce le balenasse dietro agli occhi.

«E sulla montagna, madre, mentre combattevo contro i lupi… è stato un po’ così.»

«Soltanto un poco?» chiese.

Annuii.

«Mi sentivo diverso da me stesso mentre uccidevo i lupi. E ora non so chi c’è qui con te… se tuo figlio Lestat oppure l’altro, l’uccisore.»

Mia madre rimase in silenzio a lungo. «No», disse alla fine. «Sei stato tu a uccidere i lupi. Sei il cacciatore, il guerriero. Sei più forte di tutti gli altri che ci sono qui, ed è la tua tragedia.»

Scossi la testa. Era vero, ma non aveva importanza. Non bastava a spiegare un’infelicità tanto grande. Ma a che serviva dirlo?

Per un momento mia madre distolse lo sguardo, poi tornò a volgerlo su di me.

«Ma tu sei molte cose», disse. «Non una cosa sola. Sei l’uccisore e l’uomo. E non cedere all’uccisore che è in te soltanto perché li odi. Non devi addossarti il peso dell’assassinio o della follia per liberarti. Sicuramente dovranno esservi altri modi.»

Quelle ultime due frasi mi colpirono con forza. Mia madre era arrivata al cuore delle cose, e le implicazioni di ciò mi abbagliavano.

Avevo sempre intuito che non avrei potuto essere un buon umano e combatterli. Essere buono significava farmi sconfiggere da loro. A meno che, naturalmente, trovassi un’idea del bene che fosse più interessante.

Restammo in silenzio per qualche istante. Era un’intimità eccezionale persino per noi. Mia madre guardava il fuoco, e si assestava i capelli folti avvolti intorno alla nuca.

«Sai che cosa immagino?» disse, tornando a guardarmi. «Non tanto la loro uccisione, quanto un abbandono che Li ignori completamente. Immagino di bere tanto vino da ubriacarmi e spogliarmi e fare il bagno nuda nei ruscelli di montagna.»

Per poco non risi. Ma era un divertimento sublime. La guardai, incerto: non sapevo se avevo capito bene. Mia madre aveva pronunciato quelle parole e non aveva ancora finito.

«Poi immagino di andare nel villaggio», disse, «e di entrare nella locanda e di portarmi a letto tutti quegli uomini che trovo… uomini rozzi, uomini grandi e grossi, vecchi, ragazzi. Immagino di stare lì a prenderli uno dopo l’altro, e di provare un magnifico senso di trionfo, uno sfogo assoluto senza pensare a ciò che può accadere a tuo padre e ai tuoi fratelli, senza curarmi se sono vivi o morti. In quel momento sono esclusivamente me stessa. Non appartengo a nessuno.»

Ero troppo sorpreso e scandalizzato per parlare. Ma era terribilmente spassoso anche questo. Quando pensavo a mio padre e ai miei fratelli e ai pomposi bottegai del villaggio e al modo in cui avrebbero reagito a una cosa del genere, mi divertivo un mondo.

Se non risi, fu con ogni probabilità perché l’immagine di mia madre nuda mi fece pensare che non dovevo farlo. Ma non riuscii a restare in silenzio; ridacchiai e mia madre annuì, con un accenno di sorriso. Inarcò le sopracciglia come per dire: «Noi due ci comprendiamo».

Finalmente scoppiai in una risata scrosciante. Battei il pugno sul ginocchio e la fronte contro la testata del letto. Anche mia madre sembrava sul punto di ridere. Forse rideva in quel suo modo silenzioso.

Fu un momento bizzarro. Un senso quasi brutale di lei come essere umano, distaccato da tutto ciò che la circondava. Ci comprendevamo e tutto il mio risentimento verso di lei non aveva molta importanza.

Mia madre si tolse lo spillone dai capelli e lasciò che le ricadessero sciolti sulle spalle.

Poi restammo in silenzio, immobili, per circa un’ora. Niente più risate o parole; soltanto il fuoco che divampava, e mia madre vicina a me.

S’era voltata per guardare il fuoco. Il suo profilo, la delicatezza del naso e delle labbra erano ammirevoli. Poi tornò a girarsi verso di me e con la stessa voce ferma, priva di eccessive emozioni, disse:

«Non me ne andrò mai di qui. Sto morendo.»

Rimasi stordito. Il piccolo shock di poco prima era niente, al confronto.

«Vivrò ancora questa primavera», continuò. «E forse anche l’estate. Ma non sopravvivrò a un altro inverno. Lo so. Il dolore ai polmoni è troppo forte.»

Mi lasciai sfuggire un gemito d’angoscia. Mi tesi verso di lei, credo, e dissi: «Madre!»

«Non parlare più», disse lei.

Credo che detestasse essere chiamata madre; ma non ero riuscito a trattenermi.

«Volevo solo parlare a un’altra anima», disse. «Sentirlo mentre lo dicevo ad alta voce. Mi fa orrore. Ho paura.»

Avrei voluto prenderle le mani, ma sapevo che non l’avrebbe permesso. Detestava farsi toccare. Non abbracciava mai nessuno. Perciò ci limitammo a guardarci. I miei occhi si riempirono di lacrime mentre la guardavo.

Mi accarezzò la mano.

«Non pensarci molto», disse. «Io non ci penso. Solo ogni tanto. Ma devi prepararti a vivere senza di me, quando verrà il momento. Potrebbe essere più difficile di quanto immagini.»

Cercai di dire qualcosa, ma non trovai le parole.

Mi lasciò com’era venuta: in silenzio.

E, sebbene non avesse detto nulla dei miei indumenti e della mia barba e del mio aspetto orribile, mi mandò i servitori con abiti puliti e il rasoio e l’acqua calda. In silenzio, lasciai che si prendessero cura di me.

3.

Incominciavo a sentirmi un po’ più forte. Smisi di pensare a ciò che era accaduto con i lupi e pensai a mia madre.

Pensavo alle parole «Mi fa orrore», e non sapevo come interpretarle, ma sembravano vere. Mi sarei sentito così anch’io, se mi fossi avviato lentamente alla morte. Sarebbe stato meglio finire sulla montagna, ucciso dai lupi.

Ma c’era qualcosa di più. Mia madre era sempre stata silenziosamente infelice. Odiava l’inerzia e l’apatia della nostra vita, come le odiavo io. E adesso, dopo otto figli, tre vivi e cinque morti, stava morendo anche lei. Era la fine.

Decisi di alzarmi, se questo poteva servire a farla sentire meglio, ma quando tentai non ci riuscii. Il pensiero che mia madre stesse per morire era insopportabile. Camminavo avanti e indietro nella mia stanza, mangiavo i pasti che mi portavano ma non andavo da lei.

Alla fine del mese arrivarono alcuni visitatori che mi tirarono fuori.

Mia madre venne a dirmi che dovevo ricevere i mercanti del villaggio. Volevano ringraziarmi perché avevo ucciso i lupi.

«Oh, al diavolo», risposi.

«No, devi scendere», disse lei. «Hanno doni per te. Fa’ il tuo dovere.»

Detestavo tutto quanto.

Scesi nella sala e trovai i bottegai; li conoscevo bene, e tutti s’erano vestiti in gran pompa per l’occasione.

Ma tra loro c’era un giovane che non riconobbi immediatamente.

Aveva all’incirca la mia età ed era molto alto. Quando i nostri occhi s’incontrarono, ricordai chi era: Nicolas de Lenfent, il figlio maggiore del mercante di stoffe, che era stato a studiare a Parigi.

Adesso era uno splendore.

Aveva una splendida giacca dì broccato rosa e oro, scarpe con i tacchi dorati, e una quantità di pizzi italiani al collo. Soltanto i capelli erano gli stessi di un tempo, scuri e ricciuti, e gli davano una strana aria infantile sebbene fossero trattenuti sulla nuca da un bel nastro di seta.

La moda parigina… che passava con tutta la velocità possibile dalla locale stazione di posta.

E io ero lì a riceverlo con i miei indumenti di lana e gli stivali sciupati e i pizzi ingialliti che erano stati rammendati almeno diciassette volte.

Ci scambiammo un inchino, dato che apparentemente era il portavoce della cittadinanza; quindi tolse il modesto drappo di sargia nera che copriva un grande mantello di velluto rosso foderato di pelliccia. Un indumento magnifico. Gli brillavano gli occhi mentre mi guardava. Sembrava che stesse contemplando un sovrano.

«Monsieur, vi preghiamo di accettarlo», disse sinceramente. «La pelliccia più bella dei lupi è stata usata per foderarlo; abbiamo pensato che vi sarà utile d’inverno, questo manto, quando andrete a caccia.»

«E anche questi, Monsieur», sopraggiunse suo padre, mostrando uno splendido paio di stivali di nappa nera foderati di pelliccia. «Per la caccia, Monsieur.»

Mi sentivo un po’ frastornato. Compivano quei gesti con le migliori intenzioni; possedevano una ricchezza che io potevo soltanto sognare, e mi rendevano omaggio perché ero l’aristocratico.

Accettai il mantello e gli stivali. Li ringraziai sentitamente.

E alle mie spalle udii mio fratello Augustin dire: «Adesso diventerà assolutamente impossibile!»

Mi sentii avvampare. Era scandaloso che parlasse così in presenza di quegli uomini; ma quando lanciai un’occhiata a Nicolas de Lenfent, scorsi sul suo volto l’espressione più affettuosa.

«Anch’io sono impossibile, Monsieur», mi bisbigliò mentre lo salutavo con un bacio. «Un giorno mi permetterete di venire a parlarvi e mi direte come li avete uccisi tutti? Solo l’impossibile può compiere l’impossibile.»

Nessuno dei mercanti mi parlava mai così. Per un momento ridiventammo ragazzi. Risi sonoramente. Suo padre restò perplesso. I miei fratelli smisero di parlottare, ma Nicolas de Lenfent continuò a sorridere con compostezza parigina.


Appena se ne furono andati, portai il mantello di velluto rosso e gli stivali di nappa nella camera di mia madre.

Leggeva come sempre, mentre si spazzolava pigramente i capelli. Nella luce debole del sole che entrava dalla finestra, vidi per la prima volta tra i suoi capelli qualche filo grigio. Le riferii ciò che mi aveva detto Nicolas de Lenfent.

«Perché è impossibile?» le chiesi. «L’ha detto con enfasi, come se significasse qualcosa.»

Mia madre rise.

«Certo, significa qualcosa», disse. «È in disgrazia.» Per un momento smise di guardare il libro e si rivolse a me. «Sai che per tutta la vita è stato educato per diventare l’imitazione di un aristocratico. Ebbene, quando ha incominciato a studiare legge a Parigi si è innamorato pazzamente del violino, immagina! A quanto pare ha sentito un virtuoso italiano, uno di quei geni di Padova, così grande che secondo la gente ha venduto l’anima al diavolo. Bene, Nicolas ha abbandonato subito tutto per prendere lezioni da Wolfgang Mozart. Si è venduto i libri. Non ha fatto altro che suonare e suonare e alla fine è stato bocciato agli esami. Vuol diventare musicista. Riesci a immaginarlo?»

«E il padre è fuori di sé.»

«Appunto. Gli ha persino fracassato lo strumento, e sai cosa significa per il nostro bravo mercante un oggetto costoso.»

Sorrisi.

«Quindi ora Nicolas non ha un violino?»

«Ce l’ha. È scappato a Clermont e si è venduto l’orologio per comprarne un altro. È davvero impossibile; e il peggio è che suona piuttosto bene.»

«Lo hai sentito?»

Mia madre sapeva riconoscere la buona musica. Era cresciuta a Napoli. Io non avevo mai sentito altro che il coro della chiesa e i suonatori alle fiere.

«L’ho sentito domenica quando sono andata a messa», disse lei. «Suonava nella stanza da letto sopra la bottega. Potevano ascoltarlo tutti, e il padre minacciava di fracassargli le mani.»

Trasalii di fronte a tanta crudeltà. Ero affascinato! Lo amavo già, credo, perché faceva ciò che tanto desiderava.

«Naturalmente non concluderà mai nulla», continuò mia madre.

«Perché?»

«È troppo vecchio. Non si può incominciare a suonare il violino a vent’anni. Ma cosa ne so? A modo suo suona in modo magico. E forse potrà vendere l’anima al diavolo.»

Risi, un po’ impacciato. Mi sembrava magia.

«Ma perché non scendi in paese e non te lo fai amico?» chiese mia madre.

«Perché diavolo dovrei farlo?» chiesi io.

«Davvero, Lestat! Ai tuoi fratelli dispiacerà. E il vecchio mercante ne sarà felice. Suo figlio e il figlio del marchese.»

«Non sono ragioni sufficienti.»

«È stato a Parigi», disse lei. Mi fissò a lungo. Poi tornò a leggere il libro e a spazzolarsi pigramente i capelli.

La guardai leggere. Non lo sopportavo. Volevo chiederle come stava, e se la tosse l’aveva tormentata quel giorno. Ma non potevo affrontare quell’argomento.

«Vai a parlargli, Lestat», mi disse, senza rivolgermi più un’occhiata.

4.

Trascorse una settimana prima che mi decidessi a cercare Nicolas de Lenfent.

Misi il mantello di velluto rosso foderato di pelliccia e gli stivali di nappa e scesi la strada principale del villaggio, verso la locanda.

La bottega del padre di Nicolas era proprio di fronte, ma non vidi il giovane e non lo sentii.

Avevo appena il denaro sufficiente per un bicchiere di vino, e non sapevo come comportarmi quando il taverniere uscì, s’inchinò e mi mise davanti una bottiglia della sua annata migliore.

Naturalmente, in paese mi avevano sempre trattato come il figlio del signore. Ma vedevo che le cose erano cambiate a causa dei lupi; e stranamente questo mi faceva sentire ancora più solo.

Non appena versai il primo bicchiere, però, comparve Nicolas, in uno sfolgorio di colori, sulla soglia.

Era vestito meno lussuosamente dell’altra volta, grazie al cielo: ma in lui tutto irradiava ricchezza. Seta e velluto e cuoio nuovissimo.

Ma era affannato come se avesse corso, e i suoi capelli erano scomposti dal vento, gli occhi pieni d’eccitazione. S’inchinò, attese che l’invitassi a sedere e poi mi chiese:

«Cosa avete provato, Monsieur, quando avete ucciso i lupi?» Appoggiò le braccia sul tavolo e mi fissò.

«Perché non mi dite come vi siete trovato a Parigi, Monsieur?» ribattei io, e subito mi resi conto che la mia risposta doveva apparire irridente e scortese. «Scusate», dissi. «Davvero, mi piacerebbe saperlo. Andavate all’università? Studiavate con Mozart? Che cosa fa la gente a Parigi? Di che cosa parla? Che cosa pensa?»

Rise sommessamente alle mie domande. Anch’io dovetti ridere. Feci segno di portare un altro bicchiere e spinsi la bottiglia verso di lui. «Ditemi», chiesi, «a Parigi andavate a teatro? Avete visto la Comédie-Francaise?»

«Molte volte», mi rispose lui con una certa indifferenza. «Ma ascoltate; la diligenza arriverà da un momento all’altro e ci sarà molto chiasso. Concedetemi l’onore di offrirvi il pranzo in una saletta privata al piano di sopra. Mi farebbe molto piacere…»

E, prima che potessi protestare con garbo, ordinò tutto. Fummo accompagnati in una saletta un po’ rudimentale ma confortevole.

Non ero entrato quasi mai in una piccola stanza dalle pareti di legno, e mi piacque a prima vista. La tavola era apparecchiata per il pranzo, il fuoco dava veramente calore a differenza di quelli che ruggivano nel castello, e il vetro spesso della finestra era abbastanza pulito da permettermi di vedere l’azzurro cielo invernale sopra i monti coperti di neve.

«Ora vi dirò tutto ciò che desiderate sapere di Parigi», disse cortesemente Nicolas mentre attendeva che sedessi per primo. «Sì, andavo all’università.» Fece una smorfia, come se la considerasse una cosa trascurabile. «E ho studiato con Mozart, il quale mi avrebbe detto che non avevo speranze di riuscita se non avesse avuto tanto bisogno di allievi. Dunque, da dove volete che cominci? Dal lezzo della città o dal suo fracasso infernale? Dalle folle affamate che vi circondano dovunque? Dai ladri che sono pronti a tagliarvi la gola in ogni vicolo?»

Feci un gesto di diniego. Il suo sorriso era molto diverso dal tono, i suoi modi erano aperti e piacevoli.

«Un teatro parigino veramente grande…» dissi io. «Descrivetemelo… com’è?»


Rimanemmo in quella stanza, credo, per quattro ore consecutive, e non facemmo altro che bere e parlare.

Nicolas disegnò le piante dei teatri sul piano del tavolo con l’indice bagnato, mi parlò delle rappresentazioni cui aveva assistito, degli attori famosi, delle casette sui boulevard. Poi cominciò a descrivere tutta Parigi e mise da parte il cinismo; la mia curiosità lo infiammava mentre parlava dell’Ile de la Cité, del Quartiere Latino, della Sorbona, del Louvre.

Passammo ad argomenti più astratti: il modo in cui i giornali riferivano gli avvenimenti, le discussioni dei suoi amici studenti nei caffè. Mi disse che molti erano inquieti e disamorati della monarchia: volevano un cambiamento di governo e non erano disposti a pazientare a lungo. Mi parlò dei filosofi, Diderot, Voltaire, Rousseau.

Non capivo tutto ciò che diceva. Ma con i suoi discorsi rapidi e a volte sarcastici mi diede un quadro meravigliosamente completo di ciò che stava accadendo.

Naturalmente non mi sorprese sentire che la gente istruita non credeva in Dio e s’interessava assai più alla scienza, che l’aristocrazia non era per nulla benvoluta, e così pure la Chiesa. Erano i tempi della ragione, non della superstizione, e più Nicolas parlava, più lo comprendevo.

Cominciò a riassumermi l’Encyclopédie, la grande compilazione della conoscenza umana pubblicata sotto la supervisione di Diderot. Poi parlò dei salotti che aveva frequentato, delle bevute, delle serate trascorse con le attrici; descrisse i balli pubblici al Palais Royal, dove Maria Antonietta compariva assieme alla gente comune.

«Vi dirò», concluse, «a parlarne sembra tutto assai meglio di quanto sia in realtà.»

«Non vi credo», dissi gentilmente. Non volevo che smettesse di parlare; volevo che continuasse all’infinito.

«È un’epoca laica, Monsieur», disse Nicolas mentre riempiva i bicchieri con un’altra bottiglia di vino. «Molto pericolosa.»

«Perché è pericolosa?» mormorai. «La fine della superstizione? Che cosa può esservi di meglio?»

«Avete parlato da vero esponente del secolo decimottavo, Monsieur», disse con un sorriso lievemente malinconico. «Ma nessuno apprezza più qualcosa. Conta soltanto la moda, ed è una moda anche l’ateismo.»

Avevo sempre avuto una mentalità laica, ma non per motivi filosofici. Nella mia famiglia nessuno credeva molto in Dio. Naturalmente affermavano di credere; e andavamo a messa. Ma era un dovere. La vera religione si era estinta da molto tempo nella nostra famiglia, come in quelle di migliaia di aristocratici, forse. Persino nel convento, non avevo creduto in Dio. Avevo creduto nei frati che mi stavano intorno.

Cercai di spiegarlo in un linguaggio semplice che non offendesse Nicolas, perché per la sua famiglia era diverso.

Persino suo padre, avido arraffatore di denaro (e lo ammiravo in segreto) era fervidamente religioso.

«Ma gli uomini possono vivere senza la fede?» chiese Nicolas in tono quasi triste. «Senza di essa, i giovani possono affrontare il mondo?»

Cominciavo a comprendere perché era così sarcastico e cinico. Aveva perduto la fede di recente, ed era amareggiato.

Ma, per quanto il suo sarcasmo fosse soffocante, irradiava una grande energia, una passione insopprimibile. E questo mi attirava verso di lui. Lo amavo, credo. Ancora due bicchieri di vino, e sarei stato capace di dire qualcosa di assolutamente ridicolo.

«Io ho sempre vissuto senza fede», dissi.

«Sì, lo so», mi rispose. «Ricordate la storia delle streghe? La volta che piangeste nel luogo delle streghe?»

«Piansi per le streghe?» Lo guardai per un momento senza comprendere. Ma le sue parole rievocavano qualcosa di doloroso e di umiliante. Troppi miei ricordi avevano quella caratteristica. E adesso dovevo ricordare di aver pianto per le streghe. «Non lo rammento», risposi.

«Eravamo bambini. E il prete ci insegnava le preghiere. Ci portò a vedere il posto dove anticamente bruciavano le streghe, i vecchi pali e il terreno annerito.»

«Ah, quel posto.» Rabbrividii. «Quel posto orribile, orribile.»

«Voi cominciaste a urlare e a piangere. Dovettero mandare qualcuno a chiamare la marchesa perché la vostra bambinaia non riusciva a calmarvi.»

«Ero un bambino difficile», dissi, cercando di non dare importanza alla cosa. Naturalmente, adesso ricordavo… avevo urlato, mi avevano portato a casa, avevo avuto incubi dei roghi. Qualcuno mi aveva bagnato la fronte e aveva detto: «Lestat, svegliati».

Ma da anni non pensavo a quell’episodio. Era il posto cui pensavo ogni volta che passavo nei dintorni… la selva di pali anneriti, le immagini degli uomini, delle donne e dei bambini bruciati vivi.

Nicolas mi stava studiando. «Quando vostra madre venne a prendervi, disse che era tutto frutto di ignoranza e crudeltà. Era indignata con il prete perché ci aveva raccontato quelle vecchie storie.»

Annuii.

L’orrore finale era stato sentire che erano morti tutti per nulla, quegli abitanti ormai dimenticati del nostro villaggio, che erano innocenti. «Vittime della superstizione», aveva detto mia madre. «Quelle non erano streghe.» Non era sorprendente che avessi urlato tanto.

«Ma mia madre», continuò Nicolas, «raccontava una storia diversa: le streghe erano in combutta con il diavolo, rovinavano i raccolti e, sotto l’aspetto di lupi, uccidevano le pecore e i bambini…»

«E il mondo non sarebbe migliore, se nessuno venisse più bruciato in nome di Dio?» chiesi. «Se non ci fosse più una fede in Dio che spinge gli uomini a fare simili cose ad altri uomini? Qual è il pericolo in un mondo laico, dove questi orrori non accadono?»

Nicolas si tese verso di me con un sorrisetto malizioso.

«I lupi non vi hanno ferito sulla montagna, non è vero?» chiese scherzosamente. «Non siete diventato un lupo mannaro, Monsieur, all’insaputa di tutti noi?» Accarezzò il bordo di pelliccia del mantello di velluto che portavo ancora sulle spalle. «Ricordate cosa diceva il buon prete? A quei tempi avevano bruciato parecchi lupi marinari. Erano un pericolo continuo.»

Risi.

«Se mi trasformerò in un lupo», risposi, «posso assicurarvi che non rimarrò qui a uccidere i bambini. Lascerò questo miserabile villaggio dove terrorizzano ancora i bimbi parlando dei roghi delle streghe. Mi metterò sulla strada per Parigi e non mi fermerò fino a che non ne vedrò i bastioni.»

«Ah, e giudicherete Parigi un posto miserabile», disse Nicolas, «dove spezzano le ossa dei ladri sulla ruota, per la soddisfazione del volgo, in Place de Grève.»

«No», dissi io. «Vedrò una città splendida dove grandi idee nascono nella mente della popolazione, idee che si diffondono e illuminano gli angoli più bui di questo mondo.»

«Ah, siete un sognatore!» esclamò. Ma era contento. Ed era bellissimo quando sorrideva.

«E conoscerò altri come voi», continuai, «che hanno pensieri nella mente e lingue svelte per esporli, e siederemo nei caffè e berremo insieme, e ci scontreremo con violenza a parole, e parleremo per il resto della nostra vita in uno stato di eccitazione divina.»

Nicolas si tese, mi passò il braccio intorno al collo e mi baciò. Per poco non rovesciammo la tavola. Eravamo beatamente ubriachi.

«Il mio signore, l’Uccisore di Lupi», bisbigliò.

Quando arrivò la terza bottiglia di vino cominciai a parlare della mia vita come non avevo mai fatto… di ciò che provavo quando mi addentravo ogni giorno tra i monti e andavo lontano per non vedere più le torri del castello di mio padre, lontano dalle terre coltivate, fin là dove la foresta sembrava quasi stregata.

Le parole cominciarono a uscirmi dalle labbra con la stessa facilità con cui erano uscite dalla bocca di Nicolas, e presto parlammo di mille cose che avevamo sentito nei nostri cuori, diverse varietà di segreta solitudine, e le parole sembravano essenziali come lo erano in quelle rare occasioni con mia madre. E quando passammo a descrivere i nostri desideri e le nostre insoddisfazioni, ci scambiammo con grande esuberanza espressioni quali «Sì, sì» ed «Esattamente» e «So molto bene che cosa intendete» e «Sì, naturalmente, avete capito che non potevate sopportarlo…» e così via.

Un’altra bottiglia e un nuovo fuoco. E pregai Nicolas di suonare il violino per me. Si precipitò a casa a prenderlo.

Era ormai pomeriggio inoltrato. Il sole filtrava di sbieco dalla finestra e il fuoco era molto caldo. Eravamo ubriachi. Non avevamo ordinato il pranzo. Ero più felice, credo, di quanto lo fossi mai stato in tutta la mia vita. Mi sdraiai sullo scomodo materasso di paglia del lettuccio, con le mani dietro la testa, e lo guardai mentre estraeva lo strumento.

Si appoggiò il violino alla spalla e cominciò a pizzicare le corde e a regolare i bischeri.

Poi alzò l’archetto e l’abbassò con forza sulle corde per trame la prima nota.

Mi sollevai a sedere, mi appoggiai ai pannelli della parete e lo fissai, perché non riuscivo a credere al suono che ascoltavo.

Nicolas proruppe nel canto. Strappava le note al violino, e ogni nota era trasparente e palpitante. Teneva gli occhi chiusi, la bocca un po’ storta, il labbro inferiore teso da una parte; e a colpirmi il cuore quasi come il canto fu il modo in cui sembrava protendersi nella musica con tutto il corpo e premere l’anima contro lo strumento come vi premeva l’orecchio.

Non avevo mai conosciuto una musica simile: la violenza, l’intensità, i torrenti rapidi e scintillanti di note che uscivano dalle corde. Suonava Mozart; e aveva tutta la gaiezza, la velocità e l’incanto delle opere mozartiane.

Quando ebbe finito lo fissai, stringendomi la testa fra le mani.

«Monsieur, cosa succede?» chiese Nicolas. Mi alzai e lo abbracciai e lo baciai sulle guance e baciai il violino.

«Smetti di chiamarmi Monsieur», dissi. «Chiamami per nome.» Mi riadagiai sul letto, nascosi il viso contro il braccio e cominciai a piangere, incapace di trattenermi.

Mi sedette accanto e mi abbracciò e chiese perché piangevo; e, sebbene non potessi dirglielo, capivo che era sbalordito nel vedere che la sua musica aveva prodotto un simile effetto. In lui non c’erano più sarcasmo né amarezza.

Fu lui a portarmi a casa quella notte, credo.

E l’indomani mattina andai nella via tortuosa davanti alla bottega di suo padre, e lanciai sassolini contro la sua finestra.

Quando si affacciò, gli dissi:

«Vuoi scendere a continuare la nostra conversazione?»

5.

Da quel giorno, quando non ero a caccia, la mia vita fu imperniata su Nicolas e la «nostra conversazione».

Si avvicinava la primavera, le montagne si screziavano di verde, il meleto riprendeva vita. E io e Nicolas eravamo sempre insieme.

Facevamo lunghe passeggiate sui pendii rocciosi, consumavamo pane e vino seduti sull’erba sotto il sole, vagavamo a sud tra le rovine di un vecchio monastero. Oziavamo nelle mie stanze e a volte salivamo sugli spalti. E tornavamo alla nostra camera nella locanda quando eravamo troppo ubriachi e chiassosi perché gli altri ci sopportassero.

Con il passare delle settimane rivelammo sempre di più l’uno all’altro gli aspetti delle nostre personalità. Nicolas mi parlò della sua infanzia a scuola, delle piccole delusioni dei primi anni, di coloro che aveva conosciuto e amato.

E io incominciai a confidargli le cose dolorose… e la vergogna della mia fuga con i comici italiani.

Avvenne una notte quando eravamo alla locanda, ubriachi come al solito. Eravamo in quella fase d’ubriachezza che noi chiamavamo Momento Aureo, in cui tutto aveva un senso. Cercavamo sempre di prolungarlo, ma poi inevitabilmente uno di noi confessava: «Non riesco più a seguirti, credo che il Momento Aureo sia passato.»

Quella notte, mentre guardavo dalla finestra la luna sulle montagne, dissi che nel Momento Aureo era tanto terribile che non fossimo a Parigi, che non fossimo all’Opera o alla Comédie in attesa del levarsi del sipario.

«Tu e i teatri parigini!» esclamò Nicolas. «Di qualunque cosa stiamo parlando, torni sempre ai teatri e agli attori…»

Gli occhi castani erano grandi, fiduciosi. E, sebbene fosse ubriaco, era impeccabile nella giacca parigina di velluto rosso.

«Attori è attrici operano la magia», dissi. «Fanno accadere tante cose sul palcoscenico. Inventano. Creano.»

«Aspetta di vedere il sudore che gronda sulle loro facce dipinte, nel calore delle luci della ribalta», mi rispose.

«Ah, ecco che ricominci», dissi. «Proprio tu che hai rinunciato a tutto per il violino.»

Assunse un’espressione molto seria e distolse gli occhi come se fosse stanco di lottare.

«È vero», confessò.

Ormai tutti, nel villaggio, conoscevano la guerra tra lui e il padre. Nicki non voleva tornare all’università a Parigi.

«Quando suoni, crei la vita», dissi. «Crei qualcosa dal nulla. Fai accadere qualcosa di buono. Per me è una benedizione.»

«Faccio musica e questo mi rende felice», disse lui. «Cosa c’è di buono o di benedetto in tutto questo?»

Agitai la mano per rifiutare il suo cinismo. «Vivo da tanti anni tra coloro che non creano nulla e non cambiano nulla», dissi. «Gli attori e i musicisti… per me sono santi.»

«Santi?» mi chiese. «Benedizione? Bene? Lestat, il tuo linguaggio mi confonde.»

Sorrisi e scossi la testa. «Non capisci. Io parlo dei caratteri degli esseri umani, non di ciò in cui credono. Parlo di coloro che non accettano una menzogna inutile solo perché vi sono nati in mezzo. Parlo di coloro che vorrebbero essere qualcosa di meglio. Lavorano, si sacrificano, agiscono…»

Nicolas ne fu toccato, e io mi sorpresi di averlo detto. Tuttavia sentivo di averlo un po’ ferito.

«È una benedizione», dissi. «Una santità. E poi, Dio o non Dio, questo è anche il bene. Lo so come so che là ci sono le montagne e che le stelle brillano.»

Sembrava rattristarsi per me. E sembrava ancora ferito. Ma per il momento non pensavo a lui.

Pensavo alla conversazione con mia madre e riflettevo sul fatto che non potevo essere buono e sfidare al tempo stesso la mia famiglia. Ma se credevo a ciò che stavo dicendo…

Come se mi leggesse nella mente, Nicolas domandò: «Ma credi davvero a queste cose?»

«Forse sì. Forse no», risposi. Non sopportavo di vederlo tanto triste.

E, più per questo che per altro, gli raccontai la mia fuga con i comici, gli dissi ciò che non avevo mai detto a nessuno, neppure a mia madre, a proposito di quei pochi giorni e della felicità che mi avevano dato.

«Ora, com’è possibile che non fosse bene dare e ricevere tanta felicità?» chiesi. «Quando mettemmo in scena la commedia, portammo la vita in quella cittadina. Magia, ti assicuro. Potrebbe risanare i malati, addirittura.»

Scosse la testa. Sapevo che avrebbe voluto dire certe cose, ma che taceva per riguardo a me. «Non capisci, vero?» chiesi.

«Lestat, il peccato ha sempre la parvenza del bene», mi rispose con aria seria. «Non capisci? Perché credi che la Chiesa abbia sempre condannato il teatro? È disceso da Dioniso, il dio del vino. Puoi leggerlo in Aristotele. E Dioniso era un dio che spingeva gli uomini agli stravizi. A te sembrava bene essere su quel palcoscenico perché era una cosa scatenata e illecita, l’antica riverenza al dio del vino, e ti divertivi a sfidare tuo padre…»

«No, Nicki. No, mille volte no.»

«Lestat, siamo complici nel peccato», mi disse sorridendo. «Lo siamo sempre stati. Tutti e due ci siamo comportati male, siamo riprovevoli. È questo che ci lega.»

Adesso era il mio turno di apparire triste e ferito. E il Momento Aureo era passato irreparabilmente… a meno che accadesse qualcosa di nuovo.

«Sì», dissi all’improvviso. «Prendi il tuo violino e andiamo nella foresta, dove la musica non sveglierà nessuno. Vedremo se non esprime il bene.»

«Sei pazzo», disse lui. Ma prese la bottiglia non ancora stappata e si avviò alla porta.

Lo seguii.

Quando uscì da casa sua con il violino, disse: «Andiamo nel luogo delle streghe! Guarda, c’è la mezzaluna. La luce non manca. Eseguiremo la danza del diavolo e suoneremo per gli spiriti delle streghe.»

Risi. Dovevo essere ubriaco per acconsentire. «Riconsacreremo quel posto», insistetti, «con la musica buona e pura.»

Erano molti anni che non andavo nel luogo delle streghe.

La luna era abbastanza fulgida per consentirci di vedere i pali carbonizzati disposti in un cerchio macabro e il suolo dove non cresceva nulla, neppure un secolo dopo i roghi. Gli alberelli nuovi della foresta si tenevano a distanza. Il vento batteva la radura e in alto, sul pendio roccioso, il villaggio stava annidato nell’oscurità.

Un brivido mi sfiorò; ma era soltanto l’ombra dell’angoscia che avevo provato da bambino quando avevo sentito quelle parole orribili, «bruciati vivi», e avevo immaginato la sofferenza.

I pizzi bianchi di Nicki spiccavano alla luce lunare. Attaccò subito una canzone zingaresca e continuò a danzare in cerchio mentre la suonava.

Sedetti su un grosso ceppo bruciato e mi attaccai alla bottiglia. E mi assalì la sensazione straziante che accompagnava sempre la musica. Quale peccato più grande, pensai, di vivere tutta la mia vita in quel posto orrendo? Ben presto cominciai a piangere in silenzio.

Benché sembrasse che la musica non si fosse mai interrotta, Nicki mi stava confortando. Eravamo seduti a fianco a fianco e mi diceva che il mondo era pieno di iniquità e che io e lui eravamo prigionieri di quell’angolo della Francia e un giorno ne saremmo evasi. E io pensavo a mia madre, lassù nel castello, e la tristezza diventava insopportabile. Poi Nicki riprese a suonare e mi disse di ballare e di dimenticare tutto.

Sì, ecco cosa può indurti a fare la musica, avrei voluto dire. È peccato? Come può essere male? Lo seguii mentre ballava in cerchio. Le note parevano involarsi dal violino come se fossero d’oro. Sembrava di vederle lampeggiare. Ballai in tondo con lui, e Nicki suonò una musica più profonda e convulsa. Allargai il mantello foderato di pelliccia e rovesciai la testa per guardare la luna. La musica saliva intorno a me come fumo, e il luogo delle streghe non esisteva più. C’era soltanto il cielo che s’inarcava sopra le montagne.

Questo ci rese ancora più vicini nei giorni che seguirono.


Ma qualche sera più tardi accadde qualcosa di straordinario.

Era tardi. Eravamo nella locanda e Nicolas, che si aggirava per la stanza e gesticolava in maniera teatrale, proclamò ciò che avevamo sempre avuto nella mente.

Dovevamo fuggire a Parigi anche se eravamo squattrinati, perché sarebbe stato sempre meglio che rimanere lì. Anche a costo di vivere a Parigi come mendicanti! Sì, sarebbe stato comunque meglio.

Naturalmente, da diverso tempo quella decisione si agitava in noi.

«Be’, dovremmo fare gli accattoni per le strade, Nicki», dissi. «Che io sia dannato se farò il povero cugino di campagna che va a mendicare nelle grandi case.»

«Credi che voglia vederti far questo?» chiese lui. «Io parlo di fuggire, Lestat. In spregio a tutti, tutti quanti.»

Volevo continuare così? I nostri padri ci avrebbero maledetti. Dopotutto, lì la nostra vita non aveva significato.

Naturalmente, sapevamo entrambi che fuggire insieme sarebbe stato mille volte più serio di ciò che avevamo fatto in precedenza. Non eravamo più ragazzi: eravamo uomini. I nostri padri ci avrebbero maledetti, e nessuno dei due poteva ridere di quella prospettiva.

Ed eravamo abbastanza adulti per sapere cosa significava la miseria.

«Che cosa farò a Parigi quando avremo fame?» chiesi. «Sparerò ai ratti per mangiarli?»

«Se sarà necessario, suonerò il violino sul Boulevard du Temple, e tu potrai andare a teatro!» Ora Nicki mi sfidava. Stava dicendo: Sai soltanto parlare, Lestat? «Con il tuo aspetto, sai, arriverai molto presto sul palcoscenico in Boulevard du Temple.»

Apprezzavo quel cambiamento nella «nostra conversazione»: mi piaceva vederlo credere che avremmo potuto farlo. Tutto il suo cinismo era svanito, sebbene il termine «dispregio» venisse pronunciato ogni dieci parole. All’improvviso sembrava possibile fare tutto.

E la convinzione dell’assenza di un significato nelle nostre vite cominciò a infiammarci.

Tornai ad affermare che musica e recitazione erano il bene perché respingevano il caos. Il caos era l’insignificanza della vita quotidiana; e, se fossimo morti in quel momento, le nostre vite sarebbero state prive di significato. Anzi, pensai che era privo di significato anche il fatto che mia madre sarebbe morta presto, e confidai a Nicolas ciò che aveva detto: «Mi fa orrore. Ho paura».

Ecco, se nella stanza c’era stato un Momento Aureo, adesso era svanito. E incominciò ad accadere qualcosa di diverso.

Dovrei chiamarlo Momento Tenebroso, pur se era vibrante e pieno d’una luce strana. Parlavamo rapidamente e imprecavamo contro l’insignificanza, e quando infine Nicolas sedette e si prese la testa fra le mani, bevvi qualche sorso di vino e cominciai a camminare e a gesticolare come aveva fatto lui fino a poco prima.

E compresi, mentre lo dicevo, che anche quando si muore con ogni probabilità non si scopre perché siamo stati vivi. Persino l’ateo più incallito deve pensare che troverà una risposta nella morte. Voglio dire, scoprirà che Dio c’è o che non c’è nulla.

«Ma è proprio così», esclamai. «In quel momento non facciamo nessuna scoperta! Smettiamo di esistere. Passiamo all’inesistenza senza sapere nulla.» Vedevo l’universo, il sole, i pianeti e le stelle, e la notte nera che si protrae in eterno. Cominciai a ridere. «Te ne rendi conto! Non sapremo mai perché diavolo è successo, neppure quando finirà!» gridai a Nicolas, che era seduto sul letto e annuiva e tracannava il vino. «Moriremo e non sapremo nulla. Non sapremo mai, e questa assenza di significato continuerà per sempre e noi non ne saremo più testimoni. Non avremo neppure il potere di dargli un significato nelle nostre menti. Saremo morti, morti, morti, senza mai sapere!»

Ma avevo smesso di ridere. Rimasi immobile e compresi perfettamente ciò che stavo dicendo.

Non c’era un Giorno del Giudizio, una spiegazione finale, un momento luminoso in cui i torti terribili sarebbero stati riparati, gli orrori riscattati.

Le streghe arse sul rogo non sarebbero mai state vendicate.

Nessuno ci avrebbe mai detto nulla!

No, in quel momento non lo capivo. Lo vedevo! Esclamai «Oh!» e ripetei «Oh!» sempre più forte, e lasciai cadere sul pavimento la bottiglia di vino. Mi portai le mani alla testa e continuai a ripeterlo, e vidi la mia bocca aperta in quel cerchio perfetto che avevo descritto a mia madre: «Oh, oh, oh!»

Lo dicevo come se fosse un grande singulto che non potevo arrestare. Nicolas mi afferrò e mi scosse esclamando:

«Lestat, smetti!»

Non potevo smettere. Corsi alla finestra, l’aprii e guardai le stelle. Non ne sopportavo la vista. Non sopportavo la vista del vuoto puro e il silenzio, l’assenza assoluta di ogni risposta; cominciai a ruggire mentre Nicolas mi tirava indietro e richiudeva la finestra.

«Ti passerà», disse più volte. Qualcuno bussava alla porta. Era il locandiere: voleva sapere perché ci comportavamo in quel modo.

«Domattina starai benone», continuava a insistere Nicolas. «Basta che ci dorma sopra.»

Avevamo svegliato tutti. Non riuscivo a star zitto. Ripetevo sempre lo stesso suono. Corsi fuori della locanda, seguito da Nicolas, percorsi la via del villaggio verso il castello, mentre lui cercava di raggiungermi, varcai la porta e salii nella mia camera.

«Hai bisogno di dormire, di dormire», continuava a dirmi disperatamente, mentre giacevo contro il muro con le mani sugli orecchi e quel suono continuava a uscirmi dalla bocca; «Oh, oh, oh».

«Domattina andrà meglio», disse lui.


L’indomani mattina non andava meglio.

E non andò meglio neppure quando scese la notte; anzi peggiorò con l’oscurità.

Camminavo e parlavo e gesticolavo come un essere umano contento, ma soffrivo. Rabbrividivo. Mi battevano i denti e non riuscivo a trattenermi. Guardavo con orrore tutto ciò che avevo attorno. Il buio mi atterriva. Mi atterriva la vista delle vecchie armature nella sala grande. Fissavo la mazza ferrata e il mazzafrusto che avevo portato con me per dare la caccia ai lupi. Fissavo le facce dei miei fratelli. Fissavo tutto e vedevo dietro ogni configurazione di colore e di luce e d’ombra la stessa cosa: la morte. Ma non era semplicemente la morte come l’avevo immaginata prima: era la morte come la vedevo adesso. La morte vera, la morte totale, inevitabile e irreversibile che non risolveva nulla!

In questo stato d’agitazione insopportabile incominciai a fare qualcosa che non avevo mai fatto. Mi rivolgevo a coloro che mi stavano intorno e li interrogavo implacabilmente.

«Ma tu credi in Dio?» chiesi a mio fratello Augustin. «Come puoi vivere, se non ci credi?»

«Ma credi davvero in qualcosa?» domandai a mio padre. «Se sapessi di stare per morire in questo momento, ti aspetteresti di vedere Dio o la tenebra? Dimmelo!»

«Sei pazzo, sei sempre stato pazzo!» gridò mio padre. «Vattene da questa casa o ci farai impazzire tutti!»

Si alzò, faticosamente perché era invalido e cieco, e cercò di tirarmi addosso il bicchiere. Naturalmente mi mancò.

Non potevo guardare mia madre. Non sopportavo di starle vicino. Non volevo farla soffrire con le mie domande. Andavo alla locanda. Non tolleravo di pensare al luogo delle streghe. Per nulla al mondo mi sarei spinto fino a quella parte del villaggio! Mi tappavo le orecchie con le mani e chiudevo gli occhi. «Andate via!» dicevo al pensiero di coloro che erano morti così senza comprendere mai, mai, nulla.

Il secondo giorno non andò meglio.

E non andò meglio la fine della settimana.

Mangiavo, bevevo, dormivo, ma ogni momento di veglia era fatto di panico e di sofferenza. Andai dal prete del villaggio e chiesi se credeva davvero che il Corpo di Cristo fosse presente sull’altare alla consacrazione. E, dopo aver ascoltato i suoi balbettii di risposta e aver letto la paura nei suoi occhi, me ne andai più disperato di prima.

«Ma come puoi vivere, come puoi continuare a respirare e muoverti e agire quando sai che non c’è spiegazione?» Ormai deliravo. Poi Nicolas disse che forse la musica mi avrebbe fatto sentire meglio, e che avrebbe suonato il violino.

Avevo paura di quell’intensità. Ma andammo nel frutteto e, al sole, Nicolas suonò tutte le melodie che conosceva. Stavo seduto con le braccia conserte e le ginocchia piegate e i denti che mi battevano sebbene fosse caldo, e il sole brillava sul violino lucido. Guardavo Nicolas che si lanciava nella musica, di fronte a me, e i suoni crudi e puri ingigantivano magicamente fino a riempire il frutteto e la valle, anche se non era una magia; e alla fine Nicolas mi abbracciò e restammo così in silenzio, e poi mi disse, a voce molto bassa: «Lestat, credimi: passerà».

«Suona ancora», lo esortai. «La musica è innocente.»

Sapevo che non sarebbe passato, e per il momento nulla poteva farmelo dimenticare: ma provavo una gratitudine inesprimibile per la musica, per il fatto che in quell’orrore potesse esserci qualcosa di tanto bello.

Non si poteva comprendere nulla e non si poteva cambiare nulla. Ma si poteva creare una musica come quella. E provavo la stessa gratitudine quando vedevo ballare i bambini del villaggio, quando vedevo le loro braccia sollevate e le loro ginocchia flesse, e i loro corpi che volteggiavano al ritmo delle canzoni. Mi veniva da piangere nel guardarli.

Andai in chiesa e m’inginocchiai appoggiandomi al muro, guardai le statue antiche e provai la stessa gratitudine osservando le dita scolpite e i nasi e le orecchie e le espressioni dei volti e i drappeggi delle vesti, e non seppi trattenere il pianto.

Almeno avevamo quelle cose belle, avevo detto. Era un bene.

Ma adesso nulla di naturale mi sembrava bello. La vista di un grande albero che si ergeva solo in un campo aveva il potere di farmi tremare e gridare. Bisognava riempire di musica il frutteto.

E lasciate che vi riveli un piccolo segreto. In realtà non mi è mai passata.

6.

Mi chiedo che cosa lo causò. La bevuta e le chiacchiere notturne? Oppure aveva qualcosa a che fare con mia madre e con l’annuncio che sarebbe morta? C’entravano i lupi? Era un sortilegio gettato sulla mia immaginazione dal luogo delle streghe?

Non lo so. Era incominciato come qualcosa che gravava su di me dall’esterno. Un attimo prima era un’idea; un attimo dopo era realtà. Credo che si possa attirare questo genere di cose, ma che non lo si possa far accadere.

Naturalmente doveva attenuarsi. Ma il cielo non ridivenne più di quella sfumatura d’azzurro. Voglio dire, da allora il mondo mi apparve sempre diverso e anche nei momenti di felicità squisita c’erano la tenebra in agguato, il senso della nostra fragilità e della nostra inutilità.

Forse era un presentimento. Ma non credo. Era qualcosa di più importante, e in tutta sincerità non credo ai presentimenti.


Ma, per tornare alla mia storia, durante quella fase di infelicità mi tenni lontano da mia madre. Non intendevo dire a lei queste cose mostruose sulla morte e sul caos. Ma lei sentiva ripetere da tutti che avevo perso la ragione.

E finalmente, la sera della prima domenica di quaresima, venne da me.

Ero solo nella mia camera, e tutti erano scesi al villaggio, al crepuscolo, per vedere il grande falò che ogni anno veniva acceso per consuetudine.

Avevo sempre odiato quella festa. Aveva un aspetto orrido… le fiamme ruggenti, i balli e i canti e i contadini che, dopo, si aggiravano nei frutteti con le torce al ritmo di strane melodie.

Per qualche tempo avevamo avuto un prete che la definiva una celebrazione pagana. Ma s’erano liberati di lui in fretta. I contadini dei nostri monti ci tenevano ai vecchi rituali: e tutto questo serviva a far fruttificare gli alberi e crescere le messi. E in quell’occasione, più che in altre, avevo l’impressione di vedere uomini e donne capaci di bruciare le streghe.

Nello stato d’animo in cui mi trovavo, ispirava terrore. Stavo seduto accanto al mio fuocherello e resistevo all’impulso di andare alla finestra e guardare il grande falò che mi attirava con tanta forza da spaventarmi.

Mia madre entrò, chiuse la porta e mi disse che doveva parlarmi.

Era tutta tenerezza.

«È perché sto morendo, che ti comporti così?» chiese. «Parlamene. E porgimi le mani.»

Mi diede persino un bacio. Era fragile nella vestaglia stinta, e aveva i capelli spettinati. Non sopportavo di vederli così ingrigiti.

Ma le dissi la verità. Non sapevo. Poi spiegai ciò che era accaduto nella locanda. Cercai di non comunicarne l’orrore e la strana logica. Cercai di renderlo meno assoluto.

Mi ascoltò, quindi disse: «Sei un combattente, figlio mio. Non ti rassegni mai. Non ti rassegni neppure se è destino dell’intera umanità.»

«Non posso!» esclamai, avvilito.

«E per questo ti amo», disse mia madre. «È da te comprenderlo in una cameretta di una locanda, a notte alta, mentre bevi vino. Ed è da te infuriarti come ti infuri contro tutto il resto.»

Ricominciai a piangere, sebbene sapessi che mia madre non mi criticava. Poi tirò fuori un fazzoletto, l’aprì e mi mostrò diverse monete d’oro.

«Ti passerà», disse. «Per il momento, la morte rovina la vita ai tuoi occhi, ecco tutto. Ma la vita è più importante della morte. Lo comprenderai presto. Ora ascolta ciò che devo dirti. Ho fatto venire il dottore e la vecchia del villaggio, la guaritrice che ne sa più di lui. Tutti e due convengono con me: non vivrò molto a lungo.»

«Basta, madre», dissi io. Sapevo d’essere egoista, ma non riuscivo a trattenermi. «E questa volta non voglio doni. Metti via quel denaro.»

«Siedi», mi esortò e indicò la panca accanto al focolare. Obbedii, riluttante, e lei mi sedette accanto.

«So che tu e Nicolas parlate di fuggire», disse.

«Non me ne andrò, madre…»

«Non te ne andrai prima che io sia morta?»

Non le risposi. Non so spiegarvi ciò che provavo. Ero ancora sconvolto e tremante, e dovevamo parlare del fatto che quella donna viva avrebbe smesso di respirare, avrebbe incominciato a putrefarsi, e la sua anima sarebbe precipitata in un abisso, e tutto ciò che aveva sofferto nella vita, sino alla fine, si sarebbe concluso nel nulla. Il volto minuto sembrava dipinto su un velo.

E, dal villaggio lontano, giungevano smorzati i canti dei paesani.

«Voglio che tu vada a Parigi, Lestat», mi disse. «Voglio che prenda questo denaro, tutto ciò che mi è rimasto da parte della mia famiglia. Voglio saperti a Parigi, Lestat, quando verrà il mio momento. Voglio morire sapendo che sei a Parigi.»

Ero sbigottito. Ricordavo la sua espressione sconvolta, anni prima, quando mi avevano riportato a casa dopo la fuga con i comici italiani. La guardai per un lungo istante. Aveva assunto un tono quasi incollerito, per rendersi più persuasiva.

«Ho terrore di morire», disse in tono ora gelido. «E ti giuro che impazzirò se non saprò che sei a Parigi, libero, quando per me verrà la fine.»

L’interrogai con gli occhi. Le chiedevo: «Lo pensi veramente?»

«Ti ho tenuto qui come ti ha tenuto qui tuo padre», disse lei. «Non per orgoglio ma per egoismo. E ora intendo rimediare. Ti vedrò andar via. Non m’interessa ciò che farai a Parigi, se canterai mentre Nicolas suonerà il violino, o se farai le capriole sul palcoscenico alla fiera di St.-Germain. Va’, e fa’ ciò che saprai fare meglio.»

Cercai di stringerla fra le braccia. In un primo momento s’irrigidì; ma poi si abbandonò contro di me, così completamente che credo di aver compreso in quel momento perché s’era sempre dominata con tanta decisione. Pianse come non l’avevo mai sentita piangere. E, nonostante la sofferenza, amai quel momento. Mi vergognavo di amarlo; ma non volevo lasciarla andare. La tenni stretta e la baciai per tutte le volte che non mi aveva permesso di farlo. Per un momento fu come se fossimo due parti di una stessa entità.

Quindi si calmò. Parve tornare se stessa e adagio, ma fermamente, si staccò da me e mi respinse.

Parlò a lungo. Disse cose che allora non capii; parlò di quando mi vedeva uscire a caccia e vi trovava un piacere meraviglioso, e provava lo stesso piacere quando facevo infuriare tutti e martellavo di domande mio padre e i miei fratelli e chiedevo perché dovevamo vivere nel modo in cui vivevamo. Parlò in modo quasi misterioso del fatto che ero una parte segreta della sua anatomia, ero per lei l’organo che le donne non hanno.

«Tu sei l’uomo in me», disse. «Perciò ti ho tenuto qui, nel timore di vivere senza di te: e forse ora, mandandoti lontano, sto solo facendo ciò che avrei dovuto fare prima.»

Rimasi piuttosto turbato. Non avevo mai immaginato che una donna potesse provare o esprimere simili pensieri.

«Il padre di Nicolas sa dei vostri progetti», disse. «Il locandiere vi ha sentiti. È importante che te ne vada subito. Prendi la diligenza all’alba, e scrivimi non appena arriverai a Parigi. Troverai gli scrivani presso il cimitero degli Innocenti, vicino al mercato di St.-Germain. Trovane uno che sappia scrivere in italiano: così nessuno potrà leggere la lettera, tranne me.»

Quando mia madre uscì, non riuscivo a credere all’accaduto. Rimasi a lungo con lo sguardo fisso nel vuoto. Fissavo il letto con il materasso di paglia, le due giacche che possedevo e il mantello rosso, e il mio unico paio di scarpe di pelle accanto al focolare. Attraverso la finestra stretta, fissavo la massa nera delle montagne che conoscevo da tutta la vita. La tenebra si allontanò da me per un momento prezioso.

E poi scesi a precipizio le scale, e corsi al villaggio per cercare Nicolas e dirgli che saremmo andati a Parigi! L’avremmo fatto davvero. Niente poteva fermarci.

Era a vedere il falò con la famiglia. Appena mi scorse, mi passò un braccio intorno al collo e io gli cinsi la vita e lo trascinai lontano dalla folla e dalle vampe, verso il margine del prato.

L’aria era fresca e pura, come accade solo in primavera. Persino il canto dei paesani non mi sembrava tanto orribile. Cominciai a ballare in cerchio.

«Prendi il violino!» dissi. «Suona una canzone che parli di Parigi. Partiamo! Partiamo domattina!»

«E a Parigi come vivremo?» cantò Nicolas mentre muoveva le mani come se suonasse un violino invisibile. «Sparerai ai ratti per nutrirci?»

«Non chiedere che cosa faremo quando arriveremo!» dissi. «L’importante è arrivarci.»

7.

Non erano passate neppure due settimane, e io stavo in mezzo alla folla che a mezzogiorno frequentava l’immenso cimitero pubblico degli Innocenti, con le vecchie cripte e le tombe aperte e puzzolenti… Era il mercato più fantastico che avessi mai visto. E tra il lezzo e il rumore, stavo chino su uno scrivano italiano e dettavo la mia prima lettera a mia madre.

Sì, eravamo arrivati dopo aver viaggiato giorno e notte, e alloggiavamo nell’Ile de la Cité, ed eravamo indicibilmente felici, e Parigi era calda e bella e magnifica in un modo che superava l’immaginazione.

Avrei desiderato poter prendere io stesso la penna per scrivere a mia madre.

Avrei desiderato dirle cosa provavo nel vedere i palazzi torreggiami, le antiche vie tortuose piene di mendicanti, venditori, nobili, e le case a quattro e cinque piani che fiancheggiavano i boulevard affollati.

Avrei desiderato descriverle le carrozze rumorose, tutte vetri e dorature, che passavano sul Pont Neuf e sul Pont Notre-Dame e sfrecciavano davanti al Louvre e al Palais Royal.

Avrei desiderato descriverle la gente, gli aristocratici con le calze di seta e i bastoni da passeggio in argento, che camminavano nel fango con le scarpe color pastello, le dame con le parrucche incrostate di perle e gli ampi panieri di seta e di mussola, e la prima volta che avevo visto la regina Maria Antonietta passeggiare nei giardini delle Tuileries.

Naturalmente mia madre aveva già visto tutto anni e anni prima della mia nascita. Era vissuta a Napoli e Londra e Roma con il padre. Ma volevo dirle ciò che mi aveva donato, volevo spiegarle cosa provavo nell’ascoltare il coro di Notre-Dame ed entrando nei caffè affollati con Nicolas, parlando con i suoi vecchi compagni di studi mentre bevevamo il caffè inglese, indossando gli abiti eleganti che Nicolas insisteva per prestarmi, e standomene davanti alle luci della ribalta della Comédie-Francaise a guardare con adorazione gli attori sul palcoscenico.

Ma tutto ciò che scrissi in quella lettera era forse il meglio, l’indirizzo della soffitta che era casa nostra, nell’Ile de la Cité, e la notizia: «Sono stato scritturato in un teatro vero per studiare da attore, con ottime prospettive di recitare molto presto.»

Non le dissi che dovevamo salire sei piani di scale per arrivare all’appartamento, che uomini e donne urlavano e si azzuffavano nei vicoli sotto le nostre finestre, e che eravamo già rimasti senza denaro perché trascinavo Nicolas a vedere tutte le opere, i balletti, i drammi e le commedie della città. E non dissi che lavoravo in uno squallido teatrino di boulevard, poco più di un podio da fiera, e che il mio compito era aiutare gli attori a vestirsi, vendere i biglietti, spazzare per terra e buttar fuori i disturbatori.

Ma io ero di nuovo in paradiso. E lo era anche Nicolas, sebbene nessuna orchestra decente della città volesse scritturarlo, e suonasse gli assolo con il gruppetto di musicisti nel teatro dove lavoravo; e quando eravamo davvero con le spalle al muro suonava sul boulevard, con me accanto che tendevo il cappello. Non avevamo vergogna.

Ogni sera salivamo correndo le scale con la nostra bottiglia di vino scadente e una pagnotta parigina, che sembrava ambrosia in confronto al pane che avevamo mangiato in Alvernia. E, alla luce di un’unica candela di sego, la soffitta era il luogo più splendido che avessi mai abitato.

Come ho detto prima, raramente ero stato in una stanza con le pareti a pannelli di legno, se non nella locanda. Bene, questa stanza aveva muri e soffitto intonacati! Era davvero Parigi! C’era un pavimento di legno lucido e persino un caminetto con una cappa nuova che tirava veramente.

Cosa contava, allora, se dovevamo dormire su pagliericci scomodi, e i vicini ci svegliavano con i loro litigi? Ci svegliavamo a Parigi, e potevamo vagare per ore per vie e vicoli, a guardare i negozi pieni di gioielli e vasellame, arazzi e statue, una ricchezza che non avevo mai veduta. Mi entusiasmavano persino i puzzolenti mercati della carne. Il fragore della città, l’operosità instancabile di migliaia e migliaia di manovali, impiegati, artigiani, l’andirivieni di una moltitudine sterminata…

Di giorno quasi dimenticavo le visioni della locanda e la tenebra. A meno che, naturalmente, scorgessi in un vicolo sporco un cadavere abbandonato, o capitassi a un’esecuzione pubblica in Place de Grève.

E capitavo sempre alle esecuzioni pubbliche in Place de Grève.

Lasciavo la piazza scosso da brividi e quasi gemendo. Poteva diventare un’ossessione, se non mi distraevo. Ma Nicolas era inflessibile.

«Lestat, non parlare dell’eterno, dell’immutabile, dell’inconoscibile!» E minacciava di darmi uno scrollone, se avessi cominciato.

E quando veniva il crepuscolo, l’ora che più odiavo, sia che avessi assistito a un’esecuzione o no, sia che la giornata fosse stata piacevole o fastidiosa, cominciavo a tremare. Una sola cosa poteva salvarmi: il calore e l’eccitazione del teatro illuminato; e prima dell’imbrunire ero sempre là.

Nella Parigi di quei tempi, i teatri dei boulevard non erano neppure legittimi. Solo la Comédie-Francaise e il Théàtre des Italiens avevano l’approvazione del governo, e spettava a loro tutta la drammaturgia seria. E questo includeva la tragedia oltre alla commedia: le opere di Racine, Corneille e del brillante Voltaire.

Ma la vecchia commedia italiana che amavo, con Pantalone, Arlecchino, Scaramuccia e gli altri, viveva come era sempre vissuta, con i funamboli e gli acrobati, i giocolieri e i burattinai, negli spettacoli delle fiere di St.-Germain e di St.-Laurent.

I teatri dei boulevard erano nati da quelle fiere. Ai miei tempi, negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, erano istituzioni permanenti lungo il Boulevard du Temple; e, sebbene recitassero per i poveri che non potevano permettersi di frequentare i grandi spettacoli, attiravano anche un pubblico di benestanti. Molti aristocratici e ricchi borghesi si affollavano per assistere a quelle rappresentazioni perché erano vivaci e piene di fantasia, e meno paludate delle tragedie del grande Racine e del grande Voltaire.

Noi facevamo la commedia italiana come l’avevo già imparata, piena d’improvvisazione, in modo che ogni sera era nuova e diversa pur restando sempre eguale. Inoltre cantavamo e mettevamo in scena ogni sorta di sciocchezze, non solo perché al pubblico piaceva, ma perché dovevamo farlo. Non volevamo esser accusati di infrangere il monopolio dei teatri di stato.

Il teatro era di legno, tutto traballante, e c’erano non più di trecento posti a sedere; ma il palcoscenico e le quinte erano eleganti, c’era un lussuoso sipario di velluto blu, i palchi privati avevano gli schermi. E gli attori e le attrici erano esperti e dotati di talento: o almeno così mi pareva.

Anche se non avessi avuto quel nuovo timore del buio, quella «malattia della mortalità», come insisteva a chiamarla Nicolas, non avrebbe potuto essere più eccitante varcare la porta del palcoscenico.

Ogni sera, per cinque o sei ore, vivevo e respiravo in un piccolo universo di uomini e donne che gridavano e ridevano e litigavano, si schieravano in favore di questo e contro quello, mentre tutti noi tra le quinte eravamo compagni anche se non eravamo amici. Forse era come essere su una piccola barca nell’oceano, dove remavamo tutti insieme, incapaci di sfuggire l’uno all’altro. Era divino.

Nicolas era un po’ meno entusiasta, ma questo era prevedibile. E diventava sempre più ironico quando i suoi ricchi amici studenti venivano a parlargli. Lo ritenevano pazzo perché viveva così. Quanto a me, un nobile che aiutava le attrici a infilarsi nei costumi e vuotava i secchi, non mi degnavano di una parola.

Naturalmente, tutti quei giovani borghesi desideravano essere aristocratici. Compravano titoli, si alleavano per matrimonio alle famiglie nobili non appena potevano. Ed è uno degli scherzetti della storia il fatto che s’immischiassero nella rivoluzione e contribuissero ad abolire la classe nella quale volevano in realtà entrare.

Non m’importava se non vedevamo più gli amici di Nicolas. Gli amici non sapevano niente della mia famiglia; e avevo abbandonato il mio vero nome, de Lioncourt, per chiamarmi semplicemente Lestat de Valois, che non significava nulla.

Imparavo tutto ciò che potevo sul teatro. Imparavo a memoria, imitavo. Facevo domande interminabili. E interrompevo la mia istruzione, ogni sera, solo per quel momento in cui Nicolas suonava l’assolo con il violino. Si alzava nella minuscola orchestra, il riflettore lo inquadrava; e allora si lanciava in una sonatina, abbastanza dolce e breve da far crollare il teatro.

E intanto io sognavo il mio momento, quando i vecchi attori che studiavo e assillavo, imitavo e servivo come un lacchè, avrebbero detto finalmente: «Sta bene, Lestat, stasera abbiamo bisogno di te nella parte di Lelio. Ormai dovresti sapere che cosa fare».

E finalmente accadde, alla fine d’agosto.

A Parigi faceva molto caldo, le notti erano tiepide e il teatro era pieno di spettatori che si ventolavano con i fazzoletti e i programmi. Lo spesso cerone bianco mi colava sulla faccia appena lo applicavo.

Portavo una spada di cartapesta con la più bella giacca di velluto avuta in prestito da Nicolas, e tremavo un attimo prima di uscire sul palcoscenico. Pensavo: è come essere in attesa di venire giustiziato.

Ma appena uscii e mi voltai a guardare la sala stipata, accadde una cosa stranissima. La paura svanì.

Sorrisi al pubblico e m’inchinai lentamente. Fissai la bella Flaminia come se la vedessi per la prima volta. Dovevo conquistarla. Il gioco incominciò.

Il palcoscenico mi apparteneva com’era già avvenuto anni prima in quella remota cittadina di campagna. E mentre ci muovevamo insieme, come matti, e litigavamo, ci abbracciavamo, facevamo i buffoni, le risate facevano tremare il teatro.

Sentivo l’attenzione come un abbraccio. Ogni gesto, ogni battuta strappavano un clamore al pubblico… era quasi fin troppo facile. Avremmo potuto continuare per un’altra mezz’ora se gli attori, impazienti d’incominciare una nuova scena, non ci avessero sospinti verso le quinte.

Il pubblico si alzò per applaudirci. E non era un pubblico campagnolo su una piazza. Erano parigini che invocavano il ritorno sulla scena di Lelio e Flaminia.

Nell’ombra delle quinte, vacillavo. Stavo per cadere. Per il momento avevo soltanto la visione del pubblico che mi guardava al di sopra delle luci della ribalta. Volevo tornare in palcoscenico. Afferrai Flaminia, la baciai, e mi accorsi che ricambiava il mio bacio appassionatamente.

Poi Renaud, il vecchio direttore, la tirò via. «D’accordo, Lestat», disse come se fosse stizzito per qualche ragione. «D’accordo, te la sei cavata abbastanza bene, ti lascerò recitare regolarmente d’ora in poi.»

Ma, prima che cominciassi a saltare per la gioia, intorno a noi si materializzò metà della compagnia. E Luchina, una delle attrici, intervenne. «Oh, no, non lo lascerai recitare regolarmente!» disse. «È l’attore più bello del Boulevard du Temple e lo scritturerai subito, e lo pagherai, e lui non dovrà più toccare scope o strofinacci.» Ero terrorizzato. La mia carriera era appena incominciata e pensavo che già stesse per finire; ma, con mia grande sorpresa, Renaud accettò tutte quelle condizioni.

Naturalmente ero lusingatissimo di sentirmi dire che ero bello; e sapevo che Lelio, l’amoroso, doveva avere un notevole stile. Un aristocratico era perfetto per la parte.

Ma, se volevo fare in modo che il pubblico parigino si accorgesse davvero di me, se volevo che parlassero di me alla Comédie-Francaise, dovevo essere qualcosa di più di un angelo biondo caduto sul palcoscenico da una famiglia marchionale. Dovevo essere un grande attore, ed ero deciso a diventarlo.


Quella sera Nicolas e io festeggiammo con una sbronza colossale. Invitammo tutta la compagnia nel nostro appartamento, e io mi arrampicai sul tetto scivoloso, spalancai le braccia a Parigi e Nicolas suonò il violino alla finestra fino a che svegliammo tutto il vicinato.

La musica era divina, tuttavia la gente ringhiava e urlava nei vicoli e batteva su pentole e tegami. Non gli badammo. Ballavamo e cantavamo come avevamo fatto nel luogo delle streghe. Per poco non caddi dal davanzale della finestra.

L’indomani, con la bottiglia in mano, dettai tutta la storia allo scrivano italiano sotto il sole fetido del Cimitero degli Innocenti, e mi assicurai che la lettera indirizzata a mia madre partisse subito. Avevo voglia di abbracciare tutti coloro che vedevo per le strade. Ero Lelio. Ero un attore.

In settembre avevo il mio nome sui programmi. Mandai a mia madre anche quelli.

E non interpretavamo la vecchia commedia. Recitavamo la farsa di uno scrittore famoso che, in seguito a uno sciopero generale dei drammaturghi, non riusciva a farla rappresentare alla Comédie-Francaise.

Naturalmente non potevamo dire il suo nome; ma tutti sapevano che era opera sua e metà della corte affollava ogni sera la Casa di Tespi di Renaud.

Non ero il protagonista; ma ero il giovane innamorato, una specie di Lelio, ed era quasi meglio del ruolo principale; e dominavo tutte le scene in cui comparivo. Nicolas mi aveva insegnato la parte, e mi aveva rimproverato di continuo perché non imparavo a leggere. Prima della quarta replica, il commediografo aveva scritto altre battute apposta per me,

Nicki aveva il suo grande momento nell’intermezzo, quando la sua interpretazione di una piccola, spumeggiante sonata di Mozart teneva inchiodati gli spettatori alle sedie. Anche i suoi amici studenti erano ricomparsi. Ricevevamo inviti ai balli privati. A intervalli di pochi giorni correvo al Cimitero degli Innocenti per scrivere a mia madre; alla fine potei mandarle il ritaglio di un giornale inglese, The Spectator, dove si elogiava la nostra commediola e in particolare il briccone biondo che rubava i cuori delle signore nel terzo e nel quarto atto. Naturalmente non ero in grado di leggere il ritaglio. Ma il gentiluomo che l’aveva portato diceva che era lusinghiero, e anche Nicolas giurava che era così.

Quando vennero le prime notti fredde d’autunno, indossai il mantello rosso foderato di pelliccia per andare in scena. Lo si vedeva dalle ultime file della galleria, a meno di essere del tutto ciechi. Adesso avevo imparato a usare meglio il cerone bianco; lo sfumavo qua e là per mettere in risalto i contorni della mia faccia, e sebbene avessi gli occhi cerchiati di nero e le labbra un po’ tinte di rosso, apparivo nel contempo sconvolgente e umano. Ricevevo lettere d’amore da molte spettatrici.

La mattina Nicolas studiava musica con un maestro italiano. Comunque avevamo denaro a sufficienza per mangiare bene e comprare legna e carbone. Le lettere di mia madre arrivavano due volte la settimana. Mi diceva che la sua salute era migliorata. Non tossiva più come durante l’inverno precedente e non soffriva. Ma mio padre e il padre di Nicolas ci avevano rinnegati, e non volevano sentire neppure i nostri nomi.

Noi eravamo troppo felici per curarcene. Ma il timore tenebroso, la «malattia della mortalità» continuò ad assediarmi quando venne il freddo.

A Parigi, il freddo sembrava peggiore. Non era pulito come tra le montagne. I poveri stavano sotto i portoni, tremanti e affamati, e le strade tortuose erano coperte di lurido viscidume. Vedevo tanti bambini scalzi che soffrivano sotto i miei occhi, e i cadaveri abbandonati erano ancora più numerosi. Ero ben lieto di possedere il mantello foderato di pelliccia. L’avvolgevo intorno a Nicolas e lo tenevo stretto a me quando uscivamo insieme, e procedevamo abbracciati sotto la neve e la pioggia.

A parte il freddo, non so descrivere la felicità di quei giorni. La vita era esattamente ciò che doveva essere. E sapevo che non sarei rimasto a lungo nel teatro di Renaud. Tutti lo dicevano, e perciò sognavo grandi palcoscenici, tournée a Londra e persino in America con una formidabile compagnia di attori. Tuttavia non avevo motivo di affrettarmi. La mia coppa era colma.

8.

Ma nel mese di ottobre, mentre Parigi stava gelando, cominciai a I vedere regolarmente tra il pubblico una faccia strana che mi distraeva sempre. A volte riusciva quasi a farmi dimenticare ciò che facevo. E poi spariva, come se l’avessi immaginata. Dovevo averla vista, a intervalli, per circa due settimane, prima che mi decidessi a parlarne a Nicki.

Mi sentivo ridicolo, ed era diffìcile esprimermi a parole.

«Là fuori c’è qualcuno che mi osserva», gli dissi.

«Ti osservano tutti», replicò Nicki. «Ed è ciò che tu desideri.»

Quella sera era un po’ triste, e la sua risposta fu leggermente brusca.

Poco prima, mentre accendeva il fuoco, aveva detto che non sarebbe mai diventato un virtuoso del violino. Nonostante l’orecchio e la bravura, c’erano troppe cose che non sapeva. E io sarei diventato il più grande degli attori, ne era certo. Gli avevo risposto che era assurdo, ma un’ombra era calata sulla mia anima. Ricordavo ciò che mi aveva detto mia madre: per Nicki era troppo tardi.

Non era invidioso, mi disse. Era soltanto un po’ infelice.

Decisi di non parlare più della faccia misteriosa. Cercai di escogitare un modo per incoraggiarlo. Gli rammentai che il suo modo di suonare destava negli ascoltatori emozioni profonde e che persino gli attori tra le quinte si fermavano per ascoltarlo. Aveva un talento innegabile.

«Ma io voglio essere un grande violinista», disse. «E temo che non lo sarò mai. Finché eravamo a casa, potevo illudermi che lo sarei diventato.»

«Non puoi arrenderti!» dissi.

«Lestat, permettimi di essere franco», continuò lui. «Per te tutto è facile. Ottieni tutto ciò che vuoi. Lo so, pensi ai tanti anni d’infelicità che hai vissuto a casa. Ma anche allora, quando decidevi di fare qualcosa, ci riuscivi. E siamo partiti per Parigi il giorno in cui tu hai deciso di partire.»

«Non sei pentito d’essere venuto a Parigi, vero?» gli chiesi.

«No, naturalmente. Voglio dire, semplicemente, che tu consideri possibili cose che non lo sono. Almeno per il resto della gente. Come uccidere i lupi…»

Quando lo disse, fui scosso da un brivido freddo. E, per qualche ragione, pensai di nuovo alla faccia misteriosa tra il pubblico, la faccia che mi osservava. Qualcosa che aveva a che fare con i lupi. Qualcosa che aveva a che fare con i sentimenti espressi da Nicki. Non aveva senso. Cercai di non prenderla sul serio.

«Se avessi deciso di dedicarti al violino, probabilmente adesso suoneresti a corte», disse.

«Nicki, questi discorsi sono veleno», sussurrai io. «Non si può far altro che cercare di ottenere ciò che si vuole. Sapevi che le probabilità erano contrarie, quando hai incominciato. Non c’è nient’altro… a parte…»

«Lo so.» Nicki sorrise. «A parte l’insignifìcanza. La morte.»

«Sì», assentii io. «Al massimo puoi fare in modo che la tua vita abbia significato, fare in modo che sia il bene…»

«Oh, non ricominciare con il bene», m’interruppe. «Tu e la tua malattia della mortalità, e la tua malattia del bene.» Distolse gli occhi dal fuoco e mi guardò con un’espressione volutamente sprezzante. «Siamo una compagnia di attori e musicisti che non hanno neppure il diritto d’essere sepolti in terra consacrata. Siamo reietti.»

«Dio, se almeno potessi crederlo», dissi, «se credessi che facciamo del bene quando induciamo altri a dimenticare le loro angosce, a dimenticare per un poco che…»

«Che cosa? Che moriranno?» Nicki sorrise con cattiveria. «Lestat, pensavo che saresti cambiato, una volta arrivato a Parigi.»

«È una sciocchezza da parte tua, Nicki», risposi. Mi stavo irritando. «Io faccio del bene nel Boulevard du Temple. Lo sento…»

M’interruppi perché di colpo vidi di nuovo la faccia misteriosa, e una sensazione oscura passò su di me, una specie di premonizione. Tuttavia quella faccia sconvolgente di solito sorrideva, e questa era la cosa strana. Sì, sorrideva…, si divertiva…

«Lestat, ti amo», disse solennemente Nicki. «Ti amo come ho amato poche persone nella mia vita. Ma sei un vero sciocco con tutte le tue idee sul bene.»

Risi. «Nicolas», dissi, «posso vivere senza Dìo. Posso vivere persino con l’idea che non vi sia un aldilà. Ma non credo che potrei continuare se non credessi nella possibilità del bene. Per una volta, anziché irridermi, perché non mi dici in che cosa credi?»

«Secondo me», rispose, «c’è la debolezza e c’è la forza. E c’è l’arte buona e l’arte cattiva. Ecco in che cosa credo. In questo momento, siamo impegnati a creare un’arte piuttosto scadente, e questo non ha nulla a che vedere con il bene!»

La «nostra conversazione» avrebbe potuto trasformarsi a questo punto in un vero litigio se avessi detto tutto ciò che avevo in mente a proposito della pomposità borghese. Credevo sinceramente che il nostro lavoro al teatro di Renaud fosse sotto molti aspetti migliore di ciò che vedevo nei grandi teatri. Soltanto la cornice era meno impressionante. Perché un borghese gentiluomo non poteva dimenticare quella cornice? Com’era possibile indurlo a vedere qualcosa che non fosse la superficie?

Respirai profondamente.

«Se il bene esiste», disse Nicki, «allora io sono il suo contrario. Sono malvagio e me ne glorio. Sbeffeggio il bene. E se proprio ci tieni a saperlo, non suono il violino per rendere felici gli idioti che vengono da Renaud. Lo suono per me, per Nicolas.»

Non volevo ascoltare altro. Era tempo di andare a letto. Ma ero ferito da quel dialogo, e lui lo sapeva; e quando cominciai a togliermi gli stivali, si alzò dalla sedia e venne a sedersi vicino a me.

«Scusami», disse con voce spezzata. Era così cambiato rispetto a un minuto prima che alzai gli occhi: appariva tanto giovane e avvilito che non potei fare a meno di abbracciarlo e dirgli che non doveva più preoccuparsi.

«Hai in te una sorta di luminosità, Lestat», mi disse. «E attira tutti. È presente anche quando sei furioso o scoraggiato…»

«Poesia», dissi. «Siamo stanchi tutti e due.»

«No, è vero», disse Nicki. «Hai in te una luce quasi accecante. In me, invece, c’è soltanto tenebra. A volte penso che sia simile alla tenebra che ti ha contagiato quella notte nella locanda, quando hai cominciato a piangere e tremare. Eri così indifeso, così impreparato. Io cerco di tenerti lontana la tenebra perché ho bisogno della tua luce. Ne ho un bisogno disperato, mentre tu non hai bisogno della tenebra.»

«Il matto sei tu», dissi io. «Se potessi vederti e ascoltare la tua voce, la tua musica… che naturalmente suoni per te stesso… non vedresti la tenebra, Nicki. Vedresti una luce tutta tua. Cupa, sì; ma luce e bellezza si congiungono in te in mille modi diversi.»


La sera dopo, la rappresentazione andò particolarmente bene, il pubblico era vivace e ci incitava a fare del nostro meglio. Eseguii alcuni passi di danza nuovi che per qualche ragione non erano interessanti nelle prove, ma sul palcoscenico risultavano miracolosamente efficaci. E Nicki fu straordinario con il violino, ed eseguì una delle sue composizioni.

Ma, verso la fine della serata, scorsi di nuovo la faccia misteriosa. Mi turbò ancor più delle altre volte, e per poco non persi il ritmo del canto. Per un momento, anzi, mi sembrò che mi girasse la testa.

Quando restai solo con Nicki, dovetti parlare assolutamente della bizzarra sensazione di essermi addormentato in palcoscenico e di aver sognato.

Sedemmo accanto al camino, con il vino su un bariletto. Alla luce del fuoco Nicki appariva stanco e depresso come la sera precedente.

Non desideravo turbarlo, ma non potevo dimenticare quella faccia.

«Ebbene, com’è?» chiese Nicolas, mentre si scaldava le mani. Al di sopra della sua spalla vedevo, oltre la finestra, una distesa di tetti coperti di neve che mi facevano sentire un freddo ancora più intenso. La conversazione non mi era gradita.

«Questo è il peggio», dissi. «Vedo soltanto una faccia. Deve indossare qualcosa di nero, un mantello e persino un cappuccio. Ma la faccia mi sembra una maschera, bianchissima e stranamente nitida. Voglio dire, le rughe sono così profonde da sembrare tracciate con il cerone nero. La vedo per un momento. E splende. Quando guardo di nuovo, non c’è nessuno. La mia è senz’altro un’esagerazione. È qualcosa di molto più sottile, il suo modo di guardare… tuttavia…»

La descrizione parve turbare Nicki quanto turbava me. Non disse nulla. Ma il volto si raddolcì un poco, come se dimenticasse la tristezza.

«Bene, non voglio darti troppe speranze», disse poi. Era gentile e sincero. «Ma forse quella che vedi è davvero una maschera. Forse è qualcuno della Comédie-Francaise venuto a vederti recitare.»

Scrollai la testa. «Vorrei che fosse vero; ma nessuno porterebbe una maschera simile. E ti dirò un’altra cosa.»

Nicki attese; ma mi accorsi che gli stavo comunicando un po’ della mia apprensione. Allungò la mano, prese la bottiglia e versò un po’ di vino nel mio bicchiere.

«Chiunque sia», dissi, «sa dei lupi.»

«Che cosa?»

«Sa dei lupi.» Ero molto insicuro: Era come raccontare un sogno dimenticato quasi completamente. «Sa che a casa ho ucciso i lupi. Sa che il mio mantello è foderato con le loro pelli.»

«Cosa dici? Gli hai forse parlato?»

«No, ma lo so», risposi. Era così vago, e mi confondevo. Provavo di nuovo quella sensazione di stordimento. «È quello che sto cercando di dirti. Non gli ho mai parlato. Non gli sono mai stato vicino. Ma lui sa.»

«Ah, Lestat», disse Nicki, e si assestò sulla panca. Mi sorrideva nel suo modo più accattivante. «Fra un po’ vedrai i fantasmi. Hai l’immaginazione più scatenata che io abbia mai conosciuto.»

«I fantasmi non esistono», risposi a voce bassa. Feci una smorfia guardando il nostro fuocherello, e vi aggiunsi qualche pezzo di carbone.

Nicolas si oscurò. «Come diavolo potrebbe sapere dei lupi? E tu, come potresti…?»

«Te l’ho già detto, non lo so!» Rimasi seduto a pensare senza dir nulla; forse ero disgustato dall’apparenza ridicola di quella storia.

E mentre stavamo in silenzio e il fuoco era l’unica fonte di suono e di movimento nella stanza, l’espressione «Uccisore di Lupi» mi giunse distintamente come se qualcuno l’avesse pronunciata.

Ma non l’aveva pronunciata nessuno.

Guardai Nicki, dolorosamente consapevole che le sue labbra non si erano mosse; e credo che tutto il sangue mi defluisse dal volto. Non provavo il timore della morte, come era avvenuto tante altre notti, bensì una sensazione che per me era veramente estranea: la paura.

Ero ancora lì seduto, troppo insicuro per dire qualcosa, quando Nicolas mi baciò.

«Andiamo a letto», disse sottovoce.

PARTE II L’EREDITÀ DI MAGNUS

1.

Saranno state le tre del mattino quando sentii nel sonno le campane della chiesa.

E, come tutti coloro che a Parigi avevano un po’ di buon senso, tenevamo la porta sbarrata e la finestra ben chiusa. Non era l’ideale per una stanza dove ardeva un fuoco di carbone; ma il tetto era un sentiero per giungere alla nostra finestra. Perciò ci eravamo chiusi dentro.

Sognavo i lupi. Ero sulla montagna, circondato, e mulinavo il mazzafrusto medievale. Poi i lupi erano di nuovo morti, e il sogno era meno terribile, ma dovevo camminare nella neve per tutte quelle miglia. Sulla neve, la cavalla urlava. Si trasformava in un insetto ripugnante, semischiacciato sul pavimento di pietra.

Una voce disse «Uccisore di Lupi», in un bisbiglio protratto che era come una chiamata e nel contempo un omaggio.

Aprii gli occhi. O credetti di aprirli. E nella stanza c’era qualcuno. Una figura alta e curva che voltava le spalle al nostro caminetto. Nel focolare brillavano ancora le braci. La luce saliva, delineava nitidamente i contorni della figura, quindi si spegneva prima di lambire le spalle e la testa. Ma capivo che stavo guardando la faccia bianca vista tra il pubblico a teatro; e la mia mente che si schiudeva e diventava più acuta si rendeva conto che la stanza era chiusa a chiave, che Nicolas era sdraiato accanto a me e che quella figura stava sopra il nostro letto. Sentivo il respiro di Nicolas. E scrutavo la faccia bianca.

«Uccisore di Lupi», disse nuovamente la voce. Ma le labbra non si erano mosse. La figura venne più vicina e vidi che la faccia non era una maschera. Occhi neri, svelti e calcolatori, e pelle bianca, e un odore disgustoso, come quello degli indumenti ammuffiti in una camera umida.

Mi alzai, credo. O forse venni sollevato. In un istante mi trovai in piedi. Il sonno mi scivolava di dosso, e io indietreggiavo contro la parete.

La figura aveva nelle mani il mio mantello rosso. Pensai disperatamente alla mia spada e ai miei moschetti. Erano sul pavimento, sotto il letto. L’essere spinse verso di me il mantello rosso; poi, attraverso il velluto foderato di pelliccia, sentii la sua mano chiudersi sul bavero della mia giacca.

Mi sentii strattonare in avanti, e sollevare da terra. Gridai per chiamare Nicolas. Urlai «Nicki, Nicki!» più forte che potei. Vidi la finestra aperta parzialmente, e all’improvviso il vetro esplose in mille frammenti e la cornice di legno si spezzò. Volai sopra il vicolo, a sei piani da terra.

Urlai. Scalciai contro l’essere che mi trasportava. Impigliato nel mantello rosso, mi contorsi nel tentativo di liberarmi.

Ma stavamo volando sopra i tetti, salivamo la superfìcie verticale d’un muro di mattoni! Pendevo dal braccio dell’essere. E all’improvviso, su un pianoro altissimo, fui buttato a terra.

Per un momento rimasi steso a guardare Parigi, spiegata davanti a me in un grande cerchio… la neve bianca e i comignoli e i campanili delle chiese e il cielo cupo. Poi mi alzai, inciampai nel mantello foderato di pelliccia e cominciai a correre. Corsi fino all’orlo del pianoro e guardai giù. C’era uno strapiombo di centinaia di piedi. Corsi a un altro angolo, ed era esattamente lo stesso. Per poco non caddi.

Mi voltai disperato, ansimando. Eravamo in cima a una torre quadrata, non più ampia di cinquanta piedi. E non vedevo nulla di più alto in nessuna direzione. La figura mi fissava, ed emetteva una risata sommessa e gracchiante, simile al bisbiglio di poco prima.

«Uccisore di Lupi», ripeté.

«Maledetto!» gridai. «Chi diavolo sei?» In preda alla collera, mi avventai alzando i pugni.

Non si mosse. La colpii come se fosse un muro. Rimbalzai all’indietro, letteralmente. Persi l’equilibrio nella neve, mi rialzai e l’attaccai di nuovo.

La risata divenne ancora più fragorosa, volutamente beffarda, ma con una sfumatura di piacere ancor più esasperante del sarcasmo. Corsi all’orlo della torre e mi voltai di nuovo verso quell’essere.

«Che cosa vuoi da me?» chiesi. «Chi sei?» E quando l’essere continuò nella risata esasperante, mi avventai ancora. Ma questa volta mi scagliai contro la faccia e il collo, protesi le mani come artigli, strappai il cappuccio e vidi i capelli neri dell’essere e la forma della testa umana. La pelle era morbida. Tuttavia era inamovibile come prima.

Indietreggiò un poco e alzò le braccia per giocare con me, per spingermi avanti e indietro come un uomo spingerebbe un bambino. Troppo rapidamente perché i miei occhi lo seguissero, liberò la faccia dalle mie mani, girandola prima da una parte e poi dall’altra e compiendo tutti questi movimenti con facilità irrisoria, mentre io tentavo freneticamente di fargli del male, e non sentivo altro che quella pelle morbida e bianca sotto le dita e, una volta o due, i fini capelli neri.

«Il piccolo, forte, coraggioso Uccisore di Lupi», mi disse la figura con una voce più sonora e profonda.

Mi fermai ansante e coperto di sudore, e lo fissai. Vidi i dettagli del suo viso. Le rughe profonde che avevo appena intravisto a teatro, la bocca tirata in un sorriso buffonesco.

«Oh, Dio, aiutami, aiutami…» dissi mentre indietreggiavo. Mi pareva impossibile che quella faccia si muovesse, mostrasse un’espressione e mi guardasse con tanto affetto. «Dio!»

«A quale dio alludi, Uccisore di Lupi?» chiese l’essere.

Gli voltai le spalle e proruppi in un ruggito terribile. Sentii le sue mani chiudersi sulle mie spalle come oggetti forgiati di metallo, e mentre piombavo in un’ultima, frenetica resistenza, mi fece girare con violenza in modo che mi trovai con i suoi occhi davanti, spalancati e scuri, mentre le labbra erano chiuse e tuttavia ancora sorridenti. Quindi si chinò e io sentii la puntura dei denti nel collo.

E da tutte le fiabe dell’infanzia, le vecchie favole, tornò alla mia memoria il nome, come un animale annegato che risalga alla superficie dell’acqua nera e si liberi nella luce.

«Vampiro!» proruppi in un ultimo grido convulso, e respinsi l’essere con tutte le mie forze.

Poi vi fu un silenzio. L’immobilità.

Sapevo che eravamo ancora sul tetto. Sapevo che l’essere mi teneva tra le braccia. Tuttavia sembrava che fossimo saliti e avessimo perso ogni peso e ci muovessimo nell’oscurità ancora più agevolmente di prima,

«Sì, sì», avrei voluto dire. «Esattamente.»

E un gran fragore echeggiò tutto intorno a me e mi avviluppò; forse era il suono di un gong immenso, battuto con grande lentezza e in un ritmo perfetto. Il suono mi pervadeva, e provavo un piacere straordinario che mi si diffondeva in tutte le membra.

Le mie labbra si muovevano, ma non ne usciva il minimo suono; nondimeno, nulla aveva importanza. Tutte le cose che avevo desiderato dire nella vita mi erano chiare, e questo era ciò che contava… anche se non veniva espresso. E c’era tanto tempo, tempo per dire qualunque cosa e fare qualunque cosa. Non c’era nessuna urgenza.

Estasi. Pronunciai quella parola e mi parve chiarissima, sebbene non potessi neppure muovere le labbra. Mi accorsi che non respiravo più. Tuttavia c’era qualcosa che mi faceva respirare. Respirava per me, al ritmo del gong che non aveva nulla a che fare con il mio corpo; e io amavo quel ritmo, il modo in cui continuava all’infinito, e non dovevo più respirare né parlare né conoscere qualcosa…

Mia madre mi sorrise. E io dissi: «Ti amo…» e lei disse: «Sì, sempre, sempre…» Ero seduto nella biblioteca del convento e avevo dodici anni e il monaco mi diceva «Un grande studioso», e io aprivo tutti i libri e potevo leggere tutto, il latino, il greco, il francese. Le lettere miniate erano di una bellezza indescrivibile, e io mi voltavo verso il pubblico del teatro di Renaud e vedevo tutti in piedi, e una donna si scostava dal viso il ventaglio dipinto, ed era Maria Antonietta. Disse «Uccisore di Lupi», e Nicolas corse verso di me, supplicandomi di tornare. Aveva il volto colmo d’angoscia, i capelli scomposti, gli occhi orlati di sangue. Cercò di afferrarmi. Io dissi: «Nicki, stammi lontano!» e mi resi conto, con una sofferenza concreta, che il suono del gong svaniva in lontananza.

Gridai. Implorai. Non smettere, ti prego, ti prego. Non voglio… non voglio… ti prego.

«Lelio, l’Uccisore di Lupi», disse l’essere. Mi teneva fra le braccia e io piangevo perché l’incantesimo si stava spezzando.

«No, no.»

Mi sentivo pesante. Avevo ricuperato il mio corpo, con i suoi dolori e le grida soffocate, e mi sentivo sollevare, scagliare verso l’alto… caddi sulla spalla dell’essere e sentii il suo braccio stringermi le ginocchia.

Volevo dire: Dio, proteggimi. Volevo dirlo con ogni particella del mio essere ma non potevo, e c’era di nuovo il vicolo sotto di me, il precipizio di centinaia di piedi, e tutta Parigi s’inclinava a un angolo spaventoso, nella neve e nel vento tagliente.

2.

Ero sveglio e avevo molta sete.

Desideravo bere in abbondanza un vino bianco freddissimo, come lo è quando lo si porta su dalla cantina in autunno. Volevo qualcosa di fresco e dolce da mangiare, come una mela matura.

Pensai che avevo perduto la ragione, anche se non avrei saputo dire il perché.

Aprii gli occhi e compresi che era sera. La luce avrebbe potuto essere quella del mattino, ma era trascorso troppo tempo perché fosse possibile. Era sera.

E, attraverso una larga finestra di pietra chiusa da una grata, vidi colline e boschi ammantati di neve, e in lontananza l’immensa e minuscola collezione di tetti e di torri che formava la città. Non l’avevo vista così dal giorno in cui ero arrivato con la diligenza. Chiusi gli occhi e la visione rimase, come se non avessi mai mosso le palpebre.

Ma non era una visione. Esisteva davvero. E nella stanza c’era abbastanza caldo, nonostante la finestra. C’era stato un fuoco acceso. Ne sentivo l’odore, ma s’era spento.

Mi sforzai di ragionare. Ma non potevo smettere di pensare al vino bianco e freddo e alle mele nel cestello. Vedevo le mele. Mi sentii cadere dai rami dell’albero e aspirai l’odore dell’erba appena tagliata, tutt’intorno a me.

La luce del sole era abbagliante sui campì verdi. Brillava sui capelli bruni di Nicolas e sulla lacca scura del violino. La musica saliva in nubi morbide e ondeggianti. E contro il cielo scorgevo i bastioni della casa di mio padre.

I bastioni.

Riaprii gli occhi.

E compresi che ero nella stanza di un’alta torre, a molte miglia da Parigi.

E proprio davanti a me, su un rozzo tavolino di legno, c’era una bottiglia di vino bianco freddo, esattamente come l’avevo sognata.

La guardai per molto tempo, guardai le gocce che la coprivano, e non riuscii a credere che fosse possibile tendere la mano per prenderla e bere.

Non avevo mai conosciuto una sete come quella che mi tormentava. Tutto il mio corpo era assetato. E io ero così debole. E sentivo un po’ di freddo.

La stanza si mosse quando io mi mossi. Il cielo brillava oltre la finestra.

E quando finalmente presi la bottiglia e tolsi il tappo e aspirai l’aroma asprigno e delizioso, bevvi e bevvi senza fermarmi, e senza curarmi di ciò che sarebbe stato di me, e di dov’ero, e della ragione per cui la bottiglia era lì.

Chinai la testa in avanti. La bottiglia era quasi vuota e la città lontana svaniva nel cielo nero, lasciandosi dietro un mare di luci.

Mi portai le mani alla testa.

Il letto dove avevo dormito era di pietra cosparsa di paglia. E a poco a poco cominciai a sospettare di trovarmi in una sorta di prigione.

Ma il vino. Era troppo buono per un carcere. Chi avrebbe dato a un prigioniero un vino simile, a meno che naturalmente il prigioniero stesse per venire giustiziato?

E poi mi giunse un altro profumo, intenso e così delizioso da strapparmi un gemito. Mi guardai intorno; o meglio dovrei dire che tentai di farlo perché ero quasi troppo debole per muovermi. Ma la fonte del profumo mi era vicina, ed era una grossa tazza di brodo di carne. Il brodo era denso e vi galleggiavano pezzetti di carne, e vedevo il vapore che s’innalzava. Era ancora caldo.

Presi la tazza con entrambe le mani e bevvi, avidamente e senza riflettere, come avevo bevuto il vino.

Era gradevole, come se non avessi mai conosciuto altro cibo che gli somigliasse, quella ricca essenza della carne: e quando la tazza fu vuota mi riabbandonai, sazio e quasi nauseato, sulla paglia.

Mi sembrò che qualcosa si muovesse nell’oscurità accanto a me. Ma non ero sicuro. Sentii un tintinnio di vetri.

«Un altro po’ di vino», disse la voce, e io la riconobbi.

A poco a poco incominciai a ricordare tutto. La scalata dei muri, il piccolo tetto quadrato, la sorridente faccia bianca.

Per un momento pensai: «Oh, è impossibile, dev’essere stato un incubo. Ma non era così. Era accaduto; e all’improvviso ricordavo l’estasi, il suono del gong, e mi sentivo cogliere dalla vertigine, come se stessi per perdere nuovamente i sensi».

Mi feci forza. Non potevo lasciare che accadesse. E la paura s’insinuò in me, al punto che non osai muovermi.

«Un altro po’ di vino», ripeté la voce.

Girai leggermente la testa e vidi un’altra bottiglia, ancora tappata e a mia disposizione, profilata contro il chiarore della finestra.

Fui riassalito dalla sete, ingigantita dal sapore salato del brodo. Mi asciugai le labbra, presi la bottiglia e bevvi ancora.

Mi riabbandonai contro il muro e mi sforzai di scrutare nell’oscurità. Avevo paura di ciò che avrei visto.

Naturalmente ero ormai ubriaco.

Vidi la finestra e la città, vidi il tavolino. E quando i miei occhi si spostarono lentamente sugli angoli più bui, vidi lui.

Non portava più il mantello nero con il cappuccio, e non stava in piedi o seduto come un uomo normale.

Era appoggiato, così sembrava, alla cornice di pietra della finestra, con un ginocchio un po’ piegato, l’altra gamba esile protesa dalla parte opposta. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi.

Mi dava l’impressione di un essere inerte e privo di vita, tuttavia la faccia era animata come la notte precedente. I grandi occhi neri parevano tendere la pelle bianca in pieghe profonde, il naso era lungo e sottile, la bocca aveva quel sorriso buffonesco. C’erano le zanne che toccavano le labbra incolori, e i capelli, una massa splendente nera e argentea che spuntava dalla fronte alta e bianca e scendeva sulle spalle e sulle braccia.

Credo che ridesse.

Avevo trasceso il terrore. Non potevo neppure urlare.

Avevo lasciato cadere la bottiglia del vino che rotolava sul pavimento. E quando tentai di muovermi, di scuotermi dal torpore dell’ubriachezza, le sue membra esili si animarono.

Avanzò verso di me.

Non gridai. Proruppi in un sordo ruggito di terrore e di collera e lasciai il letto. Inciampai nel tavolino e fuggii.

Ma mi afferrò con le dita lunghe e bianche, potenti e fredde come la notte precedente.

«Lasciami, maledetto, maledetto, maledetto!» Balbettavo. La ragione mi suggeriva di supplicare, e tentai di farlo. «Me ne andrò. Ti prego. Lasciami andar via. Devi. Lasciami andare.»

Il viso scarno incombeva su di me. Le labbra erano contratte nelle guance bianche. Rideva, una risata sommessa e maligna che sembrava non finire mai. Lottai, lo spinsi invano, lo supplicai di nuovo, balbettai assurdità e scuse e poi gridai: «Dio, aiutami!» Mi coprì la bocca con una mano mostruosa.

«Non dire altro in mia presenza, Uccisore di Lupi, o ti darò in pasto ai lupi dell’inferno», disse con una smorfia irridente. «Uhmm? Rispondimi. Uhmmmm?»

Annuì. Allentò la stretta.

Per il momento la sua voce mi aveva calmato. Quando parlava, sembrava capace di ragionare. Sembrava quasi sofisticato.

Alzò le mani e mi accarezzò la testa mentre rabbrividivo.

«Il sole nei capelli», mormorò. «E il cielo azzurro fissato per sempre nei tuoi occhi.» Sembrava quasi assorto mentre mi guardava. Il suo alito e il suo corpo non avevano odore: il sentore di muffa veniva dagli indumenti.

Non osavo muovermi, sebbene non mi trattenesse. Fissai i suoi vestiti.

Una camicia di seta rovinata, con le maniche a sbuffo e l’arricciatura al collo. Calze e pantaloni corti e laceri.

Era vestito come usavano gli uomini alcuni secoli prima. Avevo visto abiti come il suo negli arazzi in casa mia, nei quadri del Caravaggio e di La Tour appesi nelle stanze di mia madre.

«Sei perfetto, mio Lelio, mio Uccisore di Lupi», mi disse. La bocca si allargò e io vidi di nuovo le zanne bianche. Erano i suoi soli denti.

Rabbrividii. Mi sentii cadere sul pavimento.

Ma mi sollevò facilmente con un braccio e mi adagiò sul letto.

Pregavo con il pensiero: Dio, aiutami, Vergine Maria, aiutami, aiutami, aiutami. E intanto lo guardavo in faccia.

Che cosa vedevo? Cosa avevo visto la notte precedente? La maschera della vecchiaia, ghignante, incisa profondamente dei segni del tempo e tuttavia raggelata, e dura come le sue mani. Non era un essere vivente. Era un mostro. Era un vampiro, un cadavere succhiatore di sangue uscito dalla tomba e dotato d’intelletto.

E i suoi arti… perché mi facevano inorridire? Sembrava umano, ma non si muoveva come un umano. Pareva che non facesse differenza, per lui, camminare o strisciare, stare curvo o in ginocchio. Mi riempiva di ribrezzo. Tuttavia mi affascinava. Dovevo ammetterlo. Mi affascinava. Ma il pericolo era troppo grande perché potessi tollerare quello stato d’animo.

Scoppiò in una risata profonda, con le ginocchia allargate, le dita posate sulla mia guancia mentre stava su di me come un grande arco.

«Sììììì, adorabile, non è piacevole guardarmi!» disse. La voce era ancora un bisbiglio e parlava in lunghi rantoli. «Ero già vecchio quando fui trasformato. E tu sei perfetto, mio Lelio dagli occhi azzurri, sei bello anche lontano dalle luci della ribalta.»

La lunga mano bianca giocò di nuovo con i miei capelli, sollevando le ciocche e lasciandole ricadere. Sospirò. «Non piangere, Uccisore di Lupi», disse. «Sei stato prescelto, e i tuoi piccoli trionfi nella Casa di Tespi non conteranno più nulla quando terminerà questa notte.»

Di nuovo quella risata.

Non avevo dubbi, almeno in quel momento, che fosse un emissario del diavolo, che Dio e il diavolo esistessero, che al di là dell’isolamento vissuto fino a poche ore prima vi fosse quel reame sterminato di esseri tenebrosi e di significati orribili, e che quel reame mi avesse inghiottito.

Pensai che venivo punito per la mia vita; ma mi sembrava assurdo. Milioni di individui, in tutto il mondo, credevano ciò che io credevo. Perché diavolo accadeva a me? Una possibilità macabra incominciò a prendere forma irresistibilmente… la possibilità che il mondo non avesse più significato di prima e che quello fosse soltanto un altro orrore…

«In nome di Dio, vattene!» gridai. Dovevo credere in Dio, adesso. Dovevo. Era l’unica speranza. Feci il segno della croce.

Per un momento mi fissò con gli occhi sbarrati per la rabbia. Poi rimase immobile.

Mi guardò mentre mi facevo il segno della croce. Mi ascoltò mentre invocavo Dio.

Si limitò a sorridere. La sua faccia era una perfetta maschera da commedia tratta dall’arco del proscenio.

Ebbi una crisi di pianto come un bambino. «Allora il diavolo regna in paradiso e il paradiso è l’inferno», gli dissi. «Oh, Dio, non mi abbandonare…» Invocai tutti i santi che avevo amato.

Mi colpì al viso, con forza. Caddi e quasi scivolai dal letto al pavimento. La stanza girò intorno a me. Mi salì alla bocca il sapore acido del vino.

Sentii di nuovo le sue dita sul collo.

«Sì, lotta, Uccisore di Lupi», diceva. «Non andare all’inferno senza combattere. Beffati di Dio.»

«Non mi faccio beffe di Dio!» protestai.

Mi attirò a sé.

Lottai con più forza di quanto avessi mai fatto in tutta la mia esistenza, persino contro i lupi. Lo percossi a pugni e calci e gli strappai i capelli. Ma era così potente che tanto sarebbe valso battermi contro i mostri animati di una cattedrale.

Continuò a sorridere.

Poi la faccia perse ogni espressione. Sembrò allungarsi. Le guance erano incavate, gli occhi spalancati e quasi assorti. Aprì la bocca. Il labbro inferiore si contrasse. Vidi le zanne.

«Maledetto, maledetto, maledetto!» Ruggivo, gridavo. E lui si avvicinò, affondò i denti.

Questa volta no, pensavo furiosamente, questa volta no. Non lo sentirò. Resisterò. Questa volta mi batterò per la mia anima.

Ma stava accadendo ancora.

La dolcezza e la morbidezza e il mondo lontano, e persino lui, nella sua bruttezza, erano stranamente al di fuori di me, come un insetto schiacciato sotto un vetro che non ci ispira ripugnanza perché non può toccarci; e così il suono del gong e il piacere squisito. E mi sentii completamente perduto. Ero incorporeo e il piacere era incorporeo. Io stesso non ero altro che piacere. Scivolai in una ragnatela di sogni radiosi.

Vidi una cripta, un luogo tetro. E un vampiro bianco che si svegliava in una tomba poco profonda. Era carico di catene, il vampiro; e sopra di lui si chinava il mostro che mi aveva rapito, e io sapevo che il suo nome era Magnus, e che in quel sogno era ancora mortale, era un alchimista grande e potente. Aveva dissotterrato e incatenato il vampiro dormiente poco prima dell’ora cruciale dell’imbrunire.

Ora, mentre la luce moriva nei cieli, Magnus beveva dal prigioniero immortale e impotente il sangue magico e maledetto che avrebbe fatto di lui uno dei morti viventi. Era un tradimento: il furto dell’immortalità. Un Prometeo tenebroso che rubava un fuoco luminescente. Risate nella tenebra. Risate che echeggiavano nella catacomba. Echeggiavano nei secoli. E il lezzo dell’avello. E l’estasi, assolutamente insondabile e irresistibile, che finalmente si concludeva.

Piangevo. Stavo abbandonato sulla paglia e dicevo: «Ti prego, non smettere…»

Magnus non mi teneva più: il mio respiro era ridiventato mio, e i sogni si erano dissolti. Precipitai e precipitai mentre le stelle ascendevano, gemme fissate a un cupo velo di porpora. «Ingegnoso… avevo creduto che il cielo fosse… vero.»

La fredda aria invernale si muoveva un poco nella stanza. Sentivo le lacrime sul mio viso. Ero divorato dalla sete.

E lontano, lontano da me, Magnus mi guardava con le mani abbandonate lungo le gambe magre.

Tentai di muovermi. Avevo sete. Tutto il mio corpo aveva sete.

«Stai morendo, Uccisore di Lupi», disse Magnus. «La luce si spegnerà nei tuoi occhi azzurri come se tutti i giorni dell’estate fossero finiti…»

«No, ti prego.» La sete era insopportabile. Avevo la bocca aperta, la schiena inarcata. E finalmente era giunto, l’ultimo orrore, la morte.

«Chiedi, figlio», disse. La faccia non era più la maschera ghignante: era trasfigurata dalla compassione. Sembrava quasi umana, e di una vecchiezza quasi naturale. «Chiedi e riceverai», disse.

Vidi l’acqua scorrere nei ruscelli di montagna della mia infanzia. «Aiutami. Ti prego.»

«Ti darò l’acqua di tutte le acque», mi disse all’orecchio. Mi sembrò che non fosse affatto bianco. Era semplicemente un vecchio seduto accanto a me. La sua faccia era umana e quasi triste.

Ma quando guardai il suo sorriso e le sue sopracciglia grigie inarcate, compresi che non era vero. Non era umano. Era lo stesso mostro antico: ma era sazio del mio sangue.

«Il vino di tutti i vini», mormorò. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.» Mi cinse con le braccia, mi attirò vicino, e io sentii un grande calore che emanava da lui. Sembrava colmo non di sangue, ma di amore per me.

«Chiedi, Uccisore di Lupi, e vivrai per sempre», disse. Ma la sua voce era stanca e bassa, e c’era qualcosa di distante e tragico nel suo sguardo.

Sentii la mia testa girarsi. Il mio corpo era una cosa pesante e umida che non potevo dominare. Non chiederò, morirò senza chiedere… e la grande disperazione che tanto temevo stava davanti a me, il vuoto che era la morte, e continuavo a dire «no». Dissi «no» con orrore. Non mi sarei piegato, al caos e all’orrore. Dissi «no».

«La vita eterna», mormorò.

Gli abbandonai la testa sulla spalla.

«Ostinato Uccisore di Lupi.» Le sue labbra mi toccarono. Il suo alito caldo e inodore mi sfiorò il collo.

«Non sono ostinato», mormorai. La mia voce era debolissima e mi chiedevo se poteva udirmi. «Coraggioso. Non ostinato.» Mi sembrava inutile non dirlo. Cosa contava la vanità, ormai? Esisteva ancora qualcosa? E ostinato era una parola così banale, così crudele…

Mi sollevò la faccia e, tenendomi stretto con la destra, alzò la mano sinistra e si kcerò la gola con le unghie.

Mi piegai in due per l’orrore, convulsamente. Ma mi accostò la faccia alla ferita e disse: «Bevi».

Sentii il mio urlo assordante. E il sangue che scorreva dalla lacerazione toccò le mie labbra aride e screpolate.

La sete sembrava sibilare. Leccai il sangue. E una grande sferzata di sensazioni mi investì. La mia bocca si aprì, si chiuse sulla ferita. Attinsi con tutte le mie forze alla grande fonte che avrebbe soddisfatto la mia sete, lo sapevo, come mai era stata soddisfatta.

Sangue e sangue e sangue. E non era soltanto il sibilo della sete, quello che veniva placato e dissolto; erano tutti i miei desideri, tutti i miei desideri e l’infelicità e gli appetiti.

Allargai la bocca e la premetti. Sentii il sangue scorrermi in gola. Sentii la sua testa contro di me. Sentii la stretta ferma delle sue braccia.

Ero avvinto a lui e sentivo i muscoli, le ossa, il contorno delle mani. Conoscevo il suo corpo. Eppure c’era un torpore che s’insinuava in me, e un fremito estatico di sensazioni che penetrava in quel torpore e ingigantiva, diventava più pieno e più intenso, e io potevo quasi vedere ciò che sentivo.

Ma la parte suprema continuava a essere il sangue dolce e ricco che mi saziava mentre bevevo e bevevo.

Ancora, ancora: non pensavo ad altro, se pure pensavo. E, sebbene fosse denso, era come una luce che entrava in me, tanto appariva fulgido alla mente e abbagliante, quel flusso rosso, e tutti i desideri disperati della mia vita venivano saziati mille volte.

Ma il corpo di Magnus, l’impalcatura cui mi aggrappavo, si andava indebolendo. Sentivo il suo respiro rantolare debolmente. Tuttavia non mi disse di smettere.

Ti amo, avrei voluto dire. Magnus, mio signore ultraterreno, per quanto tu sia ripugnante, io ti amo, ti amo: questo è ciò che ho sempre desiderato e non ho mai potuto avere, questo, e tu me l’hai dato!

Sentivo che sarei morto se fosse continuato; eppure continuava e io non morivo.

Ma all’improvviso sentii le mani affettuose che mi accarezzavano le spalle. Con la sua forza incalcolabile mi scostò.

Gettai un lungo grido doloroso, Magnus mi stava facendo alzare in piedi. Mi teneva ancora fra le braccia.

Mi portò alla finestra e io guardai fuori, con le mani appoggiate alla pietra. Tremavo, e il sangue mi pulsava nelle vene. Appoggiai la fronte alla sbarra di ferro.

Lontano lontano, sotto di me, c’era la vetta scura di una collina, coperta di alberi che,sembravano tremolare nella luce fioca delle stelle.

E più oltre, la città tempestata di piccole luci sprofondava non già nel buio ma in una tenue nebbia violetta. La neve era luminescente e si scioglieva. I tetti, le torri, i muri avevano mille sfaccettature lavanda, malva, rosa.

Era la grande metropoli.

Socchiusi le palpebre e vidi un milione di finestre, come altrettante proiezioni di raggi di luce; e poi, come se non bastasse, scorsi il movimento inconfondibile della gente. Minuscoli mortali nelle vie minuscole, teste e mani che si toccavano nell’ombra, un uomo solitario, nulla più di un puntolino, che saliva su un campanile investito dal vento. Un milione di anime sulla superficie infiocchettata della notte, e nell’aria giungeva il vago mescolarsi di innumerevoli voci umane. Grida, canti, lievi accenni di musica, il rintocco smorzato delle campane.

Gemetti. La brezza parve sollevarmi i capelli, e sentii la mia voce piangere come non l’avevo mai udita.

La città si offuscò. L’abbandonai, i suoi milioni di abitanti si persero nuovamente nel gioco meraviglioso delle ombre lillà e della luce morente.

«Oh, che cosa hai fatto, che cosa mi hai dato!» bisbigliai.

Sembrava che le mie parole non si arrestassero una dopo l’altra, ma confluissero fino a far diventare il mio grido un unico suono coerente che amplificava alla perfezione il mio orrore e la mia gioia.

Se c’era un Dio, non aveva più importanza. Faceva parte di un reame opaco e squallido i cui segreti erano stati saccheggiati da molto tempo, le cui luci si erano spente. Quello era il centro palpitante della vita, intorno al quale orbitava ogni complessità. Ah, il fascino di quella complessità, il senso di essere presente…

Dietro di me, lo scalpiccio dei piedi del mostro sulle pietre.

E quando mi voltai lo vidi bianco ed esangue, come il guscio disseccato di se stesso. Gli occhi erano macchiati di lacrime rosse come il sangue. Tese le mani verso di me come se soffrisse.

Lo strinsi al petto. Provavo per lui un amore quale non avevo mai conosciuto.

«Ah, non capisci?» disse la voce terribile dalle parole protratte come sussurri senza fine. «O mio erede, prescelto per prendere da me il Dono Tenebroso con più fibra e coraggio di dieci mortali, che Figlio della Tenebra sarai!»

Gli baciai le palpebre. Passai le mani sui morbidi capelli neri. Per me, adesso, non era una creatura orribile, ma semplicemente qualcosa di strano e pallido, custode di una lezione più profonda, forse, degli alberi che stormivano laggiù e della città baluginante che mi chiamava da miglia e miglia di distanza.

Le guance infossate, il collo lungo, le gambe esili… erano solo le parti naturali di lui.

«No, aquilotto», sospirò. «Serba i tuoi baci per il mondo. Il mio momento è venuto e tu mi devi obbedire una sola volta. Seguimi.»

3.

Mi attirò giù per una scala tortuosa. E tutto ciò che vedevo mi assorbiva. Le pietre rozzamente intagliate sembravano irradiare una luce propria e persino i ratti che sfrecciavano nel buio avevano una bizzarra bellezza.

Poi aprì una porta massiccia di legno borchiata di ferro, mi porse il pesante mazzo di chiavi e mi condusse in una grande camera spoglia. «Ora sei il mio erede, come ti ho detto. Prenderai possesso di questa casa e del mio tesoro. Ma prima farai ciò che ti dirò.»

Le finestre chiuse dalle grate offrivano una veduta illimitata delle nubi illuminate dalla luna, e vidi di nuovo la città baluginare come se allargasse le braccia.

«Ah, più tardi potrai guardare tutto a sazietà», disse Magnus. Si girò verso di me mentre stava davanti a un grande mucchio di legna accatastato al centro del pavimento.

«Ascolta con attenzione», disse, «perché sto per lasciarti.» Indicò la legna con noncuranza. «E vi sono certe cose che devi sapere. Ora sei immortale. E presto la tua natura ti condurrà alla prima vittima umana. Sii rapido e non avere misericordia. Ma interrompi il tuo banchetto, per quanto delizioso, prima che il cuore della vittima cessi di battere.

«Negli anni futuri sarai abbastanza forte per sentire quel grande momento; ma per ora cedi la coppa al tempo prima che sia vuota. Altrimenti potresti pagare il tuo orgoglio a caro prezzo.»

«Ma perché mi abbandoni?» chiesi, disperato. Mi aggrappai a lui. Vittime, misericordia, banchetti… Mi sentivo bombardato da quelle parole come se fossero percosse.

Si svincolò da me così facilmente che il movimento mi fece male alle mani. Le guardai, meravigliato dalla strana qualità del dolore. Non era come il dolore dei mortali

Tuttavia si fermò e indicò le pietre del muro di fronte. Vidi che una, molto grande, era stata smossa, e si trovava a un piede dal resto della superficie.

«Afferrala», disse Magnus. «E toglila dal muro.» «Non posso», obiettai. «Deve pesare…»

«Toglila!» Tese un indice ossuto e fece una smorfia. Cercai di obbedire.

Con immenso sbalordimento smossi la pietra con facilità e vidi un’apertura buia, abbastanza ampia perché un uomo potesse passare strisciando.

Proruppe in una risata secca e annuì.

«Là, figlio mio, c’è il passaggio che porta al mio tesoro», disse. «Fa’ ciò che vuoi di quel tesoro, e di tutte le mie proprietà terrene. Ma per ora, devo avere i miei voti.»

Poi, sorprendendomi di nuovo, prese due fuscelli di legno e li strofinò con forza fino a far scaturire due fiammelle.

Li gettò sul mucchio di legna, e la resina fece divampare il fuoco, che gettò un’immensa luce sul soffitto a volte e sui muri di pietra.

Indietreggiai con un grido. Il tumulto giallo e arancione m’incantava e mi spaventava e il caldo, sebbene lo percepissi, non mi causava una sensazione comprensibile. Era squisito, e per la prima volta mi accorsi di aver avuto molto freddo. Il freddo era come una crosta di ghiaccio che mi rivestiva e il fuoco lo scioglieva, facendomi quasi gemere.

Magnus rise di nuovo, quella risata rantolante, e cominciò a danzare nella luce. Le gambe esili lo facevano sembrare uno scheletro con la faccia bianca di un uomo. Alzò le mani sopra la testa, piegò il busto e le ginocchia, e girò su se stesso, intorno al fuoco.

«Mon Dieu!» bisbigliai. Ero stordito. Appena un’ora prima sarebbe stato orribile vederlo danzare così; ma ora, in quella luce palpitante, era uno spettacolo che mi attirava a seguirlo passo passo. La luce esplodeva sui cenci di raso, sui pantaloni e sulla camicia lacera.

«Ma non puoi lasciarmi!» lo supplicai, cercando di conservare nitidi i pensieri e di comprendere ciò che aveva detto. La mia voce aveva un suono mostruoso. Cercai di abbassarla. «Dove andrai?»

Proruppe in una risata fragorosa, si battè la mano sulla coscia e danzò più svelto, allontanandosi da me, con le mani protese come per abbracciare il fuoco.

Solo adesso si stavano accendendo i ceppi più grossi. La camera, nonostante la grandezza, era come un grande forno d’argilla, e il fumo usciva a fiotti dalle finestre.

«No, il fuoco no!» Mi buttai all’indietro contro il muro. «Non puoi finire nel fuoco!»

La paura mi soverchiava, come tutto mi aveva soverchiato. Era come ogni sensazione che avevo conosciuto fino a quel momento. Non potevo resisterle e neppure negarla. Piagnucolavo e urlavo.

«Oh, sì, posso», rise Magnus. «Sì, posso!» Rovesciò la testa all’indietro e la sua risata si prolungò in ululati. «Ma da te, aquilotto, ora voglio una promessa», disse fermandosi davanti a me con l’indice proteso. «Suvvia, un piccolo onore mortale, mio coraggioso Uccisore di Lupi, altrimenti, anche se mi si spezzerà il cuore, ti getterò nel fuoco e mi cercherò un altro figlio. Rispondi!»

Tentai invano di parlare. Annuii.

Nella luce divampante vidi le mie mani diventare bianche. E sentii una fitta dolorosa al labbro inferiore che quasi mi fece gridare.

I miei canini erano già diventati zanne! Li sentii e guardai Magnus in preda al panico, ma lui ghignava come se godesse del mio terrore.

«Ora, dopo che sarò bruciato», disse afferrandomi il polso, «e dopo che il fuoco sarà spento, devi disperdere le ceneri. Ascoltami, piccolo. Disperdi le ceneri, altrimenti posso ritornare, e non oso pensare quale forma potrei assumere. Ma ricorda le mie parole: se mi permetterai di ritornare più orrendo di quanto sia ora, ti darò la caccia e ti brucerò fino a quando sarai sfigurato come me. Hai compreso?»

Non trovavo ancora la forza di rispondere. Non era paura. Era l’inferno. Sentivo i miei denti crescere, il mio corpo fremere. Annuii, freneticamente.

«Ah, sì.» Magnus sorrise e annuì a sua volta. Il fuoco lambiva il soffitto dietro di lui, la luce gli alonava la faccia. «Ora vado in cerca dell’inferno, se esiste l’inferno, oppure del dolce oblio che sicuramente non merito. Se esiste un Principe delle Tenebre, allora finalmente lo vedrò. E gli sputerò in faccia.

«Perciò disperdi ciò che sarà bruciato, te lo comando: e poi raggiungi il mio covo attraverso quel passaggio e abbi cura di rimettere a posto la pietra. Vi troverai la mia bara. In quella, o in un’altra simile, dovrai rinchiuderti durante il giorno, altrimenti la luce del sole ti incenerirà. Ricorda le mie parole: sulla terra nulla può porre fine alla tua vita tranne il sole, o un fuoco come quello che vedi davanti a te; e in questo caso, come ho detto, solo se le ceneri verranno disperse.»

Distolsi il viso da Magnus e dalle fiamme. Avevo cominciato a piangere, e per non singhiozzare mi premevo la mano contro la bocca.

Magnus mi attirò intorno al fuoco, davanti alla pietra smossa, e l’additò di nuovo.

«Rimani con me, ti prego», lo implorai. «Ancora un poco, ancora una notte!» Il volume della mia voce mi atterrì di nuovo. Non era la mia voce. Lo abbracciai. Lo strinsi. La faccia bianca e scarna mi appariva inspiegabilmente bella, e gli occhi neri avevano l’espressione più strana.

La luce gli guizzava sui capelli e sugli occhi. Atteggiò di nuovo la bocca in un sorriso buffonesco.

«Ah, figlio avido», disse. «Non ti basta essere immortale con tutto il mondo a tua disposizione? Addio, piccolo. Fai ciò che ti dico. Ricorda, le ceneri! E, oltre questa pietra, la camera interna. Là c’è tutto ciò di cui avrai bisogno per esistere nella prosperità.»

Mi sforzai di trattenerlo. Rise sommessamente al mio orecchio, meravigliandosi della mia forza. «Eccellente, eccellente», mormorò. «Ora vivi per sempre, bell’Uccisore di Lupi, con i doni che ho aggiunto alle tue doti.»

Mi scostò facendomi vacillare. E spiccò un balzo così alto, per ricadere in mezzo alle fiamme, che mi sembrò volasse.

Lo vidi discendere. Vidi il fuoco appiccarsi alle sue vesti.

Mi sembrò che la testa diventasse una torcia. All’improvviso gli occhi si spalancarono, la bocca divenne una grande caverna nera nello splendore delle fiamme, la risata acquistò un volume penetrante. Mi tappai le orecchie.

Sembrava saltare carponi nelle fiamme. Di colpo mi accorsi che le mie grida avevano sommerso la sua risata.

Le braccia e le gambe esili e nere si alzarono e si abbassarono, e all’improvviso sembrarono consumarsi. Il fuoco si spostò e ruggì. E nel suo cuore non vidi più nulla se non la vampa.

Ma continuai a gridare. Caddi in ginocchio coprendomi gli occhi con le mani. Ma da dietro le palpebre chiuse continuai a vedere un’esplosione di scintille dopo l’altra, fino a quando premetti la fronte sulle pietre.

4.

Mi parve di restare a giacere sul pavimento per anni a guardare il fuoco che si consumava.

La camera s’era raffreddata. L’aria gelida entrava dalla finestra aperta. Piansi a lungo. I miei singhiozzi mi riecheggiarono nelle orecchie fino a quando sentii di non poterne più sopportare il suono. E non era un conforto sapere che ogni cosa era ingigantita in quello stato, persino la mia infelicità.

Ogni tanto pregavo. Invocavo perdono, anche se non avrei saputo dire per che cosa lo chiedevo. Pregavo la Madonna e i santi. Mormoravo le Avemaria fino a quando diventavano una cantilena priva di significato.

E le mie lacrime erano sangue, e lasciavano macchie sulle mie mani quando mi asciugavo il viso.

Poi restai disteso sulle pietre. Non mormoravo più preghiere, ma quelle suppliche inarticolate che rivolgiamo a tutto ciò che è potente, a tutto ciò che è sacro, che può forse esistere con qualunque nome. Non lasciarmi qui solo. Non mi abbandonare. Sono nel luogo delle streghe. È il luogo delle streghe. Non permettere che precipiti ancora più in basso di quanto sia precipitato questa notte. Non permettere che avvenga… Lestat, svegliati.

Ma mi tornavano alla mente le parole di Magnus: In cerca dell’inferno, se esiste l’inferno… Se c’è un Principe delle Tenebre…

Finalmente mi sollevai sulle mani e sulle ginocchia. Mi sentivo stordito, pazzo, quasi in preda alle vertigini. Guardai il fuoco e vidi che avrei potuto ancora riattizzarlo e buttarmi tra le fiamme.

Ma mentre m’imponevo di immaginarne la sofferenza, compresi che non intendevo farlo.

Perché avrei dovuto, dopotutto? Che avevo fatto per meritare la sorte delle streghe? Non volevo andare all’inferno neppure per un momento. Non intendevo andarvi solo per sputare in faccia al Principe delle Tenebre, chiunque fosse.

Al contrario: se ero un essere dannato, allora che quel figlio d’un cane venisse a prendermi, e mi dicesse perché dovevo soffrire. Mi sarebbe piaciuto saperlo, davvero.

In quanto all’oblio, ecco, possiamo aspettare un poco. Possiamo pensarci per qualche tempo.

Una calma sconosciuta si insinuò lentamente in me. Ero cupo, colmo di amarezza e mi sentivo sempre più affascinato.

Non ero più umano.

E, mentre stavo acquattato a pensarci e guardavo le braci agonizzanti, una forza immensa cresceva dentro di me. A poco a poco i singhiozzi fanciulleschi cessarono. Cominciai a studiare il biancore della mia pelle, i due canini appuntiti, le unghie che brillavano nel buio come fossero laccate.

Tutti i doloretti abituali erano spariti dal mio corpo. E il calore che ancora giungeva dalla legna fumante era piacevole, come un drappo avvolto intorno a me.

Il tempo passava; e tuttavia non passava.

Ogni cambiamento nel moto dell’aria era carezzevole. E quando giungeva dalla città lievemente illuminata un coro di campane che suonavano l’ora, non segnava il trascorrere del tempo mortale. C’era soltanto la musica purissima e io giacevo stordito, con la bocca aperta, a guardare le nubi che passavano.

Ma incominciai a sentire nel petto un dolore nuovo, rovente e capriccioso.

Mi scorreva nelle vene, mi serrava la testa, e poi sembrava raccogliersi nelle mie viscere. Socchiusi gli occhi. Inclinai la testa. Mi resi conto che non avevo paura di quella sofferenza: mi sentivo, piuttosto, come se l’ascoltassi.

E ne compresi la causa. I miei escrementi mi lasciavano sotto forma di un piccolo torrente. Non riuscivo a controllarlo. Tuttavia, mentre guardavo quel viscidume immondo che mi macchiava gli abiti, non mi disgustava.

I ratti che si muovevano nella camera e si avvicinavano alla sozzura con le minuscole zampette silenziose… neppure i ratti mi disgustavano.

Non potevano toccarmi neppure mentre mi camminavano addosso per divorare i rifiuti.

Non riuscivo a immaginare nulla, nella tenebra, neppure gli insetti viscidi della tomba, che potesse ispirarmi repulsione. Potevano strisciarmi sulle mani e sulla faccia. Non aveva importanza.

Non facevo parte del mondo che rabbrividiva di quelle cose. E con un sorriso mi resi conto che facevo parte della stirpe tenebrosa, la stirpe che fa tremare gli altri. Risi, lentamente e con il più grande piacere.

Eppure la sofferenza non mi aveva abbandonato completamente. Indugiava come un’idea, e quell’idea racchiudeva una pura verità.

Sono morto. Sono un vampiro. Tante cose morranno perché io possa vivere; berrò il loro sangue per poter vivere. E non vedrò mai più, mai più Nicolas e mia madre, e gli umani che ho conosciuto e amato, e altri della mia famiglia umana. Berrò sangue. E vivrò in eterno. È esattamente ciò che accadrà. E ciò che accadrà sta incominciando: è appena nato! E il travaglio che l’ha prodotto è stato un’estasi quale non ho mai conosciuto.

Mi alzai. Mi sentivo leggero e forte, e stranamente intorpidito. Mi accostai al fuoco spento e camminai tra le braci consunte.

Non c’erano ossa. Era come se il demonio si fosse disintegrato. Le ceneri che potei raccogliere nelle mani, le portai alla finestra. E quando il vento le afferrò, mormorai un addio a Magnus domandandomi se poteva ancora udirmi. Finalmente restarono soltanto i ceppi bruciati e la fuliggine che mi scossi dalle mani, nell’oscurità. Era venuto il momento di esaminare la camera interna.

5.

Far uscire la pietra fu facile, come avevo avuto modo di constatare. All’interno c’era un gancio che mi avrebbe permesso di richiuderla dietro di me.

Ma per infilarmi nello stretto varco buio dovevo mettermi bocconi. E, quando mi inginocchiai e guardai, non scorsi in fondo neppure un barlume di luce. Non mi piaceva.

Sapevo che se fossi stato ancora mortale, nulla avrebbe potuto indurmi a strisciare in un passaggio come quello.

Ma il vecchio vampiro mi aveva detto chiaramente che il sole poteva annientarmi come il fuoco. Dovevo entrare nella bara. E sentii la paura che tornava a travolgermi come un diluvio.

Mi stesi sul pavimento e strisciai a mo’ di lucertola nel passaggio. Come avevo temuto, non potevo alzare la testa. Non c’era spazio per voltarmi e tirare il gancio. Dovetti infilare il piede in quest’ultimo e trascinarmi avanti, per chiudere la pietra.

Tenebra totale. E c’era appena lo spazio per sollevarmi di qualche pollice sui gomiti.

Soffocai un’esclamazione. La paura ingigantì e quasi sentii di impazzire, pensando che non potevo alzare la testa. Alla fine sbattei contro la pietra e rimasi immobile a gemere.

Ma cosa dovevo fare? Dovevo raggiungere la bara.

Perciò dissi a me stesso di non piagnucolare più e strisciai più in fretta. Il suolo mi scalfiva le ginocchia. Le mie mani cercavano crepe e incrinature per usarle come appigli. Avevo il collo indolenzito mentre mi sforzavo di non alzare la testa in preda al panico.

E quando all’improvviso la mia mano sentì la pietra davanti a me, la spinsi con tutte le mie forze. La sentii muovere mentre appariva una luce pallida.

Uscii dal passaggio e mi trovai in una stanzetta.

Il soffitto era basso, curvo, e la finestra era stretta, con le solite sbarre. Ma la luce dolce e violacea della notte rivelava un grande camino nella parete di fronte, la legna pronta da accendere e accanto, sotto la finestra, un antico sarcofago di pietra,

Sul sarcofago stava il mantello foderato di pelliccia. E su una rozza panca vidi uno splendido abito di velluto rosso ricamato d’oro e con una quantità di pizzi italiani, e brache di seta rossa e calze di seta bianca e scarpe con il tacco vermiglio.

Mi scostai i capelli dal viso, mi asciugai il rivolo di sudore dal labbro e dalla fronte. Il sudore era insanguinato; e quando lo vidi sulle mie mani provai una bizzarra eccitazione.

Ah, che cosa sono? pensai. E che cosa mi attende? Per un lungo momento guardai il sangue e mi leccai le dita. Un piacere delizioso, esaltante, mi pervase. Passò un momento prima che mi riprendessi quanto bastava per avvicinarmi al camino.

Presi due legnetti come aveva fatto il vecchio vampiro, li strofinai in fretta e con forza, e li vidi quasi sparire quando ne scaturì una fiamma. Non era una magia, ma solo questione di abilità. E mentre il fuoco mi riscaldava, mi tolsi gli indumenti sporchi; con la camicia asciugai fino all’ultima traccia di sozzura, e buttai tutto nel fuoco prima di mettere gli abiti nuovi.

Rosso, rosso abbagliante. Neppure Nicolas aveva posseduto capi come quelli. Erano fatti per la corte di Versailles, con perle e piccoli rubini inclusi nel ricamo. Il pizzo della camicia era Valenciennes, e io l’avevo visto solo nell’abito da sposa di mia madre.

Misi sulle spalle il mantello foderato di pelli di lupo. E, sebbene il gelo bianco avesse abbandonato le mie membra, mi sentivo come se fossi scolpito nel ghiaccio. Il mio sorriso era duro e scintillante, stranamente lento, mentre toccavo e guardavo gli indumenti.

Alla luce del fuoco, guardai il sarcofago. Sul coperchio pesante era scolpita l’effìgie di un vecchio, e compresi subito che era Magnus.

Ma lì giaceva sereno, con la bocca da buffone chiusa, gli occhi che fissavano miti il soffitto, i capelli disposti in una criniera ordinata di onde e riccioletti.

Sicuramente risaliva a tre secoli prima. Giaceva con le mani incrociate sul petto, avvolto in lunghe vesti, e qualcuno aveva spezzato l’impugnatura e una parte del fodero della spada scolpita nella pietra.

Restai a fissarla per un tempo interminabile. Vedevo che era stata scalpellata con estremo sforzo.

Forse qualcuno aveva cercato di rimuovere la forma della croce? La tracciai con il dito. Non accadde nulla, naturalmente, come non era accaduto nulla quando avevo mormorato tutte quelle preghiere. Mi accosciai accanto al sarcofago e tracciai una croce nella polvere.

Non accadde nulla neppure questa volta.

Poi aggiunsi alcuni tratti per indicare il corpo di Cristo, le braccia, le ginocchia, la testa china. Scrissi «Nostro Signore Gesù Cristo», le sole parole che sapevo scrivere bene a parte il mio nome; e anche stavolta non accadde nulla.

Continuai a guardare, irrequieto, le parole e il piccolo crocifìsso, e cercai di sollevare il coperchio.

Nonostante la mia nuova forma, non fu facile. E nessun mortale avrebbe potuto riuscire da solo.

Ma a sconcertarmi era la difficoltà. Non avevo una forza illimitata. E non avevo certo quella del vecchio vampiro. Forse possedevo la forza di tre uomini o quattro: era impossibile fare un calcolo.

Al momento mi sembrava terribilmente impressionante.

Guardai nel sarcofago. Era uno spazio stretto, pieno d’ombre, e non potevo immaginare di giacere lì dentro. C’era una scritta in latino scolpita intorno al bordo, e non sapevo leggerla.

Quel pensiero mi tormentava. Avrei voluto che le parole non ci fossero; la nostalgia per Magnus e la mia impotenza minacciavano di travolgermi. Lo odiavo perché mi aveva abbandonato! E mi colpì, con violenza ironica, la certezza di aver provato amore per lui prima che si gettasse nel fuoco. Avevo provato amore per lui quando avevo visto gli indumenti rossi.

I demoni si amano scambievolmente? Passeggiano abbracciati nell’inferno dicendo «Ah, tu sei mio amico, quanto ti amo», e cose del genere? Era un interrogativo accademico, dato che non credevo nell’inferno. Ma era solo questione di una concezione del male, no? Tutte le creature dell’inferno dovrebbero odiarsi, come tutti coloro che sono salvati odiano i dannati, senza riserve.

L’avevo saputo da sempre. L’idea mi aveva terrorizzato fin da quand’ero bambino: che io avrei potuto andare in paradiso e mia madre sarebbe potuta finire all’inferno sicché avrei dovuto odiarla. Non potevo odiarla. E se fossimo finiti all’inferno insieme?

Bene, ora so, indipendentemente dal fatto che io creda o no nell’inferno, che tra i vampiri può esistere l’amore, e che pur essendo dediti al male non si smette di amare. O almeno così mi parve per quel breve istante. Ma non potevo ricominciare a piangere. Non sopportavo tutti quei pianti.

Girai lo sguardo verso una grande cassapanca di legno parzialmente nascosta dal sarcofago. Non era chiusa a chiave. Il coperchio marcio cadde quasi dai cardini quando l’aprii.

E, sebbene il mio vecchio maestro avesse detto che mi lasciava il suo tesoro, rimasi sbalordito da ciò che vidi. La cassapanca traboccava di gemme, oro e argento. C’erano innumerevoli anelli con pietre preziose, collane di diamanti, fili di perle, piatti e monete e centinaia e centinaia di oggetti di gran pregio.

Passai lievemente le dita su quel mucchio e poi vi affondai le mani, soffocando un’esclamazione quando la luce fece sfolgorare il rosso dei rubini e il verde degli smeraldi. Vedevo rifrazioni di colori che non avevo mai sognato, e una ricchezza incalcolabile. Era il favoloso scrigno dei pirati dei Caraibi, il leggendario riscatto d’un re.

E adesso era mio.

L’esaminai più attentamente. C’erano sparsi anche oggetti personali e deperibili. Maschere di raso imputridite e orlate d’oro, fazzoletti di trine e pezzi di stoffa cui erano fissate spille e broches. C’era un pezzo di finimento in pelle ornato di campanelli d’oro, una trina muffita infilata in un anello, dozzine di tabacchiere, medaglioni con nastri di velluto.

Magnus aveva preso tutto alle sue vittime?

Sollevai una spada incrostata di gemme, troppo pesante per quei tempi, e una scarpa lisa, forse conservata per la fibbia di strass.

Naturalmente aveva preso ciò che voleva. Tuttavia aveva indossato quei cenci, quel costume sbrindellato di un’altra epoca, e aveva vissuto lì come un eremita avrebbe potuto vivere in un secolo precedente. Non capivo.

Ma nel tesoro c’erano altri oggetti. Rosari di gemme splendide, che conservavano ancora i crocifissi! Toccai le piccole immagini sacre. Scossi la testa e mi morsi le labbra come per dire: È tremendo che li abbia rubati! Ma era anche divertente. Ed era una prova in più del fatto che Dio non aveva alcun potere su di me.

E mentre riflettevo e cercavo di comprendere se era davvero tutto fortuito come sembrava al momento, sollevai uno specchio squisito dal manico di perle.

Lo guardai, quasi inconsciamente, come capita spesso di guardare gli specchi. E mi vidi, come poteva aspettarsi un uomo: ma la mia pelle era bianchissima come lo era stata quella del vecchio demonio, e i miei occhi avevano assunto una sfumatura tra il violetto e il cobalto, dall’iridescenza sommessa. I miei capelli erano lustri, e quando vi passai le dita, vi sentii una vitalità strana e nuova.

Nello specchio non vedevo Lestat, bensì una sua copia fatta di altre sostanze. E le poche rughe che il tempo mi aveva dato all’età di vent’anni erano sparite o s’erano semplificate diventando poco più profonde di prima.

Fissai la mia immagine riflessa. Divenni smanioso di scoprirvi me stesso. Mi massaggiai il viso, strofinai persino lo specchio e strinsi le labbra per non piangere.

Finalmente chiusi gli occhi e li riaprii, e sorrisi dolcemente a quell’essere. L’essere ricambiò il sorriso. Era Lestat, davvero. E nel suo viso non c’era nulla di malevolo. Be’, non molto malevolo. Solo la malizia di un tempo, la stessa impulsività. Avrebbe potuto essere un angelo; ma quando piangeva le lacrime erano rosse, e l’intera immagine si colorava di rosso. E aveva quei denti maligni che poteva premere contro il labbro inferiore quando sorrideva, e che lo facevano apparire terrificante. Un volto piuttosto buono con qualcosa che stonava orribilmente, orribilmente.

Ma all’improvviso pensai: «Sto guardando la mia immagine! E non era stato detto e ridetto che spettri e spiriti e coloro che hanno perduto l’anima non si riflettono negli specchi?»

Fui preso dalla smania di sapere tutto ciò che ero. Dalla smania di sapere come dovevo muovermi tra i mortali. Volevo girare per le vie di Parigi e vedere con i miei occhi nuovi tutti i miracoli della vita che avevo appena intravvisto. Volevo vedere le facce della gente, vedere i fiori in boccio, e le farfalle. Vedere Nicki e ascoltare Nicki che suonava la sua musica… no.

Dovevo rinunciare. Ma c’erano centinaia di forme di musica, no? E quando chiudevo gli occhi potevo quasi sentire l’orchestra dell’Opera, e le arie che mi risuonavano all’orecchio. Il ricordo era così chiaro, così nitido.

Ma ormai non vi sarebbe stato più nulla dì normale. Né la gioia né il dolore né il ricordo più semplice. Tutto avrebbe avuto un fulgore magnifico, persino il rammarico per le cose perdute per sempre.

Posai lo specchio, presi dalla cassapanca uno dei vecchi fazzoletti di trine ingiallite e mi asciugai le lacrime. Mi voltai e sedetti accanto al fuoco. Il calore era delizioso sul mio viso e sulle mani.

Una grande, dolce sonnolenza mi vinse; chiusi di nuovo gli occhi e all’improvviso mi sentii immerso nello strano sogno di Magnus che rubava il sangue. Tornò il senso d’incantamento, di piacere vertiginoso… Magnus che mi teneva e il mio sangue che fluiva in lui. Ma sentivo le catene che stridevano sul pavimento della vecchia catacomba, vedevo il vampiro indifeso tra le traccia di Magnus. C’era qualcosa di più… qualcosa d’importante. Un significato. A proposito del furto, del tradimento… la decisione di non arrendersi a nessuno, né Dio né demone e neppure uomo.

Pensai e pensai, semisveglio e semismarrito nel sogno, e fui colpito dal pensiero più folle: avrei detto tutto a Nicki, appena fossi tornato a casa avrei raccontato tutto, il sogno e il suo possibile significato, e avremmo parlato…

Aprii gli occhi con un sussulto. L’umano che era in me si guardò intorno disperato. Ricominciò a piangere, e il demone appena nato era troppo giovane per tenerlo a freno. I singhiozzi erano violenti, e mi coprii la bocca con la mano.

Magnus, perché mi hai lasciato? Magnus, che cosa devo fare, come posso andare avanti?

Piegai le ginocchia e vi appoggiai la testa. A poco a poco la mia mente si schiarì.

«Bene, è stato divertente fingere di essere quel vampiro», pensai, «e portare quei vestiti lussuosi e passare le dita tra quelle ricchezze. Ma non puoi vivere così! Non puoi nutrirti di esseri viventi! Anche se sei un mostro, hai una coscienza che ti è naturale… il Bene e il Male, il bene e il male. Non puoi vivere senza credere in… Non puoi ammettere gli atti che… domani… domani… che cosa farai? Berrai il sangue, no

L’oro e le pietre preziose brillavano come braci nella cassapanca, e al di là delle sbarre della finestra spiccava contro le nubi grigie il riverbero violetto della città lontana. Com’è il loro sangue? Il sangue vivo e caldo, non il sangue dei mostri. Premetti la lingua contro il palato, contro le zanne.

Pensaci, Uccisore di Lupi.


Mi alzai in piedi, lentamente. Era come se fosse la volontà a fare in modo che accadesse, e non il corpo. Era così facile. Presi il mazzo di chiavi che avevo trovato nella stanza, e andai a ispezionare il resto della mia torre.

6.

Stanze vuote. Finestre con le grate. La grande volta infinita della notte sugli spalti. Fu tutto ciò che trovai al di sopra del piano terreno.

Ma al piano inferiore della torre, davanti alla porta della scala delle segrete, c’era una torcia resinosa infilata in un anello, e una scatola con l’esca nella nicchia vicina. Orme nella polvere. La serratura ben oliata e facile da aprire quando finalmente trovai la chiave giusta…

Protesi la torcia davanti a me nella stretta scala a chiocciola e cominciai a scendere, un po’ schifato dal lezzo che saliva da molto più in basso.

Naturalmente conoscevo quel lezzo. Era abbastanza comune in tutti i cimiteri di Parigi. Agli Innocenti era come un vapore nocivo, e bisognava sopportarlo per fare compere nei banchetti e parlare con gli scrivani. Era il fetore dei cadaveri in decomposizione.

E, sebbene mi nauseasse e mi costringesse a risalire di qualche gradino, non era poi tanto forte, e l’odore della resina che bruciava contribuiva a vincerlo.

Continuai la discesa. Se lì c’erano mortali defunti… be’, non potevo comunque fuggire.

Ma al primo livello sotterraneo non trovai nessun cadavere. C’era solo una grande camera sepolcrale, con le porte di ferro arrugginite aperte verso la scala, e tre giganteschi sarcofagi di pietra al centro. Era molto simile alla cella di Magnus, ma era assai più grande. Aveva lo stesso soffitto a volta, e lo stesso camino rudimentale.

E che cosa poteva significare, se non che un tempo lì avevano dormito altri vampiri? Nessuno costruisce camini nei sepolcri. O almeno, a me non risultava. E c’erano panche di pietra. E i sarcofagi erano come quello che stava di sopra, con grandi figure scolpite sui coperchi.

Ma su tutto era posata la polvere degli anni. E c’erano tante ragnatele. Senza dubbio lì non dimoravano più i vampiri. Impossibile. Eppure era molto strano. Dov’erano coloro che avevano dormito nei sarcofagi? Si erano bruciati come Magnus? Oppure esistevano tuttora, chissà dove?

Andai ad aprire i sarcofagi, a uno a uno. Dentro c’era soltanto polvere. Niente faceva pensare alla presenza di altri vampiri, o alla loro esistenza.

Uscii e continuai a scendere la scala, anche se l’odore di putredine diventava sempre più forte. Molto presto, anzi, divenne insopportabile.

Proveniva da una porta che vedevo, più in basso. Dovetti compiere uno sforzo per avvicinarmi. Come mortale, naturalmente, avevo odiato quel fetore; ma non avevo mai provato nulla di simile all’avversione che sentivo ora. Il mio corpo nuovo voleva fuggire. Mi fermai, trassi un profondo respiro, e con uno sforzo mi avviai verso la porta, deciso a vedere che cosa aveva fatto lì il demonio.

Ebbene, il fetore non era nulla in confronto a ciò che vidi.

In una cella giaceva un cumulo di cadaveri in tutte le fasi della decomposizione, con le ossa e la carne putrida che brulicavano di vermi e insetti. I ratti fuggirono lontano dalla luce della torcia e mi sfiorarono le gambe correndo verso la scala. E la nausea divenne un nodo alla gola. Il lezzo mi soffocava.

Ma non potevo smettere di guardare quei corpi. C’era qualcosa d’importante, di terribilmente importante da comprendere. E all’improvviso mi resi conto che tutte le vittime erano stati uomini, come attestavano gli stivali e gli indumenti laceri, e tutti avevano avuto i capelli biondi, come i miei. I pochi che conservavano ancora i lineamenti sembravano giovani, alti, snelli. E il più recente… il cadavere madido e puzzolente che giaceva con le braccia protese attraverso le sbarre, mi somigliava tanto che avrebbe potuto essere mio fratello.

Stordito, mi avvicinai fino a che la punta del mio stivale gli toccò la testa. Abbassai la torcia e aprii la bocca come per urlare. Gli occhi viscidi coperti da moscerini erano azzurri!

Arretrai barcollando. Fui preso dalla paura folle che l’essere si muovesse e mi afferrasse la caviglia. E sapevo perché. Mentre indietreggiavo verso il muro inciampai in un piatto di cibo marcio e in una caraffa. La caraffa si rovesciò e si ruppe e il latte cagliato si sparse come vomito.

Il dolore mi serrò le costole. Il sangue mi salì alla bocca come fuoco liquido e mi sprizzò dalle labbra, piovve sul pavimento davanti a me. Dovetti appoggiarmi alla porta per sostenermi.

Ma, attraverso lo stordimento della nausea, fissai il sangue. Guardai lo splendido color cremisi alla luce della torcia. Lo vidi scurirsi mentre veniva assorbito dalla calce tra le pietre. Il sangue era vivo, e il suo odore dolce fendeva come una lama il lezzo dei morti. Gli spasimi della sete scacciarono la nausea. Inarcai la schiena. Mi chinai verso il sangue con elasticità sorprendente.

E intanto i miei pensieri turbinavano. Quel giovane aveva vissuto nella cella; il cibo marcio e il latte erano stati posti lì per nutrirlo o per tormentarlo. Era morto nella cella, prigioniero con i cadaveri, nella consapevolezza che presto sarebbe diventato uno di loro.

Dio, soffrire così! Soffrire così! E quanti altri avevano conosciuto esattamente la stessa sorte, giovani dai capelli biondi, tutti…

Ero in ginocchio, chino. Tenevo bassa la torcia con la mano sinistra e piegavo la testa verso il sangue. La lingua dardeggiava dalla bocca e la vedevo come la lingua di una lucertola. Leccava il sangue sul pavimento. Brividi d’estasi. Oh, era meraviglioso!

Perché lo facevo? Leccavo il sangue a meno di due pollici dal cadavere. Il mio cuore trasaliva a ogni assaggio, a meno di due pollici dal giovane morto che Magnus aveva portato lì come aveva portato me, del giovane che Magnus aveva condannato alla morte anziché all’immortalità.

La cella lurida sembrava palpitare come una fiamma mentre leccavo il sangue. I capelli del morto mi toccavano la fronte. Gli occhi, simili a un cristallo spezzato, mi fissavano.

Perché non ero rinchiuso in quella cella? Quale prova avevo superato? Perché adesso non ero lì a urlare e a scuotere le sbarre, attanagliato dall’orrore che avevo presagito nella locanda del villaggio?

I tremori del sangue passarono nelle mie braccia e nelle mie gambe. E il suono che udivo… il suono meraviglioso, affascinante come il cremisi del sangue, l’azzurro dell’occhio del ragazzo, le ali luccicanti dei moscerini, il corpo opalino e strisciante del verme, il fulgore della torcia… era il mio urlo crudo e gutturale.

Lasciai cadere la torcia e indietreggiai in ginocchio, urtai il piatto di stagno e la brocca rotta. Mi alzai e salii correndo la scala. E quando sbattei la porta della segreta, le mie grida salirono e salirono fino alla sommità della torre.

Ero perduto nel suono che rimbalzava tra le pietre e ritornava a me, Non potevo smettere, non potevo chiudere la bocca né soffocarlo.

Ma attraverso l’entrata chiusa dalle sbarre e una dozzina di finestrelle, più in alto, vidi la luce inconfondibile del mattino. Le mie urla si spensero. Le pietre avevano incominciato a brillare. La luce filtrava intorno a me come un vapore rovente e mi bruciava le palpebre.

Non decisi di fuggire. Fuggii, semplicemente, e salii, salii verso la camera segreta.

Quando uscii dal passaggio, la camera era piena d’un fievole fuoco purpureo. I gioielli che traboccavano dalla cassapanca parevano muoversi. Ero quasi cieco quando sollevai il coperchio del sarcofago.

Ricadde sopra di me. Il dolore al viso e alle mani si spense. Ero immobile, ero al sicuro; e la paura e l’angoscia si dileguarono in una fresca, sconfinata oscurità.

7.

Mi svegliò la sete.

E seppi subito dov’ero, e che cos’ero. Non vi furono dolci sogni mortali di vino bianco freddo, né di erba verde sotto i meli nel frutteto di mio padre.

Nella stretta oscurità della bara di pietra mi toccai le zanne con le dita, e sentii che erano particolarmente lunghe e acuminate come lame di minuscoli coltelli.

E un mortale era nella torre: sebbene non fosse arrivato alla porta della camera interna, potevo udire i suoi pensieri.

Udii la sua costernazione quando scoprì che la porta della scala era stata aperta. Non era mai accaduto. Udii la sua paura quando scoprì i ceppi bruciati sul pavimento e chiamò «Padrone!» Era un servitore, e un servitore infido.

Mi affascinava, quell’udito silenzioso della mente. Ma c’era qualcos’altro che mi turbava. Era il suo odore!

Sollevai il coperchio di pietra del sarcofago e uscii. L’odore era debole ma era quasi irresistibile. Era l’odore muschiato della prima puttana nel cui letto avevo sfogato la mia passione. Era la cacciagione arrostita dopo giorni di fame invernale. Era odore di vino nuovo, di mele fresche, dell’acqua che scrosciava dal ciglio d’una cascata in una giornata afosa, quando tendevo le mani per berla a sazietà.

Ma era incommensurabilmente più ricco, quell’odore, e l’appetito che accendeva era infinitamente più acuto e più semplice.

Mi mossi attraverso il tunnel segreto come un essere che nuota nella tenebra. Spinsi la pietra nella camera esterna e mi alzai in piedi.

C’era un mortale e mi fissava, pallido e sgomento.

Era un vecchio grinzoso; e dal groviglio indefinibile delle considerazioni nella sua mente, compresi che era un cocchiere. Ma era tutto di un’imprecisione esasperante.

Poi la malevolenza immediata che provava per me mi giunse come il caldo di una stufa. Era impossibile fraintenderla. I suoi occhi mi scrutarono la faccia e la figura. L’odio traboccò. Era stato lui a procurare i bei vestiti che indossavo. Era lui che aveva provveduto agli sfortunati rinchiusi nella segreta, finché erano vivi. E perché non ero là anch’io? chiedeva con silenziosa indignazione.

Questo me lo rendeva molto amabile, come potete immaginare. Lo avrei ucciso volentieri stritolandolo con le mie mani.

«Il padrone!» disse disperatamente. «Dov’è? Padrone!»

Ma cosa credeva che fosse, il padrone? Lo stregone di un re, ecco che cosa pensava. E adesso io avevo il potere. In sostanza, non sapeva nulla che potesse essermi utile.

Ma mentre comprendevo tutto questo e lo assimilavo dalla sua mente contro la sua volontà, mi sentii incantato dalle vene della sua faccia e delle sue mani. E l’odore mi inebriava.

Sentivo il palpito indistinto del suo cuore, e mi sembrava di gustare il sapore del suo sangue, esattamente, e intuivo che mi avrebbe saziato con la sua intensità e il suo calore.

«Il padrone non c’è più, è bruciato», mormorai. Sentivo uscire dalle mie labbra una strana voce monotona. Mi avvicinai lentamente.

L’uomo lanciò un’occhiata al pavimento annerito, alzò lo sguardo al soffitto fuligginoso. «No, è una menzogna», disse. Era indignato e la sua collera pulsava ai miei occhi come una luce. Sentivo l’amarezza dei suoi pensieri, i suoi ragionamenti disperati.

Ah, perché la carne vivente poteva apparire così? Ero in preda a un appetito spietato.

E l’uomo lo sapeva. In un suo modo folle e irrazionale, lo intuiva. Mi lanciò un’ultima occhiata malevola e corse verso la scala.

Lo raggiunsi immediatamente. Fu piacevole e così semplice. Un istante prima, decisi di scattare e di annullare la distanza tra noi. Un attimo dopo l’avevo tra le mani, impotente e lo tenevo sollevato, così che i piedi oscillavano e cercavano di colpirmi a calci.

Lo tenevo con la stessa facilità con cui un uomo poderoso avrebbe potuto tenere un bambino. La sua mente era un caos di pensieri frenetici, e sembrava incapace di decidere cosa poteva tentare di fare per salvarsi.

Ma il brusio sommesso dei pensieri era cancellato dalla visione che mi offriva.

Gli occhi non erano più le porte della sua anima. Erano globi gelatinosi i cui colori mi tentavano. E il corpo non era altro che un boccone sussultante di carne calda e di sangue che dovevo consumare per non morire.

Mi inorridiva l’idea che quel cibo dovesse essere vivo, che il sangue delizioso dovesse scorrere in quelle braccia e in quelle dita convulse. E poi mi parve che fosse giusto così. L’uomo era ciò che era, e io ero ciò che ero. E mi sarei nutrito di lui.

Me lo accostai alle labbra. Lacerai l’arteria gonfia del collo. Il sangue mi sprizzò contro il palato. Proruppi in un grido mentre lo stringevo contro di me. Non era fluido bruciante come il sangue del padrone e neppure l’elisir delizioso che avevo bevuto sulle pietre della segreta. No, quello era come luce trasformata in liquido. Era mille volte più concreto, e aveva il sapore del cuore umano che lo pompava, era l’essenza di quell’odore caldo e quasi fumoso.

Sentivo le mie spalle sollevarsi, le mie dita affondare di più nella sua carne, il suono simile a un mormorio che usciva dalla mia gola. Non avevo altre visioni che quella di una minuscola anima rantolante; un mancamento così potente che lui non vi aveva parte.

Fu facendo appello a tutta la mia volontà che, prima del momento finale, lo respinsi a forza. Come avrei voluto sentire il suo cuore che si arrestava. Come avrei desiderato sentire i battiti che rallentavano e cessavano, e sapere che lo possedevo!

Ma non osavo.

L’uomo mi scivolò pesantemente dalle braccia, e cadde sulle pietre. Il bianco degli occhi era visibile sotto le palpebre socchiuse.

Ero incapace di staccarmi dalla sua morte. Ero silenziosamente affascinato. Non doveva sfuggirmi il minimo dettaglio. Sentii il respiro cessare, vidi il corpo rilassarsi senza lotta nella morte.

Il sangue mi riscaldò. Lo sentii pulsare nelle vene. Il mio viso era di nuovo caldo contro i palmi delle mani, e la vista era divenuta acuta e potente. Mi sentivo dotato di una forza inimmaginabile.

Sollevai il cadavere, lo trascinai giù per le scale a chiocciola della torre, nella fetida segreta, e lo gettai a marcire con gli altri.

8.

Era tempo di andare, tempo di mettere alla prova i miei poteri.

Riempii la borsa e le tasche con tutto il denaro che potevano contenere, e cinsi una spada ingemmata e di modello non troppo antico; quindi scesi e chiusi dietro di me la porta di ferro della torre.

Evidentemente la torre era tutto ciò che restava di una casa andata in rovina. Ma captai nel vento un odore di cavalli, un odore forte e piacevole, e lo captai forse nel modo in cui l’avrebbe percepito un animale. In silenzio aggirai la costruzione e mi diressi verso una scuderia improvvisata.

Lì non c’era soltanto una vecchia carrozza molto bella, ma anche quattro magnifiche cavalle nere. Era straordinario: non avevano paura di me. Baciai i loro fianchi levigati e i musi vellutati. Ero così innamorato di esse che avrei potuto trascorrere ore e ore apprendendo il più possibile sul loro conto per mezzo dei miei sensi nuovi. Ma c’erano altre cose che mi attiravano.

Nella scuderia c’era anche un umano: avevo fiutato pure il suo odore appena ero entrato. Ma dormiva profondamente; e quando lo svegliai vidi che era un ragazzo semideficiente che per me non rappresentava un pericolo.

«Adesso il tuo padrone sono io», dissi mentre gli allungavo una moneta d’oro. «Stanotte, comunque, non avrò bisogno di te. Basterà che mi selli un cavallo.»

Mi capì quanto bastava per dirmi che nella scuderia non c’erano selle. Poi si riaddormentò.

Pazienza. Tagliai le lunghe redini da carrozza, le misi personalmente alla cavalla più bella e me ne andai cavalcando a pelo.

Non so dirvi che cosa provavo… il movimento della cavalla sotto di me, il vento gelido, e la volta altissima del cielo notturno. Il mio corpo sembrava fuso a quello dell’animale. Volavo sulla neve e ogni tanto ridevo e cantavo. Raggiungevo note altissime che prima erano state per me impossibili, quindi precipitavo in una ricca tonalità baritonale. A volte mi limitavo a gridare, pervaso da qualcosa che era simile alla gioia. Doveva essere gioia. Ma un mostro poteva conoscere la gioia?

Naturalmente volevo correre a Parigi. Ma sapevo di non essere pronto. Perciò mi avviai nella direzione opposta fino a quando giunsi alla periferia di un villaggio.

Non c’era in giro neppure un essere vivente; e, mentre mi avvicinavo alla chiesetta, sentii una rabbiosa impulsività umana che affiorava dalla mia strana e radiosa felicità.

Smontai in fretta e provai ad aprire la porta della sacrestia. La serratura cedette, e attraversai la navata per arrivare alla balaustra della comunione.

Non so che cosa provai in quel momento. Forse volevo che succedesse qualcosa. Mi sentivo dominato da istinti omicidi. E il fulmine non mi colpiva. Guardavo la luce rossa dei lumini accesi sull’altare. Guardavo le figure cristallinizzate nella tenebra dei vetri istoriati.

Preso dalla disperazione, andai a posare le mani sul tabernacolo. Aprii gli sportelli, e misi le mani all’interno, estrassi il ciborio ingemmato con le ostie consacrate. No, non c’era nessun potere, lì, nulla che io potessi sentire o vedere o conoscere con i miei sensi mostruosi, non c’era nulla che reagisse a me. C’erano le ostie e l’oro, la cera e la luce.

Appoggiai la testa all’altare. Dovevo somigliare al prete durante la messa. Richiusi tutto nel tabernacolo. Lo richiusi con cura, in modo che nessuno potesse accorgersi del sacrilegio commesso.

Poi percorsi un lato della chiesa, e ritornai dall’altro, e i quadri lividi e le statue mi affascinarono. Mi accorsi che vedevo il processo mentale dello scultore e del pittore e non soltanto il miracolo creativo. Vedevo il modo in cui la lacca rifletteva la luce. Vedevo i piccoli errori di prospettiva, e lampi di espressività inaspettata.

Come appariranno ai miei occhi i grandi maestri? pensavo. Mi sorprendevo a osservare anche i fregi più semplici affrescati sui muri. Poi m’inginocchiai a studiare le venature del marmo, e mi accorsi che ero disteso e fissavo a occhi sgranati il pavimento sotto il mio naso.

La situazione mi stava sfuggendo di mano. Mi rialzai un po’ rabbrividendo e un po’ piangendo, e guardai le candele come se fossero vive e mi sentii lievemente nauseato.

Era venuto il momento di lasciare la chiesa e di andare nel villaggio.


Rimasi nel villaggio quasi due ore, e per gran parte di quel tempo nessuno mi vide e nessuno mi udì.

Scoprii che era di una facilità assurda scavalcare i muri dei giardini, balzare da terra ai tetti bassi. Potevo lanciarmi dall’alto di tre piani e arrampicarmi sulla facciata di un edificio affondando le unghie e le punte dei piedi nella calce fra le pietre.

Sbirciavo dalle finestre. Vedevo coppie addormentate nei letti ornati di balze, infanti nelle culle, vecchie che cucivano in una luce fioca.

E mi sembravano tutte case di bambola, nella loro compiutezza. Perfette collezioni di giocattoli, con le seggiolette graziose e le lucide mensole dei camini, le tende rammendate con cura e i pavimenti ben puliti.

Vedevo tutto ciò come qualcuno che non aveva mai partecipato a quella vita, e osservavo con tenerezza i dettagli più semplici. Un grembiule inamidato appeso a un gancio, un paio di stivali sciupati sul focolare, una caraffa accanto a un letto.

E la gente. Oh, la gente era meravigliosa.

Naturalmente ne sentivo gli odori; ma ero sazio e non mi rendevano smanioso. M’intenerivo, piuttosto, per la loro pelle rosea e le membra delicate, la precisione con cui si muovevano, l’intero processo delie loro vite come se non fossi mai stato uno di loro. Mi sembrava straordinario che avessero cinque dita per ogni mano. Sbadigliavano, piangevano, si muovevano nel sonno. Ero affascinato.

E, quando parlavano, neppure i muri più spessi mi impedivano di udire le loro parole.

Ma l’aspetto più sorprendente delle miei esplorazioni era che udivo i pensieri di quelle persone, come avevo udito il servitore malvagio che avevo ucciso. Infelicità, tristezza, attese. Erano correnti nell’aria, alcune deboli, altre spaventosamente forti; e altre ancora erano soltanto barbagli, svaniti prima che ne individuassi la fonte.

Ma a stretto rigore non potevo leggere nelle menti.

Quasi tutti i pensieri banali mi erano nascosti; e, quando piombavo nelle mie considerazioni, anche le passioni più forti non riuscivano a interferire. Tutto sommato, era una sensazione intensa che mi portava i pensieri e solo quando desideravo riceverli; e c’erano alcune menti che anche nell’ardore della collera non mi comunicavano nulla.

Queste scoperte mi sconvolgevano e quasi mi ferivano, come avveniva per la comune bellezza dovunque volgessi lo sguardo, lo splendore della normalità. Ma sapevo bene che vi era un abisso, più oltre, nel quale potevo precipitare all’improvviso e irreparabilmente.

Dopotutto, io non ero uno di quei miracoli caldi e palpitanti fatti di complessità e d’innocenza. No, quelli erano le vittime.

Era tempo di lasciare il villaggio. Avevo appreso abbastanza. Ma, prima di andarmene, compii un ultimo atto di ardimento. Non seppi trattenermi. Dovevo farlo assolutamente.

Rialzai il colletto del mantello rosso ed entrai nella locanda; cercai un angolo lontano dal fuoco e ordinai un bicchiere di vino. Tutti i presenti mi guardarono, ma non perché capissero che tra loro c’era un essere sovrannaturale. Guardavano semplicemente il gentiluomo vestito con tanto sfarzo. Rimasi per venti minuti, per averne la riprova. Nessuno, neppure l’uomo che mi serviva, notò niente! Naturalmente non toccai il vino. Mi bastò fiutarlo per capire che il mio corpo non poteva tollerarlo. Ma l’importante era che potevo ingannare i mortali! Potevo muovermi in mezzo a loro!

Quando lasciai la locanda, ero giubilante. Non appena arrivai al bosco, cominciai a correre, a correre così forte che il cielo e gli alberi divennero una macchia confusa. Volavo, quasi.

Poi mi fermai, spiccai salti, danzai. Raccattai qualche sasso e lo lanciai così lontano che non lo vidi ricadere. E quando trovai il ramo caduto da un albero, robusto e gonfio di linfa, lo presi e lo spezzai sul ginocchio come se fosse un fuscello.

Gridai e cantai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Mi lasciai cadere sull’erba, ridendo.

Quindi mi rialzai, mi strappai di dosso il mantello e la spada e cominciai a fare le capriole. Capriole come le fanno gli acrobati del teatro di Renaud. E feci salti mortali perfetti. Li ripetei, questa volta all’indietro, e poi di nuovo in avanti, e passai ai doppi e ai tripli salti mortali, e balzai nell’aria in verticale staccandomi di quindici piedi dal suolo, e atterrai sui talloni, un po’ affannato e ansioso di continuare quegli esercizi.

Ma si approssimava il mattino.

Il mutamento nell’aria e nel cielo era molto sottile, ma io lo sapevo come se stessero squillando le campane dell’inferno, le campane che chiamano il vampiro a rincasare per abbandonarsi al sonno della morte. Ah, la bellezza commovente del cielo, l’incanto della visione dei campanili indistinti. E mi venne un pensiero strano, il pensiero che nell’inferno la luce dei fuochi doveva essere fulgida come quella del sole, e sarebbe stata l’unica luce solare che avrei mai veduto.

Ma che cosa ho fatto? pensai. Non l’avevo voluto. Non mi ero arreso. Anche quando Magnus mi aveva detto che stavo morendo, avevo lottato contro di lui. Eppure, adesso sentivo le campane dell’inferno.

Be’, che importanza aveva?


Quando arrivai al camposanto, per galoppare verso casa, qualcosa mi distrasse.

Mi fermai, tenendo la cavalla per le redini, e guardai il piccolo prato pieno di tombe. Non riuscivo a capire esattamente che cosa fosse. Poi lo notai di nuovo, e compresi. Sentii una presenza inequivocabile nel cimitero.

Rimasi così immobile che sentii il sangue rombare nelle mie vene.

Non era umana, quella presenza! Non aveva odore. E non irradiava pensieri umani. Sembrava piuttosto velata e difesa, e sapeva che ero lì. Mi spiava.

Era possibile che immaginassi tutto?

Rimasi lì ad ascoltare e a guardare. Alcune lapidi grigie affioravano dalla neve. E in distanza c’era una fila di vecchie cripte, più grandi e più ornate ma rovinate quanto le pietre tombali.

Sembrava che la presenza indugiasse presso le cripte; e poi la sentii distintamente mentre si avviava verso gli alberi.

«Chi sei?» chiesi. La mia voce era come una lama di coltello. «Rispondimi!» gridai ancora più forte.

Percepii un grande tumulto nella presenza, e fui certo che si allontanava molto rapidamente.

Attraversai correndo il camposanto per inseguirla, e sentii che si allontanava. Tuttavia non vedevo niente nella foresta spoglia. E mi resi conto che io ero più forte, che aveva avuto paura di me!

Be’, immaginate: paura di me.

E io non sapevo se era corporeo, un vampiro come me, o se era privo di fisico.

«Be’, una cosa è sicura», dissi. «Sei un vigliacco!»

Vi fu un fremito nell’aria. Per un istante mi parve che la foresta respirasse.

Fui colpito da un senso della potenza che già da tempo covava in me. Non temevo nulla. Né la chiesa, né il buio, né i vermi che brulicavano sui cadaveri nella mia segreta. Neppure la forza bizzarra che s’era ritirata nella foresta e che sembrava di nuovo vicina. Neppure gli uomini.

Ero un demone straordinario! Se fossi stato seduto sui gradini dell’inferno con i gomiti sulle ginocchia e il diavolo mi avesse detto: «Su, Lestat, scegli la forma demoniaca con la quale vuoi vagare sulla terra», come avrei potuto sceglierne una più adatta della mia? E mi sembrava che la sofferenza fosse un’idea che avevo conosciuto in un’altra esistenza, e che non avrei conosciuto mai più.


Non posso trattenermi dal ridere, oggi, quando penso a quella prima notte e soprattutto a quel momento particolare.

9.

E la sera dopo mi precipitai a Parigi con tutto l’oro che potevo I portare con me. Il sole era appena calato all’orizzonte quando aprii gli occhi; e una limpida luce azzurra emanava ancora dal cielo quando montai a cavallo e partii per la città.

Ero affamato.

Per un colpo di fortuna, fui aggredito da un tagliagole prima che raggiungessi la cinta delle mura. Uscì minaccioso dai boschi, sparando con la pistola, e io vidi la pallottola uscire dalla canna e passarmi accanto mentre balzavo da cavallo e mi avventavo su di lui.

Era robusto, e mi sorprese la gioia che provai nel sentirlo imprecare e lottare. Il servitore malvagio che avevo preso la notte precedente era un vecchio. Questo aveva un corpo giovane e solido. Persino la barba ispida e mal rasata mi tentava, e amavo la forza delle sue mani mentre cercava di colpirmi. Ma non era un passatempo sportivo. Rimase immobile quando gli affondai i denti nell’arteria, e allorché il sangue sgorgò fu una voluttà allo stato puro. Anzi, era così squisita che dimenticai di staccarmi prima che il cuore smettesse di battere.

Eravamo inginocchiati sulla neve e fu una scossa tremenda, la vita che passò in me insieme al sangue. Per un lungo istante non riuscii a muovermi. Uhmmm, ho già infranto le regole, pensai. E adesso dovrei morire? Non sembra che stia per accadere proprio questo. Soltanto un delirio travolgente.

E quel povero diavolo, morto fra le mie braccia, che mi avrebbe sparato in faccia se l’avessi lasciato fare.

Continuai a guardare il cielo che si oscurava, la grande massa d’ombre costellata di luci che era Parigi. E poi vi furono soltanto il calore e una forza crescente.

Tutto bene. Mi rialzai e mi asciugai le labbra. Poi lanciai il cadavere lontano il più possibile sulla neve vergine. Ero più possente che mai.

Per un poco restai lì, goloso e pieno di smania di uccidere perché l’estasi continuasse per sempre. Ma non avrei potuto bere altro sangue; e a poco a poco mi calmai e qualcosa cambiò in me. Fui sopraffatto da un senso di desolazione. E di solitudine, come se il bandito fosse stato un amico o un parente e mi avesse abbandonato. Non capivo: tuttavia l’atto di bere era stato così intimo. Ora avevo addosso il suo odore, e mi piaceva. Ma lui giaceva a diverse iarde di distanza, sulla crosta di neve ghiacciata, le mani e la faccia cinerei sotto il chiaro di luna.

Diavolo, quel figlio di puttana aveva avuto intenzione di uccidermi, no?


Dopo un’ora avevo trovato un efficiente procuratore legale che si chiamava Pierre Roget, nella sua casa al Marais. Era un giovane, e la sua mente mi era del tutto aperta. Avido, intelligente, coscienzioso. Proprio ciò che volevo. Non solo leggevo i suoi pensieri quando parlava, ma credeva a tutto ciò che gli dicevo.

Era ben disposto a rendersi utile al marito di un’ereditiera di San Domingo. E, certo, avrebbe spento tutte le candele, tranne una, dato che mi dolevano gli occhi in conseguenza della febbre tropicale. In quanto al mio patrimonio di gemme, trattava con i gioiellieri più stimati. Conti in banca e lettere di credito per la mia famiglia in Alvernia… sì, immediatamente.

Era più facile che interpretare la parte di Lelio.

Ma concentrarmi mi era difficile. Tutto costituiva una distrazione… la fiamma fumosa della candela sul calamaio di bronzo, le dorature della carta da parati cinese, e la faccetta sorprendente di Monsieur Roget, con gli occhi scintillanti dietro le lenti ottagonali. I denti mi ricordavano i tasti di un clavicembalo.

Gli oggetti normali della stanza sembravano ballare. Un cassettone mi guardava con gli occhi formati dai pomelli di bronzo. E una donna che cantava al piano di sopra, con una voce che dominava il rombo sordo di una stufa, sembrava dire qualcosa in un linguaggio sommesso e segreto, qualcosa come: «Vieni da me».

Ma, a quanto sembrava, sarebbe stato sempre così e dovevo imparare a dominarmi. Quella stessa sera era necessario inviare denaro per corriere a mio padre e ai miei fratelli, e a Nicolas de Lenfent, musicista della Casa di Tespi di Renaud: doveva essere avvertito che quel denaro gli veniva dal suo amico Lestat de Lioncourt. Lestat de Lioncourt desiderava che Nicolas de Lenfent si trasferisse subito in un appartamento decente sull’Ile St.-Louis o in qualche altro posto simile, e naturalmente Roget l’avrebbe assistito; e poi Nicolas de Lenfent doveva studiare il violino. Roget doveva acquistare per lui il miglior violino disponibile, uno Stradivari.

Infine, doveva venire scritta una lettera per mia madre, la marchesa Gabrielle de Lioncourt, in italiano in modo che nessun altro potesse leggerla; e doveva esserle inviata una somma notevole. Se avesse potuto fare un viaggio nell’Italia meridionale dov’era nata, forse sarebbe riuscita ad arrestare il corso della malattia che la consumava.

Mi dava le vertigini, pensare che aveva la possibilità di evadere. E mi domandavo cosa ne avrebbe pensato lei.

Per un lungo momento non sentii nulla di ciò che stava dicendo Roget. Immaginavo mia madre vestita, per una volta nella vita, in modo degno del suo rango, mentre usciva dal castello con la sua carrozza e il tiro a sei. E poi ricordai il suo viso devastato e la tosse, come se l’avessi accanto.

«Mandatele la lettera e il denaro stasera stessa», dissi. «La spesa non ha importanza. Provvedete.» Misi sulla scrivania abbastanza oro per far vivere mia madre tra gli agi per tutta la vita… se avesse avuto una vita da vivere.

«Ora», dissi, «conoscete un mercante che venda arredi di lusso, e quadri e arazzi? Qualcuno che sia disposto ad aprirci i suoi magazzini anche a quest’ora?»

«Certo, Monsieur. Lasciate che prenda il mantello. Andremo immediatamente.»

Pochi minuti dopo eravamo diretti verso il Faubourg St.-Denis.

Poi, per ore, vagai in compagnia dei miei collaboratori mortali in un paradiso di ricchezze materiali, scegliendo tutto ciò che mi piaceva. Divani e poltrone, porcellane e argenteria, tendaggi e statue… tutto a mia disposizione. Con il pensiero, trasformavo il castello dov’ero cresciuto, via via che altri oggetti venivano portati fuori per essere imballati e spediti al Sud. Ai miei nipoti mandai giocattoli che non avevano mai sognato… piccole navi con le vele, e case di bambola incredibilmente perfette.

Imparavo da ognuno degli oggetti che toccavo. E c’erano momenti in cui i colori e la consistenza diventavano troppo splendidi e travolgenti. Piangevo dentro di me.

Avrei continuato impunemente a giocare a far l’essere umano per tutto quel periodo, se non fosse capitato uno sfortunato incidente.

A un certo momento, mentre giravamo per il magazzino, comparve un ratto, sfacciato come i ratti di città, e corse lungo il muro vicinissimo a noi. Lo guardai. Non era niente d’insolito, certo. Ma lì, tra il gesso e i legni preziosi e le stoffe ricamate, il ratto sembrava meravigliosamente particolare. E gli uomini, che avevano frainteso, cominciarono a mormorare parole di scusa e a battere i piedi per farlo fuggire.

Per me, le loro voci divennero un miscuglio di suoni, come uno spezzatino che bolle in pentola. Pensavo che il ratto aveva le zampette minuscole e che non avevo ancora mai esaminato uno dei suoi simili né un altro essere a sangue caldo. Presi il ratto, fin troppo facilmente, e gli guardai le zampe. Volevo vedere che unghie aveva, e com’era la pelle fra le dita. E dimenticai completamente gli uomini.

Fu il loro silenzio improvviso a richiamarmi alla realtà. Mi fissavano sbigottiti.

Sorrisi con tutta l’innocenza di cui ero capace, lasciai andare il ratto e ripresi a scegliere.

Ecco, non fecero commenti. Ma era significativo. Li avevo veramente spaventati.

Più tardi, quella sera, affidai un’ultima commissione al mio procuratore. Doveva mandare in dono cento corone a un proprietario di teatro, Renaud, con un biglietto di ringraziamento per la sua gentilezza.

«Informatevi della situazione di quel piccolo teatro», dissi. «E scoprite se è gravato di debiti.»

Naturalmente, non mi sarei mai avvicinato. Non dovevano intuire cos’era accaduto, non dovevano essere contaminati. E per il momento avevo fatto il possibile per tutti coloro che amavo, no?


E quando tutto fu concluso e le campane delle chiese suonarono le tre sopra i tetti bianchi e io mi sentii abbastanza affamato per fiutare odore di sangue dovunque mi girassi, mi trovai solo nel Boulevard du Temple.

La neve sporca s’era trasformata in pozzanghere sotto le ruote delle carrozze, e io guardavo la Casa di Tespi con i muri impiastricciati e i cartelli strappati, e il nome del giovane attore mortale, Lestat de Valois, ancora scritto a lettere rosse.

10.

Le notti successive mi scatenai. Incominciai a bere Parigi come se la città fosse sangue. Durante la prima sera battei i quartieri peggiori, mi aggirai tra ladri e assassini, e spesso lasciai loro una possibilità di difendersi, quindi li avvinghiavo in un abbraccio fatale e banchettavo avidamente.

Assaporavo diversi tipi di prede: individui grossi e pesanti, piccoli e robusti, irsuti e scuri di carnagione… ma il mio preferito era il giovane briccone pronto a uccidervi per le poche monete che avete in tasca.

Mi piaceva sentirli grugnire e bestemmiare. A volte li tenevo fermi con una mano e ridevo di loro fino a quando s’infuriavano, e lanciavo i loro coltelli sopra i tetti, spaccavo contro i muri le loro pistole. Ma la mia vera forza era come un gatto al quale non era mai permesso di scattare. E la cosa che mi ripugnava in loro era la paura. Se una vittima era davvero spaventata, di solito perdevo interesse.

Con il passare del tempo, imparai a posporre l’uccisione. Bevevo un po’ da uno, e un altro po’ da un altro, e poi assimilavo la grande scossa della morte, dal terzo o dal quarto. Moltiplicavo per mio piacere la caccia e la lotta. E, quando ne avevo avuto abbastanza di caccia e di sangue per una serata — quanto sarebbe stato sufficiente per sei vampiri sani —, volgevo gli occhi verso il resto di Parigi e gli splendidi svaghi che prima non avevo potuto permettermi.

Ma, prima, andavo a casa di Roget per avere notizie di Nicolas o di mia madre.

Le lettere di mia madre traboccavano di gioia per la mia fortuna. Mi promise che sarebbe andata in Italia la prossima primavera, se ne avesse avuto la forza. Per ora voleva che le mandassi libri da Parigi, e giornali, e musica per il clavicembalo che le avevo regalato. Voleva sapere se ero davvero felice, se avevo realizzato i miei sogni. Diffidava un po’ della ricchezza. Ero stato così felice nel teatro di Renaud. Dovevo confidarmi con lei.

Era un tormento sentirmi leggere quelle parole. Era venuto il tempo di diventare un bugiardo, e non lo ero mai stato. Ma per mia madre ero pronto a farlo.

In quanto a Nicki, avrei dovuto capire che non si sarebbe accontentato dei doni e dei vaghi racconti, e avrebbe preteso di vedermi. Faceva un po’ paura a Roget.

Ma era inutile. Il procuratore non poteva dirgli altro se non ciò che io avevo spiegato. E non volevo vedere Nicki, tanto che non chiedevo neppure l’indirizzo della casa dove si era stabilito. Dissi al procuratore di assicurarsi che studiasse con il suo maestro italiano, e avesse tutto ciò che poteva desiderare.

Tuttavia venni a sapere che, contro la mia volontà, Nicolas non aveva abbandonato il teatro e suonava ancora nella Casa di Tespi di Renaud.

Mi irritai. Perché diavolo si sentiva in dovere di farlo? mi domandavo.

Perché amava quel posto, come l’avevo amato io: quella era la spiegazione. C’era bisogno che qualcuno me lo dicesse? Eravamo stati tutti anime gemelle in quel teatrino. Era meglio non pensare al momento in cui il sipario si alzava, e il pubblico incominciava ad applaudire e a gridare…

No. Feci mandare al teatro casse di vini e champagne, e fiori per Jeannette e Luchina, le ragazze con cui avevo litigato più spesso e che mi erano più care; e inviai altre borse d’oro a Renaud, perché saldasse i suoi debiti.

Ma via via che le notti passavano e i doni venivano recapitati, Renaud si sentiva sempre più in imbarazzo. Dopo due settimane, Roget mi riferì che Renaud aveva fatto una proposta. Voleva che comprassi la Casa di Tespi e lo tenessi come direttore, con un capitale sufficiente per mettere in scena spettacoli più grandiosi e splendidi. Con il mio denaro e la sua capacità, avremmo potuto fare in modo che del teatro parlasse tutta Parigi.

Non risposi subito. Impiegai più di un momento per comprendere che potevo diventare proprietario del teatro, come delle gemme nel mio scrigno, degli abiti che indossavo, delle case di bambola che avevo mandato alle mie nipotine. Dissi di no e uscii sbattendo la porta.

Poi tornai subito indietro.

«D’accordo, comprate il teatro», ordinai. «E dategli diecimila corone perché ne faccia ciò che vuole.» Era un patrimonio. E io non sapevo neppure perché l’avevo fatto.

Questa sofferenza passerà, pensavo. Deve passare. E devo acquisire un certo controllo sui miei pensieri, e rendermi conto che queste cose non possono influire su di me.

Dopotutto, dove passavo il tempo, adesso? Nei teatri più sontuosi di Parigi. Avevo i posti migliori per il balletto e l’opera, per i drammi di Moliere e di Racine. Stavo davanti alle luci della ribalta e guardavo i grandi attori e le grandi attrici. Avevo vestiti di tutti i colori dell’arcobaleno, gemme alle dita, parrucche all’ultima moda, scarpe con fìbbie di diamanti e tacchi d’oro.

E avevo tutta l’eternità per ubriacarmi della poesia che ascoltavo, del canto e del movimento delle braccia delle ballerine, della musica dell’organo nell’immensa caverna di Notre-Dame, e dei rintocchi che scandivano le ore e della neve che cadeva senza far rumore sui giardini deserti delle Tuileries.

E ogni notte diventavo meno guardingo mentre mi muovevo tra i mortali, mi sentivo più a mio agio in mezzo a loro.

Non passò neppure un mese prima che trovassi il coraggio di avventurarmi in un ballo affollatissimo al Palais Royal. Ero riscaldato dal sangue di una vittima, e mi unii subito alle danze. Non destai il minimo sospetto. Anzi, sembrava che le donne fossero attratte da me, e apprezzavo il contatto delle loro dita tiepide, la pressione morbida delle braccia e dei seni.

Dopo quella notte, presi a frequentare i boulevard affollati. Passavo in fretta davanti al teatro di Renaud, e andavo negli altri, a vedere gli spettacoli di marionette, i mimi e gli acrobati. Non rifuggivo più dai lampioni. Entravo nei locali e ordinavo un caffè per il gusto di sentirne il calore contro le dita, e quando mi andava parlavo con gli altri avventori.

A volte discutevo con loro sulla situazione della monarchia, e imparavo con impegno a giocare a biliardo e a carte; e mi sembrava che se avessi voluto avrei potuto andare alla Casa di Tespi, prendere un biglietto, salire in galleria e vedere cosa succedeva. Vedere Nicolas!

Ebbene, non lo facevo. Cosa sognavo di fare, per avvicinarmi a Nicki? Una cosa era ingannare gli estranei, uomini e donne che non mi avevano mai visto: ma che cosa avrebbe veduto Nicolas se mi avesse guardato negli occhi? Che cosa avrebbe veduto quando avesse guardato la mia pelle? E poi, mi dicevo, avevo troppo da fare.

Stavo imparando sempre di più sulla mia natura e sui miei poteri.


I miei capelli, per esempio, erano più chiari e tuttavia più folti, e non crescevano. Non crescevano neppure le mie unghie, che erano diventate più lustre. Tuttavia, se le limavo, si rigeneravano durante il giorno e riacquistavano la lunghezza che avevano avuto quando ero morto. E, sebbene la gente non potesse notare questi segreti osservandomi, scorgeva altre cose, lo splendore innaturale dei miei occhi che riflettevano troppi colori, e una fievole luminescenza della mia pelle.

Quando avevo fame, la luminescenza era molto spiccata. Una ragione di più per nutrirmi.

E stavo imparando che potevo ipnotizzare gli altri se li fissavo molto a lungo, e che la mia voce richiedeva un controllo molto rigoroso. Poteva capitarmi di parlare troppo sommessamente per l’udito dei mortali; e, se gridavo o ridevo troppo forte, potevo spezzare i loro timpani. Potevo ferire persino le mie stesse orecchie.

C’erano altre difficoltà: i miei movimenti. Tendevo a camminare, correre, danzare, sorridere e gesticolare come un essere umano; ma se ero sorpreso, turbato, addolorato, il mio corpo poteva piegarsi e contorcersi come quello di un acrobata.

Anche le mie espressioni facciali potevano essere incredibilmente esagerate. Una volta mi distrassi mentre passeggiavo nel Boulevard du Temple, pensando ovviamente a Nicolas; e sedetti sotto un albero, piegai le ginocchia e mi presi la testa tra le mani come l’elfo addolorato di una fiaba. Nel secolo diciottesimo i gentiluomini con la giacca di broccato e le calze di seta bianca non facevano cose del genere, almeno per la strada.

E un’altra volta, mentre contemplavo assorto il mutamento della luce sulle superfici, spiccai un balzo e sedetti a gambe incrociate sul tetto di una carrozza, con i gomiti sulle ginocchia.

La gente si sbalordiva. Si spaventava. Ma molto spesso, anche se si spaventava per il biancore della mia pelle, si limitava a distogliere gli occhi. Ben presto me ne resi conto; tutti s’illudevano che non ci fosse nulla di inspiegabile. Era la razionale mentalità settecentesca.

Dopotutto non c’erano stati casi di stregoneria da cent’anni: l’ultimo di cui avevo notizia era stato quello della Voisin, una fattucchiera bruciata viva al tempo del Re Sole.

E quella era Parigi. Perciò, se stritolavo accidentalmente un bicchiere di cristallo quando lo alzavo, o se sbattevo le porte nel muro quando le aprivo, la gente pensava che fossi ubriaco.

Ma ogni tanto rispondevo alle domande prima ancora che i mortali me le rivolgessero. Piombavo in stati stuporosi guardando le candele o i rami degli alberi, e restavo immobile così a lungo che qualcuno mi chiedeva se mi sentivo male.

E il mio problema peggiore erano le risate. A volte ero preso da crisi d’ilarità inarrestabili. Bastava una cosa qualunque per farmi incominciare. Bastava la follia assurda della mia posizione.

E questo può accadami abbastanza facilmente anche adesso. Nulla lo cambia: la sofferenza, le sventure, l’approfondita conoscenza della situazione in cui mi trovo. Se qualcosa mi appare divertente, comincio a ridere e non riesco a smettere.

Fra le altre cose, ciò rende furiosi gli altri vampiri. Ma sto correndo troppo.

Come probabilmente avrete notato, non ho ancora parlato di altri vampiri. Il fatto è che non riuscivo a trovarne.

Non riuscivo a trovare un solo essere sovrannaturale in tutta Parigi. Mortali alla mia sinistra, mortali alla mia destra… e ogni tanto, proprio quando mi ero convinto che non potesse più accadere, sentivo quella presenza vaga e sfuggente.

Non era mai più concreta di quanto lo fosse stata la prima notte nel camposanto del villaggio. E invariabilmente la ritrovavo nelle vicinanze di un cimitero parigino.

Ogni volta mi fermavo, mi voltavo, e cercavo di individuarla. Ma era inutile; la presenza spariva prima. Non riuscivo mai a trovarla da solo, e il lezzo dei cimiteri della città era così rivoltante che io non volevo e non potevo entrarvi.

Era una reazione che cominciava ad apparire qualcosa di più della schizzinosità e dei ricordi della mia segreta nei sotterranei della torre. La ripugnanza ispirata dalla vista e dall’odore della morte sembrava far parte della mia natura.

Non potevo assistere alle esecuzioni più di quand’ero un ragazzo tremante arrivato dall’Alvernia, e alla vista dei cadaveri mi coprivo la faccia. La morte mi faceva inorridire, a meno che non ne fossi io la causa! E dovevo allontanarmi quasi immediatamente dalle mie vittime defunte.

Ma torniamo alla presenza. Cominciai a chiedermi se non era un’altra specie di entità, qualcosa che non poteva comunicare con me. D’altra parte, avevo la netta sensazione che quella presenza mi spiasse, e forse si rivelasse a me di proposito.

In ogni caso, non vedevo altri vampiri a Parigi. Cominciavo a domandarmi se poteva davvero esistere più d’uno di noi in un dato momento. Forse Magnus aveva annientato il vampiro al quale aveva rubato il sangue. Forse era stato inevitabile che perisse dopo avermi trasmesso i suoi poteri. E anch’io sarei morto, se avessi fatto di un altro individuo un vampiro.

Ma no, non aveva senso. Magnus aveva continuato a possedere una grande forza anche dopo avermi dato il suo sangue. E aveva avvinto in catene la sua vittima quando le aveva sottratto i poteri.

Un mistero immenso, esasperante. Ma per il momento l’ignoranza era benedetta. E stavo scoprendo tante cose anche senza l’aiuto di Magnus. Forse era ciò che Magnus aveva voluto. Forse anche lui aveva imparato nello stesso modo, secoli prima.

Ricordavo le sue parole: nella camera segreta avrei trovato tutto ciò che mi era necessario per prosperare.


Le ore volavano mentre vagavo per la città. E lasciavo la compagnia degli esseri umani solo per nascondermi nella torre, durante il giorno.

Tuttavia incominciavo a interrogarmi. «Se puoi ballare, e giocare a biliardo e parlare con loro, perché non puoi dimorare in mezzo a loro come facevi quando eri vivo? Perché non puoi passare per un mortale e inserirti di nuovo nel tessuto della vita dove c’è… che cosa? Dillo!»

Era quasi primavera. Le notti diventavano più tiepide e la Casa di Tespi stava per mettere in scena un nuovo dramma, con nuovi numeri acrobatici tra un atto e l’altro. E gli alberi erano di nuovo in fiore, e in ogni istante di veglia pensavo a Nicki.


Una sera di marzo, mentre Roget mi leggeva una lettera di mia madre, mi accorsi che sapevo leggere come lui. Avevo imparato a leggere da mille fonti, senza neppure impegnarmi. Portai a casa la lettera.

Persino la camera interna non era più molto fredda. E sedetti accanto alla finestra e lessi per la prima volta in privato le parole di mia madre. Mi sembrava di sentire la sua voce che mi parlava:

«Nicolas mi ha scritto che hai acquistato il teatro di Renaud. Dunque ora sei il proprietario del teatrino dei boulevard dov’eri tanto felice? Ma possiedi ancora quella felicità? Quando mi risponderai?»

Piegai la lettera e la misi in tasca. Mi salivano agli occhi lacrime di sangue. Perché mia madre doveva comprendere tante cose e tuttavia doveva comprendere così poco?

11.

Il vento non era più pungente. Ritornavano tutti gli odori della I città. I mercati erano pieni di fiori. Mi precipitai a casa di Roget senza pensare a ciò che facevo e gli chiesi di dirmi dove abitava Nicolas.

Mi sarei accontentato di vederlo, assicurarmi che fosse in buona salute e constatare che la casa fosse abbastanza decorosa.

Era sull’Ile St.-Louis ed era imponente come io avevo voluto; ma le imposte erano tutte chiuse.

Rimasi a guardarla a lungo mentre le carrozze passavano sul ponte vicino. E compresi che dovevo vedere Nicki.

Cominciai ad arrampicarmi sul muro come avevo fatto nel villaggio: era di una facilità sorprendente. Salii un piano dopo l’altro, molto più in alto di quanto avessi osato fare in passato, e corsi sul tetto e scesi nell’interno del cortile per cercare l’appartamento di Nicki.

Passai davanti a diverse finestre aperte prima di arrivare a quella giusta. E Nicolas era là, nella luce delle candele accese sulla tavola, e con lui c’erano Jeannette e Luchina, e consumavano insieme il pasto notturno che avevamo avuto l’abitudine di fare insieme dopo la chiusura del teatro.

Appena lo vidi mi scostai dalla finestra e chiusi gli occhi. Sarei caduto, se la mia mano destra non fosse rimasta aggrappata al muro come animata da volontà propria. Avevo visto la stanza per un solo istante ma ogni dettaglio si era impresso nella mia mente.

Portava un vecchio abito di velluto verde che aveva indossato con disinvoltura per le viuzze tortuose del nostro villaggio. Ma intorno a lui c’erano i segni della ricchezza che gli avevo mandato, libri rilegati in pelle sugli scaffali, la scrivania intarsiata e il quadro ovale, e il violino italiano che luccicava sopra il pianoforte nuovo.

Aveva al dito un anello che gli avevo inviato, e i capelli bruni erano trattenuti da un nastro di seta nera. Sedeva a tavola con aria assorta, e non mangiava il cibo che gli stava davanti nel piatto di porcellana pregiata.

Aprii gli occhi e tornai a guardarlo. Tutti i suoi doni naturali erano presenti in un fulgore di luce: le membra delicate ma forti, i grandi, seri occhi castani, e la bocca che nonostante le ironie e i sarcasmi era infantile e attirava i baci.

Notai in lui una fragilità che non avevo mai percepito o compreso. Tuttavia appariva molto intelligente, il mio Nicki, pieno di pensieri aggrovigliati e irriducibili, mentre ascoltava Jeannette che parlava rapidamente.

«Lestat si è sposato», disse lei mentre Luchina annuiva. «La moglie è ricca e lui non può farle sapere che era un semplice attore. Ecco tutto.»

«Secondo me dobbiamo lasciarlo in pace», interloquì Luchina. «Ha salvato il teatro dalla chiusura e ci copre di doni…,»

«Non lo credo», disse amaramente Nicolas. «Non posso credere che si vergogni di noi.» Nella sua voce c’era una rabbia repressa, un’angoscia cupa. «E perché se n’è andato così? L’ho sentito chiamarmi. La finestra era sfondata! Vi assicuro che ero semisveglio e che ho sentito la sua voce…»

Tra loro scese un silenzio impacciato. Le donne non credevano alla versione di Nicki, che io fossi svanito dalla soffitta; e il fatto che la ripetesse serviva solo a isolarlo e ad amareggiarlo ancora di più. Lo sentivo da tutti i loro pensieri.

«Voi non conoscete veramente Lestat», disse, quasi imbronciandosi e tornando alla conversazione che le altre mortali gli permettevano. «Lestat sputerebbe in faccia a chiunque si vergognasse di noi! Mi manda somme di denaro. Cosa devo farmene? Si diverte con noi!»

Le altre non risposero. Erano esseri concreti e pratici che non volevano parlar male del loro benefattore. Le cose andavano troppo bene.

E, nel silenzio che si protraeva, sentii la profondità dell’angoscia di Nicki. Lo conoscevo come se gli scrutassi nella mente. E non potevo sopportarlo.

Non potevo sopportare di frugargli nell’anima a sua insaputa. Tuttavia, non potevo evitare di intuire dentro di lui un immenso territorio segreto, forse più buio di quanto avessi mai sognato; e ricordai le sue parole, quando mi aveva detto che la tenebra dentro di lui era simile a quella che avevo veduto alla locanda, e che cercava di nascondermela.

Mi sembrava quasi di vederlo, quel territorio. E in un senso molto reale trascendeva la sua mente, come se questa fosse soltanto la porta d’accesso a un caos che si estendeva al di là dei confini di ciò che conosciamo.

Era spaventoso. Non volevo vederlo. Non volevo sentire ciò che sentiva!

Ma cosa potevo fare per luì? Questo era l’importante. Cosa potevo fare per stroncare una volta per tutte quel tormento?

Volevo toccare le sue mani, le sue braccia, il suo viso. Desideravo toccare la sua carne con le mie dita immortali. E mi sorpresi a bisbigliare la parola «Vivo». Sì, sei vivo e ciò significa che puoi morire. E tutto ciò che vedo quando ti guardo è assolutamente privo di sostanza. È una mescolanza di movimenti minutissimi e di colori indefinibili, come se non avessi un corpo e fossi una composizione di calore e di luce, Tu sei la luce, e ora io che cosa sono?

Per quanto sia eterno, in quel fulgore mi consumo come una brace.

Ma l’atmosfera nella stanza era cambiata. Luchina e Jeannette si stavano accomiatando con parole cortesi. Nicki le ignorava. S’era girato verso la finestra e si stava alzando come se fosse chiamato da una voce segreta. L’espressione del suo volto era indescrivibile.

Sapeva che ero là!

Mi arrampicai immediatamente sul muro scivoloso, verso il tetto.

Ma lo udivo ancora, sotto di me. Guardai e vidi le sue mani nude sul davanzale della finestra. E nel silenzio udii il suo panico. Aveva intuito la mia presenza. La mia presenza, ecco che cosa aveva percepito, come io percepivo la presenza nei cimiteri. E si domandava: «Ma come è possibile che Lestat fosse qui?»

Ero troppo sconvolto per fare qualcosa. Mi aggrappai alla grondaia, e sentii che le altre se ne andavano, che era rimasto solo. E la sola cosa che potevo pensare era: «In nome dell’inferno, cos’è la presenza che ha sentito?»

Voglio dire: io non ero più Lestat, ero un demone, un vampiro avido e potente; eppure lui percepiva la mia presenza, la presenza di Lestat, il giovane che conosceva!

Era molto diverso dal fatto che un mortale vedesse la mia faccia ed esclamasse il mio nome, in preda all’imbarazzo. Lui aveva identificato nella mia entità mostruosa qualcosa che conosceva e che amava.

Smisi di ascoltarlo. Rimasi disteso sul tetto.

Ma sapevo che si muoveva, là sotto. Seppi quando prese il violino dal pianoforte, seppi che era di nuovo accanto alla finestra.

E mi tappai le orecchie con le mani.

Ma il suono mi giungeva comunque. Saliva dallo strumento e fendeva la notte come se fosse un elemento splendente, diverso dall’aria e dalla luce e dalla materia e capace di ascendere fino alle stelle.

Nicki faceva vibrare le corde, e quasi mi sembrava di vederlo contro lo sfondo delle mie palpebre chiuse, mentre oscillava leggermente, con la testa china sul violino come se intendesse trasfondersi nella musica: poi la sensazione del suo essere svanì e rimase soltanto il suono.

Le lunghe noti vibranti, e i glissando che facevano rabbrividire, e il violino che cantava in una lingua tutta sua e faceva apparire falsa ogni altra forma di eloquio. Tuttavia, mentre il canto diventava più profondo, si trasmutava nell’essenza stessa della disperazione, come se la sua bellezza fosse una coincidenza orrida, qualcosa di grottesco senza una particella di verità.

Era questo ciò che credeva e che aveva sempre creduto quando io parlavo e parlavo del bene? Lo faceva dire dal violino? Creava deliberatamente quelle lunghe note liquide e pure, per dire che la bellezza non significava nulla perché veniva dalla disperazione, e alla fin fine non aveva nulla da spartire con la disperazione perché la disperazione non era bella, e quindi la bellezza era un’orrida ironia?

Non conoscevo la risposta. Ma il suono lo trascendeva, come sempre. Diventava più grande della disperazione. Si snodava agilmente in una melodia lenta, come l’acqua che cerca il percorso per discendere dalla montagna. Diventava più ricco e più oscuro, e sembrava racchiudere qualcosa di indisciplinato e deprimente, straziante e immenso. Giacevo supino sopra il tetto, adesso, con gli occhi volti alle stelle.

Minuscoli punti di luce che i mortali non potevano vedere. Nubi fantasma. E il suono crudo e penetrante del violino che, con tensione squisita, giungeva alla conclusione.

Non mi mossi.

Comprendevo in silenzio il linguaggio del violino. Nicki, se potessimo parlare ancora… Se la «nostra conversazione» potesse continuare…

La bellezza non era il tradimento che lui aveva immaginato; era piuttosto una terra inesplorata dove si potevano commettere mille errori fatali, un paradiso selvaggio e indifferente senza nulla che indicasse la presenza del male e del bene.

Nonostante tutti gli affinamenti della civiltà che cospiravano per creare l’arte, la perfezione inebriante del quartetto d’archi, e la grandiosità distesa delle tele di Fragonard, la bellezza era selvaggia. Era pericolosa e senza leggi come lo era stata la terra molti millenni prima che l’uomo avesse un solo pensiero coerente o scrivesse codici di comportamento sulle tavolette d’argilla. La bellezza era un Giardino Selvaggio.

Dunque, perché doveva ferirlo il fatto che la musica più disperata fosse colma di bellezza? Perché doveva ferirlo e renderlo cinico e triste e diffidente?

Bene e male sono concetti stabiliti dall’uomo. E in realtà l’uomo è migliore del Giardino Selvaggio.

Forse, nel profondo del suo essere Nicki aveva sempre sognato un’armonia di tutte le cose, un’armonia che io ho sempre saputo impossibile. Nicki non aveva sognato il bene, ma la giustizia.

Ma ormai non avremmo più potuto discutere tra noi di queste cose. Non saremmo più andati alla locanda. Perdonami, Nicki. Il bene e il male continuano a esistere, come esisteranno sempre. Ma la «nostra conversazione» è finita per sempre.


Tuttavia, mentre lasciavo il tetto, mentre mi allontanavo in silenzio dall’Ile St.-Louis, sapevo che cosa intendevo fare.

Non lo ammettevo neppure con me stesso, ma lo sapevo.


La notte seguente era già tardi quando arrivai al Boulevard du Temple. Mi ero nutrito bene nell’Ile de la Cité, ed era già incominciato il primo atto, alla Casa di Tespi di Renaud.

12.

Mi ero vestito come se dovessi andare a corte: broccato d’argento con una roquelaure di velluto color lavanda sulle spalle. Avevo una spada nuova con l’impugnatura d’argento lavorata e le solite lussuose fibbie alle scarpe, i soliti pizzi, i guanti, il tricorno. Mi recai a teatro con una carrozza presa a nolo.

Però, appena ebbi pagato il cocchiere, tornai nel vicolo e aprii la porta del palcoscenico, esattamente come avevo sempre fatto.

Subito la vecchia atmosfera mi circondò, l’odore del cerone e dei modesti costumi intrisi di sudore e di profumi, e della polvere. Vedevo un angolo del palcoscenico illuminato che brillava oltre il disordine e sentivo gli scrosci di risate del pubblico. Un gruppo di acrobati attendeva di esibirsi durante l’intermezzo, una folla di giullari con le calzamaglie rosse, i berretti e i grandi colletti tempestati di sonaglietti dorati.

Provai un senso di vertìgine e, per un momento, di paura. Mi sembrava un luogo soffocante e pericoloso: tuttavia era splendido essere di nuovo lì. E dentro di me ingigantiva la tristezza… no, il panico.

Luchina mi vide e gettò uno strillo. Tutt’intorno si aprirono le porte dei minuscoli camerini. Renaud corse verso di me e mi strinse calorosamente la mano. Là dove un momento prima c’erano soltanto legno e drappeggi, adesso c’era un piccolo universo di esseri umani eccitati, facce colorite e madide, e mi sorpresi ad allontanarmi da un candeliere fumante e a mormorare in fretta: «I miei occhi… spegnetelo».

«Spegnete le candele, non vedete che gli fanno male gli occhi?» insistette brusca Jeannette. Sentii le sue labbra umide sfiorarmi il viso. Mi stavano tutti intorno, persino gli acrobati che non conoscevo, e i vecchi pittori di scene e i carpentieri che mi avevano insegnato tante cose. Luchina disse: «Chiamate Nicki», e per poco io non gridai: No! Gli applausi facevano tremare il piccolo teatro. Il sipario veniva chiuso. È subito i vecchi attori mi attorniarono e Renaud gridò di portare lo champagne.

Mi tenevo le mani sugli occhi come se fossi il basilisco capace di ucciderli tutti con lo sguardo; sentivo spuntare le lacrime e sapevo che dovevo tergerle prima che gli altri vedessero il sangue. Ma erano così vicini che non potevo prendere il fazzoletto; con una debolezza improvvisa e terribile abbracciai Jeannette e Luchina, e premetti il volto contro il volto di quest’ultima. Erano come due uccelli, con le ossa piene d’aria e i cuori che palpitavano come ali. Per un secondo ascoltai scorrere il loro sangue con l’udito di un vampiro: ma mi sembrava un’oscenità. Mi abbandonai agli abbracci e ai baci ignorando i battiti dei loro cuori, e le tenni strette e aspirai l’odore della loro pelle incipriata e sentii di nuovo la pressione delle loro labbra,

«Non sapete quanto eravamo preoccupati per voi!» tuonò Renaud. «E poi le storie della vostra fortuna! Tutti, tutti!» Battè le mani. «È Monsieur de Valois, il padrone di questo grande teatro…» Disse molte altre frasi solenni e scherzose, e trascinò gli attori e le attrici nuovi verso di me, forse perché mi baciassero le mani o i piedi, chissà. Io tenevo strette le due ragazze come se rischiassi di esplodere qualora le avessi lasciate, e poi sentii Nicki, e compresi che era a un passo da me e mi fissava, ed era troppo felice di rivedermi per essere ancora offeso.

Non aprii gli occhi ma sentii la sua mano passare sul mio viso e quindi stringermi la nuca. Dovevano avergli fatto largo; e quando mi venne fra le braccia provai una piccola convulsione di terrore. Ma la luce era fioca, e mi ero cibato furiosamente per essere caldo e avere un aspetto umano; e pensavo disperatamente che non sapevo chi pregare perché l’inganno funzionasse. E poi, per me vi fu soltanto Nicki e il resto non contò più. Lo guardai in viso.

È impossibile descrivere come ci appaiono gli umani! Ho tentato di spiegarlo un poco, quando ho detto che la notte prima la bellezza di Nicki era una mescolanza di movimento e di colore. Ma non potete immaginare cosa sia per noi guardare la carne vivente. Vi sono milioni di colori e minuscole configurazioni di movimento, sì, che formano una creatura viva sulla quale ci concentriamo. Ma la radiosità si mescola totalmente con l’odore carnale. Bellissimo… ecco cos’è per noi ogni essere umano, se ci soffermiamo a considerarlo: anche i vecchi e i malati, i reietti che in realtà uno non «vede» per la strada. Sono tutti così, come fiori sempre in procinto di schiudersi, farfalle che escono perennemente dal bozzolo.

Bene, io vidi tutto questo quando vidi Nicki, e sentii l’odore del sangue che scorreva nelle sue vene e per un momento inebriante provai amore e soltanto amore, così intenso da cancellare ogni ricordo degli orrori che mi avevano deformato. Ogni estasi malefica e ogni nuovo potere con le sue gratificazioni mi apparivano irreali. Forse provavo una gioia profonda, anche, perché sapevo ancora amare, se mai ne avevo dubitato, e perché aveva trovato conferma una tragica vittoria.

Tutto il vecchio conforto mortale mi inebriava; avrei potuto chiudere gli occhi e abbandonare lo stato di coscienza portandolo con me, o almeno così mi sembrava.

Ma qualcos’altro fremeva in me e acquisiva forza così in fretta che la mia mente si precipitava per inseguirlo e negarlo mentre minacciava di diventare incontrollabile. Lo riconobbi per ciò che era: qualcosa di mostruoso e di enorme e di naturale per me quanto era innaturale il sole. Volevo Nicki. Lo volevo con la stessa intensità con cui avevo voluto le vittime domate nell’Ile de la Cité. Volevo che il suo sangue fluisse in me, volevo il suo sapore e il suo odore e il suo calore.

Il piccolo teatro echeggiava di grida e di risate. Renaud disse agli acrobati di procedere con l’intermezzo e Luchina stappò lo champagne. Ma noi eravamo isolati nel nostro abbraccio.

Il calore irradiato dal corpo di Nicki mi fece irrigidire e indietreggiare, sebbene sembrasse che non mi muovessi. Mi sentivo impazzire all’idea che costui, amato come amavo mia madre e i miei fratelli, destinatario dell’unica tenerezza del mio animo, fosse una cittadella inespugnabile, difesa dall’ignoranza contro la mia sete di sangue quando centinaia di vittime l’avevano ceduto così facilmente.

Ero fatto per questo. Era la via che dovevo percorrere. Che cos’erano gli altri, ora, per me… i ladri e gli assassini che avevo stroncato nella giungla di Parigi? Era questo, ciò che volevo. E la grande, temibile possibilità della morte di Nicki mi esplose nella mente. La tenebra contro le mie palpebre chiuse era diventata rossa come il sangue. La mente di Nicki si svuotava in quell’ultimo momento, e abbandonava la complessità contemporaneamente alla vita.

Non potevo muovermi. Sentivo il sangue come se passasse da lui a me, e gli premevo le labbra sul collo. Ogni particella del mio essere diceva: «Prendilo, portalo lontano da qui, lontano, e nutriti di lui, nutriti di lui… fino a quando…» Fino a quando che cosa?… Fino a quando sarà morto!

Mi svincolai e lo respinsi. Intorno a noi la folla rumoreggiava. Renaud gridava qualcosa agli acrobati che assistevano alla scena a occhi sgranati. Nella sala, il pubblico invocava lo spettacolo dell’intermezzo battendo ritmicamente le mani. L’orchestra suonava il motivetto vivace che doveva accompagnare gli acrobati. Ossa e carne premevano contro di me. Il teatro era diventato uno scannatoio, carico dell’odore di coloro che erano pronti per il macello. Sentii i conati anche troppo umani della nausea.

Nicki sembrava aver perso il suo equilibrio; e quando i nostri occhi s’incontrarono sentii le accuse che si irradiavano da lui. Sentii l’infelicità e, peggio ancora, la disperazione.

Mi feci largo tra tutti, tra gli acrobati con i sonagli tintinnanti; non so perché, mi spinsi verso le quinte anziché uscire dalla porta secondaria. Volevo vedere il palcoscenico. Volevo vedere il pubblico. Volevo penetrare più a fondo qualcosa cui non avrei saputo dare un nome. Ma ero come pazzo in quei momenti. Non ha senso dire che volevo o pensavo qualcosa.

Ansimavo, e la sete era come un gatto che graffiava per uscire allo scoperto. E quando mi appoggiai alla trave lignea accanto al sipario, Nicki, che era offeso e aveva frainteso tutto, tornò ad avvicinarsi a me. Lasciai che la sete infuriasse. Lasciai che mi artigliasse le viscere. Mi tenni aggrappato alla trave e rividi, nel ricordo, tutte le mie vittime, la feccia di Parigi trovata nelle fogne, e compresi la follia della strada che avevo scelto, e la sua fallacia, e ciò che ero veramente. Era un’idiozia sublime che avessi trascinato con me quella sciocca morale e che colpissi soltanto i dannati… cercavo di essere tra i salvati nonostante tutto? Cosa avevo creduto di essere, un virtuoso collaboratore dei giudici e dei carnefici di Parigi, pronti a colpire i poveri per quei crimini che i ricchi commettono ogni giorno?

Avevo bevuto un vino forte in recipienti incrinati e sbreccati, e adesso il prete stava davanti a me ai piedi dell’altare con il calice d’oro fra le mani, e il vino che questo conteneva era il Sangue dell’Agnello. Nicki parlava, in fretta.

«Lestat, che cosa c’è? Dimmelo!» Come se gli altri non potessero sentirci. «Dove sei stato? Che cosa ti è successo? Lestat!»

«Via, in scena!» tuonò Renaud agli acrobati che ci guardavano a bocca aperta. Costoro passarono oltre, entrarono nel chiarore fumoso delle lampade e incominciarono una serie di capriole.

Gli orchestrali trasformarono gli strumenti in uccelli che cinguettavano. Un lampo rosso, maniche d’Arlecchino, tintinnio di sonagli, sfide del pubblico indisciplinato: «Fateci vedere qualcosa di bello, su!» Luchina mi baciò e io fissai la sua gola bianca, le mani lattee. Vedevo le vene del viso di Jeannette, il cuscinetto morbido del labbro inferiore farsi ancora più vicini. Lo champagne scendeva in dozzine di bicchieri. Renaud stava facendo un discorso sulla nostra «società» e sulla farsa che incominciava ad andare in scena quella sera, e diceva che presto il nostro sarebbe diventato il più grande teatro dei boulevard. Io mi vedevo vestito per la parte di Lelio e sentivo il motivetto che avevo cantato in ginocchio a Flaminia.

Davanti a me c’erano piccoli mortali che caprioleggiavano pesantemente, e gli spettatori fischiavano mentre il capo degli acrobati faceva un movimento osceno con il didietro.

Ancor prima di rendermi conto di ciò che facevo, andai in scena.

Mi fermai al centro e sentii il caldo delle lampade, il fumo che mi irritava gli occhi. Guardai la galleria affollata, i palchi con gli schermi, le file degli spettatori. Sentii la mia voce ringhiare all’acrobata l’ordine di andarsene.

La risata era assordante, e la sfida e gli urli che mi accoglievano erano spasimi ed eruzioni: e, dietro il volto, ogni spettatore era un teschio ghignante. Canticchiavo il motivetto che avevo cantato come Lelio, solo un frammento della mia parte; ma l’avevo portato con me per le vie, «dolce, dolce Flaminia», e le parole erano suoni privi di senso.

Nel baccano echeggiarono gli insulti.

«Avanti con la rappresentazione!» «Sei abbastanza bello, darti da fare!» Dalla galleria qualcuno lanciò una mela sbocconcellata che rimbalzò davanti ai miei piedi.

Sganciai il roquelaure viola e lo lasciai cadere. Lasciai cadere anche la spada d’argento.

Il canto era divenuto un mormorio indistinto dietro le mie labbra, ma una poesia folle mi martellava nella mente. Vedevo la giungla della bellezza selvaggia, come l’avevo veduta la sera prima mentre Nicki suonava, e il mondo morale pareva un sogno disperato di razionalità, privo di possibilità in quel fetido lussureggiare. Era una visione, e io vedevo più di quanto non capissi; tuttavia ne facevo parte, naturale come il gatto dal muso squisito e impassibile che affonda gli artigli nel dorso di un topo urlante.

«Abbastanza bello è il Mietitore di vite», mormorai, «che può estinguere tutte queste candele dalla breve durata, tutte le anime che respirano l’aria in questa sala.»

Ma le parole sfuggivano alla mia portata. Aleggiavano in uno strato dove forse esisteva un dio che capiva i colori screziati della pelle di un cobra e le otto note splendide della musica creata dallo strumento di Nicki, ma non il principio trascendente la bruttezza e la bellezza: «Non uccidere».

Centinaia di facce untuose mi guardavano dalla semioscurità. Parrucche disordinate, gioielli falsi, abiti sporchi, e pelle che pareva scorrere come acqua sulle ossa storte. Una folla di mendicanti laceri fischiava e gridava dalla galleria, gobbi e guerci, e grucce puzzolenti, e denti del colore dei denti dei teschi che si rimuovono dalla terra di una tomba.

Tesi le braccia. Piegai il ginocchio e incominciai a girare su me stesso come gli acrobati e i danzatori, su un piede solo e sempre più svelto, fino a quando mi fermai e mi lanciai all’indietro in una successione di capriole e di salti mortali, imitando tutto ciò che avevo visto fare dagli artisti delle fiere.

Scrosciarono gli applausi. Ero agile come nel villaggio, e la scena era piccola, il soffitto sembrava gravarmi addosso, il fumo delle lampade mi circondava. Ricordai la canzoncina dedicata a Flaminia e cominciai a cantarla a voce spiegata mentre piroettavo e saltavo e volteggiavo. Poi guardai il soffitto, comandai al mio corpo di slanciarsi e piegai le ginocchia per saltare.

In un istante toccai le travi e ridiscesi con eleganza, senza far rumore.

Gli spettatori proruppero in esclamazioni. La piccola folla tra le quinte era sbalordita. I musicisti si guardavano: vedevano che non ero sostenuto da corde.

Ma io spiccai un altro salto fra l’entusiasmo del pubblico e questa volta caprioleggiai fino in alto, oltre l’arco dipinto, per discendere in volteggi più lenti e aggraziati.

Risuonarono grida e acclamazioni e applausi; ma coloro che stavano fra le quinte erano muti. Nicki era vicinissimo e le sue labbra mormoravano in silenzio il mio nome.

«Dev’essere un trucco, un’illusione.» Da ogni parte giungevano gli stessi commenti; tutti chiedevano la conferma a chi avevano intorno. Per un istante la faccia di Renaud splendette davanti a me, con la bocca aperta e gli occhi strabuzzati.

Ma avevo ricominciato a ballare. Questa volta la grazia non aveva più importanza per il pubblico. Lo sentivo; e la danza diventò una parodia, ogni gesto divenne più ampio e prolungato e lento di quello che avrebbe potuto compiere un ballerino umano.

Qualcuno gridò fra le quinte e fu zittito. Dai musicisti e dagli spettatori delle prime file si levarono esclamazioni soffocate. La gente cominciava a sentirsi a disagio e si scambiava bisbigli; ma la marmaglia in galleria continuava ad applaudire.

Mi lanciai verso il pubblico come per rimproverargli la scortesia. Molti spettatori rimasero così sbigottiti che si alzarono e cercarono di scappare nelle corsie. Un suonatore di corno lasciò cadere lo strumento e abbandonò il suo posto.

Leggevo l’agitazione e persino la collera sui volti. Cos’erano quelle illusioni? All’improvviso non si divertivano più, non capivano, e i miei modi seri li impaurivano. Per un momento terribile sentii la loro impotenza.

E sentii il loro destino.

Una grande orda di scheletri coperti di carne e di cenci, ecco che cos’erano: e tuttavia il loro coraggio sfolgorava, e gridavano con insopprimibile orgoglio.

Alzai lentamente le mani per attirare la loro attenzione e cantai a gran voce, con fermezza, la dichiarazione a Flaminia, la mia dolce Flaminia, e una sciocca strofa lasciò spazio all’altra, e la mia voce diventò più forte, sempre più forte, fino a che gli spettatori si alzarono urlando; ma io cantai ancora più forte, fino a cancellare ogni altro suono. E nel fragore intollerabile li vidi tutti, a centinaia, rovesciare le panche nell’alzarsi, con le mani premute sulle orecchie.

Le loro bocche erano smorfie e urla stridenti.

Pandemonio. Grida, maledizioni, e tutti che lottavano per precipitarsi alle uscite. Le tende dei palchi venivano staccate. Molti uomini saltavano dalla galleria per correre verso la strada.

Interruppi l’orrido canto.

Rimasi a guardarli in un silenzio sonante, quei corpi deboli e sudati che si lanciavano goffamente in ogni direzione. Il vento soffiava dalle porte aperte e io sentivo nelle membra un freddo strano e mi pareva che i miei occhi fossero diventati di vetro.

Senza guardare, raccolsi la spada e la rimisi al fianco, strinsi fra le dita il colletto di velluto del mio roquelaure impolverato. Tutti quei gesti sembravano grotteschi come tutti gli altri che avevo compiuto; e pareva non avere importanza che Nicki cercasse di liberarsi dei due attori che lo trattenevano mentre gridava il mio nome.

Ma qualcosa, nel caos, attirò la mia attenzione. Sembrava terribilmente importante… c’era qualcuno, lassù, in uno dei palchi aperti, che non cercava di fuggire, anzi non si muoveva.

Mi voltai lentamente e lo guardai, come per sfidarlo a restare. Era vecchio e gli opachi occhi grigi mi fissavano con ostinata indignazione; e mentre lo guardavo, proruppi in un gran ruggito a bocca aperta. Pareva che il grido provenisse dalla mia anima; divenne sempre più forte fino a quando i pochi rimasti nella platea si coprirono di nuovo le orecchie tremando; e persino Nicolas, che correva verso di me, vacillò sotto quel suono e si premette le mani contro la testa.

E l’uomo restava lassù, vecchio e indignato e tenace, con la fronte aggrottata sotto la parrucca grigia.

Indietreggiai e spiccai un balzo attraverso la sala vuota e atterrai nel palco davanti a lui. Spalancò la bocca e sbarrò gli occhi.

Sembrava deformato dall’età, con le spalle curve e le mani nodose; ma lo spirito che traspariva dai suoi occhi trascendeva la vanità e il compromesso. Indurì la bocca e sporse il mento. Estrasse dalla giacca la pistola e la puntò verso di me reggendola con entrambe le mani.

«Lestat!» gridò Nicki.

Ma risuonò lo sparo e la palla mi colpì con forza. Non mi mossi. Restai saldo come prima stava il vecchio, e la sofferenza dilagò in me e si arrestò, e lasciò una tensione terribile in tutte le mie vene.

Il sangue scorse. Scorse come non avevo mai visto scorrere il sangue. Intrise la camicia, e lo sentii colare sulla schiena. Ma la tentazione in me diventò più forte e ancora più forte, e un formicolio cominciò a fremere sulla superficie del dorso e del petto.

L’uomo mi fissava allibito. La pistola gli cadde dalle mani. Rovesciò la testa, con gli occhi ciechi, e si accasciò sul pavimento.

Nicki aveva salito correndo le scale. Si precipitò nel palco gemendo istericamente. Credeva di aver assistito alla mia morte.

E io ascoltavo il mio corpo, nella solitudine terribile che mi perseguitava da quando Magnus aveva fatto di me un vampiro. Sapevo che le ferite non c’erano più.

Il sangue si asciugava sul panciotto di seta, si asciugava sulla giacca perforata. Il mio corpo pulsava dove il proiettile mi aveva trapassato, e nelle mie vene c’era la stessa tensione. Ma la ferita non c’era più.

E Nicolas ritrovò la lucidità nel guardarmi, si accorse che ero illeso sebbene la ragione gli dicesse che non poteva essere vero.

Gli passai accanto e mi avviai verso le scale. Si gettò contro di me e io lo respinsi. Non sopportavo di vederlo, non sopportavo il suo odore.

«Stammi lontano!» dissi.

Ma Nicki mi passò il braccio intorno al collo. Aveva la faccia gonfia ed emetteva un suono impressionante.

«Lasciami, Nicki!» dissi minacciosamente. Se l’avessi respinto con un movimento troppo brusco, gli avrei disarticolato le braccia, gli avrei spezzato la schiena.

Spezzargli la schiena…

Gemette e balbettò. Per una frazione di secondo agghiacciante, i suoni che emetteva furono terribili come il lamento della mia cavalla morente sulla montagna, schiacciata come un insetto nella neve.

Quasi non sapevo cosa stavo facendo, quando mi svincolai dalle sue mani.

La folla si disperse urlando mentre uscivo nel boulevard.

Renaud accorse, nonostante gli sforzi di quelli che cercavano di trattenerlo.

«Monsieur!» Mi afferrò la mano per baciarla, poi si fermò nel vedere il sangue.

«Non è niente, mio caro Renaud», gli dissi, sorpreso dalla fermezza gentile della mia voce. Ma qualcosa mi distrasse mentre riprendevo a parlare: era qualcosa che avrei dovuto ascoltare, pensai vagamente. Tuttavia continuai.

«Non preoccupatevi, caro Renaud», dissi. «Sangue da palcoscenico, nient’altro che un’illusione. È stata tutta un’illusione. Una nuova varietà teatrale. Il dramma del grottesco, sì, del grottesco.»

Ma ritornò quella distrazione: era qualcosa che percepivo nella calca intorno a me, tra la gente che spingeva per venirmi vicino ma non troppo; e Nicolas sgranava gli occhi, sbigottito.

«Continuate con le commedie», dissi, sebbene fossi quasi incapace di concentrarmi sulle mie parole. «I vostri acrobati, le tragedie, il vostro teatro più civile, se volete.»

Tirai fuori le banconote dalla tasca e gliele misi nella mano tremante. Rovesciai molte monete d’oro sul marciapiedi. Timorosi, gli attori accorsero per raccoglierle. Guardai la folla in cerca della causa della strana distrazione: non era Nicolas che, sulla soglia del teatro deserto, mi guardava con l’anima spezzata.

No, era qualcosa di familiare e sconosciuto insieme, qualcosa che aveva a che fare con le tenebre.

«Scritturate i migliori interpreti», continuai. «i musicisti migliori, i più grandi pittori di scene.» Altre banconote. La mia voce stava ridiventando alta, la voce di vampiro. Rividi le smorfie, le mani che si alzavano: ma avevano paura di farsi vedere mentre si tappavano le orecchie. «Non c’è limite, non c’è limite a ciò che potete fare.»

Mi allontanai, trascinandomi dietro il roquelaure. La spada sferragliava goffamente perché non era affibbiata bene. Qualcosa nella tenebra.

E quando raggiunsi il primo vicolo e mi misi a correre, compresi che cosa avevo udito, che cosa mi aveva distratto. Era la presenza, innegabilmente tra la folla.

Lo sapevo per una semplice ragione: ora correvo per le viuzze secondarie più velocemente di quanto potesse un mortale. E la presenza non si faceva distanziare, e la presenza era più di una!

Quando ne fui certo, mi fermai.

Ero a un miglio dal boulevard e il vicolo tortuoso era stretto e nero.

E li udii prima che, all’improvviso, si decidessero a tacere.

Ero troppo ansioso e depresso per continuare quel gioco con loro. Ero troppo stordito. Gridai la stessa domanda: «Chi siete? Parlate!» I vetri delle finestre vicine tremarono. I mortali si girarono nei letti. Lì non c’era un cimitero. «Rispondete, branco di vigliacchi! Parlate se avete una voce, o lasciatemi in pace per sempre!»

E compresi, anche se non saprei dirvi come, che potevano sentirmi e rispondere, se volevano. Compresi che ciò che avevo sempre sentito era la prova insopprimibile della loro vicinanza e della loro intensità. Ma potevano velare i loro pensieri, e l’avevano fatto. Voglio dire, possedevano un intelletto e un eloquio.

Esalai un lungo respiro.

Il loro silenzio mi feriva; ma ero ferito mille volte di più da quanto era appena accaduto. E, come avevo fatto in passato, voltai loro le spalle.

Mi seguirono. Stavolta mi seguirono, per quanto mi muovessi rapidamente.

E non persi quello strano fremito della loro presenza fino a che non arrivai a Place de Grève ed entrai nella cattedrale di Notre-Dame.


Trascorsi il resto della notte nella cattedrale, rannicchiato in un angolo buio presso il muro di destra. Ero affamato a causa del sangue perduto e, ogni volta che un mortale si avvicinava, sentivo una tensione foltissima nei punti delle ferite.

Ma attendevo.

E, quando si avvicinò una giovane mendicante con un bambino, compresi che era giunto il momento. Lei vide il sangue raggrumato, e si preoccupò di portarmi all’ospedale vicino, l’Hôtel-Dieu. Aveva il viso scavato per la fame, ma cercò di sollevarmi con le braccia esili.

La guardai negli occhi fino a quando li vidi velarsi. Sentivo il calore dei suoi seni attraverso i cenci. Il corpo morbido e succulento si abbandonò contro di me come in un dono, mentre la stringevo contro i broccati e i pizzi insanguinati. La baciai e mi nutrii del suo calore mentre le scostavo gli stracci sporchi dalla gola, e mi chinai per bere con tanta destrezza che il bimbo addormentato non se ne accorse. Poi, con dita tremanti, aprii la camicia lacera del piccino. Anche quel piccolo collo era mio.

Non ci sono parole per descrivere l’estasi. In precedenza, avevo conosciuto tutto il rapimento che poteva dare uno stupro. Ma avevo preso quelle vittime nella parvenza perfetta dell’amore. Il sangue sembrava più caldo nella loro innocenza, più ricco nella loro bontà.

Poi li guardai mentre dormivano insieme nella morte. Quella notte non avevano trovato una protezione nella cattedrale.

E compresi che la mia visione del Giardino Selvaggio era stata vera. C’era un significato nel mondo, sì, e c’erano leggi e inevitabilità: ma riguardavano solo l’estetica. E nel Giardino Selvaggio quegli innocenti dovevano finire tra le braccia del vampiro. Del mondo si possono dire mille altre cose; ma soltanto i princìpi estetici possono trovare una conferma, e sono le sole cose che rimangono immutabili.

Ero pronto a ritornare a casa, adesso. E mentre uscivo nella prima mattina, compresi che si era dissolta l’ultima barriera fra il mio appetito e il mondo.

Nessuno era al sicuro da me, ormai, per quanto fosse innocente. E questo includeva i miei cari amici del teatro di Renaud, e includeva il mio amato Nicki.

13.

Desideravo che se ne andassero da Parigi. Volevo che i cartelloni venissero tolti e le porte chiuse. Volevo che il silenzio e il buio regnassero nel teatrino dove avevo conosciuto la felicità più grande della mia vita di mortale.

Neppure una dozzina di vittime innocenti per notte sarebbe bastata a impedirmi di pensare a loro e a dissolvere dentro di me quella smania. Ogni via di Parigi conduceva alla loro porta.

Mi sopraffece la vergogna quando pensai che li avevo spaventati. Come avevo potuto far loro una cosa simile? Perché dovevo dimostrare a me stesso, con tanta violenza, che non avrei più potuto essere uno di loro?

No. Avevo comprato il teatro di Renaud. L’avevo trasformato nella vetrina del boulevard. Ora l’avrei chiuso.

Loro, comunque, non sospettarono. Credettero alle giustificazioni semplici e stupide di Roget: ero appena tornato dal caldo delle colonie tropicali, e il buon vino di Parigi mi aveva dato alla testa. E profusi molto denaro per riparare al danno.

Solo Dio sa cosa pensavano veramente. Comunque la sera dopo ripresero le rappresentazioni regolari, e senza dubbio il pubblico sofisticato del Boulevard du Temple attribuì all’episodio una dozzina di spiegazioni ragionevoli. Sotto gli ippocastani c’era una lunga coda.

Nicki era il solo che non voleva saperne. Aveva cominciato a bere parecchio e rifiutava di tornare al teatro e di studiare musica. Insultava Roget quando andava a parlargli. Frequentava i locali peggiori e si aggirava da solo, di notte, per le vie più pericolose.

Bene, pensavo, abbiamo questo in comune.

Roget mi riferì tutto mentre io camminavo avanti e indietro, a una certa distanza dalla candela accesa sul suo scrittoio. Il mio viso era una maschera per i miei veri pensieri.

«Per quel giovane, il denaro non significa molto, Monsieur», disse Roget. «Ne ha avuto molto per tutta la vita, mi ha detto. E ha detto certe cose che mi turbano, Monsieur. Non mi piacciono.»

Roget sembrava il personaggio di una filastrocca per bambini, con il berretto di flanella e la veste da camera, e i piedi nudi perché l’avevo svegliato ancora una volta nel cuore della notte e non gli avevo lasciato neppure il tempo di mettere le pantofole e di pettinarsi.

«Che cosa dice?» chiesi.

«Parla di stregoneria, Monsieur. Dice che possedete strani poteri, e cita la Voisin e la Chambre Ardente, un vecchio caso di stregoneria avvenuto ai tempi del Re Sole, la strega che preparava filtri e veleni per certi membri della Corte.»

«Chi può credere a simili assurdità al giorno d’oggi?» Ostentavo la massima sorpresa. In realtà, però, mi sentivo rizzare i capelli.

«Monsieur, dice cose molto feroci», continuò Roget. «Dice che la vostra razza, così si esprime, ha sempre avuto accesso a grandi segreti. Continua a parlare di un luogo della vostra cittadina, chiamato luogo delle streghe.»

«La mia razza!»

«Siete un aristocratico, Monsieur», disse Roget. Era un po’ imbarazzato. «Quando un uomo è in collera come Monsieur de Lenfent, certe cose possono diventare importanti. Ma non riferisce i suoi sospetti ad altri. Li confida a me solo. Dice che voi comprenderete perché vi disprezza: avete rifiutato di spartire con lui le vostre scoperte. Sì, Monsieur, le vostre scoperte. Continua a parlare della Voisin, delle cose che esistono tra cielo e terra e che non hanno spiegazioni razionali. Dice che ora sa perché piangeste nel luogo delle streghe.»

Per un momento non ebbi il coraggio di guardare Roget. Era un meraviglioso stravolgimento della realtà: tuttavia centrava la verità con esattezza. Era magnifico e del tutto irrilevante. A modo suo Nicki aveva ragione.

«Monsieur, voi siete l’uomo più generoso…» disse Roget.

«Vi prego…»

«Ma Monsieur de Lenfent dice cose fantastiche, cose che non dovrebbe dire di questi tempi. Dice di avervi visto trapassato da una pallottola che avrebbe dovuto uccidervi.»

«La pallottola mi ha mancato», dissi. «Roget, non insistete. Fateli allontanare tutti da Parigi, tutti.»

«Allontanarli? Ma avete speso tanto denaro per quel teatro…»

«E con ciò? Che importanza ha?» dissi io. «Mandateli a Londra, al Drury Lane. Offrite a Renaud una somma sufficiente per comprarsi là un teatro. E poi potrebbe andare in America… San Domingo, New Orleans, New York. Provvedete, Monsieur. La spesa non ha importanza. Chiudete il mio teatro e fateli partire!»

E allora la sofferenza e la smania spariranno, no? Smetterò di vederli raccolti fra le quinte intorno a me, non penserò più a Lelio, il giovane provinciale che vuotava i secchi d’acqua sporca ed era felice.

Roget sembrava intimidito. Cosa provava a lavorare per un pazzo ben vestito che lo pagava tre volte più del normale purché dimenticasse il buon senso?

Non lo saprò mai. Non saprò mai più cosa significa essere umani in qualunque forma e in qualunque modo.

«In quanto a Nicolas», dissi, «lo persuaderete ad andare in Italia, e vi dirò come dovrete fare.»

«Monsieur, sarà un’impresa persino persuaderlo a cambiarsi d’abito!»

«Questo sarà più facile. Voi sapete che mia madre è gravemente malata. Bene, inducetelo ad accompagnarla in Italia. È la soluzione ideale. Potrà studiare musica in un conservatorio di Napoli, dove dovrebbe andare mia madre.»

«Sì, le scrive spesso… le è molto affezionato.»

«Appunto. Convincetelo che mia madre non si deciderà mai a partire senza di lui. Date tutte le disposizioni. Monsieur, dovete farlo. Nicolas deve lasciare Parigi. Vi do tempo fino al termine della settimana e, quando tornerò, voglio sentirmi dire che è partito.»


Naturalmente, chiedevo molto a Roget. Ma non mi veniva in mente un’altra soluzione. Nessuno avrebbe creduto alle idee di Nicki sulla stregoneria; questo non mi preoccupava. Ma ora sapevo che, se non avesse lasciato Parigi, avrebbe finito per impazzire a poco a poco.

Le notti passavano e ogni ora io lottavo con me stesso per non andare a cercarlo, per non rischiare un ultimo incontro.

Attendevo: sapevo bene che stavo per perderlo per sempre e che non avrebbe mai conosciuto le ragioni di ciò che era successo. Io, che un tempo mi ero scagliato contro la mancanza di significato dell’esistenza, lo cacciavo senza spiegazioni, ed era un’ingiustizia che avrebbe potuto tormentarlo sino alla fine dei suoi giorni.

Meglio questo della verità, Nicki. Forse ora capisco un po’ meglio tutte le illusioni. E se riuscirai a indurre mia madre a recarsi in Italia, se ci sarà ancora un po’ di tempo per lei…


Intanto, potevo vedere con i miei occhi che la Casa di Tespi era chiusa. In un caffè vicino, sentii parlare della partenza della compagnia per l’Inghilterra. Quella parte del mio piano, almeno, si era realizzata.


Era quasi l’alba, l’ottava notte, quando mi presentai alla porta di Roget e tirai il campanello.

Mi rispose prima di quanto mi aspettassi; era frastornato e ansioso, e indossava la solita camicia da notte di flanella bianca.

«Comincio ad apprezzare il vostro abbigliamento, Monsieur», dissi stancamente. «Credo che non mi fiderei di voi se portaste camicia, brache e giacca…»

«Monsieur», disse Roget interrompendomi, «un avvenimento inatteso…»

«Prima rispondetemi. Renaud e gli altri sono partiti felicemente per l’Inghilterra?»

«Sì, Monsieur. Ormai sono a Londra, ma…»

«E Nicki? È andato da mia madre in Alvernia. Ditemi che è così. È fatta.»

«Monsieur!» disse Roget. S’interruppe e, inaspettatamente, vidi nei suoi pensieri l’immagine di mia madre.

Se avessi riflettuto, avrei compreso cosa significava. Quell’uomo non aveva mai visto mia madre: quindi come poteva raffigurarsela con il pensiero? Ma non usavo la ragione. Anzi, la mia ragione era fuggita.

«Non è… non ditemi che è troppo tardi!» esclamai.

«Monsieur… lasciate che prenda la giacca…» disse inesplicabilmente Roget, e tese la mano verso il campanello.

L’immagine riapparve nella mia mente: il viso bianco e tirato, troppo vivido perché potessi sopportarlo.

Afferrai Roget per le spalle.

«L’avete vista! È qui!»

«Sì, Monsieur. È a Parigi. Ora vi condurrò da lei. Il giovane de Lenfent mi ha avvertito del suo arrivo, ma non sono riuscito a mettermi in contatto con voi, Monsieur. Non so mai dove trovarvi. Ed è arrivata ieri.»

Ero troppo stordito per rispondere. Mi lasciai cadere sulla sedia. Le immagini di mia madre che custodivo nella mente sfolgoravano abbastanza intense per eclissare tutto il resto. Era viva ed era a Parigi. E Nicki era ancora lì, ed era con lei.

Roget si accostò, come se volesse toccarmi.

«Andate avanti, Monsieur, mentre mi vesto. Vostra madre è nell’Ile St.-Louis, tre porte a destra di Monsieur Nicolas. Dovete andare immediatamente.»

Lo guardai allibito. Non lo vedevo neppure. Vedevo mia madre. Mancava meno di un’ora al levar del sole. E avrei impiegato tre quarti d’ora per raggiungere la torre. «Domani… domani notte», balbettai. Ricordavo la battuta del Macbeth di Shakespeare… «Domani e domani e domani…»

«Monsieur, voi non capite! Vostra madre non farà il viaggio in Italia. Ha compiuto l’ultimo viaggio venendo qui per vedervi.»

Quando s’accorse che non rispondevo, mi afferrò e cercò di scuotermi. Non l’avevo mai visto comportarsi così. Per lui ero un ragazzo, e si sentiva in dovere di richiamarmi alla ragione. «Le ho trovato un alloggio», continuò. «Infermiere, dottori, e tutto ciò che si può desiderare. Ma non bastano per tenerla in vita. Siete voi che la tenete in vita, Monsieur. Deve vedervi prima di chiudere gli occhi per sempre. Dimenticate l’ora e andate da lei. Neppure una volontà forte come la sua può compiere certi miracoli.»

Non riuscivo a rispondere. Non riuscivo a formulare un solo pensiero coerente.

Mi alzai e andai alla porta, trascinando con me Roget. «Andate subito da lei», dissi. «E informatela che andrò a farle visita domani notte.»

Roget scosse la testa. Era incollerito e disgustato. E cercò di voltarmi le spalle.

Non glielo permisi. «Andate da lei immediatamente, Roget», dissi. «Tenetele compagnia tutto il giorno, capite, e fate in modo che attenda… che attenda il mio arrivo! Vegliatela, se dorme. Destatela e parlate, se vi accorgete che sta per andarsene. Ma non lasciate che muoia prima del mio arrivo!»

PARTE III VIATICO PER LA MARCHESA

1.

Dal punto di vista delle abitudini dei vampiri, io mi sveglio presto. Mi alzo appena il sole cala dietro l’orizzonte e nel cielo c’è ancora una luce rossa. Molti vampiri non si svegliano prima che sia completamente buio; quindi ho un notevole vantaggio… in questo e nel fatto che loro devono tornare nella tomba un’ora prima di me. Non ne ho parlato prima perché allora non lo sapevo, e perché la cosa non divenne importante se non più tardi.

Ma la sera seguente mi misi sulla strada per Parigi mentre il cielo era in fiamme.

Avevo indossato gli abiti più rispettabili che possedevo prima di infilarmi nel sarcofago, e inseguivo il sole verso ovest, in direzione della capitale.

Sembrava che la città bruciasse, tanto appariva ardente e terrificante quella luce. E finalmente attraversai il ponte dietro Notre-Dame e raggiunsi l’Ile St-Louis.

Non pensavo a ciò che avrei detto o fatto, o come avrei potuto nascondermi a mia madre. Sapevo solo che dovevo vederla e abbracciarla e stare con lei finché c’era ancora tempo. Non riuscivo a pensare alla sua morte. Era una catastrofe che apparteneva al cielo in fiamme. E forse io ragionavo come un comune mortale, pensando che, se avessi potuto realizzare il suo ultimo desiderio, sarei riuscito a dominare l’orrore.

Il crepuscolo disperdeva la luce, quando trovai la sua casa sul Lungosenna.

Era una casa piuttosto elegante. Roget aveva fatto ciò che doveva, e un commesso attendeva al portone per indicarmi la strada. Quando entrai, nel salotto dell’appartamento c’erano due cameriere e un’infermiera.

«Monsieur de Lenfent è con vostra madre, Monsieur», disse l’infermiera. «Ha voluto vestirsi per vedervi, e sedersi accanto alla finestra per guardare le torri della cattedrale. Vi ha visto attraversare a cavallo il ponte.»

«Spegnete tutte le candele della stanza tranne una», dissi. «E chiedete a Monsieur de Lenfent e al mio procuratore di uscire.»

Roget uscì subito, e poi apparve Nicolas.

Anche lui s’era vestito con eleganza, in velluto rosso, con la camicia più bella e i guanti bianchi. Le recenti ubriacature lo avevano fatto diventare più magro, quasi sparuto: ma questo rendeva ancora più vivida la sua bellezza. Quando i nostri occhi s’incontrarono, la malizia che s’irradiò da lui mi bruciò il cuore.

«Oggi la marchesa si sente un po’ più forte, Monsieur», disse Roget. «Ma ha terribili emorragie. Il dottore dice che non…»

S’interruppe e lanciò un’occhiata alla camera da letto. Glielo lessi nella mente: non passerà la notte.

«Fatela tornare a letto, Monsieur, al più presto possibile.»

«A che scopo?» chiesi. La mia voce era un mormorio spento. «Forse vuol morire accanto a quella maledetta finestra. Perché no, che diavolo?»

«Monsieur!» m’implorò Roget.

Volevo dirgli di andarsene con Nicki.

Ma mi stava accadendo qualcosa. Andai nel corridoio e guardai in direzione della camera da letto. Mia madre era là. Avvertii un cambiamento fisico che si compiva in me. Non potevo muovermi né parlare. Lei era là e stava morendo.

Tutti i suoni nell’appartamento divennero un brusio confuso. Vidi una bella camera da letto al di là della porta, un letto laccato di bianco con i tendaggi dorati, le finestre con drappeggi dello stesso tessuto, e il cielo inquadrato nei vetri e sfumato di nubi d’oro. Ma tutto ciò era indistinto e vagamente orribile: il lusso che avevo desiderato donarle, e lei che stava per abbandonarsi alla fine. Mi chiedevo se questo la esasperava o la faceva ridere.

Comparve il dottore. L’infermiera venne a dirmi che era rimasta accesa una candela sola, come avevo ordinato. L’odore delle medicine si mescolava a un profumo di rose, e io mi accorsi che udivo i pensieri di mia madre.

Era il palpito sordo della sua mente, intanto che attendeva con le ossa doloranti nel corpo emaciato, tanto doloranti che era una sofferenza quasi insopportabile persino stare seduta alla finestra nella comoda poltrona di velluto, avvolta nella trapunta.

Ma che cosa pensava, al di là dell’attesa disperata? Lestat, Lestat, Lestat: questo lo sentivo. Ma più oltre…

«Fa’ che la sofferenza peggiori, perché solo quando la sofferenza è davvero terribile io voglio morire. Se la sofferenza diventasse abbastanza intensa, così che io fossi lieta di morire e non ne avessi tanta paura… Voglio che diventi terribile al punto di impedirmi di essere spaventata.»

«Monsieur.» Il dottore mi toccò il braccio. «Vostra madre non vuole che chiamiamo il prete.»

«No… non lo vorrà.»

Mia madre aveva girato la testa verso la porta. Se non fossi entrato subito, si sarebbe alzata, a costo di sofferenze inaudite, per venirmi incontro.

Mi sembrava di non potermi muovere. Tuttavia mi spinsi oltre il dottore e l’infermiera, entrai nella stanza e chiusi la porta.

Odore di sangue.

Nella pallida luce violetta della finestra, mia madre stava seduta, vestita con eleganza di taffetà blu, con una mano sulle ginocchia e l’altra sul braccio in modo che i riccioli le ricadevano sulle spalle sfuggendo ai nastri rosa. C’era un lieve tocco di belletto sulle sue guance.

Per un momento stranissimo mi apparve come quand’ero bambino. Così graziosa. La simmetria del volto non era stata cambiata dal tempo o dall’infermità, ed erano immutati anche i capelli. Fui travolto da una felicità sconvolgente, dalla calda illusione di essere di nuovo mortale, di nuovo innocente e assieme a lei; e che tutto, tutto andava nel migliore dei modi.

Non esisteva la morte né il terrore: c’eravamo soltanto io e lei in quella camera. E lei mi avrebbe abbracciato. Mi fermai.

Le ero arrivato vicino; quando alzò la testa, vidi che piangeva. L’abito parigino la fasciava troppo strettamente, e la sua pelle era così tesa e incolore sulla gola e sulle mani che non tolleravo di guardarle, e gli occhi spiccavano in un volto quasi livido. Sentivo su di lei l’odore della morte, l’odore della putrefazione.

Ma era radiosa ed era mia; era qual era sempre stata, e io glielo dissi in silenzio con tutte le mie forze, le dissi che era bellissima com’era nel mio ricordo, quando aveva ancora i vecchi abiti raffinati e si vestiva con ogni cura, e mi prendeva sulle ginocchia mentre andavamo in chiesa con la carrozza.

E in quello strano momento, quando glielo feci comprendere, quando le feci capire quanto mi era cara, mi resi conto che mi aveva udito, e mi rispondeva che mi amava e mi aveva sempre amato.

Era la risposta a un interrogativo che non avevo mai fatto. E lei ne conosceva l’importanza. I suoi occhi erano limpidi, trasparenti.

Se si rendeva conto della stranezza di ciò che accadeva, del fatto che potevamo parlarci senza parole, non lo dava a vedere. Senza dubbio, non lo comprendeva completamente. Doveva aver captato soltanto un’ondata traboccante d’amore.

«Vieni qui, in modo che possa vedere come sei ora», mi disse.

La candela era accanto al suo braccio, sul davanzale. La spensi volutamente. La vidi aggrottare la fronte, vidi contrarsi le sopracciglia bionde, gli occhi azzurri si sgranarono un poco mentre guardava me e il broccato di seta e i pizzi che avevo indossato per lei, e la spada che portavo al fianco con l’impressionante impugnatura gemmata.

«Perché non vuoi che ti veda?» mi chiese. «Sono venuta a Parigi apposta. Riaccendi la candela.» Ma la voce non aveva toni di rimprovero. Ero lì con lei, e questo era sufficiente.

M’inginocchiai davanti a lei. Stavo pensando a una conversazione quale avrebbe potuto intavolarla un mortale, stavo pensando di dirle che doveva andare in Italia con Nicki. E, prima che potessi parlare, mi disse distintamente:

«Troppo tardi, tesoro mio. Non riuscirei a portare a termine il viaggio. Sono già arrivata anche troppo lontano.»

Una fitta di sofferenza l’attanagliò, avvinghiandola alla vita; e per nasconderla abbandonò ogni espressione. Sembrava una ragazzina: e io sentii di nuovo in lei l’odore della malattia, la putrefazione dei polmoni e i grumi di sangue.

La sua mente divenne un tumulto di paura. Voleva gridare che era atterrita. Voleva implorarmi di tenerla stretta e di restar con lei sino alla fine; ma non poteva. E con mio grande stupore compresi che prevedeva un mio rifiuto, che mi giudicava troppo giovane e spensierato per capire.

Era una sofferenza atroce.

Non mi accorsi neppure di essermi allontanato: ma avevo attraversato la stanza. Tanti piccoli dettagli stupidi si impressero nella mia coscienza: le ninfe che danzavano sul soffitto dipinto, le maniglie dorate delle porte, la cera fusa in stalattiti fragili sulle candele, che avrei voluto staccare e sbriciolare tra le dita. Quel posto mi sembrava bruttissimo, eccessivo. Lei l’odiava? Rimpiangeva le stanze di pietra nuda?

Pensavo a lei come se ci fosse «domani e domani e domani…» Tornai a guardare la figura maestosa accanto alla finestra. Dietro di lei il cielo s’era fatto più buio, e una luce nuova, la luce dei lampioni e delle carrozze di passaggio e delle finestre vicine, sfiorava delicatamente il minuto triangolo rovesciato del suo viso scarno.

«Non puoi parlarmi?» chiese a voce bassa. «Non puoi dirmi com’è accaduto? Hai dato tanta felicità a tutti noi.» Parlare la faceva soffrire. «Ma tu? Tu?»

Stavo per ingannarla, credo, per inventare un’emanazione di contentezza con tutti i poteri che possedevo. Avrei detto menzogne mortali con immortale abilità. Avrei incominciato a parlare e a parlare, studiando ogni parola per renderla perfetta. Ma nel silenzio accadde qualcosa.

Non credo che rimasi immobile e silenzioso per più di un momento, ma qualcosa mutò dentro di me. Si compì una trasformazione terribile. In un istante vidi una possibilità immensa e terrificante, e in quello stesso istante, senza discutere, decisi.

Non avevo parole, non avevo un piano. E l’avrei negato se qualcuno mi avesse interrogato in quel momento. Avrei detto: «No, mai, nulla è più lontano dai miei pensieri. Che mostro credi che io sia…?» Eppure la scelta era già fatta.

Compresi una verità assoluta.

Le parole di mia madre s’erano spente; aveva di nuovo paura e soffriva. Nonostante la sofferenza, si alzò.

Vidi la trapunta scivolarle di dosso e compresi che veniva verso di me e che avrei dovuto fermarla. Ma non lo feci. Vidi le sue mani tendersi: e dopo un attimo compresi che era indietreggiata, come spinta da un vento poderoso.

Era arretrata sul tappeto ed era caduta contro il muro. Ma rimase subito immobile, come per un atto di volontà; e sul suo volto non c’era paura, sebbene il cuore le battesse forte. C’era piuttosto un’espressione di stupore e poi di calma perplessa.

Se avevo qualche pensiero in quel momento, non so quale fosse. Mi avvicinai con la stessa decisione con cui lei s’era avvicinata a me. Continuai ad avvicinarmi valutando ogni sua reazione fino a quando fummo vicini come lo eravamo stati quando era balzata indietro. Mi guardava la pelle e gli occhi; e all’improvviso tese di nuovo le mani e mi toccò il viso.

«Non sei vivo!» La percezione agghiacciante s’irradiò da lei in silenzio. «Sei trasformato in qualcosa. Ma non sei vivo.»

Dissi «no», quietamente. Non era giusto. Le trasmisi un torrente di immagini, una successione di visioni di ciò che era divenuta la mia esistenza. Frammenti della trama di Parigi notturna, la sensazione di una lama che fendeva in silenzio il mondo.

Esalò un respiro sibilante. La sofferenza serrò il pugno dentro di lei e snudò gli artigli. Lei deglutì, strinse le labbra. I suoi occhi mi guardavano e ardevano. Ora sapeva che le comunicazioni non erano sensazioni bensì pensieri.

«E come, allora?» chiese.

Senza interrogarmi su ciò che intendevo fare, le raccontai tutto fase per fase, la finestra sfondata oltre la quale ero stato trascinato dalla figura spettrale che mi aveva spiato a teatro, la torre e lo scambio del sangue. Le rivelai della cripta dove dormivo e del suo tesoro, dei miei vagabondaggi e dei miei poteri e soprattutto della natura della sete. Il sapore e la sensazione del sangue, e ciò che significava quando ogni passione si concentrava in quel desiderio, un desiderio che doveva essere soddisfatto continuamente con il nutrimento e la morte.

La sofferenza la tormentava, ma lei non la sentiva più. Mentre mi fissava, sembrava che di lei fossero rimasti soltanto gli occhi. E, sebbene non avessi intenzione di rivelare tutte queste cose, mi accorsi che l’avevo afferrata per le spalle e la facevo volgere in modo che la luce delle carrozze di passaggio per il Lungosenna mi investisse in pieno la faccia.

Senza staccare gli occhi da lei, presi il candeliere d’argento dal davanzale, lo sollevai e piegai lentamente il metallo, attorcendolo in spire e volute.

La candela cadde sul pavimento.

Mia madre roteò gli occhi. Scivolò all’indietro, lontano da me; e nel momento in cui si aggrappava con la mano sinistra alle tende del letto, il sangue le fiottò dalla bocca.

Le usciva dai polmoni in un grande colpo di tosse silenzioso. Lei scivolò in ginocchio e il sangue si sparse sul lato del letto.

Guardai l’oggetto d’argento contorto che avevo in mano, gli stupidi avvolgimenti che non significavano nulla, e lo lasciai cadere. Guardai mia madre che lottava contro lo svenimento e la sofferenza, e si asciugava la bocca sulle coperte, con i movimenti torpidi di un ubriaco che vomita, mentre si accasciava incapace di sostenersi.

Le stavo accanto. La osservavo, e la sua sofferenza momentanea non significava nulla alla luce della promessa che le stavo rivolgendo. Non erano parole, ma uno slancio silenzioso: e l’interrogativo, più immenso di quanto fosse possibile renderlo in parole: Vuoi venire con me, ora? Vuoi venire con me in questa realtà?

Non ti nascondo nulla, né la mia ignoranza né la mia paura, né il terrore che il tentativo possa fallire. Non so neppure se è qualcosa che posso dare più di una volta, non so quale sia il prezzo del dono; ma per te rischierò, e lo scopriremo insieme, quali che siano il mistero e il terrore, come io ho scoperto da solo tutto il resto.

Con tutto il suo essere, mia madre rispose: Sì.

«Sì!» urlò all’improvviso, ebbra, con una voce che forse era sempre stata sua ma che io non avevo mai udito. Chiuse gli occhi e girò la testa da sinistra a destra. «Sì!»

Mi tesi e baciai il sangue sulle sue labbra aperte. Ciò suscitò un fremito nelle mie membra; la sete si scatenò e cercò di trasformarla in un semplice essere di carne. Cinsi con le braccia la figura esile e la sollevai, la sollevai contro la finestra. I suoi capelli s’erano sciolti e il sangue le usciva di nuovo dai polmoni, ma ormai non aveva importanza.

Tutti i ricordi della mia vita con lei ci circondavano; intessevano un sudario intorno a noi e ci isolavano dal mondo, le dolci poesie e le canzoni dell’infanzia e la sensazione della sua presenza prima delle parole, quando esistevano solo il palpito della luce sul soffitto sopra ai suoi cuscini, e il suo profumo intorno a me, la sua voce che placava il mio pianto, e l’odio per lei e il bisogno di lei, e l’impressione di averla perduta dietro mille porte chiuse, e le risposte crudeli, e il terrore di lei e la sua complessità e la sua indifferenza e la sua forza indefinibile.

E da quella corrente emerse la sete che non cancellava ma riscaldava ogni idea di lei, fino a quando fu carne e sangue e sangue e madre e amante e ogni cosa sotto la pressione crudele delle mie dita e delle mie labbra, tutto ciò che avevo desiderato nella mia esistenza. Affondai in lei i denti e la sentii irrigidirsi e gemere, e sentii la mia bocca allargarsi per catturare il fiotto caldo.

Il mio cuore e la mia anima si schiantarono. Non vi era età in lei, non vi era un momento singolo. La conoscenza si offuscò e non vi fu più una madre, né un bisogno meschino né un meschino terrore. Era semplicemente chi era. Era Gabrielle.

E tutta la sua vita venne in sua difesa, gli anni di sofferenza e di solitudine, la consunzione in quelle stanze umide e cavernose dov’era condannata a esistere, i libri che erano la sua consolazione, e i figli che la divoravano e l’abbandonavano, e la sofferenza e le malattie, la sua ultima nemica che, promettendo la liberazione, s’era finta amica. Al di là delle parole e delle immagini giunsero i palpiti segreti della sua passione, la sua follia apparente e il rifiuto di disperare.

La sostenevo, la tenevo sospesa, con le braccia incrociate dietro la schiena magra, le sorreggevo con la mano la testa inerte, e gemevo così forte al palpito del sangue, che era un canto con lo stesso ritmo del suo cuore. Ma il cuore rallentava i battiti troppo rapidamente. Stava giungendo la morte; con tutta la volontà lei lottava, e in un ultimo sussulto di rifiuto la scostai da me e la tenni ferma.

Mi sentivo quasi venir meno. La sete voleva il suo cuore. La sete non era un alchimista. E io stavo lì con le labbra socchiuse e gli occhi vitrei e la tenevo lontana, lontana da me come se fossimo due esseri, uno che voleva schiacciarla, l’altro che voleva attirarla a sé.

I suoi occhi erano aperti e parevano ciechi. Per un momento fu in un luogo al di là in ogni sofferenza, dove non c’era altro che dolcezza e qualcosa che poteva essere addirittura comprensione: ma poi la sentii chiamarmi per nome.

Mi portai alla bocca il mio polso destro, lacerai la vena e gliela premetti contro le labbra. Non si mosse, mentre il sangue le scorreva sulla lingua.

«Bevi, madre», dissi freneticamente, e premetti con più forza. Ma era già iniziato un mutamento.

Le sue labbra fremettero, la sua bocca si chiuse e una sofferenza improvvisa mi invase e mi avvolse il cuore.

Si tese, e con la mano sinistra mi afferrò il polso mentre inghiottiva il primo fiotto. La sofferenza divenne più forte, sempre più forte, e quasi gridai. La vedevo come se fosse un metallo fuso che mi scorreva nelle vene e si ramificava in ogni arto. Tuttavia era soltanto lei che aspirava e suggeva e mi riprendeva il sangue che le avevo tolto. Adesso era in piedi, con la testa appena protesa contro il mio petto. Un intorpidimento s’impadronì di me, mentre l’aspirazione continuava e bruciava, e il mio cuore tuonava e nutriva la sofferenza, così come nutriva mia madre a ogni pulsazione.

Aspirava sempre più forte e più in fretta; sentii la sua stretta farsi più intensa, il suo corpo irrigidirsi. Avrei voluto allontanarla, ma non lo feci; e quando le gambe mi mancarono, fu lei a sostenermi. Vacillavo e la stanza roteava, ma lei continuò. Un silenzio immane si estese da me in tutte le direzioni: e poi, senza volerlo coscientemente, la respinsi.

Mia madre barcollò e si fermò accanto alla finestra, con le dita premute sulla bocca aperta. E, prima che io mi voltassi e mi lasciassi cadere sulla poltrona, guardai per un istante il suo volto bianco, la figura che sembrava colmarsi sotto l’involucro sottile del taffetà blu, gli occhi come due globi di cristallo che raccoglievano la luce.

In quell’istante, credo, dissi «Madre» come uno stupido mortale, e chiusi gli occhi.

2.

Ero seduto sulla poltrona. Mi sembrava d’aver dormito per un’eternità, ma non avevo dormito affatto. Ero nella casa di mio padre.

Mi guardai intorno per cercare l’attizzatoio e i miei cani, e per vedere se era rimasto un po’ di vino; e scorsi i tendaggi dorati alle finestre, e l’abside di Notre-Dame contro il cielo stellato della sera, e vidi lei. Eravamo a Parigi. E saremmo vissuti per sempre. Lei aveva qualcosa nelle mani. Un altro candeliere. Una scatoletta con esca, acciarino e pietra focaia. Stava diritta e i suoi movimenti erano svelti. Produsse una scintilla e accese le candele, a una a una. Le fiammelle si alzarono, i fiori dipinti sulle pareti salivano verso il soffitto, e sul soffitto le ninfe danzanti si mossero per un momento e quindi rimasero di nuovo immobili.

Stava davanti a me con il candeliere nella destra. Il suo viso era candido e perfettamente liscio. I cerchi scuri sotto gli occhi erano spariti, ogni difetto era scomparso, anche se non saprei dirvi quale difetto fosse. Adesso era perfetta.

E le rughe dell’età erano ridotte e stranamente approfondite; c’erano minuscole grinze del riso agli angoli degli occhi e della bocca. Le palpebre erano lievi pieghe della pelle che intensificavano la simmetrìa del viso triangolare, e le labbra erano della più dolce sfumatura di rosa. Appariva delicata come può apparirlo un diamante assediato dalla luce. Chiusi gli occhi, li riaprii e vidi che non era un’illusione come non era un’illusione il suo silenzio. Vidi che il suo corpo era cambiato ancor più profondamente. Aveva la pienezza della gioventù, e i seni che il male aveva fatto avvizzire s’incurvavano sopra il taffetà blu del corsetto, e il lieve colore rosato della carnagione era così sottile che poteva essere dovuto a un riflesso di luce. Ma i capelli erano ancora più sorprendenti perché sembravano vivi. Erano così animati di colore che parevano fremere; miliardi di ciocche minuscole che si agitavano intorno al viso bianco e alla gola.

Le ferite sul collo erano scomparse.

Ora non restava che l’ultimo atto di coraggio. Guardarla negli occhi.

Guarda con occhi di vampiro un altro essere come te, per la prima volta da quando Magnus si è gettato nel fuoco.

Dovevo aver emesso un suono perché mia madre reagì. Gabrielle, era l’unico nome con cui potevo chiamarla, ora. «Gabrielle», le dissi. Non l’avevo mai chiamata così se non nei miei pensieri più segreti, e la vidi quasi sorridere.

Mi guardai il polso. La ferita era sparita, ma la sete mi rodeva. Le mie vene mi parlavano come se io avessi parlato loro. La guardai e la vidi muovere le labbra in un piccolo gesto di me. Mi rivolse un’espressione strana e significativa, come per chiedermi: «Non capisci?»

Ma non udivo nulla. Silenzio. Solo la bellezza dei suoi occhi che mi guardavano, e forse l’amore con cui ci vedevamo: ma il silenzio si estendeva in ogni direzione e non ratificava nulla. Non potevo sondarlo. Mi chiudeva la sua mente? Glielo domandai in silenzio, ma mi sembrò che non comprendesse.

«Ora», disse, e la sua voce mi fece trasalire. Era più sommessa e risonante di prima. Per un momento fummo in Alvernia: nevicava e lei cantava per me e il suo canto echeggiava come in una grande caverna. Ma finì subito. Disse: «Vai… finisci con tutto questo, subito… ora!» Annuì, suasivamente, si avvicinò e mi prese per mano. «Guardati allo specchio», sussurrò.

Ma io sapevo. Le avevo dato più sangue di quanto ne avessi preso da lei. Ero affamato. Non mi ero neppure nutrito prima di andare a trovarla.

Ero così preso dal suono delle sillabe e dalla visione della neve che scendeva e dal ricordo del suo canto che per un momento non reagii. Guardai le dita che toccavano le mie, e vidi che la nostra carne era la stessa. Mi alzai, le presi le mani, le toccai le braccia e il viso. C’ero riuscito ed ero ancora vivo! Ora lei era con me. Aveva superato la solitudine spaventosa ed era con me, e all’improvviso non potevo pensare ad altro, se non a tenerla stretta, stringerla a me e non lasciarla mai.

La sollevai tra le braccia e girammo tutt’intorno.

Rovesciò la testa all’indietro e proruppe in una risata sempre più forte, fino a che le coprii la bocca con la mano.

«Puoi infrangere tutti i vetri della stanza con la tua voce», bisbigliai. Guardai la porta. Là fuori c’erano Nicki e Roget.

«Allora lascia che li infranga!» disse lei. La sua espressione non era scherzosa. La posai. Ci abbracciammo di nuovo, scioccamente. Non sapevo trattenermi.

Ma nell’appartamento si muovevano altri mortali; il dottore e le infermiere pensavano che fosse loro dovere entrare.

La vidi guardare la porta. Anche lei li udiva. Ma perché io non la udivo?

Si staccò da me, e girò lo sguardo da un oggetto all’altro. Riprese il candeliere e lo portò allo specchio. Si guardò in viso.

Comprendevo ciò che stava succedendo. Aveva bisogno di tempo per vedere e per misurare con la sua vista nuova. Ma dovevamo lasciare l’appartamento.

Sentivo la voce di Nicki al di là del muro. Insisteva perché il dottore bussasse.

Come potevo portarla fuori di lì, come potevo liberarmi di loro?

«No, non di là», disse lei quando mi vide guardare la porta.

Guardava il letto, gli oggetti sul tavolo. Andò a prendere i suoi gioielli sotto il cuscino. Li esaminò e li rimise nella borsa di velluto liso, e se l’agganciò alla cintura, in modo che restasse nascosta tra le pieghe della gonna.

Quei piccoli gesti avevano un’aria d’importanza. Sebbene la sua mente non mi comunicasse nulla, sapevo che non voleva prendere altro in quella camera. Si congedava dalle cose, dagli abiti che aveva portato, l’antica spazzola d’argento e il pettine, e i libri sciupati che stavano sul tavolo accanto al letto.

Bussarono alla porta.

«Perché non da qui?» chiese lei. Si voltò verso la finestra e la spalancò. La brezza agitò i tendaggi dorati, le sollevò i capelli: e quando si voltò, rabbrividii nel vederla con i capelli aggrovigliati intorno al viso, gli occhi grandi e pieni di una miriade di frammenti di colore e d’una luce quasi tragica. Non aveva paura di niente.

La strinsi e per un momento non la lasciai. Le nascosi il volto tra i capelli, e seppi pensare soltanto che eravamo insieme e che nulla ci avrebbe più separati. Non comprendevo il suo silenzio, non capivo perché non potevo udirla; ma sapevo che non era opera sua e forse pensavo che sarebbe passato. Era con me. Quello era il mondo. La morte era il mio comandante e le davo mille vittime, ma le avevo strappato mia madre dalle mani. Lo dissi ad alta voce. Dissi altre cose assurde e disperate. Eravamo esseri terribili e letali, tutti e due, e vagavamo nel Giardino Selvaggio, e io cercavo di rendere reale per lei, con le immagini, il significato del Giardino Selvaggio… ma non aveva importanza e lei non capiva. «Il Giardino Selvaggio.» Ripeté le parole con reverenza, e le sue labbra si atteggiarono a un lieve sorriso.

Era come un palpito nella mia mente. Sentii che mi baciava e bisbigliava, quasi per accompagnare i miei pensieri.

«Ma ora aiutami», disse. «Voglio vederti mentre lo fai, ora, e poi avremo tutto il tempo per stare abbracciati. Vieni.»

La sete. Bruciavo. Avevo bisogno di sangue, e lei voleva sentirne il sapore. Ne ero certo. Perché ricordavo che anch’io l’avevo voluto, quella prima notte. Pensai che la sofferenza della morte fisica, dei fluidi che l’abbandonavano, poteva essere diminuita se prima avesse potuto bere.

Bussarono di nuovo. La porta non era chiusa a chiave.

Montai sul davanzale della finestra e mi voltai, e immediatamente lei fu tra le mie braccia. Non aveva peso, ma sentivo la sua forza e la tenacia della sua stretta. Tuttavia, quando vide il vicolo sottostante, la sommità del muro e il Lungosenna, per un momento parve assalita dal dubbio.

«Mettimi le braccia al collo», dissi, «e tieniti stretta.»

Salii sulle pietre, tenendola sospesa con il viso levato verso di me, fino a quando raggiungemmo le tegole scivolose del tetto.

Poi le presi la mano e l’attirai con me, corsi sempre più svelto tra grondaie e comignoli, e balzai attraverso i vicoletti. Alla fine arrivammo dall’altra parte dell’isola. Mi aspettavo che da un momento all’altro lei gridasse o si aggrappasse a me: ma non aveva paura.

Rimase in silenzio a guardare i tetti della Riva Sinistra e il fiume affollato di migliaia di piccole barche piene di esseri lacerati; e per un momento parve semplicemente ascoltare il vento che le scioglieva i capelli. Sarei potuto cadere in uno stato di stupore mentre la guardavo e studiavo ogni aspetto della trasformazione: ma smaniavo di condurla nella città, di rivelarle tutto, di insegnarle ciò che avevo imparato. Ora non conosceva più lo sfinimento fisico, come non lo conoscevo io. E non era sconvolta dall’orrore, diversamente da quanto era accaduto a me quando Magnus s’era buttato nel fuoco.

Una carrozza passò veloce sul Lungosenna, sbandando verso il fiume; il cocchiere stava curvo e cercava di non perdere l’equilibrio. L’indicai quando si avvicinò, e strinsi la mano di mia madre.

Balzammo quando passò sotto di noi e atterrammo senza far rumore sul tettuccio di pelle. Il cocchiere non si voltò. Strinsi mia madre per sostenerla, e viaggiammo così, pronti a balzare via dal veicolo quando avessimo voluto.

Era indicibilmente eccitante fare tutte queste cose assieme a lei.

Passammo sul ponte, davanti alla cattedrale e tra la folla sul Pont Neuf. Sentii di nuovo la sua risata. Mi domandavo cosa vedevano coloro che guardavano dalle finestre in alto… due figure abbigliate con eleganza che si aggrappavano al tetto traballante della carrozza come bambini decisi a divertirsi.

La carrozza svoltò. Stavamo correndo verso St.-Germain-des-Prés, mentre la folla si disperdeva davanti a noi. Passammo oltre il lezzo intollerabile del Cimitero degli Innocenti, in mezzo a caseggiati altissimi.

Per un secondo sentii il barbaglio della presenza; ma passò così in fretta che dubitai di me stesso. Mi voltai a guardare e non la colsi più. E con straordinaria vivezza compresi che io e Gabrielle avremmo parlato della presenza, che avremmo parlato di tutto, avremmo affrontato tutto insieme. Poteva essere a suo modo sconvolgente come la notte che Magnus mi aveva trasformato; e questa notte era appena incominciata.

La zona era perfetta, adesso. Le presi di nuovo la mano, la tirai giù dalla carrozza, in strada.

Gabrielle fissò stordita le ruote che giravano: ma sparirono subito in lontananza. Non sembrava scarmigliata, ma piuttosto impassibile, una donna strappata al tempo e al luogo, senza catene, libera di volare.

Entrammo in un vicoletto e corremmo abbracciati; ogni tanto abbassavo lo sguardo e la vedevo scrutare i muri, le dozzine di finestre chiuse che lasciavano filtrare un po’ di luce.

Sapevo che cosa vedeva. Conoscevo i suoni che le giungevano. Tuttavia non udivo nessuna comunicazione da parte sua, e mi spaventava un po’ pensare che forse mi escludeva volutamente.

Ma si era fermata. Era colpita dalla prima convulsione della morte. Glielo vedevo in faccia.

La rassicurai e le rammentai in fretta la visione che prima le avevo comunicato.

«È una sofferenza breve, e non è nulla in confronto a ciò che hai conosciuto. Passerà in poche ore, e forse anche in meno tempo, se berremo subito.»

Annuì, più impaziente che spaventata.

Giungemmo in una piazzetta. Sotto il portone d’una vecchia casa c’era un giovane che sembrava attendere qualcosa, con il colletto del mantello grigio sollevato per ripararsi la faccia.

Gabrielle era abbastanza forte per affrontarlo? Era forte come me? Era venuto il momento di scoprirlo.

«Se la sete non ti trascina a farlo, allora è troppo presto», le dissi.

La guardai e mi sentii agghiacciare. La sua espressione concentrata era quasi del tutto umana, tanto era intenta e fissa; e gli occhi erano ombrati dallo stesso senso di tragedia che avevo scorto poco prima. Non le sfuggiva nulla. Ma, quando si mosse verso l’uomo, non era affatto umana. Era diventata una predatrice allo stato puro, come può esserlo soltanto una belva: e tuttavia era una donna che si avviava a passo lento verso un uomo… una signora, anzi, sperduta senza mantello, senza cappello e senza compagnia, che si avvicinava a un gentiluomo per chiedere il suo aiuto. Era tutto questo.

Era terribile vedere il modo in cui si muoveva sul selciato come se non lo toccasse, e il modo in cui tutto, persino le ciocche dei capelli agitati dal vento, sembrava obbedirle. Avrebbe potuto persino attraversare il muro con quel passo risoluto.

Mi ritrassi nell’ombra.

L’uomo si scosse, si voltò verso di lei facendo scricchiolare leggermente il tacco dello stivale sui ciottoli, e lei si sollevò in punta di piedi come per parlargli all’orecchio. Credo che esitasse per un momento. Forse era un po’ inorridita. Se lo era, la sete non aveva avuto ancora il tempo di diventare irresistibile. Ma se dubitò, non fu per più di quell’istante. Lo stava prendendo, e l’uomo era indifeso e impotente, e io ero troppo affascinato per fare qualcosa di diverso che osservare.

Ma inaspettatamente rammentai che non l’avevo avvertita a proposito del cuore. Come potevo averlo dimenticato? Corsi verso di lei; ma lei l’aveva già lasciato e l’uomo s’era accasciato contro il muro con la testa reclinata, il cappello a terra. Era morto.

Gabrielle lo guardava, e io vedevo il sangue che operava in lei, la riscaldava e rendeva più intenso il suo colorito, il rosso delle sue labbra. Gli occhi erano un lampo violetto quando mi guardò: avevano quasi esattamente il colore che aveva avuto il cielo quando ero entrato nella sua camera. La osservai in silenzio mentre guardava la vittima con una bizzarra espressione di stupore, come se non accettasse completamente ciò che vedeva. I suoi capelli erano di nuovo aggrovigliati, e io li scostai.

Si abbandonò fra le mie braccia. La guidai lontano dalla vittima. Si voltò indietro un paio di volte, quindi guardò fissamente davanti a sé.

«Basta, per questa notte. Dobbiamo andare alla torre», dissi. Volevo mostrarle il tesoro e stare con lei in quel luogo sicuro, e abbracciarla e confortarla, se avesse incominciato a star male. Era di nuovo in preda agli spasmi della morte. Nella torre avrebbe potuto riposare accanto al fuoco.

«No, non voglio andare subito», disse. «La sofferenza non continuerà a lungo, me l’hai assicurato. Voglio che passi, e voglio stare qui.» Mi guardò e sorrise. «Ero venuta a Parigi per morire, no?» chiese con un sussurro.

Tutto la distraeva: il morto avvolto nel mantello grigio, il cielo che si rispecchiava in una pozzanghera, un gatto che correva su un muro. Il sangue era ardente dentro di lei.

Le presi la mano e l’esortai a seguirmi. «Devo bere», dissi.

«Sì, lo vedo», mormorò Gabrieìle. «Avresti dovuto prenderlo tu. Avrei pensato… Ma sei sempre un gentiluomo.»

«Un gentiluomo affamato», dissi con un sorriso. «Ma non esageriamo al punto d’inventare un’etichetta per i mostri.» Risi. Avrei voluto baciarla, ma all’improvviso fui distratto. Le strinsi la mano troppo forte.

Lontano, nella direzione del Cimitero degli Innocenti, sentii la presenza, più forte che mai.

Gabrielle rimase immobile come me, inclinò adagio la testa e si scostò i capelli dall’orecchio.

«Lo senti?» chiesi.

Mi guardò. «È un altro» Socchiuse gli occhi e guardò di nuovo nella direzione da cui giungevano le emanazioni.

«Fuorilegge!» disse a voce alta.

«Cosa?» Fuorilegge, fuorilegge, fuorilegge. Fui assalito da un’ondata di vertigine, come il ricordo di un sogno. Frammenti di un sogno. Ma non riuscivo a pensare. Ero rimasto menomato nel trasmutare lei. Dovevo bere.

«Ci ha chiamati fuorilegge», disse. «Non l’hai sentito?» Ascoltò di nuovo. Ma la presenza era svanita e nessuno dei due la udiva più. E non potevo essere certo di aver percepito quella comunicazione, fuorilegge, ma mi sembrava di sì.

«Non badargli, qualunque cosa sia», dissi. «Non si avvicina mai più di così.» Ma, mentre parlavo, sapevo che questa volta era stato più virulento. Volevo allontanarmi dal Cimitero degli Innocenti. «Vive nei camposanti», mormorai. «Forse non può vivere altrove… a lungo.»

Ma, prima che avessi finito di parlare, lo sentii di nuovo. Pareva espandersi e irradiarsi la malevolenza più forte che avessi mai captato.

«Ride!» mormorò Gabrielle.

La scrutai. Senza dubbio l’udiva più chiaramente di me.

«Sfidalo!» dissi. «Dagli del vigliacco! Digli di venire fuori!»

Gabrielle mi guardò, sorpresa.

«Lo vuoi davvero?» mi chiese sottovoce. Tremava leggermente; la sostenni. Si passò una mano sullo stomaco, come se gli spasmi la riassalissero.

«Allora non adesso», dissi. «Non è il momento. E lo sentiremo ancora, quando l’avremo dimenticato.»

«È andato», disse Gabrielle. «Ma ci odia…»

«Allontaniamoci», la esortai in tono sprezzante. La cinsi con un braccio e mi avviai.

Non le dissi che cosa pensavo, e che cosa mi opprimeva assai più della presenza e dei suoi trucchi abituali. Se poteva udire la presenza come me o addirittura meglio, allora aveva tutti i miei stessi poteri, inclusa la capacità di emettere e di captare immagini e pensieri. Eppure non potevamo più udirci tra noi!

3.

Trovai una vittima non appena avemmo attraversato il fiume; e nell’istante in cui scorsi l’uomo sentii, ancora più intensamente, che tutto ciò che avevo fatto da solo ora l’avrei fatto con Gabrielle. Avrebbe assistito alla scena, avrebbe imparato. L’idea di quell’intimità mi fece affluire il sangue al volto.

E mentre attiravo il mio uomo fuori dalla taverna e lo sfidavo e lo facevo infuriare e poi lo uccidevo, mi rendevo conto che mi mettevo in mostra per lei e rendevo quella scena un po’ più crudele e giocosa. E, quando venne il momento dell’uccisione, ebbe un’intensità che poi mi lasciò esausto.

A lei piacque. Osservava tutto come se potesse suggere la visione allo stesso modo in cui suggeva il sangue. Ci riaccostammo, la presi fra le braccia e sentii il suo calore, e lei sentì il mio calore. Il sangue mi inondava il cervello. E ci tenevamo abbracciati, e persino l’involucro leggero dei nostri indumenti sembrava estraneo. Eravamo due statue ardenti nell’oscurità.

Poi la notte perse le sue dimensioni normali. Anzi, rimane una delle notti più lunghe che abbia conosciuto nella mia vita immortale.

Fu interminabile e sconfinata e travolgente; e c’erano momenti in cui avrei desiderato una difesa contro i suoi piaceri e le sue sorprese… e non l’avevo.

E sebbene pronunciassi di continuo il suo nome perché diventasse naturale, per me non era ancora Gabrielle. Era semplicemente lei, quella di cui avevo sentito il bisogno con tutto il mio essere, per tutta la vita. La sola donna che avessi amata. La sua morte non durò a lungo.

Cercammo una cantina vuota e vi restammo fino a che non fu finita. Poi la tenni abbracciata e le parlai. Le dissi ancora una volta tutto ciò che mi era accaduto, e lo dissi a parole.

Le dissi tutto della torre. Le riferii tutto ciò che aveva detto Magnus. Spiegai tutte le apparizioni della presenza, e come mi ero abituato e come la disprezzavo e non volevo inseguirla. Cercai più volte di trasmettere le immagini, ma era inutile. Non dissi nulla in proposito. Neppure lei disse nulla. Mi ascoltò molto attentamente.

Le parlai dei sospetti di Nicki, i sospetti che non le aveva confidato. E spiegai che adesso temevo per lui, più che mai. Un’altra finestra aperta, un’altra stanza vuota; e questa volta i testimoni per confermare la stranezza dell’avvenimento.

Ma non aveva importanza: avrei raccontato a Roget una storia che avrebbe reso tutto plausibile. Avrei trovato un modo per mettere le cose a posto con Nicki, per spezzare la catena dei sospetti che lo legava a me.

Gabrielle sembrava oscuramente affascinata da tutto questo; ma per lei non aveva molta importanza. Ciò che aveva importanza era quanto l’attendeva.

E quando la sua morte si fu conclusa, divenne inarrestabile. Non c’era muro che non potesse salire, non c’era porta che non volesse varcare, non c’era tetto troppo ripido.

Sembrava non credesse che sarebbe vissuta in eterno, e pensasse invece di aver avuto in dono quell’unica notte di vitalità soprannaturale e di dover conoscere e compiere tutto prima che la morte venisse per portarla via, all’alba.

Molte volte cercai di convincerla a venire alla torre. Mentre le ore passavano, uno sfinimento spirituale mi sopraffece. Sentivo il bisogno di stare in pace, di riflettere sull’accaduto. Avrei aperto gli occhi e avrei visto per un istante soltanto la tenebra. Ma lei voleva solo abbandonarsi a esperimenti e avventure.

Propose di entrare nelle dimore dei mortali per prendere gli abiti che le erano necessari. Rise quando le dissi che i miei li avevo sempre acquistati correttamente.

«Possiamo sentire se una casa è vuota», disse avviandosi a passo svelto per le strade, con gli occhi levati verso le finestre degli edifici bui. «Possiamo sentire se i servitori dormono.»

Era logico, anche se io non l’avevo mai fatto. La seguii per le scale secondarie, lungo i corridoi, sorpreso della facilità di tutto e affascinato dai dettagli delle stanze in cui vivevano i mortali. Scoprii che mi piaceva toccare gli oggetti personali: ventagli, tabacchiere, il giornale che il padrone di casa aveva letto, i suoi stivali accanto al camino. Era divertente come spiare dalle finestre.

Ma Gabrielle aveva uno scopo preciso. Nello spogliatoio di una grande casa di St.-Germain trovò una quantità di vestiti lussuosi, adatti alla sua figura più tornita. L’aiutai a togliersi il vecchio abito di taffetà e indossarne uno di velluto rosa, a raccogliersi i capelli in riccioli ordinati sotto un cappello ornato di piume di struzzo. Fui scosso ancora una volta dalla vista di lei, e dalla sensazione bizzarra che mi dava aggirarmi con lei in quella casa piena di mobili e di odori mortali. Lei aveva preso una quantità di oggetti dal tavolo da toeletta. Una boccetta di profumo, un paio di forbicine d’oro. Si guardava allo specchio.

Mi accostai per baciarla di nuovo e non me lo impedì. Eravamo due innamorati che si baciavano: era l’immagine che offrivamo, due innamorati dal volto bianco, mentre scendevamo correndo la scala di servizio e uscivamo per le strade.

Entrammo e uscimmo dall’Opera e dalla Comédie prima che chiudessero, e poi andammo al ballo al Palais Royal. La entusiasmava il pensiero che i mortali ci vedevano ma non ci vedevano, erano attratti da noi e si lasciavano ingannare completamente.

Poi udimmo la presenza molto nettamente, mentre esploravamo le chiese; quindi svanì di nuovo. Salimmo sui campanili per osservare il nostro regno, quindi per un po’ visitammo i caffè affollati, per sentire i mortali intorno a noi e scambiarci occhiate segrete e ridere sommessamente, tète-à-tète.

Gabrielle piombava in stati onirici mentre guardava il vapore che saliva dalla tazza del caffè, il fumo del tabacco che aleggiava intorno alle lampade.

Ma amava più di ogni altra cosa le vie buie e deserte e l’aria pura. Voleva salire sugli alberi e sui tetti. Si meravigliava perché io non mi spostavo sempre attraverso la città passando dai tetti, o viaggiando clandestinamente sulle carrozze come avevamo fatto insieme.

Un po’ dopo mezzanotte arrivammo nel mercato deserto, tenendoci per mano.

Avevamo appena udito di nuovo la presenza, ma nessuno dei due riusciva a discernere una disposizione, com’era avvenuto prima. E questo mi sconcertava.

Ma intorno a noi tutto la sorprendeva ancora… i rifiuti, i gatti che inseguivano i topi, il silenzio bizzarro, il fatto che gli angoli più bui della metropoli non rappresentassero un pericolo per noi. Lo disse. Forse era questo che l’incantava più di ogni altra cosa… il pensiero che potevamo passare davanti ai covi dei ladri senza che ci sentissero, che potevamo battere facilmente chiunque fosse tanto pazzo da disturbarci, che eravamo nel contempo visibili e invisibili, concreti e assolutamente inspiegabili.

Non le mettevo fretta e non le facevo domande. Mi lasciavo guidare da lei, contento, e a volte mi perdevo nei miei pensieri, interrogandomi su quella strana contentezza.

E quando un bel giovane snello passò a cavallo tra i banchi bui, lo guardai come se fosse un’apparizione giunta dalla terra dei vivi alla terra dei morti. Mi ricordava Nicolas perché aveva i capelli e gli occhi scuri, e il viso aveva qualcosa d’innocente e nel contempo di cupo. Non avrebbe dovuto avventurarsi da solo nel mercato. Era più giovane di Nicki e molto sciocco.

Ma non compresi fino a che punto fosse sciocco sino a che Gabrielle avanzò come un grande felino roseo e, quasi senza far rumore, lo strappò dalla sella.

Ero sconvolto. L’innocenza delle sue vittime non la turbava. Non combatteva le mie battaglie morali. Del resto, non le combattevo più neppure io, quindi perché dovevo giudicarla? Tuttavia, la facilità disinvolta con cui uccise il giovane, spezzandogli elegantemente il collo quando i pochi sorsi di sangue che gli aveva sottratto non bastarono a dargli la morte, mi fece adirare anche se era stato uno spettacolo eccitante.

Era più fredda di me. Era più abile di me, pensavo. Magnus mi aveva detto: «Non mostrare misericordia». Ma aveva forse inteso dire che dovevamo uccidere quando non era necessario?

In un istante compresi perché l’aveva fatto. Si strappò la veste di velluto rosa e indossò gli abiti del giovane. Lo aveva scelto perché i suoi panni le andavano bene.

E per descriverlo più esattamente… quando mise gli indumenti, divenne quel ragazzo.

Mise le calze di seta color panna e le brache scarlatte, la camicia di pizzi e il panciotto giallo e poi la giacca scarlatta, e prese persino il nastro scarlatto dai capelli del giovane.

Qualcosa si ribellò dentro di me… lei, audace nell’abbigliamento nuovo, con i capelli ancora sciolti sulle spalle, simili più alla criniera di un leone che alla massa splendida di una chioma femminile com’era stata pochi istanti prima. Avrei voluto aggredirla. Chiusi gli occhi.

Quando tornai a guardarla, la testa mi girava per tutto ciò che avevamo visto e fatto insieme. Non sopportavo d’essere tanto vicino al ragazzo morto.

Si legò i capelli biondi con il nastro scarlatto e li lasciò ricadere sulle spalle. Stese l’abito rosa sul corpo del ragazzo per coprirlo, si agganciò la spada alla cintura, la sguainò e la rinfoderò e prese il roquelaure color crema.

«Andiamo, tesoro», disse, e mi baciò.

Non riuscii a muovermi. Volevo tornare alla torre e starle vicino. Mi guardò e mi strinse la mano per esortarmi. E quasi subito corse via, precedendomi.

Doveva sentire la libertà delle membra, e mi ritrovai a inseguirla e a sforzarmi per raggiungerla.

Non era mai accaduto tra me e un mortale, naturalmente. Sembrava che volasse. E vederla sfrecciare tra i chioschi chiusi e i mucchi d’immondizia mi faceva quasi perdere l’equilibrio. Mi fermai di nuovo.

Tornò indietro e mi baciò. «Ma non c’è una vera ragione perché continui a vestirmi in quel modo, vero?» chiese. Sembrava che parlasse a un bambino.

«No, naturalmente», dissi. Forse era una fortuna che non potesse leggere i miei pensieri. Non riuscivo a smettere di guardarle le gambe, così perfette nelle calze color panna. E la giacca, così attillata intorno alla vita snella. Il suo viso era come una fiamma.

Ricordate che a quei tempi non si vedevano mai così le gambe di una donna, la seta delle brache tesa sul ventre e sulle cosce.

Ma adesso non era veramente una donna, no? Come io non ero un uomo. Per un secondo di silenzio, l’orrore mi colpì.

«Vieni, voglio passare di nuovo per i tetti», mi disse. «Voglio andare al Boulevard du Temple. Voglio vedere il teatro, quello che hai acquistato e poi hai chiuso. Me lo mostrerai?» Mi stava osservando, mentre lo chiedeva.

«Naturalmente», risposi. «Perché no?»


Ci rimanevano due ore di quella notte interminabile quando finalmente tornammo all’Ile St.-Louis e ci fermammo sul Lungosenna, al chiaro di luna. Più avanti, sulla strada, vedevo la mia cavalla legata dove l’avevo lasciata. Forse nessuno l’aveva notata nella confusione che doveva essere seguita alla nostra fuga.

Ascoltammo attenti, per captare qualche segnale della presenza di Nicki o di Roget; la casa sembrava buia e deserta.

«Ma sono vicini», mormorò Gabrielle. «Credo che siano un po’ più avanti…»

«L’appartamento di Nicki», dissi io. «E dall’appartamento di Nicki qualcuno potrebbe tener d’occhio la cavalla, forse un servitore appostato per spiarci, nel caso che tornassimo.»

«È meglio lasciare la cavalla e rubarne un’altra», disse lei.

«No, è mia», risposi. Ma poi sentii che mi stringeva più forte la mano.

Era di nuovo il nostro vecchio amico, la presenza. Questa volta si muoveva lungo la Senna, dall’altra parte dell’isola e in direzione della Riva Sinistra.

«È sparito», disse Gabrielle. «Andiamo. Possiamo rubare un altro cavallo.»

«Aspetta: cercherò di farla venire da me. Di spezzare la briglia.»

«Puoi riuscirci?»

«Vedremo.» Concentrai tutta la mia forza di volontà sulla cavalla, le ordinai silenziosamente di indietreggiare, di sciogliersi e di venire da me.

In un secondo la cavalla incominciò a scalpitare e a tirare la briglia. Poi s’impennò e la ruppe.

Corse verso di noi. Le balzammo subito in groppa. Gabrielle montò per prima, e io dietro di lei. Strinsi ciò che restava della briglia e lanciai la cavalla.

Mentre attraversavamo il ponte, sentii qualcosa dietro di noi, un’agitazione, il tumulto di numerose menti mortali.

Ma eravamo perduti nella nera camera echeggiante dell’Ile de la Cité.


Quando arrivammo alla torre, accesi la torcia resinosa e condussi Gabrielle con me nella segreta. Non avevo tempo di mostrarle la camera superiore.

Aveva gli occhi vitrei e si guardava intorno stordita mentre scendevamo la scala a chiocciola. Gli indumenti scarlatti splendevano contro le pietre scure. Si ritrasse, leggermente, nel sentire l’umidità.

Il lezzo che saliva dalle celle la turbò; ma le dissi gentilmente che non ci riguardava. E appena fummo entrambi nell’immensa cripta, l’odore fu stroncato dalla pesante porta di ferro borchiata.

La luce della torcia rivelò le basse arcate del soffitto, i tre grandi sarcofagi con le immagini scolpite.

Non sembrava spaventata. Le dissi che doveva provare a vedere se riusciva da sola a sollevare il coperchio di quello che intendeva scegliere. Forse avrei dovuto farlo io.

Studiò le tre figure. E dopo un momento di riflessione scelse, non già il sarcofago della donna, ma quello con il cavaliere in armatura. Lentamente, spostò il coperchio di pietra per poter guardare all’interno.

Non era forte come me, ma lo era quanto bastava.

«Non aver paura», dissi.

«No, di questo non dovrai mai preoccuparti», mi rispose. La sua voce aveva un suono deliziosamente fragile, un po’ triste. Sembrava assorta in un sogno, mentre passava le mani sulle pietre.

«A quest’ora», disse, «tua madre sarebbe già stata preparata. E la stanza sarebbe piena di odori orrendi e del fumo di centinaia di candele. Pensa quant’è umiliante la morte. Donne sconosciute le avrebbero tolto gli indumenti, l’avrebbero lavata e rivestita… l’avrebbero vista emaciata e indifesa nell’ultimo sonno. E quelli nei corridoi avrebbero parlato sussurrando della loro buona salute, avrebbero detto che non c’è mai stata una malattia nella loro famiglia, no, che non c’è mai stata la consunzione. ‘Povera marchesa’, avrebbero detto. E si sarebbero chiesti se aveva un po’ di denaro, se l’aveva lasciato ai figli. E la vecchia, venuta a portar via le lenzuola sporche, avrebbe rubato un anello dal dito della morta.»

Annuii. E invece stiamo in questa cripta, avrei voluto dire, e ci prepariamo a stenderci in letti di pietra, e soltanto i ratti ci tengono compagnia. Ma è infinitamente meglio così, no? Ha un suo splendore tenebroso, aggirarsi per sempre nel territorio dell’incubo.

Sembrava debole e fredda. Con un gesto assonnato, prese qualcosa dalla tasca.

Erano le forbicette d’oro che aveva sottratto dalla toeletta della dama, in Faubourg St.-Germain. Luccicavano come un gingillo alla luce della torcia.

«No, madre», dissi. La mia voce mi fece trasalire. Echeggiava troppo acuta sotto il soffitto a volta. Le figure degli altri sarcofagi sembravano testimoni spietati. La sofferenza che provavo nel cuore mi stordiva.

Un suono maligno, lo scatto delle lame. I suoi capelli caddero sul pavimento in lunghe ciocche.

«Ooh, madre.»

Abbassò lo sguardo sui capelli, li scostò con la punta dello stivale. Poi mi guardò. Adesso era senza dubbio un uomo molto giovane, con i capelli corti che si arricciavano contro le guance. Ma i suoi occhi si chiudevano. Tese le mani verso di me e lasciò cadere le forbici.

«Voglio riposare», mormorò.

«È solo il sole che sorge», dissi per rassicurarla. Si indeboliva più rapidamente di me. Si scostò e si avviò verso il sarcofago. La sollevai, e chiuse gli occhi. Spinsi ancora più a destra il coperchio e l’adagiai all’interno, lasciando che le sue membra flessuose si atteggiassero con grazia naturale.

Il viso si era già spianato nel sonno, e i capelli lo incorniciavano in una pettinatura da ragazzo adolescente.

Sembrava morta, sembrava che la magia si fosse annullata.

Continuai a guardarla.

Affondai i denti nella punta della lingua fino a che sentii il dolore e il sapore del sangue caldo. Poi, mi chinai e lasciai che le gocce lucenti di sangue le ricadessero sulle labbra. Gli occhi si aprirono, mi fissarono, azzurro-viola e scintillanti. Il sangue fluì nella bocca socchiusa. Lentamente alzò la testa verso il mio bacio. Le insinuai la lingua tra le labbra fredde. Ma il sangue era caldo e scorreva tra di noi.

«Buonanotte, mia adorata», le dissi. «Mio angelo tenebroso, Gabrielle.»

Si riabbandonò nell’immobilità non appena la lasciai. Richiusi su di lei il coperchio di pietra.

4.

Non mi piaceva svegliarmi nella nera cripta sotterranea, non mi piaceva il freddo nell’aria e il debole lezzo che saliva dalla prigione sottostante e la sensazione che lì giacessero tutte le cose morte.

La paura mi assalì. E se Gabrielle non si fosse destata? Se i suoi occhi non si fossero riaperti? Cosa sapevo di ciò che avevo fatto?

Sembrava tuttavia un gesto arrogante e osceno sollevare di nuovo il coperchio del sarcofago e spiarla nel sonno come avevo fatto la notte precedente. Fui assalito da una vergogna mortale. A casa non avrei mai osato aprire la sua porta senza bussare, non avrei mai osato scostare i tendaggi del suo letto.

Si sarebbe destata. Doveva. Ed era meglio che sollevasse da sola il coperchio di pietra e sapesse alzarsi, era meglio che la sete la spingesse a farlo nel momento opportuno, com’era accaduto con me.

Le accesi la torcia appesa al muro e, per un momento, uscii a respirare l’aria pura. Poi, lasciando aperte le porte, salii nella cella di Magnus per osservare il crepuscolo che svaniva dal cielo.

L’avrei sentita, pensai, quando si fosse svegliata.

Trascorse un’ora, credo. La luce azzurra sbiadì, le stelle spuntarono e la lontana città di Parigi accese la sua miriade di fari minuscoli. Lasciai il davanzale dove mi ero seduto contro le grate di ferro, andai alla cassapanca e cominciai a scegliere i gioielli per lei.

Amava ancora i gioielli. Quando aveva lasciato la sua stanza, aveva portato con sé le sue vecchie gioie. Accesi le candele per vedere meglio, anche se non ne avevo bisogno. L’illuminazione era bellissima: bellissima sulle gemme. Trovai alcune cose deliziose e delicate, spille tempestate di perle che poteva portare sul bavero della giacca e anelli che sarebbero parsi mascolini sulle sue mani minute, se era questo che voleva.

Ogni tanto stavo in ascolto. E il gelo mi attanagliava il cuore. Se non si fosse svegliata? Se avesse potuto vivere solo quell’unica notte? L’orrore palpitava in me. E il mare di gioielli nella cassapanca, la luce delle candele che danzava sulle gemme sfaccettate, le montature d’oro… non significavano nulla.

Ma non la sentivo. Sentivo il vento là fuori, lo stormire degli alberi, il fischiettare lontano del mozzo di stalla che si muoveva nel fienile, il nitrito dei miei cavalli.

In distanza, suonò la campana della chiesa di un villaggio.

E all’improvviso ebbi la sensazione che qualcuno mi osservasse. Era così strana che fui preso dal panico. Mi voltai e per poco non caddi nella cassapanca, fissando l’imboccatura del tunnel segreto. Non c’era nessuno.

In quel piccolo sacrario segreto c’era soltanto la luce delle candele, che brillava sulle pietre preziose, e le sembianze torve di Magnus sul sarcofago.

Guardai di fronte a me, la finestra chiusa dalle sbarre.

E vidi che lei mi guardava.

Sembrava che aleggiasse nell’aria, aggrappata alla grata con entrambe le mani. E sorrideva.

Trattenni a stento un grido. Indietreggiai e cominciai a sudare. Ero imbarazzato perché mi ero lasciato sorprendere così, alla sprovvista.

Ma lei restò immobile e continuò a sorridere e a poco a poco la sua espressione passò dalla serenità alla malizia. La luce delle candele rendeva troppo brillanti i suoi occhi.

«Non è molto cortese spaventare così gli altri immortali», le dissi.

Rise, più libera e disinvolta di quanto fosse stata da viva.

Il sollievo mi inondò quando si mosse. Mi accorsi di arrossire.

«Come sei arrivata lì?» chiesi. Andai alla finestra, protesi le mani fra le sbarre e le strinsi i polsi.

La sua bocca era tutta dolcezza e ilarità. I capelli erano una gran criniera splendente intorno al viso. «Ho scalato il muro, naturalmente», disse. «Come pensavi che ci fossi arrivata?»

«Bene, ora scendi. Non puoi passare attraverso le sbarre. Ti verrò incontro.»

«Hai ragione», disse. «Sono stata a tutte le finestre. Aspettami di sopra, sugli spalti. Faremo prima.»

Cominciò a salire, agganciando gli stivali alle sbarre. E sparì.

Era esuberante quanto la notte precedente, mentre scendevamo insieme le scale.

«Perché indugiamo qui?» chiese, «Perché non andiamo subito a Parigi?»

C’era qualcosa che non andava in lei, per quanto fosse incantevole, qualcosa che non andava… che cos’era?

Ora non voleva baci, e non voleva neppure parlare. E questo mi feriva un po’.

«Voglio mostrarti la camera interna», dissi, «E i gioielli.»

«I gioielli?» chiese.

Dalla finestra non li aveva visti. Il coperchio della cassapanca glieli aveva nascosti. Mi precedette nella stanza dove s’era bruciato Magnus, e passò strisciando nel tunnel.

Appena vide la cassapanca, rimase sconvolta.

Si ributtò i capelli sulle spalle con un moto d’impazienza, e si chinò a studiare le spille, gli anelli, i piccoli ornamenti così simili ai gioielli ereditati che aveva dovuto vendere a uno a uno tanto tempo prima.

«Oh, doveva averli raccolti per secoli», disse. «E che oggetti squisiti. Sapeva scegliere bene ciò che prendeva, no? Doveva essere una creatura eccezionale.»

Si scostò di nuovo i capelli dalla fronte con un gesto quasi irritato. Sembravano più chiari, più abbondanti, più luminosi. Splendidi.

«Le perle, guardale», dissi. «E gli anelli.» Mostrai quelli che avevo già scelto per lei. Le presi la mano e glieli infilai. Le dita si mossero come se avessero una vita propria e potessero provare gioia. Rise di nuovo.

«Ah, ma noi siamo demoni magnifici, no?»

«I Cacciatori del Giardino Selvaggio», dissi,

«Allora andiamo a Parigi», disse Gabrielle. Un lieve tocco di sofferenza sul suo volto: la sete. Si passò la lingua sulle labbra. Le apparivo affascinante almeno la metà di quanto lei appariva affascinante a me?

Si scostò i capelli dalla fronte, e i suoi occhi si oscurarono per l’intensità delle parole.

«Volevo nutrirmi in fretta, stanotte», disse, «e poi avventurarmi fuori dalla città, nei boschi. Andare dove non vi sono uomini né donne. Andare dove ci sono soltanto il vento e gli alberi, e le stelle lassù. Benedetto il silenzio.»

Tornò alla finestra. Aveva la schiena eretta, le mani abbandonate lungo i fianchi e scintillanti di anelli. E, poiché uscivano dai polsi vistosi di una giacca maschile, le sue mani apparivano ancora più esili e delicate. Doveva guardare le nubi alte e buie, le stelle che ardevano tra gli strati purpurei della nebbia serotina.

«Devo andare da Roget», dissi sottovoce. «Devo provvedere a Nicki, raccontare qualche menzogna su ciò che è accaduto a te.»

Gabrielle si voltò. D’un tratto il suo viso mi apparve minuto e freddo, come era avvenuto a casa quando mi disapprovava. Ma in realtà non avrebbe mai più avuto quell’aspetto.

«Perché dirgli qualcosa di me?» chiese. «Perché preoccuparti ancora per loro?»

Quelle parole mi turbarono. Ma non erano una sorpresa. Forse me le aspettavo. Forse avevo sempre intuito in lei quegli interrogativi inespressi.

Volevo dirle: Nicki era seduto accanto al tuo letto quando stavi per morire, e questo non significa nulla? Ma sembrava così sentimentale e degno di un mortale, e così sciocco.

Ma non era sciocco.

«Non intendo giudicarti», mi disse. Incrociò le braccia e si appoggiò alla finestra. «Non capisco, ecco. Perché ci scrivevi? Perché ci mandavi tutti quei doni? Perché non hai preso questo fuoco bianco dalla luna e non sei andato dove volevi?»

«Ma dove sarei dovuto andare?» ribattei. «Lontano da tutti coloro che avevo conosciuto e amato? Non volevo smettere di pensare a te e a Nicki, e persino a mio padre e ai miei fratelli. Ho fatto ciò che volevo», dissi.

«Allora la coscienza non c’entrava?»

«Se segui la tua coscienza, fai ciò che vuoi», dissi. «Ma è stato molto più semplice. Volevo che avessi la ricchezza che ti ho dato. Volevo che fossi… felice.»

Gabrielle riflette a lungo. «Avresti voluto che ti dimenticassi?» chiesi. La mia voce era sprezzante, collerica.

Non mi rispose immediatamente. «No, certo», disse. «E se la situazione fosse stata l’inverso, anch’io non ti avrei mai dimenticato, ne sono sicura. Ma gli altri? Non m’importa nulla di loro. Non scambierò con loro una sola parola, non li rivedrò mai più.»

Annuii. Ma mi addolorava quel che stava dicendo. Mi faceva paura.

«Non riesco a superare l’idea di essere morta», mi disse. «Di essere completamente tagliata fuori da tutti gli esseri viventi. Posso sentire, posso vedere, posso percepire. Posso bere il sangue. Ma sono come qualcosa che non può essere visto e che non può influire sulla realtà.»

«Non è esatto», dissi. «E per quanto pensi che ti sosterrà percepire e vedere e toccare e assaporare, se non c’è amore? Se non c’è nessuno con te?»

La stessa espressione priva di comprensione.

«Oh, perché mi affanno a dirti tutto questo?» esclamai. «Sono con te. Siamo insieme. Non sai cosa provavo quando ero solo. Non puoi immaginarlo.»

«Io ti turbo, e non lo vorrei», disse Gabrielle. «Di’ loro ciò che ti piace. Forse riuscirai a inventare una versione accettabile. Non lo so. Se vuoi che venga con te, verrò. Farò ciò che mi chiedi. Ma ho un’altra domanda da rivolgerti.» Abbassò la voce. «Non intenderai spartire questo potere con loro!»

«No, mai.» Scossi la testa come per ribattere che era un pensiero incredibile. Guardavo i gioielli, pensavo ai doni che avevo mandato, alla casa per le bambole. Avevo mandato loro una casa per le bambole. Pensavo agli attori di Renaud, al sicuro oltre la Manica.

«Neppure con Nicolas?»

«No, Dio, no!» la guardai.

Annuì leggermente come se approvasse la risposta. E si scostò di nuovo i capelli con un gesto distratto.

«Perché neppure con Nicolas?» chiese.

Volevo che quel colloquio smettesse.

«Perché è giovane», dissi. «E ha tutta la vita davanti a sé. Non è sull’orlo della morte.» Non ero soltanto turbato: ero infelice. «Con il tempo si dimenticherà di noi…» Avrei voluto dire: «Della ‘nostra conversazione’».

«Potrebbe morire anche domani», disse lei. «Una carrozza potrebbe travolgerlo per la strada…»

«Tu vuoi che io faccia una cosa simile!» La fissai, sdegnato.

«No, non voglio. Ma chi sono, per dirti cosa devi fare o non fare? Sto solo cercando di capirti.»

I capelli lunghi le erano scivolati di nuovo sulle spalle. Esasperata, li afferrò con entrambe le mani.

All’improvviso si lasciò sfuggire un sibilo e s’irrigidì. Teneva fra le dita le ciocche e le fissava.

«Mio Dio», sussurrò. E poi, con un sussulto, lasciò i capelli e urlò.

Quel suono ebbe il potere di paralizzarmi. Lanciò una fitta di sofferenza incandescente nella mia testa. Non l’avevo mai sentita urlare. E urlò di nuovo, come se bruciasse viva. Era ricaduta contro la finestra e gridava sempre più forte mentre si guardava i capelli. Li toccò e subito ritrasse le dita come se scottassero. Si dibattè, continuando a gridare e a torcersi, come se stesse cercando di sfuggire ai propri capelli.

«Smetti!» le intimai. L’afferrai per le spalle e la scossi. Ansimava. Compresi subito la ragione. I capelli le erano ricresciuti! Erano ricresciuti mentre dormiva e adesso erano lunghi quanto prima. Ed erano ancora più folti e lucidi. Ecco che cosa non andava nel suo aspetto, ciò che avevo notato e non avevo notato, e che lei aveva appena visto.

«Basta, basta!» gridai più forte. Era scossa da fremiti così violenti che stentavo a trattenerla fra le braccia. «Sono ricresciuti, ecco tutto», insistetti. «Per te è naturale, capisci? Non è niente!»

Lei soffocava, cercava di calmarsi, si toccava i capelli e poi urlava ancora come se si fosse ustionata le dita. Cercò di allontanarsi da me, quindi si strappò i capelli in preda al terrore.

Stavolta la scrollai più forte.

«Gabrielle!» dissi. «Mi capisci? Sono ricresciuti e ricresceranno ogni volta che li taglierai. Non è nulla di orribile, per amore dell’inferno, smetti!» Pensavo che, se non avesse smesso, anch’io avrei cominciato a delirare. Tremavo quanto lei.

Smise di urlare e proruppe in ansiti sommessi. Non l’avevo mai vista così, in tutti gli anni vissuti in Alvernia. Lasciò che la guidassi alla panca vicino al focolare. La feci sedere. Si portò le mani alle tempie e cercò di riprendere fiato, mentre ondeggiava lentamente.

Mi guardai intorno per cercare un paio di forbici. Non ne avevo. Quelle d’oro erano cadute sul pavimento della cripta. Tirai fuori il coltello.

Lei singhiozzava con il viso nascosto fra le mani.

«Vuoi che li tagli ancora?» le chiesi.

Non rispose.

«Gabrielle, ascoltami.» Le staccai le mani dal viso. «Te li taglierò ancora, se vuoi. Ogni notte li taglierò e li brucerò. Ecco tutto.»

Mi fissò, immobile e silenziosa, e io non seppi che fare. Aveva il viso macchiato dal sangue delle sue lacrime, e c’era sangue sui suoi lini. Sangue dappertutto.

«Devo tagliarli?» le chiesi di nuovo.

Sembrava che qualcuno l’avesse percossa e l’avesse fatta sanguinare. Gli occhi erano sgranati e assorti e le lacrime di sangue scorrevano sulle guance lisce. Mentre la guardavo il flusso si arrestò, le lacrime si scurirono e si asciugarono formando crosticine sulla pelle bianca.

Le asciugai premurosamente il volto con il fazzoletto di trina. Andai a rovistare fra gli indumenti che tenevo nella torre, gli indumenti confezionati per me a Parigi.

Le tolsi la giacca. Non si mosse per aiutarmi o per trattenermi, e le slacciai la camicia di lino.

Vidi i suoi seni, perfettamente bianchi, a parte il rosa pallido dei capezzoli minuscoli. Cercai di non guardarli; le feci indossare la camicia pulita e l’abbottonai in fretta. Poi le spazzolai i capelli, e li spazzolai ancora. Non volevo reciderli con il coltello, perciò ne feci una lunga treccia, e le rimisi la giacca.

Sentii che ritrovava la compostezza e la forza. Non mostrava di vergognarsi di ciò che era accaduto. E non volevo che si vergognasse. Rifletteva. Ma non parlava. Non si muoveva.

Cominciai a parlarle.

«Quand’ero piccino, mi dicevi di tutti i posti che avevi visitato. Mi mostravi immagini di Napoli e Venezia, ricordi? Quei vecchi libri? E avevi tante cose, tanti piccoli souvenir di Londra e di Pietroburgo, di tutti i posti che avevi visto.»

Non rispose.

«Voglio che andiamo in tutti quei luoghi. Voglio vederli. Voglio vederli e vivere là. Voglio andare ancora più lontano, in posti che neppure sognavo quand’ero vivo.»

Qualcosa cambiò nel suo viso. «Sapevi che sarebbero ricresciuti?» chiese in un bisbiglio.

«No. Voglio dire, sì; voglio dire, non lo pensavo. Avrei dovuto immaginarlo.»

Mi fissò a lungo, in quel silenzio apatico. «Non c’è mai niente in tutto questo che… che ti fa paura?» chiese. La sua voce era gutturale, diversa. «Non c’è mai niente che… che ti ferma?» La sua bocca era aperta e perfetta e sembrava una bocca umana.

«Non lo so», mormorai rassegnato. «Non ne vedo la ragione», dissi. Ma mi sentivo confuso. Le ripetei di tagliare i capelli ogni sera e bruciarli. Semplice.

«Sì, bruciarli», sospirò lei. «Altrimenti con il passare del tempo riempirebbero tutte le camere della torre, no? Come i capelli di Raperonzoletta nella fiaba, come l’oro che la figlia del mugnaio doveva filare dalla paglia nella favola dello gnomo cattivo.»

«Siamo noi a scrivere le nostre fiabe, amor mio», dissi. «E la lezione è questa: nulla può distruggere ciò che sei ora. Ogni ferita guarirà. Sei una dea.»

«La dea ha sete», disse lei.


Qualche ora dopo, mentre camminavamo a braccetto come due studenti tra le folle dei boulevard, era già tutto dimenticato. I nostri volti erano rosei, la nostra pelle era calda.

Ma non la lasciai per andare dal mio procuratore. E lei non andò in cerca della quiete e dell’aperta campagna, come aveva annunciato. Restammo vicini; e ogni tanto un fioco barlume della presenza ci faceva voltare.

5.

Alle tre, quando arrivammo alle scuderie, avemmo la certezza di essere pedinati dalla presenza.

Per mezz’ora o tre quarti d’ora non la sentivamo. Poi il ronzio sordo ritornava. E mi faceva impazzire.

E, sebbene ci sforzassimo di captare qualche pensiero intelligibile, riuscivamo a discernere solo la malvagità e, ogni tanto, un tumulto come lo spettacolo delle foglie secche disintegrate nel rombo del fuoco.

Gabrielle era contenta che tornassimo a casa. La cosa non la irritava. Era solo ciò che aveva detto prima… voleva la solitudine della campagna, la quiete.

Quando davanti a noi si schiuse il terreno scoperto, procedemmo così veloci che il vento era l’unico suono. Credetti di sentirla ridere, ma non ne ero sicuro. Anche lei amava la carezza del vento, lo splendore delle stelle sopra le colline buie.

Ma mi domandavo se quella notte vi erano stati momenti in cui aveva pianto tra sé a mia insaputa. C’erano stati momenti in cui era rimasta oscura e silenziosa, mentre le sue palpebre fremevano come se piangesse… ma non aveva versato neppure una lacrima.

Ero immerso in questi pensieri, credo, quando ci avvicinammo a un bosco fitto, lungo le rive d’un fiumicello poco profondo. All’improvviso la cavalla s’impennò e scartò.

Rischiai di venire gettato a terra da quel movimento inaspettato. Gabrielle si aggrappò al mio braccio destro.

Ogni volta entravo in quella piccola radura correndo sullo stretto ponte di legno. Amavo il suono degli zoccoli sull’assito, e la risalita della riva erbosa. E la cavalla conosceva il percorso. Stavolta, però, non voleva saperne.

Si girò spontaneamente, tremando e minacciando d’impennarsi di nuovo, e tornò al galoppo verso Parigi fino a quando, con tutta la forza della mia volontà, le comandai di fermarsi e tirai le redini.

Gabrielle s’era voltata a guardare il bosco fitto, la grande massa di rami scuri e ondeggianti che nascondevano il corso d’acqua. E tra l’ululato sottile del vento e il fruscio sommesso delle foglie smosse, giunse la pulsazione inequivocabile della presenza.

L’udimmo nello stesso momento, senza dubbio; strinsi più forte Gabrielle con il braccio mentre lei annuiva e si aggrappava alla mia mano.

«È più potente» mi disse in fretta. «E non è uno solo.»

«Sì», dissi esasperato. «E sta fra me e il mio covo.» Sguainai la spada sorreggendo Gabrielle con il braccio sinistro.

«Non vorrai avventarti là in mezzo!» gridò lei.

«Sì, per l’inferno», dissi io, mentre cercavo di dominare la cavalla. «Ci restano meno di due ore prima del levar del sole. Sfodera la spada anche tu!»

Tentò di girarsi per parlarmi, ma io avevo già lanciato la cavalla. E Gabrielle sfoderò la spada come le avevo detto, impugnandola con fermezza degna di un uomo.

Naturalmente, l’essere sarebbe fuggito non appena avessi raggiunto il bosco. Ne ero sicuro. Quella cosa dannata non aveva mai fatto altro che fuggire. E io ero furioso perché aveva spaventato la mia cavalla e perché spaventava Gabrielle.

Con un calcio brusco e con tutta la forza della persuasione mentale, lanciai la cavalla verso il ponte.

Strinsi l’arma. Mi piegai in avanti, riparando Gabrielle sotto di me. Alitavo rabbia come un drago: e quando gli zoccoli della cavalla colpirono le assi di legno sopra l’acqua vidi i demoni per la prima volta!

Facce bianche e braccia bianche sopra di noi, intravviste per un secondo e non di più. E dalle bocche usciva l’urlio più orrido mentre scuotevano i rami e facevano cadere su di noi una pioggia di foglie.

«Maledetto branco di arpie!» gridai mentre raggiungevamo la riva scoscesa dell’altra parte. Ma Gabrielle aveva lanciato un urlo.

Qualcosa era piombato sulla cavalla dietro di me. La cavalla sdrucciolava sulla terra bagnata, e l’essere mi stringeva la spalla e il braccio con cui cercavo di far mulinare la spada.

Brandii la lama al di sopra della testa di Gabrielle, l’avventai in basso al di là del mio braccio sinistro, e vibrai colpi furiosi contro l’essere. Lo vidi volare via, una chiazza bianca nell’oscurità: poi un altro si buttò contro di noi con le mani unghiute. La spada di Gabrielle gli fendette il braccio proteso. Vidi l’arto balzare in aria, il sangue che zampillava come da una fontana. Le urla divennero un lamento doloroso. Volevo farli a pezzi, tutti quanti. Feci girare la cavalla con tanto impeto che s’impennò e rischiò di cadere.

Ma Gabrielle le aveva afferrato la criniera e la stava guidando verso la strada aperta.

Mentre correvamo alla torre, li sentimmo urlare nell’inseguimento. E quando la cavalla stramazzò, l’abbandonammo e corremmo tenendoci per mano verso la porta.

Sapevo che dovevamo entrare nella camera interna attraverso il passaggio segreto prima che si arrampicassero sul muro esterno. Non dovevano vederci mentre spostavamo la pietra.

Chiusi tutte le porte dietro di me più rapidamente che potei, e portai Gabrielle su per la scala.

Quando raggiungemmo la camera segreta e rimettemmo a posto la pietra, udii i loro ululati e le loro strida, all’esterno, e lo strusciare contro i muri.

Presi una bracciata di legna da ardere e la buttai sotto la finestra.

«Presto, le fascine!» dissi.

Ma una mezza dozzina di facce bianche era già arrivata alle sbarre. Le grida echeggiavano mostruosamente nella piccola cella. Per un momento non potei far altro che fissarli mentre indietreggiavo.

Si aggrappavano alle grate di ferro come tanti pipistrelli, ma non erano pipistrelli. Erano vampiri, vampiri come noi, in forma umana.

Gli occhi scuri ci fissavano sotto i ciuffi di capelli sporchi, e gli ululati diventavano più forti e rabbiosi, le dita strette alle sbarre erano incrostate di sudiciume. I loro indumenti non erano altro che stracci incolori. E il lezzo che emanavano era quello di un cimitero.

Gabrielle lanciò le fascine e indietreggiò di scatto quando i vampiri tentarono di afferrarla. Snudarono le zanne. Urlarono. Cercarono di raccogliere la legna da ardere e di ributtarcela. Tirarono insieme la grata come per svellarla.

«Prendi l’esca, la selce e l’acciarino», gridai. Sollevai uno dei pezzi di legno più robusti e lo lanciai contro la faccia più vicina. Il mostro cadde dal muro. Erano esseri deboli. Lo sentii urlare mentre precipitava, ma gli altri afferrarono il pezzo di legno e lottarono contro di me, mentre facevo cadere un altro di loro. Gabrielle, intanto, aveva acceso le fascine.

Le fiamme s’innalzarono. Le urla cessarono, lasciarono posto a esclamazioni affannose.

«Al fuoco! Indietro! Giù, via, idioti! Giù, giù! Le sbarre scottano! Via, presto!»

Parlavano un francese normalissimo. Anzi, c’era un flusso crescente di imprecazioni in gergo.

Scoppiai a ridere, battei i piedi e li additai, mentre guardavo Gabrielle.

«Maledetto bestemmiatore!» urlò uno dei mostri. Poi le fiamme gli lambirono le mani e cadde ululando.

«Maledetti i profanatori, i fuorilegge!» erano le grida che salivano dal basso, in coro. «Maledetti i fuorilegge che hanno osato entrare nella Casa di Dio!» Ma stavano ridiscendendo in fretta a terra. I pesanti ceppi prendevano fuoco e le fiamme salivano al soffitto.

«Tornate al vostro cimitero, branco di buffoni!» dissi. Avrei buttato il fuoco addosso a loro, se avessi potuto avvicinarmi alla finestra.

Gabrielle era immobile e socchiudeva gli occhi, in ascolto.

Dal basso continuarono a giungere grida e ululati. Un nuovo coro di maledizioni contro coloro che violavano le sacre leggi e bestemmiavano e destavano la collera di Dio e di Satana. Attaccavano le porte e le finestre del piano terreno e facevano gesti stupidi come scagliare sassi contro i muri.

«Non possono entrare», disse Gabrielle a voce bassa, continuando a restare in ascolto. «Non possono sfondare la porta.»

Non ne ero tanto certo. La porta era vecchissima e arrugginita. Non restava che attendere.

Mi accasciai sul pavimento e mi appoggiai al sarcofago con le braccia contro il petto, la schiena curva. Non ridevo più.

Anche Gabrielle sedette contro il muro, con le gambe allungate. Ansava un poco e i capelli si scioglievano dalla treccia. Era come il cappuccio di un cobra intorno al suo viso, e le ciocche si incollavano alle guance bianche. La fuliggine aderiva ai suoi indumenti.

Il caldo del fuoco era opprimente. La camera priva d’aria era invasa dai vapori e le fiamme scacciavano la notte. Ma potevamo respirare, e soffrivamo soltanto per la paura e lo sfinimento.

A poco a poco compresi che Gabrielle aveva ragione, per quanto riguardava la porta. Non erano riusciti a sfondarla. Sentivo che si stavano allontanando.

«Che la collera di Dio punisca i profanatori!»

Sentii un movimento che veniva dalla scuderia. Vidi con la mente il povero ragazzo mortale e mezzo scemo che, atterrito, veniva trascinato fuori dal nascondiglio, e la mia rabbia ingigantì. Mi mandavano con il pensiero immagini della scena, l’assassinio di quel povero ragazzo. Maledetti.

«Non muoverti», disse Gabrielle. «È troppo tardi.»

Spalancò gli occhi e poi di nuovo li socchiuse mentre stava in ascolto. Era morto, quel povero infelice.

Sentii la morte come se avessi visto un uccellino scuro involarsi all’improvviso dalla scuderia. Gabrielle stava tesa come se anche lei lo vedesse; poi si abbandonò come se avesse perso conoscenza, sebbene così non fosse. Mormorò una frase che mi parve: «velluto rosso», ma non afferrai bene le parole.

«Vi punirò per ciò che avete fatto, banda di delinquenti!» dissi a voce alta, e lanciai il pensiero contro di loro. «Giuro che la pagherete.»

Ma sentivo le mie membra farsi sempre più pesanti. Il calore del fuoco era come una droga. E gli strani avvenimenti di quella notte facevano sentire il loro effetto.

Ero esausto e, nel bagliore del fuoco, non riuscivo a immaginare l’ora. Per un istante sognai, credo, e mi svegliai con un brivido, senza sapere quanto tempo fosse passato.

Alzai lo sguardo e scorsi la figura di un giovane ultraterreno, un giovane squisito che camminava avanti e indietro.

Naturalmente era solo Gabrielle.

6.

Mi dava un’impressione di forza quasi straripante mentre camminava avanti e indietro. Tuttavia, quella forza era contenuta nella grazia. Sferrò un calcio ai ceppi e guardò i tizzoni neri fiammeggiare per un momento. Potevo vedere il cielo. Rimaneva forse un’ora.

«Ma chi sono?» domandò. Stava davanti a me, a gambe larghe, e muoveva le mani in gesti liquidi. «Perché ci hanno chiamati fuorilegge e bestemmiatori?»

«Ti ho detto tutto quel che so», confessai. «Fino a stanotte non credevo che possedessero facce, membra e voci.»

Mi rialzai e mi spolverai gli abiti.

«Ci hanno maledetti perché siamo entrati nelle chiese!» disse Gabrielle. «Hai colto le immagini che irradiavano? E non sapevano come avessimo potuto farlo. Loro non oserebbero.»

Per la prima volta notai che tremava. C’erano altri piccoli segni d’allarme, il fremito degli occhi, i gesti con cui continuava a scostarsi dal viso i capelli sciolti.

«Gabrielle», dissi, cercando di assumere un tono autorevole e rassicurante, «l’importante è andarcene da qui, ora. Non sappiamo quando si svegliano quegli esseri, e tra quanto torneranno dopo il tramonto. Dobbiamo scoprire un altro nascondiglio.»

«La cripta delle segrete», disse lei.

«Una trappola peggiore di questa, se sfondano la porta», dissi. Guardai di nuovo il cielo e scostai la pietra del passaggio. «Vieni», esclamai.

«Ma dove stiamo andando?» chiese Gabrielle. Per la prima volta in quella notte appariva quasi fragile.

«In un villaggio più a est», risposi. «È evidente che il rifugio più sicuro sarà la chiesa.»

«E lo faresti?» chiese lei. «Andresti in chiesa?»

«Certo! Come hai appena detto, i mostriciattoli non oseranno entrare. E le cripte sotto l’altare devono essere buie e profonde come una tomba.»

«Ma, Lestat… proprio sotto l’altare!»

«Madre, mi sorprendi», dissi. «Alcune delle mie vittime le ho prese sotto il tetto di Notre-Dame.» Ma mi venne un’altra idea. Corsi alla cassapanca di Magnus e cominciai a frugare nel tesoro. Presi due rosari, uno di perle e un altro di smeraldi. Tutti e due avevano i soliti crocifissi.

Gabrielle mi guardava, pallida e tesa.

«Prendi questo», le dissi porgendole il rosario di smeraldi. «Tienilo addosso. Se e quando li incontreremo, mostragli il crocifisso. Se ho ragione, li metterà in fuga.»

«Ma cosa accadrà se nella chiesa non troveremo un posto sicuro?»

«Come posso saperlo? Torneremo qui!»

Sentivo la paura che cresceva dentro di lei e s’irradiava mentre esitava e guardava dalla finestra le stelle che impallidivano. Era passata attraverso il velo della morte con la promessa dell’eternità e adesso era di nuovo in pericolo.

Le presi dalla mano il rosario, la baciai, e poi glielo misi nella tasca della giacca.

«Gli smeraldi simboleggiano la vita eterna, madre», dissi.

Sembrava di nuovo un ragazzo, mentre gli ultimi bagliori del fuoco le delineavano la guancia e la bocca.

«È come ho detto prima», mormorò. «Tu non hai paura di niente, vero?»

«Che importanza ha, se ho paura o no?» Scrollai le spalle, le presi il braccio e la guidai verso il passaggio. «Siamo esseri che gli altri temono», dissi. «Non dimenticarlo.»


Quando arrivammo alla scuderia, vidi che il ragazzo era stato assassinato barbaramente. Il corpo straziato giaceva sulla paglia come se vi fosse stato scagliato da un titano. L’occipite era fracassato. E per beffarsi di lui o di me, l’avevano vestito di una lussuosa giacca di velluto rosso. Velluto rosso… Erano le parole che aveva mormorato Gabrielle quando era stato commesso il delitto. Io avevo veduto solo la morte. Distolsi gli occhi disgustato. E i cavalli non c’erano più.

«La pagheranno», dissi.

Le presi la mano. Ma lei continuò a fissare il corpo del ragazzo come se l’attirasse. Mi lanciò un’occhiata.

«Ho freddo», mormorò. «Sto perdendo le forze. Devo assolutamente andare dov’è buio. Lo sento.»

La condussi oltre la collina, verso la strada.


Non c’erano mostriciattoli urlanti nascosti nel camposanto della chiesa, naturalmente. Non avevo pensato che ci fossero. Da molto tempo la terra delle vecchie tombe non era stata smossa.

Gabrielle non aveva la forza di parlare.

La portai quasi di peso alla porta laterale della chiesa e spezzai la serratura senza fare rumore.

«Ho freddo e mi bruciano gli occhi», disse sottovoce. «Un posto buio.»

Tuttavia, mentre stavo per condurla all’interno, si fermò.

«E se loro avessero ragione?» disse. «Se la Casa di Dio non fosse posto per noi?»

«Assurdità, sciocchezze. Dio non è nella Casa di Dio.»

«Taci!» gemette.

La trascinai attraverso la sacrestia e poi davanti all’altare. Si coprì il viso, e poi alzò gli occhi verso il crocifisso sopra il tabernacolo. Gettò un’esclamazione soffocata. Ma si schermò gli occhi per ripararli dalle finestre di vetri istoriati. Il sole che sorgeva e che io neppure sentivo la stava già bruciando.

La sollevai come avevo fatto la notte precedente. Dovevo trovare una vecchia cripta, in disuso da anni. Mi avviai verso l’altare della Beata Vergine, dove le iscrizioni erano quasi cancellate dal tempo. M’inginocchiai, agganciai le unghie intorno a una lastra di pietra, La sollevai e scoprii un sepolcro profondo con un’unica bara imputridita.

Portai Gabrielle con me nel sepolcro e rimisi a posto le pietre.

C’era una tenebra totale. La bara si schiantò sotto il mio peso, e sentii sotto la mano un teschio sgretolato. Sentii l’angolosità delle altre ossa contro il petto. Gabrielle parlò come se fosse in trance.

«Sì. Lontano dalla luce.»

«Siamo al sicuro», mormorai.

Scostai le ossa e feci un nido con il legno corroso e la polvere, troppo vecchi per conservare l’odore della putrefazione umana.

Ma non mi addormentai ancora per un’ora o più.

Continuavo a pensare al mozzo di stalla, straziato e buttato là con quella lussuosa giacca di velluto rosso. Avevo già visto la giacca e non ricordavo dove. Era una delle mie? Erano entrati nella torre? No, non era possibile. Avevano fatto confezionare una giacca identica? Erano arrivati a tanto per farsi beffe di me? No. Com’era possibile che quegli esseri facessero una cosa simile? Eppure… quella giacca. Aveva qualcosa di particolare…

7.

Non appena aprii gli occhi, sentii un canto sommesso e bellissimo. E, come spesso il suono può fare anche nei suoi frammenti più preziosi, mi riportò all’infanzia, a una notte d’inverno quando tutta la mia famiglia era andata nella chiesa del nostro villaggio ed era rimasta per ore fra le candele accese, a respirare l’aroma pesante e sensuale dell’incenso mentre il prete guidava la processione reggendo alto l’ostensorio.

Ricordavo la bianca ostia rotonda dietro il vetro, la raggerà d’oro e di gemme che la circondava, e il baldacchino ricamato che ondeggiava pericolosamente mentre i chierichetti dalle cotte di pizzo si affannavano a sorreggerlo.

E mille benedizioni avevano impresso nella mia mente le parole del vecchio inno:

O salutaris hostia

quae caeli pandis ostium

bella premunt hostilia

da robur, fer auxilium…

E, mentre giacevo tra i resti della bara spezzata sotto la lastra di marmo bianco, nella grande chiesa di campagna, e Gabrielle era ancora avvinghiata a me nella paralisi del sonno, mi resi conto a poco a poco che lassù, in quel momento, c’erano centinaia di umani che cantavano lo stesso inno.

La chiesa era piena di gente! E non potevamo uscire da quel nido d’ossa fino a che non se ne fossero andati tutti quanti.

Intorno a me, nel buio, sentivo esseri che si muovevano. Sentivo l’odore dello scheletro sgretolato su cui giacevo. Sentivo anche l’odore della terra, e sentivo l’umidità cruda e il freddo.

Le mani di Gabrielle erano mani morte che mi stringevano. Il suo viso era inflessibile come osso.

Cercai di non pensarci e di rimanere assolutamente immobile.

Centinaia di umani respiravano e sospiravano sopra di noi. Forse erano mille. E avevano appena incominciato a cantare il secondo inno.

E adesso che cosa viene? mi chiesi fremendo. Le litanie, la benedizione. Quella notte non avevo il tempo di restare là a rimuginare. Dovevo uscire. L’immagine della giacca di velluto rosso riapparve con un senso irrazionale d’urgenza e una fitta di sofferenza altrettanto inesplicabile.

E all’improvviso Gabrielle aprì gli occhi. Non lo vidi, naturalmente. La tenebra era totale. Lo sentii. Sentii le sue membra che riprendevano vita.

E appena si mosse, subito s’irrigidì allarmata. Le premetti la mano sulla bocca.

«Taci», mormorai. Ma sentivo che era in preda al panico.

Dovette ricordare tutti gli orrori della notte precedente, e il fatto che era chiusa in un sepolcro con uno scheletro spezzato, e giaceva sotto una pietra che avrebbe potuto sollevare a stento.

«Siamo nella chiesa», le bisbigliai. «Siamo al sicuro.»

Il canto proseguì. «Tantum ergo sacramentum, veneremur cemui.»

«No, è una benedizione», gemette Gabrìelle, Cercava dì restare immobile; ma all’improvviso non resistette più e dovetti tenerla stretta con entrambe le braccia.

«Dobbiamo uscire», mormorò, «Lestat, per amor di Dio, c’è il Santissimo Sacramento sull’altare!»

I resti della bara di legno scricchiolarono contro la pietra. Rotolai addosso a Gabrielle e la bloccai con il mio peso.

«Non muoverti, capito?» dissi. «Non possiamo far altro che aspettare!»

Ma il suo panico mi stava contagiando. Sentii i frammenti d’osso sbriciolarsi sotto le mie ginocchia, respirai l’odore della stoffa marcia. Sembrava che il lezzo della morte penetrasse le pareti del sepolcro. Sapevo che non avrei potuto sopportarlo.

«Non possiamo», ansimò Gabrielle. «Non possiamo restare qui. Devo uscire!» Piagnucolava, quasi. «Lestat, non posso.» Tastava le pareti con le mani, la pietra sopra di noi. Sentivo un gemito di terrore uscirle dalle labbra.

L’inno era finito. Il prete avrebbe salito i gradini dell’altare, avrebbe sollevato l’ostensorio con entrambe le mani. Si sarebbe girato verso i fedeli e avrebbe alzato l’ostia in un atto di benedizione. Gabrielle lo sapeva, naturalmente. Cominciò a contorcersi sotto di me, e quasi riuscì a scostarmi.

«Ascoltami!» sibilai. Non riuscivo più a controllare la situazione. «Usciremo. Ma lo faremo come devono farlo due veri vampiri, capisci? Nella chiesa ci sono mille persone, e le spaventeremo a morte. Io alzerò la pietra e usciremo insieme. Leva le braccia in alto e assumi l’espressione più orribile e grida con tutte le tue forze. Così indietreggeranno tutti, invece di balzarci addosso e di trascinarci in prigione. Poi correremo alla porta.»

Non mi rispose neppure. Si dibatteva e percuoteva con i tacchi le assi putride.

Mi alzai e spinsi con forza la lastra di marmo. Balzai fuori come avevo annunciato, sollevando il mantello in un arco gigantesco.

Piombai sul pavimento del coro in uno sfolgorio di candele e lanciai il grido più possente di cui ero capace.

Centinaia di fedeli scattarono in piedi davanti a me, centinaia di bocche si aprirono per urlare.

Gettai un altro grido, afferrai la mano di Gabrielle e mi avventai verso di loro, scavalcando la balaustra della comunione. Gabrielle lanciò un gemito acutissimo, alzando la mano sinistra come per graffiare mentre la trascinavo lungo la navata. Dovunque regnava il panico: uomini e donne stringevano i figli, urlavano e arretravano.

I battenti massicci si aprirono verso il cielo nero e il vento. Spinsi avanti Gabrielle, mi voltai, lanciai il mio urlo più terribile. Snudai le zanne per minacciare i fedeli tremanti. Senza sapere se qualcuno mi inseguiva o veniva spinto verso di me, mi frugai nelle tasche e sparsi sul pavimento manciate di monete d’oro.

«Il diavolo semina monete!» gridò qualcuno.

Attraversammo correndo il cimitero e ci avventurammo nei campi.

In pochi secondi arrivammo al bosco. Sentii l’odore della scuderia di una grande casa che sorgeva più avanti, oltre gli alberi.

Mi fermai, piegandomi nella concentrazione, e chiamai i cavalli. Poi corremmo verso di loro nel sentire il tuono sordo dei colpi di zoccolo contro le pareti.

Scavalcai la siepe bassa a fianco di Gabrielle e scardinai la porta mentre un bel castrone si precipitava fuori. Gli balzammo in groppa. Gabrielle si mise davanti a me e io la cinsi con un braccio.

Affondai i tacchi nei fianchi dell’animale e lo lanciai verso sud, verso Parigi.

8.

Tentai di fare un piano mentre ci avvicinammo alla città; ma non sapevo come procedere.

Era impossibile evitare gli immondi mostriciattoli. Eravamo avviati verso una battaglia. Ed era poco diverso dalla mattina in cui ero partito per sterminare i lupi, nella certezza che la rabbia e la forza di volontà mi avrebbero dato la vittoria.

Ci eravamo appena addentrati fra le fattorie sparse di Montmartre quando per una frazione di secondo sentimmo il loro mormorio fioco. Sembrava un vapore miasmatico.

Io e Gabrielle sapevamo che dovevamo bere subito, per essere pronti allo scontro,

Ci fermammo in una delle fattorie, attraversammo il frutteto per raggiungere l’ingresso posteriore, e trovammo all’interno marito e moglie che dormicchiavano accanto al focolare.

Quando finimmo, uscimmo insieme nell’orticello. Restammo immobili per un momento a guardare il cielo grigioperla. Gli altri non si sentivano. C’erano soltanto il silenzio, la chiarezza del sangue fresco e le nubi che minacciavano pioggia.

Mi voltai e, in silenzio, ordinai al castrone di avvicinarsi. Presi le redini e mi rivolsi a Gabrielle.

«Non c’è altra soluzione che andare a Parigi», le dissi. «Per affrontare i mostriciattoli. E fino a che non si mostreranno e non riprenderanno la guerra, vi sono diverse cose che devo fare. Devo pensare a Nicki e parlare con Roget.»

«Non è il momento di occuparti di simili sciocchezze», disse lei.

La terra del sepolcro aderiva ancora alla stoffa della sua giacca e ai suoi capelli biondi. Sembrava un angelo trascinato nella polvere.

«Non permetterò che si mettano tra me e ciò che intendo fare», ribattei.

Gabrielle trasse un respiro profondo.

«Vuoi guidare quegli esseri fino al tuo caro Monsieur Roget?» mi chiese.

Era troppo spaventoso per pensarci.

Caddero le prime gocce. Avevo freddo nonostante il sangue. Tra un momento la pioggia sarebbe diventata un acquazzone.

«Sta bene», dissi. «Non si può fare nulla sino a che non sarà liquidata questa faccenda!» Montai a cavallo e le tesi la mano.

«L’ingiuria ti sprona, non è vero?» Gabrielle mi studiava. «Qualunque cosa facessero o tentassero di fare, servirebbe soltanto a rafforzarti.»

«Ah, questa sì che è una sciocchezzai» dissi. «Su, vieni.»

«Lestat», mi disse in tono molto serio. «Dopo averlo ucciso, hanno rivestito il tuo mozzo di stalla con una giacca da gentiluomo. L’hai vista? Non l’avevi mai vista prima?» La maledetta giacca di velluto rosso…

«Io l’ho vista», disse Gabrielle. «L’ho fissata per ore accanto al mio letto, a Parigi. Era la giacca di Nicolas de Lenfent.»

La guardai per un lungo momento. Ma non la vedevo. La collera che ingigantiva dentro di me era assolutamente silenziosa. Continuerà a essere collera fino a che non avrò la prova che dev’essere angoscia, pensai. Poi non pensai più.

Vagamente, sapevo che Gabrielle non immaginava ancora quanto potessero essere potenti le nostre passioni, e come potessero paralizzarci. Mossi le labbra, credo, ma non ne uscì alcun suono.

«Non credo che l’abbiano ucciso, Lestat», disse lei.

Tentai nuovamente di parlare. Volevo chiederle: «Perché dici così?» Ma non potevo. Guardavo in direzione del frutteto.

«Credo che sia vivo», disse Gabrielle. «E che sia loro prigioniero. Altrimenti avrebbero lasciato là il suo corpo e non si sarebbero curati del mozzo di stalla.»

«Forse, o forse no.» Dovetti forzare la mia bocca per formare le parole.

«La giacca era un messaggio.»

Non resistevo più. «Vado a cercarli», dissi. «Tu preferisci tornare alla torre? Se dovessi fallire…»

«Non ho intenzione di lasciarti», disse lei.


Pioveva a dirotto quando arrivammo nel Boulevard du Temple, e le pietre bagnate del lastricato moltiplicavano la luce di mille lampade.

I miei pensieri avevano assunto la forma di strategie dettate più dall’istinto che dalla ragione. Ero pronto a battermi. Ma dovevo scoprire molte cose. Quanti erano? E cosa volevano veramente? Catturarci e annientarci, oppure spaventarci e metterci in fuga? Dovevo dominare la rabbia, e ricordare che erano puerili, superstiziosi, e che probabilmente sarebbe stato facile spaventarli e disperderli.

Non appena raggiungemmo le vecchie case nei pressi di Notre-Dame, li udii vicino a noi. La vibrazione giunse come un lampo argenteo e subito svanì.

Gabrielle si tese. Sentii che mi posava la mano sinistra sul polso. Vidi che aveva portato la destra all’impugnatura della spada.

Eravamo entrati in un vicolo tortuoso che svoltava nell’oscurità davanti a noi. I ferri del cavallo infrangevano il silenzio e io dovevo sforzarmi per non lasciarmi innervosire da quel suono.

Mi sembrò che li vedessimo in quello stesso momento.

Gabrielle si accostò a me, e io trattenni l’esclamazione che avrebbe dato un’impressione di paura.

In alto, sopra di noi, ai lati dello stretto vicolo, c’erano le facce bianche che sporgevano sopra le gronde, come un baluginare fioco contro lo sfondo del cielo tetro e la pioggia argentea e silenziosa.

Lanciai il cavallo. I mostri sfrecciavano sul tetto come ratti. Le loro voci si levavano in un ululato fioco che i mortali non avrebbero potuto udire.

Gabrielle soffocò un grido quando vedemmo le braccia e le gambe bianche scendere dai muri davanti a noi e sentimmo, alle nostre spalle i tonfi dei loro piedi sulle pietre.

«Avanti!» gridai. Sguainai la spada e mi avventai verso le due figure lacere che erano balzate sul nostro percorso. «Via, via, esseri dannati!» gridai, mentre sentivo le loro urla.

Per un momento vidi le loro facce angosciate. Quelli che stavano in alto sparirono, quelli dietro di noi parvero indebolirsi. Continuammo la corsa, allungando le distanze tra noi e gli inseguitori fino a quando uscimmo nella deserta Place de Grève.

Ma i mostri si stavano radunando ai margini della piazza; e questa volta udivo i loro pensieri. Uno domandava quali poteri avevamo e perché dovevano aver paura di noi, e un altro insisteva perché ci attaccassero.

In quel momento una forza s’irradiò da Gabrielle, sicuramente, perché li vidi indietreggiare quando lanciò un’occhiata nella loro direzione e strinse più forte la spada.

«Fermali, allontanali», disse sottovoce. «Sono terrorizzati.» Poi la sentii imprecare. Dalle ombre dell’Hôtel-Dieu venivano volando verso di noi almeno altri sei demoni, con le membra bianche avvolte in cenci, i capelli scomposti, le bocche aperte in gemiti terribili. Incitavano gli altri. La malvagità che ci attorniava stava acquistando forza.

Il cavallo s’impennò e per poco non ci buttò a terra. Gli stavano ordinando di fermarsi, come io gli comandavo di procedere.

Afferrai Gabrielle alla vita, balzai da cavallo e corsi verso la porta di Notre-Dame.

Un vociare orribile, irridente si levò silenzioso nelle mie orecchie… gemiti e grida e minacce.

«Non osate, non osate!» La malignità si spalancò sopra di noi come il calore di una fornace. I loro piedi trepestavano tutto intorno e sentivo le mani che cercavano di afferrare la mia spada e la giacca.

Ma sapevo con certezza che cosa sarebbe accaduto quando avessimo raggiunto la chiesa. Mi slanciai spingendo davanti a me Gabrielle, e varcammo insieme la soglia della cattedrale, scivolando, e finimmo lunghi distesi sulle pietre.

Urla. Orribili urla che salivano e salivano, e poi un grande frastuono come se l’orda fosse stata dispersa da un colpo di cannone.

Mi rialzai, ridendo fragorosamente. Ma non rimasi ad attendere accanto alla porta. Gabrielle s’era alzata e mi trascinava via. Avanzammo nella navata buia, oltre le arcate maestose fino a quando ci avvicinammo alle candele; cercammo un angolo vuoto accanto a un altare secondario e cademmo in ginocchio.

«Come quei dannati lupi», dissi. «Una maledetta imboscata.»

«Sttt, taci un momento», disse Gabrielle aggrappandosi a me. «Altrimenti i nostri cuori immortali scoppieranno.»

9.

Dopo un lungo momento la sentii irrigidirsi. Guardava verso la piazza.

«Non pensare a Nicolas», disse. «Loro attendono e ascoltano. Odono tutto ciò che passa nelle nostre menti.»

«Ma loro che cosa pensano?» bisbigliai. «Che cosa passa nelle loro teste?»

La sentii concentrarsi.

La strinsi a me e guardai la luce argentea che entrava dalla porta aperta. Anch’io li sentivo, adesso: ma era solo un suono sommesso e tremulo.

Mentre guardavo la pioggia, fui sopraffatto da un fortissimo senso di pace. Era quasi sensuale. Mi sembrava che avremmo dovuto arrenderci, che fosse assurdo resistere ancora. Tutto si sarebbe risolto se fossimo usciti e ci fossimo consegnati. Non avrebbero torturato Nicolas, che avevano in loro potere; non l’avrebbero fatto a pezzi.

Vedevo Nicolas nelle loro mani. Indossava soltanto la camicia di pizzo e le brache perché gli avevano tolto la giacca. E lo sentivo urlare mentre gli slogavano le braccia. Gridai «No!» e mi tappai la bocca con le mani per non svegliare i mortali presenti nella chiesa.

Gabrielle mi toccò le labbra con le dita. «Non lo stanno facendo», disse sottovoce. «È solo una minaccia. Non pensare a lui.»

«Dunque è ancora vivo», sussurrai.

«È ciò che vogliono farci credere. Ascolta!»

Ritornarono il senso di pace, e l’appello a raggiungerli, la voce che diceva: «Uscite dalla chiesa. Arrendetevi, vi diamo il benvenuto e non vi faremo alcun male se verrete a noi».

Mi voltai verso la porta e mi alzai. Ansiosamente, anche Gabrielle si alzò e mi trattenne con un gesto. Non osava neppure parlarmi mentre guardavamo entrambi la grande arcata di luce argentea.

«Mentite», dissi io. «Non avete nessun potere su di noi! Era una corrente di sfida che passava dalla porta lontana. Arrenderci a voi? Se lo facessimo, che cosa vi impedirebbe di tenerci prigionieri tutti e tre? Perché dovremmo uscire? In questa chiesa siamo al sicuro; possiamo nasconderei nelle cripte sepolcrali più profonde. Possiamo andare a caccia tra i fedeli, bere il loro sangue nelle cappelle e nelle nicchie senza farci mai scoprire, e mandare le nostre vittime a morire stordite per le strade. E voi che cosa fareste, voi che non potete neppure varcare la soglia? Inoltre, non crediamo che abbiate Nicolas. Mostratecelo. Fatelo venire alla porta a parlare.»

Gabrielle era confusa. Mi scrutava, ansiosa di sapere che cosa dicevo. Udiva chiaramente i mostri mentre io non li sentivo mentre emettevo quegli impulsi.

Mi sembrava che le loro emanazioni si fossero indebolite; ma non erano cessate.

Continuarono come se io non avessi risposto, come se fosse qualcuno che mormorava. Promettevano di nuovo la tregua, e sembravano parlare d’estasi, assicuravano che in quel grande piacere di partecipazione tutti i conflitti si sarebbero risolti. Era di nuovo un appello sensuale, bellissimo.

«Miserabili vigliacchi, tutti quanti», sospirai. Questa volta pronunciai le parole perché sentisse anche Gabrielle. «Mandate Nicolas nella chiesa.»

Il brusio delle voci si assottigliò. Io continuai: ma là fuori c’era un silenzio cavernoso, come se altre voci tacessero e ne restassero appena una o due. Poi sentii i suoni fievoli e caotici del contrasto e della ribellione.

Gabrielle socchiuse gli occhi.

Silenzio. Là fuori c’erano soltanto i mortali che attraversavano la Place de Grève lottando contro il vento. Non avevo creduto che i mostri si sarebbero ritirati. E adesso, che cosa dovevamo fare per salvare Nicki?

Battei le palpebre. Mi sentivo improvvisamente stanco; era quasi un senso di disperazione. E pensai, confusamente: «È ridicolo, io non dispero mai. Altri possono farlo, io no. Io continuo a lottare, qualunque cosa accada. Sempre».

E, mentre ero sopraffatto dallo sfinimento e dalla collera, vedevo Magnus che balzava nel fuoco, vedevo la sua smorfia prima che le fiamme lo consumassero e lo facessero scomparire. Era disperazione?

Quel pensiero mi paralizzò. Mi fece inorridire come mi aveva fatto inorridire allora la realtà. E provai la sensazione stranissima che qualcuno mi parlasse di Magnus. Perciò avevo pensato a lui!

«Troppo ingegnoso…» sussurrò Gabrielle.

«Non ascoltare. Giocano con i nostri pensieri», dissi.

Ma mentre guardavo la porta aperta vidi apparire una figura minuscola. Era compatta: la figura di un ragazzo, non di un uomo.

Avrei desiderato che fosse Nicolas, ma compresi subito che non era lui. Era più piccolo sebbene più massiccio. E non era umano.

Gabrielle si lasciò sfuggire un mormorio di stupore che sembrava quasi una preghiera.

Non era vestito, quell’essere, come vestivano gli uomini. Portava un’elegante tunica con cintura, e le gambe ben modellate erano fasciate dalle calze. Le maniche erano ampie e pendule. Era vestito come Magnus, per la precisione; e per un momento pensai che fosse Magnus, ritornato per magia.

Era un pensiero stupido. Quello era un ragazzo, come ho detto, e aveva lunghi riccioli, e camminava eretto e composto nella luce argentea. Entrò nella chiesa. Esitò per un momento. Piegò la testa, guardando in alto. Poi continuò a venire verso di noi. I suoi piedi non facevano il minimo rumore sulle pietre.

Arrivò nel chiarore delle candele accese sull’altare laterale. I suoi indumenti erano di velluto nero; un tempo dovevano essere stati molto belli, ma erano rosi e incrostati di polvere. Il viso era bianco, splendente e perfetto, e sembrava il viso di un Dio, un Cupido del Caravaggio, seducente e tuttavia etereo, con i capelli fulvi e gli occhi scuri.

Strinsi a me Gabrielle mentre lo guardavo. Non c’era nulla che mi stupisse in quell’essere inumano più del modo in cui ci fissava. Scrutò ogni dettaglio delle nostre persone. Poi tese delicatamente la mano e toccò la pietra dell’altare. Guardò l’altare, il crocifisso e i santi e guardò di nuovo noi.

Era a pochi passi di distanza, e l’aria attenta con cui ci scrutava lasciò il posto a un’espressione quasi sublime. La voce che avevo udito prima era la sua: ci chiamò di nuovo, ci invitò ad arrenderci, ci disse con gentilezza indescrivibile che dovevamo amarci l’un l’altro, lui e Gabrielle, che non chiamò per nome, e io.

C’era una sorta di ingenuità in quel suo appello.

Resistetti. Istintivamente, sentii i miei occhi diventare opachi come se si fosse levato un muro a suggellare le finestre dei miei pensieri. Tuttavia lo desideravo, desideravo abbandonarmi a lui e seguirlo, e al confronto tutti i miei desideri del passato sembravano cose da nulla. Per me era misterioso quanto lo era stato Magnus. Ma era bello, indescrivibilmente bello, e sembrava esistessero in lui una complessità e una profondità indicibile che Magnus non aveva posseduto.

L’angoscia della mia vita immortale mi attanagliava. L’essere disse: Venite a me. Venite a me perché soltanto io e i miei simili possiamo porre fine alla vostra solitudine. Sembrava attingere a un pozzo di tristezza inesprimibile, alla profondità della tristezza. Un nodo mi strinse la gola, ma non cedetti.

Noi due siamo insieme, insistetti stringendo più forte Gabrielle. E poi le chiesi: Dov’è Nicolas? Feci la domanda e decisi di non cedere a nulla di ciò che avrei potuto udire e vedere.

L’essere si umettò le labbra: un gesto molto umano. Si avvicinò in silenzio fino a quando fu a non più di due piedi da noi, e girò lo sguardo dall’uno all’altra. E parlò, con una voce molto diversa dalla voce umana.

«Magnus», disse. Era una voce discreta, carezzevole. «È finito nel fuoco come tu hai detto?»

«Non l’ho mai detto», risposi. Il suono umano della mia voce mi fece trasalire. Ma ora sapevo che alludeva ai miei pensieri di pochi attimi prima. «È vero», dissi. «È finito nel fuoco.» Perché dovevo nasconderlo?

Cercai di penetrare la sua mente. Lui lo sentì e scagliò contro di me immagini tanto strane da strapparmi un grido.

Che cosa avevo veduto per un istante? Non lo sapevo. Inferno e paradiso, oppure entrambi divenuti una cosa sola, vampiri in un paradiso dove bevevano il sangue dai fiori palpitanti che pendevano dagli alberi.

Fui assalito da un’ondata di disgusto. Era come se si fosse insinuato al pari di un demone nei miei sogni.

Ma aveva smesso. Socchiuse leggermente gli occhi e mi guardò con un vago rispetto. Il mio linguaggio lo sconcertava. Non aveva previsto la mia risposta. Non s’era aspettato… che cosa? Tanta forza?

Sì, e me lo faceva sapere in modo quasi cerimonioso.

Ricambiai la cortesia. Gli feci vedere me nella stanza della torre, con Magnus; rievocai le parole di Magnus prima che si buttasse nel fuoco. Lasciai che scoprisse tutto.

Annuì; e quando gli riferii le parole di Magnus, il suo viso cambiò leggermente, come se la fronte si fosse spianata o come se la pelle si fosse tesa. Non mi rivelò in risposta nulla di ciò che lo riguardava, comunque.

Al contrario, con mio grande stupore, distolse lo sguardo da noi e lo rivolse all’altar maggiore. Ci passò accanto, ci voltò le spalle come se non ci temesse e ci avesse dimenticati per un momento.

Si avviò verso la grande navata, lentamente. Ma non sembrava camminare come un umano. Si spostava, piuttosto, da un’ombra all’altra, così che sembrava sparire e riapparire. Non era mai visibile nella luce. E le dozzine di anime presenti nella chiesa dovevano solo guardarlo perché sparisse istantaneamente.

Mi meravigliai della sua destrezza, perché d’altro non si trattava. Curioso di vedere come faceva, lo seguii verso il coro. Gabrielle mi imitò senza fare rumore.

Scoprimmo che era più semplice di quanto avessimo immaginato. Tuttavia l’essere si stupì, chiaramente, quando ci vide al suo fianco.

E in quell’attimo di stupore mi lasciò intravvedere la sua grande debolezza, l’orgoglio. Era umiliato perché l’avevamo raggiunto muovendoci con tanta leggerezza e riuscendo nel contempo a nascondere i nostri pensieri.

Ma il peggio doveva ancora venire. Quando comprese che me n’ero accorto, s’infuriò doppiamente. Da lui irradiò un calore divorante che non era calore.

Gabrielle si lasciò sfuggire un mormorio di sdegno. Per un secondo lo fissò, e ci fu un barlume di comunicazione tra loro che mi escludeva. L’essere sembrava perplesso.

Ma era in preda a una battaglia ancora più grande che io cercavo di comprendere. Guardava i fedeli che gli stavano intorno, e l’altare e gli emblemi dell’Onnipotente e della Vergine Maria, dovunque si voltasse. Era davvero un dio uscito da un quadro del Caravaggio, e la luce giocava sul candore marmoreo del viso innocente.

Poi mi passò il braccio intorno alla vita, sotto il mantello. Il tocco era così strano e dolce e avvincente, e la bellezza del suo volto era così incantevole che non mi mossi. Passò l’altro braccio intorno alla vita di Gabrielle: e nel vederli insieme, angelo e angelo, mi distrassi.

Dovete venire, disse.

«Perché? Dove?» chiese Gabrielle. Io sentivo una pressione immensa. L’essere cercava di farmi muovere contro la mia volontà, ma non poteva. Ero come radicato al pavimento. Vidi la faccia di Gabrielle indurirsi mentre lo guardava. Era di nuovo sbalordito. Era esasperato e non poteva nascondercelo.

Dunque aveva sottovalutato la nostra forza fìsica, oltre alla nostra forza mentale. Interessante.

«Dovete venire, ora», disse, concentrando su di me la forza della sua volontà: ma io la vedevo troppo chiaramente per lasciarmi ingannare. «Venite e i miei seguaci non vi faranno alcun male.»

«Tu menti», dissi. «Hai mandato via i tuoi seguaci e vuoi che usciamo prima del loro ritorno perché non debbono vederti uscire dalla chiesa. Non vuoi che sappiano che ci sei entrato!»

Gabrielle proruppe in un’altra risatina sprezzante.

Appoggiai la mano sul petto dell’essere e cercai di spostarlo. Forse era forte quanto Magnus, ma rifiutavo di avere paura. «Perché non vuoi che lo vedano?» sussurrai scrutandolo.

Il cambiamento che si operò in lui fu così sconvolgente e terribile che mi sorpresi a trattenere il respiro. Il volto angelico si contrasse, gli occhi si sgranarono, la bocca si piegò in una smorfia di costernazione. Tutto il corpo si deformò, come se si sforzasse di non digrignare i denti e di non serrare i pugni.

Gabrielle indietreggiò. Io risi. Non ne avevo l’intenzione, ma non seppi trattenermi. Era orribile ma era anche buffo.

Con subitaneità sorprendente l’illusione spaventosa, se era un’illusione, svanì, e l’essere ridivenne se stesso. Tornò persino l’espressione sublime. Mi disse, in un torrente di pensieri, che ero infinitamente più forte di quanto avesse previsto. Ma gli altri si sarebbero spaventati se l’avessero visto uscire dalla chiesa e perciò dovevamo andare subito. «Altre menzogne», bisbigliò Gabrielle.

E io sapevo che un orgoglio così grande non avrebbe perdonato nulla. Che Dio aiutasse Nicolas, se non fossimo riusciti a sconfiggere quell’essere!

Mi voltai. Presi la mano di Gabrielle e ci avviammo verso la porta. Gabrielle si voltò a guardarlo, poi guardò me con aria interrogativa, il volto pallidissimo e teso.

«Pazienza», bisbigliai. Mi voltai e Io vidi lontano, dietro di noi, con le spalle all’altar maggiore. I suoi occhi erano così grandi che mi appariva orribile, ripugnante come uno spettro.

Quando raggiunsi il vestibolo, lanciai un appello agli altri con tutta la mia forza. E lo bisbigliai perché Gabrielle lo sapesse. Dissi loro di tornare e di entrare in chiesa se volevano, perché nulla poteva far loro alcun male, il loro capo era nella chiesa, illeso, davanti all’altare.

Pronunciai le parole a voce più alta, lanciando l’appello; e Gabrielle ripeté le frasi all’unisono con me.

Lo sentii venire verso di noi dalla direzione dell’altar maggiore; e poi lo persi. Non sapevo dove fosse, dietro di noi.

All’improvviso mi afferrò materializzandosi al mio fianco, e Gabrielle fu gettata sul pavimento. L’essere cercava di sollevarmi e di scagliarmi oltre la soglia.

Ma io resistetti. Chiamai disperatamente a raccolta tutto ciò che rammentavo di Magnus — il suo strano modo di camminare, e lo strano modo di muoversi di quell’essere — e lo scagliai non a terra, come si potrebbe fare con un mortale molto pesante, ma in verticale nell’aria. Come sospettavo, volteggiò e andò a sbattere contro il muro. I mortali si scossero. Videro un movimento, sentirono i rumori. Ma lui era svanito di nuovo. E io e Gabrielle, nell’ombra, non apparivamo diversi dagli altri giovani gentiluomini.

Accennai a Gabrielle di scostarsi. Poi l’essere apparve e sfrecciò verso di me: ma intuii ciò che stava per accadere e mi tirai in disparte. A una ventina di piedi da me lo vidi lungo disteso sulle pietre. Mi guardava con evidente soggezione, come se fossi un dio. I lunghi capelli fulvi erano scomposti, gli occhi scuri erano sgranati. E, nonostante la dolce innocenza del volto, la sua volontà mi investiva in un torrente arroventato di comandi, mi diceva che ero debole, imperfetto e sciocco, e sarei stato fatto a pezzi dai suoi seguaci non appena fossero comparsi. E avrebbero bruciato a fuoco lento il mio amante mortale. Risi in silenzio. Era ridicolo come un litigio di una vecchia commedia.

Gabrielle girava lo sguardo dall’uno all’altro. Lanciai di nuovo l’appello agli altri. E questa volta li sentii rispondere e interrogare.

«Entrate nella chiesa», continuavo a ripetere, mentre l’essere si alzava e si avventava di nuovo verso di me in preda a una collera goffa e cieca. Gabrielle lo afferrò nello stesso istante in cui lo feci io. Lo bloccammo entrambi e non poté muoversi.

In un momento di orrore assoluto, l’essere cercò di affondarmi le zanne nel collo. Vidi i suoi occhi tondi e vitrei mentre le zanne si tendevano al di sopra del labbro aggricciato. Lo scagliai all’indietro e svanì di nuovo.

Gli altri si stavano avvicinando.

«Il vostro capo è in chiesa, guardatelo!» ripetei. «E ognuno di voi può entrare allo stesso modo. Non vi succederà nulla di male!»

Sentii Gabrielle prorompere in un urlo di avvertimento. Ma era troppo tardi. L’essere si alzò proprio di fronte a me come se emergesse dal pavimento. Mi colpì alla mascella ributtandomi la testa all’indietro, così che vidi sopra di me il soffitto della chiesa. E, prima che avessi la possibilità di riprendermi, mi sferrò un colpo violentissimo alla schiena che mi fece volare oltre la porta della chiesa, sulle pietre della piazza.

PARTE IV I FIGLI DELLE TENEBRE

1.

Non vedevo altro che la pioggia. Ma li sentivo tutt’intorno a me. E lui dava gli ordini.

«Non hanno grandi poteri, questi due», stava dicendo con i pensieri che avevano una bizzarra semplicità, come se impartisse comandi a un gruppo di bambini vagabondi. «Prendeteli prigionieri.»

Gabrielle disse: «Lestat, non opporre resistenza. È inutile continuare.»

Sapevo che aveva ragione. Ma non mi ero mai arreso a nessuno in tutta la mia vita. La trascinai con me al di là dell’Hôtel-Dieu e corsi verso il ponte.

Sfrecciammo tra la ressa dei mantelli bagnati e delle carrozze spruzzate di fango: tuttavia loro riducevano le distanze, e correvano così veloci da risultare quasi invisibili per i mortali, e ormai avevano ben poca paura di noi.

Il gioco finì nelle vie buie della Riva Sinistra.

Le facce bianche apparvero sopra e sotto di me come se fossero cherubini diabolici; e quando tentai di sguainare la spada sentii le loro mani trattenermi le braccia. Udii Gabrielle che diceva: «Così sia».

Tenni stretta la spada ma non potei impedire che mi sollevassero da terra. E stavano sollevando anche Gabrielle.

In uno sfolgorio di immagini orrende, compresi dove ci stavano portando: al Cimitero degli Innocenti, poco lontano. E vedevo già il bagliore dei falò che ogni notte ardevano tra le fetide tombe aperte, le fiamme che avrebbero dovuto scacciare i miasmi.

Passai un braccio intorno al collo di Gabrielle e gridai che non potevo sopportare il fetore, ma loro ci portavano nel buio, oltre i cancelli, oltre le cripte di marmo bianco.

«Non potrete sopportarlo neppure voi», dissi mentre mi dibattevo. «Com’è che vivete tra i morti, quando siete fatti per nutrirvi della vita?»

Ma ormai provavo una tale ripugnanza che non potevo continuare quella lotta verbale e fisica. Tutt’intorno a noi giacevano corpi in vari stati di decomposizione, e il lezzo proveniva persino dai sepolcri più ricchi.

E, mentre avanzavamo nella parte più buia del cimitero ed entravamo in un enorme sepolcro, compresi che anche loro detestavano quel puzzo. Sentivo il loro disgusto; tuttavia aprivano le bocche e i polmoni come se lo assimilassero. Gabrielle tremava stretta a me, e mi premeva le dita nel collo.

Varcammo un’altra soglia e poi, nella luce fioca delle torce, scendemmo una scala di terra battuta.

L’odore divenne più forte. Sembrava grondare dalle pareti di fango. Abbassai la faccia e vomitai un getto di sangue luccicante sui gradini: lo vidi sparire mentre procedevamo.

«La vita fra le tombe», esclamai furiosamente. «Ditemi, perché già soffrite le pene dell’inferno per vostra scelta?»

«Silenzio!» bisbigliò una femmina che mi stava vicina, una femmina dagli occhi scuri e i capelli da strega. «Bestemmiatore», disse. «Profanatore maledetto.»

«Non essere troppo tenera con il diavolo, carina», ringhiai. Eravamo a faccia a faccia. «A meno che lui ti tratti molto meglio dell’Onnipotente!»

Rise. O meglio cominciò a ridere e poi smise come se le fosse vietato. Sarebbe stato davvero un raduno gaio e interessante!

Continuavamo a scendere sempre di più nelle profondità della terra.

Luce palpitante, scalpiccio di piedi scalzi sul terreno, stracci luridi che mi sfioravano la faccia. Per un istante scorsi un teschio ghignante. Poi un altro, e infine un mucchio di teschi che riempiva una nicchia.

Cercai di svincolarmi e il mio piede urtò un altro mucchio e fece precipitare rumorosamente le ossa sui gradini. I vampiri strinsero più forte e cercarono di sollevarci ancora di più. Adesso stavamo passando davanti allo spettacolo macabro dei cadaveri putrefatti e fissati alle pareti come statue, con le ossa avvolte in cenci muffiti.

«È troppo disgustoso», dissi stringendo i denti.

Eravamo al termine della scala: ora ci stavano portando attraverso una grande catacomba. Sentivo il rullo sordo e rapido dei tamburi.

Più avanti c’era una luce di torce; e tra un coro di gemiti luttuosi giungevano altre grida, lontane ma piene di sofferenza. Tuttavia qualcosa, al di là delle grida sconvolgenti, aveva attirato la mia attenzione.

Tra tutta quella sozzura percepivo la vicinanza di un mortale. Era Nicolas ed era vivo: potevo udire la corrente vulnerabile dei suoi pensieri mescolata al suo dolore. E c’era qualcosa di orribilmente stravolto nei suoi pensieri. Erano un caos.

Non potevo sapere se Gabrielle l’aveva captato.

All’improvviso venimmo scagliati insieme nella polvere. Gli altri indietreggiarono.

Mi alzai e sollevai Gabrielle. E vidi che eravamo in una grande camera a cupola, scarsamente illuminata da tre torce che i vampiri tenevano disposte a triangolo. Noi eravamo al centro.

Qualcosa di nero e immenso nel fondo della camera; odore di legna e di pece, di stoffe umide e muffite, e di un mortale vivo: Nicolas.

I capelli di Gabrielle si erano sciolti e le ricadevano sulle spalle mentre si aggrappava a me e si guardava intorno con occhi cauti e calmi, almeno in apparenza.

Intorno a noi si levavano i gemiti, ma le suppliche più penetranti giungevano dagli altri esseri che avevamo udito in precedenza, le creature nelle viscere della terra.

E compresi che erano vampiri sepolti, quelli che urlavano, urlavano invocando il sangue, invocavano il perdono e la liberazione, e persino le fiamme dell’inferno. Il suono era insopportabile quanto il lezzo.

Non percepivo un pensiero autentico irradiato da Nicki, ma solo il lucore tremulo e informe della sua mente. Stava sognando? Era impazzito?

Il rullo dei tamburi era fortissimo e vicino; tuttavia le urla trapassavano continuamente il suono, senza ritmo e senza preavviso. I lamenti di coloro che ci stavano più vicini si spensero, ma i tamburi continuarono: d’un tratto mi parve che il rullo provenisse dall’interno della mia mente.

Tentai disperatamente di non premermi le mani sulle orecchie, e mi guardai intorno.

S’era formato un grande cerchio: c’erano almeno dieci esseri. Vedevo giovani e vecchi, uomini e donne, un bambino… e tutti erano abbigliati con resti di indumenti umani, incrostati di terra, i piedi scalzi e i capelli sporchi. C’era la donna che mi aveva parlato sulla scala, e il suo corpo ben modellato era avvolto in una veste lurida, gli occhi neri scintillavano come gemme nella sporcizia mentre ci studiava. E al di là di questa avanguardia ce n’erano due che, nell’ombra, battevano sui tamburi.

In silenzio invocai la forza. Cercai di udire Nicolas senza pensare a lui. Un voto solenne: Farò in modo che usciamo tutti di qui, anche se al momento non so esattamente come.

Il rullo dei tamburi rallentava, diventava una cadenza disgustosa che mi serrava la gola con una morsa di paura. Uno dei portatori di torcia si avvicinò.

Sentivo l’aspettativa degli altri, l’eccitazione palpabile mentre la fiamma si accostava a me.

Strappai la torcia all’essere e gli torsi la mano destra fino a costringerlo in ginocchio. Con un calcio violento lo stesi; e, quando gli altri si avventarono, roteai la torcia per tenerli lontani.

Poi, con un gesto di sfida, buttai la torcia a terra.

Il gesto li colse alla sprovvista. Percepii un silenzio improvviso. L’eccitazione si era dileguata; o meglio era diventata qualcosa di più paziente e meno frenetico.

I tamburi battevano con insistenza; ma sembrava che i vampiri li ignorassero. Fissavano le fibbie delle nostre scarpe, i nostri capelli e le nostre facce, con un’ansia che appariva minacciosa e famelica. E il bambino, con un’espressione angosciata, tese la mano per toccare Gabrielle.

«Indietro!» sibilai. Obbedì e raccolse da terra la torcia.

Ma ora lo sapevo con certezza: eravamo circondati dall’invidia e dalla curiosità, ed era il nostro vantaggio più forte.

Girai lo sguardo dall’uno all’altro. Lentamente, incominciai a scuotermi il sudiciume dalla giacca e dalle brache, mi assestai il mantello sulle spalle. Quindi mi passai la mano tra i capelli e incrociai le braccia. Ero l’immagine della dignità più virtuosa, mentre mi guardavo intorno.

Gabrielle sorrise lievemente. Stava composta, con la mano sull’impugnatura della spada.

Tutti gli altri erano sbalorditi. La femmina dagli occhi scuri sembrava affascinata. Le strizzai l’occhio. Sarebbe stata piacente se qualcuno l’avesse buttata sotto una cascata e ce l’avesse tenuta per mezz’ora; glielo dissi, in silenzio. La femmina indietreggiò di due passi e si chiuse la veste sul seno. Interessante. Molto interessante, davvero.

«Qual è la spiegazione di tutto questo?» chiesi, fissandoli a uno a uno come se fossero individui molto bizzarri. Gabrielle sorrise di nuovo.

«Che cosa volete essere?» chiesi. «Immagini di spettri che vanno in giro scuotendo le catene e infestando i cimiteri e gli antichi castelli?»

Si scambiavano occhiate un po’ inquiete. I tamburi non suonavano più.

«La mia balia mi raccontava spesso storie di diavoli», dissi. «Mi diceva che da un momento all’altro potevano schizzar fuori dalle armature per portarmi via.» Battei con forza il piede e avanzai. «È questo che siete?» Arretrarono urlando.

Ma la donna dagli occhi neri non si mosse.

Risi sommessamente.

«E i vostri corpi sono come i nostri, no?» Domandai. «Lisci, privi di difetti. E nei vostri occhi vedo un riflesso dei miei poteri. È molto strano…»

Erano confusi. E gli ululati che provenivano dai muri sembravano più fiochi, come se i vampiri sepolti ascoltassero nonostante la sofferenza.

«È così piacevole vivere tra il sudiciume e il fetore?» Chiesi. «Lo fate per questo?»

Paura. Di nuovo invidia. Si chiedevano come eravamo riusciti a sottrarci al loro destino.

«Il nostro capo è Satana», disse in tono brusco la donna dagli occhi neri. Era la voce di una persona colta. Doveva essere stata ragguardevole, quand’era mortale. «E serviamo Satana come è doveroso.»

«Perché?» chiesi educatamente.

Costernazione generale.

Un vago barlume di Nicolas. Un agitarsi senza direzione. Aveva sentito la mia voce?

«Con la tua sfida attirerai la collera di Dio su tutti noi», disse il ragazzo, il più giovane di tutti, che non poteva aver avuto più di sedici anni quanto era stato fatto vampiro. «Per vanità e perversione, tu dispregi le Usanze Tenebrose. Vivi tra i mortali! Ti aggiri nei luoghi della luce.»

«E perché non lo fate anche voi?» chiesi. «Dovrete andare in paradiso volando sulle ali candide, quando si sarà concluso questo vostro soggiorno penitenziale? È questo che vi ha promesso Satana? La salvezza eterna? Al vostro posto non ci conterei.»

«Finirai nell’abisso infernale per i tuoi peccati!» disse un’altra, una minuscola megera. «Non avrai più il potere di compiere il male sulla terra.»

«E quando dovrebbe accadere?» chiesi. «Sono ciò che sono da sei mesi e Dio e Satana non mi hanno mai dato fastidio. Siete voi a darmene!»

Rimasero paralizzati per un momento. Perché non eravamo morti folgorati quando eravamo entrati nelle chiese? Come potevamo essere ciò che eravamo?

Molto probabilmente avrei potuto disperderli in quel momento. Ma Nicki? Se i suoi pensieri avessero avuto un orientamento, avrei avuto un’immagine esatta di ciò che stava al di là dell’enorme mucchio di stoffa nera e ammuffita.

Continuai a osservare i vampiri.

Legna, resina… là c’era sicuramente una pira. E quelle maledette torce.

La donna dagli occhi scuri si avvicinò. Non c’era malizia, in lei: era soltanto affascinata. Ma il ragazzo la spinse da parte, esasperandola. Si avvicinò tanto che sentii sulla faccia il suo alito:

«Bastardo!» Disse. «Sei stato fatto vampiro dal reietto Magnus, in una sfida alla congrega, in una sfida alle Leggi Tenebrose. E così pure hai dato il Dono Tenebroso a questa donna, con la stessa avventatezza e vanità con cui era stato dato a te.»

«Se Satana non punisce», disse la megera, «puniremo noi, com’è nostro dovere e nostro diritto!»

Il ragazzo indicò la pira drappeggiata di nero e accennò agli altri di scostarsi.

I tamburi ripresero a suonare, rapidamente. Il cerchio si allargò, i portatori di torce si avvicinarono ai drappi.

Due degli altri strapparono i grandi teli di sargia nera che sollevarono nubi di polvere soffocante.

La pira era grande quanto quella che aveva divorato Magnus.

E in cima, dentro una rudimentale gabbia di legno, Nicolas era inginocchiato contro le sbarre. Ci fissava ciecamente, e il suo viso e i suoi pensieri non lasciavano capire che ci avesse riconosciuti.

I vampiri alzarono le torce perché lo vedessimo. Sentii la loro eccitazione ingigantire di nuovo, come quando ci avevano costretti a rifugiarci nella cripta.

Gabrielle mi ammoniva di restare calmo, stringendomi la mano. La sua espressione non era cambiata.

C’erano segni bluastri sulla gola di Nicolas. Le trine della camicia erano luride, le brache erano strappate. Era coperto di lividi, dissanguato, quasi in punto di morte.

La paura esplose silenziosa nel mio cuore. Ma sapevo che era ciò che volevano vedere, e la suggellai dentro di me.

La gabbia non è niente. Posso sfondarla. E ci sono soltanto tre torce. Il problema è: quando e come muoverci. Non saremmo periti così, comunque.

Fissai con freddezza Nicolas, le fascine, i ciocchi tagliati rozzamente. La collera traboccò. Il viso di Gabrielle era una perfetta maschera d’odio.

Il gruppo parve percepirlo e sembrò allontanarsi un poco, per poi riavvicinarsi tra confusione e incertezza.

Ma stava accadendo qualcos’altro. Il cerchio tornò a stringersi.

Gabrielle mi toccò il braccio.

«Sta arrivando il capo», disse.

Chissà dove, si era aperta una porta. I tamburi rullarono più forte, e sembrò che coloro che erano imprigionati oltre le pareti precipitassero in un dolore senza fondo e supplicassero di venire perdonati e liberati. I vampiri intorno a noi ripeterono freneticamente quelle grida. Dovetti fare uno sforzo per non tapparmi le orecchie.

Un istinto fortissimo mi disse di non guardare il capo. Ma non potevo resistere. Lentamente mi voltai per osservarlo e per valutare i suoi poteri.

2.

Era avviato verso il centro del grande cerchio, con le spalle rivolte alla catasta. Aveva al fianco una strana vampira.

E, quando lo guardai nella luce delle torce, provai lo stesso sconvolgimento dell’attimo in cui era entrato in Notre-Dame.

Non era dovuto soltanto alla sua bellezza, ma all’innocenza sorprendente del viso fanciullesco. Si muoveva con tanta leggerezza che non vedevo i suoi piedi compiere i passi. Gli occhi immensi ci guardavano senza collera e i capelli, per quanto velati di polvere, irradiavano barbagli rossastri.

Cercai di sondare la sua mente, di scoprire perché un essere tanto sublime dovesse comandare quegli spettri miserabili quando avrebbe potuto vagare in tutto il mondo. Tentai di riandare a ciò che avevo quasi scoperto mentre stavamo davanti all’altare della cattedrale, io e l’essere. Se l’avessi compreso, forse avrei potuto sconfiggerlo come desideravo.

Mi sembrava di vedere che reagiva a me, in una risposta silenziosa, un lampo paradisiaco nell’abisso dell’inferno, nella sua espressione innocente, come se il diavolo conservasse ancora il viso e la forma dell’angelo dopo la caduta.

Ma c’era qualcosa che non andava. Il capo non parlava. I tamburi continuavano a rullare freneticamente, ma senza convinzione. La vampira dagli occhi scuri non ululava come i suoi simili. E poi anche gli altri smisero.

E la donna che era entrata con il capo, una strana creatura abbigliata come un’antica regina, con una veste lacera e una cintura intrecciata, cominciò a ridere.

La congrega, o quello che era, ne fu comprensibilmente sbalordita. Uno dei suonatori di tamburo si fermò.

La regina rise ancora più forte. I denti bianchi balenarono tra il velo sudicio dei capelli arruffati.

Un tempo era stata molto bella. E non era l’età mortale a devastarla. Piuttosto, sembrava folle: la bocca era atteggiata in una smorfia orribile, gli occhi erano sbarrati, il corpo era piegato in un arco dall’ilarità, come Magnus mentre danzava intorno alla propria pira funebre.

«Non vi avevo avvertito?» urlò. «Non vi avevo avvertito?»

Lontano, dietro quella, Nicolas si mosse nella gabbia. Sentivo che la risata era un affronto per lui. Ma mi guardava, e la sensibilità d’un tempo era impressa su quei lineamenti distorti. La paura lottava in lui con la malizia, e questa si aggrovigliava allo stupore e alla disperazione.

Il capo dai riccioli fulvi fissava la regina vampira con un’espressione indecifrabile, e il ragazzo con la torcia si fece avanti e ordinò alla donna di tacere. Nonostante gli stracci, aveva un aspetto piuttosto regale.

La regina gli voltò le spalle e si girò verso di noi. Cantilenò le parole con una voce roca e asessuata che lasciò il posto a un’ilarità senza freno.

«L’ho detto mille volte, eppure non avete voluto ascoltarmi», dichiarò. La veste le ondeggiava addosso mentre lei fremeva. «Avete detto che ero pazza, vittima del tempo, una Cassandra delirante corrotta da una permanenza troppo lunga su questa terra. Ebbene, come vedete tutte le mie predizioni si sono avverate.»

Il capo non la degnò di una risposta.

«E c’è voluto questo essere…» La regina si avvicinò a me. La sua faccia era un’orrenda maschera comica, come lo era stata quella di Magnus. «Questo cavaliere scapestrato per dimostrarvelo, una volta per tutte.»

Sibilò, trasse un lungo respiro e si piazzò eretta. E per un momento, nell’immobilità, divenne bellissima. Avrei voluto pettinarle i capelli, lavarli con le mie mani, e abbigliarla di un abito moderno, vederla nello specchio del mio tempo. La mia mente fu travolta all’improvviso da quell’idea, della prospettiva di riscattarla, di eliminare il travestimento malefico.

Credo che, per un secondo, arse in me il concetto di eternità. Compresi cosa significava l’immortalità. Per lei tutto era possibile, o almeno così mi parve in quel momento.

Mi guardò e captò le visioni; e la bellezza del suo volto si intensificò. Ma già stava ritornando l’umore della follia.

«Puniteli», urlò il ragazzo. «Invocate il giudizio di Satana. Accendete il fuoco.»

Ma nessuno si mosse.

La vecchia canticchiava con le labbra chiuse, una bizzarra melodia con la cadenza dell’eloquio. Il capo rimase a occhi sgranati, come prima.

Il ragazzo, preso dal panico, avanzò verso di noi. Snudò le zanne e contrasse la mano.

Gli strappai la torcia e gli sferrai con noncuranza un colpo al petto che lo scagliò attraverso il cerchio polveroso e lo fece scivolare sulle fascine contro la pira. Spensi la torcia sul pavimento.

La regina vampira proruppe in una risata stridula che parve atterrire gli altri. Ma la faccia del capo non cambiò.

«Non intendo accettare il giudizio di Satana», dissi guardandomi intorno. «A meno che conduciate qui Satana in persona.»

«Sì, diglielo, figliolo! Costringili a risponderti», fece trionfante la vecchia.

Il ragazzo s’era rialzato.

«Conoscete le loro colpe!» ruggì, rientrando nel cerchio. Era furioso e irradiava potere; e mi rendevo conto che era impossibile giudicarli dalle loro forme mortali. Forse il ragazzo era un anziano, la minuscola megera era una bambinella, e il capo dall’aspetto fanciullesco il più vecchio di tutti.

«Guardate!» disse avvicinandosi. Gli occhi grigi brillarono quando percepì l’attenzione degli altri. «Questo demonio non era un novizio qui o altrove; non ha implorato di essere ammesso. Non ha fatto voto a Satana. Non ha rinunciato all’anima sul letto di morte: anzi, non è morto!» La voce divenne più alta, più forte. «Non è stato sepolto! Non è risorto dalla tomba come Figlio delle Tenebre! E invece osa aggirarsi nel mondo sotto l’aspetto di un essere vivente! E proprio a Parigi continua a occuparsi dei suoi affari come un mortale!»

Dalle pareti gli risposero urla e strida: ma i vampiri del cerchio tacevano. A lui tremava il mento.

Alzò le braccia e ululò. Uno o due degli altri risposero. La sua faccia era sfigurata dalla rabbia.

La vecchia regina proruppe in una risata fremente e mi rivolse il suo sorriso più demenziale.

Ma il ragazzo non desistette.

«Cerca i conforti del focolare, che sono rigorosamente proibiti», urlò battendo il piede e scuotendosi le vesti. «Entra nei palazzi dei piaceri carnali e si mescola ai mortali che suonano musica e danzano!»

«Finiscila!» dissi io. Ma per la verità volevo che continuasse.

Il ragazzo si avvicinò, mi puntò l’indice contro la faccia. «Nessun rituale può purificarlo!» gridò. «È troppo tardi per i Voti Tenebrosi, per le Benedizioni Tenebrose…»

«Voti Tenebrosi? Benedizioni Tenebrose?» Mi rivolsi alla vecchia regina. «Che cosa rispondi? Tu sei vecchia quanto lo era Magnus quando si è buttato nel fuoco… perché tolleri che costui continui?»

I suoi occhi si mossero come se fossero la sola cosa, in lei, a possedere la vita. E proruppe di nuovo in una risata torrenziale.

«Non ti farò mai alcun male, giovane», disse. «A nessuno di voi.» Guardò teneramente Gabrielle. «Siete sulla Strada del Diavolo, avviati verso una grande avventura. Che diritto ho di intromettermi in ciò che i secoli hanno in serbo per voi?»

La Strada del Diavolo. Era la prima frase pronunciata da qualcuno di loro che avesse fatto squillare una tromba nella mia anima. L’esaltazione s’impadronì di me, mentre la guardavo. A suo modo, era la gemella di Magnus.

«Oh, sì, sono vecchia come il tuo progenitore.» Sorrise e le zanne bianche toccarono il labbro inferiore e svanirono. Guardò il capo che la osservava senza il minimo interesse. «Ero qui, in questa congrega quando Magnus ci rubò i nostri segreti, l’astuto alchimista Magnus… quando bevve il sangue che gli avrebbe dato la vita eterna, in un modo quale il Mondo della Tenebra non aveva mai veduto. Ora sono trascorsi tre secoli, e ha trasmesso il suo Dono Tenebroso, puro e incontaminato, proprio a te, bel figlio!»

La faccia ridivenne una maschera ghignante da commedia, così simile alla faccia di Magnus.

«Mostrami la forza che ti ha dato, figlio», disse la regina. «Sai cosa significa essere fatto vampiro da uno tanto potente che non ha mai concesso prima il Dono? Qui è proibito, figlio: nessuno di quell’età trasmette il suo potere. Perché se così fosse, il novellino nato da lui sconfiggerebbe facilmente questo grazioso capo e la sua congrega.»

«Basta con questa follia!» l’interruppe il ragazzo.

Ma tutti ascoltavano. La bella donna dagli occhi scuri s’era avvicinata a noi per vedere meglio la vecchia regina, e aveva dimenticato di temerci o di odiarci.

«Avevi detto abbastanza già cent’anni fa», ruggì il ragazzo alla vecchia regina, con la mano alzata per imporle il silenzio. «Sei pazza come tutti i vecchi. Io dico che questo fuorilegge dev’essere punito. L’ordine sarà ristabilito quando lui e la donna saranno stati annientati davanti a noi.»

Si rivolse agli altri con rinnovato furore. «Io vi dico che vi aggirate su questa terra come tutte le creature malefiche per volontà di Dio, perché i mortali soffrano per la sua Gloria Divina. E per volontà di Dio potete essere annientati se bestemmiate, ed essere gettati negli abissi dell’inferno perché siete anime dannate e la vostra immortalità vi è stata data solo a prezzo di sofferenze e tormenti.»

Si levò un coro incerto di gemiti e ululati.

«Dunque è questa», dissi io, «è questa la vostra filosofia. Ed è fondata su una menzogna. Tremate come contadini, siete già all’inferno per vostra scelta, incatenati più dell’ultimo dei mortali, e volete punirci perché noi non siamo come voi! Seguite il nostro esempio, invece!»

Alcuni dei vampiri ci fissavano, altri confabulavano freneticamente tra loro. Continuavano a lanciare occhiate al loro capo e alla vecchia regina.

Ma il capo non diceva nulla.

Il ragazzo urlò per ristabilire l’ordine. «Non basta che abbia profanato luoghi sacri», disse. «Non basta che si aggiri come un mortale. Proprio questa notte, in un villaggio della periferia ha terrorizzato i fedeli di una chiesa. Tutta Parigi parla di questo orrore, i diavoli risorti dalle tombe sotto l’altare, lui e questa vampira sulla quale ha compiuto l’Opera Tenebrosa senza consenso e senza rituale, esattamente com’era stato fatto con lui.»

Vi furono esclamazioni e mormoni. Ma la vecchia regina rise di gioia.

«Sono colpe gravissime», continuò il ragazzo. «Non possono restare impunite. E chi tra voi non conosce le sue buffonate sul palcoscenico del teatro che possiede come un mortale! Di fronte a mille parigini ha ostentato i suoi poteri di Figlio delle Tenebre! E la segretezza che noi abbiamo protetto per secoli si è spezzata per il suo divertimento e il divertimento del volgo.»

La vecchia regina si fregò le mani e inclinò la testa per guardarmi. «È tutto vero, figlio?» chiese. «Sei stato in un palco dell’Opera? Sei stato davanti alle luci della ribalta del Théâtre-Française? Hai ballato con il re e la regina al palazzo delle Tuileries, con la bellezza che hai creato in modo così perfetto? È vero che hai percorso i boulevard con una carrozza dorata?»

Rideva e rideva, e ogni tanto fissava gli altri intimidendoli come se irradiasse raggi di luce.

«Ah, che eleganza e che dignità», continuò. «Cos’è accaduto nella grande cattedrale quando vi siete entrati? Dimmelo!»

«Assolutamente nulla, signora!» dichiarai.

«Colpe gravissime!» ruggì indignato il ragazzo vampiro. «Sono cose tali da scatenare contro di noi una città, se non un regno. E dopo secoli in cui abbiamo depredato furtivamente questa metropoli, dando origine solo a sussurri sul nostro grande potere… Noi siamo creature della notte destinate ad alimentare le paure degli uomini, non siamo demoni deliranti.»

«Ah, ma è troppo sublime», esclamò la vecchia regina, con gli occhi levati al soffitto. «Dal mio cuscino di pietra ho sognato il mondo dei mortali. Ho udito le sue voci, la sua musica nuova, nenie che mi cullano nella tomba. Ho visto le sue scoperte fantastiche, ho conosciuto il suo coraggio nel sacrario eterno dei miei pensieri. E, sebbene mi escluda con le sue forme abbaglianti, attendo qualcuno che abbia la forza di aggirarvisi senza paura e di percorrere la Strada del Diavolo attraverso il suo cuore.»

Il ragazzo dagli occhi grigi era fuori di sé. «Fai a meno del processo», disse fissando il capo. «Accendi subito il rogo.»

La regina si scostò con un gesto enfatico e il ragazzo tese la mano verso la torcia più vicina. Mi avventai, gli strappai la torcia e lo scagliai verso il soffitto. Cadde, e io spensi la fiamma.

Restava una sola torcia. La congrega era in subbuglio. Alcuni accorsero in aiuto del ragazzo, gli altri mormoravano tra loro, e il capo era ancora immobile come in un sogno.

Mi mossi, salii sulla pira e strappai una parete della piccola gabbia di legno.

Nicolas sembrava un cadavere animato. Aveva gli occhi plumbei e la bocca contratta come se mi sorridesse, odiandomi, dall’oltretomba. Lo trascinai fuori dalla gabbia, giù sul pavimento. Era febbricitante e, sebbene cercassi di ignorarlo, mi respingeva e mi malediceva sottovoce.

La vecchia regina assisteva affascinata. Lanciai un’occhiata a Gabrielle, che osservava la scena senza paura. Tirai fuori dal panciotto il rosario di perle e, lasciando penzolare il crocifisso, lo misi al collo di Nicolas che guardò la piccola croce, stordito, e cominciò a ridere. Il disprezzo, la malizia eruppero da lui in quel suono metallico. Era l’opposto dei suoni emessi dai vampiri. Vi si sentiva il sangue umano, lo spessore umano che echeggiava contro le pareti. All’improvviso appariva sanguigno e caldo e stranamente incompiuto, l’unico mortale tra noi, come un bambino buttato in mezzo a tante bambole di porcellana.

La congrega era ancora più confusa. Le due torce spente non erano state toccate.

«Ora, secondo le vostre leggi, non potete fargli alcun male», dissi. «Tuttavia è stato un vampiro a dargli la protezione sovrannaturale. Ditemi, cosa ne pensate?»

Portai avanti Nicki, e Gabrielle si tese per prenderlo tra le braccia.

Nicolas lasciò fare, sebbene la guardasse come se non la conoscesse e alzasse le dita per toccarle il viso. Lei gli fermò la mano come se avesse a che fare con un bambino e tenne lo sguardo fisso su di me e sul capo.

«Se il vostro capo non ha nulla da dirvi, ho qualcosa da dire io», continuai. «Andate a lavarvi nelle acque della Senna e vestitevi come umani, se ricordate come si fa, e aggiratevi tra gli uomini com’è vostro destino.»

Il ragazzo vampiro, sconfitto, indietreggiò e tornò nel cerchio, scostando bruscamente coloro che l’avevano aiutato a rialzarsi. «Armand», implorò, rivolgendosi al capo dai capelli fulvi. «Richiama all’ordine la congrega. Armand! Salvaci!»

«Perché, in nome dell’inferno», gridai io, «il diavolo vi dona bellezza, agilità, occhi per scrutare visioni, menti per gettare incantesimi?»

Mi fissavano tutti. Il ragazzo dagli occhi grigi gridò ancora il nome di Armand, ma inutilmente.

«Voi sprecate i vostri doni», dissi. «Peggio ancora, sprecate la vostra immortalità! In tutto il mondo non v’è nulla di tanto assurdo e contraddittorio, eccettuati i mortali che vivono dominati dalle superstizioni del passato.»

C’era un silenzio assoluto. Sentivo il respiro lento di Nicki, sentivo il suo calore. Sentivo il suo interesse intorpidito che lottava contro la morte.

«Non avete astuzia?» chiesi agli altri alzando la voce nel silenzio? «Non avete ingegno? Com’è possibile che io, orfano, abbia scoperto queste possibilità quando voi, nutriti come siete da quei genitori malefìci…» M’interruppi per indicare il capo e il ragazzo infuriato, «Quando voi brancolate sottoterra come creature cieche?»

«Il potere di Satana ti precipiterà nell’inferno», urlò il ragazzo con tutta la forza che gli restava.

«Tu continui a ripeterlo», ribattei. «Ma continua a non accadere, e tutti possiamo vederlo.»

Vi furono mormorii di assenso.

«E se davvero pensassi che può accadere», continuai, «non ti saresti preoccupato di portarmi qui.»

Gli assensi divennero più sonori.

Guardai la figura solitaria del capo. Tutti gli occhi si rivolsero verso di lui, persino quelli della regina pazza.

Nel silenzio lo sentii sussurrare: «È finita».

Neppure i tormentati, prigionieri dietro le pareti, emisero un suono.

Il capo riprese a parlare: «Andate, tutti. E finita»,

«Armand, no!» implorò il ragazzo.

Ma gli altri indietreggiavano con le facce nascoste dalle mani. I tamburi furono gettati da parte, l’unica torcia venne appesa alla parete,

Guardai il capo. Sapevo che le sue parole non ordinavano la nostra liberazione.

E, quando ebbe allontanato il ragazzo assieme agli altri, quando rimase con lui soltanto la regina, volse nuovamente lo sguardo su di me.

3.

Adesso la grande camera vuota sotto la cupola immensa, dov’erano rimasti soltanto due vampiri, sembrava ancora più lugubre. L’unica torcia emanava una luce debole e tetta,

Riflettei in silenzio. Gli altri lasceranno il cimitero, mi chiesi, o attenderanno in cima alle scale? Mi permetteranno di portare via Nicki vivo? Il ragazzo starà vicino, ma è debole; la vecchia regina non farà nulla. In realtà, resta soltanto il capo. Ma ora non devo essere impulsivo.

Il capo continuava a fissarmi in silenzio,

«Armand?» dissi rispettosamente. «Posso chiamarti così?» Mi avvicinai, scrutandolo per vedere se cambiava espressione. «Evidentemente, sei il capo. E sei quello che può spiegarci tutto.»

Ma le parole erano una misera copertura dei miei pensieri. Mi appellavo a lui. Gli chiedevo come aveva condotto i vampiri a tutto questo, lui che appariva antico quanto la vecchia regina e abbracciava profondità che gli altri non potevano scrutare. Lo rividi davanti all’altare di Notre-Dame, con quell’espressione eterea sul viso. E mi ritrovai in lui, in quell’essere antico che era rimasto in silenzio tanto a lungo.

Credo che lo sondai per cercare almeno un fuggevole sentimento umano. Pensavo che la saggezza l’avrebbe rivelato. E il mortale che era in me e che aveva pianto nella locanda di fronte alla visione del caos, disse.

«Armand, qual è il significato di tutto questo?»

Mi sembrò che gli occhi scuri si offuscassero. Ma poi il viso si trasformò, e la sua rabbia era tale da costringermi ad arretrare.

Non credevo ai miei sensi. I cambiamenti improvvisi che aveva subito in Notte-Dame erano cose da nulla, al confronto, E non avevo mai visto un’incarnazione così perfetta della malvagità. Persino Gabrielle arretrò. Alzò la mano destra per proteggere Nicki, e io continuai a indietreggiare fino a che le fui accanto e le nostre braccia si toccarono.

Ma nello stesso modo miracoloso l’odio si dissolse. Il viso ridivenne quello di un ragazzo mortale, dolce e fresco.

La vecchia regina vampira sorrise e si passò gli artigli bianchi tra i capelli.

«Chiedi una spiegazione a me?» disse il capo.

Gorò lo sguardo su Gabrielle e su Nicolas che, stordito, le stava appoggiato alla spalla. Poi tornò a fissare me.

«Potrei parlare sino alla fine del mondo», disse, «senza riuscire a dirti che cosa hai distrutto qui.»

Mi parve che la vecchia regina facesse udire uno sbuffo irridente; ma ero troppo affascinato da lui, dalle parole sommesse e dalla collera che gli infuriava dentro.

«Questi misteri esistono dall’inizio del tempo», disse. Sembrava piccolo e minuto nella camera immensa, e la voce era sciolta, le mani abbandonate lungo i fianchi. «Fin dai tempi più antichi i nostri simili hanno infestato le città dell’uomo, e la notte hanno fatto vittime come comandavano Dio e il diavolo. Noi siamo gli eletti di Satana, e coloro che vengono ammessi nei nostri ranghi devono dimostrarsi degni commettendo cento crimini, prima che venga loro concesso il Dono Tenebroso dell’Immortalità.»

Si accostò un poco. La luce della torcia gli brillava nelle pupille. «Agli occhi dei loro cari, sembravano morire», disse. «E con una piccola infusione del nostro sangue sopportavano il terrore del sepolcro mentre ci attendevano. Allora e soltanto allora veniva accordato il Dono Tenebroso; e venivano sigillati di nuovo nella tomba, fino a che la sete dava loro la forza di spezzare la bara e di risorgere.»

La voce diventò più forte, risonante. «Era la morte, ciò che conoscevano in quelle camere buie», continuò. «E quando risorgevano comprendevano la morte e il potere del male, mentre spezzavano la bara e le porte di ferro che li tenevano imprigionati. E tanto peggio per i deboli, coloro che non potevano uscire, coloro i cui gemiti facevano accorrere i mortali il giorno dopo… perché nessuno avrebbe risposto durante la notte. Non avevamo pietà di loro.

«Ma coloro che risorgevano… ah, erano i vampiri che si aggiravano sulla terra, purificati e messi alla prova, Figli delle Tenebre, nati dal sangue di un novizio, mai dal potere pieno di un vecchio maestro, in modo che il tempo portasse la saggezza per usare i Doni Tenebrosi prima che diventassero veramente forti. A costoro venivano imposte le Leggi delle Tenebre. Vivere tra i morti, perché siamo morti; ritornare sempre alla propria tomba o a una molto simile; evitare i luoghi illuminati, attirare le vittime lontano dagli altri, per ucciderle in luoghi sconsacrati: e onorare in eterno la potenza di Dio, il crocifisso intorno al collo, i sacramenti; e non entrare mai nella Casa di Dio per non essere privati dei poteri e gettati nell’inferno e finire il regno sulla terra fra i tormenti.»

Tacque. Per la prima volta guardò la vecchia regina; e, per quanto non fossi sicuro, ebbi l’impressione che la sua faccia lo esasperasse.

«Tu disprezzi tutte queste cose», le disse. «Magnus le disprezzava!» Incominciò a tremare. «Era nella natura della sua pazzia, come è nella natura della tua: ma ti ripeto che non comprendi questi misteri! Li infrangi come se fossero vetri, ma non hai forza né potere al di fuori dell’ignoranza. Distruggi e nulla più.»

Si voltò, esitò come se non volesse proseguire, e girò lo sguardo nell’immensa cripta.

Sentii che la vecchia regina vampira cantava sommessamente.

Canticchiava sottovoce. Poi incominciò a dondolarsi, con la testa da una parte, gli occhi sognanti. Ancora una volta, sembrava bella.

«È finita per i miei figli», sussurrò il capo. «È finita, perché ora sanno che possono disprezzare tutto, le cose che ci univano e che ci davano la forza di resistere come esseri dannati. I misteri che ci proteggevano.»

Tornò a guardarmi. «E tu chiedi spiegazioni come se fosse inesplicabile!» disse. «Tu, per il quale l’Opera Tenebrosa è un atto di avidità svergognata. L’hai donata al grembo che ti ha partorito! Perché allora non anche al violinista del diavolo, che adori ogni notte da lontano?»

«Non l’avevo detto?» cantilenò la regina vampira. «Non l’abbiamo sempre saputo? Non c’è motivo di temere il segno della croce o l’acqua santa o il sacramento.,…» Ripeté le parole, variando la melodia sommessa. «E i vecchi riti, l’incenso, il fuoco, i voti pronunciati, quando credevamo di vedere il Maligno che bisbigliava nel buio…»

«Silenzio!» disse il capo, abbassando la voce. Si portò le mani agli orecchi in un gesto stranamente umano. Sembrava quasi un ragazzo sperduto. Dio, era strano che i nostri corpi immortali potessero essere per noi prigioni così variate, e che le nostre facce immortali potessero essere maschere per le nostre vere anime.

Mi fissò di nuovo. Per un momento pensai che stesse per avvenire un’altra di quelle orrende trasformazioni, o che prorompesse in una violenza irrefrenabile, e mi preparai.

Invece mi implorava in silenzio.

«Perché è accaduto tutto questo?» La voce quasi gli mancò nella gola arida mentre lo ripeteva alzando il tono e cercava di dominare la rabbia. «Spiegalo tu a me! Perché tu, tu che hai la forza di dieci vampiri e il coraggio di tutti i diavoli dell’inferno, ti aggiri nel mondo con vesti di broccato e stivali di cuoio! Lelio, l’attore della Casa di Tespi, che ci trasforma in un dramma sensazionale sul boulevard! Dimmelo! Dimmi perché!»

«È stata la forza di Magnus, il genio di Magnus», cantò la regina vampira con il suo sorriso più malinconico.

«No!» Armand scosse la testa. «Ti dico che è inspiegabile. Non conosce limiti e quindi non ha limiti. Ma perché?»

Si avvicinò un poco. Sembrava non che camminasse, ma che si mettesse a fuoco, come un’apparizione.

«Perché tu, con l’audacia di camminare per le loro strade, di spezzare le loro serrature, di chiamarli per nome? Loro ti acconciano i capelli, ti confezionano gli abiti! Giochi d’azzardo ai loro tavoli! Li inganni, li abbracci, bevi il loro sangue a pochi passi dal luogo dove altri mortali ridono e danzano. Tu che eviti i cimiteri ed esci dalle cripte delle chiese. Perché tu? Arrogante, privo di scrupoli, ignorante e irridente! Dammela tu, la spiegazione. Rispondimi!»

Il mio cuore batteva forte. Il mio viso era caldo e pulsante di sangue. Non avevo paura di lui, ma la mia collera trascendeva ogni collera mortale, e non capivo pienamente il perché.

La sua mente… avevo desiderato penetrare nella sua mente… ed era questo che udivo, la superstizione e l’assurdità di questo. Non era uno spirito sublime, capace di comprendere ciò che non avevano capito i suoi seguaci. Non l’aveva creduto… aveva creduto in questo, il che era mille volte peggio!

E intuii con chiarezza che cos’era: non era un angelo né un demone, bensì una sensibilità forgiata in un tempo buio quando il piccolo globo solare si spostava nella volta del cielo, e le stelle non erano altro che minuscole lanterne e raffiguravano dei e dee su una notte chiusa. Un tempo in cui l’uomo era il centro del grande mondo in cui vaghiamo, un tempo in cui per ogni interrogativo esisteva una risposta. Ecco che cos’era: un figlio di tempi antichi, quando le streghe ballavano sotto la luna e i cavalieri combattevano contro i draghi.

Ah, triste figlio perduto che si aggirava nelle catacombe sotto una grande città e in un secolo incomprensibile! Forse la tua forma mortale ti si addice più di quanto io abbia immaginato.

Ma non c’era tempo di rattristarmi per lui, per quanto fosse bellissimo. Coloro che erano sepolti dietro le pareti soffrivano per il suo comando. Coloro che aveva allontanato dalla camera potevano venire richiamati.

Dovevo pensare a una risposta che lui potesse accettare. La verità non era sufficiente. Doveva essere modificata poeticamente, come gli antichi pensatori l’avrebbero modificata nel mondo prima dell’età della ragione.

«La mia risposta?» dissi sommessamente. Riordinavo i miei pensieri, e quasi mi pareva di percepire l’ammonimento di Gabrielle, la paura di Nicki. «Io non mi occupo di misteri», dissi. «Non coltivo la filosofia. Ma ciò che è accaduto qui è abbastanza evidente.»

Armand mi osservava con aria stranamente seria e intensa.

«Se temi tanto la potenza di Dio», dissi, «allora gli insegnamenti della Chiesa non ti sono ignoti. Devi sapere che le forme del bene cambiano con le epoche, e che vi sono santi per tutti i tempi sotto il cielo.»

Sembrava attento, quasi riscaldato dalle parole che stavo usando.

«Nei tempi antichi», dissi, «c’erano martiri che spegnevano le fiamme destinate a bruciarli, mistici che s’innalzavano nell’aria e udivano la voce di Dio. Ma con il mutare del mondo, sono cambiati anche i santi. Oggi che cosa sono, se non suore e preti obbedienti? Costruiscono ospedali e orfanotrofi, ma non chiamano gli angeli dal cielo per mettere in fuga gli eserciti e domare le belve.»

Non notai in lui nessun cambiamento, ma insistetti. «E lo stesso, ovviamente, accade con il male. Cambia forma. Quanti uomini di questi tempi credono nelle croci che tanto atterriscono i tuoi seguaci? Pensi che i mortali, lassù, parlino tra loro del paradiso e dell’inferno? Parlano di filosofia e di scienza! A loro che importa se i mostri dalla faccia bianca infestano un cimitero nell’oscurità? Se c’è qualche assassinio in più? Come può, tutto questo, interessare a Dio o al diavolo o all’uomo?»

Sentii la regina vampira ridere di nuovo.

Ma Armand non si mosse e non parlò.

«Anche il vostro campo-giochi sta per esservi tolto», continuai. «Il cimitero in cui vi nascondete sta per essere eliminato. Neppure le ossa dei nostri antenati sono più sacre in quest’epoca laica.»

La sua faccia cambiò. Non riuscì a nascondere l’orrore. «Gli Innocenti… distrutto!» mormorò. «Tu menti…»

«Non mento mai», l’interruppi con noncuranza. «Almeno, non mento a coloro che non amo. Gli abitanti di Parigi non vogliono più avere intorno il lezzo dei cimiteri. Gli emblemi dei morti non contano per loro come contano per te. Fra pochi anni qui vi saranno mercati, vie e strade, commerci e praticità. È il mondo del secolo decimottavo.»

«Basta!» mormorò. «Il Cimitero degli Innocenti esiste da quando esisto io!» La faccia da adolescente era tesa. La vecchia regina appariva imperturbabile.

«Non capisci?» dissi. «È un’epoca nuova e ha bisogno di un nuovo male. E quel male nuovo sono io.» Tacqui, osservandolo. «Io sono il vampiro per questi tempi.»

Non aveva previsto la mia affermazione. E vidi in lui per la prima volta un barlume di comprensione terribile, il primo riflesso di una paura autentica.

Feci un piccolo gesto di accettazione. «L’episodio nella chiesa del villaggio, stanotte», dissi cautamente. «È stato volgare, lo riconosco. Le mie azioni sul palcoscenico… anche peggio. Ma sono stati errori. E sai bene che non sono questi la causa del tuo rancore. Dimenticali, per il momento, e cerca di vedere la mia bellezza e il mio potere. Cerca di vedere il male che io sono. Mi aggiro nel mondo in vesti di mortale… il peggiore dei demoni, il mostro che somiglia esattamente a tutti gli altri.»

La vampira rise, melodiosamente. Lui irradiava soltanto sofferenza, lei il calore dell’affetto.

«Pensa, Armand», insistetti. «Perché la morte dovrebbe stare in agguato nelle ombre? Perché dovrebbe attendere alle porte? Non v’è stanza da letto o sala da ballo dove io non possa entrare. La morte nella luce del focolare, la morte in punta di piedi nel corridoio… ecco ciò che sono. Tu mi parli dei Doni Tenebrosi… io li uso. Sono il Signore della Morte abbigliato di sete e merletti, venuto a spegnere le candele, la putredine nel cuore della rosa.»

Nicolas si lasciò sfuggire un gemito sommesso.

Credetti di sentire Armand sospirare.

«Non v’è luogo dove possano nascondersi da me», continuai, «gli esseri senza Dio e senza poteri che vogliono distruggere il Cimitero degli Innocenti. Non c’è serratura che possa impedirmi di entrare.»

Mi fissava in silenzio. Sembrava triste e calmo. I suoi occhi erano un po’ oscurati, ma non turbati dalla malizia e dalla rabbia. Rimase in silenzio per un lungo istante. Poi…

«Una missione splendida», disse, «perseguitarli senza pietà vivendo in mezzo a loro. Ma continui a non capire.»

«Perché?» chiesi.

«Non puoi durare nel mondo vivendo tra gli uomini. Non puoi sopravvivere.»

«È ciò che faccio», risposi semplicemente. «Gli antichi misteri hanno lasciato il posto a un nuovo stile. E chi sa che cosa verrà poi? Non vi è nulla di avventuroso in ciò che sei, mentre c’è una grande avventura in ciò che io sono.»

«Non puoi essere tanto forte», disse Armand. «Non sai ciò che dici: hai appena incominciato a esistere, sei giovane.»

«Ma questo figlio è fortissimo», mormorò la regina. «E anche la sua bella compagna appena nata. Questi due sono demoni dalle grandi idee e dalla ragione possente.»

«Non potete vivere tra gli uomini!» insisteva Armand.

Il suo viso si colorò per un secondo. Ma adesso non era mio nemico: era un anziano turbato che si sforzava di rivelarmi una verità decisiva. E nello stesso tempo sembrava un bambino implorante. In quella lotta stava la sua essenza, genitore e figlio, e mi implorava di ascoltare ciò che aveva da dire.

«E perché no? Ti dico che il mio posto è tra gli uomini. È il loro sangue che mi rende immortale.»

«Ah, sì, immortale, ma non hai ancora incominciato a capire», disse Armand. «Non è altro che una parola. Pensa al destino del tuo creatore. Perché Magnus si è buttato fra le fiamme? È una verità antichissima per noi, e tu non l’hai neppure intuita. Se vivi tra i mortali, il trascorrere degli anni ti porterà alla follia. Vedere gli altri invecchiare e morire, vedere regni che sorgono e cadono, perdere tutto ciò che comprendi e ami… chi può sopportarlo? Ti spinge al delirio e alla disperazione. Solo i tuoi simili immortali sono la tua protezione, la tua salvezza. Le consuetudini antiche, non capisci? E non sono mai cambiate!»

S’interruppe, sconvolto di aver usato la parola «salvezza» che riverberava nella grande camera mentre le sue labbra la ripetevano.

«Armand», cantilenò sommessamente la vecchia regina, «sappiamo che la follia può colpire i più anziani, sia che si attengano alle vecchie usanze, sia che le abbandonino.» Fece un gesto come per aggredirlo con gli artigli bianchi, e proruppe in una risata stridente quando lui la fissò con freddezza. «Io ho seguito le vecchie usanze come te e per lo stesso tempo, eppure sono pazza, no? Forse è per questo che le ho rispettate tanto bene!»

Armand scosse irosamente la testa. Non era forse lui, la prova vivente che non era così?

Ma la regina si accostò a me, mi prese il braccio e mi fece girare il volto verso di lei.

«Magnus non ti ha detto nulla, figlio?» chiese.

Sentii un potere immenso irradiarsi da lei.

«Mentre altri restavano in questo luogo sacro», disse la regina, «io mi avventurai sui campi coperti di neve in cerca di Magnus. Ora la mia forza è grande ed è come se avessi le ali. Mi arrampicai fino alla sua finestra, lo trovai nella sua camera, e insieme salimmo sugli spalti. Nessuno ci vedeva, tranne le stelle lontane.»

Si fece più vicina e mi strinse più forte. «Magnus sapeva molte cose», disse. «E non è la follia a esserti nemica, se sei davvero forte. Il vampiro che lascia la sua congrega per dimorare fra gli umani deve affrontare un inferno spaventoso, prima che sopravvenga la pazzia. Finisce irresistibilmente per amare i mortali! Finisce per comprendere ogni cosa nell’amore.»

«Lasciami», sussurrai. Il suo sguardo mi tratteneva con la stessa forza delle sue mani.

«Con il passare del tempo conosce i mortali come non possono conoscersi tra loro», continuò imperturbabile la regina inarcando le sopracciglia. «E viene alla fine, il momento in cui non sopporta di togliere la vita o di fare soffrire, e soltanto la follia o la sua morte possono placare la sofferenza. È il destino dei vecchi, che Magnus mi aveva descritto. Magnus che, alla fine, visse tutte queste afflizioni.»

Mi lasciò. Si allontanò da me come un’immagine in uno specchio.

«Non credo a ciò che dici», mormorai. Ma il mormorio era come un sibilo. «Magnus? Amava i mortali?»

«Naturalmente tu non li ami», disse la regina con il suo sorriso buffonesco.

Anche Armand la fissava come se non capisse.

«Ora le mie parole non hanno significato», soggiunse la vampira. «Ma tu hai tutto il tempo del mondo per capire!»

Una risata, una risata ululante che riecheggiava sulla volta della cripta. Altre grida che provenivano dalle pareti. La regina rovesciò all’indietro la testa e continuò a ridere.

Armand la guardava inorridito. Sembrava che vedesse la risata come una luce scintillante.

«No, è soltanto una menzogna, una semplificazione orrenda!» dissi. La testa mi martellava. Gli occhi mi dolevano. «Questa idea dell’amore è un concetto dato all’idiozia morale!»

Mi portai le mani alle tempie. Dentro di me cresceva una sofferenza atroce che offuscava la vista e rendeva più nitido il ricordo della segreta di Magnus, i prigionieri mortali, defunti tra i cadaveri putrefatti di coloro che li avevano preceduti.

Armand mi guardava come se lo torturassi nello stesso modo in cui la vecchia regina lo torturava con le sue risate. E le risate continuarono. Armand tese le mani verso di me, come se volesse toccarmi e non osasse.

Tutta l’estasi e tutte le sofferenze che avevo conosciuto in quegli ultimi mesi si fusero dentro di me. All’improvviso provai l’impulso d’incominciare a ruggire come avevo fatto quella notte sul palcoscenico del teatro di Renaud. Erano sensazioni che mi sgomentavano. Mormoravo ancora una volta, a voce alta, sillabe prive di senso.

«Lestat!» mormorò Gabrielle.

«Amare i mortali?» dissi. Fissavo il volto inumano della vecchia regina, inorridito nel vedere le ciglia nere irte come spine intorno agli occhi scintillanti, la carne come marmo animato. «Amare i mortali? E sono necessari trecento anni?» Fissai Gabrielle. «Fin dalla prima notte, quando li ho tenuti stretti a me, io li ho amati. Li amo mentre bevo la loro vita e la loro morte. Buon Dio, non è questa l’essenza del Dono Tenebroso?»

La mia voce crebbe di volume come quella sera a teatro. «Oh, che cosa siete e non siete? Che cosa abominevole è che questa sia la somma della vostra sapienza, la semplice capacità di sentire!»

Indietreggiai, girando gli occhi su quella tomba gigantesca, la volta di terra umida sopra le nostre teste. Quel luogo si stava trasformando da realtà in allucinazione.

«Dio, perdete la ragione con l’Opera Tenebrosa», domandai, «con i rituali, e la prigionia dei novizi nella tomba? Oppure eravate già mostri quand’eravate vivi? Com’è possibile che noi non amiamo i mortali a ogni respiro?»

Non vi fu risposta, se non le grida dementì degli affamati. Nessuna risposta. Solo il battito fioco del cuore di Nicki.

«Bene, ascoltatemi comunque», dissi.

Puntai l’indice prima verso Armand, quindi verso la vecchia regina. «Non ho mai promesso l’anima al diavolo per questo! E quando ho creato costei, l’ho fatto per salvarla dai vermi che divorano i cadaveri intorno a noi. Se amare i mortali è quell’inferno di cui parlate, io vi sono già. Ho incontrato il mio fato: lasciatemi a esso. Tutti i conti sono chiusi.»

La mia voce s’era spezzata. Ansimavo. Mi passai le mani tra i capelli. Armand sembrava luminoso, mentre si avvicinava a me. Il suo viso era un miracolo di purezza apparente e di reverenza.

«Cose morte, cose morte…» dissi. «Non avvicinarti. Parlare di follia e d’amore in questo luogo fetido. E quel vecchio mostro, Magnus, che li rinchiudeva nella segreta. Come li amava, i suoi prigionieri? Come i bambini amano le farfalle quando gli strappano le ali!»

«No, figlio. Tu credi di comprendere, ma non è così», cantilenò imperturbata la vampira. «Hai appena incominciato ad amare.» Proruppe in una risata sommessa, melodiosa. «Ti dispiace per loro, ecco tutto. E per te stesso, perché non puoi essere contemporaneamente umano e inumano. Non è così?»

«Menzogne!» esclamai. Mi avvicinai a Gabrielle, la cinsi con un braccio.

«Comprenderai tutto nell’amore» continuò la vecchia regina, «quando sarai un essere perverso e odioso. Questa è la tua immortalità, figlio. Una comprensione sempre più profonda.» Alzò le braccia e riprese a ridere.

«Maledetti», dissi. Sollevai Gabrielle e Nicki e, indietreggiando, li trascinai verso la porta. «Siete già all’inferno», dissi, «e all’inferno intendo lasciarvi.»

Tolsi Nicolas dalle braccia di Gabrielle. Corremmo verso la scala.

Dietro di noi, la vecchia regina si era abbandonata a una risata convulsa, frenetica.

E io, forse umano come Orfeo, mi fermai e mi voltai.

«Lestat, presto!» mi sussurrò Nicolas all’orecchio. E Gabrielle mi rivolse un cenno disperato perché mi affrettassi.

Armand non si era mosso, e la vecchia regina gli stava accanto e continuava a ridere.

«Addio, figlio coraggioso», gridò. «Percorri arditamente la Strada del Diavolo. Percorri la Strada del Diavolo più a lungo che puoi.»


La congrega si disperse come una folla di spettri impauriti sotto la pioggia fredda, quando uscimmo dal sepolcro. Sconcertati, rimasero tutti a guardarci mentre attraversavamo correndo il Cimitero degli Innocenti e ci avventuravamo nelle vie affollate di Parigi.

Pochi minuti più tardi rubammo una carrozza e lasciammo la città per l’aperta campagna.


Guidavo implacabilmente la pariglia. Tuttavia ero così stanco che la forza soprannaturale sembrava soltanto un’idea. A ogni boschetto e a ogni curva della strada mi aspettavo di vedere i demoni immondi che tornavano ad accerchiarci.

Ma riuscii a procurarmi in una locanda il cibo e il vino necessari per Nicolas, e le coperte per tenerlo caldo.

Perse i sensi molto prima che arrivassimo alla torre. Lo portai di peso su, nella cella dove mi aveva tenuto Magnus.

Aveva la gola ancora gonfia e livida per i morsi. E, sebbene dormisse profondamente quando lo adagiai sul letto di paglia, sentivo in lui la sete, la sete terribile che avevo provato dopo che Magnus aveva bevuto il mio sangue.

Bene, c’era vino in abbondanza per lui, e cibo, quando si fosse svegliato. E sapevo che non sarebbe morto, anche se non capivo come lo sapessi.

Non riuscivo a immaginare come sarebbero state per lui le ore del giorno. Ma sarebbe stato al sicuro, quando avessi girato la chiave nella serratura. E, per quanto fosse stato importante per me o dovesse esserlo nel futuro, nessun mortale poteva vagare libero nel mio covo mentre io dormivo.

Non riuscivo a pensare ad altro. Ero come un mortale in crisi di sonnambulismo.

Lo stavo ancora fissando e ascoltavo i suoi sogni vaghi e confusi, i sogni degli orrori del Cimitero degli Innocenti, quando entrò Gabrielle. Aveva finito di seppellire lo sventurato mozzo di stalla, e sembrava di nuovo un angelo polveroso, con i capelli aggrovigliati e pieni di frammenti delicati di luce.

Guardò Nicki per un lungo momento, poi mi attirò fuori dalla stanza. Quando ebbi chiuso a chiave la porta, mi condusse nella cripta. Mi cinse con le braccia e mi strinse, come se anche lei fosse esausta.

«Ascoltami», disse infine. Indietreggiò e mi prese il volto fra le mani. «Lo porteremo lontano dalla Francia appena ci risveglieremo. Nessuno crederà alle sue storie pazzesche.»

Non risposi. Stentavo a comprendere i suoi ragionamenti e le sue intenzioni. Mi girava la testa.

«Potrai fare il burattinaio con lui», disse Gabrielle. «Come hai fatto con gli attori di Renaud. Potrai mandarlo nel Nuovo Mondo.»

«Dormi», sussurrai. Le baciai la bocca aperta, la tenni abbracciata con gli occhi chiusi. Rivedevo la cripta, sentivo le strane voci inumane. Tutto questo non sarebbe cessato.

«Dopo che sarà partito, potremo parlare degli altri», disse con calma Gabrielle. «Decideremo se lasciare Parigi per qualche tempo…»

Mi staccai da lei e andai al sarcofago, mi appoggiai per un momento al coperchio di pietra. Per la prima volta nella mia vita di immortale aspiravo al silenzio della tomba e alla sensazione che la realtà fosse sottratta alle mie mani.

Mi sembrò che Gabrielle, poi, dicesse qualcos’altro. Non farlo!

4.

Non appena mi svegliai lo sentii gridare. Batteva contro la porta di quercia e mi malediceva perché lo tenevo prigioniero. Il rumore riempiva la torre e il suo odore mi giungeva attraverso i muri di pietra: succulento, oh, così succulento, l’odore della carne viva e del sangue, la sua carne e il suo sangue.

Gabrielle dormiva ancora.

Non farlo!

Una sinfonia di cattiveria, una sinfonia di demenza che passava attraverso i muri, una filosofìa che si sforzava di contenere le immagini atroci e la tortura, di circondarle con il linguaggio…

Quando arrivai alla scala fu come essere travolto nel vortice delle sue grida e del suo odore umano.

E vi si mescolavano tutti gli odori che ricordavo… il sole pomeridiano su una tavola di legno, il vino rosso, il fumo di un fuocherello.

«Lestat! Mi senti? Lestat!» Il tuono dei pugni battuti contro la porta.

Il ricordo della fiaba dell’infanzia: l’orco che dice di sentire nel suo covo l’odore del sangue umano. Orrore. Sapevo che l’orco avrebbe trovato l’umano. Lo sentivo mentre lo cercava, passo passo. L’umano ero io.

Ma adesso non lo ero più.

Fumo e sale e carne e sangue caldo.

«Questo è il luogo delle streghe! Lestat, mi senti? Questo è il luogo delle streghe!»

Lieve trepidare di tutti i nostri vecchi segreti, l’amore, le cose che avevamo conosciuto e provato. La danza nel luogo delle streghe. Puoi rinnegarlo? Puoi rinnegare tutto ciò che è avvenuto tra noi?

Mandalo lontano dalla Francia. Mandalo nel Nuovo Mondo. E poi? Per tutta la vita sarà uno di quei mortali abbastanza interessanti ma piuttosto noiosi che hanno visto gli spiriti, ne parlano incessantemente e nessuno gli crede. Una follia sempre più profonda. E alla fine sarà un pazzo ridicolo, perseguitato dai prepotenti, che suona il violino per la folla sulle vie di Port-au-Prince?

«Potrai fare il burattinaio con lui», aveva detto Gabrielle. È questo, ciò che ero? Nessuno crederà alle sue storie pazzesche.

Ma lui conosce il luogo dove dormiamo, madre. Conosce i nostri nomi, il nome della nostra razza… sa troppe cose di noi. E non se ne andrà docilmente in un altro paese. E loro potrebbero seguirlo; loro non lo lasceranno vivo, ormai.

Dove sono loro?

Salii la scala nel turbine delle sue grida echeggiami, guardai l’aperta campagna attraverso la finestrella sbarrata. Torneranno. Devono tornare. Prima ero solo, poi ho avuto con me Gabrielle, adesso ho loro.

Ma qual era il punto cruciale? Il fatto che lui lo voleva, e aveva urlato e urlato che gli avevo negato il potere?

O forse adesso io avevo il pretesto necessario per portarlo a me come avevo sempre desiderato fin dal primo momento? Il mio Nicolas. Il mio amore. L’eternità attende, con tutti i piaceri grandi e splendidi della morte.

Continuai a salire le scale verso di lui, e la sete cantava dentro di me. Al diavolo le sue grida. La sete cantava e io ero uno strumento di quel canto.

E le grida erano divenute inarticolate… l’essenza pura delle maledizioni, la sorda punteggiatura dell’angoscia che udivo senza bisogno di suoni. Qualcosa di divinamente carnale nelle sillabe spezzate che gli uscivano dalle labbra, come il lento scorrere del sangue nel suo cuore.

Alzai la chiave, l’infilai nella serratura, e lui tacque. I suoi pensieri arretrarono e rientrarono in lui come se l’oceano venisse risucchiato nelle pire minuscole e misteriose di una conchiglia.

Cercai di vederlo nelle ombre della stanza, senza vedere il resto… l’amore per lui, i mesi strazianti di nostalgia, il bisogno umano e indistruttibile, il desiderio. Cercai di vedere il mortale che non sapeva cosa stava dicendo mentre mi guardava cupamente.

«Tu e i tuoi discorsi sul bene…» La voce bassa e vibrante, gli occhi che scintillavano. «I tuoi discorsi sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto, e sulla morte, oh, sì, la morte, l’orrore, la tragedia…»

Parole. Portate dalla corrente gonfia dell’odio, come fiori aperti sulla corrente, e con petali che si schiudevano e si distaccavano…

«… e l’hai spartito con lei: il figlio del signore fa alla moglie del signore il grande dono, il Dono Tenebroso. Coloro che vivono nel castello sono partecipi del Dono Tenebroso… non venivano mai trascinati al luogo delle streghe, dove ci sono pozze di grasso umano nel terreno ai piedi dei pali bruciati: no, uccidi la vecchia che non ci vede più a cucire, il ragazzo che non può arare i campi. E che cosa dà a noi, il figlio del signore, l’Uccisore di Lupi, colui che urlava nel luogo delle streghe? Le monete del reame: e questo ci deve bastare!»

Tremava. La camicia era intrisa di sudore. La pelle tesa luccicava tra i pizzi strappati. Era una visione tentatrice, il torace snello e muscoloso che gli scultori amano rappresentare, i capezzoli rosei sulla pelle scura.

«Questo potere…» Sibilava come se per tutto il giorno avesse ripetuto le parole con la stessa intensità e come se la mia presenza non avesse importanza. «Questo potere che rendeva prive di significato tutte le menzogne, il Potere Tenebroso che dominava ogni cosa, la verità che annullava…,»

No. Nessuna verità.

Le bottiglie di vino erano vuote, il cibo era stato divorato. Le sue braccia magre erano indurite e tese per la lotta… ma quale lotta? I capelli bruni s’erano sciolti dal nastro, gli occhi erano enormi, vitrei.

Ma all’improvviso si spinse contro il muro come se volesse attraversarlo per allontanarsi da me… il vago ricordo di quando i vampiri avevano bevuto il suo sangue, la paralisi, l’estasi… eppure fu attirato immediatamente in avanti, e barcollò, e tese le mani per sostenersi aggrappandosi a qualcosa che non c’era.

Ma la sua voce taceva.

Qualcosa si spezzava nel suo viso.

«Come hai potuto negarmelo?» sussurrò. I pensieri dell’antica magia, la leggenda luminosa, un grande strato misterioso in cui prosperavano tutte le cose d’ombra, l’ebbrezza della conoscenza proibita in cui tutte le cose naturali perdevano d’importanza. Non c’era più nessun miracolo nelle foglie che d’autunno cadevano dagli alberi, nel sole splendente sul frutteto.

No.

L’odore saliva da lui come incenso, come il calore e il fumo delle candele delle chiese. Il cuore batteva sotto la pelle del petto nudo. Il ventre lucido di sudore, e il sudore che macchiava la cintura di cuoio. Sangue saturo di sale. Stentavo a respirare.

«E noi respiriamo. Respiriamo e sentiamo i sapori e gli odori e le sensazioni e la sete.»

«Hai frainteso tutto.» Era Lestat, quello che parlava? Sembrava un altro demone, un essere ripugnante con una voce che era l’imitazione di una voce umana. «Hai frainteso tutto ciò che hai visto e udito.»

«Io avrei spartito con te tutto ciò che possedevo!» La rabbia ingigantiva di nuovo. Tese le mani. «Sei tu, quello che non ha mai capito», sussurrò.

«Prendi la tua vita e vattene. Fuggi!»

«Non vedi che è la conferma di tutto? Il fatto che esista è la conferma… il male puro, il male sublime!» Un’espressione di trionfo nei suoi occhi. Tese la mano all’improvviso e la chiuse sul mio volto.

«Non provocarmi!» dissi. Lo colpii così forte che cadde all’indietro, umiliato e silenzioso. «Quando mi è stato offerto, ho detto no. Ti ripeto che ho detto no. Ho detto no con il mio ultimo respiro.»

«Sei sempre stato uno sciocco», insistette lui. «Te lo dicevo.» Ma stava crollando. Tremava, e la rabbia si mutava in disperazione. Alzò di nuovo le braccia e si fermò. «Credevi cose che non avevano importanza», disse quasi gentilmente. «C’era qualcosa che non riuscivi a capire. È possibile che tu non sappia cosa possiedi ora?» Il velo che gli offuscava gli occhi si sciolse in lacrime.

Il suo viso si contrasse. Irradiava tacite parole d’amore.

E io fui assalito da uno spaventoso senso di vergogna. Mi sentii pervaso dal potere che avevo su di lui, e dalla conoscenza del potere, e il mio amore per lui riscaldava quel potere, lo spingeva verso un imbarazzo bruciante che all’improvviso si trasformava in qualcosa d’altro.

Eravamo di nuovo tra le quinte del teatro; eravamo nel villaggio dell’Alvernia, nella piccola locanda. Non sentivo soltanto l’odore del suo sangue, ma anche il terrore improvviso. Era arretrato di un passo. E quel movimento fece divampare la fiamma dentro di me, come la visione del suo viso straziato.

Divenne più piccolo e più fragile. Eppure non era mai apparso più forte, più attraente di quel momento.

Ogni espressione sparì dal suo volto quando mi avvicinai. I suoi occhi erano prodigiosamente limpidi. E la sua mente si schiuse come s’era schiusa la mente di Gabrielle, e per un tempo infinitesimale fummo insieme nella soffitta, a parlare e parlare mentre la luna brillava sui tetti coperti di neve, o a passeggiare per le vie di Parigi o a passarci il vino, con le teste chine sotto il primo scroscio di pioggia invernale, quando davanti a noi si estendeva l’eternità per crescere e invecchiare, e tanta gioia persino nell’infelicità, persino l’infelicità dell’eternità vera, del mistero mortale. Ma il momento svanì nell’espressione del suo volto.

«Vieni a me, Nicki», mormorai. Alzai entrambe le mani per chiamarlo. «Se lo vuoi, devi venire…»


Vidi un uccello alzarsi da una grotta sopra il mare aperto. E c’era qualcosa di terrificante nell’uccello e nelle onde infinite su cui volava. Saliva sempre più in alto, e il cielo diventava argenteo, e a poco a poco l’argento svaniva e il cielo diventava scuro. L’oscurità della sera: non era temibile. L’oscurità benedetta. Ma scendeva gradualmente e inesorabilmente soltanto su quella piccola creatura che strideva nel vento sopra il grande deserto del mondo. Grotte vuote, sabbie vuote, mare vuoto.

Tutto ciò che avevo amato guardare o ascoltare o toccare con le mani era scomparso o non era mai esistito: e l’uccello, che volteggiava e planava, continuava a volare in alto, sopra di me o forse sopra nessuno, e teneva l’intero paesaggio senza storia e senza significato racchiuso in un piccolo, piatto occhio nero.

Urlai, ma senza un suono. Sentivo la bocca piena di sangue e ogni sorso discendeva nella gola e nella sete insondabile. E volevo dire: sì, ora capisco, capisco com’è terribile e insopportabile questa oscurità. Non lo sapevo. Non potevo saperlo. L’uccello che volava nell’oscurità sopra la riva deserta, il mare infinito. Buon Dio, basta. È peggio dell’orrore nella locanda, peggio delle grida impotenti della cavalla abbattuta dai lupi nella neve. Ma il sangue era sangue, dopotutto, e il cuore, il cuore ricco che era tutti i cuori, era lì, impaziente, contro le mie labbra.

Ecco, amore mio, ecco il momento. Posso trangugiare la vita che batte nel tuo cuore e mandarti nell’oblio in cui nulla può essere compreso o perdonato, oppure posso portarti con me.

Lo respinsi. Lo sostenni come un essere schiacciato. Ma la visione non svanì.

Le sue braccia mi scivolarono intorno al collo. Il volto era sudato, gli occhi roteavano. Poi protese la lingua e lambì con forza lo squarcio che avevo aperto per lui nella mia gola. Sì, avidamente.

Ma basta, basta con la visione. Basta con il volo e il panorama incolore, lo strido che non significava nulla nell’urlio del vento. La sofferenza non è nulla in confronto a questa tenebra. Non voglio… non voglio…

Ma si dissolveva. Si dissolveva lentamente.

E poi finì. Il velo di silenzio era disceso, com’era avvenuto con lei. Silenzio. Era separato da sé. E io lo tenevo lontano, e quasi cadeva, con le mani contro la bocca e il sangue che gli scorreva in rivoletti dal mento. La bocca era aperta e ne usciva un suono arido, arido nonostante il sangue.

E al di là di lui, al di là della visione ricordata del mare metallico e dell’uccello solitario che ne era l’unico testimone… la vidi sulla soglia, e i suoi capelli erano un velo d’oro da madonna sulle spalle. E disse, con un’espressione tristissima: «Disastro, figlio mio».

A mezzanotte apparve evidente che Nicolas non avrebbe parlato né risposto ad alcuna voce e non si sarebbe mosso di propria volontà. Restava immobile privo di espressione, nei posti dove veniva portato. Se la morte lo faceva soffrire, non ne dava segno. Se la nuova vista lo rallegrava, lo teneva per sé. Non lo smuoveva neppure la sete.

E fu Gabrielle che, dopo averlo studiato in silenzio, si occupò di lui e lo pulì e gli mise altri indumenti. Scelse una giacca di lana nera, una delle poche giacche scure che possedevo. E biancheria modesta che lo faceva sembrare stranamente simile a un giovane chierico, un po’ troppo serio, un po’ ingenuo.

E nel silenzio della cripta, mentre li guardavo, sentii senza ombra di dubbio che ognuno di loro poteva ascoltare i pensieri dell’altro. Senza una parola, lei lo guidò alla panca accanto al fuoco.

Finalmente disse: «Ora dovrebbe andare a caccia». E quando lo fissò Nicolas si alzò senza guardarla, come se fosse tirato da un filo.

Li guardai allontanarsi. Ero stordito. Udii i loro passi sulla scala. Poi salii dietro di loro, furtivamente, mi aggrappai alle sbarre della porta e li guardai muoversi attraverso il campo, due spiriti felini.

Il vuoto della notte era un freddo indissolubùe che discendeva su di me e mi avvolgeva. Neppure il fuoco del camino valse a riscaldarmi, quando tornai.

Il vuoto. E la quiete che avevo creduto di desiderare… essere solo dopo la macabra lotta a Parigi. La quiete e la certezza che mi rodeva le viscere come un animale affamato… adesso non sopportavo più di vederlo.

5.

Appena aprii gli occhi, la notte seguente, seppi che cosa dovevo fare. Non aveva importanza che non sopportassi di vederlo. Lo avevo reso così, e in un modo o nell’altro dovevo strapparlo a quello stato stuporoso.

La caccia non l’aveva cambiato, anche se apparentemente aveva bevuto e ucciso con abilità. Adesso toccava a me proteggerlo dalla ripugnanza che provavo, e andare a Parigi a prendere la sola cosa che poteva farlo reagire.

Quand’era vivo, aveva amato soltanto il violino, forse ora quello l’avrebbe svegliato. Glielo avrei messo tra le mani e lui avrebbe voluto suonarlo ancora, suonarlo con la sua nuova abilità, e tutto sarebbe cambiato e il gelo nel mio cuore si sarebbe dissolto.

Appena Gabrielle si svegliò, le dissi che cosa avevo intenzione di fare.

«E gli altri?» chiese lei. «Non puoi andare a Parigi da solo.»

«Sì che posso. Tu devi restare qui con lui. Se i mostriciattoli tornassero, forse riuscirebbero ad attirarlo all’aperto, così com’è ora. E voglio sapere cosa succede sotto il Cimitero degli Innocenti. Voglio sapere se c’è una vera tregua.»

«Non mi piace l’idea che tu vada», disse Gabrielle scuotendo la testa. «Ti assicuro; se non credessi che dovremmo parlare di nuovo al capo perché abbiamo molte cose da imparare da lui e dalla vecchia, sarei dell’idea di lasciare Parigi stanotte stessa.»

«E che cosa possono insegnarci?» chiesi freddamente. «Che è il sole a girare intorno alla terra? Che la terra è piatta?» Ma l’amarezza delle mie parole mi ispirava vergogna.

Una delle cose che potevano dirmi era perché i vampiri che io avevo creato riuscivano a udire l’uno i pensieri dell’altro, mentre io non potevo. Ma ero troppo depresso per la ripugnanza ispiratami da Nicki, per pensare a queste cose.

Mi limitai a guardarla, e pensai che era stato magnifico vedere l’Opera Tenebrosa attuare in lei la sua magia, restituirle la bellezza della gioventù, farla ridiventare la dea che era stata per me quand’ero bambino. Vedere Nicki che cambiava era stato vederlo morire.

Forse, senza leggere le parole nella mia anima, lei lo comprese fin troppo chiaramente.

Ci abbracciammo. «Sii prudente», mi disse.

Sarei dovuto andare subito all’appartamento per prendere il violino. E poi c’era ancora il mio povero Roget. Tante menzogne da raccontare. E l’idea di lasciare Parigi… mi sembrava la cosa più sensata, via via che ci pensavo.

Ma per ore feci soltanto ciò che volevo. Andai a caccia nelle Tuileries e nei boulevard, fìngendo che non esistesse una congrega sotto il Cimitero degli Innocenti, che Nicki fosse ancora vivo e al sicuro e che Parigi fosse tutta mia.

Ma stavo in ascolto a ogni momento. Pensavo alla vecchia regina. E li sentii quando meno me li aspettavo, nel Boulevard du Temple, quando mi avvicinai al teatro di Renaud.

Era strano che fossero presenti nei luoghi della luce, come li chiamavano. Ma dopo pochi secondi vidi che alcuni di loro erano nascosti dietro il teatro. E questa volta non ci fu malvagità, ma solo un’eccitazione disperata quando si accorsero che ero vicino.

Poi vidi la faccia bianca della vampira, la donna graziosa dagli occhi scuri e i capelli da strega. Era nel vicolo, accanto all’entrata degli artisti. Corse verso di me per chiamarmi.

Per qualche momento andai avanti e indietro. Il boulevard offriva l’abituale panorama delle sere primaverili: centinaia di persone che passeggiavano, le carrozze, musici, giocolieri e acrobati, i teatri illuminati con le porte aperte per invitare gli spettatori. Perché dovevo lasciare tutto per parlare con quegli esseri? Rimasi in ascolto. Erano quattro e mi attendevano disperatamente. Avevano una paura terribile.

Decisi. Girai il cavallo, entrai nel vicolo e mi spinsi fino in fondo, dove stavano in gruppo contro il muro.

C’era il ragazzo dagli occhi grigi, e questo mi sorprese. Aveva un’espressione attonita. Dietro di lui c’era un vampiro alto e biondo, in compagnia di una bella donna, e tutti e due erano avvolti in cenci come lebbrosi. A parlare fu la vampira graziosa dagli occhi scuri, quella che aveva riso della mia battuta sulla scala, nel sepolcro degli Innocenti.

«Devi aiutarci!» mormorò.

«Davvero?» Cercai di tener tranquilla la cavalla che non gradiva la loro compagnia. «Perché devo aiutarvi?» chiesi.

«Lui sta distruggendo la congrega», disse la donna.

«Ci distrugge…» interloquì il ragazzo. Ma non mi guardava. Fissava le pietre davanti a sé, e io captavo dalla sua mente lampi di ciò che stava accadendo… la pira accesa. Armand che spingeva nel fuoco i suoi seguaci.

Tentai di cacciare quelle visioni dalla mente, ma ormai mi provenivano da tutti. La vampira graziosa mi guardò negli occhi cercando di rendere più nitide le immagini… Armand che mulinava una trave carbonizzata per sospingere gli altri nelle fiamme e la usava per tenerli bloccati nel fuoco quando cercavano di fuggire.

«Buon Dio, eravate dodici!» dissi. «Non potevate opporvi?»

«L’abbiamo fatto e adesso siamo qui», rispose la donna. «Ne ha bruciati sei, e gli altri sono fuggiti. In preda al terrore, abbiamo cercato i rifugi più strani per passare la giornata. Non avevamo mai dormito lontano dalle nostre sacre tombe, prima. Non sapevamo cosa sarebbe accaduto. E quando ci siamo svegliati, lui era là. È riuscito ad annientarne altri due. Siamo rimasti noi soli. Ha persino aperto le camere murate e ha bruciato gli affamati. Ha fatto franare la terra per bloccare le gallerie d’accesso al nostro luogo di raduno.»

Il ragazzo alzò gli occhi. «Sei stato tu», sussurrò. «Sei stato tu la nostra rovina.»

La donna si parò davanti a lui. «Devi aiutarci», disse. «Forma una nuova congrega con noi. Aiutaci a esistere come tu esisti.» Lanciò al ragazzo un’occhiata impaziente.

«Ma la vecchia, la regina?» domandai.

«È stata lei a iniziare tutto», rispose amaramente il ragazzo. «Si è gettata nel fuoco. Ha detto che andava a raggiungere Magnus. Rideva. È stato allora che Armand ha spinto gli altri tra le fiamme mentre noi fuggivamo.»

Chinai la testa. Dunque la regina non c’era più, e tutto ciò che aveva saputo era svanito con lei; e aveva lasciato soltanto il figlio perverso e vendicativo, convinto della falsità di tutto ciò che lei sapeva.

«Devi aiutarci», disse la donna dagli occhi scuri. «Vedi, è suo diritto, come capo della congrega, annientare coloro che sono deboli e non possono sopravvivere.»

«Non poteva permettere che la congrega precipitasse nel caos», disse l’altra vampira che stava dietro al ragazzo. «Senza la fede nelle Tradizioni Tenebrose, gli altri avrebbero commesso errori e allarmato la popolazione mortale. Ma se tu ci aiuti a formare una nuova congrega, e perfezionarci nelle nuove usanze…»

«Noi siamo i più forti della congrega», disse l’uomo. «E se riusciremo a tenerlo a bada abbastanza a lungo e a continuare senza di lui, forse ci lascerà in pace.»

«Ci annienterà», mormorò il ragazzo. «Non ci lascerà mai in pace. Resterà in attesa del momento in cui ci separeremo…»

«Non è invincibile», disse l’uomo. «E ha perduto ogni convinzione. Ricordalo.»

«E tu hai la torre di Magnus, che è un posto sicuro», disse il ragazzo in tono disperato.

«No, non posso dividerla con voi», dissi io. «È una battaglia che dovete vincere da soli.»

«Ma potrai guidarci…» insistè l’uomo.

«Non avete bisogno di me», replicai io. «Che cosa avete già imparato dal mio esempio? Cosa avete imparato da quel che ho detto la scorsa notte?»

«Abbiamo imparato di più da ciò che gli hai detto più tardi», interloquì la donna dagli occhi scuri. «Ti abbiamo sentito parlare di un male nuovo, un male per questi tempi, destinato a muoversi nel mondo in un attraente aspetto umano.»

«Quindi assumete quell’aspetto», dissi io. «Prendete gli indumenti delle vostre vittime e il denaro che hanno in tasca. Allora potrete muovervi tra i mortali, come me. Con l’andare del tempo guadagnerete abbastanza denaro per acquistare una piccola fortezza, un rifugio segreto. Non sarete più mendicanti o fantasmi.»

Vedevo la disperazione sui loro volti. Tuttavia ascoltavano attenti.

«Ma la nostra pelle, il timbro delle voci…» disse la donna dagli occhi scuri.

«Potete ingannare i mortali. È facilissimo. Basta un poco di abilità.»

«Ma come incominceremo?» chiese il ragazzo con voce spenta, come se si lasciasse coinvolgere con riluttanza. «Che sorta di mortali fingeremo di essere?»

«Scegli tu!» dissi. «Guardati intorno. Camuffatevi da zingari se volete… non dovrebbe essere troppo diffìcile. Oppure da saltimbanchi.» Lanciai un’occhiata in direzione della luce del boulevard.

«Saltimbanchi!» esclamò la donna dagli occhi scuri con un guizzo d’eccitazione.

«Sì, attori girovaghi. Acrobati. Fingetevi acrobati. Li avete visti, no? Potrete coprire il pallore dei volti con il cerone, e nessuno noterà i vostri gesti stravaganti e le vostre espressioni. Non potreste scegliere un travestimento più vicino alla perfezione. Sul boulevard vedrete ogni altra varietà dei mortali che abitano in questa città. Imparerete tutto ciò che avete bisogno di sapere.»

La donna rise e guardò gli altri. L’uomo rifletteva, l’altra donna era assorta, il ragazzo incerto.

«Con i vostri poteri diventerete facilmente giocolieri e acrobati», disse. «Per voi sarà uno scherzo. E potrete farvi vedere da migliaia di persone che non indovineranno mai cosa siete.»

«Non è ciò che è accaduto a te sul palcoscenico di questo teatrino», disse freddamente il ragazzo. «Hai ispirato terrore a tutti i presenti.»

«Perché avevo deciso di farlo», risposi. Un tremito di sofferenza. «È la mia tragedia. Ma quando voglio posso ingannare chiunque e lo potete anche voi.»

Mi frugai nelle tasche e tirai fuori una manciata di corone d’oro. Le diedi alla donna dagli occhi scuri, che le prese con entrambe le mani e le guardò come se la bruciassero. Alzò la testa e vidi nei suoi occhi l’immagine di me stesso che, sul palcoscenico del teatro di Renaud, eseguivo i terrificanti esercizi mettendo in fuga gli spettatori.

Ma aveva in mente un altro pensiero. Sapeva che il teatro era abbandonato, che avevo fatto partire la compagnia.

E per un secondo riflettei, lasciando che la sofferenza raddoppiasse e mi travolgesse, e mi chiesi se gli altri potevano sentirla. Che importanza aveva, dopotutto?

«Sì, ti prego», disse la donna dagli occhi scuri. Mi toccò la mano con le dita fresche e bianche. «Lasciaci entrare nel teatro! Ti prego.»

Si voltò a guardare l’ingresso posteriore.

Lasciarli entrare. Lasciarli ballare sulla mia tomba.

Ma poteva darsi che lì vi fossero ancora vecchi costumi, abbandonati dagli attori che avevano avuto a disposizione tutto il denaro necessario per comprarsene altri più belli. Vecchi barattoli di cerone bianco. L’acqua nelle botti. Mille tesori dimenticati nella fretta della partenza.

Ero stordito e non riuscivo a pensare a tutto; non volevo ricordare ciò che era accaduto là dentro.

«Sta bene», dissi, e guardai da un’altra parte, come se fossi distratto da qualcosa senza importanza. «Potete andare nel teatro se volete. Potete usare tutto ciò che c’è dentro.»

La donna dagli occhi scuri si avvicinò, mi premette le labbra sul dorso della mano.

«Non lo dimenticheremo», disse. «Mi chiamo Eleni, e il ragazzo è Laurent, e l’uomo è Félix, la donna che è con lui è Eugènie. Se Armand agirà contro di te, agirà contro di noi.»

«Spero che possiate prosperare», dissi. Stranamente, lo pensavo davvero. Mi chiedevo se qualcuno di loro, con tutte le Leggi Tenebrose e i rituali, aveva desiderato veramente l’incubo comune a noi tutti. Vi erano stati trascinati, come me. E ormai eravamo tutti Figli delle Tenebre.

«Ma siate prudenti», li avvertii. «Non portate mai le vittime qui, e non uccidetele nei dintorni. Siate prudenti e proteggete il vostro nascondiglio.»


Erano le tre quando attraversai il ponte dell’Ile St.-Louis. Avevo sprecato molto tempo e ora dovevo trovare il violino.

Ma, quando mi avvicinai alla casa di Nicki sul Lungosenna, vidi che qualcosa non andava. Le finestre erano vuote. I tendaggi erano stati tolti, ma l’appartamento era pieno di luce come se vi fossero accese centinaia di candele. Stranissimo. Non era possibile che Roget avesse già preso possesso dell’appartamento. Non era passato abbastanza tempo per presumere che Nicki avesse fatto una brutta fine.

Salii in fretta sul tetto e ridiscesi il muro fino alla finestra sul cortile, e vidi che i tendaggi erano stati tolti anche lì.

E c’erano candele accese in tutti i candelieri e in tutte le appliques. Alcune erano fissate con la cera sul pianoforte e sulla scrivania. La stanza era nel più completo disordine.

Tutti i libri erano stati tolti dagli scaffali. E alcuni erano in pezzi, le pagine strappate. Persino i fogli di musica erano stati gettati a uno a uno sul tappeto, e i quadri erano appoggiali ai tavoli con altri piccoli oggetti… monete, chiavi.

Forse i demoni avevano devastato l’appartamento quando avevano portato via Nicki. Ma chi aveva acceso tutte quelle candele? Non aveva senso.

Mi fermai in ascolto. Nell’appartamento non c’era nessuno, o così sembrava. Ma poi udii… no, non pensieri, bensì suoni minuti. Socchiusi gli occhi per un momento, concentrandomi, e mi accorsi che sentivo le pagine che venivano girate e qualcosa che veniva lasciato cadere. Altre pagine voltate, vecchie pagine di pergamena rigida. Poi, di nuovo il libro che cadeva.

Aprii la finestra, cercando di non fare rumore. I suoni continuarono; ma non c’erano odori umani, non c’erano palpiti di pensiero.

Eppure c’era un odore, più forte del tabacco vecchio e della cera delle candele. L’odore che i vampiri portavano con loro, l’odore della terra del cimitero.

Altre candele nel corridoio. Candele nella camera da letto e lo stesso disordine, libri ammucchiati con noncuranza, lenzuola gualcite, i quadri uno sopra l’altro. Gli armadi svuotati, i cassetti sul pavimento.

E il violino non c’era. Questo lo notai.

I suoni minuti giungevano da un’altra stanza, le pagine venivano girate in fretta.

Chiunque fosse (e naturalmente sapevo chi doveva essere), non si curava della mia presenza. Non s’era interrotto neppure per tirare il fiato.

Avanzai nel corridoio e mi fermai sulla soglia della biblioteca. Lo vidi mentre continuava il suo compito.

Era Armand, naturalmente. Tuttavia non ero preparato a quella scena.

La cera delle candele colava sul busto marmoreo di Cesare, sulle nazioni colorate del mappamondo. E i libri erano a montagne sul tappeto, eccettuati quelli sull’ultimo scaffale nell’angolo dove stava ritto, ancora vestito dei vecchi stracci e con i capelli pieni di polvere. Mi ignorava mentre passava la mano su una pagina dopo l’altra, gli occhi intenti sulle parole, le labbra semiaperte, e l’espressione simile a quella di un insetto impegnato a rodere una foglia.

Era assolutamente orribile. Risucchiava tutto dei libri.

Alla fine ne lasciò cadere uno, ne prese un altro, l’aprì e cominciò a divorarlo muovendo le dita sulle frasi con velocità soprannaturale.

E mi resi conto che aveva esaminato nello stesso modo tutto ciò che c’era nell’appartamento, persino le lenzuola e le cortine del letto, il contenuto delle credenze e dei cassetti, i quadri che aveva staccato dai ganci. Ma dai libri attingeva una conoscenza concentrata. Sul pavimento c’era di tutto, dal De bello gallico di Cesare ai moderni romanzi inglesi.

Ma non erano i suoi modi la cosa più orribile. Era il caos che lasciava dietro di sé, l’assoluto disprezzo per tutto ciò che aveva usato.

L’assoluto disprezzo per me.

Finì l’ultimo libro, o ne interruppe la lettura, e andò a prendere i vecchi giornali ammonticchiati su un ripiano più basso.

Uscii a ritroso dalla stanza, fissando la sua figura lurida. I capelli fulvi scintillavano nonostante la polvere, gli occhi ardevano come due lampade.

Sembrava grottesco, fra tutte le candele e i colori dell’appartamento, quello spettro degli inferi; tuttavia, la sua bellezza era dominante. Non aveva avuto bisogno delle ombre di Notre-Dame o della luce delle torce nella cripta per questo. E in quella luce viva c’era in lui un ardore che prima non avevo visto.

Fui sopraffatto dalla confusione. Era pericoloso e avvincente. Avrei continuato a guardarlo per sempre, ma un istinto fortissimo diceva: Vattene. Lascia a lui questo posto, se lo vuole. Ormai, che cosa importa?

Il violino. Cercai disperatamente di pensare al violino, di non guardare più il movimento delle sue mani sulle parole che aveva davanti, la concentrazione implacabile dei suoi occhi.

Gli voltai le spalle e andai in salotto. Mi tremavano le mani. Non sopportavo il pensiero che fosse lì. Cercai dovunque e non trovai quel maledetto violino. Cosa poteva averne fatto Nicki? Non riuscivo a immaginarlo.

Le pagine che giravano, il fruscio della carta. Il suono sommesso di un giornale che cadeva sul pavimento.

Dovevo tornare subito alla torre.

Mi mossi per passare in fretta davanti alla biblioteca, quando all’improvviso la sua voce silenziosa mi arrestò. Fu come se una mano mi afferrasse alla gola. Mi voltai e vidi che mi fissava.

Dunque li ami, i tuoi figli silenziosi? Ti amano? Era ciò che chiedeva: il significato si districava da un’eco infinita.

Sentii il sangue affluirmi al volto. Il calore dilagò su di me come una maschera mentre lo guardavo.

Tutti i libri erano sul pavimento. Era un fantasma tra le rovine, un emissario del diavolo in cui credeva. Tuttavia il suo volto era così tenero, così giovane.

L’Opera Tenebrosa non porta mai amore, vedi: porta solo il silenzio. La voce priva di suono sembrava più chiara: l’eco s’era dissipata. Dicevamo che era il volere di Satana, che il maestro e il novizio non dovevano cercare conforto l’uno nell’altro. Era Satana, colui che doveva essere servito, dopo tutto.

Ogni parola penetrava dentro di me ed era accolta da una curiosità vulnerabile e umiliante. Ma rifiutavo di permettere che lo vedesse. Dissi rabbiosamente.

«Che cosa vuoi da me?»

Parlare era come infrangere qualcosa. Avevo più paura di lui in quel momento di quanta ne avessi avuta nelle battaglie precedenti; e io odio chi mi ispira paura, chi conosce cose che ho bisogno di sapere, chi ha questo potere su di me.

«È come non saper leggere, vero?» disse ad alta voce. «E il tuo creatore, il fuorilegge Magnus, si curava forse della tua ignoranza? Non ti ha detto neppure le cose più semplici, vero?»

La sua espressione rimaneva immutata mentre parlava.

«Non è sempre stato così? C’è mai stato qualcuno che si sia preoccupato d’insegnarti qualcosa?»

«Stai attingendo queste cose dalla mia mente…» dissi. Ero sgomento. Vedevo il convento dove avevo studiato da ragazzo, le file dei libri che non sapevo leggere, Gabrielle china sui suoi volumi, con le spalle rivolte verso tutti noi. «Basta!» sussurrai.

Sembrò che passasse un tempo lunghissimo. Ero disorientato. Armand aveva ripreso a parlare, ma in silenzio.

Non ti soddisfano mai, quelli che crei. Nel silenzio, lo straniamento e il risentimento ingigantiscono.

Volevo muovermi ma non mi muovevo. Continuavo a guardarlo mentre proseguiva.

Tu mi desideri e io ti desidero, e in tutto questo reame noi soli siamo degni l’uno dell’altro. Non lo sai?

Le parole sembravano protrarsi, amplificarsi, come una nota di violino prolungata per l’eternità.

«È una pazzia», sussurrai. Pensai a tutte le cose che mi aveva detto, tutto ciò che mi aveva rimproverato, gli orrori descritti dagli altri, i suoi seguaci buttati nel fuoco.

«È una pazzia?» chiese Armand. «Allora vai dai tuoi amati silenziosi. Persino in questo momento si dicono ciò che non possono dire a te.»

«Menti…» dissi.

«E il tempo rafforzerà la loro indipendenza. Ma lo apprenderai da solo. Mi troverai abbastanza facilmente quando vorrai venire a me. Dove posso andare, dopotutto? Che cosa posso fare? Mi hai reso nuovamente orfano.»

«Io non…»

«Sì», disse Armand. «Sei stato tu. Hai demolito tutto.» Non c’era collera nella sua voce. «Ma posso attendere che venga a me, attendere che mi rivolga le domande cui io solo posso rispondere.»

Lo fissai a lungo, non so per quanto. Era come se non potessi muovermi e non potessi vedere altro che lui: il grande senso di pace che avevo conosciuto in Notre-Dame, l’incantesimo che irradiava erano di nuovo operanti. Le luci delle candele erano troppo fulgide. Non c’era altro che luce intorno a lui: era come se si avvicinasse a me e io a lui, anche se nessuno dei due si muoveva. Mi attirava, mi attirava a sé.

Mi voltai barcollando e persi l’equilibrio. Ma uscii dalla stanza. Mi precipitai nel corridoio e mi arrampicai dalla finestra sul retro, fino al tetto.

Raggiunsi al galoppo l’Ile de la Cité come se fossi inseguito. E il mio cuore non smise di battere all’impazzata fino a quando mi fui lasciato Parigi alle spalle.


Le Campane dell’Inferno squillavano.

La torre era immersa nell’oscurità, sullo sfondo del primo barlume di luce mattutina. La mia piccola congrega era già scesa a riposare nella cripta.

Non aprii le tombe per guardarli, sebbene lo desiderassi disperatamente, solo per vedere Gabrielle e toccarle la mano.

Salii verso gli spalti per vedere il miracolo fiammeggiante del mattino, lo spettacolo che non avrei più dovuto vedere fino al suo compimento. Il suono delle Campane dell’Inferno, la mia musica segreta…

Ma mi giungeva un altro suono. Lo riconobbi mentre salivo la scala. Mi sorprese che avesse il potere di arrivare fino a me. Era come un canto che s’inarcava su una distanza immensa, basso e dolce.

Una volta, anni prima, avevo sentito un giovane contadino che cantava mentre percorreva la strada in uscita dal villaggio, verso nord. Non sapeva che qualcuno l’ascoltasse. Si credeva solo in aperta campagna e la sua voce aveva una potenza e una purezza che le conferivano una bellezza ultraterrena. Le parole della vecchia canzone non avevano importanza.

Era la voce che ora mi chiamava. La voce solitària, echeggiante sulle miglia che ci separavano, e raccoglieva in sé tutti i suoni.

Mi spaventai ancora. Tuttavia aprii la porta in cima alla scala e uscii sul tetto di pietra. La brezza mattutina era serica, di sogno era il brillio delle ultime stelle. Più che un baldacchino, il cielo era una nebbia che saliva sopra di me, e le stelle ascendevano e rimpicciolivano.

La voce remota divenne più acuta, come una nota cantata in alta montagna, e mi toccava il petto dove avevo posato la mano.

Mi trapassava come un raggio trapassa l’oscurità, e cantava: Vieni a me. Tutto ti sarà perdonato se verrai a me. Sono più solo di quanto sia mai stato.

E con la voce giunse un senso di possibilità illimitata, di meraviglia e di attesa che portava con sé la visione di Armand, solo sulla soglia di Notre-Dame. Il tempo e lo spazio erano illusioni. Era circonfuso d’una luce pallida, una figura agile negli stracci regali, e tremolava mentre svaniva. C’era soltanto pazienza nei suoi occhi. Non c’era più la cripta sotto il Cimitero degli Innocenti, lo spettro lacero e grottesco nella biblioteca di Nicki, che gettava via i libri come conchiglie vuote quando aveva finito di leggerli.

M’inginocchiai, credo, e appoggiai la testa alle pietre scabre. Vedevo la luna come un fantasma che si dissolveva. Il sole doveva averla toccata, perché mi ferì e dovetti chiudere gli occhi.

Ma provavo euforia ed estasi. Era come se il mio spirito conoscesse la gloria dell’Opera Tenebrosa senza che scorresse il sangue, nell’intimità della voce che mi squarciava e cercava la parte più tenera e segreta della mia anima.

Che cosa vuoi da me? Avrei voluto ripetere. Come può esservi perdono quando c’è stato tanto rancore, così poco tempo fa? La tua congrega distrutta. Orrori che non voglio immaginare… Avrei voluto ripetere tutto.

Ma non riuscivo a formulare le parole, come prima. E questa volta sapevo che, se avessi osato tentare, la beatitudine si sarebbe dispersa e l’angoscia sarebbe stata peggiore della sete di sangue.

Eppure, mentre stavo immobile nel mistero di quella sensazione, scoprivo immagini e pensieri che non erano miei.

Mi vedevo mentre mi ritiravo nella segreta e sollevavo i corpi inanimati dei mostri che amavo. Mi vedevo portarli sul tetto della torre e abbandonarli indifesi al sole che sorgeva. Le Campane dell’Inferno suonavano invano l’allarme per loro. E il sole li prendeva e li trasformava in braci dalle chiome umane.

La mia mente arretrò a quella visione, arretrò con il disappunto più straziante.

«Silenzio», mormorai. Ah, la sofferenza di quella delusione, la possibilità… «Sei sciocco a pensare che io potrei fare simili cose.»

La voce svanì, si allontanò da me. E sentii la solitudine in ogni poro della pelle. Era come se mi fosse stata sottratta ogni copertura e fossi destinato a restare per sempre nudo e infelice come in quel momento.

E percepii in lontananza una convulsione di forza, come se lo spirito che aveva prodotto la voce si avvolgesse su se stesso come una grande lingua.

«Tradimento!» dissi a voce più alta. «Ma… oh, la tristezza, l’errore del tuo calcolo! Come puoi dire che mi desideri?»

Era sparito. Assolutamente. E lo rivolevo, con disperazione, anche se soltanto per lottare con me. Rivolevo quel senso di possibilità, lo splendido bagliore.

E vidi il suo viso in Notre-Dame, fanciullesco e quasi dolce, come il viso d’un santo di Leonardo. Un orrido senso di fatalità passò sopra di me.

6.

Non appena Gabrielle si svegliò, la condussi lontana da Nicki, nella quiete della foresta, e le dissi quanto era accaduto la notte precedente. Le dissi tutto ciò che Armand aveva affermato e suggerito. Imbarazzato, parlai del silenzio che esisteva fra lei e me, e della certezza che non sarebbe cambiato.

«Dobbiamo lasciare Parigi al più presto», dissi alla fine. «Quell’essere è troppo pericoloso. E coloro ai quali ho ceduto il teatro… sanno soltanto ciò che lui gli aveva insegnato. Lasciamo Parigi a loro. E prendiamo la Strada del Diavolo, per usare le parole della vecchia regina.»

Avevo previsto che s’infuriasse contro Armand. Invece rimase calma.

«Lestat, ci sono troppi interrogativi senza risposta», disse. «Voglio sapere com’era nata la vecchia congrega, voglio sapere tutto ciò che Armand conosce di noi.»

«Madre, ho cercato di voltare le spalle a tutto questo. Non m’interessa com’è incominciato. Mi chiedo se lui stesso lo sa.»

«Capisco, Lestat», disse Gabrielle a voce bassa. «Credimi, capisco. Tutto sommato, quegli esseri mi interessano meno degli alberi della foresta e delle stelle lassù. Preferirei studiare le correnti del vento, le nervature delle foglie che cadono…»

«Esattamente.»

«Ma non essere precipitoso. L’importante è che noi tre restiamo insieme. Dobbiamo andare insieme in città e preparare la partenza, a poco a poco. E, insieme, dobbiamo mettere in pratica il tuo piano per scuotere Nicolas con il violino.»

Volevo parlare di Nicki. Volevo chiederle cosa c’era dietro il suo silenzio. Che cosa aveva intuito? Ma le parole mi mancarono nella gola. Pensavo come sempre al suo giudizio di quei primi momenti. «Disastro, figlio mio.»

Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi ricondusse verso la torre. «Non ho bisogno di leggerti nella mente per sapere cos’hai nel cuore», disse. «Portiamolo a Parigi. Cerchiamo di trovare lo Stradivari.» Si alzò in punta di piedi per baciarmi. «Prima che tutto ciò accadesse, eravamo sulla Strada del Diavolo, insieme. Presto vi ritorneremo.»


Condurre Nicolas a Parigi fu facile come guidarlo in ogni altra cosa. Montò a cavallo come un fantasma e procedette al nostro fianco. Solo i capelli scuri e il mantello sembravano animati, agitati com’erano dal vento.

Quando ci nutrimmo nell’Ile de la Cité, mi accorsi che non potevo guardarlo mentre cacciava e uccideva.

Non mi dava speranza vederlo fare queste semplici cose con il torpore di un sonnambulo. Dimostrava semplicemente che avrebbe potuto continuare così per sempre, come un complice silenzioso, poco più di un cadavere risuscitato.

Tuttavia provai una sensazione inaspettata, mentre procedevamo insieme nei vicoli. Non eravamo più due, bensì tre. Una congrega. E se fossi riuscito a scuoterlo…

Ma prima veniva la visita a Roget. Dovevo affrontare da solo il procuratore. Li lasciai ad aspettare a pochi portoni dalla sua casa; e, mentre battevo il picchiotto, mi preparai all’interpretazione più incredibile della mia carriera teatrale.

Bene, ero destinato a imparare molto presto una lezione importante sui mortali e la loro disponibilità a lasciarsi convincere che il mondo è un posto sicuro. Roget fu felicissimo di vedermi; era molto sollevato perché ero «vivo e in buona salute» e volevo ancora servirmi di lui; e cominciò ad annuire in segno di accettazione prima ancora che avessi incominciato con le mie spiegazioni assurde.

(E non ho mai dimenticato questa lezione sulla tranquillità dei mortali. Anche se un fantasma fa a pezzi la casa e lancia in giro le pentole, versa l’acqua sui cuscini, fa suonare gli orologi a tutte le ore, i mortali sono disposti ad accettare in pratica ogni «spiegazione naturale» che venga data, per quanto assurda, piuttosto di quella sovrannaturale più ovvia.)

E quasi subito apparve evidente che credeva che io e Gabrielle fossimo fuggiti dall’appartamento passando dalla porta che metteva in comunicazione la camera da letto con l’alloggio della servitù: era una comoda possibilità che prima non avevo considerato. Perciò mi limitai a mormorare, a proposito del candeliere contorto, che avevo perso la testa per il dolore nel vedere mia madre. E questo Roget lo capiva benissimo.

In quanto alla ragione della nostra fuga, ecco, Gabrielle aveva insistito per allontanarsi da tutti e recarsi in un convento, dove si trovava ancora adesso.

«Ah, Monsieur, un miglioramento miracoloso!» dissi. «Se poteste vederla! Ma non ha importanza. Andremo subito in Italia con Nicolas de Lenfent, e abbiamo bisogno di contanti, lettere di credito, una carrozza da viaggio molto grande, e un buon tiro a sei. Provvedete voi. Fate preparare tutto per venerdì sera. E scrivete a mio padre, ditegli che accompagno mia madre in Italia. Immagino che mio padre stia bene, no?»

«Sì. Sì, certo. Gli ho dato solo le notizie più rassicuranti…»

«Avete fatto benissimo: sapevo di potermi fidare di voi. Cosa farei senza la vostra collaborazione? E questi rubini… potete ricavarne una somma in contanti, immediatamente? E ho qui alcune monete spagnole da vendere: credo che siano antiche.»

Roget scribacchiava come un matto. Dubbi e sospetti si dissolvevano nel calore del mio sorriso. Era così felice di avere qualcosa da fare!

«Tenete vuota la mia proprietà nel Boulevard du Temple», dissi. «Naturalmente, gestirete voi tutto.»

La mia proprietà nel Boulevard du Temple, il nascondiglio di una banda di vampiri laceri e disperati, a meno che Armand li avesse già trovati e bruciati come un mucchio di costumi vecchi. Presto avrei trovato la risposta a quella domanda.

Scesi le scale fischiettando tra me in modo molto umano: ero felice di aver sbrigato quel compito odioso. Poi mi accorsi che Nicki e Gabrielle non c’erano.

Mi fermai e mi guardai intorno.

Vidi Gabrielle nel momento in cui sentii la sua voce: era una figura efebica che usciva da un vicolo come se si fosse materializzata in quel momento.

«Lestat, se n’è andato… è sparito», disse.

Non riuscii a rispondere. Dissi una frase molto stupida, qualcosa come «Cosa? Sparito?» Ma i miei pensieri soffocavano le parole nella mia mente. Se fino a quel momento avevo dubitato di amarlo, avevo mentito a me stesso.

«Gli ho voltato le spalle un momento, ed è bastato», disse lei. Era in parte addolorata, in parte in collera.

«Voi due vi udite…»

«No. Niente. È stato troppo svelto.»

«Sì, se si è mosso da solo, se non è stato catturato…»

«Avrei sentito la sua paura se l’avesse preso Armand», insistette Gabrielle.

«Ma prova paura? Prova qualcosa?» Ero atterrito ed esasperato. Nicki era sparito in un’oscurità che si estendeva intorno a noi come una ruota gigantesca intorno al suo asse. Strinsi il pugno, e dovetti compiere qualche piccolo gesto inconsulto dovuto al panico.

«Ascoltami», disse Gabrielle. «Ci sono due sole cose che gli turbinano nella mente…»

«Dimmi!»

«Una è la pira sotto il Cimitero degli Innocenti, dove volevano bruciarlo. E l’altra è un piccolo teatro… le luci della ribalta, il palcoscenico.»

«Il teatro di Renaud», dissi.


Io e lei, insieme, eravamo due arcangeli. Non impiegammo neppure un quarto d’ora per raggiungere il boulevard chiassoso e avviarci tra la folla, passare davanti alla facciata del teatro ed entrare dall’ingresso degli artisti.

Le assi erano state strappate, le serrature rotte. Ma non sentii Eleni e gli altri mentre entravamo nel corridoio che girava dietro il palcoscenico. Non c’era nessuno.

Forse Armand s’era riportato a casa i suoi figli, alla fine: ed era colpa mia perché non avevo voluto ospitarli.

Non c’era altro che la giungla delle scene, i grandi fondali dipinti, giorno e notte, colline e valli, e i camerini aperti, dove qua e là uno specchio brillava nella luce che filtrava dalla porta lasciata aperta.

Poi Gabrielle mi strinse il braccio con la mano. Indicò le quinte. Compresi dalla sua espressione che non si trattava degli altri. Lì c’era Nicki.

Andai sul lato del palcoscenico. Il sipario di velluto era sollevato e potevo vedere la figura nell’orchestra. Era seduto al solito posto, con le mani sulle ginocchia. Stava rivolto verso di me ma non mi aveva notato. Guardava nel vuoto, come sempre.

E ricordai le strane parole che mi aveva detto Gabrielle la notte dopo che l’avevo creata: non riusciva a superare la sensazione che era morta e non poteva fare nulla nel mondo dei mortali.

Nicolas appariva privo di vita, e quasi trasparente. Era lo spettro inespressivo nel quale ci si aspetta di imbattersi nell’ombra di una casa infestata, quasi ammuffito come i mobili polverosi… la paura che è quasi peggiore di ogni altra cosa.

Guardai se c’era il violino, sul pavimento o contro la sedia; e quando vidi che non c’era pensai: «Be’, c’è ancora una possibilità».

«Resta qui a osservarlo», dissi a Gabrielle. Ma il cuore mi martellava in gola quando alzai gli occhi verso il teatro buio e aspirai i vecchi odori. Perché era necessario che ci portassi qui, Nicki? In questo luogo infestato? Ma, d’altra parte, chi sono io per chiederlo? Dovevo tornare, no?

Accesi la candela che trovai nel camerino della primadonna. Dovunque c’erano barattoli di cerone aperto, e molti costumi appesi ai ganci. Tutti i camerini erano pieni di indumenti smessi, pettini e spazzole dimenticati, fiori appassiti nei vasi, cipria rovesciata sul pavimento.

Pensai di nuovo a Eleni e agli altri, e mi accorsi che lì aleggiava un lieve odore di Cimitero degli Innocenti. Scorsi nitide orme di piedi scalzi sulla cipria sparsa. Sì, erano entrati. E avevano acceso le candele: l’odore della cera sembrava troppo fresco.

Comunque, non erano entrati nel mio vecchio camerino, il camerino che io e Nicki avevamo diviso prima di ogni rappresentazione. Era tuttora chiuso a chiave. Quando ruppi la serratura, ebbi un trauma sgradevole. Era esattamente come l’avevo lasciato.

Era pulito e in ordine, e persino lo specchio era lucido, e c’erano tutti i miei effetti personali come l’ultima sera che ero stato lì. C’era la mia vecchia giacca appesa al gancio, la giacca che avevo portato dalla campagna, c’erano un paio di stivali sciupati, i miei barattoli di cerone in perfetto ordine, e la parrucca che avevo portato solo a teatro, sul supporto di legno. Un mucchietto di lettere di Gabrielle, le vecchie copie dei giornali francesi e inglesi che parlavano della commedia e una bottiglia di vino semivuota, con il tappo rinsecchito.

E nel buio, sotto il ripiano di marmo della toeletta, in parte coperto da una giacca nera, c’era una custodia di violino. Non era quella che avevamo portato con noi dal paese. No. Doveva contenere il dono prezioso che avevo comprato per lui con «le monete del reame»: lo Stradivari.

Mi chinai e sollevai il coperchio. Era quello strumento bellissimo, delicato e lucente, e stava lì, tra tutte quelle cose prive d’importanza.

Mi domandai se Eleni e gli altri l’avrebbero preso, qualora fossero entrati nel camerino. Avrebbero capito che cosa poteva fare?

Posai la candela e lo presi, con attenzione, tesi le corde dell’archetto come avevo visto fare mille volte da Nicki. Poi riportai lo strumento e la candela sul palcoscenico. Mi chinai e incominciai ad accendere la lunga fila delle candele del proscenio.

Gabrielle mi guardava impassibile. Poi venne ad aiutarmi. Accese una candela dopo l’altra, e poi le appliques tra le quinte.

Mi sembrò che Nicki si riscuotesse. Ma forse era l’illuminazione crescente, la luce dolce che traboccava dal palcoscenico alla sala buia. Dovunque i drappeggi di velluto presero vita; i piccoli specchi della galleria e del loggione divennero luci anch’essi.

Era molto bello, quel luogo tutto nostro. La porta del mondo per noi come esseri mortali. E la porta dell’inferno.

Quando ebbi finito, mi fermai a guardare le balaustre dorate, il lampadario nuovo che pendeva dal soffitto, e l’arco con le maschere della commedia e della tragedia, come due volti che spuntavano dallo stesso collo.

Quand’era vuoto, sembrava molto più piccolo. Nessun teatro di Parigi sembrava più grande quand’era pieno.

Fuori c’era il rombo sordo del traffico del boulevard, e vocine umane si alzavano come scintille nel brusio generale. Poi dovette passare una carrozza pesante, perché tutto il teatro tremò: le fiammelle delle candele contro i riflettori, il grande sipario drappeggiato a destra e a sinistra, il fondale di uno splendido giardino dipinto con un cielo cosparso di nubi.

Passai davanti a Nicki, che non mi aveva guardato neppure una volta, e scesi la scaletta dietro di lui, mi avvicinai con il violino.

Gabrielle era tornata fra le quinte, con un’espressione fredda ma paziente. Si appoggiò a una trave con la disinvoltura di un uomo un po’ strano, dai capelli lunghi.

Abbassai il violino oltre la spalla di Nicki e glielo misi sulle ginocchia. Lo sentii muovere come se avesse tratto un grande respiro. La testa premeva contro di me. Lentamente alzò la mano sinistra per prendere il violino, e afferrò l’archetto con la destra.

M’inginocchiai e gli misi le mani sulle spalle. Gli baciai le guance. Nessun odore umano, nessun calore umano. La statua del mio Nicolas.

«Suona», sussurrai. «Suonalo per noi soli.»

Si girò lentamente verso di me, e per la prima volta dal momento dell’Opera Tenebrosa, mi guardò negli occhi. Emise un suono sommesso: un suono forzato, come se non potesse più parlare. Gli organi della favella s’erano chiusi. Ma poi si passò la lingua sulle labbra, e con voce così bassa che lo udii appena, disse:

«Lo strumento del diavolo».

«Sì», dissi io. Se devi crederlo, ebbene credilo. Ma suona.

Le sue dita rimasero librate sopra le corde. Battè con una falange il legno cavo. Poi, tremando, pizzicò le corde per intonarle e girò lentamente i bischeri, come se scoprisse il procedimento per la prima volta, con una concentrazione perfetta.

Fuori, sul boulevard, i bambini ridevano. Le ruote di legno passavano fragorosamente sui ciottoli. Le note staccate erano acri, dissonanti, e acuivano la tensione.

Per un momento Nicki premette lo strumento contro l’orecchio. E mi sembrò che restasse immobile per un’eternità. Poi si alzò, lentamente. Uscii dall’orchestra e mi avviai tra le panche, mi fermai a fissare la sua sagoma nera contro la luce del palcoscenico.

Si girò verso il teatro vuoto, come aveva fatto tante volte nel momento dell’intermezzo, e si portò il violino al mento. E, con un guizzo rapido che ai miei occhi fu un lampo di luce, abbassò l’archetto sulle corde.

I primi accordi palpitarono nel silenzio, si protrassero, divennero più profondi e parvero raschiare il fondo del suono stesso. Poi le note ascesero, ricche e scure e trillanti, come se fossero strappate al violino fragile dall’alchimia, fino a che un torrente tumultuoso di melodia inondò la sala.

Parve attraversare il mio corpo, passare nelle mie ossa.

Non vedevo il movimento delle dita, gli scatti dell’archetto; vedevo solo l’ondeggiare del suo corpo, la posa tormentata mentre lasciava che la musica lo torcesse, lo piegasse in avanti e lo scagliasse indietro.

Il suono divenne più alto e più acuto e svelto: tuttavia il tono di ogni nota era perfetto. Era un’esecuzione senza sforzo, un virtuosismo che trascendeva i sogni dei mortali. E il violino parlava; non si limitava a cantare. Insisteva. Narrava una storia.

La musica era una lamentazione, un futuro di terrore che si avvolgeva in ritmi ipnotici di danza, e squassava Nicki con violenza anche più grande. I suoi capelli erano un ciuffo lucente nelle luci della ribalta. Sudava sangue. Ne sentivo l’odore.

Ma anch’io mi ripiegavo su me stesso. Indietreggiavo, mi abbandonavo sulla panca quasi per ritrarmi, come già una volta in quella sala i mortali terrorizzati erano indietreggiati davanti a me.

E sapevo, sapevo con un’immensa pienezza che il violino narrava tutto ciò che era accaduto a Nicki. Era la tenebra esplosa, la tenebra disciolta, e la sua bellezza era come la luce delle braci; appena sufficiente per mostrare quanto era grande la tenebra.

Anche Gabrielle si sforzava di restare immobile sotto quell’assalto, con il viso contratto, le mani sulle tempie. La sua criniera leonina s’era sciolta, gli occhi erano chiusi.

Ma un altro suono giungeva attraverso la pura inondazione del canto. Loro erano presenti. Erano entrati nel teatro e si muovevano verso di noi, fra le quinte.

La musica raggiunse vertici impossibili; il suono si soffocò per un istante e riprese slancio. La mescolanza di sentimento e di logica pura lo sospinse oltre i limiti del sopportabile. E tuttavia continuò.

E gli altri apparvero lentamente dietro il sipario… prima la figura maestosa di Eleni, poi il ragazzo Laurent, e infine Félix ed Eugènie. Erano diventati acrobati e attori da strada, e ne portavano gli abiti: gli uomini con gli attillati calzoni bianchi sotto le giubbe arlecchinesche, le donne con i pantaloni a sbuffo e gli abiti tutti gale, e le scarpette da ballo ai piedi. Il belletto brillava sulle immacolate facce bianche, il kohl delineava gli abbaglianti occhi vampireschi.

Si avvicinarono a Nicki come se fossero attratti da una calamità. La loro bellezza fioriva ancora di più mentre avanzavano nella luce delle candele, i capelli splendevano, i movimenti erano agili e felini, l’espressione rapita.

Nicki si girò lentamente verso di loro mentre fremeva, e il canto divenne una supplica frenetica che ascendeva e ruggiva lungo la scala melodica.

Eleni lo fissava a occhi sgranati come se fosse inorridita e incantata. Poi levò le braccia sopra la testa in un lento gesto drammatico. Si tese, il suo collo divenne ancora più lungo e aggraziato. L’altra donna aveva fatto una piroetta e sollevato un ginocchio, con la punta del piede in basso, come in un primo passo di danza. Ma fu l’uomo che all’improvviso captò il ritmo della musica di Nicki: spostò la testa lateralmente e mosse gambe e braccia come se fosse una grande marionetta, controllata dall’alto per mezzo di quattro fili.

Gli altri lo videro. Conoscevano le marionette del boulevard. E tutti assunsero atteggiamenti meccanici, si mossero sussultando mentre i loro volti apparivano lignei, impenetrabili.

Una ventata di gioia mi investì, come se all’improvviso potessi respirare nel caldo rovente della musica; e gemetti di piacere mentre li guardavo saltare e sgambettare, con le punte dei piedi verso il soffitto, e piroettare sui fili invisibili.

Ma tutto stava cambiando. Nicolas suonava per loro, adesso, come loro danzavano per lui.

Avanzò d’un passo verso il palcoscenico, balzò tra le luci fumose e atterrò in mezzo agli altri. La luce guizzava sullo strumento, sul suo volto lustro.

Un nuovo elemento sarcastico contagiò la melodia interminabile, un ritmo sincopato che faceva vacillare la canzone, la rendeva più amara e nel contempo più dolce.

Le marionette rigide gli giravano intorno, scalpicciavano e saltellavano. Le dita allargate, le teste dondolanti, ballarono e si contorsero fino a che tutti abbandonarono la forma rigida, quando la melodia di Nicki si disciolse in una assillante tristezza e la danza divenne immediatamente liquida, lenta e disperata.

Sembrava che una sola mente li controllasse, che danzassero i pensieri di Nicki e non soltanto la sua musica. Anche lui cominciò a ballare mentre suonava a ritmo più svelto: diventò il violinista di campagna intorno al falò, e gli altri saltellavano in coppie come campagnoli innamorati. Le sottane delle donne ondeggiavano, gli uomini piegavano le gambe nel sollevare le loro compagne, e tutti si atteggiavano nelle pose dell’amore più tenero.

Immobile, fissavo quell’immagine: i danzatori preternaturali, il violinista mostro, le membra che si muovevano con lentezza inumana e grazia seducente. La musica era come un fuoco che ci consumava tutti.

Adesso urlava di dolore, d’orrore, della ribellione pura dell’anima contro ogni cosa. E ancora una volta loro tradussero la musica in immagini, con il viso contratto nel tormento, come la maschera della tragedia scolpita sull’arco che li sovrastava. E compresi che, se non avessi voltato le spalle allo spettacolo, avrei pianto.

Non volevo più vedere o sentire altro. Nicki ondeggiava come se il violino fosse una belva che non riusciva più a controllare. E colpiva le corde con l’archetto, violentemente.

I ballerini gli passavano davanti, gli passavano dietro, lo abbracciavano. E lo colsero all’improvviso quando alzò le braccia, con il violino tenuto sopra la testa.

Una risata acuta e penetrante eruppe dalla sua bocca, una risata che gli faceva fremere il petto e gli scuoteva braccia e gambe. Poi abbassò la testa e mi fissò. E con tutta la potenza della sua voce urlò:

«ECCO IL TEATRO DEI VAMPIRI! IL TEATRO DEI VAMPIRI! IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DEL BOULEVARD!»

Gli altri lo guardarono sgomenti. Ma ancora una volta, all’unisono, batterono le mani e gridarono. Spiccarono balzi in aria, prorompendo in strilli di gioia. Gli gettarono le braccia al collo e lo baciarono. Danzarono in cerchio attorno a lui e lo fecero piroettare. La risata saliva e saliva mentre Nicki li attirava vicini, rispondeva ai loro baci e alle lingue rosee che gli leccavano dal viso il sudore di sangue.

«Il Teatro dei Vampiri!» Si staccarono da lui e lo gridarono agli spettatori inesistenti e al mondo. S’inchinarono alle luci della ribalta e sgambettarono e strillarono, spiccarono salti fino alle travi e si lasciarono ricadere sul palcoscenico con un fragore di tempesta.

L’ultimo barlume di musica si disperse, sostituito dalla cacofonia delle grida, dal calpestio e dalle risate, come un clangore di campane.

Non ricordo di aver voltato loro le spalle. Non ricordo di aver salito i gradini del palcoscenico e di essere passato oltre. Ma devo averlo fatto.

Perché mi ritrovai seduto sul tavolo basso e stretto del mio camerino, con la schiena contro l’angolo, il ginocchio piegato, la testa contro il vetro freddo dello specchio. E Gabrielle era lì.

Respiravo ansimando, e quel suono mi turbava. Vedevo gli oggetti, la parrucca che avevo portato in palcoscenico, lo scudo di cartapesta, ed evocavano in me emozioni fortissime. Ma soffocavo. Non riuscivo a pensare.

Poi Nicki apparve sulla soglia, e sospinse da parte Gabrielle con una forza che sbalordì lei e me, e mi puntò contro l’indice. «Dunque, non ti piace, mio signore e protettore?» chiese mentre avanzava. Le parole fluivano in un torrente ininterrotto, e sembravano un’unica, grande parola. «Non ne ammiri lo splendore, la perfezione? Perché non doti il Teatro dei Vampiri delle monete del reame che possiedi in grande abbondanza? Come dicevi? ‘Il male nuovo, la putredine nel cuore della rosa, la morte in mezzo alla realtà’…»

Dal mutismo era passato a una loquacità maniacale, e anche quando smise di parlare i suoni sommessi e privi di senso continuarono a uscirgli dalle labbra come acqua da una sorgente. Il viso era tirato e duro, reso lucido dalle gocciole di sangue che vi aderivano e macchiavano il collo della camicia bianca.

E dietro di lui giungeva la risata quasi innocente degli altri… con l’eccezione di Eleni, che spiava al di sopra della sua spalla e si sforzava di comprendere ciò che accadeva tra di noi.

Nicki si avvicinò, quasi ridendo, sogghignando, e mi colpì il petto con l’indice. «Ebbene, parla. Non capisci l’ironia sublime, la genialità?» Si battè il pugno sul cuore. «Verranno ai nostri spettacoli, riempiranno d’oro le nostre casse e non immagineranno mai che cosa fiorisce quasi sotto gli occhi dei parigini. Ci nutriamo di loro nei vicoli, e loro ci applaudono davanti al palcoscenico illuminato…»

Dietro di lui, il ragazzo rise. Il tintinnio di un tamburello, la voce esile dell’altra donna che cantava. Una lunga risata maschile… come un nastro che si snodasse e seguisse il suo movimento intorno ai fondali.

Nicki si avvicinò tanto che la luce dietro di lui sparì. Non potevo vedere Eleni.

«Il male magnifico!» disse. Era minaccioso, e le mani bianche sembravano le chele di un mostro marino che da un momento all’altro poteva farmi a pezzi. «Servire il dio di legno scuro come non era mai stato servito, qui al centro della civiltà. E per questo hai salvato il teatro. Quest’offerta sublime è nata dal tuo mecenatismo.»

«È meschino», dissi io. «È semplicemente bella e ingegnosa e niente di più.»

La mia voce non era molto alta, ma lo fece tacere, e fece tacere gli altri. E il turbamento che era in me si dissolse lentamente in un’altra emozione, non meno dolorosa ma più facile da contenere.

C’erano soltanto i rumori che giungevano dal boulevard. Nicki irradiava una collera tetra, e i suoi occhi lampeggiavano mentre mi guardava.

«Sei un bugiardo, un bugiardo spregevole», disse.

«Non vi è nulla di splendido», replicai io. «Non vi è nulla di sublime. Ingannare i mortali, beffarli, e poi uscire da qui la notte per prendere le vite altrui nella stessa maniera vecchia e meschina, una morte dopo l’altra in tutta la sua inevitabile crudeltà e in tutto il suo squallore, perché possiamo vivere. E l’uomo può uccidere un altro uomo! Suona il tuo violino per l’eternità. Danza, se vuoi. Da’ loro ciò per cui pagano, se questo ti tiene impegnato, e divora l’eternità. È bello e ingegnoso. Un boschetto nel Giardino Selvaggio. Niente di più.»

«Bugiardo schifoso!» disse Nicki fra i denti. «Sei il buffone di Dio, ecco che cosa sei. Tu possedevi i Segreti Tenebrosi che s’innalzavano al di sopra di ogni cosa e rendevano tutto insignificante: e che cosa hai fatto, nei mesi in cui hai regnato solo dalla torre di Magnus, che cosa hai fatto se non tentare di vivere come un uomo buono? Un uomo buono!»

Era abbastanza vicino per baciarmi, e il sangue della sua saliva mi spruzzava il viso.

«Protettore delle arti», ringhiò. «Dispensatore di doni alla tua famiglia e a noi!» Indietreggiò e mi guardò sprezzante.

«Bene, prenderemo il teatrino che hai dipinto d’oro e ornato di velluti», disse. «E servirà le forze del diavolo più splendidamente di quanto siano mai state servite dalla vecchia congrega.» Si voltò a guardare Eleni e gli altri. «Irrideremo tutte le cose sacre. Li guideremo alla volgarità e alla profanità. Sbalordiremo e incanteremo. Ma soprattutto prospereremo grazie al loro oro e al loro sangue, e diventeremo forti in mezzo a loro.»

«Sì», disse il ragazzo che stava dietro di lui. «Diventeremo invincibili.» La sua faccia aveva un’espressione fanatica mentre guardava Nicolas. «Avremo nomi e luoghi nel loro mondo.»

«E avremo potere su di loro», disse l’altra donna. «E una posizione dalla quale potremo studiarli e conoscerli e perfezionare i nostri metodi per annientarli quando decideremo di farlo.»

«Voglio il teatro», mi disse Nicolas. «Lo voglio. L’atto di proprietà, il denaro per riaprirlo. I miei assistenti, come vedi, sono pronti ad ascoltarmi.»

«Puoi averlo, se vuoi», risposi. «È tuo, se mi toglierai di torno la tua malignità e la tua ragione a pezzi.»

Mi alzai e mi avviai verso di lui. Credevo che intendesse bloccarmi il passo, ma accadde qualcosa d’inspiegabile. Quando mi resi conto che non si sarebbe mosso, la mia collera montò e saettò da me come un pugno invisibile. Lo vidi balzare indietro come se il pugno l’avesse colpito. E sbattè contro il muro, con forza.

Avrei potuto andarmene in un istante. Sapevo che Gabrielle aspettava solo di seguirmi. Ma non lo feci. Mi fermai e mi voltai a guardarlo. Era ancora contro il muro come se non potesse muoversi. E mi fissava con un odio puro, per nulla attenuato dal ricordo dell’amore, com’era sempre stato.

Ma io volevo capire. Volevo capire veramente cos’era accaduto. Mi avvicinai di nuovo a lui in silenzio e questa volta ero io a minacciare, erano le mie mani che sembravano chele. Sentivo la sua paura. Tutti erano pieni di paura, tranne Eleni.

Mi fermai quando gli arrivai vicinissimo, e lui mi guardò. Fu come se sapesse esattamente che cosa gli chiedevo.

«È un malinteso, amor mio», disse. Acido sulla lingua. Il sudore di sangue aveva ripreso a scorrere, gli occhi luccicavano come se fossero bagnati. «Era per far soffrire gli altri, non capisci? che suonavo il violino, per farli infuriare e assicurarmi un’isola dove loro non potessero regnare. Avrebbero visto la mia rovina, incapaci di porvi rimedio.»

Non risposi. Volevo che continuasse.

«E quando abbiamo deciso di andare a Parigi, ho pensato che avremmo sofferto la fame e saremmo piombati in basso, sempre più in basso. Era ciò che volevo: mentre loro volevano che io, il figlio prediletto, salissi molto in alto. Pensavo che saremmo discesi in basso. Era ciò che doveva accadere.»

«Oh, Nicki…» mormorai.

«Ma tu non sei disceso in basso, Lestat», continuò inarcando le sopracciglia. «La fame, il freddo… non ti hanno fermato. Hai avuto successo!» La rabbia appesantì di nuovo la sua voce. «Non sei morto ubriaco nelle fogne. Hai sovvertito tutto! E per ogni aspetto della nostra dannazione preventivata trovavi l’esuberanza, e non c’era fine all’entusiasmo e alla passione che irradiavano da te… e la luce, sempre la luce! E nell’esatta proporzione della luce che s’irradiava da te, c’era in me la tenebra! ogni esuberanza mi trafiggeva e creava la sua esatta proporzione di tenebra e di disperazione! E poi la magia, quando hai avuto la magia… ironia delle ironie, mi hai protetto proprio da quella! E non hai fatto altro che usare i tuoi poteri satanici per simulare le azioni di un uomo buono!»

Mi voltai. Li vidi sparsi nelle ombre e, più lontana, vidi la figura di Gabrielle. Vidi la luce sulla sua mano quando la sollevò e mi fece cenno di andar via.

Nicki mi toccò le spalle. Sentii l’odio trasfondersi attraverso il suo tocco. Era ripugnante venire toccato con odio.

«Come un raggio di sole spensierato hai disperso i pipistrelli della vecchia congrega!» bisbigliò. «E a che scopo? Che cosa significa, il mostro assassino pieno di luce?»

Mi voltai, lo colpii, lo scagliai nel camerino. La sua destra fracassò lo specchio, la testa sbattè contro il muro.

Per un momento rimase immobile come un oggetto rotto contro la massa dei vecchi costumi. Poi i suoi occhi ritrovarono la decisione, il viso si addolcì in un lento sorriso. Si raddrizzò e adagio, come avrebbe fatto un mortale indignato, si assestò la giacca e i capelli scomposti.

Mi ricordava i miei gesti, sotto il Cimitero degli Innocenti, quando i miei catturatori mi avevano buttato nella polvere.

E venne verso di me con la stessa dignità. Il sorriso era la cosa più orribile che avessi mai visto.

«Ti disprezzo», disse. «Ma con te ho finito. Ho avuto il potere da te e so come usarlo, mentre tu non lo sai, e finalmente sono in un regno dove io ho deciso di trionfare! Nella tenebra, ora siamo eguali. E tu mi darai il teatro, perché me lo devi e tu sei generoso, no? dispensi monete d’oro ai figli affamati… e allora non guarderò mai più la tua luce.»

Mi girò intorno e tese le braccia verso gli altri.

«Venite, belli miei, venite, dobbiamo scrivere commedie e occuparci dei nostri affari. Avete tante cose da imparare da me. Io so come sono veramente i mortali. Dobbiamo dedicarci seriamente all’invenzione della nostra arte tenebrosa e splendida. Creeremo una congrega che rivaleggerà con tutte le altre. Faremo ciò che non è mai stato fatto.»

Gli altri mi guardavano, spaventati ed esitanti. E in quel momento di silenzio e di tensione, sentii il mio respiro profondo. La mia vista si ampliò. Vidi la sala velata dalle ombre e conobbi, in un ricordo illimitato, tutto ciò che era accaduto lì dentro. E vidi un incubo generare un altro incubo, vidi una vicenda che giungeva alla fine.

«Il Teatro dei Vampiri», sussurrai. «Abbiamo compiuto l’Opera Tenebrosa in questo piccolo locale.» Nessuno degli altri osava rispondere. Nicolas si limitava a sorridere.

E, mentre mi voltavo per uscire, alzai la mano in un gesto che li esortava tutti ad avvicinarsi a lui. Era il mio addio.


Non eravamo lontani dalle luci del boulevard quando mi fermai di colpo. Mille orrori senza parole mi assalirono… il timore che Armand venisse per annientarlo, che i fratelli e le sorelle appena incontrati si stancassero delle sue smanie e l’abbandonassero, che il mattino lo sorprendesse per le strade barcollante, incapace di trovare un nascondiglio per proteggersi dal sole. Alzai lo sguardo al cielo. Non riuscivo a parlare e a respirare.

Gabrielle mi abbracciò e io la strinsi a me, le affondai il viso tra i capelli. La sua pelle, il suo viso, le sue labbra erano come velluto fresco. E il suo amore mi avvolgeva di una purezza mostruosa che non aveva nulla in comune con i cuori umani e la carne umana.

La sollevai e l’abbracciai. Nell’oscurità eravamo come due amanti scolpiti nella stessa pietra, senza più il ricordo di una vita separata.

«Ha compiuto la sua scelta, figlio mio», mi disse. «Ciò che è fatto è fatto, e ti sei liberato di lui.»

«Madre, come puoi dire una cosa simile?» mormorai. «Lui non sapeva. Ancora adesso non sa.»

«Lascialo andare, Lestat», disse Gabrielle. «Loro ne avranno cura.»

«Ma ora devo trovare quel demonio, Armand, no?» dissi stancamente. «Devo indurlo a lasciarli in pace.»


La sera dopo, quando andai a Parigi, seppi che Nicki era già stato da Roget.

S’era presentato un’ora prima e aveva bussato come un pazzo. Aveva gridato dall’ombra per pretendere l’atto di proprietà del teatro, e il denaro che, diceva, gli avevo promesso. Aveva minacciato Roget e i suoi familiari. Aveva detto a Roget di scrivere a Renaud e alla compagnia, a Londra, per dir loro di ritornare, perché avevano un teatro nuovo che li aspettava, e voleva che rientrassero subito. Quando Roget aveva rifiutato, aveva chiesto l’indirizzo londinese della compagnia e aveva incominciato a frugare nella scrivania.

Quando lo seppi, fui assalito da un furore silenzioso. Dunque intendeva trasformarli tutti in vampiri, il demonio novellino, il mostro ossessionato e implacabile?

Non potevo permetterlo.

Dissi a Roget di mandare un corriere a Londra per avvertire che Nicolas de Lenfent aveva perso la ragione. La compagnia non doveva tornare in Francia.

E poi andai al Boulevard du Temple e trovai Nicki impegnato nelle prove, eccitato e pazzo come prima. Aveva indossato di nuovo gli abiti eleganti e i gioielli del tempo in cui era il figlio prediletto del padre; ma la cravatta era storta, le calze cadenti, i capelli scarmigliati come quelli di un prigioniero della Bastiglia che non si fosse guardato in uno specchio per vent’anni.

In presenza di Eleni e degli altri gli dissi che non avrebbe avuto nulla da me se non avesse promesso che nessun attore o attrice di Parigi sarebbe stato ucciso o sedotto dalla nuova congrega, che Renaud e la sua compagnia non sarebbero mai stati chiamati nel Teatro dei Vampiri, né ora né in avvenire; che a Roget, il quale avrebbe tenuto i cordoni della borsa, non doveva assolutamente accadere nulla di male.

Rise di me, mi ridicolizzò come aveva già fatto. Ma Eleni lo costrinse a tacere. Era inorridita nello scoprire i suoi disegni dissennati. Fu lei a farmi le promesse e a esigerle dagli altri. Fu lei che lo intimidì e lo confuse con il linguaggio ingarbugliato delle vecchie consuetudini e lo obbligò a desistere.


E alla fine fu a Eleni che assegnai il controllo del Teatro dei Vampiri, e la rendita che doveva passare per le mani di Roget e che le avrebbe permesso di fare ciò che voleva.


Prima di lasciarla, quella notte, le chiesi che cosa sapeva di Armand. Gabrielle era con noi. Eravamo ritornati nel vicolo, accanto all’ingresso degli artisti.

«Armand osserva», rispose Eleni. «Qualche volta si lascia vedere.» La sua espressione mi confondeva. Era addolorata. «Ma solo Dio sa che cosa farà», soggiunse in tono timoroso, «quando scoprirà quello che succede realmente qui.»

PARTE V IL VAMPIRO ARMAND

1.

Sprazzi di pioggia primaverile. Pioggia di luce che imbeveva ogni foglia nuova degli alberi per le vie e ogni lastra della pavimentazione; sprazzi di pioggia che portavano la luce nella tenebra vuota.

E il ballo al Palais Royal.

C’erano il re e la regina e ballavano con i popolani. Conversazioni nelle ombre dell’intrigo. Che importanza aveva? I regni sorgono e cadono. Purché non bruciassero i quadri del Louvre, ecco tutto.

Perduto nuovamente in un mare di mortali. Carnagioni fresche e guance rosse, montagne di capelli incipriati su teste femminili con tutte le assurdità della modisteria, persino piccoli velieri a tre alberi, minuscole piante, uccellini. Paesaggi di perle e di nastri. Uomini pettoruti, simili a galli nelle giacche di raso come ali piumate. I diamanti mi ferivano gli occhi.

A volte le voci mi toccavano la pelle, la risata era l’eco di un’ilarità empia, corone di candele accecanti, spuma di musica che lambiva le pareti.

Raffiche di pioggia dalla porta aperta.

Odori degli umani che alimentavano gentilmente la mia fame. Spalle bianche, colli bianchi, cuori potenti che battevano con un ritmo eterno, tante gradazioni tra quei bambini nudi nascosti nelle ricchezze, selvaggi avvolti nella ciniglia, incrostazioni di ricami, piedi indolenziti a causa dei tacchi alti, maschere simili a croste intorno agli occhi.

L’aria esce da uno dei corpi e viene aspirata da un altro. La musica passa da un orecchio all’altro, come afferma il vecchio detto? Respiriamo la luce, respiriamo la musica, respiriamo il momento che trascorre in noi.

Ogni tanto due occhi si posano su di me con una vaga aria d’attesa. La mia pelle bianca li fa indugiare; ma che significa, quando si fanno salassare per mantenere un pallore delicato? (Lasciate che sia io a reggere il bacile e a bere quel sangue.) E i miei occhi che cos’erano, in quel mare di gioielli finti?

Eppure i loro sussurri mi turbinavano intorno. E gli odori, ah, non ce n’era uno simile all’altro. E chiaramente, come pronunciato a voce alta, giungeva il richiamo dei mortali qua e là, nell’intuizione di ciò che ero, e giungeva il desiderio.

Porgevano il benvenuto alla morte in un antico linguaggio; aspiravano alla morte mentre passava attraverso la sala. Ma sapevano veramente? No, certo. E non sapevano! Quello era il perfetto orrore. E chi sono io per sopportare questo segreto, per smaniare di rivelarlo, e di prendere quella donna snella, là, e succhiare il sangue dalla carne soda del seno piccolo e tondo?

La musica turbinava, musica umana. I colori della sala fiammeggiavano per un istante come se tutto stesse per fondersi e dissolversi. La fame diventava più acuta. Non era più un’idea. Le mie vene ne palpitavano. Qualcuno sarebbe morto. Svuotato in meno di un momento. Non lo sopporto, sapere che sta per accadere, le dita sulla gola che sentono il sangue nella vena, sentono la carne che lo cede, lo cede a me! Dove? Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.

Lancia il tuo potere, Lestat, come una lingua di rettile per raccogliere in un lampo il cuore appropriato.

Braccia grassottelle, mature per essere strette, facce di uomini con un brillio di barba bionda ben rasata sulle guance, muscoli che lottano sotto le mie dita: non avete una possibilità!

E all’improvviso, sotto quella chimica divina, sotto quel panorama che rinnegava la putrefazione, io vedevo le ossa!

Teschi sotto le parrucche assurde, due fori che sbirciano dietro il ventaglio aperto. Una stanza di scheletri barcollanti in attesa del rintocco della campana. Esattamente come avevo visto gli spettatori quella notte nel teatro di Renaud, quando li avevo terrorizzati con i miei trucchi. L’orrore doveva colpire ogni altro essere presente.

Dovevo uscire. Avevo commesso un terribile errore di calcolo. Quella era la morte e io potevo allontanarmi, se fossi uscito! Ma ero impigliato negli esseri mortali come se quel luogo mostruoso fosse una trappola per un vampiro. Se fossi fuggito, avrei gettato nel panico tutti quanti. Mi spinsi verso le porte aperte, più dolcemente che potevo.

E contro la parete più lontana, uno sfondo di raso e filigrana, vidi con la coda dell’occhio, come qualcosa d’immaginario, Armand.

Armand.

Se c’era stata una chiamata, non l’avevo udita. Se c’era un saluto, non lo percepivo. Mi guardava, radioso di gemme e di pizzi. Sembrava Cenerentola rivelata al ballo, la Bella Addormentata che apriva gli occhi sotto una rete di ragnatele e le annientava con un movimento della mano calda. La tensione della bellezza incarnata mi strappò un gemito.

Sì, era un perfetto abbigliamento da mortale; tuttavia sembrava ancora più sovrannaturale, con il viso troppo abbagliante, gli occhi scuri profondissimi che per una frazione di secondo brillavano come se fossero finestre spalancate sui fuochi dell’inferno. E quando giunse la sua voce, era bassa e quasi provocante, e mi costrinse a concentrarmi per udirla: Mi hai cercato per tutta la notte, disse, ed eccomi qui, ad attenderti. Ti ho sempre atteso.

Credo che persino allora, mentre stavo immobile e incapace di distogliere lo sguardo, intuii che mai, negli anni di vagabondaggi sulla terra, avrei avuto una rivelazione più completa dell’orrore che noi siamo in realtà.

Sembrava di un’innocenza commovente, in mezzo alla folla.

Eppure, quando lo guardavo vedevo le cripte e udivo il rullo dei tamburi. Vedevo campi illuminati da torce, dove non ero mai stato, udivo incantesimi indistinti, sentivo il calore di fuochi furiosi. E non provenivano da lui, quelle visioni. Ero io a trarle spontaneamente.

Tuttavia Nicolas, mortale o immortale, non era mai apparso così affascinante. Gabrielle non mi aveva mai incantato così.

Buon Dio, questo è amore. È desiderio. E tutti i miei amori passati non sono stati altro che un’ombra di questo.

E mi sembrava che, in una pulsazione sussurrante al pensiero, mi rivelasse che ero stato molto sciocco a credere che non potesse essere così.

Chi può amarci, me e te, come possiamo amarci noi due? mormorava, e sembrava che le sue labbra si muovessero.

Altri lo guardavano. Li vedevo muoversi con ridicola lentezza; vedevo i loro occhi scrutarlo, vedevo la luce cadere su di lui con nuova angolatura quando abbassava la testa.

Stavo andando verso di lui. Mi sembrò che alzasse la mano destra e facesse un cenno… o forse no; poi si voltò e io vidi davanti a me la figura di un giovane, con la vita sottile e le spalle diritte e i polpacci solidi sotto le calze di seta, un ragazzo che si voltava mentre apriva una porta e faceva di nuovo un cenno.

Mi colpì un pensiero folle.

Lo seguivo, e sembrava che nessuna delle altre cose fosse accaduta. Non c’era una cripta sotto gli Innocenti, e lui non era stato il terribile demone antico. Eravamo al sicuro, chissà come.

Eravamo la somma dei nostri desideri, e questo ci salvava, e l’immenso orrore insondato della mia immortalità non si estendeva davanti a me, e navigavamo su mari calmi, tra fari conosciuti, ed era tempo di buttarci l’uno tra le braccia dell’altro.

Una camera buia ci circondava, fredda e isolata. Il rumore del ballo era lontano. Lui era riscaldato dal sangue che aveva bevuto, e sentivo la forza del suo cuore. Mi attirò vicino; al di là delle finestre balenavano le luci delle carrozze di passaggio, con suoni vaghi e incessanti che parlavano di sicurezza e di comodità e di tutte le altre cose che era Parigi.

Non ero mai morto. Il mondo stava ricominciando. Tesi le braccia e sentii il suo cuore contro di me, e lanciai un appello al mio Nicolas, cercai di metterlo in guardia, di dirgli che eravamo tutti condannati. La vita ci sfuggiva a poco a poco; e nel vedere i meli del frutteto, inondati dalla luce verde del sole, sentivo che sarei impazzito.

«No, no, carissimo», sussurrava lui. «Null’altro che la pace e la dolcezza e le tue braccia.»

«Sai, è stato un caso maledetto!» mormorai all’improvviso. «Sono un diavolo controvoglia. Piango come un bambino vagabondo. Voglio andare a casa.»

Sì, sì. Le sue labbra sapevano di sangue ma non era sangue umano. Era l’elisir che Magnus mi aveva donato, e provavo raccapriccio. Questa volta potevo sfuggire. Avevo un’altra possibilità. La ruota non aveva compiuto un giro completo.

Gridavo che non avrei bevuto; non volevo, e poi sentii due pugnali roventi affondarmi nel collo, fino all’anima.

Non potevo muovermi. Avveniva come quella notte, l’estasi, mille volte più grande di quando tenevo tra le braccia i mortali. E sapevo che cosa faceva! Si nutriva di me! Mi svuotava.

Scivolai in ginocchio e sentii che mi sosteneva, e il sangue sgorgava da me con una forza di volontà mostruosa che non potevo contrastare.

«Demonio!» cercai di urlare. Forzai quella parola fino a che eruppe dalle mie labbra e la paralisi abbandonò le mie membra. «Demonio!» ruggii di nuovo, e lo strinsi, lo scagliai riverso sul pavimento.

In un istante lo afferrai, sfondai la porta-finestra e lo trascinai fuori nella notte.

I suoi tacchi strusciavano sulle pietre, il suo viso era diventato un’espressione di pura furia. Gli afferrai il braccio destro e lo girai in modo che la testa ricadesse all’indietro e lui non potesse vedere dov’era, non potesse afferrarsi a nulla; e con la mano destra lo percossi fino a quando il sangue gli sgorgò dalle orecchie e dagli occhi e dal naso.

Lo trascinai fra gli alberi, lontano dalle luci del Palais. E, mentre si dibatteva, mentre cercava di risorgere con uno sprazzo di energia, mi dichiarò che mi avrebbe ucciso perché adesso possedeva la mia forza. L’aveva bevuta da me e, unita alla sua, lo avrebbe reso invincibile.

Esasperato, lo afferrai per il collo e spinsi giù la testa, contro il sentiero. Lo tenni inchiodato, strangolandolo, fino a che il sangue gli uscì a grandi fiotti dalla bocca aperta.

Avrebbe urlato, se avesse potuto. Gli premevo le ginocchia sul petto. Il collo si gonfiava sotto le mie dita, il sangue scaturiva gorgogliando, e lui girava la testa da una parte e dall’altra, i suoi occhi diventavano sempre più grandi ma non vedevano nulla: e poi, quando lo sentii debole e inerte, lo lasciai andare.

Lo picchiai di nuovo, girandolo di qua e di là. Quindi sguainai la spada per tagliargli la testa.

E provasse a vivere così, se poteva, e fosse immortale così. Alzai la spada, e quando lo guardai la pioggia gli batteva sulla faccia, e mi fissava, semivivo, incapace d’implorare misericordia, incapace di muoversi.

Attesi. Volevo che supplicasse. Volevo che mi facesse ascoltare quella voce potente piena di menzogne e di astuzie, la voce che mi aveva fatto credere, per un puro attimo abbagliante, che ero vivo e libero e di nuovo nello stato di grazia. Una menzogna maledetta, imperdonabile. Una menzogna che non avrei mai dimenticato per tutto il tempo che mi restava da trascorrere sulla terra. Volevo che la rabbia mi portasse oltre la soglia della sua tomba.

Ma non disse nulla.

E in quel suo momento di silenzio e di dolore, la sua bellezza tornò lentamente.

Giaceva sulla ghiaia del vialetto come un bambino straziato, a poca distanza dal traffico, dal clangore degli zoccoli dei cavalli e dal rombo delle ruote di legno.

E in quel bambino straziato c’erano secoli di malvagità e secoli di conoscenza; e non irradiava una supplica ignominiosa ma soltanto la sensazione morbida e dolorante di ciò che era. Un male antico, antichissimo, occhi che avevano visto epoche tenebrose, quali io potevo soltanto sognare.

Lo lasciai. Mi rialzai e rinfoderai la spada.

Mi allontanai di qualche passo e mi lasciai cadere su una panchina bagnata.

Lontano, vedevo le figure indistinte intorno alla porta-finestra sfondata del palazzo.

Ma tra noi e quei mortali confusi c’era la notte. Lo guardai con indifferenza, mentre era steso a terra.

La faccia era rivolta verso di me, non di proposito, e i capelli erano un groviglio di riccioli e di sangue. Con gli occhi chiusi e la mano aperta, sembrava il figlio abbandonato del tempo e del caso sovrannaturale, infelice quanto me.

Che cosa aveva fatto per diventare ciò che era? Possibile che qualcuno tanto giovane, molto tempo addietro avesse intuito il significato d’una decisione, e soprattutto l’impegno di diventare così?

Mi alzai, mi avvicinai lentamente, mi fermai accanto a lui, e lo guardai, guardai il sangue che gli intrideva la camicia di trina e gli macchiava la faccia.

Mi parve che sospirasse. Sentii il suo respiro.

Non aprì gli occhi. Forse, per i mortali, non aveva alcuna espressione. Ma io sentivo la sua angoscia, la sentivo in tutta l’immensità, e avrei voluto non sentirla; e per un momento compresi l’abisso che ci divideva, e l’abisso che divideva il suo tentativo di sopraffarmi dalla mia difesa piuttosto semplice.

Aveva tentato disperatamente di vincere ciò che non comprendeva.

E per impulso, quasi senza sforzo, l’avevo battuto.

Tutto il mio dolore per Nicolas ritornò, e ritornarono a me le parole di Gabrielle e le accuse di Nicki. La mia collera non era nulla in confronto alla sua infelicità, alla sua disperazione.

E forse fu per questa ragione che mi chinai e lo sollevai. Forse lo feci perché era così squisitamente bello e così perduto, e perché dopotutto appartenevamo alla stessa razza.

Era abbastanza naturale, no, che uno come lui lo portasse via da quel luogo dove prima o poi i mortali l’avrebbero trovato, e l’avrebbero scacciato?

Non oppose resistenza. Dopo un momento si resse da solo, e s’incamminò stordito accanto a me, mentre gli cingevo le spalle con un braccio e lo sostenevo. Ci allontanammo dal Palais Royal, verso rue St.-Honoré.

Lanciavo sguardi distratti alle persone che incontravamo, fino a che scorsi sotto gli alberi una figura familiare, dalla quale non emanava l’odore della mortalità. Compresi che Gabrielle era lì da diverso tempo.

Si avvicinò in silenzio, esitando, e assunse un’espressione turbata nel vedere la faccia coperta di sangue e le lacerazioni della pelle bianca. Tese le mani come per aiutarmi a sorreggerlo, anche se sembrava non sapere cosa doveva fare.

Nei giardini bui, gli altri erano vicini, da qualche parte. Li udii prima di vederli. C’era anche Nicki.

Erano venuti come Gabrielle, attratti per miglia e miglia dal tumulto o forse da chissà quali vaghi messaggi: e adesso attendevano e guardavano mentre ci allontanavamo.

2.

Insieme lo portammo con noi alla scuderia, e lo caricai sulla mia cavalla. Ma sembrava che dovesse cadere da un momento all’altro. Montai dietro di lui e ce ne andammo, tutti e tre.

Mentre procedevamo attraverso la campagna, mi chiesi che cosa avrei fatto. Mi chiesi perché lo portavo nel mio covo. Gabrielle non protestò. Ogni tanto lo guardava. Lui taceva, ed era così piccolo, leggero come un bambino… ma non era un bambino.

Aveva sempre saputo dov’era la torre, sicuramente, ma le sbarre lo avevano tenuto fuori. Adesso intendevo portarlo là dentro. E perché Gabrielle non mi diceva qualcosa? Era l’incontro che avevamo desiderato, era ciò che avevamo atteso; ma sicuramente lei sapeva che cosa aveva appena fatto Armand.

Quando smontammo, lui mi precedette e attese che raggiungessi il cancello. Avevo preso la chiave di ferro e lo studiavo, chiedendomi quali promesse si devono esigere da un simile mostro prima di aprirgli la propria porta. Le antiche leggi dell’ospitalità avevano un significato per le creature della notte?

I suoi occhi erano grandi, scuri, sconfitti. Sembravano quasi assonnati. Mi guardò per un lungo momento silenzioso, quindi tese la mano sinistra e le sue dita si chiusero intorno alla sbarra centrale del cancello. Rimasi a guardare, impotente, mentre con uno stridore foltissimo il cancello incominciava a staccarsi dalla pietra. Ma Armand si fermò, accontentandosi di avere un po’ piegato la sbarra di ferro. Aveva dimostrato ciò che gli interessava. Avrebbe potuto entrare nella torre quando avesse voluto.

Esaminai la sbarra che aveva contorto. Lo avevo battuto. Avrei potuto fare anch’io ciò che aveva appena fatto lui? Non lo sapevo. Incapace di calcolare i miei poteri, come potevo calcolare i suoi?

«Vieni», disse Gabrielle, con un po’ d’impazienza. E scese per prima la scala della cripta.

Era freddo come sempre; l’aria pura della primavera non vi penetrava mai. Attizzò un gran fuoco nel vecchio focolare mentre io accendevo le candele. E, quando Armand sedette sulla panca di pietra a guardarci, vidi l’effetto del calore su di lui, il modo in cui il suo corpo sembrava diventare un po’ più grande, il modo in cui sembrava aspirare il tepore.

Si guardava intorno ed era come se assorbisse la luce. Il suo sguardo era limpido.

È impossibile valutare pienamente l’effetto del caldo e della luce sui vampiri. Eppure la vecchia congrega aveva rinunciato a entrambi.

Sedetti su un’altra panca e lasciai che i miei occhi vagassero come i suoi nell’ampia camera.

Gabrielle era rimasta in piedi. Gli si avvicinò. Aveva tirato fuori un fazzoletto e glielo accostò al viso.

La guardò nello stesso modo in cui guardava il fuoco e le candele, e le ombre che balzavano sulla volta. Sembrava che lo interessasse, semplicemente, come tutto il resto.

Provai un brivido quando mi accorsi che i lividi sulla sua faccia erano scomparsi quasi completamente. Le ossa erano di nuovo integre, la forma del viso era tornata normale: era soltanto un po’ smagrito per il sangue perso.

Il mio cuore si allargò leggermente, contro la mia volontà, come era accaduto sugli spalti quando avevo sentito la sua voce.

Pensai alla sofferenza di mezz’ora prima nel Palais, quando mi aveva affondato le zanne nel collo.

L’odiavo.

Ma non potevo smettere di guardarlo. Gabrielle lo pettinò. Gli prese le mani e le pulì del sangue. Armand sembrava incapace di muoversi. E lei non aveva tanto l’espressione di un angelo misericordioso quanto un’aria incuriosita, il desiderio di stargli vicino, di toccarlo ed esaminarlo. Nell’illuminazione tremula, si guardavano.

Lui si tese un po’ in avanti, gli occhi scuri e intensamente espressivi mentre si volgevano di nuovo verso il fuoco. Se non fosse stato per il sangue sui pizzi, sarebbe sembrato umano. Forse…

«Ora cosa farai?» chiesi. Parlavo perché fosse chiaro a Gabrielle. «Resterai a Parigi e lascerai fare a Eleni e agli altri?»

Armand non rispose. Mi studiava, studiava le panche di pietra, i sarcofagi. Tre sarcofagi.

«Sicuramente tu sai cosa stanno facendo», dissi. «Lascerai Parigi o resterai?»

Mi sembrò che volesse rimproverarmi ancora una volta l’enormità di ciò che avevo fatto a lui e agli altri; ma poi cambiò idea. Per un momento la sua faccia ebbe un’espressione desolata, sconfìtta, calda, piena d’infelicità umana. Quanti anni aveva? mi chiesi. Quanto tempo prima era stato un umano con quell’aspetto?

Mi sentì. Ma non rispose. Guardò Gabrielle, che stava accanto al fuoco, poi me. E in silenzio disse: Amami. Hai distrutto ogni cosa! Ma se mi ami, tutto potrà essere ricreato in una forma nuova. Amami.

La supplica muta aveva un’eloquenza che non saprei rendere a parole.

«Che cosa posso fare per indurti ad amarmi?» sussurrò. «Che cosa posso darti? La conoscenza di tutto ciò che ho veduto, i segreti dei nostri poteri, il mistero di ciò che sono?»

Rispondere mi sembrava blasfemo. E, come era accaduto sugli spalti, mi accorsi che stavo per piangere. Nonostante la purezza della comunicazione silenziosa, la sua voce dava un’incantevole risonanza ai suoi sentimenti, quando parlava.

E, come in Notre-Dame, pensai che parlava come devono parlare gli angeli, se esistono.

Ma fui strappato a questo pensiero inconcludente dal fatto che adesso era vicino a me. Mi cingeva con un braccio e mi premeva la fronte contro la faccia. Lanciò di nuovo quell’appello, non la seduzione palpitante del momento al Palais Royal, ma la voce che aveva cantato a distanza rivolgendosi a me, e mi disse che c’erano cose che noi due avremmo conosciuto e compreso come non avrebbero mai potuto comprenderle e conoscerle i mortali. Mi disse che, se mi fossi dischiuso e gli avessi donato la mia forza e i miei segreti, mi avrebbe dato i suoi. Era stato spinto a tentare di distruggermi, e mi amava ancora di più perché non aveva potuto farlo.

Era un pensiero allettante. Ma intuivo il pericolo. Il monito che mi affiorò spontaneo alla mente fu: «Stai in guardia».

Non so che cosa vedesse e udisse Gabrielle. Non so che cosa provasse.

Istintivamente, evitavo gli occhi di Armand. Mi sembrava che in quel momento non desiderassi al mondo nulla più che guardarlo e comprenderlo: tuttavia sapevo che non dovevo farlo. Rividi le ossa sotto il Cimitero degli Innocenti, e i fuochi infernali che avevo immaginato nel Palais Royal. E tutte le trine e i velluti del Settecento non bastavano a conferirgli un volto umano.

Non potevo nasconderglielo, e mi addolorava che mi fosse impossibile spiegarlo a Gabrielle. E il silenzio spaventoso tra me e lei era, in quel momento, quasi insopportabile.

Con lui potevo parlare, sì, con lui potevo sognare. Un senso di reverenza e di terrore mi spinse ad abbracciarlo. Lo tenni stretto, lottando contro la confusione e il desiderio.

«Lascia Parigi, sì», sussurrò. «Ma portami con te. Qui non so più come esistere. Mi imbatto continuamente in una sagra di orrori. Ti prego…»

Sentii la mia voce dire: «No».

«Non valgo nulla per te?» chiese. Si rivolse a Gabrielle, che continuava a guardarlo angosciata. Non potevo sapere che cosa le passava nel cuore; e con mia grande tristezza mi resi conto che Armand parlava a lei e mi escludeva. Qual era la risposta?

Ma adesso ci implorava entrambi. «Non c’è nulla all’infuori di te stesso che tu sia disposto a rispettare?»

«Avrei potuto annientarti, questa notte», dissi. «È stato il rispetto che mi ha trattenuto.»

«No.» Scosse la testa in modo sorprendentemente umano. «Questo non l’avresti mai fatto.»

Sorrisi. Probabilmente era vero. Ma lo stavamo distruggendo in un modo diverso.

«Sì, è vero», sussurrò lui. «Mi state distruggendo. Aiutatemi», sussurrò. «Datemi pochi anni di tutti quelli che avete davanti, voi due, Vi supplico. Non chiedo altro.»

«No», dissi.

Era sulla panca a una spanna da me. Mi guardava. E ritornò lo spettacolo orribile della faccia che si contraeva, oscurata e scavata per la rabbia. Sembrava che non avesse una sostanza concreta. Solo la volontà lo manteneva bello e robusto. E, quando il flusso della volontà s’interrompeva, lui si scioglieva come un pupazzo di cera.

Ma, come era già avvenuto prima, si riprese quasi immediatamente. L’«allucinazione» era passata.

Si alzò, si allontanò da me a ritroso, fino a quando fu davanti al fuoco.

La volontà che s’irradiava da lui era palpabile. Gli occhi erano come qualcosa che non gli apparteneva, erano diversi da tutto ciò che esisteva sulla terra. E il fuoco che divampava dietro di lui formava un bizzarro nimbo intorno alla sua testa.

«Ti maledico!» bisbigliò.

Provai una fìtta di paura.

«Ti maledico», ripeté, e venne più vicino. «Ama i mortali, allora, e vivi come hai vissuto, avventatamente, con appetito per tutto e amore per tutto… ma verrà un tempo in cui soltanto l’amore dei tuoi simili potrà salvarti.» Lanciò un’occhiata a Gabrielle. «E non mi riferisco a quelli come lei!»

Era un’affermazione così forte che non potei nascondere l’effetto su di me; mi accorsi che mi alzavo dalla panca e mi allontanavo da lui per accostarmi a Gabrielle.

«Non mi presento a te a mani vuote», insistette Armand, e la sua voce si raddolcì di proposito. «Non vengo a supplicare senza avere nulla da darti. Guardami. Dimmi che non hai bisogno di ciò che vedi in me, che ho la forza di guidarti attraverso tutte le prove future.»

Il suo sguardo dardeggiò verso Gabrielle e per un momento continuò a fissarla. La vidi irrigidirsi e cominciare a tremare.

«Lasciala stare!» dissi.

«Non sai che cosa le dico», rispose freddamente Armand. «Non sto cercando di farla soffrire. Ma nel tuo amore per i mortali, che cosa hai già fatto?»

Avrebbe detto qualcosa di terribile se non gliel’avessi impedito, qualcosa che avrebbe ferito me o Gabrielle. Sapeva tutto ciò che era accaduto con Nicki. Ne avevo la certezza. Se, nel profondo della mia anima, avessi desiderato la fine di Nicki, avrebbe saputo anche quello! Perché l’avevo lasciato entrare? Perché non avevo intuito ciò che poteva fare?

«Ah, ma è sempre un’ironia, non capisci?» disse Armand con la stessa dolcezza. «Ogni volta la morte e il risveglio devastano lo spirito mortale, perciò uno ti odierà perché gli hai tolto la vita, un altro si abbandonerà a eccessi che tu disprezzi. Un terzo diventerà pazzo e delirante, un altro ancora un mostro incontrollabile. Uno sarà geloso della tua superiorità, un altro ti taglierà fuori.» Lanciò un’altra occhiata a Gabrielle e accennò un sorriso. «E tra voi scenderà sempre il velo. Crea pure una legione. Sarai solo, sempre e per sempre!»

«Non voglio sentirlo! Non significa nulla», dissi.

Il volto di Gabrielle s’era trasformato sgradevolmente. Ora lo fissava con odio. Ne ero sicuro.

Armand si lasciò sfuggire quel suono amaro che era una risata e tuttavia non lo era.

«Amanti dal volto umano», disse beffardamente. «Non capisci il tuo errore? L’altro ti odia al di là di ogni ragione e lei… ah, il sangue tenebroso l’ha resa ancora più fredda, no? Ma anche per lei, sebbene sia forte, verranno momenti in cui avrà paura di essere immortale, e allora chi biasimerà per ciò che le è accaduto!»

«Sei uno sciocco», sussurrò Gabrielle.

«Hai tentato di proteggere il violinista da questo destino. Ma non hai cercato di proteggere lei.»

«Non dire altro», replicai. «Mi spingi a odiarti. È questo che vuoi?»

«Ma io dico la verità, e lo sai. E ciò che non conoscerete mai, tutti e due, è la profondità assoluta degli odi e dei risentimenti reciproci. O della sofferenza. O dall’amore.»

Tacque, e io non potei dire nulla. Stava facendo esattamente ciò che temevo, e non sapevo come difendermi.

«Se ora mi lasci così», continuò Armand, «lo farai ancora. Non hai mai posseduto Nicolas. E lei già si domanda come riuscirà a liberarsi di te. E, diversamente da lei, tu non sopporti di stare solo.»

Non potevo rispondere. Gabrielle socchiuse gli occhi e la sua bocca assunse una piega un po’ più crudele.

«Quindi verrà il momento in cui cercherai altri mortali», continuò Armand, «nella speranza che l’Opera Tenebrosa ti arrechi l’amore desiderato. E con questi figli mutilati e imprevedibili cercherai di costruire le tue cittadelle contro il tempo. Ebbene, diventeranno prigioni se resisteranno per mezzo secolo. Ti avverto. La cittadella contro il tempo si può costruire soltanto con coloro che sono potenti e saggi come te.»

La cittadella contro il tempo. Persino nella mia ignoranza, le parole avevano un loro potere. E la paura ingigantì, si dilatò per includere mille altre cause.

Per un momento mi apparve distante, indescrivibilmente bello nella luce del fuoco, con i capelli fulvi che sfioravano appena la fronte liscia, le labbra socchiuse in un sorriso beato.

«Se non possiamo avere le vecchie consuetudini, non possiamo averci l’un l’altro?» chiese. La sua voce era di nuovo quella degli appelli. «Chi altri può comprendere le tue sofferenze? Chi altri sa che cosa ti passava per la mente la notte che sei apparso sul palcoscenico del tuo piccolo teatro e hai spaventato tutti coloro che avevi amato?»

«Non parlarne», bisbigliai. Ma mi stavo addolcendo, andavo alla deriva nei suoi occhi e nella sua voce. Ero vicinissimo all’estasi che avevo conosciuto la notte sugli spalti. Con tutta la forza della volontà, mi tesi verso Gabrielle.

«Chi comprende ciò che è passato nei tuoi pensieri quando i miei seguaci rinnegati, ebbri della musica del tuo diletto violinista, hanno ideato la loro spaventosa iniziativa?» chiese Armand.

Non parlai.

«Il Teatro dei Vampiri?» Le sue labbra si tesero nel sorriso più triste. «Lei ne capisce l’ironia, la crudeltà? Sa che cosa provavi quando stavi su quel palcoscenico, giovane e mortale, e sentivi il pubblico acclamarti? Quando il tempo ti era amico e non nemico come ora? Quando, fra le quinte, tendevi le braccia e i tuoi diletti mortali venivano a te, e ti si stringevano intorno…»

«Smetti, ti prego. Ti chiedo di smettere.»

«Qualcun altro conosce le proporzioni della tua anima?»

Stregoneria. Era mai stata usata con maggiore abilità? E ciò che ci stava dicendo in realtà, al di là del flusso liquido di quel linguaggio fiorito: Venite a me, e io sarò il sole intorno al quale orbiterete, e i miei raggi riveleranno i segreti che nascondete l’uno all’altro, e io, che possiedo incantesimi e poteri a voi ignoti, vi dominerò e vi distruggerò!

«Te l’ho già chiesto», dissi. «Che cosa vuoi? Che cosa vuoi veramente?»

«Te!» esclamò Armand. «Te e lei. Voglio che diventiamo tre, qui dove s’incrociano le nostre strade.»

Non vuoi che ci arrendiamo a te?

Scossi la testa. E vidi la stessa diffidenza e la stessa ripulsa in Gabrielle.

Armand non era in collera: non c’era malevolenza, adesso. Tuttavia ripeté, con la stessa voce affascinante: «Ti maledico». E io lo sentii come se l’avesse declamato.

«Mi sono offerto a te nel momento in cui mi hai sconfìtto», disse. «Ricordatene, quando i tuoi figli tenebrosi ti si ribelleranno e insorgeranno. Ricordati di me.»

Ero sconvolto, ancor più di quanto lo fossi stato alla triste, spaventosa conclusione della scena con Nicolas al teatro di Renaud. Non avevo avuto paura nella cripta del Cimitero degli Innocenti. Ma l’avevo conosciuta in quella stanza, da quando vi eravamo entrati.

E la collera ribollì di nuovo in lui: era troppo terribile perché potesse dominarla.

Lo guardai chinare la testa e voltarsi dall’altra parte. Divenne minuto e leggero, e incrociò le braccia mentre stava davanti al fuoco e pensava a qualche minaccia che potesse farmi soffrire, e io le udivo sebbene si spegnessero prima di giungergli alle labbra.

Ma qualcosa turbò la mia vista per una frazione di secondo. Forse una candela che lingueggiava. Forse il battito delle mie palpebre. Comunque, Armand sparì. O almeno tentò di sparire; lo vidi balzare lontano dal fuoco in una grande scia scura.

«No!» gridai. E mi avventai verso qualcosa che neppure riuscivo a scorgere e lo strinsi, di nuovo materializzato.

In realtà s’era limitato a muoversi molto in fretta e io mi ero mosso più rapidamente di lui. Ci fronteggiavamo sulla soglia della cripta. Ancora una volta ripetei la semplice negazione e non lo lasciai andare.

«Non così. Non possiamo separarci. Non possiamo lasciarci nell’odio, non possiamo.» La mia volontà si dissolse mentre l’abbracciavo e lo tenevo stretto in modo che non potesse liberarsi e neppure muoversi.

Non m’interessava che cosa fosse, o cosa avesse fatto nel momento in cui mi aveva mentito o aveva cercato di sopraffarmi, non m’interessava che io non fossi mortale e non lo sarei stato mai più.

Volevo soltanto che rimanesse. Volevo stare con lui, con ciò che era, e tutto ciò che aveva detto era vero. Tuttavia le cose non sarebbero mai potute essere come lui desiderava. Non poteva avere un simile potere su di noi. Non poteva dividere Gabrielle da me.

Eppure mi domandavo se capiva veramente ciò che chiedeva, se era possibile che credesse nelle parole più innocenti che pronunciava.

Senza parlare, senza chiedere il suo consenso, lo condussi alla panca vicino al fuoco. Sentivo di nuovo il pericolo, un pericolo terribile. Ma non aveva importanza. Ora doveva restare lì con noi.


Gabrielle mormorava tra sé. Stava camminando avanti e indietro, con il mantello su una spalla, e sembrava quasi aver dimenticato la nostra presenza.

Armand l’osservava. E quando Gabrielle si rivolse a lui, inaspettatamente, parlò a voce alta.

«Tu vieni a lui e gli dici: ‘Portami con te’. Dici: ‘Amami’, e alludi a conoscenze superiori e a segreti, tuttavia non dai nulla a nessuno di noi due se non menzogne.»

«Ho dimostrato il mio potere di comprensione», rispose Armand con un mormorio sommesso.

«No, hai creato trucchi», rispose Gabrielle. «Hai creato immagini piuttosto puerili. Lo hai sempre fatto. Hai attirato Lestat nel Palais con le illusioni più allettanti al solo scopo di attaccarlo. E qui, nella tregua, cerchi di seminare il dissidio tra noi…»

«Sì, prima erano illusioni, lo ammetto», rispose Armand. «Ma le cose che ho detto qui sono vere. Tu disprezzi già tuo figlio per il suo amore verso i mortali, il suo bisogno di stargli sempre vicino, la sua arrendevolezza nei confronti del violinista. Tu sapevi che il Dono Tenebroso l’avrebbe fatto impazzire e che avrebbe finito per annientarlo. Desideri la libertà da tutti i Figli delle Tenebre. Non puoi nascondermelo.»

«Ah, ma tu sei così semplice», disse lei. «Vedi, ma non vedi. Quanti anni mortali hai vissuto? Ne ricordi qualcosa? Ciò che hai percepito non è tutta la passione che provo per mio figlio. L’ho amato come non ho mai amato nessun altro essere del creato. Nella mia solitudine, mio figlio è tutto per me. Come mai non sai interpretare ciò che vedi?»

«Sei tu che non sai interpretare», rispose Armand nello stesso tono. «Se mai avessi provato un vero desiderio per qualcun altro, sapresti che quanto provi per tuo figlio non è nulla.»

«È inutile parlare così», dissi io.

«No», disse Gabrielle ad Armand senza la minima esitazione. «Io e mio figlio siamo legati in più di un modo. In cinquant’anni di vita non ho mai conosciuto nessuno forte come me, tranne mio figlio. E a ciò che ci divide si può sempre porre rimedio. Ma come possiamo far di te uno di noi quando usi queste cose come legna per attizzare il fuoco? Cerca di capire: cosa puoi darci di te per indurci a volerti?»

«Avete bisogno della mia guida», rispose lui. «Avete appena iniziato la vostra avventura e non avete convinzioni che vi sostengano. Non potete vivere senza una guida…»

«Milioni di persone vivono senza convinzioni e senza guida. Sei tu quello che non può vivere senza», disse Gabrielle.

Armand irradiava sofferenza.

Ma lei continuò con voce così ferma e inespressiva che era quasi un monologo: «Ho certi interrogativi», disse. «Vi sono cose che devo sapere. Non posso vivere senza abbracciare una certa filosofia, ma non ha nulla a che vedere con le vecchie credenze negli dei o nei diavoli.» Ricominciò a camminare avanti e indietro, lanciandogli occhiate. «Voglio sapere, per esempio, perché esiste la bellezza», disse. «Perché la natura continua a crearla, e qual è il legame tra la vita di un albero e la sua bellezza e quale rapporto c’è fra la pura esistenza del mare o un temporale e le sensazioni che queste cose ci ispirano? Se Dio non esiste, se queste cose non sono unificate in un sistema metaforico, perché conservano per noi un simile potere simbolico? Lestat lo chiama il Giardino Selvaggio, ma per me non basta. E devo confessare che questa curiosità maniacale, o chiamala come vuoi, mi conduce lontano dalle vittime umane. E mi conduce in aperta campagna, lontano dalle creazioni degli uomini. Forse mi condurrà lontano da mio figlio, che è soggetto all’incantesimo di quanto è umano.»

Gli si avvicinò. Non c’era nulla nei suoi modi che facesse pensare a una donna. Socchiuse gli occhi mentre lo guardava in faccia. «Ma questa è la lanterna nella cui luce vedo la Strada del Diavolo», disse. «Alla luce di quale lanterna tu l’hai percorsa? Che cosa hai imparato veramente, oltre al culto diabolico e alla superstizione? Che cosa sai di noi e di come abbiamo cominciato a esistere? Rivelacelo, e potrebbe valere qualcosa. O forse potrebbe non valere nulla.»

Armand era ammutolito. Non era abbastanza abile per nascondere lo sbalordimento.

La fissò con un’aria di confusione innocente. Poi si alzò e si allontanò cercando di sfuggirle: era uno spirito sofferente che guardava nel vuoto.

Il silenzio ci circondò. Per un momento mi sentii stranamente protettivo verso di lui. Gabrielle aveva detto la verità disadorna a proposito delle cose che le interessavano, come faceva sempre; e come sempre c’era qualcosa di violento e sprezzante nel suo modo di fare. Aveva parlato di ciò che le stava a cuore senza pensare a ciò che era accaduto a lui.

Vieni su un piano diverso, il mio piano, aveva detto. E Armand era umiliato e sminuito. La sua impotenza diventava allarmante. Non riusciva a riprendersi dall’attacco.

Armand si voltò e tornò verso le panche come se volesse sedersi, e poi verso i sarcofagi e quindi verso il muro. Sembrava che quelle superfìci solide gli ripugnassero, come se la sua volontà le affrontasse prima in un campo invisibile e ne venisse respinta.

Uscì dalla camera, raggiunse la scala di pietra, quindi si voltò e tornò indietro.

I suoi pensieri erano chiusi dentro di lui o, peggio ancora, in lui non c’erano pensieri!

C’erano soltanto le immagini confuse di ciò che vedeva davanti a sé, semplici cose materiali, la porta borchiata di ferro, le candele, il fuoco. Un’evocazione delle vie parigine, i venditori ambulanti e gli strilloni, le carrozze scoperte, il suono di un’orchestra, il frastuono orrido delle parole e delle frasi dei libri che aveva letto di recente.

Non potevo sopportarlo, ma Gabrielle fece un gesto severo per indicarmi di non muovermi.

Qualcosa stava avvenendo nella cripta. Qualcosa avveniva nell’aria stessa.

Qualcosa cambiò mentre le candele si consumavano e il fuoco scoppiettava e lambiva le pietre annerite, e i ratti si muovevano nella sottostante camera dei morti.

Armand stava sotto l’arcata, e sembrava che fossero trascorse ore anche se non era vero, e Gabrielle era lontana, nell’angolo, con il viso concentrato, gli occhi radiosi e socchiusi.

Armand stava per parlarci, ma non avrebbe dato una spiegazione. Non c’era direzione nelle cose che avrebbe detto: era come se l’avessimo sventrato e le immagini uscissero come sangue.

Armand era un ragazzo, là sulla soglia, e teneva le braccia conserte. E io sapevo che cosa provavo. Era un’intimità mostruosa con un altro essere, un’intimità che faceva apparire fiacchi e controllati persino i momenti estatici delle uccisioni. Lui non riusciva più a trattenere il torrente abbagliante delle immagini che faceva apparire esile e lirica e artificiale la sua vecchia voce silenziosa.

Era sempre stato quello il pericolo, la molla della mia paura? Mentre lo riconoscevo, io cedevo, e sembrava che tutte le grandi lezioni della mia vita fossero state apprese tramite la rinuncia alla paura. Ancora una volta la paura frantumava il guscio intorno a me perché qualcosa d’altro potesse balzare alla vita.

Mai, mai in tutta la mia esistenza mortale e immortale ero stato minacciato da una simile intimità.

3. La storia di Armand

Adesso la camera era svanita. I muri erano scomparsi.

Vennero i cavalieri. Nuvole che si addensavano all’orizzonte. Poi urla di terrore. E un bambino dai capelli fulvi, nei rozzi panni da contadino, che correva e correva mentre i cavalieri si scatenavano e il bambino lottava e scalciava e poi veniva afferrato e gettato sulla sella di un cavaliere che lo portava via, al di là dei confini del mondo. Quel bambino era Armand.

E quelle erano le steppe meridionali della Russia, pur se Armand non sapeva che era la Russia. Conosceva la madre e il padre e la Chiesa e Dio e Satana, ma non comprendeva neppure il nome della patria o il nome della sua lingua, e non sapeva che i cavalieri erano tartari e che non avrebbe mai più veduto ciò che conosceva e amava.

Oscurità, il movimento tumultuoso della nave e la nausea incessante, l’emersione dalla paura e dalla disperazione, l’immensità splendente di palazzi impossibili, Costantinopoli negli ultimi giorni dell’impero bizantino, con le multitudini fantastiche e i mercati degli schiavi. La confusione delle lingue straniere, le minacce fatte nel linguaggio universale dei gesti, e tutto intorno i nemici che Armand non sapeva distinguere né placare né fuggire.

Sarebbero trascorsi anni e anni, di là da una vita mortale, prima che Armand rievocasse quel momento terribile e attribuisse nomi e storie ai funzionari bizantini di corte che avrebbero voluto castrarlo, e ai custodi degli harem islamici che avrebbero voluto fare altrettanto, e ai fieri guerrieri mamelucchi dell’Egitto che lo avrebbero portato con loro al Cairo se fosse stato più biondo e più forte, e ai veneziani eleganti con i farsetti di velluto, gli esseri più splendenti di tutti, cristiani come lui, che tuttavia ridevano tra loro mentre lo esaminavano e lui restava muto, incapace di rispondere e di supplicare, persino di sperare.

Vidi i mari davanti a lui, il grande azzurro ondeggiante dell’Egeo e dell’Adriatico, e di nuovo la nausea nella stiva e il voto solenne di non vivere più.

E poi i grandi palazzi moreschi di Venezia che si ergevano dalla superficie splendente della laguna, e la casa dov’era stato condotto, con le dozzine di camere segrete, la luce del cielo intravista solo dalle finestre chiuse da sbarre, e gli altri ragazzi che gli parlavano nelle dolci cadenze del veneziano, e le minacce e le lusinghe mentre veniva indotto, a dispetto delle sue parole e delle sue superstizioni, ai peccati che doveva commettere con l’interminabile processione di sconosciuti in quel panorama di marmi e di luce delle torce, mentre ogni camera si apriva su un nuovo quadro di tenerezza che si abbandonava allo stesso rituale e al desiderio inesplicabile e crudele.

E finalmente, una notte, quando per giorni e giorni aveva rifiutato di sottomettersi ed era affamato e dolorante e non voleva più parlare a nessuno, venne spinto di nuovo dalla stanza dov’era rinchiuso oltre una di quelle porte, così com’era, sporco e abbagliato dalla luce, e l’essere che lo attendeva, alto e vestito di velluto rosso, con il viso magro e quasi luminoso, lo toccò così dolcemente con le dita fresche che, quasi sognando, non pianse nel vedere le monete che passavano di mano. Ma erano molte monete. Troppe. L’avevano venduto. E la faccia era così levigata che forse era una maschera.

All’ultimo momento urlò. Giurò che avrebbe fatto quel che volevano, non si sarebbe più opposto. Qualcuno doveva dirgli dove lo portavano: non avrebbe più disobbedito, mai più. Ma, mentre veniva trascinato giù per le scale verso l’odore umido dell’acqua, sentì di nuovo le dita salde e delicate del nuovo padrone e, sul collo, le labbra fresche e tenere che non avrebbero mai, mai potuto fargli male, e quel primo bacio mortale e irresistibile.

Amore e amore e amore nel bacio del vampiro. Avvolse Armand e lo purificò, questo è tutto, mentre veniva portato sulla gondola e la gondola si muoveva come un grande scarabeo sinistro nello stretto rio, ed entrava nella volta sotto un’altra casa.

Ebbro di piacere. Ebbro delle seriche mani bianche che gli allisciavano i capelli e della voce che gli diceva che era bello; ebbro del volto che nei momenti intimi era intensamente espressivo e poi diventava sereno e splendente come se fosse fatto di gemme e alabastro. Era come una polla d’acqua rischiarata dalla luna. Bastava toccarlo con un dito perché tutta la vita salisse sulla superficie e poi svanisse di nuovo in silenzio.

Ebbro nella luce del mattino al ricordo di quei baci mentre, solo, apriva una porta dopo l’altra e scopriva libri e mappe e statue di granito e marmo, e l’altro apprendista lo trovava e lo conduceva con pazienza al lavoro… lo lasciava osservare mentre macinavano i pigmenti colorati, gli insegnava a mescolare il colore puro con il tuorlo d’uovo, e a stendere la lacca del tuorlo d’uovo sui pannelli, e lo portava sull’impalcatura mentre lavoravano con scrupolose pennellate ai margini dell’immensa rappresentazione di sole e nubi, e gli mostrava le grandi facce e le mani e le ali degli angeli che solo il pennello del Maestro avrebbe toccato.

Ebbro mentre sedeva al lungo tavolo con loro, se s’ingozzava dei cibi deliziosi che prima non aveva mai assaggiato e del vino che non scarseggiava mai.

E finalmente si addormentava per svegliarsi nel crepuscolo, quando il Maestro stava accanto al letto enorme, affascinante come una creatura di sogno nei panni di velluto rosso, con i folti capelli bianchi che scintillavano alla luce della lampada e la felicità più schietta nei fulgidi occhi color cobalto. Il bacio mortale.

«Ah, sì, non sarò mai separato da te, sì… non aver paura.»

«Presto, mio tesoro, presto saremo veramente uniti.»

Torce sfolgoranti in tutta la casa. Il Maestro sull’impalcatura con il pennello in mano: «Stai lì, alla luce, non muoverti». Ore e ore trascorse immobile nella stessa posizione: e poi, prima dell’alba, vedeva le sue sembianze dipinte, la faccia dell’angelo, il Maestro che sorrideva mentre si avviava nel corridoio interminabile…

«No, maestro, non lasciatemi, lasciate che rimanga con voi, non andate…»

Di nuovo giorno, e il denaro nelle sue tasche, monete d’oro, e la grandiosità di Venezia con i rii verde scuro murati tra i palazzi, e gli altri apprendisti che lo tenevano per il braccio, e l’aria pura e il cielo azzurro sopra piazza San Marco, come qualcosa che nell’infanzia aveva soltanto sognato, e di nuovo il palazzo all’imbrunire, e il Maestro chino con il pennello, che lavorava in fretta mentre gli apprendisti osservavano per metà inorriditi e per metà affascinati, il Maestro che alzava la testa, lo vedeva e posava il pennello e lo conduceva fuori dall’enorme studio mentre gli altri lavoravano fino a mezzanotte, il Maestro che gli prendeva il viso tra le mani quando, di nuovo soli nella camera da letto, gli dava il bacio segreto che non doveva essere mai rivelato a nessuno.

Due anni? Tre anni? Non c’erano parole per ricreare lo splendore di quel tempo… le flotte che lasciavano il porto per andare in guerra, gli inni che s’innalzavano davanti agli altari bizantini, le rappresentazioni della passione e dei miracoli recitate sui palchi nelle chiese e nella piazza, con l’entrata dell’inferno e i diavoli piroettanti, e i mosaici dorati sui muri di San Marco e il Palazzo Ducale, e i pittori che si aggiravano per le strade, Giambono, Uccello, i Vivarini e i Bellini; e i giorni festivi e le processioni, e sempre le ore piccole nelle stanze del palazzo, a luce di torcia, solo con il Maestro quando gli altri dormivano chiusi nelle loro camere. Il pennello del Maestro che volava sulla tavola come se scoprisse il dipinto anziché crearlo… sole e cielo e mare che si stendevano sotto le ali dell’angelo.

E quei momenti terribili e inevitabili, quando il Maestro si alzava urlando e scagliava tutt’attorno i barattoli dei colori e si portava le mani agli occhi come se volesse strapparseli.

«Perché non posso vedere? Perché non posso vedere meglio dei mortali?»

L’abbraccio al Maestro. L’attesa dell’estasi del bacio. Segreto Tenebroso. Il Maestro che usciva furtivamente un po’ prima dell’alba.

«Lasciate che venga con voi, Maestro.»

«Presto, mio tesoro, amor mio, mio piccolo, quando sarai abbastanza forte e abbastanza alto e in te non vi saranno più difetti. Ora vai, e godi tutti i piaceri che ti aspettano, trova l’amore di una donna e l’amore di un uomo nelle notti che seguiranno. Dimentica l’amarezza che hai conosciuto nel bordello e assapora queste cose, finché c’è ancora tempo.»

E raramente la notte si concludeva senza che quella figura tornasse, poco prima del sorgere del sole, questa volta animata e calda mentre si chinava su di lui per dargli quell’abbraccio che l’avrebbe sostenuto durante le ore del giorno fino al mortale bacio del crepuscolo.

Armand imparò a leggere e a scrivere. Portava i quadri alla destinazione finale, nelle chiese e nelle cappelle dei grandi palazzi, incassava i pagamenti e contrattava l’acquisto dei pigmenti e degli olii. Rimproverava i servitori quando i letti non erano rifatti e i pasti non erano pronti. Era amato dagli apprendisti e piangendo li mandava ai nuovi compiti quando avevano finito. Leggeva poesie al Maestro mentre questi dipingeva; e imparò a suonare il liuto e a cantare.

E nei periodi tristi, quando il Maestro lasciava Venezia per molte notti, era lui che governava in sua assenza, e nascondeva agli altri il proprio dolore, sapendo che sarebbe cessato al ritorno del Maestro e soltanto allora.

E finalmente una notte, quando persino Venezia dormiva…

«Ecco il momento, bellissimo. Il momento che tu venga a me e sia come me. È questo che vuoi?»

«Sì.»

«Vivere in segreto per sempre del sangue del malfattori, come faccio io, e custodire questi segreti sino alla fine del tempo.»

«Pronuncio il voto… per stare con voi, mio Maestro, sempre, voi siete il creatore di tutto ciò che sono. Non c’è mai stato un desiderio più grande.»

Il pennello del Maestro indicava il dipinto che saliva al soffitto, sopra le impalcature.

«Quello è l’unico sole che tu vedrai nell’avvenire. Ma un millennio di notti sarà tuo, per vedere la luce come non l’ha mai vista nessun mortale, per rapirla alle stelle lontane come se fossi Prometeo, un’illuminazione infinita che ti permetterà di comprendere tutte le cose.»

E poi, quanti mesi? Quanti mesi in potere del Dono Tenebroso?

La vita notturna, quando si aggiravano insieme nelle calli buie e lungo i canali, identificati con i pericoli dell’oscurità senza averne timore… e l’antica estasi dell’uccisione… mai, mai, però le anime innocenti. No, sempre il malfattore, scrutato fino a rivelare Set, il fratricida… e poi il male assorbito dalla vittima umana e trasformato in estasi, mentre il Maestro faceva da guida nel festino condiviso.

E poi la pittura, le ore solitàrie con il miracolo della nuova abilità, il pennello che a volte sembrava muoversi da solo sulla superficie smaltata, e loro due che dipingevano furiosamente il trittico, mentre gli apprendisti mortali dormivano tra i barattoli di colore e le bottiglie di vino, e un solo mistero turbava la serenità, il fatto che il Maestro, come in passato, ogni tanto dovesse lasciare Venezia per un viaggio che sembrava interminabile a quanti restavano in attesa.

La separazione era ancora più terribile. Andare a caccia solo, senza il Maestro, giacere solo nella cantina profonda dopo la caccia, ad aspettare. Non sentire l’eco della risata del Maestro né il battito del suo cuore.

«Ma dove andate? Perché non posso venire con voi?» supplicava Armand. Non erano accomunati dal segreto? Perché quel mistero non gli veniva spiegato?

«No, mio adorabile, non sei pronto per questo onere. Per ora deve essere soltanto mio, come lo è stato per più di mille anni. Un giorno mi aiuterai a fare ciò che devo, ma solo quando sarai pronto per la conoscenza, quando avrai dimostrato che desideri veramente sapere, e quando sarai abbastanza potente perché nessuno possa sottratti la conoscenza contro la tua volontà. Fino ad allora, devi comprenderlo, non posso far altro che lasciarti. Vado a occuparmi di Coloro-che-devono-essere-conservati, come ho sempre fatto.»

Coloro-che-devono-essere-conservati.

Armand rimuginava, impaurito. Ma la cosa peggiore era che gli sottraeva il Maestro; e imparava a non aver paura solo quando il Maestro tornava ogni volta da lui.

«Coloro-che-devono-essere-conservati sono in pace, o in silenzio», diceva mentre si toglieva dalle spalle il manto di velluto rosso. «Più di questo, non potremo mai sapere.»

E Armand e il Maestro uscivano di nuovo a banchettare, a tendere agguati ai malfattori nelle calli di Venezia.

Per quanto tempo sarebbe continuato… Per una vita mortale? Per cento vite?

Non trascorsero sei mesi in quella beatitudine tenebrosa, prima della sera in cui il Maestro si accostò alla sua bara nella cantina appena sopra il livello dell’acqua, e disse:

«Alzati, Armand. Dobbiamo andar via. Loro sono venuti!»

«Loro? Chi, Maestro? Coloro-che-devono-essere-conservati?»

«No, tesoro mio. Gli altri. Vieni, dobbiamo affrettarci.»

«Ma come possono farci male? Perché dobbiamo andar via?»

Le facce bianche alle finestre, i pugni battuti sulle porte. I vetri infranti. Il Maestro che girava lo sguardo sui quadri. L’odore di fumo. L’odore della pece che bruciava. Salivano dalla cantina. Scendevano dall’alto.

«Fuggi. Non c’è tempo di salvare nulla.» Su per la scala, fino al tetto.

Nere figure incappucciate che lanciavano le torce attraverso le porte, il fuoco che ruggiva nelle stanze più in basso, faceva scoppiare le finestre, saliva ribollendo la scala. Tutti i quadri stavano bruciando.

«Sul tetto, Armand. Vieni!»

Esseri come noi in quelle vesti scure! Altri come noi. Il Maestro li disperse mentre saliva correndo le scale. Le ossa s’incrinavano quando sbattevano contro il soffitto e le pareti,

«Bestemmiatore, eretico!» urlavano le voci. Braccia afferravano Armand e lo trattenevano. E in cima alla scala il Maestro si voltò per chiamarlo:

«Armand! Fidati della tua forza. Vieni!»

Ma loro si buttarono addosso al Maestro. Lo circondarono. Per ognuno che veniva scagliato contro il muro ne apparivano altri tre, e cinquanta torce vennero protese verso gli abiti di velluto del Maestro, le lunghe maniche rosse, i capelli bianchi. Il fuoco salì rombando al soffitto, lo consumò, lo trasformò in una torcia vivente, mentre con le braccia in fiamme si difendeva incendiando gli assalitori che gettavano le torce accese ai suoi piedi, come legna da ardere.

Ma Armand venne trascinato via, fuori dalla casa, con gli apprendisti mortali che urlavano. E sull’acqua, lontano da Venezia, tra grida e gemiti, nel ventre di un vascello terrificante come la nave dei mercanti di schiavi, in una radura sotto il cielo notturno,

«Bestemmiatore, bestemmiatore!» Il falò che ardeva e, intorno, la catena delle figure incappucciate e il salmodiare che saliva al cielo. «Nel fuoco.»

«No, no!»

E mentre guardava impietrito, vide trascinare verso la pira gli apprendisti mortali, i suoi fratelli, i suoi unici fratelli che urlavano atterriti e venivano scagliati tra le fiamme.

«No… basta, sono innocenti! Per amor di Dio, fermatevi, sono innocenti…» Urlava, ma era venuto il suo momento. Lo sollevarono mentre si dibatteva, e fu scagliato in alto, in alto, per ricadere tra le vampe.

«Maestro, aiutatemi!» Poi tutte le parole lasciarono il posto a un grido disperato.

Urla e pazzia.

Ma era stato trascinato via, riportato alla vita. Giaceva al suolo e guardava il cielo. Sembrava che le fiamme lambissero le stelle; ma era lontano e non sentiva più neppure il calore. C’era l’odore dei suoi abiti bruciati, dei capelli bruciati. Il dolore al viso e alle mani era terribile e il sangue defluiva da lui, e a stento riusciva a muovere le labbra.

«… Distrutte tutte le opere vane del tuo Maestro, tutte le creazioni vane da lui fatte tra i mortali con i Poteri Tenebrosi, immagini di angeli e santi e di viventi? Vuoi essere distrutto anche tu? O vuoi servire Satana? Scegli. Hai assaggiato il fuoco e il fuoco ti aspetta, affamato. L’inferno ti aspetta. Vuoi scegliere?»

«… sì …»

«… servire Satana come deve essere servito.»

«Sì…»

«… Tutte le cose del mondo sono vanità, e non userai mai i tuoi Poteri Tenebrosi per le vanità mortali, né per dipingere, né per creare musica, per danzare o per recitare a svago dei mortali, ma soltanto e per sempre al servizio di Satana, userai i tuoi Poteri Tenebrosi per sedurre e terrorizzare e distruggere, solo per distruggere,.,»

«Sì…»

«… consacrato al tuo unico signore, Satana, Satana per l’eternità, sempre e per sempre… per servire il tuo vero signore nella tenebra e nella sofferenza, e sottomettere la tua mente e il tuo cuore…»

«Sì.»

«E non avrai segreti per i tuoi fratelli in Satana, rivelerai tutto ciò che sai del bestemmiatore e del suo onere…»

Silenzio.

«Rivelerai tutto ciò che sai dell’onere, figliolo! Suvvia, le fiamme attendono.»

«Non ti capisco…»

«Coloro-che-devono-essere-conservati. Parla.»

«Che cosa devo dire? Non so nulla, se non che non voglio soffrire. Ho tanta paura.»

«La verità, Figlio delle Tenebre. Dove sono? Chi sono Coloro-che-devono-essere-conservati?»

«Non lo so. Guarda nella mia mente, se hai questo potere. Non c’è nulla che posso dire.»

«Ma che cosa sono, che cosa, figlio? Lui non te l’ha mai detto? Che cosa sono Coloro-che-devono-essere-conservati?»

Dunque non lo comprendevano neppure loro. Non era altro che una frase, per loro come per lui. Quando sarai abbastanza forte perché nessuno possa strapparti la conoscenza contro la tua volontà. Il Maestro era stato saggio.

«Quale significato ha? Dove sono? Dobbiamo avere una risposta!»

«Lo giuro, non la conosco. Lo giuro sulla mia paura, l’unica cosa che ormai possiedo. Non lo so.»

Facce bianche che apparivano sopra di lui, una alla volta. Le bocche prive di sapore che gli davano baci aspri e dolci, le mani che l’accarezzavano, e dai loro polsi cadevano gocce scintillanti di sangue. Volevano che la verità uscisse nel sangue. Ma che importanza aveva? Il sangue era il sangue.

«Ora sei figlio del diavolo.»

«Sì.»

«Non piangere per il tuo maestro Marius. Marius è all’inferno come merita. Ora bevi il sangue risanatore, e levati e danza con i tuoi simili per la gloria di Satana! E l’immortalità sarà veramente tua!»

«Sì…» Il sangue gli bruciò la lingua quando alzò la testa, lo riempì con torturante lentezza. «Oh, vi prego.»

Tutto intorno a lui frasi latine e il rullo sordo dei tamburi. Erano soddisfatti. Sapevano che aveva detto la verità. Non l’avrebbero ucciso e l’estasi metteva in ombra ogni altra considerazione. La sofferenza al viso e alle mani s’era dissolta in quell’estasi…

«Alzati, o giovane, e unisciti ai Figli delle Tenebre.»

«Sì, sì.» Mani bianche protese verso le sue mani. Corni e liuti che risuonavano striduli, più forti del rullo dei tamburi, le arpe pizzicate in ritmi ipnotici mentre il cerchio cominciava a muoversi. Figure incappucciate di nero come mendicanti, tonache che ondeggiavano quando sollevavano le ginocchia e incurvavano le schiene.

E poi spezzavano la catena delle mani, piroettavano e saltavano e ricadevano, giravano in tondo, e un canto sussurrante saliva più forte e più forte delle loro labbra chiuse.

Il cerchio girava più svelto. Il mormorio era una grande vibrazione malinconica senza forma o continuità, tutto sembrava un linguaggio, un’eco dei pensieri. Diventava sempre più alto, come un gemito che non riusciva a spezzarsi in un grido.

Anche Armand emetteva lo stesso suono… E poi, voltandosi, stordito dalle vertigini, balzò in alto nell’aria. Mani lo afferravano, labbra lo baciavano: volteggiava e veniva trascinato dagli altri, e alcuni gridavano in latino, altri rispondevano, altri ancora gridavano più forte, e risuonavano altre risposte.

Volava. Non era più vincolato alla terra e alla sofferenza terribile della morte del suo Maestro e della morte dei quadri e dei mortali che amava. Il vento l’avvolgeva, il calore gli investiva la faccia e gli occhi. Ma il canto era così bello che non aveva importanza se non conosceva le parole, se non sapeva pregare Satana, non sapeva credere né formulare una preghiera. Nessuno sapeva ciò che lui non sapeva, ed erano tutti in coro, e gridavano e si lamentavano e volteggiavano e spiccavano alti balzi e poi, ondeggiando, rovesciavano le teste mentre il fuoco li accecava e li lambiva e qualcuno gridava: «Sì, sì!»

E la musica ingigantì. Un ritmo barbarico esplose tutto intorno a lui da tamburi e tamburelli, e le voci divennero finalmente una melodia precipitosa. I vampiri alzarono le braccia, ulularono, volteggiarono intorno a lui in contorsioni folli, con le schiene inarcate, i piedi che battevano al suolo. Era il giubilo degli spiriti maligni nell’inferno. L’inaridiva e lo attirava. E quando le mani lo afferravano e lo facevano voltare, si torceva e danzava come gli altri, lasciava che la sofferenza lo pervadesse, piegava le membra e lanciava grida allarmate.

E prima dell’alba era in delirio, e aveva intorno una dozzina di fratelli che lo accarezzavano e lo acquietavano e lo conducevano giù giù per la scala aperta nelle viscere della terra.


A volte, nei mesi che seguirono, Armand sognò che il suo Maestro non fosse morto bruciato.

Sognò che il suo Maestro era caduto dal tetto come una cometa in fiamme ed era piombato nelle acque salvatrici del sottostante canale. E adesso era vivo, tra i monti dell’Italia settentrionale. Il suo Maestro lo chiamava. Il Maestro era nel sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati.

A volte, nel sogno, il Maestro era potente e radioso come sempre, e sembrava vestito di bellezza. Altre volte era annerito e incartapecorito, come una brace animata, con gli occhi immensi e gialli, e solo i suoi capelli bianchi erano lustri e abbondanti come un tempo. Era debole e si trascinava per terra e implorava Armand di aiutarlo. E dietro di lui una luce calda si irradiava dal sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati; c’era odore d’incenso e sembrava che vi fosse la promessa di un’antica magia, la promessa di una bellezza fredda ed esotica al di là del bene e del male.

Ma erano immagini vane. Il Maestro gli aveva detto che il fuoco e la luce del sole potevano distruggerli, e lui stesso aveva visto il Maestro avvolto dalle fiamme. Quei sogni… era come desiderare di ridiventare mortale.

E quando i suoi occhi si aprivano sulla luna e sulle stelle e sullo specchio immobile del mare davanti a lui, non conosceva né speranze né angosce né gioie. Tutte queste cose gli erano venute dal Maestro e il Maestro non c’era più.

«Io sono il figlio del diavolo.» Questa era poesia. Ogni volontà era estinta in lui, e non c’era altro che la confraternita tenebrosa; e adesso uccideva gli innocenti non meno dei colpevoli. E uccidere era soprattutto crudele.

A Roma, nella grande congrega delle catacombe s’inchinò a Santino, il capo che discese i gradini di pietra per accoglierlo a braccia aperte. Quel grande era nato dalla tenebra al tempo della Morte Nera, e parlò ad Armand della visione che gli era apparsa nell’anno 1349, quando la peste infuriava; la visione che anche noi dovevamo essere come la Morte Nera, un tormento senza spiegazioni, per indurre l’uomo a dubitare della misericordia e dell’intervento di Dio.

Nel sacrario ornato di teschi umani, Santino raccontò ad Armand la storia dei vampiri.

Siamo esistiti in tutte le epoche, come i lupi, flagello dei mortali. E nella congrega di Roma, ombra tenebrosa della Chiesa Romana, stava la nostra perfezione finale.

Armand conosceva già i rituali e le proibizioni comuni: ora doveva apprendere le grandi leggi:

Prima — ogni congrega doveva avere il suo capo, il solo che poteva ordinare di compiere l’Opera Tenebrosa su un mortale, e fare in modo che venissero debitamente rispettati i metodi e i riti.

Seconda — i Doni Tenebrosi non dovevano mai essere conferiti agli storpi, ai menomati, ai bambini e a coloro che, anche con i Poteri Tenebrosi, non potevano sopravvivere da soli. Inoltre, tutti gli umani che ricevevano i Doni Tenebrosi dovevano essere bellissimi, in modo che l’insulto a Dio fosse più grande nel compimento dell’Opera Tenebrosa.

Terza — un vampiro vecchio non doveva mai compiere questa magia, perché il sangue del novizio sarebbe diventato troppo forte. Infatti, i nostri doni crescono naturalmente con il tempo, e i vecchi hanno troppa forza da trasmettere. Le ferite e le ustioni… se queste ingiurie non annientano il Figlio di Satana, ne accresceranno i poteri quando sarà guarito. Tuttavia Satana protegge il gregge dalla potenza dei vecchi perché quasi tutti impazziscono.

A questo proposito, Santino fece notare ad Armand che a quel tempo non esisteva un vampiro che avesse più di trecento anni. Nessuno di coloro che erano vivi ricordava la prima congrega romana. Spesso il diavolo richiama a casa i suoi vampiri.

Ma Armand doveva anche sapere che l’effetto dell’Opera Tenebrosa è imprevedibile, anche quando viene trasmessa a un vampiro giovanissimo e con tutte le dovute precauzioni. Per ragioni a tutti ignote alcuni mortali, quando nascevano alla Tenebra, diventavano potenti come Titani, mentre altri erano soltanto cadaveri semoventi. Perciò i mortali dovevano essere scelti con acume. Coloro che possedevano grande passione e volontà indomabile dovevano essere evitati non meno di coloro che non le possedevano affatto.

Quarta — nessun vampiro può mai annientare un altro vampiro, ma il capo della congrega ha potere di vita e di morte su tutto il suo gregge. Inoltre è suo dovere guidare i vecchi e i pazzi nel fuoco quando non possono più servire Satana come dovrebbero. È suo dovere annientare tutti i vampiri che non sono stati creati secondo le regole. È suo dovere annientare coloro che sono feriti gravemente al punto di non poter sopravvivere da soli. E infine è suo dovere cercare di distruggere tutti coloro che hanno infranto le leggi.

Quinta — nessun vampiro deve rivelare la sua vera natura a un mortale e permettere che questo mortale viva. Nessun vampiro deve rivelare la storia della sua specie a un mortale e permettere che questo mortale viva. Nessun vampiro deve mettere per iscritto la storia della sua specie o notizie vere sui vampiri, perché questa storia potrebbe essere trovata e creduta dai mortali. E il nome di un vampiro non deve essere mai noto ai mortali, se non sulla sua pietra tombale, e nessun vampiro deve mai rivelare ai mortali l’ubicazione del suo covo o del covo di un suo simile.

Questi erano quindi i grandi comandamenti cui dovevano obbedire tutti i vampiri. Erano le condizioni dell’esistenza tra tutti i Non Morti.

Eppure Armand doveva sapere che s’era sempre parlato di antichi vampiri eretici dal potere spaventoso che non riconoscevano nessuna autorità, neppure quella del diavolo… vampiri che erano sopravvissuti per migliaia di anni. A volte venivano chiamati Figli dei Millenni. Nell’Europa settentrionale si parlava di Mael, che dimorava nelle foreste dell’Inghilterra e della Scozia; e in Asia minore c’era la leggenda di Pandora. E in Egitto c’era l’antica storia del vampiro Ramses, riapparso anche in quei tempi.

Erano storie che si ritrovavano in ogni parte del mondo. Era facile considerarle fantasie, ma c’era un particolare. L’antico eretico Marius era stato trovato a Venezia e punito dai Figli delle Tenebre. La leggenda di Marius era vera. Marius, però, non esisteva più.

Armand non disse nulla. Non parlò a Santino dei suoi sogni. Per la verità quei sogni si erano affievoliti nel suo ricordo come i colori dei quadri di Marius. Non erano più racchiusi nella sua mente e nel suo cuore, visibili a coloro che potevano cercarli.

Quando Santino parlò di Coloro-che-devono-essere-conservati, Armand confessò ancora una volta di non conoscerne il significato. Non lo conosceva neppure Santino né alcuno di tutti gli altri vampiri che Santino aveva incontrato.

Il segreto era morto. Marius era morto. Perciò l’antico, inutile mistero era consegnato al silenzio. Satana è il nostro Signore e Padrone. In Satana tutto viene compreso, tutto viene conosciuto.

Armand si rese gradito a Santino. Imparò a memoria le leggi, si perfezionò nel compimento degli incantesimi cerimoniali, dei riti e delle preghiere. Vide i Sabba più grandi cui avesse mai assistito. E imparò dai vampiri più potenti e più belli ed esperti. Imparò così bene che divenne missionario e fu inviato a raccogliere in congreghe i Figli delle Tenebre dispersi e a guidare altri nel compimento dei Sabba, e dell’Opera Tenebrosa, quando il mondo, la carne e il diavolo lo richiedevano.

In Spagna e in Germania e in Francia aveva insegnato le Benedizioni Tenebrose e i Rituali Tenebrosi, e aveva conosciuto Figli delle Tenebre selvaggi e tenaci, e fiamme flebili si erano accese in lui in loro compagnia, nei momenti in cui la congrega lo circondava e derivava da lui la propria unità.

Aveva perfezionato l’atto di uccidere al di là dell’abilità di tutti i Figli delle Tenebre di sua conoscenza. Aveva imparato a chiamare a sé coloro che desideravano veramente morire. Gli bastava accostarsi alle dimore dei mortali e chiamare in silenzio, per vedere apparire le sue vittime.

Giovani, vecchi, storpi, malati, brutti e belli, non aveva importanza perché non sceglieva. Irradiava visioni abbaglianti, se volevano riceverle, ma non si avvicinava, non li cingeva con le braccia. Attratti inesorabilmente verso di lui, erano loro ad abbracciarlo. E quando la loro carne calda e viva lo toccava, quando apriva le labbra e sentiva scorrere il sangue, conosceva l’unico ristoro per la sua infelicità.

Gli sembrava, nei momenti migliori, che il suo comportamento fosse profondamente spirituale, non contaminato dagli appetiti e dalle confusioni che costituivano il mondo, nonostante l’estasi carnale dell’uccisione.

In quell’atto, lo spirituale e il carnale si congiungevano: e sopravviveva lo spirituale, ne era convinto. Gli sembrava una santa comunione, il sangue dei Figli di Cristo che serviva a portare l’essenza della vita alla sua comprensione per la frazione di secondo in cui avveniva la morte. Solo i grandi santi di Dio gli erano eguali nella spiritualità, in quel confronto con il mistero, in quell’esistenza di meditazione e di rinunce.

Tuttavia aveva visto i più grandi dei suoi compagni sparire, attirare la distruzione su se stessi, impazzire. Aveva assistito alla dissoluzione inevitabile delle congreghe, aveva visto l’immortalità sconfìggere i Figli delle Tenebre più perfetti: e a volte gli sembrava una punizione terribile il fatto che non sconfìggesse anche lui.

Era destinato a diventare uno degli antichi, uno dei Figli dei Millenni? Si poteva credere nelle leggende che persistevano tuttora?

Ogni tanto un vampiro vagabondo parlava della favoleggiata Pandora, intravvista nella lontana città russa di Mosca, o di Mael che viveva sulla tetra costa inglese. I vagabondi parlavano persino di Marius: dicevano che era stato rivisto in Egitto oppure in Grecia. Ma non avevano veduto con i loro occhi quegli esseri leggendari. In realtà non sapevano nulla, ed erano storie che venivano ripetute spesso.

Non distraevano e non divertivano l’obbediente servitore di Satana. Con silenziosa devozione alle Tradizioni Tenebrose, Armand continuava nel suo dovere.

Eppure, nei secoli della lunga obbedienza, Armand aveva tenuto per sé due segreti. Erano sua proprietà, più suoi della bara in cui si rinchiudeva durante il giorno, più suoi dei pochi amuleti che portava.

Il primo era che, per quanto si sentisse solo, per quanto fosse lunga la ricerca di fratelli e sorelle capaci di dargli conforto, non compiva mai l’Opera Tenebrosa. Non avrebbe dato a Satana un Figlio delle Tenebre creato da lui.

E l’altro segreto, che teneva nascosto ai suoi seguaci per proteggerli, era semplicemente la profondità della sua disperazione sempre più grande.

Non desiderava nulla, non amava nulla, non credeva in nulla, non trovava piacere nei suoi poteri sempre crescenti, ed esisteva di momento in momento in un vuoto spezzato una volta per notte dall’uccisione… questo segreto l’aveva tenuto nascosto agli altri finché avevano avuto bisogno di lui ed era stato possibile guidarli, perché la sua paura avrebbe spaventato anche loro.

Ma adesso era finita.

Un grande cielo si era concluso, e già molti anni prima aveva sentito che stava per concludersi senza neppure comprendere che era un cielo.

Da Roma giungevano i racconti confusi dei viaggiatori, già vecchi quando gli venivano riferiti: il capo, Santino, aveva abbandonato il gregge. Alcuni dicevano che era impazzito e si aggirava per le campagne, altri che si era buttato nel fuoco, altri ancora che «il mondo» l’aveva inghiottito, ed era stato portato via a bordo di una carrozza nera in compagnia di alcuni mortali, e nessuno l’aveva più rivisto.

«Noi finiamo nel fuoco o nella leggenda», aveva detto uno dei narratori.

Poi giunsero notizie di caos a Roma, di dozzine di capi che indossavano le tonache nere per presiedere la congrega. Infine non si seppe più nulla.

Fin dall’anno 1700 dall’Italia non erano più arrivate notizie. Per mezzo secolo Armand non aveva potuto fidarsi della sua passione, e della passione di quanti gli stavano intorno, abbastanza per creare la frenesia del vero Sabba. E aveva sognato il suo vecchio Maestro, Marius, con le ricche vesti di velluto rosso, e aveva visto il palazzo pieno di quadri vibranti, e aveva avuto paura.

Poi era venuto un altro.

I suoi figli si precipitavano nelle cripte sotto gli Innocenti per descrivergli il nuovo vampiro che indossava un mantello di velluto rosso foderato di pelliccia, e poteva profanare le chiese e uccidere coloro che portavano le croci e aggirarsi nei luoghi della luce. Velluto rosso. Era solo una coincidenza, tuttavia lo esasperava, gli sembrava un insulto, una sofferenza gratuita che la sua anima non poteva sopportare.

E poi era stata creata la donna, la donna con i capelli leonini e il nome di un angelo, bella e potente come il figlio.

E Armand aveva salito la scala della catacomba, aveva guidato la sua banda contro di noi, come gli incappucciati erano andati ad annientare lui e il suo maestro, secoli prima.

Ed era stato un fallimento.

Il nuovo vampiro indossava quegli strani abiti di pizzo e broccato. Portava denaro in tasca. La sua mente brulicava delle immagini tratte dalle migliaia di libri che aveva letto. E Armand si era sentito trafiggere da tutto ciò che aveva veduto nei luoghi della luce nella grande città chiamata Parigi, ed era stato come se udisse il suo vecchio Maestro sussurrargli all’orecchio:

Ma un millennio di notti sarà tuo, per vedere la luce come non l’ha mai vista nessun mortale, per rapirla alle stelle lontane come se fosse Prometeo, un’illuminazione infinita che ti permetterà di comprendere tutte le cose.

«Tutte le cose sono sfuggite alla mia comprensione», disse. «Io sono come qualcuno che la terra ha restituito, e voi, Lestat e Gabrielle, siete come le immagini dipinte dal mio vecchio Maestro con l’ultramarino e il carminio e l’oro.»

Rimase immobile sulla soglia, con le braccia conserte. Ci guardava e chiedeva in silenzio:

Che cosa c’è da conoscere? Che cosa c’è da donare? Siamo abbandonati da Dio. E non c’è la Strada del Diavolo che si snoda davanti a me, e non ci sono le Campane dell’Inferno che rintoccano nelle mie orecchie.

4.

Trascorse un’ora. Forse di più. Armand era seduto accanto al fuoco. Sul suo volto non c’erano più i segni della battaglia dimenticata. Nella sua immobilità sembrava fragile come una conchiglia vuota.

Gabrielle gli sedeva di fronte e anche lei guardava le fiamme in silenzio. Aveva un’espressione stanca e compassionevole. Per me era doloroso non conoscere i suoi pensieri.

Io pensavo a Marius. Marius e Marius… il vampiro che aveva dipinto quadri nel mondo reale e del mondo reale. Trittici, ritratti, affreschi sulle pareti del suo palazzo.

E il mondo reale non aveva mai sospettato di luì, non gli aveva dato la caccia, non l’aveva respinto. Era stata la banda di demoni incappucciati a bruciare i dipinti, coloro che avevano in comune con lui il Dono Tenebroso… chissà se lui l’aveva mai chiamato così. Erano stati loro ad affermare che non poteva vivere e creare tra i mortali: non erano stati i mortali a farlo.

Vedevo il palcoscenico del teatro di Renaud e sentivo me stesso cantare, sentivo il canto diventare un ruggito. Nicolas diceva «È splendido». Io dicevo: «È meschino». Ed era come percuotere Nicolas. Nella sua immaginazione diceva ciò che non aveva detto quella notte: «Lascia che io abbia ciò in cui posso credere. Tu non lo faresti mai».

I trittici di Marius erano nelle chiese e nelle cappelle dei conventi, forse nelle sale dei palazzi di Venezia e Padova. I vampiri non sarebbero entrati nei luoghi sacri per staccarli. Perciò erano in qualche posto, forse con la firma inserita nei dettagli, creazioni del vampiro che si circondava di apprendisti mortali, aveva un’amante mortale dal quale beveva un po’ di sangue, e usciva da solo per uccidere.

Pensai alla notte nella locanda quando avevo visto l’insignificanza della vita, e la disperazione sconfinata della storia di Armand sembrò un oceano in cui potevo annegare. Era peggio della riva desolata nella mente di Nicki. Durava da tre secoli, quell’oscurità, quel nulla.

Il giovane radioso dai capelli fulvi che stava accanto al fuoco poteva aprire di nuovo la bocca: ne sarebbe uscita una tenebra simile all’inchiostro per avvolgere il mondo.

Cioè, se non vi fossero stati quel protagonista, quel maestro veneziano che aveva compiuto l’atto eretico di creare un significato sulle tavole dipinte da lui — perché doveva esserci un significato — e la nostra specie, eletta di Satana, che l’aveva trasformato in una torcia vivente.

Gabrielle aveva visto quei quadri nella storia, come li avevo veduti io? Ardevano nell’occhio della sua mente come ardevano nel mio?

Marius percorreva una strada nella mia anima, una strada che gli avrebbe permesso di vagare per sempre, con i demoni incappucciati che avevano ritrasformato i quadri in caos.

Con sofferenza sorda, pensai ai racconti dei viaggiatori… Marius era vivo, era stato visto in Egitto o in Grecia.

Volevo chiedere ad Armand se non era possibile. Marius doveva essere stato molto forte… Ma mi sembrava irrispettoso domandarlo.

«Una vecchia leggenda», mormorò. La sua voce era precisa quanto la voce interiore. Continuò, senza mai distogliere lo sguardo dalle fiamme. «Una leggenda dei tempi andati, prima che ci annientassero entrambi.»

«Forse no», dissi io. Un’eco delle visioni, i quadri appesi ai muri. «Forse Marius è vivo.»

«Noi siamo miracoli od orrori», disse Armand a voce bassa. «Dipende dal modo in cui vuoi vederci. E quando incominci a sapere di noi, attraverso il sangue scuro o le promesse o le apparizioni, pensi che tutto sia possibile. Ma non è così. Il mondo si rinserra subito intorno a questo miracolo; e non speri che se ne compiano altri. Ti abitui ai nuovi limiti e i limiti definiscono di nuovo tutto. Perciò dicono che Marius continua a esistere. Tutti loro continuano a esistere, chissà dove: è ciò che vuoi credere.

«Nella congrega di Roma non è rimasto uno solo, da quelle notti in cui mi fu insegnato il rituale; e forse neppure la congrega esiste più. Sono passati anni e anni dall’ultima volta che c’è stata qualche comunicazione. Ma esistono ancora tutti da qualche parte, no? Dopotutto, non possiamo morire.» Armand sospirò. «Non importa» disse.

C’era qualcosa che aveva importanza: qualcosa di più grande e terribile, la possibilità che quella disperazione potesse schiacciarlo, e che, nonostante la sete che c’era in lui, il sangue perduto nella lotta e la fornace silenziosa del suo corpo che guariva i lividi e la carne lacerata, non volesse avventurarsi a caccia lassù nel mondo, e preferisse la sete e il calore della fornace silenziosa. Pur di restare lì con noi.

Ma conosceva già la risposta. Sapeva che non poteva rimanere.

Io e Gabrielle non avevamo bisogno di parlare per farglielo sapere. Non dovevamo neppure risolvere la questione nelle nostre menti. Armand sapeva come Dio può conoscere il futuro, perché Dio è in possesso di tutti i fatti.

Un’angoscia intollerabile. È l’espressione di Gabrielle ancora più stanca e triste.

«Sai che con tutta la mia anima vorrei portarti con noi», dissi, sorpreso dalla mia emozione. «Ma sarebbe un disastro per tutti.»

Niente cambiò in lui. Sapeva. Gabrielle non si oppose.

«Non riesco a smettere di pensare a Marius», confessai.

Lo so. E non pensi a Coloro-che-devono-essere-conservati, e questo è molto strano.

«È solo un altro mistero», dissi. «E vi sono mille misteri. Io penso a Marius. Sono troppo schiavo delle mie ossessioni. È spaventoso insistere così su Marius, trarre dal racconto quell’unica figura radiosa.»

Non ha importanza. Se ti piace, prendila. Io non perdo ciò che dono.

«Quando un essere rivela la sua sofferenza in un simile torrente, è doveroso rispettare l’intera tragedia. Bisogna cercare di comprendere. E questa impotenza, questa disperazione sono per me quasi incomprensibili. Ecco perché penso a Marius. Capisco Marius, mentre non capisco te.»

Perché?

Silenzio.

Non meritava la verità?

«Sono sempre stato un ribelle», dissi. «Tu sei sempre stato lo schiavo di ciò che ti si imponeva.»

«Ero il capo della mia congrega!»

«No, eri lo schiavo di Marius, e poi dei Figli delle Tenebre. Eri caduto sotto l’incantesimo dell’uno e poi degli altri. Ciò che ora ti fa soffrire è l’assenza di un incantesimo. Mi fa rabbrividire che tu me l’abbia fatto credere per un po’, come se io fossi un essere diverso da ciò che sono.»

«Non importa», disse Armand, con gli occhi ancora fissi sul fuoco. «Tu pensi troppo in termini di decisione e di azione. Questo racconto non è una spiegazione. E io non sono un essere che richiede un riconoscimento rispettoso nei tuoi pensieri o nelle tue parole. E tutti sappiamo che la tua risposta è troppo immensa per essere espressa a voce, e tutti e tre sappiamo che è definitiva. Ma non so il perché. Quindi sono un essere molto diverso da te, e tu non puoi capirmi. Perché non posso venke con voi? Farò tutto ciò che vorrete, se mi condurrete con Voi, e sarò sotto il vostro incantesimo.»

Pensai a Marius e al suo pennello e ai barattoli di tempera al tuorlo d’uovo.

«Come hai potuto credere a ciò che ti hanno detto dopo che avevano bruciato quei quadri?» chiesi. «Come hai potuto votarti a loro?»

Agitazione, una collera crescente.

Prudenza sul volto di Gabrielle, ma non paura.

«E tu, quando sei salito sul palcoscenico e hai visto gli spettatori che urlavano e si affrettavano a fuggire, secondo le descrizioni dei miei seguaci, dal vampiro che terrorizzava la folla, la folla che si precipitava nel Boulevard du Temple… tu, che cosa credevi? Che non vi fosse posto per te fra i mortali, ecco. Sapevi che era così. Eppure non c’era una banda di diavoli incappucciati che te lo diceva. Lo sapevi. Così per Marius non c’era posto tra i mortali. E per me.»

«Ah, ma è diverso.»

«No, non lo è. Perciò disprezzi il Teatro dei Vampiri, che in questo momento recita i suoi piccoli drammi per incassare l’oro del pubblico. Tu non vuoi ingannare come ingannava Marius. Questo ti divide ancora di più dall’umanità. Vuoi fìngere d’essere mortale, ma ingannare ti irrita e ti ispira a uccidere.»

«In quel momento sul palcoscenico», dissi, «ho rivelato me stesso, e questo è il contrario dell’inganno. In un certo senso, rendendo manifesta la mia mostruosità, volevo ricongiungermi con i miei simili umani. Meglio che fuggissero da me, piuttosto che non mi vedessero. Meglio che sapessero che ero qualcosa di mostruoso, piuttosto che continuare ad aggirarmi per il mondo, non riconosciuto da coloro tra cui facevo le mie prede.»

«Ma non è stato meglio.»

«No. Era meglio ciò che faceva Marius. Lui non ingannava.»

«Al contrario. Ingannava tutti!»

«No. Aveva trovato il modo d’imitare la vita mortale, di essere come i mortali. Uccideva soltanto i malfattori e dipingeva come dipingono gli umani. Angeli e cieli azzurri, nuvole… sono le cose che tu mi hai mostrato con le tue parole. Creava cose belle e buone. E vedo in lui la saggezza e la mancanza di vanità. Non aveva bisogno di rivelarsi. Aveva vissuto mille anni e credeva nei panorami paradisiaci dipinti da lui più che in se stesso.»

Confusione.

Ora non ha importanza… Diavoli che dipingono angeli.

«Sono soltanto metafore», dissi. «E ha importanza! Se vuoi ricostruire, se vuoi ritrovare la Strada del Diavolo, ha importanza! Vi sono modi di esistere, per noi. Se potessi imitare la vita, se trovassi la via…»

«Dici cose che per me non significano nulla. Siamo abbandonati da Dio.»

Gabrielle gli lanciò un’occhiata. «Credi in Dio?» chiese.

«Sì, sempre in Dio», rispose Armand. «È Satana, il nostro padrone… è Satana la finzione, la finzione che mi ha tradito.»

«Oh, allora sei veramente dannato», dissi. «E sai bene che il tuo ingresso nella confraternita dei Figli delle Tenebre è stato la fuga da un peccato che non era un peccato.»

Collera.

«Il tuo cuore si spezza per qualcosa che non avrai mai», ribattè Armand, alzando la voce. «Hai portato a te Gabrielle e Nicolas, oltre la barriera, ma non hai potuto tornare indietro.»

«Perché non ascolti la tua stessa storia?» domandai. «Forse non hai mai perdonato a Marius di non averti avvertito sul loro conto e di averti lasciato cadere nelle loro mani? Non prenderai mai più nulla da Marius, né esempio né ispirazione? Io non sono Marius; ma ti dico che da quando ho messo piede sulla Strada del Diavolo, ho sentito parlare di un solo anziano capace d’insegnare qualcosa: Marius, il tuo maestro veneziano. E ora mi parla. Mi sta parlando di un modo per essere immortale.»

«Una beffa.»

«No! E sei tu quello cui si spezza il cuore per ciò che non avrà mai: un’altra fede, un altro incantesimo,»

Nessuna risposta.

«Non possiamo essere Marius per te», dissi, «e neppure il tuo signore tenebroso, Santino. Non siamo artisti con una grande visione che ti condurrà avanti. E non siamo i malefìci padroni di una congrega, pronti a condannare alla perdizione una legione intera. E questo dominio… questo mandato glorioso… è ciò che tu devi avere.»

Mi ero alzato istintivamente. Mi ero avvicinato al focolare e lo guardavo.

E con la coda dell’occhio vidi il cenno d’approvazione di Gabrielle, e il modo in cui aveva chiuso gli occhi per un momento come se si concedesse un sospiro di sollievo.

Armand stava perfettamente immobile.

«Dovrai soffrire in questo vuoto», dissi, «e trovare che cosa ti spinge a continuare. Se verrai con noi, ti deluderemo e tu ci distruggerai.»

«Soffrire, come?» Mi guardò e contrasse le sopracciglia in un’espressione toccante. «Come devo incominciare? Tu ti muovi come la mano destra di Dio! Ma per me il mondo, il mondo reale in cui viveva Marius è irraggiungibile. Non vi ho mai vissuto. Spingo contro il vetro. Ma come entrare?»

«Questo non posso dirtelo», risposi.

«Devi studiare quest’epoca», intervenne Gabrielle. La sua voce era calma ma imperiosa.

Armand la guardò.

«Devi comprendere l’epoca», continuò lei, «attraverso la sua letteratura e la sua musica e la sua arte. Sei uscito dalla terra, come dici tu stesso. Ora vivi nel mondo.»

Armand non rispose. Sprazzi dell’appartamento di Nicki con tutti i libri sul pavimento. La civiltà occidentale in un mucchio.

«E quale posto migliore del centro delle cose, il boulevard e il teatro?» chiese Gabrielle.

Lui aggrottò la fronte, girò la testa in segno di rifiuto, ma Gabrielle insistette.

«Il tuo dono è guidare la congrega, e la tua congrega esiste ancora.»

Armand si lasciò sfuggire un suono sommesso, disperato.

«Nicolas è un novizio», disse Gabrielle. «Può insegnare loro molte cose sul mondo, ma non può guidarli. La donna, Eleni, ha un’intelligenza straordinaria, ti cederà il posto.»

«Cosa contano per me i loro giochi?» sussurrò Armand,

«Sono un modo di esistere», disse lei. «E per te, ora, è l’unica cosa che conta.»

«Il Teatro dei Vampiri! Preferirei il fuoco.»

«Pensaci», disse Gabrielle. «In tutto questo c’è una perfezione che non puoi negare. Noi siamo illusioni di ciò che è mortale, e il palcoscenico è un’illusione della realtà.»

«È un abominio», disse lui. «Come l’ha chiamato Lestat? Meschino?»

«Per Nicolas, perché Nicolas vorrebbe usarlo come base per filosofìe fantastiche», disse Gabrielle. «Ora tu devi vivere senza filosofìe fantastiche, come facevi quando eri apprendista di Marius. Vivi per imparare a conoscere l’epoca. E Lestat non crede nel valore del male. Ma tu ci credi. Lo so.»

«Io sono malefico», disse Armand, quasi con una risata. «Non è questione di fede, vero? Ma credi che potrei allontanarmi dalla via spirituale che ho seguito per tre secoli, per abbandonarmi così alla voluttà e alla crapula? Noi eravamo i santi del male», protestò. «Non voglio essere il male comune. Non voglio.»

«Fa’ in modo che non sia comune», disse Gabrielle. Si stava spazientendo. «Se sei malefico, come possono la voluttà e la crapula esserti nemiche? Il mondo, la carne e il diavolo non cospirano egualmente contro l’uomo?»

Armand scosse la testa come per dire che non se ne curava.

«T’interessa più lo spirituale che il male», intervenni, osservandolo attentamente. «Non è così?»

«Sì», rispose subito.

«Ma non capisci? Anche il colore del vino in un bicchiere di cristallo può essere spirituale», continuai. «L’espressione di un volto, la musica di un violino. Un teatro parigino può essere infuso di spiritualità, anche se è materiale. In esso non vi è nulla che non sia stato modellato dalla forza di coloro che possedevano la visione spirituale di quanto doveva essere.»

Qualcosa si accese in lui, ma lo respinse.

«Seduci il pubblico con la voluttà», disse Gabrielle. «Per amore di Dio e del diavolo, usa come vuoi il potere del teatro.»

«I dipinti del tuo maestro non erano spirituali?» chiesi. Mi sentivo riscaldare a quel pensiero. «Forse qualcuno può guardare le grandi opere di quel periodo e non chiamarle spirituali?»

«Mi sono posto questo interrogativo», rispose Armand. «Molte volte. Era spirituale o era voluttuoso? L’angelo dipinto nel trittico era colto nella realtà materiale, oppure era la materialità trasfigurata?»

Qualunque cosa ti abbiano fatto dopo, tu non hai mai dubitato della bellezza e del valore dell’opera di Marius», dissi. «Lo so. Era la materialità trasformata. Cessava di essere colore e diventava magia, come nell’uccisione il sangue cessa di essere sangue e diventa vita.»

I suoi occhi si velarono, ma non irradiò nessuna visione. Qualunque fosse la strada che percorreva nei suoi pensieri, la percorreva da solo.

«Il carnale e lo spirituale», disse Gabrielle, «congiunti nel teatro come nei dipinti. Siamo per nostra natura demoni sensuali. Questa sia la tua chiave.»

Armand chiuse gli occhi per un momento, come per escluderci.

«Va’ da loro e ascolta la musica di Nicki», disse Gabrielle. «Crea l’arte insieme con loro nel Teatro dei Vampiri. Devi allontanarti da ciò che ti ha deluso e passare a ciò che può aiutarti. Altrimenti… non ci sono speranze.»

Avrei preferito che Gabrielle non lo dicesse con tanta brusca precisione.

Ma Armand annuì e strinse le labbra in un sorriso amaro.

«La sola cosa che è davvero importante per te», disse lentamente lei, «è spingerti agli estremi.»

La fissò senza capire. Non poteva comprendere ciò che intendeva. E io pensai che fosse una verità troppo brutale. Ma Armand non oppose resistenza. Il suo volto ridivenne pensieroso, levigato e fanciullesco.

Guardò a lungo il fuoco. Poi parlò:

«Ma perché dovete partire?» chiese. «Ora nessuno è in guerra contro di voi. Nessuno cerca di scacciarvi. Perché non potete costruirla insieme a me, questa piccola impresa?»

Intendeva forse che sarebbe andato a raggiungere gli altri, sarebbe entrato a far parte del teatro sul boulevard?

Non mi contraddisse. Mi stava chiedendo ancora perché io non potevo creare l’imitazione della vita, se era così che volevo chiamarla, proprio sul boulevard?

Ma si stava arrendendo. Sapeva che non potevo sopportare la vista del teatro o la vista di Nicolas. Non potevo spingerlo in quella direzione. L’aveva già fatto Gabrielle. E Armand sapeva che era troppo tardi per insistere ancora.

Alla fine Gabrielle disse:

«Non possiamo vivere tra i nostri simili, Armand».

E io pensai: «Sì, questa è la risposta più vera, e non so perché non potevo darla io».

«Noi cerchiamo la Strada del Diavolo», continuò Gabrielle. «E per ora bastiamo l’uno all’altra. Forse tra molti anni, quando saremo stati in mille luoghi e avremo visto mille cose, ritorneremo. E allora parleremo come abbiamo fatto questa notte.»

Per Armand non fu un trauma. Ma era impossibile capire che cosa pensava.

Rimanemmo a lungo in silenzio. Non so per quanto tempo restammo così.

Cercavo di non pensare più a Marius e neppure a Nicolas. Il senso del pericolo era scomparso, ma avevo paura della separazione e della sua tristezza, della sensazione di aver avuto da quell’essere la sua storia sbalorditiva e di avergli dato ben poco in cambio.

Fu Gabrielle che spezzò il silenzio. Si alzò e si accostò alla panca, con grazia.

«Armand», disse. «Noi ce ne andiamo. Se tutto avverrà come desidero, prima di domani a mezzanotte saremo a molte miglia da Parigi.»

Armand la guardò con calma rassegnata. Ormai era impossibile capire cosa aveva deciso di nascondere.

«Anche se non andrai al Teatro», disse Gabrielle, «accetta le cose che possiamo darti. Mio figlio ha ricchezze sufficienti per facilitarti l’entrata nel mondo.»

«Puoi prendere questa torre come tuo covo», dissi io. «Usala finché vorrai. Magnus l’aveva trovata piuttosto sicura.»

Dopo un momento lui annuì, serio e compito. Ma non disse nulla.

«Lascia che Lestat ti dia l’oro necessario per fare di te un gentiluomo», disse Gabrielle. «E in cambio ti chiediamo solo che lasci in pace la congrega, se decidi di non guidarla.»

Armand guardava di nuovo il fuoco. Il suo volto era sereno e di una bellezza irresistibile. Poi annuì di nuovo in silenzio. Quel cenno significava soltanto che aveva udito, non che faceva qualche promessa.

«Se non vuoi andare con loro», dissi io, «allora non far loro alcun male. Non far male a Nicolas.»

Quando pronunciai queste parole, sul suo volto si operò un cambiamento sottile. Era quasi un sorriso quello che si insinuò sui suoi lineamenti. I suoi occhi si volsero verso di me, e vi lessi il disprezzo.

Distolsi lo sguardo: ma la sua occhiata era stata un colpo violento.

«Non voglio che gli si faccia male», dissi in un bisbiglio teso.

«No. Tu vuoi che venga distrutto», sussurrò in risposta Armand. «Così non dovrai più temere o addolorarti per lui.» L’espressione di disprezzo divenne più acuta.

Gabrielle intervenne.

«Armand», disse, «per loro non è pericoloso. La donna basterà a tenerlo sotto controllo. E ha tante cose da insegnare a tutti voi a proposito di questo tempo, se lo ascolterete.»

Si guardarono a lungo in silenzio. Il viso di Armand era di nuovo tenero, bello e gentile.

Con un gesto stranamente decoroso, prese la mano di Gabrielle e la tenne. Si alzò con lei, le lasciò la mano, si scostò un poco e raddrizzò le spalle. Ci guardò entrambi,

«Andrò da loro», disse con la voce più dolce. «E prenderò l’oro che mi offrite e cercherò rifugio in questa torre. E imparerò dal vostro appassionato novizio tutto ciò che ha da insegnarmi. Ma mi aggrapperò a queste cose solo perché galleggiano sulla superficie della tenebra in cui sto affogando. E non vorrei sprofondare senza aver capito qualcosa di più. Non vorrei lasciare l’eternità a voi senza… senza una battaglia finale.»

Lo studiai. Ma non irradiava nessun pensiero che chiarisse queste parole.

«Forse, con il passare degli anni», aggiunse, «il desiderio tornerà a me. Conoscerò di nuovo l’appetito, forse anche la passione. Forse, quando ci incontreremo in un’altra epoca, queste cose non saranno astratte e fuggevoli. Parlerò con un vigore che eguaglierà il tuo anziché limitarsi a rispecchiarlo. E discuteremo sull’immortalità e la saggezza. Parleremo di vendetta e di rassegnazione. Per ora mi basta dire che voglio rivederti. Voglio che le nostre strade s’incrocino nel futuro. E solo per questa ragione farò ciò che tu chiedi e non ciò che vuoi: risparmierò il tuo sciagurato Nicolas.»

Emisi un sospiro di sollievo. Eppure il suo tono era così cambiato, così forte, da destare in me un allarme profondo e silenzioso. Era il signore della congrega, sicuramente, taciturno ed energico, colui che sarebbe sopravvissuto anche se l’orfano che era in lui piangeva.

Ma poi sorrise con grazia, e il suo volto divenne triste e accattivante. Ridiventò il santo di Leonardo o, più esattamente, il giovane dio del Caravaggio. E per un momento sembrò che non potesse essere malefico e pericoloso. Era troppo radioso, troppo saturo di saggezza e di bontà.

«Ricordate i miei avvertimenti», disse. «Non le mie maledizioni.» Gabrielle e io annuimmo.

«E quando avrete bisogno di me», continuò Armand, «io ci sarò.»

Poi Gabrielle fece una cosa sorprendente: lo abbracciò e lo baciò. Io feci altrettanto.

Armand era docile e gentile e affettuoso tra le nostre braccia. E ci fece sapere, senza parlare, che sarebbe andato a raggiungere la congrega e che l’avremmo trovato là l’indomani sera.

Un attimo dopo se n’era andato e Gabrielle e io eravamo soli, come se lui non fosse mai stato in quella stanza. Non sentivo alcun suono nella torre. C’era soltanto il vento che soffiava nella foresta.

E, quando salii la scala, trovai la porta aperta e i campi che si estendevano fino ai boschi nella quiete ininterrotta.

Lo amavo. Lo sapevo, per quanto mi apparisse incomprensibile. Ma ero lieto che fosse finita, lieto che potessimo proseguire. Tuttavia rimasi a lungo aggrappato alle sbarre, a guardare i boschi lontani, e più oltre il riflesso fioco della città sulle nubi basse.

E il dolore che provavo non era soltanto per aver perduto Armand, ma per Nicki e per Parigi e per me stesso.

5.

Non appena ridiscesi nella cripta vidi che Gabrielle stava attizzando il fuoco con l’ultima legna. Con movimenti lenti e stanchi ravvivava le fiamme e la luce era rossa sul suo profilo e nei suoi occhi.

Sedetti sulla panca a guardarla in silenzio, a guardare Pesplosione delle scintille sullo sfondo dei mattoni anneriti.

«Ti ha dato ciò che volevi?» chiesi.

«A suo modo, sì», disse lei. Posò l’attizzatoio e sedette di fronte a me, i capelli sciolti sulle spalle. Posò le mani sul piano della panca. «Ti assicuro, non mi dispiacerà se non dovrò più vedere un altro della nostra specie», disse freddamente. «Ne ho abbastanza delle loro leggende, delle loro maledizioni e delle loro angosce. E ne ho abbastanza della loro insopportabile umanità, forse la cosa più sorprendente che abbiano rivelato. Sono pronto a ritornare nel mondo, Lestat, come la notte in cui sono morta.»

«Marius…» dissi, emozionato. «Madre, vi sono gli antichi… coloro che hanno usato l’immortalità in un modo del tutto diverso.»

«Esistono davvero?» chiese lei. «Lestat, sei troppo generoso con la tua immaginazione. La storia di Marius sembra una favola.»

«Non è vero.»

«Il demonio orfano afferma di discendere non già dai luridi diavoli contadini cui somiglia», disse Gabrielle, «ma da un aristocratico perduto, quasi un dio. Ti assicuro che qualunque ragazzetto paesano che sogna davanti al fuoco della cucina ti racconterà una storia simile.»

«Madre, non può aver inventato Marius», dissi. «Forse io ho molta fantasia, ma lui non ne ha. Non avrebbe potuto inventare le immagini. Ti assicuro che ha visto tutte quelle cose…»

«Non avevo pensato a questo», ammise lei con un sorriso. «Ma potrebbe aver preso a prestito Marius dalle leggende…»

«No», dissi io. «Marius è esistito ed esiste ancora. E vi sono altri come lui. Vi sono i Figli dei Millenni, che hanno saputo usare i loro doni meglio di questi Figli delle Tenebre.»

«Lestat, l’importante è che li usiamo meglio noi», disse Gabrielle. «Tutto ciò che ho imparato da Armand è che gli immortali trovano seducente e irresistibile la morte e non riescono a sconfiggere la morte e l’umanità nelle loro menti. Ora, io voglio prendere quella conoscenza e portarla come un’armatura mentre mi muovo nel mondo. E non alludo al mondo del cambiamento che quegli esseri hanno trovato tanto pericoloso; mi riferisco al mondo che è sempre lo stesso dai tempi dei tempi.»

Ributtò i capelli all’indietro mentre guardava di nuovo nel fuoco. «Io sogno i monti coperti di neve», disse, «i deserti… le giungle impenetrabili e le grandi foreste del Nord America dove dicono che i bianchi non hanno mai messo piede.» Il suo volto si animò un poco quando mi guardò. «Pensaci», continuò. «Possiamo andare dovunque. E se i Figli dei Millenni esistono, forse sono là… lontano dal mondo degli uomini.»

«E come vivono, se è così?» le chiesi. Pensavo al mio mondo, pieno di esseri mortali, e alle cose che i mortali facevano. «Noi ci nutriamo degli umani.»

«Vi sono cuori che battono in quelle foreste», disse lei in tono sognante. «C’è sangue che scorre per chi lo prende… Ora posso fare le cose che facevi tu. Potrei combattere da sola contro quei lupi…» La voce si smorzò, come se fosse assorta nei suoi pensieri. «L’importante», disse dopo una lunga pausa, «è che possiamo andare dove vogliamo, Lestat. Siamo liberi.»

«Io ero libero prima», dissi. «Non mi curavo di ciò che diceva Armand. Marius, però… so che Marius è vivo. Lo sento. L’ho sentito quando Armand ne ha parlato. E Marius sa molte cose… non solo di ciò che ci riguarda, e di Coloro-che-devono-essere-conservati o altri antichi misteri… sa molte cose sulla vita stessa, sul nostro modo di muoverci nel tempo.»

«Quindi lascia che sia il tuo santo patrono, se ne hai bisogno», disse Gabrielle.

La risposta m’irritò, e non dissi altro. I suoi discorsi sulle giungle e le foreste mi avevano spaventato. E ricordai tutto ciò che Armand aveva detto per dividerci, come avevo previsto mentre pronunciava le parole scelte con cura. Perciò viviamo con le nostre divergenze, pensai, come i mortali, e forse i nostri dissidi sono esagerati quanto le nostre passioni e il nostro amore.

«C’era un solo indizio», disse Gabrielle mentre fissava il fuoco «una piccola indicazione che la storia di Marius contenesse un po’ di verità.»

«C’erano mille indicazioni», dissi io.

«Ha detto che Marius uccideva i malfattori», continuò lei. «E ha chiamato il malfattore Set, il fratricida. Lo ricordi?»

«Pensavo alludesse a Caino, l’uccisore di Abele. È Caino che ho visto nelle immagini, sebbene abbia sentito l’altro nome.»

«Appunto. Armand non capiva il significato di quel nome, Set: tuttavia l’ha ripetuto. Ma io so cosa significa.»

«Dimmelo.»

«È tratto dai miti greci e romani… la vecchia storia del dio egizio Osiride, ucciso dal fratello Set e divenuto signore dell’Oltretomba. Naturalmente, poteva darsi che Armand l’avesse letto in Plutarco; ma non è così, e questo è strano.»

«Ah, allora vedi: Marius esiste. Quando ha detto che era vissuto un millennio, diceva la verità.»

«Forse, Lestat, forse», disse Gabrielle.

«Madre, parlami di quella leggenda egiziana…»

«Lestat, hai anni a disposizione per leggere tu stesso tutte le antiche storie.» Si alzò e si curvò per baciarmi, e io sentii che, come sempre prima dell’alba, era diventata fredda e intorpidita. «In quanto a me, ho finito con i libri. Li leggevo quando non potevo fare niente altro.» Mi prese le mani. «Dimmi che domani saremo in viaggio, che non rivedremo i bastioni di Parigi fino a quando non avremo visto l’altra parte del mondo.»

«Come desideri», dissi io.

Si avviò verso le scale.

«Ma dove vai?» chiesi mentre la seguivo. Aprì la porta e si avviò verso gli alberi.

«Voglio vedere se posso dormire nella terra», rispose voltandosi verso di me. «Se domani non mi sveglierò, saprai che ho fallito.»

«Ma è una pazzia.», dissi. L’idea mi faceva inorridire. Raggiunse un boschetto di vecchie querce, s’inginocchiò e scavò con le mani tra le foglie morte e il terriccio umido. Era spaventoso: come se fosse una bella strega bionda che raspava il suolo con la rapidità di una bestia.

Poi si alzò e mi lanciò un bacio di commiato. Chiamò a raccolta tutte le sue forze e discese come se la terra le appartenesse. E io rimasi a guardare, incredulo, il vuoto dove lei stava poco prima, e le foglie che si riassestavano come se nulla le avesse disturbate.


Mi allontanai dal bosco, mi diressi a sud, lontano dalla torre. E mentre affrettavo il passo, cominciai a cantare sommessamente tra me una canzoncina, forse un frammento di melodia che i violini avevano suonato, quella sera al Palais Royal.

E ritornò il senso d’angoscia, la certezza che saremmo partiti davvero, che era tutto finito con Nicolas e con i Figli delle Tenebre e il loro capo, e non avrei rivisto Parigi, non avrei rivisto nulla di familiare per anni e anni. E nonostante il mio desiderio di essere libero, avrei voluto piangere.

Mi sembra, tuttavia, che il mio vagabondaggio avesse uno scopo che non avevo ammesso. Circa mezz’ora prima che spuntasse la luce del mattino ero sulla strada, presso le rovine di una vecchia locanda. Era l’avamposto cadente di un villaggio abbandonato, e solo i muri erano rimasti intatti.

Presi il pugnale e incominciai a incidere nella pietra tenera:


A MARIUS L’ANTICO: LESTAT TI STA CERCANDO. È IL MESE DI MAGGIO DELL’ANNO 1780 E Io MI DIRIGO A SUD DA PARIGI IN DIREZIONE DI LIONE. TI PREGO DI METTERTI IN CONTATTO CON ME.


Quando mi scostai, mi sembrò di aver commesso un atto di grande arroganza. E avevo già violato i comandamenti tenebrosi, rivelando il nome di un immortale e mettendolo per iscritto. Ebbene, farlo mi dava una soddisfazione meravigliosa. E dopotutto, non ero mai stato molto portato a obbedire alle regole.

PARTE VI SULLA STRADA DEL DIAVOLO DA PARIGI AL CAIRO

1.

Fu l’ultima volta che vedemmo Armand nel secolo decimottavo. Stava con Eleni e Nicolas egli altri attori vampiri davanti alla porta del teatro di Renaud a guardare la nostra carrozza che procedeva nel traffico del boulevard.

L’avevo trovato poco prima nel mio vecchio camerino: era con Nicolas, impegnato in una strana conversazione dominata dal sarcasmo e dal bizzarro ardore di Nicki. Portava una parrucca e una giacca rosso-scura, e mi sembrava che avesse già acquisito una nuova opacità come se ogni momento di veglia, dopo la fine della vecchia congrega, gli avesse conferito maggiore sostanza e maggiore forza.

Io e Nicki non avevamo nulla da dirci in quegli ultimi momenti imbarazzanti; ma Armand accettò garbatamente da me le chiavi della torre e un’ingente somma di denaro, con la promessa che Roget gliene avrebbe dato altro qualora ne avesse avuto bisogno.

La mente di Armand mi era chiusa; tuttavia, ripeté che non avrebbe fatto nulla di male a Nicolas. E, quando ci dicemmo addio, mi convinsi che Nicolas e la piccola congrega avevano ogni possibilità di sopravvivere e che io e Armand eravamo amici.

Al termine di quella prima notte io e Gabrielle eravamo lontani da Parigi, come avevamo deciso; e nei mesi che seguirono andammo a Lione, Torino e Vienna e quindi a Praga, Lipsia e Pietroburgo, poi di nuovo a sud, in Italia, dove saremmo rimasti per molti anni.

Finalmente proseguimmo per la Sicilia, e in seguito andammo in Grecia e in Turchia, poi ancora a sud attraverso le antiche città dell’Asia Minore e infine al Cairo, dove ci trattenemmo per diverso tempo.

E in tutti quei luoghi scrissi sui muri i miei messaggi per Marius.

A volte erano soltanto poche parole che scalfivo con la punta del coltello. In altri luoghi impiegavo ore per incidere nella pietra le mie elucubrazioni. Ma dovunque fossi scrivevo il mio nome, la data, la mia prossima destinazione e l’invito: «Marius, mettiti in contatto con me.»

In quanto alle vecchie congreghe, ne trovammo in numerose località: ma fin dall’inizio apparve chiaro che le antiche consuetudini stavano andando a pezzi. Avveniva di rado che più di tre o quattro vampiri continuassero i vecchi rituali; e quando capivano che non volevamo avere nulla a che fare con loro ci lasciavano in pace.

Molto più interessanti erano i solitari che scoprivamo nella società umana, vampiri che si fìngevano mortali con la nostra stessa abilità. Ma non ci avvicinavamo a loro. Fuggivano da noi come dovevano essere fuggiti dalle vecchie congreghe. E poiché nei loro occhi vedevo soltanto la paura, non ero tentato d’inseguirli.

Tuttavia era rassicurante sapere che non ero stato il primo demonio aristocratico a frequentare le sale da ballo del mondo in cerca di vittime… il gentiluomo esiziale che molto presto sarebbe apparso nei racconti e nelle poesie e nei bruttissimi romanzi popolari quale rappresentante tipico della nostra tribù. Ve n’erano altri che apparivano continuamente.

Ma nel nostro viaggio incontrammo creature delle tenebre ancora più strane. In Grecia trovammo demoni che non sapevano come erano stati creati, e a volte persino esseri folli, privi di raziocinio e di favella, che ci attaccavano come se fossimo mortali o fuggivano urlando quando recitavamo preghiere per spaventarli.

A Istanbul i vampiri vivevano nelle case, protetti da muri e porte, avevano le tombe nei giardini, e si abbigliavano come tutti gli umani di quelle terre, con vesti fluenti, per andare a caccia la notte per le strade.

Tuttavia anche loro inorridivano nel vedermi vivere tra i francesi e i veneziani e girare in carrozza e frequentare le feste nelle ambasciate e nelle residenze degli europei. Ci minacciavano, gridavano incantesimi, e scappavano in preda al panico quando reagivamo, e poi tornavano a perseguitarci.

I revenants che infestavano le tombe dei mamelucchi al Cairo erano mostri bestiali, vincolati alle antiche leggi da maestri insediati nelle rovine di un monastero copto. I loro riti erano pieni di magia orientale e di evocazione di molti demoni e spiriti maligni che chiamavano con nomi strani. Si tenevano lontani da noi, nonostante le minacce velenose che ci scagliavano: tuttavia conoscevano i nostri nomi.

Gli anni passavano, e non apprendevamo nulla da quegli esseri. E questo, naturalmente, non era per me una grande sorpresa.

E, sebbene in molte località i vampiri avessero sentito parlare delle leggende di Mario e degli altri antichi, non li avevano mai visti con i loro occhi. Persino Armand era diventato una leggenda per loro, e spesso domandavano: «Avete visto davvero il vampiro Armand?» Non incontrai un solo vampiro che fosse davvero vecchio. Non incontrai un solo vampiro che avesse una personalità magnetica, un essere dotato di grande saggezza e di qualità straordinarie, un essere eccezionale in cui il Dono Tenebroso avesse operato un’alchimia percettibile e degna di interesse.

Armand era una divinità in confronto a quegli esseri. E lo eravamo anche io e Gabrielle.

Ma sto correndo troppo.

Nei primi tempi, quando eravamo appena arrivati in Italia, acquisimmo una conoscenza più vasta degli antichi rituali. La congrega romana ci accolse a braccia aperte. «Venite al Sabba», ci dissero. «Venite nelle catacombe e partecipate agli inni.»

Sì, sapevano che avevamo distrutto la congrega di Parigi e avevamo sconfitto il grande maestro dei Segreti Tenebrosi, Armand. Ma non ci disprezzavano. Al contrario, non capivano cosa avesse indotto Armand a rinunciare al suo potere. Perché la congrega non era cambiata con i tempi?

Anche lì, infatti, dove le cerimonie erano così elaborate e sensuali da togliermi il respiro, anziché evitare le consuetudini degli uomini, i vampiri non rifuggivano dal farsi passare loro stessi per umani quando conveniva ai loro scopi. Era accaduto lo stesso con i due vampiri che avevamo visto a Venezia e con il piccolo gruppo incontrato poi a Firenze.

Avvolti in mantelli neri, si mescolavano alla folla all’opera, nei corridoi semibui dei palazzi durante i balli e i banchetti, e a volte frequentavano persino le taverne e le osterie, e spiavano gli umani da vicino. Qui, più che altrove, avevano l’abitudine di indossare gli abiti in uso al tempo della loro nascita, e spesso erano splendidamente abbigliati e ornati di gioielli, e ne facevano sfoggio.

Tuttavia, tornavano a dormire nei loro cimiteri fetidi, e fuggivano urlando davanti a ogni segno del potere celeste e si gettavano con abbandono selvaggio nei loro Sabba bellissimi e orripilanti.

In confronto i vampiri parigini erano stati primitivi, rozzi e infantili; ma capivo che erano state la raffinatezza e la mondanità di Parigi a spingere Armand e i suoi seguaci ad allontanarsi tanto dalle consuetudini dei mortali.

Mentre la capitale francese diventava laica, i vampiri si erano aggrappati alla vecchia magia; i mostri italiani, invece, vivevano tra umani molto religiosi, condizionati dalle cerimonie cattoliche, uomini e donne che rispettavano il male come rispettavano la Chiesa. In sostanza, le vecchie tradizioni dei demoni non erano diverse dalle vecchie tradizioni della gente italiana, e quindi i vampiri italiani si muovevano in entrambi i mondi. Credevano nelle vecchie usanze? Scrollavano le spalle. Per loro il Sabba era un grande piacere. Non era piaciuto anche a me e Gabrielle? Non avevamo partecipato alla danza?

«Tornate pure da noi quando volete», ci dissero i vampiri romani.

In quanto al Teatro dei Vampiri a Parigi, il grande scandalo che sconvolgeva i nostri simili in tutto il mondo, bene, ci avrebbero creduto quando l’avessero visto con i loro occhi. Vampiri che recitavano in palcoscenico, vampiri che incantavano gli spettatori mortali con trucchi e mimiche… pensavano che fosse terribilmente parigino. E ridevano.


Naturalmente, io ero informato direttamente della situazione del teatro. Prima ancora che arrivassi a Pietroburgo, Roget mi aveva mandato una lunga testimonianza sulla «bravura» della nuova compagnia.


Si presentano come gigantesche marionette di legno. Dalle travi scendono cordicelle dorate, legate alle caviglie e ai polsi e alla sommità della testa, e sembra che siano questi fili a manovrarli mentre eseguono le danze più affascinanti. Hanno le guance tinte di rosso e gli occhi sono grandi come bottoni di vetro. Non potete immaginare con quanta perfezione riescono a sembrare inanimati. Ma l’orchestra è un’altra meraviglia. Con le facce dipinte nello stesso modo, i suonatori imitano i musicisti meccanici, quei pupazzi snodati che si caricano con una chiave e strimpellano sugli strumenti o soffiano nelle trombe e producono vera musica! È uno spettacolo delizioso, e le dame e i gentiluomini che assistono discutono con accanimento se gli attori sono pupazzi o persone. Alcuni giurano che siano di legno e che le voci siano prodotte da ventriloqui.

In quanto ai testi, sarebbero assai sconvolgenti se non fossero tanto ingegnosi e così ben rappresentati.

C’è un dramma molto popolare in cui appare un vampiro che esce dalla tomba sul palcoscenico. È terrificante, con i capelli spioventi e le zanne. Ma s’innamora subito di una donna-marionetta e non immagina che non è viva. E, poiché non può bere il sangue dalla sua gola, presto il povero vampiro muore; in quel momento la marionetta rivela di essere viva anche se è di legno, e con un sorriso perfido esegue una danza trionfante sul corpo del mostro sconfitto. Vi assicuro che è uno spettacolo da agghiacciare il sangue. Tuttavia il pubblico va in delirio.

In un altro tableau, i ballerini-marionette si dispongono in cerchio intorno a una giovane umana e la convincono a lasciarsi legare con le cordicelle dorate come se fosse anche lei un pupazzo. Il risultato è doloroso: i fili la fanno ballare fino alla morte. La ragazza implora a gesti di venire liberata, ma le marionette vere continuano a ridere e a piroettare mentre lei agonizza.

La musica è incredibile. Ricorda gli zigani delle fiere di campagna. Il direttore è Monsieur de Lenfent. Ed è il suono del suo violino che spesso apre le rappresentazioni.

Quale vostro procuratore, vi consiglio di richiedere una parte degli utili guadagnati da questa straordinaria compagnia. Ogni sera ci sono davanti al botteghino file lunghissime che si snodano in tutto il boulevard.


Le lettere di Roget mi turbavano sempre. Mi lasciavano con il batticuore, e non potevo fare a meno di chiedermi: cosa mi ero aspettato che facesse la compagnia? Perché tanta audacia e tanta inventiva mi sorprendevano? Tutti noi avevamo il potere di fare cose simili.

Quando mi stabilii a Venezia, dove trascorsi molto tempo cercando invano i dipinti di Marius, ricevetti notizie di Eleni. Le sue lettere erano scritte con squisita grazia vampiresca.

Erano la più grande attrazione della Parigi notturna, mi scriveva. Da tutta Europa erano arrivati altri «attori» per unirsi a loro. La compagnia contava venti elementi, e persino la metropoli stentava a «mantenerli».

«Ammettiamo soltanto gli artisti più abili, coloro che possiedono un talento davvero eccezionale; ma apprezziamo soprattutto la discrezione. Non vogliamo scandali, come puoi bene immaginare.»

In quanto al «caro violinista», Eleni scriveva di lui con affetto: diceva che era il loro grande ispiratore e scriveva testi ingegnosissimi traendoli dalle storie che leggeva.

«Ma quando non lavora, spesso è insopportabile. Bisogna sorvegliarlo di continuo perché non ingrandisca il nostro numero. Si ciba in modo molto scorretto. E ogni tanto dice cose sconvolgenti agli estranei, ma per fortuna quelli hanno troppo buon senso per credergli.»

In altre parole, Nicki cercava di creare altri vampiri. E non andava a caccia con la dovuta discrezione.


Nel complesso è il nostro Più-vecchio-amico [Armand, naturalmente] che deve provvedere a tenerlo a freno. Lo fa con le minacce più caustiche. Parla spesso di antiche consuetudini religiose, di fuochi rituali, del passaggio a nuovi reami dell’essere. Non posso dire che non lo amiamo. Per amor tuo, avremmo cura di lui anche se così non fosse. Ma lo amiamo. E il nostro Più-vecchio-amico, in particolare, ha un grande affetto per lui. Devo tuttavia notare che nei tempi andati una persona simile non sarebbe durata molto in mezzo a noi.

In quanto al nostro Più-vecchio-amico, mi chiedo se ora lo riconosceresti. Ha costruito una grande dimora ai piedi della tua torre, e vi risiede tra libri e quadri come un gentiluomo colto, senza eccessivo interesse per il mondo reale.

Ogni sera, però, si presenta alla porta del teatro con la sua carrozza nera e assiste alla rappresentazione dal palco. Poi viene a risolvere tutte le dispute tra noi, a governare come ha sempre fatto, a minacciare il Nostro Divino Violinista: ma non acconsente mai a esibirsi sul palcoscenico. È lui che accetta i nuovi attori. Come ti ho detto, giungono da ogni parte. Non abbiamo bisogno di sollecitarli. Bussano alla nostra porta… Torna da noi. Vedrai, siamo molto più interessanti di un tempo. Vi sono mille meraviglie che non posso raccontare per lettera. Siamo stelle nella storia della nostra specie. E non avremmo potuto scegliere un momento più adatto nella vita di questa grande città, per la nostra piccola iniziativa. E la splendida esistenza che conduciamo è merito tuo. Perché ci hai lasciati? Ritorna!


Conservavo le lettere. Le conservavo con cura come le lettere che i miei fratelli m’inviavano dall’Alvernia. Vedevo le marionette con l’immaginazione. Sentivo il pianto del violino di Nicki. E vedevo Armand che arrivava con la carrozza nera e prendeva posto nel palco. E descrivevo tutto questo, in termini velati ed eccentrici nei miei lunghi messaggi a Marius, quando lavoravo freneticamente con lo scalpello in qualche strada buia nelle ore in cui i mortali dormivano.

Ma non pensavo di tornare a Parigi, per quanto potessi soffrire di solitudine. È mondo intorno a me era diventato il mio amante e il mio maestro. Ero affascinato da cattedrali e castelli, musei e palazzi. In ogni luogo che visitavo, entravo nel cuore della società, assimilavo i suoi svaghi e i suoi pettegolezzi, la sua letteratura e la sua musica, l’architettura e l’arte.

Potrei riempire interi volumi con tutte le cose che studiavo e mi sforzavo di comprendere. Ero incantato dai violinisti zigani e dai burattinai non meno che dai grandi soprani castrati dei teatri d’opera e dei cori delle chiese. Mi aggiravo nei bordelli, nelle bische e nei luoghi dove i marinai bevevano e litigavano. Leggevo i giornali dovunque andassi e battevo le taverne, dove spesso ordinavo cibo che non toccavo, solo per averlo davanti a me, e parlavo incessantemente con i mortali nei luoghi pubblici, offrivo loro da bere, aspiravo con l’odore delle loro pipe e dei loro sigari mentre fumavano, e lasciavo che tutti quegli odori mortali mi impregnassero i capelli e gli abiti.

E, quando non ero in giro, viaggiavo nel regno dei libri che era stato dominio esclusivo di Gabrielle per tutti i tetri anni mortali vissuti a casa.

Ancor prima che andassimo in Italia conoscevo abbastanza il latino per studiare i classici; e creai una biblioteca nel vecchio palazzo veneziano dove abitavo. Spesso leggevo per tutta la notte.

Naturalmente, era la storia di Osiride che mi incantava, e rievocavo la vicenda di Armand e le parole enigmatiche di Marius. Mentre studiavo l’antica versione, ero profondamente colpito da ciò che leggevo.

C’è un antico re, Osiride, un uomo dalla bontà ultraterrena che allontana gli egizi dal cannibalismo, insegna loro l’arte di coltivare le messi e di produrre il vino. E come viene assassinato dal fratello Set? Con un inganno, viene indotto a stendersi in una cassa delle esatte proporzioni del suo corpo; e Set inchioda il coperchio. Quindi getta la cassa nel fiume; e quando la sposa fedele, Iside, ritrova il corpo, Osiride viene attaccato nuovamente da Set che lo smembra. Tutte le parti del suo corpo vengono ritrovate, tranne una.

Ora, perché Marius aveva alluso a quel mito? Come potevo non pensare al fatto che tutti i vampiri dormono in sarcofagi, casse fatte secondo la misura dei loro corpi? Persino la marmaglia miserabile del Cimitero degli Innocenti dormiva nelle bare. Magnus mi aveva detto: «Dovrai sempre giacere in quella bara o in un’altra simile». In quanto alla parte mancante del corpo, la parte che Iside non aveva ritrovato, ebbene, vi è una parte di noi che non viene potenziata dal Dono Tenebroso, no? Possiamo parlare, vedere, sentire i sapori, respirare, muoverci come gli umani, ma non possiamo procreare. Non poteva neppure Osiride, che divenne Signore dei Morti.

Era un dio vampiro?

Ma c’erano tante cose che mì sconcertavano e mi tormentavano. Il dio Osiride era il dio del vino per gli egizi, e più tardi era stato chiamato Dioniso dai greci. E Dioniso era il «dio tenebroso» del teatro, il dio demoniaco che Nicki mi aveva descritto quando eravamo ragazzi, in Alvernia. E adesso avevamo a Parigi un teatro pieno di vampiri. Oh, era troppo.

Non vedevo l’ora di dire tutto ciò a Gabrielle.

Ma lei ascoltò con indifferenza e disse che c’erano centinaia di storie assai simili.

«Osiride era il dio del grano», disse. «Per gli egizi era un dio del bene. Cosa può avere a che fare con noi?» Lanciò un’occhiata ai libri che stavo studiando. «Hai molto da imparare, figlio mio. Molti dèi antichi furono smembrati e poi pianti dalle loro dee. Leggi le storie di Atteone e di Adone. Agli antichi queste storie piacevano molto.»

Poi se ne andò. Rimasi solo nella biblioteca al lume delle candele, in mezzo a tutti i libri.

Pensai al sogno di Armand, il sacrario tra le montagne di Coloro-che-devono-essere-conservati. Era una magia che risaliva ai tempi egiziani? Come mai i Figli delle Tenebre avevano dimenticato quelle cose? Forse era stato un capriccio poetico nel maestro veneziano, l’accenno a Set il fratricida, e niente di più.

Mi avventurai nella notte armato di scalpello. Incisi le mie domande per Marius su pietre che erano più vecchie di entrambi. Marius era diventato così reale per me, che era come se parlassimo, come avevamo fatto un tempo Nicki e io. Era il confidente che riceveva le mie emozioni, il mio entusiasmo, il mio stupore infinito per tutte le meraviglie e gli enigmi del mondo.


Ma quando i miei studi si approfondirono e le mie conoscenze si ampliarono, incominciai ad avere quel primo, impressionante indizio di ciò che poteva essere l’eternità. Ero solo tra gli umani, e i messaggi scritti a Marius non m’impedivano di essere conscio della mia mostruosità come lo ero stato in quelle prime notti a Parigi, molto tempo prima. In fondo, Marius non era là.

E non c’era neppure Gabrielle.

Fin dall’inizio o quasi, le predizioni di Armand si erano rivelate esatte.

2.

Ancor prima di lasciare la Francia, capitava che Gabrielle interrompesse il viaggio e scomparisse per intere notti. A Vienna, spesso rimaneva lontana per più di due settimane; e quando mi stabilii nel palazzo di Venezia, restò assente per mesi e mesi. Durante la mia prima visita a Roma, sparì per un semestre. E dopo che mi ebbe abbandonato a Napoli, tornai a Venezia senza di lei lasciando che tornasse nel Veneto da sola, come fece effettivamente.

Naturalmente l’attiravano la campagna, le foreste e le montagne e le isole dove non vivevano esseri umani. E ritornava così malconcia, con le scarpe consumate, gli abiti laceri, i capelli aggrovigliati, da apparire spaventosa quanto i membri della vecchia congrega parigina. Allora si aggirava nelle mie stanze in quell’abbigliamento sporco e negletto, e fissava le crepe dell’intonaco e la luce riflessa nei vetri delle finestre.

Perché gli immortali devono leggere i giornali o abitare nei palazzi? chiedeva. O portare monete d’oro in tasca? Oppure scrivere lettere ai parenti mortali?

Mi parlava sottovoce delle vette che aveva scalato, dei mucchi di neve, delle grotte piene di segni misteriosi e di antichi fossili.

Poi se ne andava, silenziosa com’era venuta, e io rimanevo ad attenderla amareggiato e furioso, e la trattavo con risentimento quando si decideva a ritornare.

Una notte, durante la nostra prima visita a Verona, mi fece trasalire in una strada buia.

«Tuo padre è ancora vivo?» chiese. Quella volta era rimasta assente due mesi. Avevo sentito terribilmente la sua mancanza, e lei adesso chiedeva dei nostri parenti come se le importasse qualcosa di loro. Ma quando risposi: «Sì, ed è molto ammalato», non mostrò di aver sentito. Cercai di dirle che in Francia le cose andavano molto male. Vi sarebbe stata sicuramente una rivoluzione. Lei scosse la testa con indifferenza.

«Non pensare più a loro», disse. «Dimenticali.» E se ne andò di nuovo.

Per la verità non volevo dimenticarli. Non avevo mai smesso di scrivere a Roget chiedendo notizie della mia famiglia. Scrivevo a lui più spesso di quanto scrivessi a Eleni al teatro. Avevo chiesto che mi inviassero ritratti dei miei nipoti. Spedivo regali in Francia da ogni località dove sostavo. E mi preoccupavo per la rivoluzione, come poteva preoccuparsene ogni francese mortale.

E finalmente, quando le assenze di Gabrielle divennero più prolungate e i momenti che trascorrevamo insieme più tesi e incerti, cominciai a discutere con lei.

«Il tempo porterà via la nostra famiglia», dicevo. «Il tempo porterà via la Francia che conoscevamo. Quindi perché dovremmo rinunciare a loro finché possiamo ancora averli? Ho bisogno di queste cose, ti dico. La vita è questo, per me!»

Ma non era la verità intera. Non avevo Gabrielle più di quanto avessi gli altri. E lei doveva sapere che cosa intendevo in realtà. Doveva aver capito le mie recriminazioni sottintese.

Erano discorsi che la rattristavano. Facevano affiorare in lei la tenerezza. Lasciava che le portassi abiti puliti e le pettinassi i capelli. Poi andavamo a caccia insieme e parlavamo. A volte veniva ai casinò con me o all’opera. Per un po’ tornava a essere una gran dama.

E quei momenti ci tenevano ancora legati. Perpetuavano la convinzione che fossimo ancora una piccola congrega, una coppia di amanti, vincitori del mondo mortale.

Quando stavamo seduti accanto al fuoco in una villa di campagna, o viaggiavamo insieme a cassetta sulla carrozza mentre io tenevo le redini, o passeggiavamo a mezzanotte nella foresta, ogni tanto ci scambiavamo ancora qualche osservazione.

Andavamo addirittura in cerca di case infestate… un passatempo nuovo ed eccitante. Anzi, a volte Gabrielle tornava da uno dei suoi viaggi proprio perché aveva sentito parlare di una presenza spettrale e voleva che andassi con lei a vedere.

Naturalmente, quasi sempre non trovavamo nulla negli edifici vuoti dove si diceva che apparissero gli spkiti. E gli sventurati che parevano posseduti dal diavolo spesso erano soltanto pazzi.

Tuttavia a volte vedevamo apparizioni fuggevoli o manifestazioni inspiegabili… oggetti scagliati qua e là, voci che uscivano ruggendo dalle bocche di bambini invasati, correnti gelide che spegnevano le candele nelle stanze chiuse.

Ma da tutto questo non imparammo mai nulla. Non vedemmo mai più di ciò che avevano già descritto cento studiosi mortali.

Alla fine, per noi divenne soltanto un gioco. E quando vi ripenso, adesso, so che lo facevamo perché serviva a farci restare insieme… ci offriva momenti conviviali che altrimenti non avremmo mai vissuto.

Ma le assenze di Gabrielle non erano le sole cose che distruggevano il nostro affetto reciproco con il passare degli anni. Era il suo modo di comportarsi quand’era con me… le idee che esponeva.

Aveva ancora l’abitudine di dire tutto ciò che le passava per la mente, e ben poco di più.

Una notte, nella nostra casetta in via Ghibellina a Firenze, ricomparve dopo un mese d’assenza e cominciò subito a spiegare.

«Sai, le creature della notte sono pronte per un grande capo», disse. «Non un superstizioso seguace dei riti, ma un grande monarca tenebroso che ci faccia agire secondo i nuovi princìpi.»

«Quali princìpi?» chiesi. Lei continuò, senza far caso alla mia domanda.

«Immagina», disse. «Non solo questo furtivo, ripugnante nutrirci dei mortali, bensì qualcosa di grandioso come era grandiosa la Torre di Babele prima di venir abbattuta dalla collera di Dio. Io parlo di un capo insediato in una reggia satanica, che mandi i suoi seguaci a mettere i fratelli contro i fratelli, a indurre le madri a uccidere i figli, a bruciare tutte le splendide realizzazioni dell’umanità, a devastare la terra stessa in modo che tutti muoiano di fame, innocenti e colpevoli! A creare dovunque sofferenze e caos e colpire le forze del bene, così che gli uomini disperino. Questo meriterebbe d’essere chiamato male, questa sarebbe veramente l’opera di un diavolo. Noi non siamo nulla, lo sai, se non creature esotiche nel Giardino Selvaggio, come tu mi hai detto. E il mondo degli uomini, ora, non è diverso da quello che vedevo nei miei libri in Alvernia, tanti anni fa.»

Detestavo quella conversazione. Tuttavia ero lieto che Gabrielle fosse in quella stanza con me, ero lieto di parlare con qualcuno che non fosse un povero mortale tratto in inganno, di non essere solo con le mie lettere da casa.

«E i tuoi interrogativi estetici?» chiesi. «Ciò che avevi spiegato ad Armand, il fatto che volevi sapere perché la bellezza esiste e continua a influire su di noi?»

Alzò le spalle.

«Quando il mondo dell’uomo andrà in rovina, la bellezza trionferà. Gli alberi ricresceranno dove ci sono le strade; i fiori ammanteranno di nuovo il prato che adesso è popolato di tuguri. Questo sarà lo scopo del maestro satanico: vedere l’erba e la foresta coprire ogni traccia delle città un tempo grandi, fino a quando non rimanga più nulla.»

«E perché chiami satanico tutto questo?» chiesi. «Perché non lo chiami caos? Non sarebbe altro.»

«Perché gli uomini lo chiamerebbero così. Sono stati loro a inventare Satana, no? Satanico è semplicemente il nome che danno al comportamento di quanti vorrebbero alterare il modo ordinato in cui gli umani aspirano a vivere.»

«Non capisco.»

«Ebbene usa la tua intelligenza sovrannaturale», disse Gabrielle, «mio bell’Uccisore di Lupi, mio bel figlio dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro. È possibile che sia stato Dio a creare il mondo come diceva Armand.»

«È questo che hai scoperto nella foresta? Te l’hanno detto le foglie?»

Rise.

«Certo, Dio non è necessariamente antropomorfo», disse. «O ciò che nel nostro egotismo sentimentale e gigantesco chiamiamo ‘una persona per bene’. Ma probabilmente c’è un Dio. Satana, però, è invenzione dell’uomo, un nome per la forza che cerca di sovvertire l’ordine civile delle cose. Il primo uomo che fece le leggi, fosse Mosè o l’antico re egizio Osiride, creò anche il diavolo. Il diavolo era colui che ti tentava per indurti a violare le leggi. E noi siamo veramente satanici in quanto non rispettiamo le leggi per la protezione dell’uomo. Quindi, perché non distruggere veramente? Perché non creare un grande rogo del male che consumi tutte le civiltà della terra?»

Ero troppo inorridito per rispondere.

«Non preoccuparti.» Gabrielle rise. «Non lo farò. Ma mi chiedo che cosa accadrà nei decenni futuri. Non ci sarà qualcuno che lo farà?»

«Mi auguro di no!» dissi. «O meglio, lascia che mi esprima così. Se uno di noi tenterà, vi sarà la guerra.»

«Perché? Tutti lo seguiranno.»

«Io no. Io gli farò guerra.»

«Oh, sei troppo divertente, Lestat», disse lei.

«È meschino», dissi.

«Meschino!» Aveva girato lo sguardo verso il cortile; ma tornò a volgerlo verso di me e le sue guance si colorarono. «Rovesciare tutte le città della terra? Capivo quando hai definito meschino il Teatro dei Vampiri… ma ora ti contraddici.»

«È meschino distruggere qualcosa per il solo gusto di distruggere, non credi?»

«Sei impossibile», disse Gabrielle. «In un lontano futuro, forse ci sarà un capo come quello di cui parlo. Ridurrà l’uomo alla nudità e alla paura da cui è uscito. E noi ci nutriremo senza sforzo come abbiamo sempre fatto, e il Giardino Selvaggio, come tu lo chiami, coprirà il mondo.»

«Quasi spero che qualcuno tenti di farlo», dissi. «Perché mi leverei contro di lui e farei tutto il possibile per sconfiggerlo. E forse potrei essere salvato, potrei essere di nuovo buono, secondo il mio giudizio, perché avrei agito per salvare l’uomo.»

Ero molto in collera. Mi alzai e andai in cortile.

Gabrielle mi seguì.

«Hai appena esposto il più antico argomento dei cristiani a sostegno dell’esistenza del male», disse. «Esiste perché noi possiamo combatterlo e compiere il bene.»

«E squallido e stupido», dissi io.

«Ecco ciò che non capisco in te», disse Gabrielle. «Ti aggrappi alla vecchia fede nel bene con una tenacia virtualmente incrollabile. Tuttavia sei così efficiente nell’essere ciò che sei. Dai la caccia alle tue vittime come un angelo delle tenebre. Uccidi senza pietà. Quando decidi di farlo, banchetti tutta la notte a spese dei mortali.»

«E con ciò?» La guardai freddamente. «Non posso fare a meno di essere malefico.»

Rise di nuovo.

«In gioventù ero un buon tiratore», continuai. «E un buon attore. Adesso sono un buon vampiro. Tutto sta a intendersi sul significato della parola ‘buono’.»


Dopo che Gabrielle se ne fu andata, mi stesi supino sulle pietre del cortile e guardai le stelle, pensando a tutti i quadri e alle statue che avevo visto nella sola città di Firenze. Odiavo i luoghi dove esistono soltanto degli alberi torreggiami, e per me la musica più dolce era il suono delle voci umane. Ma aveva davvero importanza ciò che pensavo e provavo?

Non sempre, tuttavia, Gabrielle mi sferrava mazzate con la sua strana filosofìa. Ogni tanto, quando ricompariva, parlava delle cose pratiche che aveva imparato. Era più coraggiosa e avventurosa di me. Mi insegnava parecchio.

Potevamo dormire nella terra, come lei aveva accertato prima che lasciassimo la Francia. I sarcofagi e le tombe non erano indispensabili. E risorgeva naturalmente dalla terra, al tramonto, ancora prima di risvegliarsi.

E i mortali che ci trovavano durante le ore del giorno, a meno che ci esponessero subito al sole, erano spacciati. Per esempio, nei pressi di Palermo lei aveva dormito nella cantina di una casa abbandonata; quando s’era svegliata, gli occhi e il viso le bruciavano come se fossero ustionati, e stringeva con la mano destra un umano morto, che apparentemente aveva cercato di disturbare il suo riposo.

«Era stato strangolato», mi disse. «E la mia mano era ancora stretta alla sua gola. Avevo il viso scottato dalla poca luce che penetrava dalla porta aperta.»

«E se i mortali fossero stati più d’uno?» chiesi, vagamente affascinato.

Scosse la testa e alzò le spalle. Ora dormiva sempre nella terra, non nelle cantine e nelle bare. Nessuno avrebbe più disturbato il suo riposo.


Non lo dicevo, ma ritenevo che fosse piacevole dormire nella cripta. Era molto poetico levarsi dalla tomba. Mi spingevo addirittura fino al punto di farmi fabbricare i sarcofagi nei luoghi dove sostavamo a lungo, e non dormivo nel camposanto o nella chiesa, com’era nostra consuetudine, bensì in nascondigli all’interno della casa.

Non posso dire che a volte Gabrielle non mi ascoltasse con pazienza quando le parlavo di queste cose. Ascoltava quando le descrivevo le grandi opere d’arte che avevo visto nei Musei Vaticani o il coro che avevo sentito nella cattedrale, o i sogni che avevo avuto nell’ultima ora prima del risveglio, i sogni che sembravano provocati dai pensieri dei mortali di passaggio accanto al mio covo. Ma forse si limitava a guardare il movimento delle mie labbra. Chi poteva dirlo? Poi se ne andava di nuovo senza spiegazioni, e io mi aggiravo solo per le vie, sussurravo chiamando Marius e gli scrivevo i lunghissimi messaggi che a volte richiedevano una notte intera per venir completati.

Che cosa volevo da lei? Che fosse più umana, che fosse come me? Le predizioni di Armand mi ossessionavano. E com’era possibile che lei non ci pensasse? Doveva sapere cosa stava accadendo, doveva capire che ci stavamo allontanando, che il mio cuore si spezzava, ma ero troppo orgoglioso per confessarglielo.

«Ti prego, Gabrielle. Non sopporto la solitudine. Resta con me.»

Quando lasciammo l’Italia, avevo cominciato a fare piccoli giochi pericolosi con i mortali. Vedevo un uomo o una donna, un essere umano che mi sembrava spiritualmente perfetto, e lo seguivo. Lo facevo magari per una settimana o per un mese, a volte per un tempo ancora più lungo. M’innamoravo. Immaginavo un’amicizia, una conversazione, un’intimità che non potevano esistere. In un magico momento immaginario dicevo: «Ma tu vedi ciò che sono», e l’essere umano, in una suprema intesa spirituale, diceva: «Sì. Capisco».

Era assurdo, come la favola della principessa che dona il suo amore altruista al principe stregato e questi ritorna se stesso e cessa di essere un mostro. Ma in quella favola tenebrosa io mi fondevo con l’amante mortale. Ci trasformavamo in un unico essere e io ridiventavo di carne e di sangue.

Un’idea magnifica. Ma cominciavo a pensare sempre di più agli avvertimenti di Armand: avrei compiuto ancora l’Opera Tenebrosa per le stesse ragioni che mi avevano spinto a farlo in passato. Smisi quel gioco. Andavo semplicemente a caccia con tutta la crudeltà vendicativa di un tempo, e non uccidevo soltanto i malfattori.


Nella città di Atene scrissi questo messaggio per Marius:

«Non so perché continuo. Non cerco la verità. Non credo nella verità. Non spero di avere da te la rivelazione di antichi segreti, quali che siano. Ma credo in qualcosa. Forse semplicemente nella bellezza del mondo in cui mi aggiro, o nella volontà di vivere. Questo dono mi è stato dato troppo presto. Mi è stato dato senza una ragione valida. E già all’età di trent’anni mortali comincio a capire perché tanti dei nostri simili l’hanno sprecato e si sono arresi. Eppure io continuo. E ti cerco.»


Non so per quanto tempo avrei potuto continuare a vagare in Europa e in Asia. Per quanto mi lamentassi della solitudine, vi ero abituato. E c’erano città nuove come c’erano nuove vittime, nuove lingue e nuove musiche da ascoltare. Per quanto soffrissi, volgevo la mente verso una destinazione nuova. Volevo conoscere tutte le città della terra, persino le capitali lontane dell’India e della Cina, dove gli oggetti più semplici sarebbero parsi insoliti e le menti che penetravo sarebbero sembrate strane come se appartenessero a creature di un altro mondo.

Ma mentre viaggiavamo verso sud, da Istanbul nell’Asia Minore, Gabrielle sentiva ancora più forte il fascino della terra nuova e sconosciuta, e non era quasi mai al mio fianco.

Tutto stava per giungere a un orrido culmine in Francia, e non solo per il mondo mortale che ancora mi stava a cuore, ma anche per i vampiri del teatro.

3.

Fin da prima di lasciare la Grecia avevo sentito notizie inquietanti dai viaggiatori inglesi e francesi, a proposito dei disordini in patria. E quando arrivai al caravanserraglio europeo in Ankara, trovai ad aspettarmi un voluminoso pacco di lettere.

Roget aveva trasferito tutto il mio denaro dalla Francia a varie banche straniere. «Non pensate neppure di tornare a Parigi», mi scriveva. «Ho consigliato a vostro padre e ai vostri fratelli di tenersi fuori da ogni disputa. Qui non è aria per i monarchici.»

Anche le lettere di Eleni parlavano più o meno delle stesse cose:


Gli spettatori vogliono vedere ridicolizzata l’aristocrazia. La nostra commediola, che mostrava una goffa regina calpestata spietatamente da una schiera di soldati-pupazzi quando cercava di comandarli, ha suscitato grandi risate.

Anche il clero è esposto alla derisione. In un’altra commediola abbiamo un prete borioso che si presenta per rimproverare a un gruppo di ballerine-marionette il loro comportamento indecente. Purtroppo il maestro di ballo, che è un diavolo con le corna rosse, trasforma lo sfortunato prete in un lupo mannaro, e le ragazze, ridendo, lo chiudono in una gabbia dorata.

Tutto ciò è frutto del genio del nostro Divino Violinista; ma ormai dobbiamo stare con lui in ogni momento. Per costringerlo a scrivere, lo leghiamo alla sedia e gli mettiamo davanti inchiostro e carta. E se il sistema non funziona, ci facciamo dettare le commedie e pensiamo noi a scriverle.

Egli cerca di accostare i passanti per le strade e di spiegare loro, appassionatamente, l’esistenza di orrori inimmaginabili. E ti assicuro che, se Parigi non fosse tanto impegnata a leggere i pamphlet che accusano la regina Maria Antonietta, a quest’ora avrebbe potuto rovinarci tutti. Il nostro Più-vecchio-amico s’infuria sempre di più.


Naturalmente le scrissi subito, implorandola di avere pazienza con Nicki, di cercare di aiutarlo a superare quei primi anni. «Senza dubbio lo si può influenzare», scrissi. E per la prima volta chiesi: «Avrei il potere di cambiare le cose, se tornassi?» Guardai a lungo quelle parole prima di firmare. Mi tremavano le mani. Poi chiusi la lettera e la spedii immediatamente.

Come potevo tornare? Per quanto sentissi la solitudine, non sopportavo il pensiero di tornare a Parigi, di rivedere il teatrino. E cosa avrei fatto per Nicolas, quando fossi tornato? La lontana ammonizione di Armand mi echeggiava all’orecchio.

In realtà sembrava che, dovunque mi trovassi, Armand e Nicki fossero con me, Armand pronto a lanciare moniti e predizioni, Nicolas che mi sfidava con il piccolo miracolo dell’amore convertito in odio.

Non avevo mai avuto tanto bisogno di Gabrielle come l’avevo ora. Ma lei era già partita per precedermi nel viaggio. Ogni tanto ricordavo come erano andate le cose prima che lasciassimo Parigi. Ma da lei non mi aspettavo più niente.

A Damasco trovai ad attendermi la risposta di Eleni.


Lui ti disprezza più che mai. Quando gli suggeriamo che forse dovrebbe venire da te, ride. Ti dico queste cose non per tormentarti ma per farti sapere che facciamo di tutto per proteggere questo giovane che non avrebbe mai dovuto nascere alle Tenebre. E sopraffatto dai suoi poteri, abbagliato e travolto dalla sua visione. Già altre volte abbiamo visto finire tristemente storie come la sua. Il mese scorso, tuttavia, ha scritto il suo dramma più grande. I danzatori-marionette, che stavolta non hanno i fili, sono falciati nel fiore della giovinezza da una pestilenza e vengono sepolti sotto lapidi coperte di fiori. Il prete piange su di loro e se ne va. Ma un giovane violinista-mago viene nel cimitero e li risuscita con la sua musica. Escono dalle tombe come vampiri, tutti vestiti di gale di seta nera e nastri di raso nero, e ballano allegramente seguendo il violinista verso Parigi dipinta sul fondale. Il pubblico acclama. Ti assicuro che potremmo nutrirci di vittime umane sul palcoscenico e i parigini, credendola una nuova illusione, non farebbero altro che applaudire.


C’era anche una lettera allarmante di Roget.

Parigi era in preda alla follia rivoluzionaria. Il re Luigi era stato costretto a riconoscere l’Assemblea Nazionale. Il popolo di tutte le classi s’era unito contro di lui come non era mai avvenuto. Roget aveva mandato un messaggero al sud per parlare con i miei familiari e cercare di accertare quali erano gli umori rivoluzionari nella campagna.

Risposi alle due lettere con tutta la preoccupazione comprensibile e tutto il prevedibile senso d’impotenza.

Ma, mentre spedivo la mia roba al Cairo, avevo il timore che tutte le cose da cui dipendevo fossero in pericolo. Esteriormente ero immutato, mentre continuavo a spacciarmi da gentiluomo viaggiatore; interiormente il cacciatore diabolico delle viuzze buie era ammutolito e sperduto.

Naturalmente mi dissi che dovevo andare a sud, in Egitto, che l’Egitto era una terra di antiche meraviglie grandiose, e mi avrebbe incantato e mi avrebbe fatto dimenticare le cose che accadevano a Parigi e che non avevo il potere di cambiare.

Ma nella mia mente esisteva un nesso. L’Egitto, più di ogni altra terra al mondo, era innamorato della morte.

Finalmente Gabrielle giunse come uno spirito dal deserto arabo, e c’imbarcammo insieme.


Trascorse quasi un mese prima che arrivassimo al Cairo; e quando trovai la mia roba ad attendermi nel caravanserraglio europeo, vidi che c’era anche uno strano pacco.

Riconobbi subito la scrittura di Eleni, ma non capii perché mai mi avesse inviato un pacco: restai a fissarlo per un quarto d’ora, con la mente vuota.

Roget non aveva mandato notizie.

Perché Roget non mi ha scritto? pensai. Cosa c’è nel pacco? Perché è qui?

Alla fine mi resi conto che ero da un’ora nella stanza tra i bauli e le casse e fissavo quel pacco. E Gabrielle, che non aveva ancora deciso di scomparire, si limitava a osservarmi.

«Ti dispiace uscire?» sussurrai.

«Se vuoi», mi rispose.

Era importante aprire il pacco, sì, aprirlo e vedere che cos’era. Eppure mi sembrava altrettanto importante girare lo sguardo sulla stanzetta spoglia e immaginare che fosse una camera nella locanda di un villaggio dell’Alvernia.

«Ti ho sognato», dissi a voce alta mentre guardavo il pacco. «Ho sognato che viaggiavamo per il mondo insieme, tu e io, ed eravamo sereni e forti. Ho sognato che ci nutrivamo dei malfattori come aveva fatto Marius, e mentre ci guardavamo intorno provavamo timore e sofferenza per le miserie che vedevamo. Ma eravamo forti. Potevamo continuare per sempre. E parlavamo. La ‘nostra conversazione’ non s’interrompeva.»

Strappai l’incarto e vidi la custodia dello Stradivari.

Feci per dire ancora qualcosa, parlando a me stesso; ma un nodo mi strinse la gola. E la mia mente non riuscì a continuare il discorso. Presi la lettera che era scivolata sul legno lucido.


Come temevo, è accaduto il peggio. Il nostro Più-vecchio-amico, esasperato dagli eccessi del Nostro Violinista, ha finito per imprigionarlo nella tua vecchia residenza. E, sebbene gli avesse lasciato il violino nella cella, gli ha tolto le mani.

Ma sappi che, per noi, queste appendici possono sempre essere restituite. E le appendici in questione erano custodite dal nostro Più-vecchio-amico, che per cinque notti non ha concesso alcun nutrimento al nostro mutilato.

Finalmente l’intera compagnia ha convinto il nostro Più-vecchio-amico a liberare N. e a rendergli tutto ciò che era suo. Così è stato fatto.

Ma N., stravolto dalla sofferenza e dalla fame (perché queste possono alterare in modo completo il temperamento), si è chiuso in un silenzio infrangibile ed è rimasto così molto a lungo. Infine è venuto da noi e ha parlato solo per dirci che, come fanno i mortali, aveva messo ordine nei suoi affari. C’erano a nostra disposizione un mucchio di commedie appena scritte. E dovevamo andare con lui in campagna, per celebrare l’antico Sabba con il falò tradizionale. Se non avessimo acconsentito, avrebbe fatto del teatro la sua pira funebre.

Il nostro Più-vecchio-amico gli ha accordato solennemente il consenso; e ti assicuro che non hai mai assistito a un Sabba come questo perché credo che apparissimo più infernali che mai con le nostre parrucche e gli eleganti costumi neri di scena da vampiri, mentre formavamo il cerchio e cantavamo i vecchi canti con la tipica spavalderia degli attori.

«Avremmo dovuto farlo sul boulevard», ha detto N. «Ma ecco, manda questo al mio creatore.» E mi ha messo tra le mani il violino. Abbiamo cominciato a danzare tutti, per indurre la consueta frenesia; e credo che non avessimo mai provato più commozione, più terrore e più tristezza. Lui si è buttato tra le fiamme. So quanto ti colpirà questa notizia. Ma sappi che abbiamo fatto tutto il possibile per impedirlo. Il nostro Più-vecchio-amico era angosciato e amareggiato. E penso tu debba sapere che, al nostro ritorno a Parigi, abbiamo scoperto che N. aveva ordinato di chiamare ufficialmente Teatro dei Vampiri il nostro teatro e che la scritta era già stata dipinta sulla facciata. Dato che i suoi drammi migliori hanno sempre incluso vampiri e lupi mannari e altri esseri sovrannaturali, il pubblico pensa che la nuova denominazione sia divertente e nessuno ha chiesto di cambiarla. A Parigi, di questi tempi, è considerata molto spiritosa.


Diverse ore più tardi, quando finalmente scesi in strada, vidi nell’ombra uno spettro pallido e bellissimo… l’immagine del giovane esploratore francese con l’abito di lino bianco impolverato e gli stivali, e il cappello di paglia calcato sugli occhi.

Sapevo chi era e sapevo che un tempo ci eravamo amati, lei e io: ma sembrava che per il momento fosse qualcosa che non potevo ricordare o credere veramente.

Volevo dirle qualcosa di cattivo, per ferirla e allontanarla. Ma quando si avvicinò a me e mi si affiancò, non aprii bocca. Le diedi la lettera in modo che non fosse necessario parlare. La lesse e la mise via, quindi mi cinse con un braccio come usava fare molto tempo prima, e ci avviammo insieme per le vie buie.

Odore di morte e di fuochi, di sabbia e di stereo di cammello. L’ odore dell’Egitto. L’odore di un luogo rimasto immutato per seimila anni.

«Che cosa posso fare per te, carissimo?» sussurrò lei.

«Niente.»

Era stata opera mia. Ero stato io che l’avevo sedotto, avevo fatto di lui ciò che era e l’avevo abbandonato. Avevo deviato il cammino che avrebbe potuto percorrere la sua vita. E così, nell’oscurità, lontano dal suo corso umano, era tutto finito.


Più tardi lei attese in silenzio mentre scrivevo un messaggio per Marius sul muro di un antico tempio. Parlai della fine di Nicolas, il violinista del Teatro dei Vampiri, e scolpii profondamente le mie parole come avrebbe fatto un antico scalpellino egizio. Un epitaffio per Nicki, una pietra miliare nell’oblio, che nessuno avrebbe mai letto e compreso.


Era strano averla vicina. Era strano averla con me un’ora dopo l’altra.

«Non ritornerai in Francia, vero?» mi chiese a un tratto. «Non tornerai per ciò che lui ha fatto?»

«Le mani?» chiesi. «Le mani tagliate?»

Mi guardò, e il suo volto si spianò come se un trauma avesse cancellato ogni espressione. Ma sapeva. Aveva letto la lettera. Che cosa la sconvolgeva? Forse il modo in cui l’avevo detto.

«Pensavi che sarei tornato per vendicarmi?»

Annuì, incerta. Non voleva mettermi in mente quell’idea.

«Come potrei?» dissi. «Sarebbe ipocrisia, no, quando ho lasciato Nicolas contando su tutti loro perché facessero ciò che doveva essere fatto?»

I cambiamenti sul suo volto erano troppo sottili per descriverli. Non mi faceva piacere vedere la profondità dei suoi sentimenti. Non era da lei.

«Il fatto è che il piccolo mostro cercava di essere utile quando l’ha fatto, quando gli ha tagliato le mani, non credi? Deve essere stato doloroso per lui, in realtà, quando avrebbe potuto bruciare facilmente Nicki senza stare a riflettere.»

Lei annuì, mesta e bellissima. «Lo pensavo anch’io», disse. «Ma non credevo che tu fossi d’accordo.»

«Oh, sono un mostro quanto basta per comprenderlo», dissi. «Ricordi ciò che mi dicesti anni fa, prima che ce ne andassimo da casa? Lo dicesti il giorno in cui Nicki venne con i mercanti a offrirmi il mantello rosso. Dicesti che suo padre era furioso con lui perché suonava il violino, tanto che aveva minacciato di fracassargli le mani. Credi che troviamo comunque il nostro destino, qualunque cosa avvenga? Voglio dire, credi che anche da immortali seguiamo una strada che era già tracciata per noi quando eravamo vivi? Immagina… il maestro della congrega che taglia le mani.»


Nelle notti che seguirono apparve evidente che non voleva lasciarmi solo. Intuivo che sarebbe rimasta a causa della morte di Nicki, dovunque fossimo. Ma il fatto che ci trovassimo in Egitto facilitava le cose. Era d’aiuto che lei amasse quelle rovine e quei monumenti come prima non aveva amato null’altro.

Forse gli umani dovevano essere morti da seimila anni perché li amasse. Contavo di dirglielo per punzecchiarla un po’; ma il pensiero si affacciò e subito sparì. Quei monumenti erano antichi come le montagne che amava. Il Nilo aveva continuato a scorrere nell’immaginazione dell’uomo fin dagli albori del tempo documentato.

Scalammo insieme le piramidi, salimmo sulle braccia della gigantesca Sfinge. Meditammo sulle iscrizioni di antichi frammenti di pietre. Studiammo le mummie che si possono acquistare dai ladri per poche monete, i gioielli antichi, i vasi, i vetri. Facemmo scorrere tra le nostre dita l’acqua del fiume e andammo a caccia insieme per le viuzze del Cairo, andammo nei bordelli per sedere sui cuscini e guardare i ragazzi che danzavano e ascoltare i musici che eseguivano ardenti ritmi erotici e per qualche istante sommergevano il suono di un violino, quel violino che non cessava di suonare nella mia mente.

Mi sorprendevo ad alzarmi e a danzare selvaggiamente al ritmo di quelle melodie esotiche, a imitare gli ondeggiamenti di coloro che mi incitavano a continuare, e perdevo il senso del tempo e della ragione tra i lamenti dei corni e lo strimpellare dei liuti.

Gabrielle sedeva immobile e sorridente, con la tesa del cappello bianco di paglia abbassata sugli occhi. Non ci parlavamo più. Lei era una bellezza pallida e felina, con la guancia macchiata di terriccio, che vagava al mio fianco nella notte interminabile. La giacca stretta da un’alta cintura di pelle, i capelli avvolti in una treccia sulla schiena, camminava con la maestà di una regina e il languore di una vampira; la curva della sua guancia era luminosa nell’oscurità, la bocca minuta era una rosa rossa. Era incantevole e molto presto se ne sarebbe andata di nuovo, non c’era dubbio.

Tuttavia rimase con me anche quando presi in affitto una piccola casa lussuosa, già residenza di un nobile mamelucco, con i pavimenti splendidamente piastrellati e ricchi tendaggi. Mi aiutò persino a riempire il cortile di bugainvillee e di palme e di ogni altra specie di piante tropicali fino a trasformarlo in una piccola giungla verdeggiante. Portò pappagalli e fringuelli e canarini in gabbia.

E ogni tanto annuiva, comprensiva, quando mormoravo che non erano arrivate le lettere da Parigi ed ero fuori di me per la preoccupazione.

Perché Roget non mi aveva scritto? Parigi era esplosa nei tumulti e nel caos? Ma era accaduto qualcosa a Roget? Perché non scriveva?

Gabrielle mi chiese di risalire il fiume con lei. Io volevo attendere le lettere, interrogare i viaggiatori inglesi. Ma acconsentii. Dopotutto era abbastanza straordinario che mi avesse invitato ad andare con lei. A modo suo mi voleva bene.

Sapevo che aveva preso l’abitudine di vestirsi di freschi lini bianchi solo per farmi piacere. Era per me che si spazzolava i lunghi capelli.

Ma non aveva importanza. Sprofondavo. Lo sentivo. Andavo alla deriva nel mondo come in un sogno.

Mi sembrava molto naturale e ragionevole che intorno a me vedessi un paesaggio esattamente eguale a quello che migliaia di anni prima gli artisti avevano dipinto sulle pareti delle tombe reali. Era naturale che al chiaro di luna le palme apparissero identiche a quelle di allora. Era naturale che i contadini attingessero l’acqua del fiume nello stesso modo. E anche le mucche che abbeveravano erano le stesse. Visioni del mondo quando il mondo era giovane. Marius aveva mai camminato su quelle sabbie? Visitammo il gigantesco tempio di Ramses, incantati dalle minuscole immagini intagliate a milioni nelle pareti. Continuavo a pensare a Osiride, ma quelle figurette erano diverse. Visitammo le rovine di Luxor. Ci adagiammo insieme sulla barca che navigava sul fiume sotto le stelle.

Mentre tornavamo al Cairo, quando arrivammo ai grandi Colossi di Memnone, Gabrielle mi disse in un sussurro appassionato che alcuni imperatori romani erano venuti ad ammirare quelle statue, esattamente come noi.

«Erano antiche ai tempi dei Cesari», disse mentre viaggiavamo a dorso di cammello sulle sabbie fresche.

Quella notte il vento non infuriava. Potevamo vedere le immense figure di pietra che troneggiavano contro il cielo blu. Sebbene i volti fossero erosi, sembravano guardare davanti a sé, muti testimoni del passaggio del tempo, e il loro silenzio mi ispirava tristezza e paura.

Provavo la stessa meraviglia che avevo conosciuto davanti alle piramidi. Antichi dèi, antichi misteri. Mi davano un brivido di freddo. Eppure che cos’erano quelle figure, ormai, se non sentinelle senza volto, sovrani di un deserto sconfinato?

«Marius», sussurrai. «Tu li hai veduti? Qualcuno di noi potrà durare altrettanto a lungo?»

Ma la mia fantasticheria fu interrotta da Gabrielle. Voleva smontare e percorrere a piedi il resto della distanza per giungere alle statue. Ero disposto a seguirla, sebbene non sapessi cosa fare dei grossi cammelli, puzzolenti e ostinati, e come convincerli a inginocchiarsi.

Lo fece Gabrielle, e li lasciò ad attenderci. Ci avviammo sulla sabbia.

«Vieni con me nel cuore dell’Africa, nelle giungle», mi disse. Il suo volto era solenne, la voce insolitamente dolce.

Per un momento non risposi. Nei suoi modi c’era qualcosa che mi allarmava. O almeno, pensavo che avrei dovuto allarmarmi.

Avrei dovuto udire un suono netto come i rintocchi mattutini delle Campane dell’Inferno.

Non volevo avventurarmi nelle giungle africane. E lei lo sapeva. Attendevo con ansia notizie della mia famiglia da Roget, e avevo in mente di recarmi nelle città dell’Oriente, di vagare in India e in Cina e di spingermi fino al Giappone.

«Comprendo l’esistenza che hai scelto», mi disse. «E ho finito per ammirare la perseveranza con cui la persegui. Devo ammetterlo.»

«Potrei dire altrettanto di te», risposi con una certa amarezza.

Si fermò.

Eravamo vicinissimi alle statue colossali. E l’unica cosa che mi salvò dal sentirmi schiacciato fu il fatto che non vi era nulla, lì intorno, che permettesse di vederle in scala. Il cielo era immenso quanto loro, la sabbia era infinita, le stelle innumerevoli e fulgide e brillavano per l’eternità.

«Lestat», disse lei misurando le parole, «ti chiedo di tentare, solo per una volta, di muoverti nel mondo come faccio io.»

La luce della luna la investiva in pieno, ma il cappello ombreggiava il viso minuto e angoloso.

«Dimentica la casa del Cairo», disse all’improvviso, e abbassò la voce come per rispetto verso l’importanza di ciò che diceva. «Abbandona tutti gli oggetti di valore, i vestiti, le cose che ti legano alla civiltà. Vieni a sud con me, risali il fiume fin nel cuore dell’Africa, viaggia con me come viaggio io.»

Continuavo a tacere. Il mio cuore batteva forte.

Gabrielle mormorò che avremmo visto le tribù segrete dell’Africa, ignote al mondo. Avremmo lottato a mani nude contro leoni e coccodrilli. Forse avremmo trovato le sorgenti del Nilo.

Incominciai a tremare come se la notte fosse piena di venti ululanti. E non c’era un rifugio.

Stai dicendo che mi lascerai per sempre se non verrò. È così?

Alzai gli occhi verso le statue terribili. E credo che dissi: «Dunque si tratta di questo?»

Perciò mi era rimasta vicina e aveva fatto tante piccole cose per compiacermi, perciò eravamo insieme. Non aveva nulla a che vedere con il trapasso di Nicki nell’eternità. Era un’altra, la separazione che le interessava.

Scosse la testa come se dialogasse con se stessa e discutesse come doveva continuare. Con voce smorzata mi descrisse il caldo delle notti tropicali, più umido e dolce di quello presente.

«Vieni con me, Lestat», ripeté. «Di giorno io dormo nella sabbia. Non lascio impronte. Voglio scendere fino alla punta estrema dell’Africa. Sarò una dea per coloro che ucciderò.»

Si avvicinò e mi passò il braccio intorno alle spalle, mi premette le labbra sulla guancia e io vidi il brillio profondo dei suoi occhi sotto la tesa del cappello. E il chiaro di luna tracciava come uno strato di ghiaccio sulle sue labbra.

Sospirai. Scossi la testa.

«Non posso, e tu lo sai», dissi. «Non posso farlo, come tu non puoi stare con me.»


Durante il viaggio di ritorno al Cairo pensai a ciò che avevo provato in quei momenti dolorosi. A ciò che avevo conosciuto ma non avevo detto mentre stavamo davanti al Colossi di Memnone.

Per me era già perduta. Era perduta da anni. L’avevo saputo quando avevo sceso la scala della stanza dove avevo pianto per Nicki e l’avevo trovata ad aspettarmi.

Tutto era stato detto, in una forma o nell’altra, nella cripta sotto la torre, molti anni prima. Non poteva darmi ciò che volevo da lei. Non potevo far nulla per indurla a diventare ciò che non voleva essere. E la parte davvero terribile era questa: non voleva nulla da me!

Mi chiedeva di andare con lei perché si sentiva in dovere di farlo. Pietà, tristezza… forse c’erano anche queste ragioni. Ma voleva soprattutto essere libera.

Rimase con me mentre tornavamo alla città. Non faceva e non diceva nulla.

E io sprofondavo sempre di più, muto, stordito, e sapevo che presto sarebbe caduta un’altra mazzata spaventosa. C’era la chiarezza e c’era l’orrore. Lei mi dirà addio e non potrò impedirlo. Quando comincerò a perdere la ragione? Quando comincerò a piangere irrrefrenabilmente?

Non ora.

Mentre accendevamo le lampade della casetta, i colori mi aggredirono… i tappeti persiani coperti di fiori delicati, i tendaggi intessuti d’un milione di minuscoli specchi, il piumaggio vivace degli uccelli svolazzanti.

Cercai qualche plico inviato da Roget, ma non c’era. Mi adirai. Sicuramente avrebbe dovuto scrivere! Dovevo sapere che cosa succedeva a Parigi. Poi ebbi paura.

«Cosa diavolo succede in Francia?» mormorai. «Dovrò andare in cerca di altri europei. I britannici hanno sempre informazioni. Dovunque vadano si portano dietro il loro maledetto tè indiano e il Times di Londra.»

Mi infuriava vedere che lei mi stava davanti, immobile e silenziosa. Era come se stesse accadendo qualcosa… quel senso terribile di tensione e di anticipazione che avevo provato nella cripta, prima che Armand ci facesse il suo racconto.

Ma non accadeva nulla, e lei stava per lasciarmi per sempre. Stava per affidarsi per sempre al tempo. E come avremmo mai potuto ritrovarci?

«Maledizione», dissi. «Aspettavo una lettera.» I servitori non c’erano. Non avrebbero potuto sapere quando saremmo tornati. Volevo mandare qualcuno a ingaggiare qualche musico. Mi ero appena nutrito, ero riscaldato e dicevo a me stesso che volevo ballare.

All’improvviso lei ruppe l’immobilità. Si mosse lentamente, e andò in cortile.

La vidi inginocchiarsi accanto alla fontana. Sollevò due lastre della pavimentazione, tirò fuori un pacchetto, lo liberò dalla terra sabbiosa e me lo portò.

Prima ancora che lo portasse alla luce, vidi che l’aveva mandato Roget. Era arrivato prima che risalissimo il Nilo, ma Gabrielle me l’aveva nascosto!

«Perché l’hai fatto?» chiesi. Ero furibondo. Le strappai il plico dalle mani e lo posai sulla scrivania.

La fissavo con odio. Non l’avevo mai odiata tanto, neppure nell’egocentrismo dell’infanzia.

«Perché me l’hai tenuto nascosto?»

«Perché volevo avere una possibilità», sussurrò. Le tremava il mento. Vedevo le lacrime di sangue. «Ma anche senza questo», disse, «hai compiuto la tua scelta.»

Aprii il plico. La lettera scivolò fuori insieme ai ritagli di un giornale inglese. Spiegai la lettera con mani che tremavano e cominciai a leggere.


Monsieur, come ormai saprete il 14 luglio il popolo di Parigi ha assaltato la Bastiglia. La città è nel caos. Ci sono stati tumulti in tutta la Francia. Per mesi ho cercato invano di contattare i vostri parenti per farli uscire dal Paese, se era possibile.

Lunedì scorso ho però ricevuto la notizia che i contadini e i fìttavoli si sono ribellati contro la casa di vostro padre. I vostri fratelli, con le mogli e i figli e tutti coloro che cercavano di difendere il castello sono stati uccisi prima del saccheggio. Si è salvato solo vostro padre. Alcuni servitori devoti sono riusciti a nasconderlo durante l’assedio e, più tardi, a condurlo alla costa. Oggi si trova nella città di New Orleans, nell’ex colonia francese della Louisiana. E vi implora di aiutarlo. È sofferente e si trova in mezzo a estranei. Vi supplica di raggiungerlo.


C’era altro. Scuse, assicurazioni, particolari… non aveva più senso.

Posai la lettera sulla scrivania. Fissai il legno e la chiazza di luce formata dalla lampada.

«Non andare da lui», disse Gabrielle.

La sua voce era esile e insignificante nel silenzio. Ma il silenzio era un urlo immane.

«Non andare da lui», ripeté. Le lacrime le rigavano il viso come il trucco dei pagliacci, due lunghe striature rosse che scendevano dagli occhi.

«Vattene», mormorai. La parola si spense e poi la mia voce riacquistò forza. «Vattene», ripetei. La mia voce non si arrestò. Continuò fino a che esclamai con violenza devastante: «VATTENE!»

4.

Sognai la mia famiglia. Ci stavamo abbracciando. C’era persino Gabrielle, vestita di velluto. Il castello era annerito, bruciato. I tesori che vi avevo mandato erano fusi o trasformati in cenere. Tutto diventa cenere. L’antica citazione non dice cenere alla cenere, polvere alla polvere?

Non aveva importanza. Ero tornato e li avevo mutati tutti in vampiri, e noi della Casa dei Lioncourt eravamo bellissimi, bianchi in volto, incluso il bimbo che succhiava sangue e stava nella culla, e la madre che si chinava su di lui per porgergli il topo grigio vivo di cui doveva nutrirsi.

Ridevamo e ci baciavamo mentre camminavano tra le ceneri, io, i miei fratelli bianchi, e le mogli bianche, i bambini spettrali che parlavano delle vittime, e mio padre cieco che s’era alzato come un personaggio biblico e gridava:

«CI VEDO!»

Il mio fratello maggiore mi abbracciò. Era meraviglioso, vestito con eleganza. Non l’avevo mai visto con un aspetto così splendido, e il sangue vampirico lo aveva reso snello più che mai e gli aveva dato un’espressione spirituale che non aveva mai avuto.

«Sai, è stata un’ottima cosa che tu sia venuto quando sei venuto, con tutti i Doni Tenebrosi.» Rise allegramente.

«L’Opera Tenebrosa, caro, l’Opera Tenebrosa», disse sua moglie.

«Perché altrimenti», continuò lui, «ah, saremmo tutti morti!»

5.

Adesso la casa era vuota. I bauli erano stati spediti. La nave sarebbe partita da Alessandria di lì a due notti. Restava solo una valigetta. A bordo, il figlio del marchese doveva cambiarsi d’abito ogni tanto. E c’era naturalmente il violino.

Gabrielle era sulla soglia del giardino, snella, con le gambe lunghe, bella e angolosa negli indumenti di cotone bianco, il cappello in testa come sempre, i capelli sciolti.

Erano per me, i capelli sciolti?

La mia angoscia cresceva: era una marea che includeva tutte le sofferenze, per i morti e per i non morti.

Ma poi passò e tornò la sensazione di sprofondare, il senso del sogno nel quale navighiamo indipendentemente dalla nostra volontà.

Mi colpì il pensiero che i suoi capelli avrebbero potuto essere descritti come una pioggia d’oro, e che tutte le vecchie poesie hanno una giustificazione quando guardi qualcuno che hai amato. Erano incantevoli, gli angoli del suo volto, la bocca piccola e implacabile.

«Dimmi di che cosa hai bisogno, madre», dissi a voce bassa. La stanza era a posto. Scrivania. Lampada. Sedia. Tutti i miei uccelli multicolori erano stati dati via, probabilmente sarebbero stati venduti nel bazar. I grigi pappagalli africani che vivono quanto gli uomini. Nicki aveva vissuto trent’anni.

«Hai bisogno di denaro?»

Un rossore bellissimo le salì al viso, gli occhi divennero un lampo di luce azzurra e violetta. Per un momento parve umana. Era come se fossimo nella sua camera, a casa. Libri, pareti umide, fuoco. Era umana, allora?

La tesa del cappello le coprì completamente il viso per un istante quando chinò la testa. Chiese, inesplicabilmente:

«Ma dove andrai?»

«In una casetta in rue Dumaine, nella vecchia città francese di New Orleans», risposi con fredda precisione. «E dopo che lui sarà morto in pace… non ne ho la minima idea.»

«Non puoi pensarlo davvero.»

«Ho prenotato sulla prossima nave in partenza da Alessandria», dissi. «Andrò a Napoli e poi a Barcellona. Da Lisbona partirò per il Nuovo Mondo.»

Il suo viso sembrò contrarsi, i lineamenti diventare più affilati. Mosse un po’ le labbra ma non disse niente. E poi vidi le lacrime salirle agli occhi, e sentii la sua emozione come se cercasse di toccarmi. Distolsi gli occhi, mi interessai a qualcosa che stava sulla scrivania, poi tenni le mani immobili perché non tremassero. E pensai: sono contento che Nicki abbia portato le sue mani nel fuoco, perché se non l’avesse fatto avrei dovuto tornare a Parigi a prenderle, prima di poter proseguire.

«Ma non puoi andare da lui!» bisbigliò Gabrielle.

Lui? Oh! Mio padre.

«Che cosa importa? Io vado», dissi.

Mosse leggermente la testa in un gesto di diniego. Si avvicinò alla scrivania. Il suo passo era più leggero di quello di Armand.

«Qualcuno della nostra specie ha mai compiuto una traversata come quella?» chiese sottovoce.

«No, che io sappia. A Roma hanno detto di no.»

«Forse è una traversata che non si può fare.»

«Si può fare. Lo sai.» Avevamo già navigato sui mari nei nostri feretri foderati di sughero. Guai al leviatano che mi disturbasse.

Si avvicinò ancora di più e mi guardò. Non poteva più nascondere l’espressione di sofferenza. Era incantevole. Perché mai l’avevo abbigliata con abiti da ballo o cappelli piumati e perle?

«Sai dove raggiungermi», dissi, ma l’amarezza del mio tono non lo rendeva convincente. «Gli indirizzi delle mie banche di Londra e Roma. Sono banche che hanno già vissuto quanto i vampiri ed esisteranno sempre. Lo sai, l’hai sempre saputo…»

«Basta», mormorò lei. «Non dirmi queste cose.»

Era una menzogna, una parodia, il tipo di dialogo che lei aveva sempre detestato e che odiava sostenere. Neppure nelle fantasie più scatenate avevo previsto che potesse essere così… che avrei pronunciato parole fredde e che lei avrebbe pianto. Avevo pensato che mi sarei messo a gridare quando mi avesse detto che se ne andava, e che mi sarei buttato ai suoi piedi.

Ci guardammo a lungo. I suoi occhi erano colorati di rosso, la sua bocca tremava un po’.

E poi persi il controllo.

Mi alzai, mi avvicinai, presi fra le braccia la sua figura piccola e delicata. Ero deciso a non lasciarla andare, per quanto si dibattesse. Ma lei non si oppose; piangemmo entrambi, quasi in silenzio, come se fossimo incapaci di smettere. Ma non si abbandonò al mio abbraccio.

Poi si scostò. Mi accarezzò i capelli con tutte e due le mani, e si tese e mi baciò sulle labbra, poi si allontanò in silenzio.

«Sta bene, mio tesoro», disse.

Scossi la testa. Parole e parole e parole non pronunciate. Lei non sapeva che farsene, come sempre.

Con quel suo modo languido, ancheggiando con grazia, andò alla porta del giardino e guardò il cielo notturno prima di voltarsi e guardare me.

«Devi farmi una promessa», disse alla fine.

Un giovane, audace francese che si muoveva con la grazia di un arabo nei luoghi di cento città dove soltanto un gatto poteva passare indenne.

«Certo», risposi. Ma ero così desolato che non volevo più parlare. I colori si affievolivano. La notte non era né calda né fredda. Mi auguravo che se ne andasse, eppure mi faceva terrore il momento in cui sarebbe accaduto e non avrei più potuto riaverla.

«Promettimi che non cercherai mai di farla finita», disse lei, «senza che prima ci siamo ritrovati.»

Per un momento fui troppo sorpreso per rispondere. Poi dissi: «Non cercherò mai di farla finita». Il mio tono era quasi sprezzante. «Quindi hai la mia promessa. È abbastanza semplice. Ma perché non fai tu una promessa a me? Prometti che mi farai sapere dove andrai, dove potrò raggiungerti… non svanirai come se fossi una creatura della mia immaginazione…»

M’interruppe. C’era una nota di urgenza nella mia voce, d’isteria crescente. Non immaginavo Gabrielle che scriveva una lettera e l’affidava alla posta o faceva una delle cose che i mortali fanno abitualmente. Era come se non avessimo una natura in comune e non l’avessimo mai avuta.

«Spero che non sbagli nel valutare te stesso», disse.

«Io non credo in niente, madre», replicai. «Molto tempo fa dicesti ad Armand che credi di trovare le risposte nelle giungle e nelle foreste; e che le stelle riveleranno finalmente un’immensa verità. Ma io non credo in niente e questo mi rende più forte di quanto immagini.»

«Allora perché ho tanta paura per te?» mi chiese. La sua voce era poco più di un singulto. Dovevo guardare il movimento delle sue labbra per capire.

«Tu senti la mia solitudine», risposi, «l’amarezza per essere escluso dalla vita. La mia amarezza perché sono malefico e non merito di essere amato e tuttavia ho un gran bisogno di amore. Il mio orrore perché non posso mai rivelarmi ai mortali. Ma tutte queste cose non mi fermano, madre. Sono troppo forte. Come dicesti tu stessa una volta, sono molto efficiente nell’essere ciò che sono. Queste cose mi fanno soffrire ogni tanto, ecco tutto.»

«Ti amo, figlio mio», disse.

Volevo insistere per ottenere la sua promessa a proposito degli agenti in Roma, delle lettere che doveva scrivere. Volevo dire…

«Mantieni la tua promessa», disse.

E all’improvviso compresi che era il nostro ultimo momento. Lo sapevo e non potevo far nulla per cambiarlo.

«Gabrielle!» mormorai.

Ma era già andata.

La stanza, il giardino, la notte, erano silenziosi e immoti.


Aprii gli occhi un po’ prima dell’alba. Ero steso sul pavimento e avevo pianto e poi mi ero addormentato.

Sapevo che sarei dovuto partire per Alessandria, che dovevo allontanarmi il più possibile e sprofondarmi nella sabbia prima del sorgere del sole. Sarebbe stato piacevole dormire nella terra sabbiosa. E sapevo che il cancello del giardino era aperto. Nessuna delle porte era chiusa a chiave.

Ma non potevo muovermi. Freddamente e silenziosamente, immaginavo di cercare Gabrielle in tutto il Cairo. La chiamavo, le dicevo di tornare. Per un momento mi parve quasi che l’avessi fatto e, completamente umiliato, l’avessi rincorsa, e avessi cercato di parlare ancora del destino, che era scritto che io la perdessi, com’era scritto che Nicki perdesse le mani. In un modo o nell’altro dovevamo sovvertire il destino. Dovevamo trionfare.

Era insensato. E non l’avevo rincorsa. Ero andato a caccia ed ero rientrato. Gabrielle era ormai a parecchie miglia dal Cairo e per me era perduta come un minuscolo granello di sabbia nell’aria.

Finalmente, dopo molto tempo, girai la testa. Il cielo era cremisi sopra il giardino, la luce rossastra scendeva dal tetto lontano. Stava per giungere il sole… e il caldo e il risveglio di mille voci minuscole nei vicoli intricati del Cairo, e un suono che sembrava salire dalla sabbia e dagli alberi e dai ciuffi d’erba.

E molto lentamente, mentre ascoltavo queste cose, mentre vedevo il barbaglio della luce muoversi sul tetto, mi resi conto che nelle vicinanze c’era un mortale.

Era fermo al cancello aperto del giardino, e fissava la mia figura immobile nella casa vuota. Èra un europeo giovane e biondo vestito come un arabo. Piuttosto bello. E nella luce dell’alba vedeva un europeo come lui che giaceva sul pavimento in una casa abbandonata.

Rimasi a fissarlo mentre entrava nel giardino; la luce del cielo mi scottava gli occhi, e le palpebre cominciavano a bruciare. Il giovane era come un fantasma avvolto in un lenzuolo bianco.

Sapevo di dover fuggire. Dovevo allontanarmi immediatamente e nascondermi al sole. Non avevo possibilità di scendere nella cripta sotto il pavimento: quel mortale era nel mio covo. Non avevo neppure il tempo per ucciderlo e sbarazzarmi di lui, povero sventurato.

Tuttavia non mi mossi. Si avvicinò e tutto il cielo si accese dietro di lui e la sua figura divenne più esile e scura.

«Monsieur!» Il bisbiglio premuroso, come la donna che tanti anni prima, in Notre-Dame, aveva cercato di aiutarmi prima che uccidessi lei e il fìglioletto innocente. «Monsieur, cos’è successo? Posso aiutarvi?»

Il volto era abbronzato sotto le pieghe del copricapo bianco, le sopracciglia dorate luccicavano, gli occhi erano grigi come i miei.

Sapevo che mi stavo alzando, ma non per un atto di volontà cosciente. Sapevo che le mie labbra si aggricciavano sui denti. Poi udii il ringhio salirmi alla gola e lo vidi inorridire.

«Guardate!» sibilai, mentre le zanne mi scendevano sul labbro inferiore. «Vedete?»

Corsi verso di lui, gli afferrai il polso e mi premetti la sua mano sulla faccia.

«Credevate che fossi umano?» gridai. Lo sollevai, lo tenni sospeso mente scalciava e si dibatteva. «Pensavate che fossi un vostro fratello?» gridai. La sua bocca si aprì con un suono secco. Poi urlò.

Lo scagliai in aria, lontano dal giardino, e il suo corpo roteò con le braccia e le gambe protese prima di sparire oltre il tetto.

Il cielo era fuoco accecante.

Corsi fuori, nel vicolo, corsi sotto le piccole arcate e per le vie sconosciute. Abbattei porte e cancelli e scagliai i mortali lontano dal mio cammino. Sfondai i muri che mi si paravano davanti, mentre la polvere dell’intonaco saliva a soffocarmi, e ripiombai nei vicoli e nell’aria fetida. La luce continuò a inseguirmi.

E quando trovai una casa bruciata, con le grate in rovina, vi feci irruzione e sprofondai nel terreno del giardino, scavando sempre, fino a quanto non potei più muovere le braccia e le mani.

Ero sospeso nella frescura e nell’oscurità.

Ero salvo.

6.

Stavo morendo. O lo credevo. Non sapevo quante notti fossero passate. Dovevo alzarmi e raggiungere Alessandria. Dovevo attraversare il mare. Ma questo significava muovermi, girarmi nella terra, arrendermi alla sete.

Non volevo.

La sete venne e sparì. Era una tortura, e la mia mente aveva sete non meno del mio cuore, e il mio cuore divenne più grande e più rumoroso. E non mi arrendevo.

Forse i mortali, lassù, potevano sentire il mio cuore. Ogni tanto li vedevo, sprazzi di fiamma contro il buio, udivo le voci farfugliare in una lingua straniera. Ma più spesso vedevo soltanto la tenebra. Udivo soltanto la tenebra.

E finalmente divenni la sete che giaceva nella terra, con il sonno rosso e i sogni rossi, e la lenta certezza che ero troppo debole per spingermi in alto tra le zolle sabbiose, troppo debole per far girare di nuovo la ruota.

Era vero. Non avrei potuto risalire, se l’avessi voluto. Non potevo muovermi. Respiravo. Continuavo a esistere. Ma non era il modo in cui respiravano i mortali. Il cuore mi martellava nelle orecchie.

Ma non morivo. Mi consumavo. Come gli esseri torturati prigionieri nella terra sotto il Cimitero degli Innocenti, metafore abbandonate dell’infelicità che è dovunque, non vista, non riconosciuta e non usata.

Le mie mani erano artigli, la mia carne era ridotta all’osso, gli occhi sporgevano dalle orbite. E interessante che possiamo continuare così in eterno, che anche quando non beviamo e non ci abbandoniamo al piacere lussurioso e fatale continuiamo a esistere. Sarebbe interessante, cioè, se ogni battito del cuore non fosse una sofferenza tanto grande.

E se avessi potuto smettere di pensare: Nicolas de Lenfent non c’è più. I miei fratelli non ci sono più. Sapore pallido del vino, suono di applausi. «Ma non pensi che sia bene ciò che facciamo quando siamo qui, quando rendiamo felice la gente?»

«Bene? Di cosa stai parlando? Bene?»

«È bene, fa un po’ di bene, vi è un po’ di bene in ciò che facciamo. Dio, anche se non c’è un significato in questo mondo, sicuramente può esservi il bene. È bene mangiare, bere, ridere… stare insieme…»

Risate. Quella musica folle. Il chiasso, la dissonanza, l’interminabile articolazione stridula dell’insignificanza…

Sono sveglio? Dormo? Sono sicuro di una cosa. Sono un mostro. E poiché giaccio sottoterra fra i tormenti, certi esseri umani procedono indisturbati per lo stretto valico della vita.

Forse adesso Gabrielle è nelle giungle africane.


Ogni tanto i mortali venivano nella casa bruciata: erano ladri che si nascondevano. Troppo vociare in una lingua straniera. Ma non dovevo far altro che sprofondare di più in me stesso, ritirarmi persino dalla sabbia fresca per non ascoltarli.

Sono davvero in trappola?

Puzzo di sangue, lassù.

Forse sono l’ultima speranza, i due accampati nel giardino incolto, la speranza che il loro sangue mi attirerà verso l’alto, mi farà protendere questi orrendi artigli.

Li spaventerò a morte prima di bere. È una vergogna. Ero sempre stato così bello. Ma ora no.

Ogni tanto mi sembra che io e Nicki siamo impegnati nelle nostre conversazioni migliori. «Ora sono al di là della sofferenza e del peccato», mi dice. «Ma non senti nulla?» gli chiedo. «È questo che significa essere liberi, non provare più nulla?» Né infelicità, né sete, né estasi? Per me è interessante in questi momenti che il nostro concetto di paradiso sia un concetto d’estasi. Le gioie del paradiso. E che il nostro concetto dell’inferno sia la sofferenza. I fuochi dell’inferno. Perciò non consideriamo molto bello non provare nulla, no?

Puoi arrenderti, Lestat? O non è vero che preferisci lottare contro la sete con questo tormento infernale, piuttosto che morire e non sentire più nulla? Almeno hai il desiderio del sangue, caldo e delizioso che satura ogni particella del tuo essere… il sangue.

Per quanto tempo quei mortali resteranno lassù nel mio giardino in rovina? Una notte? Due notti? Ho lasciato il violino nella casa dove abitavo. Devo riprenderlo e darlo a un giovane musicista mortale, qualcuno che…

Un silenzio benedetto. Ma c’è il suono del violino. E le dita bianche di Nicki battono sulle corde, l’archetto guizza nella luce e le facce delle marionette immortali hanno espressioni un po’ affascinate e un po’ divertite. Cent’anni fa, il popolo di Parigi l’avrebbe ucciso, e lui non avrebbe dovuto bruciarsi da sé. Forse avrebbero ucciso anche me. Ma ne dubito.

No, per me non ci sarebbe mai stato un luogo delle streghe. Nicki continua a vivere nella mia mente. Una pia frase dei mortali. E che sorta di vita è? Neppure a me piace vivere qui! Cosa significa vivere nella mente di un altro? Nulla, credo. Non ci sei realmente, no? Gatti nel giardino. Odore di sangue e di gatto. Grazie, ma preferisco soffrire e ridurmi come un guscio inaridito munito di zanne.

7.

D’improvviso, un suono nella notte. Cos’era?

La gigantesca grancassa suonata lentamente nelle strade del villaggio della mia infanzia quando i comici italiani annunciavano la rappresentazione messa in scena sul carro dipinto. La grancassa che io stesso avevo suonato per le strade della città durante quei giorni preziosi, quando io, il ragazzo fuggito da casa, ero stato uno di loro.

Ma era più forte. Era il rombo di un cannone che echeggiava fra valli e passi di montagna? Lo sentivo nelle ossa. Aprii gli occhi nella tenebra e compresi che si avvicinava.

Aveva il ritmo dei passi, oppure quello di un cuore che batteva? Il mondo era pervaso dal suono.

Era immenso e terribile e si avvicinava. Eppure una parte del mio essere sapeva che non era un suono reale e che un orecchio mortale non poteva udirlo, e che non poteva far tremare le porcellane su uno scaffale o i vetri delle finestre, non poteva far fuggire i gatti sopra i muri.

L’Egitto nasce nel silenzio. Il silenzio copre il deserto sulle due sponde del grande fiume. Non si ode neppure il belato delle pecore, il muggito dei bovini. O il grido lontano di una donna.

Eppure quel suono era assordante.

Per un secondo ebbi paura. Mi tesi nella terra. Sollevai le dita verso la superficie. Cieco, senza peso, galleggiavo nella terra; e all’improvviso non potevo respirare, non potevo urlare, e mi sembrava che se avessi urlato l’avrei fatto così forte da infrangere tutti i vetri per miglia e miglia intorno. I calici di cristallo sarebbero andati in frantumi, le finestre sarebbero esplose.

Il suono era più forte e più vicino. Tentai di rotolare su me stesso e di raggiungere l’aria, ma non ci riuscii.

E mi sembrò di vedere la cosa, la figura che si avvicinava. Un bagliore rosso nell’oscurità.

Era qualcuno che si accostava, quel suono, un essere così potente che persino nel silenzio lo sentivano gli alberi e i fiori e l’aria stessa. Le creature mute della terra lo sapevano. I vermi fuggivano, i felini si allontanavano dal suo cammino.

Forse è la morte, pensai.

Forse per qualche miracolo sublime la Morte è viva e ci prende tra le braccia e non è un vampiro, è la personificazione stessa del paradiso.

E noi ascendiamo e ascendiamo verso le stelle, superiamo gli angeli e i santi e l’empireo, e trapassiamo nella tenebra divina, il vuoto, quando lasciamo l’esistenza. Nell’oblio, tutto ci viene perdonato.

L’annientamento di Nicki diventa un punto minuscolo di luce morente. La morte dei miei fratelli si disintegra nella grande pace dell’inevitabile.

Premetti contro la terra. Scalciai. Ma le mie mani e le mie gambe erano troppo deboli. Sentivo in bocca il sapore del fango sabbioso. Sapevo che dovevo alzarmi, e il suono mi comandava di farlo.

Lo sentivo ancora, come il fragore dell’artiglieria. Il rombo del cannone.

E compresi che il suono cercava me. Mi cercava come un raggio di luce. Non potevo più restare lì a giacere. Dovevo rispondere.

Irradiai una folle corrente, un messaggio di benvenuto. Dissi che ero lì e sentii i miei respiri affannosi mentre mi sforzavo di muovere le labbra. E il suono divenne foltissimo, palpitò in ogni fibra del mio essere. La terra si muoveva con quel suono intorno a me.

Qualunque cosa fosse, era entrato nella casa in rovina.

La porta era stata sfondata come se i cardini fossero ancorati non nel ferro ma nel gesso. Vedevo tutto sullo sfondo delle mie palpebre chiuse. Lo vedevo muoversi sotto gli ulivi. Era nel giardino.

Freneticamente, raspai per raggiungere l’aria. Ma il rumore sordo e normale che sentivo adesso era di qualcosa che scavava la sabbia partendo dall’alto.

Sentii un che di vellutato sfiorarmi la faccia. E vidi sopra di me il brillio del cielo scuro e le nubi come un velo sopra le stelle, e i cieli non mi erano mai apparsi così benedetti in tutta la loro semplicità.

I miei polmoni si riempirono d’aria.

Esalai un gemito di piacere. Ma tutte le sensazioni trascendevano il piacere: respirare, vedere la luce… erano miracoli. Il suono, il rombo assordante sembrava un accompagnamento perfetto.

E colui che era venuto a cercarmi, colui che emanava il suono, stava davanti a me.

Il suono si dissolse, si disintegrò fino a divenire l’eco della vibrazione d’una corda di violino. E io salivo, come se venissi sollevato dalla terra, sebbene la figura restasse con le mani lungo i fianchi.

Finalmente alzò le braccia per stringermi e il volto che scorsi mi apparve al di là del regno delle possibilità. Quale di noi poteva avere quel volto? Che cosa sapevamo noi della pazienza, della bontà, della compassione? No, non era uno di noi. Non poteva essere. Eppure era così. Carne e sangue soprannaturali come i miei. Occhi iridescenti che raccoglievano la luce da tutte le direzioni, ciglia sottili come linee d’oro tracciate in punta di penna.

E quell’essere, quel vampiro potentissimo, mi sosteneva e mi guardava negli occhi. Dissi qualcosa di folle, credo, espressi qualche pensiero frenetico… che ora conoscevo il segreto dell’eternità.

«Allora rivelamelo», bisbigliò, e sorrise. Era l’immagine più pura dell’amore umano.

«O Dio, aiutami, sprofondami nell’inferno.» Era la mia voce che parlava. Non potevo guardare tanta bellezza.

Vedevo le mie braccia ossute, le mie mani smagrite come zampe d’uccello. Nulla può vivere e ridursi com’ero io. Mi guardai le gambe. Erano stecchi. Gli indumenti mi cadevano di dosso. Non potevo reggermi in piedi né muovermi, e all’improvviso fui sopraffatto dal ricordo della sensazione del sangue che mi scorreva nella bocca.

Come una fiamma cupa vedevo davanti a me le sue vesti di velluto rosso, il mantello che lo copriva fino a terra, le mani inguantate di rossoscuro che mi sostenevano. I capelli erano folti, fili bianchi e dorati mescolati in onde che cadevano sciolte intorno al volto e sulla fronte ampia. E gli occhi azzurri sarebbero apparsi cupi sotto le sopracciglia dorate se non fossero stati così grandi, così addolciti dal sentimento espresso nella voce.

Un uomo nel fiore degli anni al momento del dono immortale. E il viso quadrato, con le guance leggermente scavate, la bocca larga e piena, caratterizzato da una gentilezza terrificante e da un profondissimo senso di pace.

«Bevi», disse, e inarcò leggermente le sopracciglia. Le labbra formarono la parola attentamente, lentamente come fosse un bacio.

Come aveva fatto Magnus in quella notte letale di tanti millenni addietro, alzò la mano e si scostò il manto dalla gola. La vena purpurea sotto la pelle traslucida si offrì a me. E il suono ricominciò, quel suono travolgente, e mi sollevò dalla terra e mi sommerse.

Sangue come luce, fuoco liquido. Il nostro sangue.

E le mie braccia che trovavano una forza incalcolabile, gli cingevano le spalle, la mia faccia premuta contro la carne bianca e fresca, il sangue che mi discendeva nell’inguine e accendeva ogni vena. Quanti secoli avevano purificato quel sangue e distillato il suo potere?

Mi sembrò che parlasse, nel rombo del flusso. Ripeté:

«Bevi, mio giovane sofferente».

Sentii il suo cuore gonfiarsi, il suo corpo ondeggiare come se fossimo saldati l’uno all’altro.

E sentii, credo, la mia voce che diceva: «Marius».

E lui rispondeva: «Sì».

PARTE VII ANTICA MAGIA, ANTICHI MISTERI

1.

Appena mi svegliai, capii che ero a bordo di una nave. Sentivo lo I scricchiolio del fasciame e respiravo il profumo del mare. Sentivo l’odore del sangue dei marinai. E sapevo che era una galea perché udivo il ritmo dei remi tra il rombo sordo delle gigantesche vele.

Non potevo aprire gli occhi, non potevo muovermi. Tuttavia ero calmo. Anzi, provavo uno straordinario senso di pace. Il mio corpo era caldo come se mi fossi appena nutrito, ed era piacevole giacere lì, e sognare da sveglio al ritmo delle onde gentili.

Poi la mia mente cominciò a schiarirsi.

Sapevo che stavamo procedendo velocemente su acque tranquille, e che il sole era appena tramontato. Il cielo serotino si oscurava e il vento cadeva. E il suono dei remi che si alzavano e si abbassavano era nitido e rassicurante.

Adesso avevo aperto gli occhi.

Non ero più nella bara. Ero appena uscito dalla cabina posteriore del vascello ed ero sul ponte.

Aspirai l’aria pura e salmastra e vidi lo splendido azzurro incandescente del cielo al crepuscolo e la moltitudine di stelle fulgide. Le stelle non appaiono mai così, sulla terraferma. Non sono mai tanto vicine.

C’erano isole scure e montuose, intorno a noi, scogliere cosparse di minuscole luci palpitanti. L’aria era piena di odore di verde, di fiori, di terra.

E il vascello procedeva veloce verso un varco tra gli scogli davanti a me.

Mi sentivo stranamente forte e lucido. Per un momento provai la tentazione di cercare di capire com’ero arrivato fin là, e se ero nell’Egeo o nel Mediterraneo, e sapere quando avevamo lasciato il Cairo, e se le cose che ricordavo erano avvenute veramente.

Ma questo mi sfuggiva, nella tranquilla accettazione di ciò che stava accadendo.

Marius era più in là, sul ponte, davanti all’albero maestro.

Mi avviai a mia volta verso il ponte e mi fermai a guardarlo.

Portava il lungo mantello rosso che gli avevo visto indosso al Cairo e i capelli bianco-biondi erano agitati dal vento. Gli occhi erano fissi sul varco di fronte a noi, gli scogli pericolosi che affioravano dall’acqua poco profonda, e la sua mano sinistra stringeva la ringhiera.

Provai per lui un’attrazione travolgente, e il senso di pace ingigantì.

Non c’era una grandiosità scostante nel suo volto e nella sua posa, non c’era un’alterigia che avrebbe potuto umiliarmi o impaurirmi. C’era solo una calma nobiltà; gli occhi guardavano avanti, la bocca suggeriva una tendenza eccezionale alla gentilezza.

Il volto era troppo liscio, sì. Aveva la lucentezza del tessuto cicatriziale, e avrebbe potuto incutere sbalordimento e paura in una via buia. Irradiava una lieve luminosità. Ma l’espressione era troppo calda, troppo umana nella sua bontà per non essere invitante.

Armand sembrava un dio del Caravaggio, Gabrielle un arcangelo di marmo sulla soglia di una chiesa.

Ma la figura che stava sopra di me era quella di un uomo immortale.

E l’uomo immortale, con la mano destra tesa davanti a sé, pilotava la nave in silenzio, inequivocabilmente, tra gli scogli.

Le acque intorno a noi luccicavano come metallo fuso, lanciavano lampi azzurri e poi argentei e poi neri, e sollevavano grandi spruzzi di spuma bianca quando le onde battevano contro le rocce.

Mi avvicinai e, senza fare rumore, salii la scaletta del ponte.

Marius non staccò gli occhi dalle acque neppure per un istante, ma tese il braccio sinistro e mi prese la mano.

Tepore. Una pressione discreta. Ma non era il momento adatto per parlare, e io ero sorpreso perché aveva avvertito la mia presenza.

Aggrottò le sopracciglia e socchiuse gli occhi: come dominati dal suo comando silenzioso, i rematori rallentarono la vogata.

Ero affascinato da ciò che vedevo e, approfondendo la concentrazione, mi accorsi che riuscivo a sentire il potere irradiato da lui, un palpito lento che aveva lo stesso ritmo del suo cuore.

Udivo anche i mortali sulle isole circostanti e sulle strette spiagge a destra e a sinistra. Li vedevo raccolti suoi promontori, o in corsa verso l’acqua con le torce nelle mani. Udivo i loro pensieri come voci mentre stavano nell’oscurità della notte e guardavano le lanterne della nostra nave. Parlavano in greco, una lingua che non conoscevo, ma il messaggio era chiaro:

«Sta passando il signore. Venite a vedere: sta passando il signore». E la parola «signore» includeva vagamente un significato sovrannaturale. E una reverenza mista all’eccitazione emanava dalle rive come un coro di sussurri.

E io ascoltavo trattenendo il respiro. Pensai al mortale che avevo terrorizzato al Cairo, al lontano disastro sul palcoscenico del teatro di Renaud. A parte quei due umilianti incidenti, ero passato come invisibile attraverso il mondo per dieci anni; e costoro, questi contadini vestiti di scuro, accorrevano per assistere al passaggio della nave e sapevano cos’era Marius. O almeno sapevano qualcosa. Non pronunciavano la parola greca che significa vampiro, una delle poche che comprendevo.

Ci lasciammo indietro le spiagge. Le scogliere si chiudevano tutto intorno. La nave avanzava con i remi sopra l’acqua. Le alte pareti attenuavano la luce del cielo.

Dopo pochi momenti vidi una grande baia argentea che si apriva davanti a noi, e una muraglia di roccia proprio di fronte, mentre pendii più dolci cingevano l’acqua da entrambi i lati. La parete era così alta e ripida che alla sommità non riuscivo a scorgere nulla.

I rematori ridussero la velocità quando ci avvicinammo. Il vascello si girò lentamente. Mentre andavamo alla deriva verso la rupe, vidi la sagoma indistinta di una vecchia banchina di pietra, coperta di muschio. Gli uomini avevano alzato i remi verso il cielo.

Marius era immobile come sempre, e la sua mano esercitava una pressione gentile sulla mia, mentre l’altra indicava la banchina e la rupe che si ergeva come la notte. Le nostre lanterne proiettavano il chiarore sulla roccia bagnata.

Quando fummo a non più di cinque o sei piedi dalla banchina, pericolosamente vicini per una nave di quelle dimensioni e di quel peso, sentii che ci eravamo fermati.

Tenendomi per mano, Marius attraversò il ponte e salì fino alla fiancata della nave. Un servitore dai capelli scuri si avvicinò e gli mise un sacco nella mano. Insieme, Marius e io scavalcammo d’un balzo l’acqua e atterrammo sulla banchina di pietra, superando agevolmente la distanza senza il minimo rumore.

Mi voltai e vidi la nave ondeggiare leggermente. I remi vennero abbassati di nuovo e, dopo pochi secondi, il vascello puntò verso le luci distanti di un paesetto dall’altra parte della baia.

Marius e io eravamo soli nell’oscurità. E quando la nave divenne un puntolino scuro sulle acque scintillanti, egli indicò una stretta gradinata scolpita nella roccia.

«Precedimi, Lestat», disse.

Era piacevole salire. Era piacevole muoversi così svelto, seguire i gradini rozzi e tornanti, e sentire il vento diventare più forte, e vedere l’acqua sempre più distante e immobile, come se il moto delle onde si fosse arrestato.

Marius era a pochi passi da me. Ancora una volta sentivo e udivo il palpito del potere. Era come una vibrazione nelle mie ossa.

Gli scalini sparivano a metà del dirupo; cominciai a seguire un sentiero che non era abbastanza largo per una capra di montagna. Ogni tanto i macigni o gli affioramenti di pietra formavano un margine tra noi e il precipizio, ma quasi sempre il sentiero era l’unica sporgenza sulla parete, e mentre continuavamo a salire avevo sempre più paura di guardare giù.

Una volta, afferrandomi al ramo di un albero, mi voltai e vidi Marius che veniva verso di me, con il sacco sulla spalla, la mano destra libera. La baia, il paesetto lontano e il porto sembravano giocattoli, una mappa costruita da un bambino sul piano d’un tavolo con uno specchio e qualche manciata di sabbia e di pezzi di legno. Potevo vedere al di là del varco il mare aperto, e le sagome buie delle altre isole che si ergevano dallo specchio immobile. Marius sorrise e attese. Poi sussurrò gentilmente:

«Prosegui».

Dovevo essere dominato da un incantesimo. Ricominciai a salire e non mi fermai fino a che non arrivai in cima. Superai strisciando un’ultima sporgenza di rocce, e mi alzai sull’erba soffice.

Davanti a me c’erano rocce più alte: e da esse sembrava spuntare una fortezza immensa. C’erano luci alle finestre, luci nelle torri.

Marius mi cinse le spalle con un braccio e ci avviammo verso l’entrata.

La stretta si allentò quando si fermò davanti alla porta massiccia. Poi giunse il suono di un catenaccio che scorreva all’interno. La porta si aprì, la stretta ridivenne salda. Marius mi guidò nell’atrio dove due torce davano una luce viva.

Con un trasalimento, vidi che non c’era nessuno che poteva aver rimosso il catenaccio e aprire la porta. Marius si voltò, guardò la porta; il battente si chiuse.

«Fai scorrere il catenaccio», disse.

Mi chiesi perché non lo facesse lui, come aveva fatto il resto. Ma tirai immediatamente il catenaccio come mi aveva detto.

«È molto più facile in quel modo», disse con un’espressione leggermente maliziosa. «Ti mostrerò la camera dove potrai dormire sicuro; e potrai venire da me quando vorrai.»

Non sentivo nessun altro nella casa. Ma lì c’erano stati diversi mortali, lo sentivo. Avevano lasciato il loro odore qua e là. E le torce erano state tutte accese poco tempo prima.

Salimmo una scala sulla destra e, quando arrivai nella camera destinata a me, rimasi stupito.

Era immensa, con un’intera parete aperta su una terrazza dalla balaustra di pietra sospesa sopra il mare.

Quando mi voltai, Marius se n’era andato e il sacco era sparito. Ma il violino di Nicki e la mia valigia stavano sul tavolo di pietra, al centro della camera.

Una corrente di tristezza e di sollievo m’investì alla vista del violino. Avevo temuto di averlo perso.

Nella stanza c’erano panche di pietra, e una lampada a olio accesa su un supporto. E in una nicchia c’erano due pesanti battenti di legno.

Andai ad aprirli e trovai un piccolo corridoio che svoltava a «L». Oltre la svolta c’era un sarcofago con un coperchio molto semplice. Era di diorite, che a quanto ne so è una delle pietre più dure della terra. Il coperchio era immensamente pesante, e quando lo esaminai vidi che era rivestito di ferro e aveva un catenaccio che si poteva chiudere dall’interno.

Sul fondo c’erano diversi oggetti luccicanti. Quando li presi, scintillarono quasi magicamente nella luce che filtrava dalla camera.

C’era una maschera d’oro dai lineamenti modellati con cura, le labbra chiuse, i fori per gli occhi stretti come fessure, ed era fissata a un cappuccio formato da lamine d’oro martellato. La maschera era pesante, ma il cappuccio era leggerissimo e flessibile: ogni minuscola lamiera era fissata alle altre da un filo pure d’oro. E c’erano anche un paio di guanti di cuoio rivestiti di squame d’oro ancora più delicate e, infine, una grande coperta piegata di morbidissima lana rossa, con un lato ricoperto di lamine d’oro più grandi.

Compresi che, se avessi messo la maschera e i guanti e mi fossi avvolto nella coperta, sarei stato protetto contro la luce, anche nell’eventualità che qualcuno aprisse il sarcofago mentre dormivo.

Ma non era probabile che questo avvenisse. E anche la porta della camera a «L» era rivestita di ferro e aveva un robusto catenaccio.

Tuttavia, quegli oggetti misteriosi avevano un loro fascino. Mi piaceva toccarli e immaginavo me stesso che dormivo portandoli addosso. La maschera mi ricordava le maschere greche della commedia e della tragedia.

E facevano pensare alla sepoltura di un antico re.

Lasciai tutte quelle cose con riluttanza.

Ritornai nella camera, mi tolsi gli indumenti che avevo portato durante le notti passate sottoterra al Cairo, e indossai gli abiti puliti. Mi sentivo piuttosto assurdo, in quel luogo fuori del tempo, con una giacca blu-viola dai bottoni di perla, e la solita camicia di merletto e le scarpe di raso con le fibbie di diamanti; ma erano gli unici abiti che avessi. Mi legai i capelli all’indietro con un nastro nero, come si addiceva a un gentiluomo del secolo decimottavo, e andai in cerca del padrone di casa.

2.

Torce accese dappertutto. Le porte erano aperte. Le finestre si affacciavano sul firmamento e sul mare.

Quando lasciai la piccola scala spoglia che scendeva dalla mia camera, mi resi conto che per la prima volta, nei miei vagabondaggi, ero in un rifugio veramente sicuro per un immortale, arredato e fornito di tutte le cose che un immortale poteva desiderare.

Magnifiche urne greche stavano sui piedistalli nei corridoi, c’erano grandi statue bronzee orientali nelle nicchie, e piante squisite fiorivano a ogni finestra e a ogni terrazza aperta al cielo. Splendidi tappeti indiani, persiani e cinesi coprivano i pavimenti di marmo, dovunque andassi.

Trovai giganteschi animali imbalsamati che sembravano vivi… l’orso bruno, il leone, la tigre, persino l’elefante in una camera immensa, lucertole grosse come draghi, uccelli rapaci che stringevano rami secchi negli artigli.

Ma gli affreschi coloratissimi che coprivano ogni superficie dal pavimento al soffitto dominavano tutto.

In una camera c’era un dipinto scuro e vibrante del deserto arabo, con una carovana di cammelli e di mercanti, in dettagli squisiti. In un’altra sala, una giungla prese vita intorno a me: brulicava di fiori e liane tropicali e di foglie dipinte con estrema precisione.

L’illusione perfetta mi sbalordiva e mi affascinava: ma più osservavo i dipinti e più cose scoprivo.

C’erano esseri dovunque, nella giungla… insetti, uccelli, vermi nel suolo, un milione di aspetti diversi della scena mi davano la sensazione d’essere scivolato fuori del tempo e dello spazio per passare a qualcosa che era più di un affresco. Eppure tutto era reso in due dimensioni sulla parete.

Avevo le vertigini. Dovunque mi girassi, le pareti offrivano nuove vedute. Non avrei saputo dare un nome ad alcune delle tinte e delle sfumature.

In quanto allo stile dei dipinti, mi sconcertava anche se mi incantava. La tecnica sembrava molto realistica, e usava le proporzioni e gli accorgimenti classici che s’incontrano nei pittori del Rinascimento, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, nonché nei pittori di tempi più recenti, Watteau, Fragonard. L’uso della luce era spettacolare. Gli esseri viventi sembravano respirare sotto il mio sguardo.

Ma i dettagli. I dettagli non potevano essere realistici e in proporzione. C’erano troppe scimmie nella giungla, troppi bruchi che strisciavano sulle foglie. C’erano migliaia di minuscoli insetti in un affresco che raffigurava un cielo estivo.

Arrivai in una grande galleria: sulle pareti uomini e donne dipinti mi fissavano. Per poco non gridai. Erano figure provenienti da ogni epoca, beduini, egizi, poi greci e romani, e cavalieri in armatura e contadini e re e regine. C’erano personaggi rinascimentali con farsetti e calzemaglie, il Re Sole con la voluminosa criniera di riccioli, e infine gente contemporanea.

Ma ancora una volta i dettagli mi facevano sentire come se li stessi solo immaginando… le gocce d’acqua aderenti a un mantello, lo sfregio su una guancia, il ragno semischiacciato sotto un lucido stivale di pelle.

Cominciai a ridere. Non era buffo. Era delizioso. Cominciai a ridere e a ridere.

Dovetti farmi forza per uscire da quella galleria, e l’unica cosa che me ne rese capace fu la vista di una biblioteca sfolgorante di luce.

Pareti e pareti di libri e di rotoli manoscritti, giganteschi mappamondi sui supporti lignei, busti delle antiche divinità greche, grandi carte geografiche spiegate.

Sui tavoli c’erano mucchi di giornali in tutte le lingue. E dovunque erano sparsi oggetti curiosi: fossili, mani mummificate, conchiglie esotiche. C’erano mazzi di fiori secchi, statuine e frammenti di antiche sculture e vasi d’alabastro coperti di geroglifici egizi.

E al centro, sparsi fra i tavoli e le vetrine, c’erano ampie poltrone con sgabelli, e candelabri o lampade a olio.

L’impressione era di un comodo disordine, lunghe ore di godimento puro, un luogo estremamente umano. Conoscenza umana, manufatti umani, poltrone dove potevano sedere gli umani.

Indugiai a lungo, adocchiando i titoli latini e greci. Mi sentivo un po’ ebbro, come se mi fosse capitato un mortale con una quantità di vino nel sangue.

Ma dovevo trovare Marius. Uscii dalla biblioteca, scesi una scala, attraversai un’altra galleria dipinta e arrivai in una camera ancora più grande ed egualmente piena di luce.

Sentii il canto degli uccelli e aspirai il profumo dei fiori prima ancora di entrare. E quando lo feci mi trovai sperduto in una foresta di gabbie. Non c’erano soltanto uccelli di ogni grandezza e colore, ma anche scimmiette e babbuini che si agitavano nelle piccole prigioni mentre io passavo.

C’era una folla di piante in vaso contro le gabbie, felci e banani, rose centifoglie, lunarie, gelsomini e rampicanti notturni dal profumo soave. C’erano orchidee bianche e purpuree, fiori cerei che intrappolavano gli insetti nelle loro fauci, piccoli alberi carichi di pesche, limoni e pere.

Quando alla fine uscii da quel piccolo paradiso, giunsi in una galleria di sculture degna di rivaleggiare con quelle dei Musei Vaticani. E scorsi altre sale adiacenti piene di quadri, arredi orientali, giocattoli meccanici.

Naturalmente ora non indugiavo più davanti a ogni oggetto, a ogni nuova scoperta. Ci sarebbe voluta una vita per esaminare tutto il contenuto della casa. Passavo oltre.

Non sapevo dove andavo. Ma sapevo che mi veniva permesso di vedere tutte quelle cose.

Finalmente udii il suono inconfondibile di Marius, il ritmico palpitare del cuore che avevo udito al Cairo. E mi mossi in quella direzione.

3.

Entrai in un salotto del secolo decimottavo, illuminato vivamente. I muri di pietra erano rivestiti da pannelli di legno di rosa con specchi incorniciati che salivano fino al soffitto. C’erano i soliti cassettoni laccati, poltrone, ricchi paesaggi, orologi di porcellana. Una piccola collezione di volumi nelle librerie con le ante a vetri, un giornale di data recente su un tavolino accanto a una poltrona di broccato.

Una porta-finestra si apriva sulla terrazza dove gigli bianchi e rose rosse irradiavano intensi profumi.

E là, accanto alla balaustra di pietra, stava un uomo del secolo decimottavo.

Mi voltava le spalle. Si girò e mi fece cenno di uscire.

Era vestito come me. La giacca era rossa, non viola, le trine erano di Valenciennes e non di Bruxelles. Ma era abbigliato più o meno allo stesso modo, con i capelli trattenuti da un nastro scuro, e non sembrava etereo come Armand; era piuttosto una presenza superiore, un essere dalla perfezione impossibile e non di meno legato a tutto ciò che gli stava intorno… gli abiti che portava, la balaustra su cui posava la mano, persino il momento in cui una nuvoletta passava davanti alla mezza luna.

Assaporai quel momento: lui e io stavamo per parlare, ed ero davvero lì. Avevo ancora la mente lucida come a bordo della nave, e non avevo sete. Sentivo che era il suo sangue a sostenermi. Tutti i vecchi misteri mi destavano e mi spronavano. Coloro-che-devono-essere-conservati si trovavano in quell’isola? Avrei saputo tutto?

Andai alla balaustra e mi fermai accanto a lui a guardare il mare. I suoi occhi erano fìssi su un’isola lontana meno di mezzo miglio dalla spiaggia sottostante. Ascoltava qualcosa che non potevo udire. E il suo profilo, nella luce che proveniva dalle porte aperte, sembrava di pietra.

Ma subito si rivolse a me con un’espressione ilare, e il suo volto levigato si rivitalizzò per un istante. Mi cinse con un braccio e mi guidò nella sala.

Camminava con lo stesso ritmo di un mortale, a passo leggero ma fermo, e il suo corpo si muoveva nello spazio in modo prevedibile.

Mi condusse a due poltrone che si fronteggiavano. Sedemmo. Eravamo più o meno al centro della sala. Il terrazzo era alla mia destra ed eravamo illuminati dal lampadario sospeso sopra di lui e da una dozzina di candelieri e di applique.

Era tutto molto naturale e molto decoroso. Marius si assestò comodamente sui cuscini di broccato e strinse le dita intorno ai braccioli della poltrona.

Quando sorrideva sembrava interamente umano: tutte le linee e l’animazione erano evidenti… fino a quando il sorriso non si dileguava di nuovo.

Cercavo di non fissarlo, ma non potevo farne a meno.

Un’espressione maliziosa si insinuò sul suo volto.

Il mio cuore battè più forte.

«Cosa sarebbe più facile per te?» domandò in francese. «Che io ti dica perché ti ho portato qui, o che tu mi dica perché volevi vedermi?»

«Oh, sarebbe più facile la prima cosa», risposi. «Parla tu.»

Rise, garbatamente.

«Sei un essere straordinario», disse. «Non mi aspettavo che discendessi così presto nella terra. Molti di noi fanno l’esperienza della prima morte assai più tardi… dopo un secolo o magari due.»

«La prima morte? Vuoi dire che è comune… sprofondare nella terra come ho fatto io?»

«È comune tra coloro che sopravvivono. Moriamo e risorgiamo. Coloro che non sprofondano nella terra per qualche periodo di tempo, di solito non durano.»

Ero sbalordito; ma era logico. E mi colpì un pensiero terribile: se Nicki fosse sprofondato nella terra anziché gettarsi nel fuoco… Ma non potevo pensare a Nicki, adesso. Altrimenti avrei cominciato a fare domande inutili e sciocche. Nicki è in qualche luogo? Nicki ha smesso di esistere? I miei fratelli sono in qualche luogo? Hanno smesso semplicemente di esistere?

«Ma non avrei dovuto essere tanto sorpreso se nel tuo caso è accaduto quanto è accaduto», riprese Marius, come se non avesse udito quei pensieri o non volesse prenderli in considerazione. «Hai perso troppe cose che ti erano care. Hai visto e imparato molto, e molto in fretta.»

«Come sai ciò che mi è accaduto?» chiesi.

Sorrise di nuovo, e quasi rise. Era sorprendente il calore che emanava da lui, l’immediatezza. Parlava in modo vivace… cioè, parlava come un francese colto.

«Non ti spavento, vero?» mi chiese.

«Non credo che cerchi di farlo», risposi.

«No.» Fece un gesto noncurante. «Ma il tuo autocontrollo è abbastanza stupefacente in ogni caso. Per rispondere alla tua domanda: so ciò che accade alla nostra specie in tutto il mondo. E francamente, non sempre comprendo come o perché lo so. È un potere che aumenta con l’età, come tutti i nostri poteri, ma rimane incoerente, difficile da dominare. Vi sono momenti in cui posso udire ciò che accade ai nostri a Roma e persino a Parigi. E quando un altro mi chiama come hai fatto tu, posso udire l’appello a distanze incredibili. Posso trovarne la fonte, come hai visto tu stesso.

«Ma le informazioni mi pervengono anche in altri modi. So dei messaggi che hai inciso per me sui muri in tutta Europa, perché li ho letti. E ho sentito parlare di te da altri. E a volte tu e io siamo stati vicini, più di quanto tu sospettassi… e ho udito i tuoi pensieri come posso udirli ora, naturalmente. Ma preferisco comunicare per mezzo delle parole.»

«Perché?» chiesi. «Credevo che i più vecchi di noi facessero completamente a meno della favella.»

«I pensieri sono imprecisi», disse Marius. «Se ti schiudo la mia mente, non posso controllare ciò che tu vi leggi. E quando leggo la tua mente, è possibile che io fraintenda ciò che odo e vedo. Preferisco usare la parola e lasciare che le mie facoltà mentali se ne servano. È come l’allarme sonoro per annunciare le mie comunicazioni importanti, perché la mia voce venga ricevuta. Non mi piace penetrare nei pensieri di un altro senza avvertirlo. E, francamente, penso che la parola sia il più grande tra i doni comuni a mortali e immortali.»

Non sapevo cosa rispondere. Era logico anche questo. Tuttavia scossi la testa. «E i tuoi modi di comportarti…» dissi. «Non ti muovi come Armand e Magnus, come pensavo che si muovessero gli antichi…»

«Come un fantasma, vuoi dire? Perché dovrei?» Rise di nuovo, sommessamente. Si assestò sulla poltrona e sollevò il ginocchio, appoggiando il piede sul cuscino come se fosse un uomo mortale nel suo studio privato.

«C’erano tempi, certo», disse, «in cui tutto questo era interessante. Muoversi senza parere, assumere posizioni fìsiche che sono scomode o impossibili per i mortali. Volare per brevi distanze e atterrare senza un suono. Muovere gli oggetti con la forza di volontà. Ma alla fine può essere piuttosto rozzo. I gesti umani sono eleganti. Vi è saggezza nella carne, nel modo in cui fa le cose il corpo umano. Mi piace il suono del mio piede che tocca il suolo, il contatto degli oggetti sotto le dita. E poi, volare anche per distanze brevi e spostare gli oggetti con la sola volontà è sfibrante. Lo faccio quando devo, come hai visto, ma è molto più facile usare le mani.»

Ne ero deliziato e non cercavo di nasconderlo.

«Un cantante può infrangere un bicchiere con una nota abbastanza alta», continuò Marius. «Ma il modo più semplice per spaccare un bicchiere è buttarlo sul pavimento.»

Questa volta risi apertamente.

Mi stavo già abituando ai cambiamenti del suo volto che passava dalla perfezione di maschera alla più accentuata capacità espressiva, e alla vitalità dello sguardo che univa l’una all’altra. Restava un’impressione di serenità e di schiettezza… di un uomo straordinariamente bello e ricettivo.

Ma non potevo abituarmi al fatto che ci fosse in lui qualcosa di così potente, di così pericolosamente potente.

Mi agitai un po’, turbato. Provavo l’inspiegabile desiderio di piangere.

Marius si tese e mi toccò con le dita il dorso della mano. Un brivido mi scosse. Eravamo collegati da quel tocco. E, sebbene la sua pelle fosse serica come quella di tutti i vampiri, era meno morbida. Era come toccare una mano di pietra in un guanto di raso.

«Ti ho portato qui perché voglio dirti ciò che so», riprese. «Voglio spartire con te i segreti che possiedo. Mi hai attratto per diverse ragioni.»

Ero affascinato. E sentivo la possibilità di un amore travolgente.

«Ma ti avverto», disse, «è pericoloso. Non possiedo le risposte supreme. Non posso dirti chi ha creato il mondo e perché esiste l’uomo. Non posso dirti perché esistiamo noi. Posso dirti su di noi più di ciò che chiunque altro ti ha detto finora. Posso mostrarti Coloro-che-devono-essere-conservati e dirti cosa ne so. Posso dirti perché credo di essere riuscito a sopravvivere tanto a lungo. Questa conoscenza potrà cambiarti un po’: è ciò che fa sempre la conoscenza, immagino…»

«Sì…»

«Ma quando ti avrò dato tutto ciò che ho da dare, sarai allo stesso punto di prima: un essere immortale che deve scoprire le ragioni della propria esistenza.»

«Sì», dissi io. «Le ragioni dell’esistenza.» La mia voce era un poco amara. Ma era bello sentirlo dire così.

Tuttavia percepivo me stesso come un essere affamato e maligno, che riusciva benissimo a esistere senza ragioni, un vampiro possente che prendeva sempre ciò che voleva. Mi domandavo se Marius capiva quanto fossi mostruoso.

La ragione per uccidere era il sangue.

Esattamente. Il sangue e l’estasi del sangue. E senza questo noi siamo gusci disseccati come lo ero stato io, sepolto nel suolo egiziano.

«Ma perché hai deciso di rivelarmi tante cose?» domandai. «Senza dubbio, altri ti avranno cercato. E devi sapere dov’è Armand.»

«Vi sono diverse ragioni, come ho detto. E probabilmente la più forte è il modo in cui tu mi hai cercato. Pochissimi esseri cercano davvero la conoscenza in questo mondo. Mortali o immortali, pochi chiedono veramente. Al contrario, cercano di strappare all’ignoto le risposte che hanno già formulato nelle loro menti… giustificazioni, conferme, forme di consolazione senza le quali non possono tirare avanti. Chiedere veramente significa spalancare la porta al turbine. La risposta può annientare la domanda e l’interrogante. Ma tu hai chiesto veramente, da quando hai lasciato Parigi dieci anni fa.»

Lo comprendevo, ma in un modo indistinto.

«Tu hai pochi preconcetti», disse Marius. «Anzi, mi sorprende il fatto che tu accetti una così straordinaria semplicità. Tu vuoi uno scopo. Vuoi amore.»

«È vero», assentii con una scrollata di spalle. «Piuttosto rudimentale, no?»

Rise di nuovo, sommessamente.

«No. Non proprio. È come se milleottocento anni di civiltà occidentale avessero prodotto un innocente.»

«Un innocente? Non puoi parlare di me.»

«In questo secolo si fa un gran parlare del buon selvaggio», disse Marius, «e della forza corruttrice della civiltà, della necessità di ritrovare la strada perduta dell’innocenza. È assurdo. I popoli veramente primitivi possono essere mostruosi in quanto a pregiudizi e aspettative. Non sanno concepire l’innocenza. Non sanno concepirla neppure i bambini. Ma alla fine la civiltà ha creato uomini che si comportano in modo innocente. Per la prima volta si guardano intorno ed esclamano: ‘Che inferno è tutto questo!’»

«È vero. Ma io non sono innocente», dissi. «Ateo, sì. Appartengo a una famiglia atea, e me ne compiaccio. Ma so che cosa sono il bene e il male in un senso molto pratico, e sono Set, il fratricida, e non l’uccisore di Set, come tu devi sapere.»

Marius annuì inarcando leggermente le sopracciglia. Non doveva più sorridere per sembrare umano. Vedevo un turbamento, ora, anche se non c’erano linee sul suo volto.

«Ma non cerchi neppure un modo per giustificarlo», disse. «È ciò che intendo per innocenza. Sei colpevole dell’uccisione dei mortali perché sei stato trasformato in qualcosa che si nutre di sangue e di morte, ma non sei colpevole di mentire, di creare in te stesso sistemi di pensiero tenebrosi e malvagi.» «È vero.»

«Essere ateo è probabilmente il primo passo per giungere all’innocenza», continuò Marius. «Perdere il senso del peccato e della subordinazione e il falso rimpianto per le cose perdute.»

«Quindi, per innocenza tu non intendi la mancanza di esperienza ma l’assenza di illusioni.»

«L’assenza del bisogno di illusioni», rispose lui. «Amore e rispetto per ciò che è giusto ai tuoi occhi.»

Sospirai. Per la prima volta mi abbandonai contro la spalliera della poltrona, riflettendo e chiedendomi che cosa aveva a che fare con Nicki e che cosa aveva detto Nicki a proposito della luce, sempre la luce. Aveva inteso alludere a questo?

Sembrava che Marius riflettesse. Anche lui stava appoggiato allo schienale della poltrona, come dall’inizio, e guardava il cielo notturno al di là della porta aperta. Gli occhi erano socchiusi, la bocca un po’ tesa.

«Ma non è stato solo il tuo spirito ad attrarmi», riprese. «La tua onestà, se vuoi. È stato il modo in cui hai cominciato a esistere come uno di noi.»

«Allora sai anche questo.»

«Sì, tutto», rispose con noncuranza. «Hai cominciato a esistere alla fine di un’era, in un’epoca in cui il mondo sta per affrontare cambiamenti impensati. Per me fu lo stesso. Ero nato e cresciuto in un tempo in cui il mondo antico, come lo chiamiamo ora, stava per finire. Le vecchie convinzioni erano logore. Stava per imporsi un nuovo Dio.» «Che epoca era?» domandai, eccitato.

«Negli anni di Cesare Augusto, quando Roma era appena diventata un impero, quando la fede negli dèi era morta a tutti i fini pratici.»

Lasciai trapelare l’espressione di piacere sul mio volto. Non dubitai di lui neppure per un momento. Appoggiai la fronte alla mano, come per sostenermi.

Marius continuò: «La gente comune di quel tempo credeva ancora nella religione come vi crede adesso. Per loro era consuetudine, superstizione, magia elementare, cerimonie le cui origini s’erano perdute nell’antichità, esattamente come adesso. Ma il mondo di coloro che originavano le idee, coloro che governavano e facevano progredire il corso della storia, era un mondo ateo e irreparabilmente sofisticato come quello dell’Europa dei nostri giorni».

«Così mi è sembrato quando ho letto Cicerone e Ovidio e Lucrezio», dissi.

Marius annuì e scrollò le spalle. «Sono stati necessari milleottocento anni», disse, «per ritornare allo scetticismo, al livello di praticità che era comune allora. Ma la storia non si ripete, e questa è la cosa più sorprendente.»

«Che cosa intendi?»

«Guardati intorno! In Europa accadono cose assolutamente nuove. Il valore attribuito alla vita umana è più alto di quanto fosse in passato. Sapienza e filosofia si uniscono alle nuove scoperte della scienza, alle nuove invenzioni che modificheranno il modo di vivere degli umani. Ma questa è una storia a sé. È il futuro. Il fatto è che sei nato al culmine del vecchio modo di vedere le cose. E così era stato per me. Tu vieni da un’epoca senza fede, tuttavia non sei cinico. Lo stesso valeva per me. Si può dire che siamo scaturiti da un crepaccio tra la fede e la disperazione.»

E Nicki era caduto in quel crepaccio ed era perito, pensai.

«Ecco perché i tuoi interrogativi sono diversi», disse Marius, «da quelli di coloro che sono nati all’immortalità sotto il dio cristiano.»

Pensai alla mia conversazione con Gabrielle al Cairo… la nostra ultima conversazione. Le avevo detto che quella era la mia forza.

«Precisamente», disse Marius. «Perciò tu e io abbiamo questo in comune. Non siamo diventati uomini aspettandoci molto dagli altri. E il peso della coscienza era personale, per quanto potesse essere terribile.»

«Ma fu sotto il dio cristiano… nei primi tempi del dio cristiano che tu… che tu nascesti all’immortalità, come dici?»

«No», rispose con una sfumatura di disgusto. «Noi non abbiamo mai servito il dio cristiano. Puoi togliertelo subito dalla mente.»

«Ma le forze del bene e del male dietro i nomi di Cristo e di Satana?»

«Non avevano quasi nulla a che fare con noi.»

«Ma sicuramente il concetto del male in qualche forma…»

«No. Noi siamo molto più antichi, Lestat. Gli uomini che mi crearono erano adoratori degli dèi, è vero. E credevano in cose in cui io non credevo. Ma la loro fede risaliva a un’epoca molto anteriore ai templi dell’Impero Romano, quando era possibile spargere il sangue di umani innocenti su vasta scala in nome del bene. E il male era la siccità e l’invasione delle cavallette e la rovina delle messi. Io fui trasformato in ciò che sono da quegli uomini in nome del bene.»

Era troppo affascinante…

Tutti i vecchi miti mi tornarono alla mente, in un coro di poesia abbagliante. Osiride era un dio benefico per gli egizi, un dio delle messi. Che cos’ha a che fare con noi? I miei pensieri vorticavano. In un lampo di immagini mute, ricordai la notte in cui avevo lasciato la casa di mio padre in Alvernia, quando i paesani danzavano intorno al falò e cantavano per avere un raccolto abbondante. Un rito pagano, aveva detto mio padre. Un rito pagano, aveva dichiarato sdegnosamente il prete, che era stato allontanato molto tempo prima.

E sembrava più che mai la storia del Giardino Selvaggio, i danzatori nel Giardino Selvaggio dove non c’era altra legge che quella del giardino, la legge estetica: le messi crescano alte, il grano diventi verde e poi biondo, il sole risplenda. Guarda che mela perfetta ha creato l’albero, guarda! I paesani correvano nei frutteti con le torce accese al grande falò, per far prosperare le mele.

«Sì, il Giardino Selvaggio», disse Marius con un lampo negli occhi. «E per trovarlo dovetti lasciare le città civilizzate dell’Impero. Dovetti avventurarmi nei boschi delle province settentrionali, dove il giardino era ancora lussureggiante, nella terra della Gallia meridionale dove tu sei nato. Dovetti cadere nelle mani dei barbari che hanno dato a entrambi la statura, gli occhi azzurri e i capelli biondi. Io li avevo avuti grazie al sangue di mia madre, che discendeva da quelle genti: era la figlia di un capo celtico sposata a un patrizio romano. E tu l’hai avuto grazie al sangue dei tuoi padri, direttamente da quei tempi. E per una strana coincidenza, entrambi fummo scelti per l’immortalità per la stessa ragione, tu da Magnus e io dai miei catturatori… perché eravamo esempi incomparabili della nostra razza, eravamo più alti e belli degli altri uomini.»

«Ah, devi dirmi tutto! Devi spiegarmi tutto!» esclamai.

«Ti sto spiegando tutto», disse. «Ma prima credo sia venuto per te il momento di vedere qualcosa che sarà molto importante, via via che continueremo.»

Attese un momento perché assimilassi le parole.

Poi si alzò lentamente, come un umano, appoggiandosi con le mani ai braccioli della poltrona. Rimase a guardarmi, in attesa.

«Coloro-che-devono-essere-conservati?» chiesi. La mia voce era divenuta esile e insicura.

E potei scorgere di nuovo un po’ di malizia sul suo viso, o meglio una sfumatura di divertimento.

«Non aver paura», disse, cercando di nascondere l’ilarità. «Non sarebbe degno di te, lo sai.»

Io smaniavo di vederli, di sapere cos’erano; tuttavia non mi muovevo. Avevo pensato che li avrei visti, ma non avevo riflettuto su ciò che avrebbe significato…

«È… è uno spettacolo terribile?» chiesi.

Mi sorrise affettuosamente e mi posò la mano sulla spalla. «Basterebbe a fermarti, se ti rispondessi di sì?»

«No», dissi. Ma avevo paura.

«È terribile solo con l’andar del tempo», disse Marius. «All’inizio è bellissimo.»

Attese, osservandomi e sforzandosi di essere paziente. Poi disse a voce bassa:

«Vieni, andiamo».

4.

Era una scala che discendeva nella terra.

Era molto più vecchia della casa, sebbene non capissi come lo sapevo. I gradini erano consunti al centro dai piedi che li avevano calpestati, e si snodavano nella roccia a profondità sempre maggiori.

Ogni tanto c’era un rudimentale varco verso il mare, un’apertura troppo piccola perché un uomo potesse passare, e un cornicione dove avevano fatto il nido gli uccelli o dove l’erba cresceva nelle fenditure.

E poi il freddo, il freddo inesplicabile che a volte s’incontra nei vecchi monasteri, nelle chiese in rovina, nelle case infestate.

Mi fermai e mi massaggiai le braccia con le mani. Il freddo saliva dagli scalini.

«Non sono loro a causarlo», disse Marius. Mi aspettava qualche gradino più in basso.

La semioscurità spezzava il suo viso in motivi delicati di luce e d’ombra e dava un’illusione di età mortale che in realtà non esisteva.

«C’era già molto tempo prima che li portassi qui», disse, «Molti son venuti a praticare i loro culti su quest’isola. Forse esisteva già prima che loro venissero.»

Mi fece di nuovo un cenno con la tipica pazienza. I suoi occhi erano colmi di tenerezza.

«Non aver paura», ripeté mentre riprendeva a scendere.

Mi sarei vergognato di non seguirlo. I gradini continuavano all’infinito.

Arrivammo a passaggi più ampi e al rumore del mare. Sentivo la spuma fredda sulle mani e sul viso, vedevo il brillio dell’acqua sulle pietre. Ma continuammo la discesa. Gli echi dei nostri passi riverberavano contro la volta e le pareti rozzamente rifinite. Era più profonda di qualunque segreta, era l’abisso che scavi nell’infanzia quando ti vanti con tua madre e tuo padre che farai una galleria fino al centro della terra.

Finalmente, superata un’altra curva, vidi uno sprazzo di luce. E due lampade che ardevano davanti a due battenti.

Gli stoppini delle lampade erano alimentati da grossi recipienti d’olio. E i battenti erano sbarrati da un’enorme trave di quercia. Sarebbero stati necessari diversi uomini per sollevarla, e forse avrebbero dovuto servirsi di corde e leve.

Marius alzò la trave e la posò agevolmente; quindi indietreggiò e guardò la porta. Sentii il suono di un’altra trave che si muoveva all’interno. Poi i battenti si aprirono pian piano e a me mancò il respiro.

Non era solo perché Marius aveva aperto la porta senza toccarla. L’avevo già visto farlo. Ma la stanza era piena degli stessi fiori bellissimi e delle lampade accese che avevo visto di sopra, nella casa. Lì, nelle profondità della terra, c’erano gigli candidi e cerei, scintillanti di gocciole di rugiada, rose dalle ricche sfumature rosate e rosse, pronte a cadere dai tralci. Era una cappella, quella camera con la luce dolce delle candele votive e il profumo di mille mazzi di fiori

Le pareti erano affrescate come quelle delle antiche chiese italiane, con foglie d’oro inserite nei motivi. Ma non c’erano immagini di santi cristiani.

Palme egizie, il deserto giallo, le tre piramidi, le acque azzurre del Nilo. E donne e uomini egizi, sulle imbarcazioni aggraziate che navigavano sul fiume, e i pesci multicolori sotto di loro, gli uccelli dalle ali purpuree in volo nell’aria.

E l’oro inserito in ogni cosa. Nel sole che splendeva dal cielo, nelle piramidi che brillavano in distanza, nelle squame dei pesci e nelle piume degli uccelli, e negli ornamenti delle delicate figure egizie che stavano immote e guardavano in avanti, a bordo delle lunghe barche verdi.

Chiusi gli occhi per un momento. Li riaprii pian piano e vidi un grande sacrario.

Filari di gigli su un basso altare di pietra dove stava un immenso tabernacolo d’oro coperto dalle fini iscrizioni egizie. E l’aria discendeva da pozzi profondi scavati nella roccia, e agitava le fiamme delle lampade perpetue, faceva ondeggiare le foglie verdi dei gigli che, nei vasi pieni d’acqua, esalavano un profumo inebriante.

Mi sembrava quasi di udire gli inni, i canti, le antiche invocazioni. E non avevo più paura. La bellezza era troppo rasserenante, troppo grandiosa.

Ma fissai le ante dorate del tabernacolo sull’altare. Il tabernacolo era più alto di me, e tre volte più largo.

Anche Marius lo guardava. Sentii il potere irradiarsi da lui, il calore della sua forza invisibile, e udii scorrere la serratura interna.

Se avessi osato, mi sarei avvicinato un po’ di più. Trattenni il respiro mentre i battenti d’oro si aprivano e rivelavano due splendidi statue egizie, un uomo e una donna, sedute a fianco a fianco.

La luce investì i volti bianchi magnificamente scolpiti, le membra candide disposte in atteggiamento decoroso, lampeggiò negli occhi scuri.

Erano solenni come tutte le statue egizie, sobrie, magnifiche nella loro semplicità; solo l’espressione aperta e infantile dei volti alleviava la sensazione di freddo e di durezza. Ma, diversamente da tutte le altre, avevano capelli veri e indumenti di vera stoffa.

Nelle chiese italiane avevo visto numerosi santi vestiti in quella maniera con velluti drappeggiati sul marmo, e non sempre l’effetto era gradevole.

Ma in questo caso era stato fatto con grande cura. Le parrucche erano formate da folte ciocche nere, tagliate a frangia sulla fronte e coronate da cerchietti d’oro. Intorno alle braccia nude spiccavano bracciali a forma di serpenti, e le dita erano ornate di anelli.

Gli abiti erano di finissimo bianco; l’uomo era nudo fino alla cintola e portava una specie di gonnellino; la donna una lunga veste aderente e pieghettata. Entrambi avevano molte collane d’oro, tempestate di pietre preziose.

Erano quasi delle stesse dimensioni e stavano seduti nello stesso modo, con le mani posate piatte sulle cosce. E la somiglianzà mi stupiva come la loro bellezza così semplice e la qualità gemmea degli occhi.

Non avevo mai visto in altre statue un atteggiamento così vivo, anche se in realtà in loro non c’era niente che facesse pensare alla vita. Forse era un effetto dell’abbigliamento, del brillio delle luci sulle collane e sugli anelli e dei riflessi nei loro occhi.

Erano Osiride e Iside? Era una scrittura minutissima quella che vedevo sulle collane e sui cerchi che gli cingevano i capelli?

Marius non diceva nulla. Si limitava a guardarli come facevo io, con un’espressione indecifrabile e forse triste.

«Posso avvicinarmi?» mormorai.

«Certo.»

Mi avvicinai all’altare come un bambino in una cattedrale, sempre più incerto a ogni passo. Mi fermai a poca distanza da loro e li guardai negli occhi. Oh, erano troppo splendidi, così profondi e variegati. Troppo reali.

Ogni ciglio nero era fissato con cura infinita, e lo stesso ogni sopracciglio, sulle fronti dolcemente incurvate.

Con cura infinita le loro bocche erano state rappresentate socchiuse in modo che si potesse scorgere il luccichio dei denti. E volti e braccia erano levigati, così che nessun difetto ne turbasse lo splendore. E, come tutte le statue e le figure dipinte che guardano direttamente in avanti, sembravano fissarmi.

Ero confuso. Se non erano Osiride e Iside, chi rappresentavano? Quale antica verità simboleggiavano, e perché c’era quell’imperativo nell’antica frase, Coloro-che-devono-essere-conservati?

Cominciai a contemplarli, con la testa leggermente piegata da una parte.

Gli occhi erano castani con pupille nere, il bianco sembrava umido come se fosse coperto di lacca trasparente e le labbra avevano una sfumatura lievissima di rosa cinereo.

«Posso…?» mormorai, voltandomi verso Marius. Ma mi interruppi.

«Puoi toccarli», disse lui.

Tuttavia mi sembrava un sacrilegio. Li fissai ancora per un momento, guardai le mani aperte sulle cosce, le unghie che apparivano straordinariamente simili alle nostre… come se fossero di vetro.

Pensai che potevo toccare il dorso della mano dell’uomo, e non sarebbe stato un sacrilegio; ma in realtà volevo toccare il volto della donna. Alla fine tesi le dita, esitando, verso la sua guancia. E sfiorai con i polpastrelli la superficie candida. Poi la guardai negli occhi.

Non era pietra, quella che toccavo. Non poteva esserlo… Sembrava esattamente… E gli occhi della donna… qualcosa…

Balzai indietro, incapace di trattenermi.

Fu un movimento così fulmineo che rovesciai i vasi di gigli e andai a sbattere contro il muro, accanto alla porta.

«Sono vivi!» dissi. «Non sono statue! Sono vampiri come noi!»

«Sì», disse Marius. «Tuttavia non capirebbero questa parola.»

Era un passo più avanti di me e continuava a guardarli, con le mani lungo i fianchi.

Si voltò lentamente e mi si avvicinò. Mi prese la destra.

Il sangue mi era affluito al volto. Volevo dirgli qualcosa ma non potevo. Continuavo a fissare le due figure, e lui, e la mano bianca che teneva la mia.

«Va bene così», disse in tono quasi triste. «Non credo che gli dispiaccia se li tocchi.»

Per un momento rimasi attonito. Poi compresi. «Vuoi dire che tu… Neppure tu sai… Loro stanno lì e… oh, Dio!»

Le sue parole mi giunsero da una distanza di secoli, dal racconto di Armand: Coloro-che-devono-essere-conservati sono in pace o in silenzio. Più di questo non sapremo mai.

Rabbrividivo. Non riuscivo a dominare i tremiti delle braccia e delle gambe.

«Respirano, pensano, sono vivi come noi», balbettai. «Da quanto tempo sono così, da quanto tempo?»

«Calmati», mi disse Marius accarezzandomi la mano.

«Oh, Dio», ripetei stupidamente. Continuai a ripeterlo. Le altre parole non bastavano. «Ma chi sono?» chiesi alla fine. La mia voce era diventata stridula. «Osiride e Iside? Sono loro?»

«Non lo so.»

«Voglio allontanarmi. Voglio uscire da qui!»

«Perché?»

«Perché… perché sono vivi, prigionieri nei loro corpi, e non possono… non possono parlare né muoversi.»

«Come sai che non possono?» chiese Marius. La voce era sommessa e serena come prima.

«Ma non possono. Ecco. Non…»

«Suvvia», disse Marius. «Voglio che li guardi ancora un po’. Poi ti ricondurrò di sopra e ti dirò tutto, come avevo promesso.»

«Non voglio più guardarli, Marius, davvero», risposi cercando di liberare la mano e scuotendo la testa. Ma mi teneva saldamente come una statua, sembrava, e non potevo fare a meno di pensare che la sua pelle era simile alla loro, e stava assumendo la stessa lucentezza impossibile, e quando il suo volto era in riposo era liscio quanto il loro!

Aveva finito per assomigliargli. E in un futuro racchiuso nell’eternità, anch’io sarei diventato come lui. Se fossi sopravvissuto tanto a lungo.

«Ti prego, Marius…» dissi. Avevo superato la vergogna e la vanità. Volevo uscire dalla cappella.

«Allora aspettami», disse lui, paziente. «Resta qui.»

Mi lasciò la mano. Si voltò a guardare i fiori che avevo calpestato, l’acqua rovesciata.

E sotto il mio sguardo tutto ritornò a posto: i fiori tornarono nel vaso e l’acqua sparì dal pavimento.

Marius guardava i due, e io udivo i suoi pensieri. Si rivolgeva a loro in un modo personale che non richiedeva titoli o formule di omaggio. Spiegava perché era rimasto lontano quelle ultime notti. Era andato in Egitto. E aveva portato doni per loro, che presto avrebbe consegnato. E tra poco li avrebbe portati fuori a guardare il mare.

Cominciai a calmarmi un po’. Ma la mia mente esaminava tutto ciò che era diventato chiaro nel momento del trauma. Era affezionato a loro. Aveva sempre avuto cura di loro. Aveva reso bella quella camera perché la guardavano e forse gradivano la bellezza dei dipinti e dei fiori.

Ma lui non sapeva. E a me bastava guardarli per provare orrore, come se fossero vivi e prigionieri in se stessi.

«Non lo sopporto», mormorai. Sapevo, senza che me lo dicesse, la ragione per cui lui li conservava. Non poteva seppellirli nel profondo del suolo perché erano coscienti. Non poteva bruciarli perché erano immobilizzati e non potevano dare il loro consenso. Oh, Dio, di male in peggio.

Ma li conservava, come gli antichi pagani tenevano gli dèi nei templi che erano le loro case. Gli portava i fiori.

E adesso accendeva per loro l’incenso, un piccolo pane che aveva tolto da un drappo di seta. Disse loro che veniva dall’Egitto, e lo mise a bruciare in un piatto di bronzo.

I miei occhi si riempirono di lacrime. Cominciai a piangere.

Quando alzai la testa, voltava loro la schiena. Li vedevo al di sopra della sua spalla. Era incredibilmente simile a loro, una statua vestita di stoffe. E pensai che forse lo faceva apposta, ad atteggiare il viso in un’espressione vacua.

«Ti ho deluso, vero?» sussurrai.

«No, affatto», rispose. «No.»

«Mi dispiace di…»

«No.»

Mi avvicinai un po’. Capivo di essere stato scortese verso Coloro-che-devono-essere-conservati. Ero stato scortese con lui. Mi aveva rivelato quel segreto e io avevo mostrato orrore e ribrezzo. Avevo deluso me stesso.

Mi avvicinai ancora di più. Volevo rimediare a ciò che avevo detto. Mi voltai di nuovo verso di loro, e Marius mi cinse con un braccio. L’incenso era inebriante. I loro occhi scuri erano pieni dei bizzarri movimenti delle fiamme delle lampade.

Non si scorgevano le vene attraverso la pelle bianca, non c’erano grinze né pieghe, neppure le linee sottili nelle labbra, che Marius aveva ancora. Non si muovevano nel respiro.

E, mentre ascoltavo nel silenzio, non udii neppure un loro pensiero, un battito del cuore, un movimento del sangue. «Ma c’è, vero?» sussurrai. «Sì.»

«E tu…?» Tu porti qui le vittime, avrei voluto dire. «Non bevono più.»

Anche questo era terribile. Non avevano neppure il piacere. E tuttavia era orribile immaginare come poteva essere… loro che tornavano a muoversi il tempo sufficiente per prendere la vittima e poi ripiombavano nell’immobilità. No, avrei dovuto sentirmi sollevato. Ma non era così.

«Molto tempo fa bevevano ancora, ma solo una volta l’anno. Lasciavo le vittime nel sacrario… malfattori deboli e prossimi alla morte. Poi tornavo e trovavo che erano stati presi, e Coloro-che-devono-essere-conservati erano esattamente come prima. Solo il colore della loro pelle era un po’ diverso. Non era stata sparsa una sola goccia di sangue.

«Questo avveniva sempre al plenilunio, di solito in primavera. Altre vittime che lasciavo non venivano prese. Poi, anche questo banchetto annuale cessò. Continuai a portare vittime, ogni tanto. E una volta, dopo un decennio, ne presero un’altra. Al plenilunio e in primavera. Poi nulla per quasi mezzo secolo. Persi il conto. Pensavo che forse dovevano vedere la luna, che dovevano conoscere il mutare delle stagioni. Ma poi scoprii che non aveva importanza.

«Non hanno bevuto nulla da prima che li portassi in Italia, trecento anni fa. Non bevono neppure nel caldo dell’Egitto.»

«Ma quando accadeva, lo vedevi con i tuoi occhi?»

«No.»

«Non li hai mai visti muoversi?»

«No… fin dall’inizio.»

Tremavo di nuovo. Mentre li guardavo, mi parve di vederli respirare, di veder cambiare le loro labbra. Sapevo che era un’illusione. Ma mi sentivo impazzire. Dovevo uscke di fi, o avrei ricominciato a piangere.

«A volte, quando vengo da loro», disse Marius, «trovo qualcosa di cambiato.»

«Che cosa? Come?»

«Piccole cose.» Li guardò pensosamente, tese la mano e toccò la collana della donna. «Questa le piace. A quanto pare è come deve essere. Ce n’era un’altra che trovavo rotta sul pavimento.»

«Allora possono muoversi.»

«Dapprima pensai che la collana fosse caduta. Ma dopo averla riparata tre volte, compresi che era assurdo. Lei se la strappava dal collo, oppure la faceva cadere con il pensiero.»

Sussurrai, inorridito. E poi mi sentii mortificato di essermi comportato così in presenza della donna. Avrei voluto andarmene immediatamente. Il suo volto era come uno specchio della mia immaginazione. Le sue labbra s’incurvavano in un sorriso ma non si muovevano.

«È accaduto con altri ornamenti, che recavano incisi i nomi di divinità che loro non amano, credo. Una volta un vaso che portai da una chiesa si ruppe. Era ridotto in frammenti minuscoli, forse dai loro sguardi. E ci sono stati anche altri cambiamenti sconcertanti.»

«Dimmi.»

«Mi è capitato di entrare nel sacrario e di trovare l’uno o l’altra in piedi.»

Questo era davvero terrificante. Avrei voluto afferrarlo per la mano e trascinarlo fuori.

«Una volta ho trovato lui a qualche passo dal seggio. E un’altra volta, la donna accanto alla porta.»

«Cercava di uscire?» mormorai.

«Forse», rispose pensosamente Marius. «Ma potrebbero uscire facilmente, se volessero. Quando avrai ascoltato tutta la storia, potrai giudicare. Ogni volta che li ho trovati spostati, li ho riportati al loro posto, ho risistemato le loro membra come prima. Sono come pietra flessibile, se riesci a immaginarlo. E se io ho tanta forza, puoi pensare quale può essere la loro.»

«Hai detto… se volessero. E se invece volessero e non potessero più? Se per lei fosse il limite massimo dello sforzo, raggiungere la porta?»

«Io credo che avrebbe potuto spezzarla, se avesse voluto. Se io posso aprire la serratura con la mente, lei che cosa non potrebbe fare?»

Guardai i loro visi freddi e distanti, le guance incavate, le bocche grandi e serene.

«Ma se t’ingannassi? E se potessero udire ogni parola che ci stiamo dicendo e fossero incolleriti e sdegnati…»

«Io credo che ci sentano», disse Marius, cercando ancora di calmarmi, con la mano sulla mia, in tono sommesso. «Ma non credo che se ne curino. Altrimenti si muoverebbero.»

«Ma come puoi saperlo?»

«Fanno altre cose che richiedono grande forza. Per esempio, a volte io chiudo il tabernacolo, e loro lo aprono subito e spalancano le ante. So che sono loro perché sono i soli che possano farlo. Allora li porto fuori a vedere il mare. E prima dell’alba, quando vado a prenderli, sono più pesanti e meno flessibili, ed è quasi impossibile muoverli. A volte penso che facciano queste cose per tormentarmi, per prendersi gioco di me.»

«No. Tentano, e non ci riescono.»

«Non essere così precipitoso nel giudicare», disse Marius. «Sono entrato nel sacrario e ho trovato prove di cose molto strane. E naturalmente vi sono le cose che accadevano all’inizio…»

Marius s’interruppe. Qualcosa l’aveva distratto.

«Senti i loro pensieri?» chiese. Sembrava in ascolto.

Non rispose. Li stava studiando. E pensai che qualcosa era cambiato. Feci appello a tutta la mia forza di volontà per voltarmi e fuggire. Li guardai con attenzione. Non vidi nulla, non udii nulla, non sentii nulla. Mi sarei messo a urlare, se Marius non avesse spiegato perché aveva sgranato gli occhi.

«Non essere tanto impetuoso, Lestat», disse finalmente con un sorriso, senza distogliere lo sguardo dall’uomo. «Ogni tanto li sento; ma è inintelligibile… è soltanto la loro presenza… conosci il suono.»

«E tu li hai appena uditi.»

«Ssssì… Forse.»

«Marius, ti prego, usciamo da qui. Ti supplico. Perdonami, ma non lo sopporto. Ti prego, Marius, andiamo.»

«Sta bene», disse gentilmente. Mi strinse la spalla. «Ma prima fa’ una cosa per me.»

«Qualunque cosa.»

«Parlagli. Non è necessario che lo faccia a voce alta. Digli che li trovi bellissimi.»

«Lo sanno», dissi io. «Sanno che li trovo di una bellezza indescrivibile.» Ne ero certo. Marius, però, voleva che glielo dicessi nel modo cerimoniale; perciò sgombrai la mente da tutte le paure e da tutte le supposizioni assurde, e glielo dissi.

«Parlagli», insistette Marius.

Obbedii. Guardai negli occhi dell’uomo e negli occhi della donna. E una sensazione strana s’insinuò in me. Ripetevo la frase Vi trovo bellissimi, vi trovo bellissimi nella forma più vaga delle parole. Pregavo come quando ero piccolo e stavo disteso nel prato, sul fianco della montagna, e chiedevo a Dio di aiutarmi ad andarmene dalla casa di mio padre.

Adesso parlavo così a lei, e le dicevo che ero grato perché mi era stato permesso di giungerle tanto vicino, e quella sensazione diventava fisica. Era sulla superficie della mia pelle, nelle radici dei miei capelli. Sentivo la tensione defluire dalla mia faccia e dal mio corpo. Ero leggero, e l’incenso e i fiori avvolgevano il mio spirito mentre fissavo le pupille nere dei profondi occhi castani.

«Akasha», dissi a voce alta. Udii il nome nello stesso momento in cui lo pronunciai. Mi sembrò bellissimo. Tremai. Il tabernacolo divenne un confine fiammeggiante intorno a lei, e dove stava la figura maschile c’era solo qualcosa d’indistinto. Mi avvicinai senza volere, mi tesi e quasi le baciai le labbra. Lo desideravo. Mi avvicinai ancora di più. Sentii le sue labbra.

Volevo che il sangue mi affluisse alla bocca e passasse a lei, come avevo fatto quella volta con Gabrielle, mentre giaceva nella bara.

L’incantesimo diventava più profondo, e io guardavo nell’abisso dei suoi occhi.

Che cosa mi succede? Sto baciando la dea sulla bocca! Sono pazzo a pensarlo!

Indietreggiai. Mi trovai di nuovo contro la parete, tremante, con le mani sulle tempie. Questa volta non avevo rovesciato i gigli, ma piangevo ancora.

Marius chiuse le ante del tabernacolo. Fece scorrere il catenaccio interno.

Tornammo nel corridoio, e Marius sollevò la sbarra interna e la bloccò. Mise a posto con le mani la sbarra esterna.

«Vieni», disse. «Saliamo.»

Ma avevamo percorso pochi passi quando sentimmo uno scatto netto, quindi un altro. Marius si voltò.

«L’hanno rifatto», disse. Un’espressione di affanno divideva il suo volto come un’ombra.

«Che cosa?» Arretrai contro il muro.

«Il tabernacolo. L’hanno aperto. Vieni, tornerò più tardi a chiuderlo, prima che sorga il sole. Ora saliremo nel mio salotto e ti racconterò la mia storia.»

Quando arrivammo nella stanza illuminata, mi lasciai cadere sulla poltrona e mi strinsi la testa fra le mani. Marius era rimasto in piedi a guardarmi. Quando me ne accorsi, alzai gli occhi.

«Lei ti ha detto il suo nome», disse.

«Akasha!» dissi io. Era come strappare una parola dal turbine d’un sogno in dissoluzione. «Me l’ha detto lei! Ha pronunciato il nome di Akasha.» Lo guardai, invocando una risposta, una spiegazione per il modo in cui mi guardava.

Pensavo che sarei impazzito se il suo volto non fosse ridiventato espressivo.

«Sei in collera con me?»

«Sttt. Taci.», disse Marius.

Non udivo nulla nel silenzio. Tranne il mare, forse. Forse il suono degli stoppini delle candele. Forse il vento. Neppure i loro occhi mi erano parsi privi di vita più di quanto lo fossero gli occhi di Marius in quel momento.

«Tu smuovi qualcosa dentro di loro», sussurrò.

Mi alzai. «Cosa significa?»

«Non lo so. Forse nulla. Il tabernacolo è ancora aperto e loro stanno immobili come sempre. Chissà?»

All’improvviso ebbi coscienza di tutti i lunghi anni in cui aveva desiderato sapere. Dovrei dire secoli, ma non riesco a immaginare i secoli, neppure ora. Sentivo tutti gli anni in cui aveva cercato di ottenere da loro qualche segno e non aveva avuto nulla; e sapevo che si domandava perché io ero riuscito ad avere da lei il segreto del suo nome: Akasha. Erano accadute molte cose, ma al tempo di Roma. Cose tenebrose, cose terribili. Sofferenze, sofferenze indicibili.

Le immagini sbiancarono. Silenzio. Marius sembrava un santo tolto da un altare e abbandonato nella navata di una chiesa.

«Marius!» bisbigliai.

Si scosse, il suo viso si animò lentamente. Mi guardò con affetto e quasi con stupore.

«Sì, Lestat», disse stringendomi la mano per rassicurarmi.

Sedette e mi indicò di fare altrettanto. Ci fronteggiavamo di nuovo, sulle comode poltrone. La luce placida era rassicurante. Ed era rassicurante vedere, al di là delle finestre, il cielo notturno.

Stava ritrovando l’animazione, il brillio del buonumore negli occhi.

«Non è ancora mezzanotte», disse. «E sulle isole tutto è tranquillo. Se non verrò disturbato, credo che avrò il tempo di raccontarti tutto.»

5. La storia di Marius

Accadde quando avevo quarant’anni, in una notte tiepida di primavera nella città di Massilia, nella Gallia romana, mentre in una lurida taverna del porto stavo scribacchiando la mia storia del mondo.

La taverna era deliziosamente sporca e affollata, piena di marinai e di vagabondi, di viaggiatori come me, pensavo; li amavo, genericamente, anche se in maggioranza erano poveri e io non lo ero, e non potevano leggere ciò che scrivevo quando sbirciavano da sopra la mia spalla.

Ero arrivato a Massilia dopo un lungo viaggio di studio che mi aveva portato in tutte le grandi città dell’Impero. Ero stato ad Alessandria, Pergamo, Atene, e avevo osservato i popoli e li avevo descritti, e adesso stavo viaggiando nella Gallia romana.

Non avrei potuto essere più contento, quella notte, se fossi stato nella mia biblioteca a Roma. Anzi, preferivo la taverna. Dovunque andassi, cercavo luoghi come quelli per scrivere; piazzavo la candela, l’inchiostro e la pergamena su un tavolo accanto al muro, e lavoravo meglio all’inizio della serata, quando i locali erano più rumorosi.

Ripensandoci, è facile capire che vivevo tutta la mia vita al centro di un’attività frenetica. Ero abituato all’idea che niente potesse avere su di me un effetto avverso.

Ero un figlio illegittimo, cresciuto in una ricca famiglia romana… amato, viziato, libero di fare ciò che volevo. I miei fratelli legittimi dovevano pensare al matrimonio, alla politica e alla guerra. A vent’anni ero già diventato lo studioso e il cronista, quello che alzava la voce nei banchetti per dirimere le controversie di carattere storico e militare.

Quando viaggiavo, avevo denaro in abbondanza e documenti che mi aprivano tutte le porte. Dire che la mia vita era stata piacevole sarebbe dir poco. Ero un individuo straordinariamente felice. Ma l’importante è che la vita non mi aveva annoiato o sconfìtto.

Portavo in me un senso d’invincibilità, un senso di stupore. E questo fu importante per me, più tardi, quanto lo sono state per te la collera e la forza, e quanto lo sono per altri spiriti la disperazione o la crudeltà.

Ma continuiamo… Se c’era qualcosa che mi era mancato nella mia esistenza piuttosto avventurosa, anche se non ci pensavo troppo, era l’amore e la vicinanza della madre celtica. Era morta nel mettermi al mondo, e di lei sapevo solo che era stata una schiava, figlia dei bellicosi galli, avversari di Giulio Cesare. Ero biondo e avevo gli occhi azzurri, come lei. E sembrava che quelli della sua gente fossero giganti. Fin da quand’ero molto giovane torreggiavo su mio padre e sui miei fratelli.

Ma non provavo curiosità per i miei antenati galli. Ero andato in Gallia da romano colto, e non avevo coscienza del mio sangue barbaro, ma portavo con me le credenze comuni del mio tempo… che Cesare Augusto fosse un grande sovrano e che nel tempo benedetto della Pax Romana le vecchie superstizioni venissero sostituite dalla legge e dalla ragione in tutto l’Impero. Non c’era posto troppo desolato perché non vi venissero costruite le vie romane, ben presto percorse dai soldati, dagli studiosi e dai mercanti.

Quella sera scrivevo con frenesia, annotando le descrizioni degli uomini che entravano e uscivano dalla taverna: sembravano figli di tutte le razze e parlavano una dozzina di lingue diverse.

Senza una ragione, fui colto da una strana idea della vita, uno strano pensiero che quasi corrispondeva a una gradevole ossessione. Ricordo che mi prese quella sera perché sembrava in qualche modo legata a ciò che accadde poi. Ma non c’era invece alcuna relazione. Avevo avuto l’idea già prima. Il fatto che mi tornasse alla mente in quelle ultime ore di libertà come cittadino romano non era altro che una coincidenza.

L’idea era semplicemente questa: c’era qualcuno che sapeva tutto, qualcuno che aveva visto tutto. Non intendevo, con questo, che esistesse un Essere Supremo, ma piuttosto che vi fosse sulla terra un’intelligenza continuativa, una coscienza continuativa. E lo pensavo in termini pratici che mi eccitavano e nel contempo mi rasserenavano. In qualche luogo c’era una coscienza di tutte le cose che avevo veduto nei miei viaggi, una coscienza di ciò che era stata Massilia sei secoli precedenti, quando erano arrivati i primi mercanti greci, una coscienza di ciò che era stato l’Egitto quando Cheope aveva costruito le piramidi. Qualcuno sapeva com’era la luce nel tardo pomeriggio del giorno in cui era caduta Troia, e qualcuno o qualcosa sapeva quel che si dicevano i contadini nelle loro casette nei pressi di Atene prima che gli spartani abbattessero le mura.

Avevo un’idea vaga di chi fosse o che cosa fosse. Ma mi confortava la nozione che per noi non andasse perduto nulla di ciò che era spirituale, e che vi fosse una continuità della coscienza…

E mentre bevevo un altro po’ di vino e pensavo e scrivevo, mi resi conto che non era tanto una convinzione quanto un pregiudizio. Sentivo, semplicemente, che esisteva una continuità della coscienza.

E la storia che stavo scrivendo ne era un’imitazione. Tentavo di unire nella mia storia tutte le cose che avevo visto, collegando le mie osservazioni sulle terre e sui popoli con tutte le osservazioni scritte che mi erano pervenute dai greci, da Senofonte e da Erodoto e da Posidonio, fino a formare una coscienza continuativa del mondo dei miei tempi. Era una creazione pallida e limitata in confronto alla vera coscienza. Tuttavia mi sentivo soddisfatto mentre continuavo a scrivere.

Ma verso mezzanotte mi sentii un po’ stanco; e, quando alzai gli occhi dopo un periodo prolungato di concentrazione, mi accorsi che nella taverna era cambiato qualcosa.

Impiegabilmente, era molto più silenziosa. Anzi era quasi vuota. E di fronte a me, appena rischiarato dalla luce guizzante della candela, stava seduto un uomo alto e biondo che voltava le spalle al locale e mi osservava in silenzio. Mi stupii, non tanto per il suo aspetto che comunque era sorprendente, ma perché compresi che era lì da diverso tempo a osservarmi anche se non l’avevo notato.

Era un gallo gigantesco, come tutti, ancora più alto di me, e aveva la faccia lunga con mento forte e naso aquilino, e gli occhi che, sotto le ispide sopracciglia bionde, brillavano d’una intelligenza infantile. Voglio dire che appariva molto intelligente ma anche molto giovane e innocente. Eppure non era giovane. L’effetto mi sconcertava.

Ero ancora più sconcertato perché i folti, ruvidi capelli biondi non erano tagliati corti secondo la diffusa moda romana, ma gli scendevano fin sulle spalle. E, anziché la tunica e il mantello che a quei tempi si vedevano dovunque, portava la vecchia casacca di pelle con cintura che era stata caratteristica dell’abbigliamento dei barbari prima di Cesare.

Sembrava uscito dalle foreste, e mi fissava con i penetranti occhi grigi. Lo trovavo interessante. Scrissi in fretta i dettagli del suo aspetto, nella certezza che non sapesse leggere il latino.

Ma la sua immobilità silenziosa m’inquietava un poco. Gli occhi erano innaturalmente dilatati, e le labbra fremevano leggermente come se lo eccitasse vedermi. Le mani pulite, bianche e delicate, appoggiate sul piano del tavolo, sembravano contrastare con il resto della sua persona.

Una rapida occhiata mi rivelò che i miei schiavi non erano nella taverna. Con ogni probabilità erano nell’altra stanza a giocare a carte, pensai, o di sopra con qualche donna. Da un momento all’altro sarebbero tornati.

Rivolsi un sorriso forzato al mio vicino silenzioso, e ripresi a scrivere. Ma subito quello cominciò a parlare.

«Sei un uomo istruito, no?» mi chiese. Parlava il latino universale dell’Impero, ma con un forte accento, e pronunciava ogni parola con un’attenzione quasi musicale.

Risposi che sì, avevo la fortuna di essere istruito, e ripresi a scrivere, convinto che questo l’avrebbe scoraggiato. Dopotutto, nonostante il suo aspetto, non avevo voglia di parlare con lui.

«E scrivi in greco e in latino, vero?» chiese, sbirciando i fogli terminati che avevo davanti.

Spiegai educatamente che il greco che avevo scritto sulla pergamena era una citazione da un’altra opera. Il mio testo era in latino. E ricominciai a scrivere.

«Ma sei di razza celtica, no?» mi chiese questa volta lo sconosciuto.

«Per la verità, no. Sono romano», risposi.

«Sembri uno di noi celti», disse. «Sei alto come noi e cammini come noi.»

Era una strana affermazione. Ero seduto da ore, a sorseggiare lentamente il vino. Non avevo affatto camminato. Ma spiegai che mia madre apparteneva al popolo dei celti, anche se non l’avevo conosciuta. Mio padre era un senatore romano.

«E cosa scrivi in greco e in latino?» mi chiese, «Che cosa accende la tua passione?»

Non risposi subito. Incominciava ad affascinarmi. Ma a quarant’anni sapevo per esperienza che molti di coloro che s’incontrano nelle taverne sembrano interessanti per i primi minuti, poi cominciano ad annoiare.

«I tuoi schiavi», annunciò l’uomo in tono solenne, «dicono che stai scrivendo una grande storia.»

«Davvero?» replicai, un po’ seccato. «E dove sono i miei schiavi?» Mi guardai di nuovo intorno. Non si vedevano. Poi ammisi che in effetti scrivevo un’opera storica.

«E sei stato in Egitto», continuò lui. Posò la mano sul tavolo.

M’interruppi e lo scrutai di nuovo. Aveva qualcosa di ultraterreno: il modo in cui stava seduto, il modo in cui usava la mano per gesticolare. Era la dignità dei primitivi, che spesso li fa apparire depositali di un’immensa sapienza, quando in realtà possiedono soltanto un’immensa convinzione.

«Sì», ammisi con una certa diffidenza. «Sono stato in Egitto.»

Evidentemente questo lo soddisfece. I suoi occhi si dilatarono un po’, quindi si socchiusero; fece un piccolo movimento con le labbra, come se parlasse a se stesso.

«E conosci la lingua e la scrittura degli egizi?» chiese aggrottando la fronte. «Conosci le città egiziane?»

«La lingua come viene parlata, sì, la conosco. Ma se ti riferisci all’antica scrittura, non la so leggere, e non conosco nessuno che sappia farlo. Ho sentito dire che non ci riescono neppure i vecchi sacerdoti egizi; non sono capaci di decifrare metà dei testi che copiano.»

Rise, stranamente. Non capivo se la mia risposta lo eccitava o se sapeva qualcosa che io ignoravo. Parve trarre un respiro profondo e dilatò un poco le narici. Poi il suo volto si ricompose. Era davvero un uomo splendido.

«Gli dèi la sanno leggere», bisbigliò.

«Allora vorrei che me l’insegnassero», replicai garbatamente.

«Davvero?» esclamò sbalordito l’uomo. Si tese verso di me. «Ripetilo!»

«Scherzavo», dissi. «Volevo semplicemente affermare che mi piacerebbe saper leggere l’antica scrittura egizia. Se lo sapessi, potrei conoscere molte verità sul popolo dell’Egitto anziché tutte le assurdità scritte dagli storici greci. L’Egitto è una terra incompresa…» M’interruppi. Perché parlavo dell’Egitto a quell’uomo?

«In Egitto vi sono ancora vere divinità», disse lui in tono grave. «Divinità che vi dimorano da sempre. Sei stato nel fondo dell’Egitto?»

Era un modo bizzarro di esprimersi. Gli raccontai che avevo risalito il Nilo per un lungo tratto e avevo visto molte meraviglie. «Ma circa al fatto che vi siano vere divinità», dissi, «stento ad accettare l’esistenza di dèi con teste di animali…»

Scrollò il capo, quasi tristemente.

«Gli dèi veri non chiedono che gli si erigano statue», disse. «Hanno teste umane e appaiono come vogliono, e vivono come vivono le messi che spuntano dalla terra, come vivono le cose sotto il cielo, persino le pietre e la luna che divide il tempo nel grande silenzio dei suoi cieli immutabili.

«È molto probabile», dissi sottovoce. Non volevo turbarlo. Dunque era zelo, quel miscuglio d’intelligenza e di puerilità che avevo percepito in lui. Avrei dovuto saperlo. E ricordai qualcosa degli scritti di Giulio Cesare; l’affermazione che i celti discendevano da Dis Pater, il dio della notte. Quello strano individuo lo credeva?

«In Egitto vi sono vecchi dèi», disse a voce bassa. «e vi sono vecchi dèi in questa terra, per coloro che sanno adorarli. Non mi riferisco ai vostri templi, intorno ai quali i mercanti vendono gli animali che profanano gli altari e di cui poi i macellai smerciano la carne rimasta. Io parlo del vero culto, del giusto sacrificio al dio, l’unico sacrificio a lui gradito.»

«Alludi al sacrificio umano, no?» chiesi sommessamente. Cesare aveva descritto quella pratica dei celti, e mi agghiacciava il sangue il solo pensiero. Naturalmente, nell’arena di Roma avevo visto morti orribili, e morti orribili nei luoghi delle esecuzioni: ma i sacrifici umani agli dèi non li compivamo più da secoli, se mai li avevamo compiuti.

Adesso capivo chi poteva essere quell’uomo straordinario: un druido, membro dell’antica casta sacerdotale dei celti, che Cesare aveva egualmente descritto; una casta così potente che, a quanto ne sapevo, non esisteva nulla di simile in tutto l’impero. Ma non doveva più esistere neppure nella Gallia romana.

Naturalmente, nelle descrizioni i druidi portavano sempre lunghe vesti bianche. Andavano nelle foreste e coglievano il vischio sulle querce con i falcetti cerimoniali. E quell’uomo sembrava piuttosto un contadino o un soldato. Ma quale druido avrebbe indossato le vesti bianche in una taverna del porto? E poi non era più permesso ai druidi andare in giro come druidi.

«Credi davvero in questo vecchio culto?» chiesi tendendomi verso di lui. «E sei giunto nel fondo dell’Egitto?»

Se era un druido vero, si trattava di una conoscenza molto interessante, pensavo. Avrei potuto indurlo a dirmi sul conto degli dèi celti molte cose che nessuno conosceva. E cosa c’entrava l’Egitto, fra l’altro?

«No», rispose. «Non sono stato in Egitto, anche se è di là che sono venuti i nostri dèi. Non è mio destino andare laggiù. Non è mio destino imparare a leggere l’antica lingua. La lingua che parlo è sufficiente per gli dèi: l’ascoltano.»

«E che lingua è?»

«La lingua dei celti, naturalmente», disse lui. «Lo sai senza bisogno di chiederlo.»

«E quando parli ai tuoi dèi, come sai che ti odono?»

Dilatò di nuovo gli occhi e schiuse la bocca in un’inequivocabile espressione di trionfo.

«I miei dèi mi rispondono», disse.

Senza dubbio era un druido. E all’improvviso mi sembrò che irradiasse una certa luce. Lo immaginai avvolto nelle vesti bianche. Credo che se in quel momento fosse avvenuto un terremoto a Massilia, non me ne sarei accorto.

«Allora tu li hai uditi», dissi.

«Ho veduto i miei dèi», rispose. «E mi hanno parlato, con le parole e nel silenzio.»

«E che cosa dicono? Che cosa fanno che li rende diversi dai nostri dèi? A parte la natura del sacrifìcio, voglio dire?»

La sua voce assunse le cadenze riverenti di un canto. «Fanno ciò che gli dèi hanno sempre fatto: dividono il male dal bene. Inviano benedizioni a coloro che li adorano. Pongono i fedeli in armonia con tutti i cieli dell’universo, con i cicli della luna, come ti ho detto. Rendono fruttifera la terra, gli dèi. Tutto ciò che è bene procede da loro.»

Sì, pensai: la religione più antica nella sua forma più semplice, quella forma che esercitava ancora un grande fascino sulla gente comune dell’Impero.

«I miei dèi mi hanno mandato qui a cercarti», disse l’uomo.

«A cercare me?» chiesi, sbalordito.

«Comprenderai tutte queste cose. Così come imparerai a conoscere il vero culto dell’antico Egitto. Te l’insegneranno gli dèi.»

«E perché dovrebbero farlo?» domandai.

«La risposta è semplice», disse l’uomo. «Perché diventerai uno di loro.»

Stavo per replicare, quando sentii un colpo violento alla testa, e il dolore si sparse come acqua nel mio cranio. Compresi che stavo perdendo i sensi. Vidi la tavola sollevarsi, vidi il soffitto in alto sopra di me. Avrei voluto dirgli: se è un riscatto che vuoi, portami a casa mia, dal mio intendente.

Ma già in quel momento sapevo che le regole del mio mondo non contavano nulla.


Quando mi svegliai, era giorno. Ero sopra un grosso carro che procedeva velocemente su una strada sterrata attraverso l’immensa foresta. Ero legato mani e piedi, sotto una coperta leggera. Potevo vedere a destra e a sinistra attraverso le sponde di vimini, e vedevo cavalcare l’uomo che aveva parlato con me. E c’erano altri, tutti vestiti dei calzoni e delle casacche di pelle, e portavano spade e bracciali di ferro. I loro capelli sembravano quasi bianchi nei tratti assolati, e non parlavano mentre cavalcavano insieme a fianco del carro.

La foresta sembrava fatta per i Titani. Le querce erano antiche ed enormi, i rami s’intrecciavano bloccando quasi tutta la luce; per ore procedemmo in un mondo di fronde verdi e umidità e ombre.

Non ricordo di aver visto città o villaggi. Ricordo soltanto una rozza fortezza. All’interno scorsi due file di case dal tetto di paglia, e dovunque i barbari vestiti di pelle. E quando fui condotto in una delle case, bassa e buia, e fui lasciato solo, quasi non riuscivo a reggermi per i crampi alle gambe. Ero diffidente e furioso.

Capivo di trovarmi in un rifugio indisturbato degli antichi celti, i guerrieri che avevano saccheggiato il grande santuario di Delfì pochi secoli prima, e la stessa Roma in un’epoca poco più tarda; i guerrieri che erano andati nudi in battaglia contro Cesare suonando le trombe e spaventando con le loro grida i disciplinati soldati romani.

In altre parole, ero lontano da tutto ciò su cui potevo contare. E, se la promessa di diventare uno degli dèi significava che ero destinato a venire sacrificato su un altare insanguinato in un bosco di querce, avrei fatto meglio a tentare di fuggire in fretta.

6.

Allorché il mio catturatore ricomparve, indossava la favoleggiata veste bianca, e i ruvidi capelli biondi erano pettinati. Appariva immacolato, imponente e solenne. C’erano altri uomini alti e biancovestiti, alcuni vecchi, altri giovani, tutti con gli stessi capelli biondi, che erano entrati dietro di lui nella cameretta buia.

Mi circondarono in un cerchio silenzioso. E, dopo una lunga pausa, passò tra loro un brusio di sussurri.

«Sei perfetto per il dio», disse il mio vecchio, e notai l’espressione soddisfatta di colui che mi aveva portato lì. «Sei ciò che il dio ha chiesto», continuò l’anziano. «Rimarrai con noi fino alla grande festa di Samhain, e allora verrai condotto nel bosco sacro e berrai il Sangue Divino e diverrai un padre di dèi, un restauratore di tutta la magia che ci è stata inesplicabilmente tolta.

«E il mio corpo morirà, quando avverrà questo?» domandai. Guardavo le facce magre e grifagne, gli occhi indagatori, la grazia scarna con cui mi circondavano. Quella razza doveva aver ispirato un grande terrore quando i suoi guerrieri erano piombati sui popoli mediterranei. Non era sorprendente che si fosse scritto tanto sulla loro audacia. Ma questi non erano guerrieri. Erano sacerdoti, giudici e insegnanti. Erano gli istruttori dei giovani, i custodi della poesia e delle leggi che non venivano mai scritte.

«Morirà di te solo la parte mortale», disse il druido che mi aveva abbordato nella taverna.

«È una grande sventura», dissi. «Perché io non sono nient’altro.»

«No», replicò lui. «La tua forma rimarrà e sarà glorificata. Vedrai. Non temere. Inoltre, non c’è nulla che tu possa fare per cambiare la realtà. Fino alla festa di Samhain, ti lascerai crescere i capelli e imparerai la nostra lingua, i nostri inni e le nostre leggi. Avremo cura di te. Il mio nome è Mael, e t’istruirò io stesso.»

«Ma io non voglio diventare un dio», risposi. «E sicuramente gli dèi non vorranno qualcuno che è riluttante.»

«Sarà il vecchio dio a decidere», disse Mael. «Ma io so che quando berrai il Sangue Divino diventerai il dio, e tutto ti apparirà chiaro.»


La fuga era impossibile.

Ero sorvegliato giorno e notte. Non mi lasciavano coltelli che avrei potuto usare per tagliarmi i capelli o farmi del male. Per gran parte del tempo giacevo nella buia stanza vuota, ubriaco di birra di grano e sazio dei ricchi arrosti che mi davano da mangiare. Non avevo niente da usare per scrivere, e questo mi faceva soffrire.

Per vincere la noia ascoltavo Mael quando veniva per istruirmi. Lasciavo che cantasse inni e recitasse antiche poesie e parlasse delle leggi; e ogni tanto ribattevo che un dio non avrebbe avuto bisogno di essere istruito.

Mael lo ammetteva: ma poteva solo cercare di farmi capire ciò che mi sarebbe accaduto.

«Puoi aiutarmi ad andarmene da qui, puoi venire a Roma con me», gli dicevo. «Ho una villa affacciata sulla baia di Napoli. Non hai mai visto un luogo tanto bello, e io ti lascerò vivere là per sempre se mi aiuterai; e ti chiederò soltanto di ripetere gli inni e le preghiere e le leggi perché io possa trascriverli.»

«Perché cerchi di corrompermi?» ribatteva. Ma vedevo che era tentato dal mondo da cui ero venuto. Confessò che per settimane, prima del mio arrivo, aveva vagato nella città greca di Massilia, che amava il vino romano e le grandi navi che aveva visto nel porto, e i cibi esotici che aveva assaggiato.

«Non cerco di corromperti», dicevo. «Io non credo in ciò che credi tu, e tu mi hai fatto prigioniero.»

Ma continuavo ad ascoltare le sue preghiere, per curiosità, e temevo ciò che mi si approntava.

Cominciai ad attendere le sue visite, quei momenti in cui la sua figura chiara sembrava illuminare la stanza spoglia come una luce bianca, e la sua voce misurata riversava tutte le antiche, melodiose assurdità.

Ben presto apparve chiaro che i suoi versi non rilevavano storie collegate tra loro degli dèi, come le conoscevamo in greco e in latino. Ma le caratteristiche delle divinità incominciavano a emergere in molte strofe. Alla tribù celeste appartenevano dèi di tutti i tipi possibili e immaginabili.

Ma il dio che io dovevo diventare esercitava il potere più grande su Mael e su coloro che istruiva. Non aveva nome, il dio, sebbene avesse numerosi titoli: il Bevitore di Sangue era quello che ricorreva più spesso. Poi c’erano il Bianco, il Dio della Notte, il Dio della Quercia, l’Amante della Madre.

Il dio esigeva sacrifici cruenti a ogni plenilunio. Ma in occasione di Samhain (il primo novembre dell’attuale calendario cristiano, il giorno che è diventato la festa di Ognissanti o il giorno dei Morti), il dio accettava il numero più grande di sacrifìci umani davanti all’intera tribù, per accrescere i raccolti, e pronunciava ogni sorta di predizioni e di giudizi.

Serviva la Grande Madre, colei che non ha forma visibile ma è purtuttavia presente in ogni cosa, la Madre di tutte le cose, della terra, degli alberi, del cielo, di tutti gli uomini, e dello stesso Bevitore di Sangue, che viveva nel suo giardino.

Il mio interesse cresceva, ma cresceva anche la mia apprensione. Il culto della Grande Madre non mi era sconosciuto. La Madre Terra, Madre di Tutte le Cose, era adorata sotto una dozzina di nomi diversi da un’estremità dell’Impero all’altra, e così pure il suo amante e figlio, il Dio Morente, colui che diventava adulto con il crescere delle messi, e veniva abbattuto quando le messi erano falciate, mentre la Madre perdurava eterna. Era l’antico mito gentile delle stagioni. Ma, dovunque e in ogni tempo, le celebrazioni non erano gentili.

La Madre Divina era anche la Morte, la terra che inghiotte i resti del giovane amante e ci inghiotte tutti. E in consonanza con questa antica verità, antica quanto la semina, esistevano mille rituali sanguinosi.

La dea era adorata in Roma con il nome di Cibele, e io avevo visto i sacerdoti impazziti che si castravano in preda a frenesia fanatica. E gli dèi del mito incontravano fini altrettanto violente… Atti castrato, Dioniso sbranato, l’antico Osiride smembrato prima che la Grande Madre Iside lo ricomponesse.

E io dovevo diventare il Dio della Vegetazione, il dio della vite e del grano e dell’albero, e sapevo che, qualunque cosa accadesse, sarebbe stato spaventoso.

E che cosa mi restava da fare se non ubriacarmi e mormorare quegli inni con Mael, i cui occhi si velavano di lacrime ogni tanto, mentre mi guardava?

«Fammi uscire da qui, sciagurato», dissi una volta, in preda all’esasperazione. «Perché non diventi tu il Dio dell’Albero? Perché questo onore deve toccare a me?»

«Te l’ho detto. Il dio mi ha confidato i suoi desideri. E non sono stato prescelto.»

«E accetteresti, se fossi scelto?» domandai.

Ero stanco di sentir parlare dei vecchi riti, in cui ogni uomo minacciato dall’infermità o dalla sfortuna deve offrire un sacrificio umano al dio se vuol essere risparmiato, e di tutte le altre convinzioni che avevano la stessa aura di barbarie infantile.

«Avrei paura ma accetterei», mormorò Mael. «Ma sai cosa c’è di terribile nel tuo destino? Il fatto che la tua anima sarà prigioniera per sempre nel tuo corpo. Non avrà la possibilità, nella morte naturale, di passare in un altro corpo o in un’altra vita. No, per tutti i tempi la tua anima sarà l’anima del dio. Il cielo della morte e della rinascita sarà chiuso in te.»

Nonostante il mio disprezzo per la fede nella reincarnazione, questa risposta mi mise a tacere. Sentivo lo strano peso della sua convinzione; sentivo la sua tristezza.

I miei capelli crescevano. E il caldo dell’estate lasciò il posto ai giorni freschi dell’autunno. Ci avvicinavamo alla grande festa annuale di Samhain.

Ma non rinunciavo a far domande.

«Quanti uomini hai portato qui perché diventassero dèi in questo modo? Cosa c’era in me che ti ha indotto a scegliermi?»

«Non ho mai portato qui un uomo perché diventasse dio», rispose Mael. «Ma il dio è vecchio, ha perduto la magia. Una calamità terribile lo ha colpito, e non posso parlare di queste cose. Ha scelto il suo successore.» Sembrava timoroso di dire troppo. Qualcosa suscitava in lui paure profonde.

«E come sai che cosa vuole da me? Hai sessanta candidati rinchiusi nella fortezza!»

Scosse la testa; in un momento di insolita avventatezza, disse: «Marius, se non berrai il Sangue, se non diventerai padre di una nuova razza di dèi, cosa sarà di noi?»

«Vorrei che la cosa potesse interessarmi, amico mio…» replicai.

«Ah, calamità», mormorò Mael. E fece lunghe considerazioni sull’ascesa di Roma, le terribili invasioni di Cesare, il declino di un popolo che era vissuto tra quei mondi e in quelle foreste fin dall’inizio dei tempi, disprezzando le città dei greci e degli etruschi e dei romani e preterendo le rocche dei potenti capi tribali.

«Le civiltà sorgono e muoiono, amico mio», dissi. «E i vecchi dèi lasciano il passo ai nuovi.»

«Tu non comprendi, Marius», disse. «Il nostro dio non è stato sconfitto dai vostri idoli e da coloro che ne narrano le storie frivole e lascive. Il nostro dio era bello come se la luna stessa lo avesse forgiato con la sua luce, e ci guidava in quella grande unità con tutte le cose che è l’unica cessazione possibile della disperazione e della solitudine. Ma è stato colpito da una calamità terribile, e in tutte le terre nordiche altri dèi sono periti completamente. È stata la vendetta del dio del sole: ma come sia entrato in lui il dio del sole nelle ore dell’oscurità e del sonno è ignoto a noi e a lui. Tu sei la nostra salvezza, Marius. Tu sei il mortale che sa, che può imparare e che può recarsi in Egitto.»

Riflettei. Pensai all’antico culto di Iside e di Osiride e a coloro che avevano detto che lei era la Madre Terra e lui il grano, e che Set, l’uccisore di Osiride, era il fuoco del sole.

E adesso quel pio sacerdote che comunicava con il dio mi diceva che il sole l’aveva trovato nella notte e aveva causato una grande calamità.

Alla fine rinunciai ai tentativi di ragionare.

Troppi giorni trascorsero nell’ubriachezza e nella solitudine.

Mi sdraiavo al buio e cantavo tra me e gli inni della Grande Madre. Per me, tuttavia, non era una dea. Non era né Diana di Efeso con le file di mammelle gonfie di latte, né la terribile Cibele, né la dolce Demetra il cui pianto per la figlia Persefone, perduta nella terra dei morti, aveva ispirato i sacri misteri di Eleusi. Era la buona terra di cui sentivo l’odore attraverso le finestrelle sbarrate, era il vento che portava l’odore umido della foresta verde. Era i fiori dei campi e l’erba ondeggiante, l’acqua che ogni tanto sentivo gorgogliare da una sorgente montana. Era tutte le cose che avevo ancora in quella rozza stanza di legno, dove mi era stato tolto tutto il resto. E sapevo soltanto ciò che sanno tutti gli uomini e cioè che il cielo dell’inverno e della primavera e della vegetazione racchiude in sé qualche verità sublime che si afferma senza il ricorso al mito o al linguaggio.

Guardavo le stelle attraverso le sbarre e pensavo che ero destinato a morire nel modo più assurdo e sciocco, tra genti che non ammiravo e usanze che avrei volentieri abolito. Tuttavia l’apparente santità mi contagiava, mi induceva a drammatizzare e a sognare e ad abbandonarmi, a vedermi al centro di qualcosa che possedeva una sua esaltata bellezza.

Un mattina mi sollevai a sedere, mi toccai i capelli e mi accorsi che erano fluenti e mi scendevano sulle spalle.

Nei giorni che seguirono vi furono chiasso e movimento nella fortezza. Arrivavano carri da tutte le direzioni, e migliaia di persone a piedi. A ogni ora si sentivano voci di gente in movimento.

Finalmente Mael e otto druidi vennero da me. Le loro vesti erano candide, odorose d’acqua di fonte e di sole; i capelli ben spazzolati e lucidi.

Con grande cura mi rasarono il mento e il labbro superiore. Mi tagliarono le unghie. Mi spazzolarono i capelli e mi fecero indossare vesti bianche come le loro. Quindi, riparandomi con veli bianchi, mi fecero uscire dalla casa e salire su un carro con baldacchino.

Vidi altri druidi che tenevano indietro una folla strabocchevole, e per la prima volta mi resi conto che soltanto pochi eletti erano autorizzati a vedermi.

Quando io e Mael fummo sotto il baldacchino del carro, i teli vennero chiusi, e restammo completamente nascosti. Ci sedemmo sulle rozze panche e il carro si mise in movimento. Viaggiammo così per ore, senza parlare.

Ógni tanto i raggi del sole penetravano attraverso la stoffa bianca; e quando accostavo il viso vedevo la foresta, più fitta di quanto la ricordassi. Dietro di noi veniva un convoglio interminabile, grandi carri pieni di uomini che si aggrappavano alle sbarre di legno e gridavano per essere liberati. Le loro voci si mescolavano in un coro spaventoso.

«Chi sono? Perché gridano così?» chiesi alla fine. Non sopportavo più la tensione.

Mael si scosse, come se si destasse da un sogno. «Sono malfattori, ladri, assassini, tutti condannali meritatamente, e periranno nel sacrificio.»

«Ripugnante», mormorai. Ma lo era davvero? Noi condannavamo i nostri criminali a morire sulla croce, a finire arsi sul rogo, a subire ogni crudeltà. Ci rendeva forse più civili il fatto che non parlassimo di un sacrificio religioso? Forse i celti erano più saggi di noi perché non sprecavano i morti.

Ma era assurdo. Mi sentivo stordito. Il carro viaggiava lentamente. Sentivo quelli che ci passavano accanto a piedi e a cavallo. Andavano tutti alla festa di Samhain. Stavo per morire, e non volevo finire nel fuoco. Mael sembrava spaventato. E i lamenti degli uomini imprigionati sui carri mi spingevano all’orlo della follia.

Che cosa avrei pensato quando avessero acceso il fuoco? Cosa avrei pensato quanto mi fossi sentito ardere? Non lo sopportavo.

«Che sarà di me?» domandai. Provavo l’impulso di strangolare Mael. Mi guardò e inarcò leggermente le sopracciglia.

«Se il dio è già morto…» sussurrò.

«Allora andremo a Roma, io e te, e ci ubriacheremo del buon vino italiano», dissi.

Era pomeriggio inoltrato quando il carro si fermò. Il chiasso si levava tutt’intorno a noi.

Quando guardai fuori, Mael non mi trattenne. Vidi che eravamo arrivati in un’immensa radura cinta da querce gigantesche. Tutti i carri, incluso il nostro, erano fermi tra gli alberi, e al centro della radura centinaia di uomini lavoravano con fasci di ramaglie, miglia di corda e centinaia di tronchi d’albero.

I tronchi più grossi e più lunghi che avessi mai visto venivano issati per formare due «X» gigantesche.

La foresta brulicava di gente; la radura non poteva contenerla tutta. Ma altri carri avanzavano nella calca per trovare posti ai margini degli alberi.

Finsi con me stesso di non sapere che cosa facevano là fuori; ma lo sapevo. E prima del tramonto udii le urla ancora più forti e disperate di coloro che stavano sui carri-prigione.

Era quasi l’imbrunire. E, quando Mael sollevò il telo perché vedessi, guardai inorridito due colossali figure di vimini, un uomo e una donna, a quanto sembrava dalla massa dei rampicanti che simulavano gli indumenti e i capelli. Erano costruiti di tronchi e corde, e riempiti da cima a fondo con i corpi dei condannati che urlavano e supplicavano. Guardavo ammutolito i due giganti mostruosi, e non osavo contare il numero degli umani che contenevano, le vittime chiuse nella cavità delle gambe enormi, nei busti, nelle braccia, persino nelle mani, nella testa immensa e priva di faccia, incoronata di rami d’edera e di fiori. Ghirlande di fiori formavano la veste della donna, e nella cintura d’edera dell’uomo erano infilati mannelli di grano. Le figure tremavano come se stessero per cadere da un momento all’altro; ma sapevo che le poderose impalcature le sostenevano. E intorno ai piedi dei simulacri erano ammucchiate le fascine e la legna resinosa che presto li avrebbero incendiati.

«E tutti coloro che devono morire sono colpevoli di qualche delitto? È questo che vuoi farmi credere?» chiesi a Mael.

Annuì con la consueta solennità. La cosa non lo interessava. «Hanno atteso mesi o addirittura anni il momento del sacrifìcio», rispose con indifferenza. «Vengono da ogni parte della nostra terra, e non possono cambiare il loro destino come noi non possiamo cambiare il nostro. Devono perire nelle forme della Grande Madre e del suo Amante.»

Ero sempre più disperato. Avrei dovuto tentare la fuga. Ma in quel momento una ventina di druidi circondavano il carro, e più oltre c’era una legione di guerrieri. E la folla si estendeva così lontana, fra gli alberi, che non vedevo dove finisse.

L’oscurità scendeva rapidamente, e dovunque venivano accese torce.

Sentivo il ruggito delle voci eccitate. Le urla dei condannati divennero ancora più penetranti e supplichevoli.

Rimasi immobile, cercando di liberare la mente dal panico. Se non potevo fuggire, dovevo affrontare quelle cerimonie con una certa calma; e, quando fosse apparso chiaro che erano una finzione, con dignità virtuosa avrei espresso il mio giudizio a voce abbastanza alta perché tutti mi sentissero. Sarebbe stato il mio ultimo atto, l’atto del dio, e dovevo compierlo con autorità; altrimenti non avrebbe contato nel disegno delle cose.

Il carro riprese a muoversi. C’era un chiasso tremendo; e Mael si alzò, mi prese il braccio e mi sostenne. Quando il telo venne sollevato, vidi che c’eravamo fermati nella foresta, a una certa distanza dalla radura. Mi voltai a guardare le immense figure e i movimenti patetici al loro interno, rischiarati dalle torce. Sembravano animati, quegli orrori, come se all’improvviso dovessero mettersi a camminare schiacciandoci tutti. Il gioco della luce e delle ombre su coloro che erano imprigionati nelle teste dei giganti dava una falsa impressione di facce orribili.

Non riuscivo a distogliermi da quella vista e dalla vista della folla tutt’intorno; Mael, però, mi strinse più forte il braccio e mi disse che dovevo recarmi al sacrario del dio, assieme al fiore dei sacerdoti.

Gli altri mi attorniarono con la palese intenzione di nascondermi. La folla, evidentemente, non sapeva cosa stava accadendo. Con ogni probabilità sapeva solo che presto sarebbero incominciati i sacrifìci e che i druidi avrebbero proclamato una manifestazione del dio.

Uno solo del gruppo aveva una torcia; e precedeva tutti noi nell’oscurità della sera. Mael era al mio fianco e le altre figure biancovestite camminavano davanti a me, e intorno e più indietro.

Tutto era immobile, e l’aria era umida. Gli alberi si ergevano ad altezze vertiginose contro gli ultimi bagliori del cielo lontano e sembravano ingigantire ancora mentre li guardavo.

Ora potrei fuggire, pensai, ma fin dove potrei arrivare prima che tutti si lancino all’inseguimento?

Eravamo arrivati a un macchione; e nella luce fioca delle fiamme scorsi i volti terribili scolpiti nelle cortecce degli alberi, e i teschi umani disposti a mucchi. Quel luogo era un carnaio, e il silenzio che ci circondava sembrava dar vita a quelle cose orribili e farle parlare.

Cercai di liberarmi dall’illusione che i teschi ci osservassero.

Non c’è nessuno che ci osserva, pensai, non esiste una coscienza continuativa.

Ma c’eravamo fermati davanti a una quercia nodosa così enorme che quasi dubitavo dei miei sensi. Quanto doveva essere vecchia per aver raggiunto una simile circonferenza? Non riuscivo a immaginarlo. Ma quando alzai gli occhi vidi che i rami erano ancora vivi e carichi di foglie verdi e decorati di vischio.

I druidi s’erano scostati, a destra e a sinistra. Solo Mael mi era rimasto accanto. Stavo davanti alla quercia, con lui alla mia destra, e vedevo che centinaia di mazzi di fiori erano stati deposti ai piedi dell’albero; le loro corolle quasi non mostravano i colori nell’addensarsi delle ombre.

Mael chinò la testa. Teneva gli occhi chiusi. Anche gli altri stavano nello stesso atteggiamento e tremavano. Sentivo la brezza agitare l’erba verde, udivo le fronde intorno a noi stormire in un lungo sospiro che si perdeva nella foresta.

E poi, molto chiaramente, sentii pronunciare nel buio parole prive di suono.

Giungevano innegabilmente dall’albero, e chiedevano se erano state rispettate tutte le condizioni relative a colui che quella notte avrebbe bevuto il Sangue Divino.

Per un momento credetti di stare impazzendo. Mi avevano drogato. Ma non avevo bevuto nulla dal mattino! Avevo la mente lucida, dolorosamente lucida, e sentivo di nuovo la pulsazione silenziosa che adesso chiedeva:

È un uomo dotto?

La figura snella di Mael parve baluginare mentre esprimeva la risposta. I volti degli altri erano estatici, gli occhi erano fissi sulla grande quercia e il palpito della torcia era l’unico movimento.

Può recarsi in Egitto?

Vidi Mael annuire. Le lacrime gli salirono agli occhi. Deglutì.

Sì, mio fedele, io vivo e parlo e tu hai agito bene. Creerò il nuovo dio. Mandalo da me.

Ero troppo sbalordito per parlare, e non avevo comunque nulla da dire. Tutto era cambiato. Tutto ciò in cui avevo creduto veniva posto in discussione. Non avevo paura, ma ero paralizzato dallo sbalordimento. Mael mi prese in braccio. Gli altri druidi vennero ad assisterlo. Mi condussero intorno alla quercia, a una certa distanza dai fiori ammucchiati tra le radici, fino a quando ci fermammo davanti a un enorme cumulo di pietre.

Anche da quella parte c’erano immagini scolpite e teschi, e le figure pallide di altri druidi che prima non avevo visto. Alcuni avevano lunghe barbe bianche. E furono costoro che avanzarono per incominciare a rimuovere le pietre.

Mael e gli altri lavoravano con loro. Sollevavano in silenzio le pietre e le gettavano da parte, e certune erano così pesanti che dovevano spostarle in tre.

Finalmente misero allo scoperto alla base della quercia una massiccia porta di ferro con serrature enormi. Mael tirò fuori una chiave e recitò lunghe frasi nella lingua dei celti; gli altri risposero. La mano di Mael tremava. Presto, tuttavia, aprì le serrature e quattro druidi scostarono la porta. Quindi il portatore di torcia ne accese un’altra per me e me la mise tra le mani. Mael disse:

«Entra, Marius».

Ci guardammo nella luce tremula. Mi sembrava un essere incapace di muoversi, sebbene il cuore gli traboccasse mentre mi fissava. Ora intravvedevo vagamente la meraviglia che l’aveva plasmato e infiammato, e mi sentivo umile e stupito di fronte alla sua origine.

Ma dall’interno dell’albero, dalla tenebra al di là della soglia, giunse di nuovo la voce silenziosa:

Non temere, Marius. Ti attendo. Prendi la torcia e vieni a me.

7.

Appena entrai i druidi chiusero la porta alle mie spalle. Ero in cima a una lunga scala di pietra; una configurazione che avrei visto molto spesso nei secoli successivi e che tu hai visto due volte e vedrai ancora… i gradini che conducono nel grembo della Madre Terra, nei luoghi dove si nascondono sempre Coloro-che-bevono-il-sangue.

La quercia conteneva una bassa camera incompleta; la luce della torcia brillava sui rozzi segni lasciati nel legno dagli scalpelli. Ma l’essere che mi chiamava era giù, in fondo alla scala. Ancora una volta mi disse che non dovevo aver paura.

Non avevo paura. Ero indicibilmente esaltato. Non sarei morto come avevo immaginato. Stavo scendendo incontro a un mistero infinitamente più interessante di quanto avessi potuto credere.

Ma quando arrivai in fondo ed entrai nella piccola camera di pietra, fui terrorizzato da ciò che vidi… terrorizzato e inorridito. Il ribrezzo e la paura furono così immediati che sentii un nodo stringermi la gola per soffocarmi o travolgermi con la nausea.

Sulla panca di pietra di fronte alla scala c’era un essere, e alla luce della torcia vidi che aveva faccia e membra di uomo. Ma era annerito e ustionato, orribilmente, e la pelle aderiva alle ossa. Sembrava uno scheletro dagli occhi gialli incrostato di pece, e solo la fluente chioma bianca era intatta. Aprì la bocca per parlare; io vidi i denti candidi, le zanne, e strinsi con forza la torcia, cercando di dominarmi per non urlare come uno sciocco.

«Non avvicinarti troppo», disse. «Resta lì dove posso vederti veramente, non come ti vedono loro, ma come possono ancora vederti i miei occhi.»

Deglutii, cercando di riprendere fiato. Nessun essere umano poteva sopravvivere, ustionato così. Tuttavia l’essere viveva… nudo, rattrappito, nero. E la voce era bassa e molto bella. Si alzò e si mosse lentamente.

Puntò l’indice verso di me e gli occhi gialli si aprkono un po’ di più, rivelando nella luce una sfumatura sanguigna.

«Che cosa vuoi da me?» mormorai, incapace di trattenermi. «Perché sono stato condotto qui?»

«Calamità», disse con la stessa voce, colorata di sentimento… non era il suono raschiante che mi aspettavo. «Ti darò il mio potere, Marius, farò di te un dio e tu diventerai immortale. Ma dovrai andartene da qui appena sarà finito. Devi sfuggire ai miei devoti adoratori e devi recarti in Egitto e scoprire perché… perché mi è accaduto questo.»

Sembrava aleggiare nell’oscurità. I capelli erano come un manto di paglia bianca, la mascella tendeva la pelle coriacea e annerita.

«Vedi, noi siamo nemici della luce, gli dèi delle tenebre. Serviamo la Grande Madre e viviamo e regniamo solo alla luce della luna. Ma il nostro nemico, il sole, è sfuggito al suo percorso naturale e ci ha cercati nella tenebra. In tutto il territorio settentrionale, dove avevamo il nostro culto, nei boschi sacri che si estendono dalle zone della neve e dei ghiacci fino al paese dei frutti e fino a oriente, il sole è penetrato nei sacrari, di giorno, oppure nel mondo, di notte, e ha bruciato vivi gli dèi. I più giovani sono periti; alcuni sono esplosi come comete di fronte ai loro adoratori. Altri sono morti in un calore tanto terribile che l’albero sacro è diventato una pira funebre. Soltanto i vecchi, coloro che per molto tempo avevano servito la Grande Madre, hanno continuato a muoversi e a parlare come me, ma tra le sofferenze, spaventando i fedeli.

«Deve esserci un nuovo dio, Marius, forte e bello come io fui un tempo, l’Amante della Grande Madre; ma in verità dev’essere abbastanza forte per sfuggire agli adoratori, uscire dalla quercia e recarsi in Egitto, cercare i vecchi dèi e scoprire perché c’è stata questa calamità. Devi andare in Egitto, Marius, devi andare ad Alessandria e nelle città più vecchie, e devi chiamare gli dèi con la voce silenziosa che acquisirai dopo che ti avrò creato; e dovrai scoprire chi vive ancora e perché tutto questo è avvenuto.»

Chiuse gli occhi. Stava immobile e tremava irrefrenabilmente come se fosse fatto di carta nera. All’improvviso, senza un motivo, vidi un turbine d’immagini violente… gli dèi della foresta che esplodevano in fiamme. Udii i loro urli. La mia mente razionale di romano resistette a quelle immagini e cercò di imprimerle nella memoria e di contenerle, anziché accettarle: ma l’essere che le irradiava era paziente e insisteva. Vidi una terra che poteva essere soltanto l’Egitto, la sabbia gialla e bruciata che. copre ogni cosa e l’ammanta dello stesso colore, e vidi altre scale che discendevano nel profondo del suolo, altri sacrari…

«Trovali», disse l’essere. «Scopri perché e come è accaduto. Fa’ in modo che non si ripeta mai più. Usa i tuoi poteri per le vie di Alessandria fino a che troverai gli antichi. E prega che gli antichi ci siano ancora, come ci sono io.»

Ero troppo sconvolto per rispondere, troppo annichilito dal mistero. E forse vi fu un momento in cui accettai quel destino, lo accettai completamente… ma non ne sono sicuro.

«Io so», disse ancora l’essere. «Non puoi avere segreti per me. Non vuoi essere il Dio della Foresta e cercherai di fuggire. Ma, vedi, questo disastro potrà colpirti dovunque, meno che tu non ne scopra la causa e il modo di prevenirlo. Quindi so che andrai in Egitto: altrimenti anche tu, nel cuore della notte o nelle viscere della terra, potrai essere bruciato da questo sole contro natura.»

Si avvicinò un poco a me, trascinando sul pavimento di pietra i piedi bruciati. «Ricorda le mie parole: devi fuggire questa notte stessa», continuò. «Dirò ai fedeli che devi andare in Egitto per la salvezza di tutti noi; ma, poiché avranno un nuovo dio, non vorranno separarsi da lui. Ma devi andare laggiù. Non devi lasciare che ti imprigionino nella quercia, dopo le cerimonie. Devi andare in fretta; e, prima dello spuntar del giorno, discendi nella Madre Terra per sottrarti alla luce. La Madre Terra ti proteggerà. Ora avvicinati. Io ti darò il sangue. E prega che io abbia ancora il potere di trasfondere la mia antica forza. Sarà una cosa lenta e lunga. Io prenderò e donerò, prenderò e donerò; ma devo farlo, e tu diventerai il dio e dovrai fare ciò che ho detto.»

Senza attendere il mio consenso, si avventò su di me, mi strinse con le dita annerite. La torcia mi cadde dalle mani. Piombai riverso sui gradini, ma mi aveva già affondato i denti nella gola.

Tu sai che cosa accadde, sai cosa provai nel sentire il deflusso del sangue, lo svenimento. In quegli attimi vidi le tombe e i templi dell’Egitto. Vidi due figure splendenti, sedute a fianco a fianco su un trono. Udii altre voci che mi parlavano in altre lingue. E, tra tutto questo, c’era sempre lo stesso comando: servire la Madre, prendere il sangue del sacrificio, presiedere il culto che è l’unico vero, l’eterno culto della foresta.

Mi dibattevo come ci si dibatte nei sogni, incapace di gridare e di fuggire. E, quando mi accorsi che ero libero, che non ero più inchiodato al pavimento, vidi di nuovo il dio: era nero come prima ma adesso era robusto, come se la fiamma l’avesse soltanto brunito e gli avesse lasciato intatte le forze. Il volto aveva una certa bellezza, le fattezze erano ben delineate sotto l’involucro screpolato e annerito che era la carnagione. Gli occhi gialli erano circondati dalle grinze naturali e apparivano come le porte di un’anima. Ma era ancora invalido e sofferente, quasi incapace di muoversi.

«Alzati, Marius», disse. «Hai sete e io ti farò bere. Alzati e vieni a me.»

E tu conosci l’estasi che provai quando sentii il suo sangue scorrere in me ed entrare in ogni mia vena. Ma l’orrido pendolo aveva appena incominciato a oscillare.

Trascorsero ore e ore nella quercia mentre mi prendeva il sangue e me lo rendeva. Quando ero esausto, giacevo singhiozzando sulle pietre. Vedevo le mie mani ossute. Ero incartapecorito come lo era stato lui prima. E di nuovo mi faceva bere il sangue e io mi alzavo in una frenesia di sensazioni squisite, e lui me lo toglieva di nuovo.

Con ogni scambio venivano le rivelazioni: ero immortale e soltanto il sole e il fuoco potevano uccidermi, avrei dormito di giorno nella terra e non avrei mai conosciuto le infermità o la morte naturale. La mia anima non sarebbe mai migrata dalla mia forma a un’altra; ero il servitore della Madre e la luna mi avrebbe dato forza.

Mi sarei nutrito del sangue dei malfattori e anche degli innocenti sacrificati alla Madre, sarei rimasto senza nutrimento tra un sacrificio e l’altro, e il mio corpo sarebbe divenuto arido e svuotato come il grano morto nei campi invernali, ma colmandosi del sangue delle vittime sarebbe tornato bello come le piante nuove della primavera.

Nella sofferenza e nell’estasi si sarebbe scandido il cielo delle stagioni. E i poteri della mia mente, la capacità di leggere i pensieri e le intenzioni degli altri, dovevo usarli per pronunciare i giudizi per i miei fedeli, e guidarli nella giustizia e nelle leggi. Non dovevo bere altro sangue che quello del sacrificio. Non dovevo cercare di usare i miei poteri per me stesso.

Tutto questo lo appresi e lo capii. Ma ciò che mi venne insegnato veramente in quelle ore fu quello che tutti noi apprendiamo al momento in cui beviamo il sangue: non ero più un mortale, mi ero allontanato da tutto ciò che conoscevo per passare in una realtà così potente che i vecchi insegnamenti stentavano a spiegarla; e il mio destino, per usare le parole di Mael, andava al di là della conoscenza che poteva essere donata da chiunque, mortale o immortale.

Finalmente il dio mi preparò per uscire dall’albero. Mi tolse tanto sangue che stentavo a reggermi. Ero l’ombra di me stesso. Piangevo per la sete, vedevo il sangue e sentivo odore del sangue; avrei voluto avventurarmi su di lui e svuotarlo, se ne avessi avuto la forza. Ma naturalmente la forza l’aveva lui.

«Sei svuotato, come lo sarai sempre all’inizio della festività», mi disse, «così potrai bere a sazietà il sangue sacrificale. Ma ricorda ciò che ti ho detto. Dopo aver presieduto le cerimonie, devi trovare un modo di fuggire. In quanto a me, tenta di salvarmi. Di’ loro che devo essere tenuto assieme a te, anche se con tutta probabilità il mio tempo è giunto alla fine.»

«Perché? Che cosa intendi?» chiesi.

«Vedrai. Qui c’è bisogno di un solo dio, un dio efficiente», disse. «Se potessi venire con te in Egitto, potrei bere il sangue degli antichi, e forse mi risanerebbe. Così, saranno necessari secoli per guarire. E non mi verrà concesso tanto tempo. Ma ricorda: va’ in Egitto. Fai tutto come ti ho detto.»

Mi fece voltare e mi sospinse verso la scala. La torcia fiammeggiava in un angolo. Salii verso la porta. Sentivo l’odore del sangue dei druidi che attendevano, e per poco non piansi.

«Ti daranno tutto il sangue che potrai prendere», disse la voce dietro di me. «Mettiti nelle loro mani.»

8.

Non stenterai a immaginare che aspetto avevo quando uscii dalla quercia. I druidi avevano atteso che bussassi alla porta; e con la mia voce silenziosa avevo detto: Aprite, è il dio.

La mia morte umana era finita da molto tempo. Ero famelico e la mia faccia sembrava un teschio. Senza dubbio i miei occhi sporgevano dalle orbite e i miei denti erano snudati. La veste bianca mi pendeva addosso come su uno scheletro. E non avrebbe potuto esservi testimonianza più chiara della mia divinità agli occhi dei druidi che mi fissarono intimoriti quando uscii dall’albero.

Ma io non vedevo soltanto i loro volti. Vedevo nei loro cuori. Vedevo il sollievo di Mael perché il dio non era stato troppo debole e aveva potuto crearmi. Vedevo in lui la conferma di tutto ciò in cui credeva.

E vidi l’altra grande visione che è tipicamente nostra… la grande profondità spirituale di ogni uomo, sepolta in un crogiolo di carne e di sangue.

La sete era una tortura. Chiamai a raccolta tutte le mie nuove forze e dissi. «Conducetemi agli altari. Sta per incominciare la festività di Samhain.»

I druidi proruppero in grida agghiaccianti. Ulularono nella foresta. E da lontano giunse il ruggito assordante delle moltitudini che avevano atteso quell’annuncio.

Procedemmo svelti in processione verso la radura, e altri sacerdoti biancovestiti ci vennero incontro. Mi trovai sotto una pioggia di fiori freschi e fragranti che calpestavo mentre camminavo, salutato dagli inni.

Non ho bisogno di dirti come appariva il mondo alla mia nuova vista, come scorgevo ogni colore e ogni superficie sotto il velo sottile dell’oscurità, e come quegli inni mi assalivano l’udito.

L’uomo Marius era disintegrato entro il nuovo essere.

Le trombe squillarono nella radura mentre salivo i gradini dell’altare di pietra e guardavo le migliaia di fedeli… il mare di volti ansiosi, le gigantesche figure di vimini con le vittime che ancora urlavano e si dibattevano.

Davanti all’altare stava un grande calderone d’argento pieno d’acqua. Mentre i sacerdoti cantavano, una fila di prigionieri fu condotta al calderone. Avevano le braccia legate dietro la schiena.

Le voci cantavano in concerto intorno a me. I sacerdoti disponevano i fiori sui miei capelli, sulle mie spalle, ai miei piedi.

«Bellissimo, potente dio delle foreste e dei campi, bevi il sangue delle vittime sacrificali che ti sono offerte; e come le tue membra esauste si riempiranno di vita, così la terra si rinnoverà. Perciò ci perdonerai per aver tagliato il grano del raccolto, e benedirai le sementi che gettiamo.»

Vidi davanti a me coloro che erano stati scelti per essere le mie vittime; tre uomini robusti, legati come gli altri, ma puliti e vestiti di bianco, con i fiori sulle spalle e tra i capelli. Erano giovani, belli e innocenti e sopraffatti dal timore mentre attendevano la volontà del dio.

Gli squilli di tromba erano assordanti. Il ruggito della folla non cessava mai. Dissi:

«Si dia inizio ai sacrifici!» E, mentre il primo giovane mi veniva consegnato, mentre mi accingevo a bere per la prima volta dalla coppa veramente divina che è la vita umana, mentre tenevo fra le mani il corpo caldo della vittima, vidi accendere i fuochi sotto le torreggiami figure di vimini, e vidi i primi due prigionieri immersi a testa in giù nell’acqua del calderone d’argento.

Morte per fuoco, morte per acqua, morte per le zanne acuminate del dio famelico.

Gli inni continuarono durante l’estasi eterna. «Dio della luna crescente e calante, dio delle foreste e dei campi, tu che sei l’immagine della morte nella tua fame, divieni forte con il sangue delle vittime, divieni bellissimo perché la Grande Madre ti prenda per sé.»

Per quanto tempo durò? Non so. Un’eternità… le vampe dei giganti di vimini, le urla delle vittime, la lunga processione di coloro che dovevano essere annegati. Io bevevo e bevevo: non solo dai tre che erano stati scelti per me, ma da dozzine di altri che venivano riportati al calderone o costretti a entrare nei giganti in fiamme. I sacerdoti tagliavano le teste dei morti con le grandi spade insanguinate e le ammucchiavano in piramidi ai due lati dell’altare, mentre i corpi venivano portati via.

Dovunque mi volgessi vedevo l’estasi sulle facce sudate, udivo inni e grida. Ma finalmente la frenesia si placò. I giganti crollarono in un mucchio fumante sul quale gli uomini gettavano altra resina e altre fascine.

Era venuto il momento dei giudizi. Gli uomini si sarebbero presentati davanti a me e avrebbero esposto le loro motivazioni per le vendette contro altri; e io avrei guardato con occhi nuovi nelle loro anime. Vacillavo. Avevo bevuto troppo sangue; ma sentivo in me una forza così grande che avrei potuto scavalcare d’un balzo la radura per piombare nel cuore della foresta. Avrei potuto spiegare un paio d’ali invisibili, o almeno così mi sembrava.

Ma compii il mio «destino» come l’avrebbe chiamato Mael. Giudicai l’uno nel giusto, l’altro in errore, l’uno innocente, l’altro meritevole di morte.

Non so per quanto continuasse perché il mio corpo non misurava più il tempo secondo la stanchezza. Ma alla fine terminò, e mi resi conto che era venuto il momento dell’azione.

Dovevo fare qualcosa che mi aveva comandato il vecchio dio: sfuggire alla prigionia nella quercia. E avevo pochissimo tempo per farlo, non più di un’ora prima dell’alba.

Non avevo ancora deciso per quanto riguardava l’Egitto. Ma sapevo che se mi fossi lasciato rinchiudere dai druidi nell’albero sacro, vi avrei sofferto la fame fino alla piccola offerta del prossimo plenilunio. E tutte le mie notti fino a quel momento sarebbero state fatte di sete e di tortura e di quelli che il vecchio aveva chiamato «i sogni del dio», nei quali avrei imparato i segreti dell’albero e dell’erba e della Madre silenziosa.

Ma quei segreti non erano per me.

I druidi mi circondavano. Ci avviammo di nuovo verso l’albero sacro; gli inni si spegnevano in una litania che mi comandava di restare dentro la quercia per santificare la foresta, per esserne il guardiano, e parlare attraverso l’albero ai sacerdoti che di quando in quando sarebbero venuti a chiedere la mia ispirazione.

Mi fermai prima che arrivassimo alla quercia. Un’immensa pira ardeva al centro del macchione, e gettava una luce macabra sulle facce scolpite e sui mucchi di teschi umani. Gli altri sacerdoti attendevano. Una corrente di terrore mi assalì con tutta la nuova potenza che hanno per noi tali sentimenti.

Cominciai a parlare in fretta. Con voce autoritaria dissi che dovevano lasciare tutti il boschetto, e che all’alba mi sarei chiuso nella quercia con il vecchio dio. Ma capii che era inutile. Mi fissavano freddamente e si scambiavano occhiate, con occhi gelidi come pezzi di vetro.

«Mael!» dissi. «Fai ciò che ti comando. Di’ a questi sacerdoti di lasciare il macchione.»

All’improvviso metà dei sacerdoti corse verso la quercia. Gli altri mi afferrarono per le braccia.

Gridai per ordinare a Mael di fermarsi, poiché era lui che guidava l’assedio all’albero. Cercai di liberarmi, ma dieci o dodici druidi mi tenevano per le braccia e per le gambe.

Se avessi compreso la portata della mia forza, avrei potuto liberarmi facilmente. Ma non lo conoscevo. Ero ancora ebbro dopo il festino, e inorridito da ciò che sarebbe accaduto. Mentre mi dibattevo e cercavo di liberarmi le braccia e scalciavo, il vecchio dio, nudo e annerito, fu portato fuori dell’albero e lanciato nel fuoco.

Lo vidi solo per un istante; e vidi soltanto rassegnazione. Non alzò le braccia per resistere. Aveva gli occhi chiusi e non guardava me o altri. In quel momento ricordai ciò che mi aveva detto della sua sofferenza, e cominciai a piangere.

Tremavo violentemente mentre lo bruciavano. Ma dalle fiamme mi giunse la sua voce: «Fai ciò che ti ho comandato, Marius. Tu sei la nostra speranza». Era l’ordine di fuggire immediatamente.

Rimasi immobile nella stretta di coloro che mi circondavano. Piansi a dirotto e mi comportai come se fossi la vittima di quella magia, il povero dio che doveva piangere il padre perito tra le fiamme. E quando sentii le loro mani allentarsi, quando vidi che tutti guardavano il rogo, girai su me stesso con tutte le mie forze, mi liberai e corsi tra gli alberi.

In quello scatto iniziale scoprii per la prima volta quali fossero i miei poteri. Superai centinaia di iarde in un istante; i piedi sfioravano appena il suolo.

Ma immediatamente risuonò il grido: «IL DIO È FUGGITO!» e in pochi attimi la moltitudine nella radura cominciò a ripetere l’annuncio, e migliaia di mortali si avventurarono nella foresta.

Com’è potuto accadere, pensai all’improvviso, che io sia divenuto un dio, sazio di sangue umano, e fugga inseguito da migliaia di barbari celti in questa maledetta foresta?

Non mi fermai neppure per togliermi la veste bianca; la strappai mentre correvo, e poi balzai sui rami e mi mossi ancora più rapidamente tra le chiome delle querce.

Pochi minuti dopo avevo distanziato i miei inseguitori, e non li udivo più. Ma continuai la fuga, balzando di ramo in ramo, fino a che non mi rimase più nulla da temere, se non il sole del mattino.

E scoprii ciò che Gabrielle ha compreso molto presto nei suoi vagabondaggi: potevo facilmente scavare nella terra per salvarmi dalla luce.

Quando mi svegliai, l’ardore della sete mi sbalordì. Non potevo immaginare come avesse fatto il vecchio dio a sopportare l’inedia rituale. Pensavo soltanto al sangue umano.

Ma i druidi avevano avuto a disposizione tutto il giorno per inseguirmi, e dovevo procedere con estrema prudenza.

E quella notte soffrii la fame mentre correvo nella foresta; bevvi solo verso il mattino, quando trovai una banda di ladri che mi fornì il sangue di un malfattore e abiti in buone condizioni.

In quelle ore che precedevano l’alba, valutai la situazione. Avevo imparato molte cose sui miei poteri, e avrei imparato ancor di più. E sarei andato in Egitto, non per amore degli dèi e dei loro fedeli, ma per scoprire cosa significava tutto questo.

E già allora, più di millesettecento anni or sono, facevamo ricerche e rifiutavamo le spiegazioni che ci venivano date, e amavamo la magia e il potere in se stessi.

La terza notte della mia nuova vita tornai nella mia vecchia casa di Massilia e ritrovai la biblioteca, lo scrittoio, i libri. E i miei fedeli schiavi si rallegrarono nel rivedermi. Che cosa significavano quelle cose per me? Cosa contava che avessi scritto un’opera di storia e avessi dormito in quel letto?

Sapevo di non poter più essere Marius il romano. Ma avrei preso da lui tutto il possibile. Rimandai a casa gli schiavi. Scrissi a mio padre per dirgli che una grave malattia mi costringeva a passare i miei giorni nel clima caldo e asciutto dell’Egitto. Spedii il resto della mia storia a Roma, a coloro che l’avrebbero letta e pubblicata; quindi partii per Alessandria con le tasche piene d’oro, i miei vecchi documenti di viaggio e due schiavi piuttosto stupidi che non si meravigliavano del fatto che viaggiassi di notte.

E meno di un mese dopo la grande festività di Samhain in Gallia, mi aggiravo per le vie buie e tortuose di Alessandria, e cercavo gli antichi dèi con la mia voce silenziosa.

Ero pazzo, ma sapevo che la pazzia sarebbe passata. Dovevo trovare gli antichi dèi. E tu sai perché dovevo trovarli. Non era solo per la minaccia di una nuova calamità, per timore che il dio del sole mi cercasse nella tenebra del mio sonno diurno o mi visitasse con il fuoco annientatore nell’oscurità della notte.

Dovevo trovare i vecchi dèi perché non sopportavo di stare solo tra gli umani. L’orrore di questa realtà mi ossessionava; e, sebbene uccidessi soltanto gli assassini, i malfattori, la mia coscienza era troppo sensibile per accettare l’inganno. Non sopportavo la rivelazione che io, Marius, dopo aver conosciuto e apprezzato tanto l’amore nella mia vita, fossi diventato implacabile dispensatore di morte.

9.

Alessandria non era una città vecchia. Esisteva da poco più di trecento anni. Ma era un grande porto, e vi avevano sede le più grandi biblioteche del mondo romano. Da tutto l’Impero giungevano gli eruditi desiderosi di studiare; in un’altra vita ero stato uno di loro, e adesso mi trovavo di nuovo là.

Se il dio non mi avesse comandato di andare, mi sarei addentrato nell’Egitto, «nel fondo», per usare la frase di Mael, perché sospettavo che le soluzioni di tutti gli enigmi si trovassero nei santuari più vetusti.

Ma ad Alessandria fui dominato da una strana sensazione. Sapevo che gli dèi erano lì. Sapevo che guidavano i miei passi mentre cercavo le vie che portavano ai postriboli e ai covi dei ladri, i luoghi dove gli uomini andavano a perdere l’anima.

La notte giacevo nel letto della mia piccola casa e chiamavo gli dèi. Lottavo con la follia. M’interrogavo, come tu hai detto, sul potere e la forza e i sentimenti devastanti che ora possedevo. E una notte, poco prima del mattino, quando la luce d’una sola lampada brillava attraverso i veli del letto dove giacevo, volsi lo sguardo verso la porta distante del giardino e scorsi una figura immobile e nera.

Per un momento la figura mi sembrò di sogno, perché non aveva odore, non emetteva suoni e sembrava non respirare. Poi compresi che era uno degli dèi. Ma sparì e io rimasi a guardare nel vuoto e a cercare di ricordare ciò che avevo veduto: un essere nero e nudo con la testa calva e gli occhi rossi e penetranti, che sembrava perduto nel proprio silenzio, stranamente diffidente e intento a chiamare a raccolta le forze per muoversi all’ultimo momento, prima di essere scoperto completamente.

La notte seguente, nelle viuzze secondarie, udii una voce che mi chiamava. Ma era meno articolata di quella che avevo sentito giungere dalla quercia. Mi rivelava soltanto che la porta era vicina. E finalmente venne il momento silenzioso in cui mi trovai davanti alla porta.

Fu un dio che l’aprì. Fu un dio che mi disse: «Vieni».

Ero spaventato mentre scendevo la scala inevitabile e seguivo una galleria inclinata. Accesi la candela che avevo portato con me, e vidi che stavo entrando in un tempio sotterraneo, un luogo più antico della città di Alessandria, un sacrario forse costruito dagli antichi faraoni, con i muri coperti da affreschi colorati che raffiguravano la vita del vecchio Egitto.

E c’erano le scritte, la magnifica scrittura geroglifica con le piccolissime mummie e gli uccelli e le braccia protese prive di corpo e i serpenti.

Proseguii e giunsi in un luogo dalle colonne squadrate e dal soffitto altissimo. Le stesse raffigurazioni decoravano ogni spanna della pietra. Poi scorsi con la coda dell’occhio qualcosa che all’inizio mi sembrò una statua, una figura nera ritta accanto a una colonna, con una mano appoggiata alla pietra. Ma sapevo che non era una statua. Nessun dio egizio scolpito nella diorite aveva mai avuto quell’atteggiamento e aveva portato intorno ai fianchi un gonnellino di vero lino.

Mi voltai lentamente, preparandomi a quella vista; e scorsi la stessa carne ustionata, gli stessi capelli fluenti, sebbene questi fossero bianchi, e gli stessi occhi gialli. Le labbra erano raggrinzite intorno ai denti e alle gengive e il respiro gli usciva dalla gola in un rantolo di sofferenza. «Come sei venuto, e da dove?» chiese in greco. Mi vedevo come mi vedeva quell’essere, luminoso e forte, e persino i miei occhi azzurri erano un piccolo mistero in più. Vedevo i miei indumenti romani, la tunica di lino trattenuta sulle spalle da fibbie d’oro, il mantello rosso. Con i lunghi capelli biondi dovevo sembrare un viaggiatore giunto dalla foresta del nord e «civilizzato» soltanto in superficie… e forse era vero.

Ma era lui, quello che mi preoccupava. Lo vedevo meglio, con la carne screpolata e arsa fino alle costole, modellata sulle clavicole e sulle ossa sporgenti del bacino. L’essere non era affamato: aveva bevuto sangue umano di recente. Ma la sua sofferenza era come un calore che s’irradiava da lui, come se il fuoco lo bruciasse ancora dentro, come se fosse lui stesso un inferno.

«Come sei fuggito alle ustioni?» chiese. «Che cosa ti ha salvato? Rispondimi!»

«Non mi ha salvato nulla», dissi, parlando anch’io in greco. Mi avvicinai tenendo scostata la candela, quando fece il gesto di rifuggirne. In vita era stato magro e con le spalle ampie come gli antichi faraoni; e i lunghi capelli neri erano tagliati diritti sulla fronte, secondo la vecchia usanza.

«Non ero ancora stato creato quando è accaduto», dissi. «Sono stato creato in seguito, dal Dio della Foresta sacra in Gallia.»

«Allora colui che ti ha creato era illeso.»

«No, era ustionato come te; ma aveva ancora la forza per farlo. Mi ha dato e preso il sangue molte volte. E ha detto: ‘Va’ in Egitto e scopri perché è accaduto questo’. Ha detto che gli dèi della foresta sono bruciati, alcuni nel sonno e altri da svegli. Ha detto che è accaduto in tutto il settentrione.»

«Sì.» Annuì, e proruppe in una risata secca che lo scosse. «E solo gli antichi hanno avuto la forza di sopravvivere, di ereditare la sofferenza che soltanto l’immortalità può alimentare. Perciò soffriamo. Ma sei stato creato tu. E sei venuto. Ne creerai altri. Ma è giusto farlo? Il Padre e la Madre avrebbero permesso che ci accadesse questo, se non fosse venuto il momento?»

«Ma chi sono il Padre e la Madre?» chiesi. Sapevo che quando parlava della Madre non si riferiva alla terra.

«I primi di noi», rispose. «Coloro dai quali discendiamo tutti.»

Cercai di penetrare i suoi pensieri, di valutarne la verità; ma si accorse di ciò che stavo facendo, e la sua mente si chiuse come un fiore al crepuscolo.

«Vieni con me», disse. E si avviò a passo scalpicciante lungo un corridoio ugualmente decorato.

Intuivo che eravamo in un luogo ancora più antico, costruito prima del tempio che avevamo appena lasciato. Non so come lo sapessi. Il freddo che hai sentito qui sui gradini dell’isola, là era assente. Sono sensazioni che non si provano in Egitto. Là si sente qualcosa d’altro: una presenza che vive nell’aria stessa.

Ma, come procedevamo, c’erano altre testimonianze palpabili di una grande antichità. I dipinti sulle pareti erano più vecchi, i colori più fiochi, e in certi punti l’intonaco s’era scrostato. Lo stile era cambiato. I capelli neri delle figure erano più lunghi e abbondanti, e sembrava che tutto fosse più beffo, più ricco di luce e di complessità.

In lontananza l’acqua gocciolava sulla pietra. Il suono aveva un’eco canora nel corridoio. Sembrava che le pareti avessero catturato la vita in quelle figure delicate e dipinte teneramente; sembrava che la magia tentata più volte dagli antichi artisti religiosi avesse un suo nucleo ardente di potere. Sentivo sussurri di vita dove non c’erano. Percepivo la grande continuità della storia anche se nessuno ne era consapevole.

L’essere al mio fianco si soffermò mentre guardavo le pareti. Mi fece il gesto di seguirlo oltre una porta: entrammo in una lunga camera rettangolare coperta interamente di geroglifici. Era come trovarmi racchiuso in un manoscritto. E vidi due vecchissimi sarcofagi egizi sistemati testa contro testa sul fondo.

Erano bare modellate in modo da ripetere i contorni delle mummie per cui erano state fatte, e dipinte per rappresentare i morti con le facce d’oro martellato e gli occhi di lapislazzulo.

Alzai la candela. Con un grande sforzo, la mia guida sollevò i coperchi dei sarcofagi e li lasciò cadere perché potessi vedere all’interno.

Vidi quelli che in un primo momento sembravano corpi: ma quando mi accostai mi resi conto che erano mucchi di cenere in forma umana. Non restava null’altro se non una zanna bianca, una scheggia d’osso.

«Il sangue non può riportarli in vita», disse la mia guida. «Non possono risorgere. Coloro che potevano levarsi si sono levati, e dovranno passare secoli prima che possiamo guarire, prima che conosciamo la fine della sofferenza.»

Prima che richiudesse i sarcofagi, vidi che l’interno dei coperchi era annerito dal fuoco che aveva divorato i due. Non mi dispiacque quando li richiuse.

La mia guida si voltò e si mosse di nuovo verso la porta. La seguii con la candela, ma si soffermò e guardò le bare dipinte.

«Quando le ceneri verranno disperse», disse, «le loro anime saranno libere.»

«E allora perché non le disperdi?» chiesi, sforzandomi di non tradire la mia angoscia.

«Dovrei farlo?» mi chiese. La carne bruciata intorno agli occhi si dilatò. «Credi che dovrei farlo?»

«E lo chiedi?» dissi.

Proruppe di nuovo in una risata secca che sembrava irradiare sofferenza, e mi precedette lungo il corridoio, verso una camera illuminata. Era una biblioteca: alcune candele rivelavano i ripiani con le pergamene e i papiri.

Naturalmente mi rallegrai perché una biblioteca era qualcosa che potevo comprendere. Era l’unico luogo umano in cui ritrovavo ancora in parte la razionalità di un tempo.

Ma rimasi sbalordito nel vedere un altro, un altro di noi, seduto al tavolo e con gli occhi sul pavimento.

Non aveva capelli; e, sebbene fosse tutto nero come la pece, la pelle era ben modellata e lucida, come oleata. I piani del volto erano belli, la mano posata sul gonnellino bianco era piegata con eleganza, i muscoli del petto nudo erano ben definiti.

Si voltò a guardarmi. Qualcosa passò immediatamente tra noi, qualcosa più silenzioso del silenzio, come può avvenire nella nostra specie. «Questo è l’Anziano», disse l’essere che mi aveva condotto lì. «E puoi vedere tu stesso come ha resistito al fuoco. Ma non parla. Non ha parlato da quando è accaduto. Tuttavia sa sicuramente dove sono il Padre e la Madre e perché è stato permesso che questo avvenisse.» L’Anziano continuò a guardare davanti a sé. Ma sul suo volto c’era una strana espressione sarcastica, un po’ divertita e un po’ sprezzante. «Già prima del disastro», continuò l’altro, «l’Anziano non ci parlava spesso. Il fuoco non l’ha cambiato, non l’ha reso più ricettivo. Siede in silenzio, ed è sempre più simile alla Madre e al Padre. Ogni tanto legge. Ogni tanto danza. Parla con i mortali per le vie di Alessandria, ma non con noi. Non ha nulla da dirci. Ma sa… sa perché ci è accaduto.

«Lasciami con lui», dissi.

Avevo la sensazione che tutti gli esseri hanno in situazioni del genere: io riuscirò a farlo parlare. Riuscirò a farmi dire qualcosa, anche se non c’è riuscito nessun altro. Ma non era la semplice vanità a spronarmi. Era quell’essere che si era presentato nella camera da letto della mia casa, ne ero sicuro. Era lui che s’era fermato a osservarmi dalla soglia.

E avevo percepito qualcosa nel suo sguardo. Qualcosa… intelligenza, interesse, riconoscimento di una conoscenza comune.

E sapevo che portavo con me le possibilità di un mondo diverso, ignoto al Dio della Foresta e anche all’essere debole e ferito che, al mio fianco, guardava l’Anziano con occhi disperati.

L’essere debole si ritirò come io avevo chiesto. Mi accostai al tavolo e fissai l’Anziano.

«Che cosa devo fare?» chiesi in greco.

Alzò bruscamente lo sguardo verso di me, e vidi l’intelligenza sul suo volto,

«Ha senso continuare a interrogarti?» chiesi.

Avevo scelto il tono con cura. Non aveva nulla di formale e di reverente: era familiare in massimo grado.

«Che cosa cerchi?» chiese all’improvviso lui in latino, freddamente. Piegò verso il basso gli angoli della bocca, in un brusco atteggiamento di sfida.

Per me fu un sollievo passare al latino.

«Hai udito ciò che ho detto all’altro», risposi nello stesso modo informale. «Come sono stato creato dal Dio della Foresta nella terra dei celti e come ho ricevuto l’ordine di scoprire perché gli dèi sono morti tra le fiamme.»

«Tu non vieni per conto degli Dèi della Foresta!» fu la replica sarcastica come prima. Non aveva alzato la testa; si limitava a guardarmi e i suoi occhi erano ancora più sprezzanti.

«È vero e non è vero», dissi. «Se noi possiamo perire così, vorrei sapere il perché. Ciò che è accaduto una volta può ripetersi. E vorrei sapere se siamo davvero dèi; e se lo siamo, quali sono i nostri doveri verso l’uomo? La Madre e il Padre sono esseri reali o sono leggende? Com’è iniziato tutto questo? Vorrei saperlo, naturalmente.»

«Per caso», disse lui.

«Per caso!» Mi tesi. Credevo di aver capito male.

«È incominciato per caso», ripeté con freddezza scostante, quasi a sottintendere che la domanda era assurda. «Quattromila anni fa, per caso, e da allora è sempre stato inserito nella magia e nella religione.»

«Mi stai dicendo la verità?»

«Perché non dovrei? Perché dovrei proteggerti dalla verità? Perché dovrei prendermi il disturbo di mentirti? Non so neppure chi sei e non m’importa.»

«Allora mi spiegherai che cosa intendi quando affermi che è iniziato per caso», insistetti.

«Non so. Forse posso farlo e forse no. Ho parlato di più in questi ultimi momenti di quanto avessi fatto per anni. La storia dell’incidente potrebbe non essere più vera dei miti che deliziano gli altri. Gli altri hanno sempre scelto i miti. È ciò che vuoi veramente, no?» La voce divenne più alta. Si alzò un poco dalla sedia come sospinto dalla collera.

«Una storia della nostra creazione, analoga alla Genesi degli ebrei, alle leggende di Omero, alle farneticazioni dei poeti latini Ovidio e Virgilio… una grande palude splendente di simboli dalla quale sarebbe scaturita la vita stessa.» Era in piedi e quasi gridava. Le vene spiccavano sulla fronte nera, la mano era stretta a pugno. «È quel genere di fole che riempiono i documenti di queste stanze e affiorano in frammenti dagli inni e dagli incantesimi. Vuoi ascoltarle? Sono vere quanto tutto il resto.»

«Dimmi ciò che vuoi», risposi. Cercavo di restare calmo. Il volume della sua voce mi feriva le orecchie. E sentii qualcosa muoversi nelle stanze vicine. C’erano altri esseri che si aggiravano, simili a quello che mi aveva condotto fin lì.

«E potresti incominciare», dissi in tono acido, «confessando che sei venuto nella mia casa, qui in Alessandria. Sei stato tu a guidarmi fino a questo luogo. Perché l’hai fatto? Per rimproverarmi? Per maledirmi solo perché ti chiedo com’è incominciato?»

«Calmati.»

«Potrei dire lo stesso a te.»

Mi squadrò, intento, e sorrise. Allargò le mani in un gesto di saluto o di offerta, quindi alzò le spalle.

«Voglio che tu mi parli del caso», dissi. «Ti pregherei di farlo, se pensassi che può servire a qualcosa. Che cosa posso fare per convincerti?»

La sua faccia subì diverse trasformazioni sensazionali. Percepivo i suoi pensieri ma non li udivo, sentivo una grande tensione. E quando riprese a parlare, la sua voce si era fatta grave come se lui lottasse con un’angoscia che lo soffocava.

«Ascolta la nostra vecchia storia», disse l’Anziano. «Il buon dio Osiride, primo faraone d’Egitto nelle epoche anteriori all’invenzione della scrittura, fu assassinato dai malvagi. E quando la consorte, Iside, raccolse le parti del suo corpo, Osiride divenne immortale e regnò sulla terra dei morti. È il reame della luna e della notte; e a lui venivano portate le vittime per la grande dea, e beveva da queste vittime. Ma i sacerdoti cercarono di rubargli il segreto dell’immortalità; perciò il suo culto divenne segreto, i suoi templi furono noti solo ai fedeli che lo proteggevano dal dio del sole, il quale in ogni momento avrebbe potuto cercare di annientarlo con i suoi raggi. Ma puoi vedere la verità nella leggenda. L’antico re scoprì qualcosa, o meglio fu vittima di un avvenimento spiacevole, e divenne una creatura innaturale, con un potere che poteva essere usato da coloro che gli stavano intorno per causare mali incalcolabili; perciò ne fece un culto, cercando di frenarlo con obblighi e cerimonie e di riservare il Sangue Potente a coloro che potevano usarlo per scopi di magia bianca e non per altro. Perciò esistiamo noi.»

«E la Madre e il Padre sono Iside e Osiride?»

«Sì e no. Sono i primi due. Iside e Osiride sono i nomi che vennero usati nei miti narrati da loro, o nel culto vecchissimo sul quale si innestarono.»

«Quale fu il caso, allora? Come avvenne?»

Mi guardò a lungo in silenzio; quindi tornò a sedersi, si voltò e distolse lo sguardo, come prima.

«Ma perché dovrei dirtelo?» chiese. Questa volta, tuttavia, mi pose la domanda con un sentimento nuovo, come se la sentisse sinceramente e dovesse rispondere lui stesso. «Perché dovrei fare qualcosa? Se la Madre e il Padre non si levano dalle sabbie per salvarsi quando il sole spunta all’orizzonte, perché dovrei muovermi io? O parlare? O continuare?» E tornò a fissarmi.

«È quanto è accaduto? La Madre e il Padre si sono esposti al sole?»

«Li abbiamo lasciati al sole, mio caro Marius», disse l’Anziano, sbalordendomi con la conoscenza del mio nome. «Li abbiamo lasciati al sole. La Madre e il Padre non si muovevano di loro volontà, se non ogni tanto per sussurrare tra loro e per abbattere quelli di noi che vorrebbero avvicinarli per prendere il loro sangue risanatore. Potrebbero guarire tutti noi che siamo stati ustionati, se ci lasciassero bere il loro sangue. La Madre e il Padre esistono da quattromila anni, e il nostro sangue diviene più forte a ogni stagione e a ogni vittima. Diviene più forte persino l’inedia perché, quando questa finisce, si trova una nuova energia. Ma il Padre e la Madre non si curano dei loro figli. E sembra che ora non si curino neppure di se stessi. Forse, dopo quattromila notti, desideravano semplicemente vedere il sole!

«Da quando i greci giunsero in Egitto e l’antica arte si pervertì, non hanno più parlato con noi. Non ci permettono di vedere neppure un battito delle loro ciglia. E cos’è l’Egitto, ormai, se non il granaio di Roma? Quando la Madre e il Padre ci colpiscono per allontanarci dalle vene dei loro colli, sono come il ferro e possono stritolarci le ossa. E se non se ne curano più, perché dovrei farlo io?»

Lo scrutai per un lungo istante.

«E vuoi dire», chiesi, «che fu questo a bruciare gli altri? Il fatto che il Padre e la Madre sono stati lasciati esposti al sole?»

Annuì.

«Il nostro sangue proviene da loro! È il loro sangue. È una discendenza diretta, e ciò che accade a loro accade a noi. Se vengono bruciati, bruciamo anche noi.»

«Siamo legati a loro!» bisbigliai sbalordito.

«Esattamente, mio caro Marius», disse l’Anziano osservandomi come se la mia paura lo divertisse. «Perciò sono stati conservati per mille anni, la Madre e il Padre, e vengono portate loro le vittime sacrificali, e sono venerati. Ciò che accade a loro accade a noi.»

«Chi è stato? Chi li ha esposti al sole?»

Il mio interlocutore rise silenziosamente.

«Colui che li custodiva», disse, «e non resisteva più, aveva da troppo tempo quel compito solenne, e non riusciva a persuadere nessun altro ad accettare l’onere; e alla fine, tremando e piangendo, li portò sulla sabbia del deserto e li lasciò là come due statue.»

«E il mio destino è legato a questo», mormorai.

«Sì. Ma, vedi, non penso che credesse più, colui che li conservava. Per lui era solo una vecchia favola. Dopotutto, vengono venerati come ti ho detto, venerati da noi come noi siamo venerati dai mortali: e nessuno osava far loro alcun male. Nessuno accostava a loro una torcia per vedere se questo faceva soffrire noi tutti. No. Non ci credeva. Li lasciò nel deserto e quella notte, quando aprì gli occhi nella sua bara e si trovò ridotto a un orrore arso e irriconoscibile, urlò e urlò.»

«E voi li riportaste sottoterra.»

«Sì.»

«E sono anneriti come voi…»

«No.» Scosse la testa. «Sono abbronzati: hanno il colore della carne che gira sullo spiedo, nulla di più. E sono belli come prima, quasi che la bellezza fosse diventata parte della loro eredità, parte integrante di ciò che sono destinati a essere. Guardano fissamente davanti a sé come hanno sempre fatto, ma non inclinano più la testa l’uno verso l’altra, non mormorano più al ritmo delle loro confidenze segrete, non ci permettono più di bere il loro sangue. E non prendono le vittime che portiamo loro, se non ogni tanto, in solitudine. Nessuno sa se berranno o non berranno.»

Scossi la testa. Mi mossi avanti e indietro, a capo chino, con la candela in mano. Non sapevo che cosa dire: avevo bisogno di tempo per riflettere.

L’Anziano mi indicò la sedia dall’altra parte del tavolo. Sedetti.

«Ma non era destinato ad accadere, romano?» chiese. «Non erano destinati a trovare la morte nelle sabbie, silenziosi e immobili come statue abbandonate dopo il saccheggio di una città compiuto dai conquistatori; e non eravamo destinati a morire anche noi? Guarda l’Egitto. Che cos’è l’Egitto, te lo chiedo di nuovo, se non il granaio di Roma? Non erano tutti destinati a bruciare, giorno dopo giorno, mentre noi bruciavamo come stelle in tutto il mondo?»

«Dove sono?» chiesi.

«Perché vuoi saperlo?» chiese a sua volta, sprezzante, l’Anziano. «Perché dovrei rivelarti il segreto? Non è possibile farli a pezzi: sono troppo forti, e un coltello gli scalfirebbe al massimo la pelle. Tuttavia, se li ferisci, ferisci tutti noi. Bruciali, e brucia noi tutti. E, qualunque cosa facciano sentire a noi, loro sentono una minima parte, perché la loro età li protegge. Eppure, per distruggere tutti noi è sufficiente farli incollerire. Sembra che non abbiano neppure bisogno del sangue. Forse anche le loro menti sono connesse alle nostre. Forse l’angoscia che proviamo, l’infelicità e l’orrore per il destino del mondo provengono alle loro menti, mentre sognano rinchiusi nei loro avelli! No, non posso dirti dove sono, capisci? Fino a quando non avrò deciso con certezza che per me è indifferente e che per noi è venuto il momento di estinguerci.»

«Dove sono?» chiesi di nuovo.

«Perché non dovrei sprofondarli negli abissi del mare?» chiese lui. «Fino al momento in cui la terra stessa li rigurgiterà al sole sulla cresta di un’onda grandissima?»

Non risposi. L’osservavo, meravigliato dalla sua eccitazione che comprendevo e che tuttavia m’ispkava timore.

«Perché non dovrei seppellirli nelle viscere della terra, lontano da ogni fievole suono della vita, e lasciarli giacere là nel silenzio, qualunque cosa pensino e provino?»

Cosa potevo rispondere? L’osservavo. Attesi fino a che mi sembrò più calmo. Mi guardò e la sua faccia divenne tranquilla, quasi fiduciosa.

«Dimmi in che modo divennero la Madre e il Padre», chiesi.

«Perché?»

«Lo sai molto bene. Voglio saperlo! Perché saresti entrato nella mia camera, se non avessi avuto intenzione di dirmelo?» insistetti.

«E con ciò?» ribattè rabbiosamente. «E se avessi voluto vedere con i miei occhi il romano? Noi moriremo, e tu morirai con noi. Perciò volevo vedere la nostra magia in una forma nuova. Chi ci venera ancora, dopotutto? I biondi guerrieri delle foreste settentrionali? I vecchissimi egiziani nelle cripte segrete sotto le sabbie? Non viviamo nei templi della Grecia e di Roma, non l’abbiamo mai fatto. Tuttavia loro celebrano il nostro mito, l’unico mito, e invocano i nomi della Madre e del Padre…»

«Non m’importa», dissi. «E lo sai. Tu e io siamo simili. Non tornerò nelle foreste settentrionali a creare una razza di dèi per quella gente! Ma sono venuto qui per sapere, e tu devi dirmi la verità!»

«Sta bene: perché tu comprenda la futilità di tutto questo e capisca il silenzio della Madre e del Padre, te lo dirò. Ma ricorda le mie parole: forse potrò causare la rovina di tutti. Forse brucerò la Madre e il Padre nel calore di un forno! Ma facciamo a meno di lunghi preamboli e di linguaggi altisonanti. Facciamo a meno dei miti morti nella sabbia il giorno in cui il sole splendette sulla Madre e sul Padre. Ti dirò ciò che rivelano tutti i rotoli lasciati dal Padre e dalla Madre. Posa la candela e ascoltami.»

10.

«Se sapessi decifrarli», cominciò l’Anziano, «i rotoli ti direbbero che abbiamo due esseri umani, Akasha ed Enkil, giunti in Egitto da una terra più antica. Era un tempo anteriore alla scrittura e alle piramidi, quando gli egizi erano ancora cannibali e si nutrivano dei corpi dei nemici.

«Akasha ed Enkil convinsero il popolo ad abbandonare queste consuetudini. Erano adoratori della Buona Madre Terra e insegnarono agli egizi a seminare e allevare animali domestici per avere carne e latte e pelli.

«Con ogni probabilità non erano soli quando insegnarono queste cose; erano piuttosto i capi di un popolo venuto con loro da città più antiche, i cui nomi sono oggi perduti sotto le sabbie del Libano e i cui monumenti non esistono più.

«Erano comunque sovrani benigni, quei due, solleciti del bene degli altri, come la Buona Madre era la Nutrice e voleva che tutti gli uomini vivessero in pace; e decidevano tutte le questioni di giudizio in questa terra nascente.

«Forse sarebbero passati nel mito in una forma benigna se non fosse accaduto qualcosa nella casa dell’intendente reale. Tutto cominciò con le smanie di un demone che scagliava intorno i mobili.

«Non era altro che un demone comune, come se ne sentono nominare in tutte le terre e in tutti i tempi. Entra nel corpo di un innocente e grida a gran voce attraverso la sua bocca, e può indurre l’innocente a urlare oscenità e inviti carnali a tutti. Hai sentito parlare di queste cose?»

Annuii. Gli dissi che si sentivano spesso casi del genere. Si diceva che un demone di quel genere si fosse impossessato a Roma di una vergine vestale, la quale faceva proposte oscene a quanti le stavano intorno, fino a che la sua faccia diventava violacea per lo sforzo e quindi sveniva. Ma alla fine il demone era stato scacciato. «Secondo me, era semplicemente pazza», commentai, «e quindi non era adatta al ruolo di vestale, diciamo…»

«Certo!» esclamò l’Anziano in tono ironico. «Anch’io penserei la stessa cosa, e altrettanto farebbero quasi tutti gli uomini intelligenti che camminano per le vie di Alessandria. Tuttavia queste storie vanno e vengono. E se sono notevoli per una caratteristica, è che non influiscono sul corso degli eventi umani. Sono demoni che sconvolgono una famiglia, una persona, quindi si dileguano nell’oblio e noi ci ritroviamo al punto di partenza.»

«Precisamente», dissi.

«Ma quello era l’Egitto più antico. Era il tempo in cui gli uomini fuggivano nel sentire il tuono o divoravano i corpi dei defunti per assorbirne l’anima.»

«Capisco.»

«Il buon re Enkil decise di rivolgersi personalmente al demone che s’era insediato nella casa dell’intendente. Era qualcosa che turbava l’armonia, diceva. Naturalmente i maghi reali chiesero il permesso di provvedere alla cacciata del demone. Ma il re voleva fare del bene a tutti: era convinto che tutte le cose fossero unite nel bene e che tutte le forze dovessero procedere sullo stesso corso divino. Decise di parlare al demone, di tentare di imbrigliarne il potere, per così dire, nell’interesse del bene comune. E soltanto se non vi rosse riuscito, avrebbe consentito che il demone venisse scacciato.

«Quindi andò nella casa dell’intendente dove i mobili venivano scagliati contro i muri e il vasellame andava in frantumi e le porte sbattevano. Incominciò a parlare al demone e lo invitò a rispondergli. Tutti gli altri fuggirono.

«Passò una notte intera. Poi il re uscì dalla casa infestata e disse cose sorprendenti:

«‘Questi demoni sono sciocchi e infantili’, spiegò ai maghi. ‘Ma ho studiato il loro comportamento e ho appreso perché impazzano. Sono esasperati perché non hanno un corpo e non possono provare ciò che noi proviamo. Spingono gli innocenti a urlare oscenità perché non possono conoscere i riti dell’amore e della passione. Possono muovere le partì del corpo ma non possono veramente abitarle, perciò sono ossessionati dalla carne che non riescono a invadere. E con i loro deboli poteri urtano gli oggetti, fanno torcere e sobbalzare le loro vittime. Questo desiderio di essere carnali è all’origine della loro collera, è l’indicazione della loro sofferenza.’ E con queste pie parole il re si accinse a rinchiudersi nelle stanze infestate per apprendere di più.

«Ma questa volta la moglie si mise tra lui e il suo intento. Non volle che restasse con i demoni e lo esortò a guardarsi allo specchio. Era invecchiato incredibilmente nelle poche ore che aveva trascorso da solo in quella casa.

«E, poiché il re non si lasciò dissuadere, la regina si rinchiuse con lui; e quanti attendevano fuori della casa udirono gli schianti e gli urti e temettero di dover sentire i sovrani che gridavano o farneticavano con le voci degli spiriti. Il fracasso era allarmante, e i muri s’incrinavano.

«Tutti fuggirono come prima, eccettuato un gruppetto di uomini molto interessati agli avvenimenti. Fin dall’inizio del regno erano nemici del re. Erano vecchi guerrieri che avevano comandato le campagne d’Egitto in cerca di carne umana, e ne avevano abbastanza della bontà del re, e della Buona Madre e delle coltivazioni; e vedevano in quell’episodio con lo spirito non solo un’altra assurdità vana del re, ma anche una situazione che offriva loro un’occasione eccellente.

«Al cader della notte penetrarono nella casa infestata. Non avevano paura degli spiriti, come non ne hanno i ladri che rubano nelle tombe dei faraoni. La loro fede non è abbastanza forte da dominare l’avidità.

«E, quando videro Enkil e Akasha insieme al centro della camera piena di oggetti che volavano, assalirono il re e lo trafissero come i senatori romani hanno trafitto Cesare; e quindi pugnalarono l’unica testimone, la consorte.

«E il re gridò: ‘No, non capite cosa avete fatto? Avete dato agli spiriti un modo di entrare! Avete aperto loro il mio corpo. Non capite?’ Ma gli uomini fuggirono, convinti di aver ucciso il re e anche la regina che stava inginocchiata e reggeva la testa del marito. Entrambi perdevano sangue da innumerevoli ferite.

«I cospiratori aizzarono la popolazione. Sapevano tutti che il re era stato ucciso dagli spiriti? Avrebbe dovuto lasciare i demoni ai suoi maghi, come avrebbe fatto ogni altro sovrano. Presero le torce e si recarono alla casa infestata, dov’era sceso un silenzio totale.

«I cospiratori esortarono i maghi a entrare, ma quelli avevano paura. ‘Allora andremo noi a vedere cos’è accaduto’, dissero i malvagi, e spalancarono le porte.

«Il re e la regina stavano loro di fronte, calmissimi. Le loro ferite si erano rimarginate, e i loro occhi avevano assunto una luce strana, la pelle un riflesso candido, i capelli uno splendore magnifico. Uscirono dalla casa mentre i cospiratori fuggivano atterriti; congedarono il popolo e i sacerdoti e rientrarono da soli nel palazzo.

«E, sebbene non si confidassero con nessuno, sapevano cos’era loro accaduto.

«Il demone era penetrato attraverso le ferite quando la vita mortale stava per abbandonarli. Ma aveva permeato il loro sangue nel momento crepuscolare in cui il cuore s’era quasi fermato. Forse era la sostanza che aveva sempre cercato nella sua furia, la sostanza che aveva cercato di trarre dalle sue vittime senza riuscire mai a causare ferite sufficienti prima che le vittime morissero. Ma adesso era nel sangue, e il sangue non era soltanto il demone o il sangue del re e della regina, bensì una combinazione dell’umano e del demoniaco, e questa era una cosa completamente diversa.

«E ciò che restava del re e della regina era ciò che quel sangue poteva animare e infondere e considerare suo. A tutti i fini pratici, i loro corpi erano morti; ma il sangue scorreva nel cervello e nel cuore e nella pelle, perciò l’intelligenza del re e della regina era rimasta. Erano rimaste le loro anime, se vuoi chiamarle così, perché le anime risiedono in tali organi anche se non sappiamo il perché. E, sebbene il sangue del demone non avesse una mente propria e un proprio carattere che il re e la regina potevano scoprire, potenziava le loro intelligenze e i loro caratteri perché scorreva negli organi creatori del pensiero. E aggiungeva alle loro facoltà i suoi poteri spirituali, così che il re e la regina potevano udire i pensieri dei mortali, e percepire e comprendere cose che ai mortali sfuggivano.

«In effetti, il demone aveva donato e aveva tolto, e il re e la regina erano creature nuove. Non potevano più nutrirsi di cibo, o invecchiare o morire o avere figli; tuttavia potevano sentire con un’intensità che li terrorizzava. E il demone aveva ottenuto ciò che voleva: un corpo in cui vivere, un modo d’essere finalmente nel mondo, un modo di provare sentimenti e sensazioni.

«Ma poi venne la scoperta ancora più terribile: per mantenere animati i loro corpi doveva nutrire il sangue. E la sola cosa che poteva usare era… il sangue. Doveva dargli altro sangue da fare scorrere nelle membra del corpo in cui godeva tante sensazioni splendide, altro sangue di cui non si saziava mai.

«Oh, la sensazione più grandiosa era l’atto del bere in cui si rinnovava e si nutriva e si potenziava. E in quel momento poteva sentire la morte della vittima, il momento in cui le sottraeva il sangue con tanta forza da arrestarle il cuore.

«Il demone aveva in suo potere il re e la regina. Erano Bevitori del Sangue; e non saremo mai in grado di dire se il demone sapesse di loro. Ma i sovrani sapevano di essere dominati dal demone e di non potersi liberare, sapevano che se l’avessero fatto sarebbero morti, perché erano già morti i loro corpi. E scoprirono immediatamente che quei corpi morti, animati interamente dal fluido demoniaco, non potevano resistere né al fuoco né alla luce del sole. Da una parte sembravano fragili fiori bianchi che possono appassire e annerire nel caldo diurno del deserto. Dall’altra, sembrava che il sangue fosse volatile al punto che bolliva quando veniva scaldato, e quindi distruggeva le fibre in cui scorreva.

«È stato detto che in quei tempi primitivi non potessero sopportare un’illuminazione viva, e che persino la semplice vicinanza di un fuoco facesse fumare la loro pelle.

«Comunque, erano un nuovo ordine di esseri, e anche i loro pensieri erano nuovi; e cercavano di comprendere le cose che vedevano e le disposizioni che li affliggevano in quel nuovo stato.

«Non tutte le scoperte sono documentate. Non vi è nulla in iscritto o nella tradizione orale circa il tempo in cui decisero per la prima volta di trasmettere il sangue o accertarono il metodo con cui doveva essere fatto… la vittima deve essere svuotata fino al punto crepuscolare dell’appressarsi della morte, altrimenti il sangue demoniaco donato non può attecchire.

«Noi sappiamo, grazie alla tradizione orale, che il re e la regina tentarono di tener segreto ciò che era accaduto; tuttavia la loro scomparsa durante il giorno destò sospetti. Non potevano svolgere i loro doveri religiosi.

«E avvenne così che, prima ancora di aver formulato le decisioni più limpide, dovettero incoraggiare la popolazione ad adorare la Buona Madre alla luce della luna.

«Tuttavia non erano in grado di proteggersi dai cospiratori, i quali non comprendevano ancora la loro guarigione e cercavano nuovamente di eliminarli. L’attacco ebbe luogo nonostante tutte le precauzioni, e la forza del re e della regina si rivelò soverchiante per i congiurati, i quali si spaventarono ancor più per il fatto che le ferite da loro inferte ai sovrani guarivano subito e miracolosamente. Al re venne tagliato un braccio, ma egli se lo accostò alla spalla, e il braccio riprese vita e i cospiratori fuggirono.

«E, in seguito a questi attacchi e a queste battaglie, il segreto finì in possesso non soltanto dei nemici del re ma anche dei sacerdoti.

«Nessuno, adesso, voleva eliminare il re e la regina; volevano piuttosto prenderli prigionieri e ottenere da loro il segreto dell’immortalità. Cercavano di trarre da loro il sangue, ma i primi tentativi fallirono.

«Poiché i bevitori non erano prossimi alla morte, divennero creature ibride, per metà divine e per metà umane, e perirono in modi orribili. Alcuni, tuttavia, riuscirono nell’intento. Forse prima si svuotarono le vene. Neppure questo è documentato. Ma in epoche successive questo è sempre stato uno dei metodi per sottrarre il sangue.

«E forse la Madre e il Padre decisero di creare novizi. Forse perché erano soli e impauriti, decisero di trasmettere il segreto ai forti di cui si potevano fidare. Anche questo non lo sappiamo. In ogni caso incominciarono a esistere i Bevitori di Sangue, e divenne noto il metodo per crearli.

«I rotoli ci dicono che la Madre e il Padre cercarono di trionfare nell’avversità. Cercarono di trovare una ragione a quanto era accaduto e ritennero che i loro sensi potenziati dovessero avere uno scopo positivo. La Buona Madre aveva pur permesso che questo accadesse, no?

«E dovevano santificare e circondare di mistero ciò che veniva fatto, altrimenti l’egizio sarebbe divenuto un popolo di demoni bevitori di sangue che avrebbero diviso il mondo in Coloro-che-bevono-il-sangue e coloro che esistono soltanto per darlo… un tirannia che, una volta instaurata, non sarebbe mai stata spezzata dai mortali.

«Perciò il re e la regina scelsero la via del rituale, del mito. Si vedevano come immagini della luna crescente e calante, e nell’atto di bere il sangue vedevano il dio incarnato che prende per sé la vittima sacrificale; e usarono i loro poteri superiori per divinare e predire e giudicare. Si vedevano accettare il sangue per conto del dio, quel sangue che altrimenti sarebbe grondato dall’altare. Circondarono di misteriosi simbolismi ciò che non doveva diventare comune e scomparvero alla vista dei mortali chiudendosi nei templi, dove sarebbero stati venerati da coloro che avrebbero portato il sangue. Prendevano per sé le vittime più adatte, quelle che erano state scelte per il bene del paese. Innocenti, stranieri, malfattori… ne bevevano il sangue per la Madre e per il Bene.

«Crearono il mito di Osiride, tratto in parte dalle loro sofferenze terribili… l’attacco dei cospiratori, la guarigione, la necessità di vivere nel regno delle tenebre, il mondo oltre la vita, l’impossibilità di esistere sotto il sole. E innestarono questo mito alle storie più antiche degli dèi che sorgono e cadono nell’amore per la Buona Madre, e che già esistevano nella terra da cui erano venuti.

«Così ci sono state tramandate queste storie, che si diffusero lontano dai luoghi segreti dove la Madre e il Padre erano adorati e dove erano installati coloro che essi creavano con il sangue.

«Erano già vecchi quando il primo faraone costruì la sua prima piramide. E i testi più antichi ne parlano in forma strana e frammentaria.

«Altri cento dèi regnavano in Egitto, come regnano in tutte le terre. Ma il culto della Madre e del Padre e di Coloro-che-bevono-il-sangue rimase segreto e potente, un culto al quale il devoto andava per ascoltare le voci degli dèi e sognare i loro sogni.

«Non ci è stato detto chi furono i primi novizi della Madre e del Padre. Sappiamo solo che diffusero la religione sulle isole del grande mare e nelle terre dei due fiumi e nelle foreste del nord. Dovunque, nei sacrari, il dio della luna governava e beveva il sangue e usava i suoi poteri per guardare nel cuore degli uomini. Nei periodi tra i sacrifici, nell’inedia, la mente del dio poteva abbandonare il corpo e ascendere al cielo per apprendere mille cose. E i mortali dal cuore più puro potevano presentarsi al santuario e udire la voce del dio, e il dio poteva udirli.

«Ma già prima dei miei tempi, mille anni fa, questa era una storia vecchissima e incoerente. Gli dèi della luna avevano governato in Egitto era circa tremila anni e la religione era stata attaccata più volte.

«Quando i sacerdoti egizi si votarono al dio del sole Amon Ra, aprirono le cripte del dio della luna e lasciarono che il sole lo bruciasse. Molti dei nostri furono annientati. Lo stesso avvenne quando i primi guerrieri giunsero in Grecia e aprirono i santuari e distrussero ciò che non capivano.

«Ora il farneticante oracolo di Delfì regna dove un tempo regnavamo noi, e al nostro posto stanno le statue. La nostra ultima ora è venuta nei boschi settentrionali dai quali provieni, tra coloro che bagnano ancora i nostri altari con il sangue dei colpevoli, e nei piccoli villaggi dell’Egitto dove uno o due sacerdoti hanno cura del dio nella cripta e lasciano che i fedeli gli portino i malfattori, perché non possono prendere gli innocenti senza destar sospetti e ci sono sempre malfattori e stranieri a disposizione. E nelle giungle dell’Africa, presso le rovine di città antichissime che nessuno ricorda, anche là noi siamo ancora obbediti.

«Ma la nostra storia è popolata da racconti che parlano degli irregolari… i Bevitori di Sangue che non cercano la guida della dea e hanno sempre usato i loro poteri come hanno voluto.

«In Roma e in Atene e in tutte le città dell’Impero, vivono coloro che non rispettano le leggi e usano i poteri per i propri fini.

«Molti sono morti orrendamente nelle fiamme e nel caldo come gli dèi nelle foreste e nei santuari; e, se qualcuno è sopravvissuto, probabilmente non sa neppure perché è stato colpito dalla fiamma assassina, e che la Madre e il Padre sono stati esposti al sole.»


L’Anziano taceva.

Studiava la mia reazione. Nella biblioteca c’era silenzio e, se gli altri si aggiravano al di là delle pareti, non li sentivo più. «Non credo a una sola parola», dissi. Mi fissò per un momento, stupefatto, e poi scoppiò a ridere.

Furioso, lasciai la biblioteca, attraversai le camere del tempio, percorsi le gallerie e uscii in strada.

11.

Era molto inconsueto, da parte mia, andarmene infuriato e abbandonare tutto. Non avevo mai agito così quando ero mortale. Ma, come ho detto, ero sull’orlo della follia, la prima follia che molti di noi soffrono, specialmente coloro che sono stati reclutati con la forza. Tornai nella mia casetta presso la grande biblioteca di Alessandria e mi sdraiai sul letto come se potessi veramente addormentarmi lì e sfuggire a tutto.

«È assurdo», mormorai.

Ma, più pensavo a quel racconto, e più aveva senso. Aveva senso che qualcosa nel mio sangue mi spingesse a bere altro sangue. Aveva senso che potenziasse tutte le sensazioni e continuasse a far funzionare il mio corpo, divenuto ormai un’imitazione del corpo umano, anche quando avrebbe dovuto fermarsi. E aveva senso che quella «cosa» non avesse una mente ma fosse comunque una potenza, un’organizzazione di forza con un suo desiderio di vivere.

E poi aveva senso che tutti noi fossimo connessi alla Madre e al Padre, perché questa «cosa» era spirituale e non aveva limiti corporei se non quelli dei singoli organismi di cui aveva assunto il controllo. La «cosa» era la vita e noi eravamo i fiori sparsi su grandi distanze, ma collegati dai tralci intrecciati che si estendevano su tutto il mondo.

Perciò noi dèi potevamo udirci così bene l’un l’altro, perciò sapevo che gli altri erano in Alessandria, prima ancora che mi cercassero. Perciò potevano venire a scovarmi in casa mia e potevano condurmi alla porta segreta.

Sì. Forse era vero. Ed era effettivamente un caso, la fusione di una forza senza nome e di un corpo e di una mente umani per creare l’essere nuovo, come aveva detto l’Anziano.

Tuttavia… non mi piaceva.

Mi ribellavo perché, se ero qualcosa, io ero un individuo, un essere particolare con un forte senso dei miei diritti e delle mie prerogative. Non potevo accettare d’essere l’ospite di un’entità estranea. Ero ancora Marius, qualunque cosa mi fosse stata fatta.

Alla fine mi rimase un solo pensiero: se ero legato alla Madre e al Padre, allora dovevo vederli, dovevo assicurarmi che fossero al sicuro. Non potevo vivere con il pensiero di dover morire da un momento all’altro a causa di un’alchimia che non potevo controllare né comprendere.

Ma non ritornai al tempio sotterraneo. Trascorsi le notti successive saziandomi di sangue fino a sommergere i miei pensieri dolorosi. E nelle prime ore mi aggiravo nella grande biblioteca di Alessandria leggendo come avevo sempre fatto.


La pazzia si dileguò parzialmente. Smisi di avere nostalgia della mia famiglia mortale, smisi di essere in collera con l’essere maledetto del tempio sotterraneo e pensai piuttosto alla forza nuova che possedevo. Sarei vissuto per secoli; avrei conosciuto le risposte a ogni interrogativo. Sarei stato la coscienza continuativa delle cose, mentre il tempo passava. E, finché uccidevo soltanto i malfattori, potevo sopportare la sete di sangue e goderne. E, quando fosse venuto il momento, avrei creato i miei compagni.

Ora che cosa restava? Tornare dall’Anziano e scoprire dove aveva nascosto la Madre e il Padre. E vederli con i miei occhi. E fare ciò che aveva minacciato l’Anziano, seppellirli così profondamente nella terra che nessun mortale avrebbe potuto trovarli ed esporli alla luce.

Era facile pensarlo, era facile immaginare che fosse tanto semplice.

Cinque notti dopo che avevo lasciato l’Anziano, quando tutti questi pensieri avevano avuto tempo di svilupparsi in me, riposavo sul mio letto con le lampade che brillavano attraverso i tendaggi. Nella luce dorata, ascoltai i suoni di Alessandria addormentata, e mi abbandonai ai sogni splendenti del dormiveglia. Mi chiesi se l’Anziano sarebbe tornato da me, deluso perché non ero ricomparso… e, quando il pensiero divenne nitido, mi accorsi che ancora una volta qualcuno stava sulla soglia.

Qualcuno mi fissava. Lo sentivo. Per vederlo, dovevo solo girare la testa. Allora avrei vinto la partita con l’Anziano. Avrei detto: «Sei venuto qui spinto dalla solitudine e dalla disillusione e ora vuoi dirmi qualcosa di più, vero? Perché non torni al tempio, e non siedi in silenzio per ferire i tuoi compagni sofferenti, i confratelli delle ceneri?» Naturalmente, non gli avrei parlato così. Ma lo pensavo e lasciavo che udisse quei pensieri… se era lui, là sulla soglia.

Il visitatore non se ne andò.

Girai lentamente gli occhi in direzione della porta. Era una donna. Una magnifica egizia, splendidamente ingioiellata e abbigliata come le antiche regine in una veste di lino pieghettato, con i capelli neri che le scendevano sulle spalle, intrecciati con fili d’oro. Irradiava una forza immensa, un senso invisibile e imperioso della sua presenza che dominava la piccola camera insignificante.

Mi sollevai a sedere e scostai i tendaggi, e le lampade della stanza si spensero. Vidi il fumo che saliva nel buio, spire grigie come serpenti che ascendevano verso il soffitto e scomparivano. Lei era ancora lì e la poca luce rimasta definiva il volto privo d’espressione, scintillava sui monili che le cingevano il collo e nei grandi occhi obliqui. In silenzio mi disse:

Marius, portaci lontano dall’Egitto.

E scomparve.

Il mio cuore batteva irrefrenabilmente. Uscii in giardino a cercarla. Scavalcai il muro e mi fermai in ascolto nella via deserta.

Cominciai a correre verso il quartiere più vecchio, dove avevo trovato la porta. Intendevo scendere nel tempio, trovare l’Anziano e dirgli che doveva condurmi da lei. L’avevo vista: s’era mossa, aveva parlato, era venuta da me! Ero in delirio; ma quando arrivai alla porta compresi che non era necessario scendere. Sapevo che se fossi uscito dalla città, nel deserto, l’avrei trovata. Mi stava già guidando al luogo in cui era.

Nell’ora che seguì adoperai la forza e la velocità che avevo scoperto in me nelle foreste della Gallia e da allora non avevo più usato. Lasciai la città, mi avventurai dove l’unica luce era quella delle stelle, e camminai finché giunsi a un tempio in rovina; e là cominciai a scavare nella sabbia. Una squadra di mortali avrebbe impiegato diverse ore per scoprire la botola; ma io la trovai molto presto e la sollevai… i mortali non ci sarebbero riusciti.

Le scale tortuose e i corridoi che seguii non erano illuminati. Mi rammaricavo di non aver portato una candela, di essenni lasciato travolgere dall’apparizione della Madre al punto che mi ero precipitato a seguirla come se ne fossi innamorato.

«Aiutami, Akasha», mormorai. Tesi le mie mani davanti a me e mi sforzai di non cedere alla paura mortale della tenebra, nella quale ero cieco come un uomo comune.

Le mie mani toccarono qualcosa di duro. Mi fermai per riprendere fiato e cercai di dominarmi. Poi le mie dita si mossero, e sentii qualcosa che sembrava il petto d’una statua… le spalle, le braccia. Ma non era una statua: era fatta di qualcosa di più elastico della pietra. E, quando la mia mano toccò il viso, mi accorsi che le labbra erano un po’ più morbide del resto, e la ritrassi.

Sentivo i battiti del mio cuore, ed ero sopraffatto dall’umiliazione della vigliaccheria. Non osavo pronunciare il nome di Akasha. Sapevo di aver toccato una forma maschile. Era Enkil.

Chiusi gli occhi, cercando di riordinare i pensieri e di formulare un piano d’azione che non fosse fuggire come un pazzo. Udii uno sfrigolio secco e, attraverso le palpebre chiuse, vidi il fuoco.

Quando aprii gli occhi vidi una torcia accesa e fissata al muro dietro di lui, e la sagoma scura che torreggiava davanti a me. Gli occhi erano animati e mi guardavano con fermezza: le pupille nere erano alonate da una luce grigia. A parte questo, era senza vita, con le mani abbandonate lungo i fianchi. Era ricco di ornamenti come la Madre, indossava la veste splendida dei faraoni e i capelli erano intrecciati con fili d’oro. La pelle era abbronzata al pari di quella di Akasha, come aveva detto l’Anziano. Era l’incarnazione della minaccia, nella sua immobilità.

Nella camera spoglia, dietro di lui, la Madre sedeva su una panca di pietra, con la testa inclinata, le braccia abbandonate come se fosse un corpo senza vita. La veste di lino era sporca di sabbia, i sandali ne erano incrostati. Gli occhi erano fissi e vacui, in un atteggiamento di morte.

E lui, come una sentinella di pietra in una tomba reale, mi bloccava il cammino.

Non udivo nessun messaggio, come non ne hai uditi tu quando ti ho accompagnato nel loro sacrario, qui sull’isola. E pensavo che sarei morto di paura.

Eppure c’era la sabbia sui piedi e sulla veste della Madre! Era venuta da me! Era venuta veramente!

Ma qualcuno era entrato nel corridoio dietro di me, qualcuno avanzava. Quando mi voltai vidi uno degli ustionati… era uno scheletro con le gengive nere scoperte, le zanne affondate nella lucida pelle nera del labbro inferiore.

Trattenni a stento un’esclamazione nel vedere le membra ossute, le braccia che tremavano a ogni passo. Veniva verso di noi, ma sembrava che non mi vedesse. Tese le mani e spinse Enkil.

«No, no, indietro nella camera» sussurrò con voce bassa e spezzata. «No, no!» Ogni sillaba pareva costargli tutte le sue forze. Le braccia rinsecchite spingevano la figura, ma inutilmente.

«Aiutami!» mi disse. «Si sono mossi. Perché? Falli tornare indietro. Più si spostano e più è difficile riportarli indietro.»

Fissai Enkil e provai l’orrore che tu hai provato nel vedere la statua viva, apparentemente priva della capacità o della volontà di muoversi. E lo spettacolo divenne ancora più orrendo perché l’essere annerito urlava e cercava di graffiare Enkil, ma senza poter far nulla. E la vista dell’essere che avrebbe dovuto essere morto e che si sfiniva così, e dell’altro essere divino e magnifico che stava immobile, divenne per me insopportabile.

«Aiutami!» ripeté l’ustionato. «Riportalo nella camera. Riportali dove debbono stare.»

Come potevo? Come potevo mettere le mani su quel dio, come potevo presumere di spingerlo dove non voleva andare?

«Andrà tutto bene, se mi aiuterai», disse l’essere. «Staranno insieme e saranno in pace. Spingilo. Su. Spingilo! Oh guarda lei, guarda cosa le è accaduto. Guarda.»

«Sta bene, maledizione!» bisbigliai. Sopraffatto dalla vergogna, appoggiai le mani su Enkil e tentai di spingerlo. Ma era impossibile. Lì la mia forza non contava nulla, e l’ustionato diventava sempre più irritante con le sue vane farneticazioni.

Ma ansimò, alzò le braccia scheletrite e indietreggiò.

«Che cos’hai?» chiesi, resistendo all’impulso di fuggire urlando. E poi vidi.

Akasha era apparsa dietro Enkil. Era ritta e mi guardava al di sopra della spalla del consorte. Vidi le sue dita cingergli le braccia muscolose. Gli occhi dalla bellezza vitrea erano vacui come prima. Ma lo faceva muovere: e vidi i due esseri che camminavano, lui che indietreggiava lentamente con i piedi che si staccavano appena dal suolo, lei nascosta dallo sposo tanto che vedevo soltanto le sue mani, la sommità della testa e gli occhi.

Battei le palpebre cercando di schiarirmi la mente.

Erano seduti entrambi sulla panca, insieme, e avevano ripreso la posa in cui li hai visti sull’isola stanotte.

L’essere ustionato era prossimo al collasso. Era caduto in ginocchio, e non era necessario che mi spiegasse il perché. Li aveva trovati molte volte in posizioni diverse, ma non li aveva mai visti muoversi. E non aveva mai visto lei come l’aveva vista poco prima.

Io lo sapevo. Era venuta da me. Ma a un certo punto il mio orgoglio e l’esaltazione lasciarono il posto a ciò che dovevo provare: reverenza schiacciante e angoscia.

Mi misi a piangere. Piansi irrefrenabilmente come non avevo fatto da quando ero con il vecchio dio nella foresta ed ero morto ed era discesa su di me questa maledizione, questa grande maledizione luminosa e potente. Piansi come hai pianto tu quando li hai visti per la prima volta, piansi per la loro immobilità e il loro isolamento, in quel piccolo luogo orribile dove fissavano il nulla e sedevano nell’oscurità mentre sopra di loro l’Egitto agonizzava.

La dea, la madre o la cosa, o quello che era, la progenitrice silenziosa e impotente mi guardava. Non era un’illusione. I grandi occhi splendenti frangiati dalle ciglia erano fissi su di me. Udii di nuovo la sua voce: ma non aveva l’antica potenza, era soltanto un pensiero che andava oltre il linguaggio, nella mia mente.

Portaci lontano dall’Egitto, Marius. L’Anziano intende distruggerci. Proteggici, Marius, o periremo qui.

«Vogliono sangue?» gridò l’ustionato. «Si erano mossi perché volevano un sacrificio?

«Vai a procurare loro le vittime», dissi.

«Non posso. Non ne ho la forza. E non vogliono donarmi il loro sangue risanatore. Se me ne concedessero qualche goccia, la mia carne bruciata guarirebbe, il sangue dentro di me potrebbe rifiorire, e porterei loro vittime splendide…»

Ma c’era insincerità in quel discorsetto, perché loro non desideravano più altri sacrifìci.

«Prova ancora a bere il loro sangue», dissi. Era egoistico da parte mia. Volevo vedere cosa sarebbe accaduto.

Eppure, con mia grande umiliazione, l’ustionato si avvicinò, si chinò e pianse e supplicò che gli donassero il loro sangue potente, il loro sangue antico perché le ustioni potessero guarire più in fretta, e disse che era innocente, e non era stato lui a lasciarli sulla sabbia, era stato l’Anziano… e per pietà, li implorò di permettergli di bere alla fonte originale.

Poi una sete devastante lo assalì. Scosso da convulsioni, protese le zanne come un cobra e si avventò al collo di Enkil.

Enkil alzò il braccio, come aveva predetto l’Anziano, e scagliò l’ustionato riverso.

L’ustionato singhiozzava, e io mi vergognavo ancora di più. Era troppo debole per andare in caccia di vittime e per portarle lì. L’avevo esortato a comportarsi così perché volevo vedere. E la lugubrità del luogo, la sabbia sul pavimento, il puzzo della torcia e la visione orrenda dell’ustionato che si contorceva e piangeva, tutto era deprimente in modo indicibile,

«Allora bevi da me», dissi, e rabbrividii nel vederlo con le zanne di nuovo snudate e le mani protese per afferrarmi. Ma era il minimo che potessi fare.

12.

Non appena ebbi finito con quell’essere, gli ordinai di non lasciar entrare nessuno nella cripta. Non sapevo immaginare come avrebbe potuto riuscirci: ma glielo dissi con fare autorevole e mi affrettai ad allontanarmi.

Tornai ad Alessandria e feci irruzione in un negozio che vendeva antichità; e rubai due bellissime bare per mummie, finemente dipinte e intarsiate d’oro, e presi una quantità di lini per avvolgere. Quindi tornai alla cripta nel deserto.

Il mio coraggio e la mia paura erano al culmine.

Come avviene spesso quando diamo il sangue o lo prendiamo da un altro dei nostri simili, avevo visto o sognato molte cose mentre l’ustionato mi affondava i denti nella gola. E ciò che avevo veduto e sognato aveva a che fare con l’Egitto: il fatto che per quattromila anni quella terra avesse conosciuto pochissimi cambiamenti nella lingua, nella religione e nell’arte. E per la prima volta questo mi era comprensibile e mi poneva in profonda sintonia con la Madre e il Padre, reliquie di quella terra al pari delle piramidi. Tutto questo intensificava la mia curiosità e la rendeva simile alla devozione.

Tuttavia, per esser sincero, avrei sottratto la Madre e il Padre al solo scopo di sopravvivere.

La nuova conoscenza e il nuovo entusiasmo mi ispiravano quando mi avvicinai ad Akasha ed Enkil per metterli nei sarcofagi di legno: sapevo bene che Akasha l’avrebbe permesso e che un colpo di Enkil sarebbe bastato a schiacciarmi il cranio.

Ma Enkil si sottomise come Akasha. Lasciarono che li avvolgessi nei lini come mummie e li mettessi nelle bare antropomorfiche con le facce di altri, e poi li portassi con me ad Alessandria.

Lasciai l’ustionato in uno stato di terribile agitazione, mentre me ne andavo trascinando i due sarcofagi.

Quando arrivai in città, ingaggiai alcuni uomini perché li portassero in casa mia; e quindi li seppellii sotto il giardino spiegando a voce alta a Enkil e Akasha che il loro soggiorno sottoterra non sarebbe durato a lungo.

La notte seguente, l’idea di lasciarli mi terrorizzò. Andai a caccia a poca distanza dal mio giardino; quindi mandai i miei schiavi ad acquistare cavalli e un carro, e ordinai di fare i preparativi per un viaggio lungo la costa fino ad Antiochia, sul fiume Oronte, una città che conoscevo e amavo e nella quale pensavo che sarei stato al sicuro.

Come temevo, l’Anziano comparve molto presto. Lo attendevo nella camera da letto buia, seduto sul giaciglio come un romano, con una lampada accesa accanto a me e una vecchia copia di un poema latino tra le mani. Mi chiedevo se avrebbe intuito dov’erano Akasha ed Enkil; e immaginai volutamente falsi ricordi… che li avevo chiusi nella grande piramide.

Facevo ancora il sogno dell’Egitto quale mi era venuto dall’ustionato: una terra dove le leggi e la fede erano rimaste immutate per un tempo assai più lungo di quanto potessimo immaginare, una terra che conosceva i geroglifici e le piramidi e i miti di Osiride e Iside quando la Grecia era sprofondata nella tenebra e Roma non esisteva ancora. Vedevo il Nilo straripare. Vedevo le montagne che ne creavano la vallata. Vedevo il tempo in una prospettiva del tutto diversa. E non era soltanto il sogno dell’ustionato… era tutto ciò che avevo veduto e conosciuto in Egitto, il senso dell’inizio delle cose che avevo appreso dai libri molto prima di diventare figlio della Madre e del Padre.

«Che cosa ti fa pensare che siamo disposti ad affidarli a te?» disse l’Anziano non appena apparve sulla soglia.

Sembrava enorme, mentre si aggirava nella mia camera, abbigliato solo del gonnellino. La luce della lampada brillava sulla testa calva, la faccia tonda, gli occhi sporgenti. «Come osi impadronirti della Madre e del Padre? Che cos’hai fatto di loro?» chiese.

«Sei stato tu a esporli al sole», ribattei. «Sei stato tu che hai cercato di annientarli. Sei tu quello che non credeva alla vecchia storia. Eri il guardiano della Madre e del Padre, e mi hai mentito. Hai causato la morte dei nostri simili da un capo all’altro del mondo. Sei stato tu, e mi hai mentito.»

Era sgomento. Mi giudicava indicibilmente orgoglioso e impossibile. Sì. E con questo? Aveva il potere d’incenerirmi, se e quando avesse bruciato la Madre e il Padre. E lei era venuta a me. A me!

«Non sapevo cosa sarebbe accaduto», disse l’Anziano. Le vene gli spiccavano sulla fronte e i pugni erano contratti. Sembrava un gigantesco nubiano calvo mentre cercava d’intimidirmi. «Ti giuro, per tutto ciò che è sacro: non lo sapevo. E tu non puoi sapere cosa significa custodirli, guardarli anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, e sapere che potrebbero parlare, potrebbero muoversi e non vogliono!»

Non provavo comprensione per lui e per ciò che diceva. Era soltanto una figura enigmatica al centro di quella camera, e parlava di sofferenze inimmaginabili. Come potevo simpatizzare con lui?

«Io li ho ereditati», disse. «Sono stati dati a me! Cosa dovevo fare? E dovevo lottare con il loro silenzio offensivo, il loro rifiuto di guidare la tribù che avevano scatenato nel mondo. E perché è venuto questo silenzio? Per vendetta, ti dico. Vendetta contro di noi. Ma perché? Esiste qualcuno che possa ricordare il passato di mille anni fa, ora? Nessuno. Chi comprende tutte queste cose? I vecchi dèi finiscono nel sole, nel fuoco, o vengono annientati con la violenza, oppure si seppelliscono nel profondo della terra per non risorgere mai più. Ma la Madre e il Padre continuano a esistere e non parlano. Perché non si seppelliscono dove non può accadergli nulla di male? Perché osservano e ascoltano e rifiutano di parlare? Enkil si muove quando qualcuno cerca di togliergli Akasha. Allora colpisce e schiaccia i nemici come se fosse un colosso di pietra che ha preso vita. Ti dico che quando li ho esposti sulla sabbia non hanno tentato di salvarsi! Stavano rivolti verso il fiume quando sono fuggito!»

«L’hai fatto per vedere cosa sarebbe accaduto… se questo li avrebbe indotti a muoversi!»

«L’ho fatto per liberarmi. Per dire: ‘Non vi conserverò più a lungo. Muovetevi. Parlate’. Per vedere se la vecchia storia era vera. Se era vera, allora tanto valeva che perissimo tutti tra le fiamme.»

Era esausto. Finalmente disse con voce fievole: «Non puoi portar via la Madre e il Padre. Come hai pensato che te l’avrei permesso? Tu, che potresti non durare più di un secolo e che sei fuggito dai tuoi doveri nella foresta… Tu non sai che cosa sono veramente la Madre e il Padre. Hai udito da me più di una menzogna.»

«Ho qualcosa da dirti», risposi. «Ora sei libero. Sai che non siamo dèi, e non siamo neppure uomini. Non serviamo la Madre Terra perché ci nutriamo dei suoi frutti e non discendiamo naturalmente nel suo abbraccio. Non apparteniamo a lei. E io lascio l’Egitto senza doveri verso di te, e porto loro con me perché me l’hanno chiesto, e non tollererò che io e loro veniamo distrutti.»

Era nuovamente allibito. Come me l’avevano chiesto? Ma non trovava le parole; era troppo infuriato e pieno d’odio e traboccante di segreti tenebrosi che non riuscivo a intravvedere. Era istruito come me, ma sapeva molte cose dei nostri poteri che io non immaginavo. Non avevo mai ucciso un uomo quand’ero mortale. Non sapevo come uccidere un essere vivente se non nel bisogno tenero e spietato del sangue.

L’Anziano sapeva come usare la sua forza sovrannaturale. Socchiuse gli occhi e s’irrigidì. Irradiava pericolo.

Si avvicinò, preceduto dalle sue intenzioni. In un lampo mi alzai e cercai di parare i suoi colpi. Mi afferrò per la gola e mi scagliò contro il muro di pietra, fratturandomi le ossa della spalla e del braccio destro. In un momento di sofferenza lancinante compresi che mi avrebbe schiacciato la testa e fracassato le membra, e quindi mi avrebbe versato addosso l’olio della lampada e mi avrebbe bruciato, e io sarei sparito dalla sua eternità personale come se non avessi mai conosciuto quei segreti o non avessi mai osato intromettermi.

Lottai come prima non avrei potuto fare. Ma il mio braccio era una fonte continua di sofferenza e la forza dell’anziano stava alla mia come la mia potrebbe stare alla tua. Ma, anziché cercare di strappar via le sue mani che mi stringevano il collo e di liberarmi la gola come sarebbe stato istintivo, gli premetti fulmineamente i pollici negli occhi. Sebbene il braccio bruciasse per il dolore, usai tutta la mia forza per spingergli gli occhi all’interno della testa.

Mi lasciò, urlando. Il sangue gli grondava sulla faccia. Corsi via, verso la porta del giardino. Non potevo ancora respirare, per la lesione che mi aveva causato alla gola; e, mentre mi stringevo il braccio spezzato, vidi con la coda dell’occhio cose che mi confusero… un grande zampillo di terra che saliva nel giardino e saturava l’aria come fumo. Urtai contro lo stipite e persi l’equilibrio come se mi avesse spostato il vento. Mi voltai e vidi l’Anziano che avanzava con gli occhi che scintillavano, sebbene fossero affondati nella testa. Mi maledisse in egiziano e gridò che sarei finito nell’aldilà con i demoni.

Poi la sua faccia divenne una maschera di paura. Si fermò di colpo, con un’espressione allarmata che era quasi comica.

E vidi ciò che aveva veduto… la figura di Akasha che mi stava passando accanto sulla destra. Le bende erano strappate intorno alla testa e le braccia erano libere. Era coperta di terra sabbiosa. I suoi occhi erano inespressivi come sempre; e avanzava lentamente verso l’Anziano, che non poteva muoversi per trovare scampo.

L’Anziano cadde in ginocchio farfugliando in egiziano, dapprima con toni di stupore e poi con terrore incoerente. Akasha continuò ad avvicinarsi lasciando una scia nella sabbia; le bende le cadevano di dosso via via che ogni passo le scuoteva con maggiore violenza. L’Anziano si voltò e cadde bocconi e cominciò a strisciare come se, con una forza sconosciuta, lei gli impedisse di alzarsi in piedi. Sicuramente era ciò che faceva Akasha, perché alla fine l’Anziano rimase prono, con i gomiti sollevati, incapace di muoversi.

Lentamente, lei gli posò un piede sull’interno del ginocchio destro e lo schiacciò. Il sangue scaturì sotto il suo calcagno. Con il secondo passo gli stritolò il bacino mentre l’Anziano urlava come un animale e il sangue fiottava dalle parti menomate. Poi Akasha mosse un passo sulla spalla dell’Anziano e un altro sulla testa, che esplose sotto il suo peso come una ghianda. L’urlo cessò. Il sangue sgorgava dai resti frementi.

Akasha si voltò. La sua espressione non era cambiata, era indifferente persino al testimone solitario e inorridito che si stringeva contro il muro. Calpestò i resti con lo stesso passo lento e agevole, schiacciandoli completamente.

Ciò che restava non era neppure il contorno dì un uomo, bensì una poltiglia sanguinolenta; tuttavia luccicava e ribolliva, e sembrava contrarsi e gonfiarsi come se avesse ancora vita.

Ero impietrito: sapevo che la vita c’era ancora. Era, questo, un possibile significato dell’immortalità.

Ma Akasha s’era fermata. Si girò verso sinistra così lentamente che sembrò una statua ruotante su un perno. Alzò la mano e la lampada accanto al letto si sollevò in aria e cadde sulla massa sanguinante. La fiamma dilagò in fretta quando si sparse l’olio.

L’Anziano bruciò come grasso; le fiamme danzavano da un’estremità della massa scura all’altra, il sangue pareva alimentare il fuoco, il fumo era acre ma aveva soltanto il lezzo dell’olio.

Ero in ginocchio, con la testa contro lo stipite. Stavo per perdere i sensi. Lo guardavo bruciare. Guardavo Akasha che stava ritta al di là delle fiamme: il viso bronzeo non rivelava il minimo segno d’intendimento, di trionfo o di volontà.

Trattenni il respiro in attesa che girasse lo sguardo verso di me. Non lo fece. E, mentre il momento si protraeva e il fuoco si spegneva, compresi che aveva smesso di muoversi. Era tornata allo stato di silenzio e d’immobilità assoluti che tutti gli altri si attendevano da lei.

La stanza era buia. Il fuoco s’era spento. L’odore dell’olio bruciato mi nauseava. Akasha era simile a un fantasma egizio nelle bende lacere, immota davanti alle braci. I mobili dorati luccicavano nel chiarore del cielo e, sebbene fossero di produzione romana, ricordavano gli arredi complessi e delicati di una sepoltura reale.

Mi alzai, e il braccio e la spalla martellarono dolorosamente. Sentivo il sangue che affluiva per risanarli, ma la lesione era grave. Non sapevo quanto tempo avrebbe impiegato per guarire.

Naturalmente sapevo che se avessi bevuto il sangue di Akasha la guarigione sarebbe stata molto più rapida, forse istantanea; e allora avremmo potuto partire da Alessandria quella notte stessa. Avrei potuto portarla lontano dall’Egitto.

Poi compresi che era lei a dirmelo. Le parole lontane mi sfioravano, carezzevoli.

E le risposi: «Sono stato in tutto il mondo e ti porterò in luoghi sicuri.» Ma forse quel dialogo esisteva solo nella mia immaginazione. Com’era opera mia la tenera sensazione d’amore per lei. E stavo impazzendo: sapevo che l’incubo non avrebbe avuto fine se non nel fuoco, e che la vecchiaia naturale e la morte non avrebbero mai placato le mie paure e le mie sofferenze, come un tempo mi aspettavo.

Non aveva più importanza. Era importante che fossi solo con lei: e in quel buio sembrava una donna umana, una giovane donna divina, piena di vitalità e di idee e sogni meravigliosi.

Mi avvicinai. Mi sembrò che fosse una creatura flessuosa e arrendevole, e che dentro di me vi fosse una conoscenza di lei che attendeva di essere ricordata e apprezzata. Tuttavia avevo paura. Poteva fare a me ciò che aveva appena fatto all’Anziano. Ma era assurdo. Non l’avrebbe fatto. Adesso ero il suo custode e non avrebbe mai permesso che qualcuno mi facesse male. No. Dovevo comprenderlo. Mi avvicinai, mi avvicinai a lei fino a che le mie labbra sfiorarono la sua gola bronzea. E tutto fu deciso quando sentii sulla nuca la pressione fredda e decisa della sua mano.

13.

Non tenterò di descrivere l’estasi. La conosci. L’hai conosciuta quando hai preso il sangue di Magnus. L’hai conosciuta quando io ti ho dato il sangue al Cairo. La conosci quando uccidi. E sai cosa significa quando ti dico che era simile e tuttavia era mille volte più intensa.

Non vedevo né udivo né sentivo altro che una felicità assoluta, un’assoluta gratificazione.

Tuttavia ero in altri luoghi, altre stanze di molto tempo prima, e c’erano voci che parlavano, c’erano battaglie che venivano perdute. Qualcuno urlava di dolore. Qualcuno gridava parole che conoscevo e non conoscevo: Non capisco. Non capisco. Un grande abisso di tenebra si spalancò e mi giunse l’invito a precipitarvi. E lei sospirò e disse: Non posso più lottare.

Poi mi destai. Ero sul mio letto. Lei era al centro della stanza, immobile come prima. Era notte inoltrata e intorno a noi la città di Alessandria mormorava nel sonno.

Sapevo una moltitudine di altre cose.

Sapevo tante cose che avrei impiegato intere notti per apprenderle, se fossero state confidate con parole mortali. E non immaginavo quanto tempo fosse trascorso.

Sapevo che millenni prima c’erano state grandi battaglie fra i Bevitori di Sangue; molti di loro, dopo la prima creazione, erano divenuti profani, spietati apportatori di morte. Diversamente dai benevoli amanti della Buona Madre che digiunavano e quindi bevevano il sangue delle vittime sacrificali, erano angeli della morte che potevano avventarsi su qualunque vittima in qualunque momento, gloriandosi nella convinzione di essere parti dei ritmi delle cose, in cui la singola vita umana non conta e morte e vita si equivalgono… e di avere il diritto di infliggere sofferenze e compiere massacri.

E questi dèi terribili avevano devoti adoratori tra gli uomini, schiavi umani che portavano loro le vittime e tremavano di paura al pensiero di poter cadere per il capriccio della divinità.

Simili dèi avevano regnato nell’antica Babilonia e in Assiria e in tante città ormai dimenticate e nella lontana India, e in terre ancora più lontane di cui non comprendevo i nomi.

E persino in quel momento, mentre ero stordito da quelle immagini, comprendevo che quegli dèi erano diventati parte del mondo orientale, estraneo al mondo romano in cui ero nato. Appartenevano al mondo dei persiani dove gli uomini erano umili schiavi del re, mentre i greci che li avevano combattuti erano liberi.

Per quanto fossero grandi le nostre crudeltà e i nostri eccessi, anche l’ultimo dei contadini aveva un valore per noi. Vita è valore. E la morte era soltanto la fine della vita, da affrontare con coraggio quando la morte non lasciava scelta. Per noi la morte non era gran cosa. Anzi, non credo che per noi la morte fosse qualcosa. Certamente non era stato preferibile alla vita.

E, sebbene quegli dèi mi fossero stati rivelati da Akasha in tutta la loro grandezza e il loro mistero, mi apparivano spaventosi. Non potevo accettarli, né allora né mai; e sapevo che le filosofie discese da loro non avrebbero mai giustificato le mie uccisioni e non mi avrebbero mai consolato quale Bevitore di Sangue. Mortale o immortale, appartenevo all’Occidente e ne amavo le idee. E mi sarei sempre sentito colpevole di ciò che facevo.

Vedevo tuttavia il potere di questi dèi, la loro bellezza incomparabile. Godevano di una libertà che non avrei mai avuto. E vedevo il loro disprezzo per tutti coloro che li sfidavano. Li vedevo portare corone splendenti nel pantheon di altri paesi.

E li vedevo venire in Egitto per rubare il sangue originale e onnipotente del Padre e della Madre e assicurarsi che il Padre e la Madre non si bruciassero per porre fine al regno degli dèi oscuri e terribili, per i quali tutti gli dèi benefici dovevano essere abbattuti.

E vidi la Madre e il Padre imprigionati. Li vidi murati, con blocchi di diorite e di granito premuti contro i loro corpi in una cripta: solo le teste e i colli erano liberi. In questo modo gli dèi tenebrosi potevano nutrire la Madre e il Padre con il sangue umano cui non sapevano resistere; e prendere dalle loro gole il sangue potente, contro la loro volontà. E tutti gli dèi tenebrosi del mondo venivano a bere a quella fonte antichissima.

Il Padre e la Madre urlavano per la sofferenza. Imploravano di venire liberati. Ma questo non commuoveva gli dèi tenebrosi che si allietavano di quell’agonia, e la bevevano, come bevevano il sangue. Gli dèi tenebrosi portavano teschi umani appesi alle cinture, e i loro indumenti erano tinti col sangue umano. La Madre e il Padre rifiutavano le vittime, ma questo li rendeva ancora più impotenti. Non prendevano ciò che avrebbe potuto dar loro la forza di muovere le pietre e di influire sugli oggetti con il solo pensiero.

Tuttavia la loro forza aumentava.

Anni e anni di tormento, e guerre tra gli dèi, guerre tra le sette che patteggiavano per la vita e quelle che patteggiavano per la morte.

Anni innumerevoli, fino a che la Madre e il Padre tacquero e non vi fu più nessuno che ricordasse il tempo in cui avevano implorato, lottato o parlato. Vennero anni in cui nessuno ricordava più chi avesse imprigionato la Madre e il Padre, e perché la Madre e il Padre non dovessero mai essere liberati. Alcuni non credevano neppure che la Madre e il Padre fossero proprio quelli veri, e che la loro immolazione avrebbe danneggiato altri. La ritenevano una vecchia favola.

E nel frattempo l’Egitto era l’Egitto, e la sua religione, non corrotta da estranei, continuò a procedere verso la fede nella coscienza, il giudizio dopo la morte, la fede nel bene sulla terra e nella vita dell’aldilà.

Poi venne la notte in cui la Madre e il Padre furono trovati liberi dalla loro prigione. E quelli che li custodivano compresero che loro soltanto potevano aver mosso le pietre. In silenzio, la loro forza era cresciuta incalcolabilmente. Tuttavia erano come statue, e stavano abbracciati al centro della camera sporca e buia dov’erano rimasti chiusi per secoli. Erano nudi e splendenti. I loro abiti erano marciti molto tempo prima.

Se e quando bevevano il sangue delle vittime offerte, si muovevano con la lentezza torpida dei rettili in inverno, come se il tempo avesse assunto per loro un significato del tutto diverso, e gli anni fossero come notti, i secoli come anni.

E l’antica religione era forte come non mai: non apparteneva all’Oriente né all’Occidente. I Bevitori di Sangue restavano simboli positivi, immagini luminose della vita dell’aldilà, dove avrebbe trovato la gioia anche l’anima del più umile egiziano.

In quei tempi più tardi la vittima poteva essere soltanto il malfattore: con questo mezzo gli dèi eliminavano il male e proteggevano il popolo, e la loro voce silenziosa consolava i deboli, rivelava le verità scoperte dagli dèi durante l’inedia: il mondo era pieno di bellezza imperitura, e nessun’anima era veramente sola.

La Madre e il Padre erano tenuti nel più bello dei santuari; tutti gli dèi venivano a onorarli e, con il loro consenso, prendevano qualche goccia del loro sangue prezioso.

Ma poi accadde l’impossibile. L’Egitto stava per finire. Ciò che sembrava immutabile stava per mutare completamente. C’era stato Alessandro, regnavano i Tolomei, e poi vennero Cesare e Antonio… tutti protagonisti estranei al dramma che era semplicemente la Fine.

E infine venne l’Anziano cinico e perverso e deluso, che espose al sole la Madre e il Padre.


Mi alzai dal letto e rimasi in quella camera, a guardare la figura immota di Akasha. I lini sporchi che le pendevano addosso sembravano un insulto. Nella mia mente turbinavano antiche poesie. Ero travolto dall’amore.

Non sentivo più alcun dolore, dopo la lotta con l’Anziano. Le ossa s’erano saldate. M’inginocchiai e baciai le dita della mano destra abbandonata lungo il fianco di Akasha. Alzai il viso e mi accorsi che mi guardava con la testa inclinata e un’espressione stranissima: sembrava pura, nella sua sofferenza, quanto la felicità che avevo appena conosciuto. Poi, con lentezza inumana, la testa tornò a volgersi in avanti; e in quell’attimo compresi di aver visto e conosciuto cose che l’Anziano non aveva mai saputo.

Mentre avvolgevo di nuovo il suo corpo nei lini, ero come in trance. Più che mai sentivo l’imperativo di aver cura di lei e di Enkil, e l’orrore della morte dell’Anziano balenava davanti a me a ogni secondo, e il sangue che mi aveva donato Akasha aveva ingigantito la mia euforia e non soltanto la mia forza fisica.

E mentre mi preparavo a lasciare Alessandria, sognai di destare Enkil e Akasha: negli anni futuri avrebbero ripreso tutta la vitalità che era stata loro rubata, e noi ci saremmo conosciuti in modi così intimi e sorprendenti da far impallidire al confronto i sogni di conoscenza e di esperienza che mi erano stati donati con il sangue.

I miei schiavi erano tornati con i cavalli e i carri, con i sarcofagi di pietra e le catene e i lucchetti che avevo ordinato loro di acquistare. Attendevano fuori, sulla strada.

Caricai sul carro le bare con la Madre e il Padre all’interno dei sarcofagi, e li assicurai con catene e lucchetti e coperte pesanti; e partimmo, dirigendoci verso la porta del tempio sotterraneo degli dèi prima di avviarci all’uscita della città.

Quando arrivai al tempio, lasciai agli schiavi la consegna di dare l’allarme se qualcuno si fosse avvicinato; quindi presi un sacco di cuoio, scesi nel tempio, nella biblioteca dell’Anziano, e misi nel sacco tutti i rotoli che riuscii a trovare. Rubai tutti gli scritti trasportabili che c’erano. Mi dispiaceva di non poter portar via anche le iscrizioni sulle pareti.

C’erano altri in quelle camere, ma erano troppo terrorizzati per uscire. Naturalmente sapevano che avevo rubato la Madre e il Padre, E probabilmente sapevano della morte dell’Anziano.

Non m’importava. Intendevo lasciare l’antico Egitto e avevo con me la fonte di tutti i nostri poteri. Ed ero giovane, sciocco e ardente.


Quando giunsi finalmente ad Antiochia sull’Oronte, una città grande e meravigliosa che rivaleggiava con Roma per popolazione e ricchezza, lessi gli antichi papiri. Dicevano tutte le cose che Akasha mi aveva già rivelato.

E lei ed Enkil ebbero la prima delle molte cappelle che avrei costruito per loro in Asia e in Europa. Sapevano che avrei avuto sempre cura di loro; e io sapevo che non avrebbero permesso che mi accadesse qualcosa di male.

Molti secoli dopo, quando la banda dei Figli delle Tenebre mi appiccò il fuoco, ero troppo lontano da Akasha perché potesse soccorrermi: altrimenti sarebbe venuta. E quando raggiunsi il sacrario, soffrendo i tormenti che avevano conosciuto gli dèi ustionati, bevvi il suo sangue fino a guarire.

Ma quando ero ad Antiochia da quasi cent’anni disperai che «tornassero alla vita». Il loro silenzio e la loro immobilità erano quasi continui come ora. Solo la pelle cambiava vistosamente con il passare degli anni: perdeva le conseguenze dell’esposizione al sole e tornava d’alabastro.

Ma, prima di rendermi conto di tutto ciò, ero impegnato a osservare ciò che avveniva nella città, e i tempi che mutavano. Ero innamorato pazzamente di una bella cortigiana greca, Pandora, che aveva i capelli bruni e le braccia più belle del mondo. Comprese chi ero dal primo momento in cui mi vide, e prese tempo, incantandomi e abbagliandomi fino a quando fui disposto a introdurla alla magia: allora ebbe il sangue di Àkasha e divenne una delle più potenti creature sovrannaturali che abbia mai conosciuto. Per duecento anni amai Pandora e vissi e lottai con lei. Ma questa è un’altra storia.

Potrei narrarti un milione di storie dei secoli che ho vissuto da allora, i miei viaggi da Antiochia a Costantinopoli, il ritorno ad Alessandria, e altri viaggi in India e poi di nuovo in Italia, e da Venezia ai freddi altipiani della Scozia, e infine a quest’isola dell’Egeo.

Potrei parlarti dei minuscoli mutamenti compiutisi in Akasha ed Enkil nel corso degli anni, delle cose sconcertanti che fanno e dei misteri che lasciano irrisolti.

Forse in una notte del lontano futuro, quando tornerai da me, ti parlerò degli altri immortali che ho conosciuto, di coloro che ho creato come io ero stato creato dall’ultimo degli dèi sopravvissuti nelle varie terre… alcuni erano servitori della Madre, altri erano i terribili dèi dell’Oriente.

Potrei dirti che Mael, il sacerdote druido, bevve finalmente il sangue di un dio ferito e in un istante perse ogni fede nella vecchia religione e divenne un immortale libero, pericoloso ed eterno come noi. Potrei dirti in che modo le leggende di Coloro-che-devono-essere-conservati si sparsero nel mondo, e potrei parlarti dei tempi in cui altri immortali hanno tentato di togliermeli per orgoglio o per spirito distruttivo, per causare la fine di tutti noi.

Ti parlerò della mia solitudine, degli altri che ho creato e di come sono finiti; di come sono sprofondato nella terra con Coloro-che-devono-essere-conservati e come sono risorto, grazie al loro sangue, per vivere alcune vite mortali prima di seppellirmi di nuovo. Ti parlerò degli altri davvero eterni che ho incontrato ogni tanto; dell’ultima volta che vidi Pandora nella città di Dresda, in compagnia di un potente e perverso vampiro venuto dall’India, e di come litigammo e ci separammo, e come scoprii troppo tardi la lettere in cui lei implorava di raggiungerla a Mosca, un fragile pezzo di carta rimasto sul fondo di una sacca. Troppe cose, troppe storie, storie che hanno una morale e altre che non l’hanno…

Ma ti ho detto le cose più importanti: come venni in possesso di Coloro-che-devono-essere-conservati, e chi siamo in realtà.

Quando finì l’Impero Romano, tutti i vecchi dèi pagani furono visti come demoni dai cristiani pervenuti al potere. Era inutile dir loro, via via che passavano i secoli, che il loro Cristo era soltanto un altro dio della Foresta morto e risorto come Dioniso e Osiride, e che la Vergine Maria era in realtà la Buona Madre. Avevano nuove credenze e nuove convinzioni, nelle quali noi diventavamo diavoli lontani da ciò che credevano loro via via che l’antica conoscenza veniva dimenticata o fraintesa.

Ma era inevitabile. Il sacrificio umano era apparso orribile ai greci e ai romani. Io avevo giudicato ripugnante che i celti bruciassero i malfattori nei colossi di vimini. Ed era così anche per i cristiani. Quindi com’era possibile che venissimo considerati «buoni» noi dèi che ci nutrivamo di sangue umano?

La nostra vera perversione, tuttavia, si compì quando i Figli delle Tenebre arrivarono a credere di essere al servizio del diavolo dei cristiani; e, come i terribili dèi dell’Oriente, tentarono di dar valore al male, di credere al suo potere nello schema delle cose, di assegnargli un posto nel mondo.

Ascolta ciò che ti dico: non v’è mai stato un posto per il male nel mondo dell’Occidente. Non c’è mai stata una facile accettazione della morte.

Per quanto siano stati violenti i secoli trascorsi dopo la caduta di Roma e siano state terribili le guerre, le persecuzioni e le ingiustizie, il valore attribuito alla vita umana è sempre cresciuto.

Anche se la Chiesa innalzava statue e quadri del suo Cristo sanguinante e dei suoi martiri, si aggrappava alla convinzione che quelle morti, così ben utilizzate dai fedeli, potevano essere state causate soltanto dalle mani dei nemici, non dei sacerdoti di Dio.

È la fede nel valore della vita umana a far sì che le camere di tortura e le più atroci esecuzioni e i roghi vengano abbandonati di questi tempi in tutta Europa. Ed è la fede nel valore della vita umana che spinge oggi l’uomo a sottrarsi alle monarchie e a creare le repubbliche in America e in Francia.

Naturalmente non possiamo sapere che cosa accadrà quando si estinguerà la vecchia religione. Il cristianesimo è nato sulle ceneri del paganesimo e ne ha perpetuato il vecchio culto in una forma nuova. Forse ora nascerà una nuova religione. Forse, in assenza di questa, l’uomo precipiterà nel cinismo e nell’egoismo perché ha bisogno dei suoi dèi.

Ma forse accadrà qualcosa di più meraviglioso: il mondo progredirà davvero e supererà gli dèi e le dee, i diavoli e gli angeli. E in quel mondo, Lestat, per noi vi sarà anche meno posto di quanto ve ne sia mai stato.

Tutto ciò che ti ho raccontato è in fondo inutile, come ogni antica conoscenza è inutile per l’uomo e per noi. Le sue immagini e la sua poesia possono essere bellissime; può farci rabbrividire mentre apprendiamo cose che abbiamo sempre sospettato o intuito. Può riportarci al tempo in cui la terra era nuova per l’uomo, e meravigliosa. Ma poi torniamo sempre alla terra del presente.

E in questo mondo il vampiro è soltanto un Dio Tenebroso. È un Figlio della Tenebra. Non può essere altro. E se ha un potere affascinante sulle menti degli uomini, è solo perché l’immaginazione umana è un luogo segreto di memorie primitive e di desideri inconfessati. La mente di ogni uomo è un Giardino Selvaggio, per usare la tua espressione, dove sorgono e cadono creature di ogni genere, e si cantano inni e vengono immaginate cose che alla fine debbono essere condannate e ripudiate.

Tuttavia gli uomini ci amano, quando ci conoscono. Ci amano anche ora. Gli spettatori parigini amano ciò che vedono sul palcoscenico del Teatro dei Vampiri. E coloro che hanno visto i tuoi simili nelle sale da ballo del mondo, i pallidi sovrani letali avvolti in manti di velluto, a modo loro si sono prosternati ai vostri piedi.

Fremono al pensiero dell’immortalità, della possibilità che un essere grande e bellissimo possa essere completamente malvagio, possa sentire e conoscere tutte le cose e tuttavia scegliere di saziare il suo appetito tenebroso. Forse vorrebbero essere quella creatura splendidamente malefica. Sembra così semplice. Ed è questa semplicità, ciò che loro cercano.

Ma se fai loro il Dono Tenebroso, soltanto uno su una moltitudine non sarà infelice come te.

Che cosa posso dirti che non confermi le tue paure? Ho vissuto più di milleottocento anni e ti dico che la vita non ha bisogno di noi. Io non ho mai avuto un vero scopo. Non c’è un posto per noi.

14.

Marius tacque.

Distolse lo sguardo da me, per la prima volta, verso il cielo oltre le finestre, come se ascoltasse voci che io non potevo udire.

«Ho qualche altra cosa da dirti», continuò. «Cose che sono importanti, anche se hanno soltanto una funzione pratica…» Ma era distratto. «E ci sono certe promesse che devo chiederti…»

Si chiuse nel silenzio, restando in ascolto. Il suo viso era assai simile a quelli di Akasha ed Enkil.

C’erano mille domande che volevo fargli. Ma forse era più significativo il fatto che vi fossero mille sue affermazioni che volevo ripetere, come se dovessi dirle a voce alta per afferrarle. Se avessi parlato, non avrei detto frasi molto sensate.

Mi assestai contro la spalliera di broccato della poltrona, giungendo le mani, e guardai di fronte a me come se il racconto di Marius fosse davanti ai miei occhi e io potessi leggerlo. Pensai alle verità delle sue affermazioni sul bene e sul male, e compresi che sarei rimasto inorridito e deluso se avesse cercato di convincermi della validità della filosofia delle terribili divinità orientali, se avesse tentato di farmi credere che potevamo gloriarci di quanto facevamo.

Anch’io ero figlio dell’Occidente, e in tutta la mia breve vita avevo lottato con la tipica incapacità occidentale di accettare il male e la morte.

Ma alla base di tutte queste considerazioni stava il fatto terribile che Marius avrebbe potuto annientarci tutti distruggendo Akasha ed Enkil. Marius avrebbe potuto uccidere tutti noi se avesse bruciato Enkil e Akasha sbarazzandosi di una forma decrepita e inutile del male. O almeno così sembrava.

E l’orrore di Akasha e di Enkil… Cosa potevo dire se non che anch’io avevo provato il primo barlume di ciò che un tempo aveva provato lui, la sensazione di poterli destare, di poterli indurre a parlare di nuovo e a muoversi? O, più esattamente, quando li avevo visti avevo intuito che qualcuno doveva e poteva farlo. Qualcuno poteva porre fine al loro sonno a occhi aperti.

E cosa sarebbero stati, se avessero ripreso a camminare e a parlare? Antichi mostri egizi. Cosa potevano fare?

All’improvviso, entrambe le possibilità mi apparivano seducenti… destarli o distruggerli. Entrambe mi tentavano. Volevo stabilire un contatto e comunicare con loro; tuttavia comprendevo la follia irresistibile di tentare di annientarli. Scomparire con loro in una vampata di luce che avrebbe travolto per sempre tutta la nostra specie dannata.

Entrambe le posizioni avevano a che fare con il potere e con un certo trionfo sul trascorrere del tempo.

«Non provi mai la tentazione di farlo?» chiesi con una sfumatura dolorosa nella voce. Mi domandavo se là sotto, nella loro cappella, loro mi udivano.

Marius si scosse, si girò verso di me e scrollò la testa. No.

«Anche se sai meglio di chiunque altro che per noi non c’è posto?»

Scrollò di nuovo la testa. No.

«Io sono immortale», disse. «Veramente immortale. Per essere sincero, non so se c’è qualcosa che ora possa uccidermi. Ma non si tratta di questo. Voglio continuare. Non ci penso neppure. Io sono una coscienza continuativa in me stesso, l’intelligenza che ho agognato per anni e anni quand’ero vivo, e come sempre sono innamorato del grande progresso dell’umanità. Voglio vedere cosa accadrà ora che il mondo è giunto di nuovo a porre in discussione i suoi dèi. Nessuna ragione, ora, potrebbe convincermi a chiudere gli occhi.»

Annuii. Lo comprendevo.

«Ma io non soffro quel che tu soffri», continuò Marius. «Anche nella foresta della Francia settentrionale, quando fui trasformato, non ero giovane. Da allora sono stato spesso solo, ho conosciuto qualcosa di molto vicino alla follia, un’angoscia indescrivibile: ma non sono mai stato giovane e nel contempo immortale. Ho fatto molte volte ciò che tu devi ancora fare… ciò che molto presto ti condurrà lontano da me.»

«Lontano da te? Ma io non voglio…»

«Devi andare, Lestat», disse Marius. «E molto presto, come ho detto. Non sei pronto per rimanere qui con me. È una delle cose più importanti che mi rimangono da dirti; e tu devi ascoltare con la stessa attenzione con cui hai ascoltato il resto.»

«Marius, non posso immaginare di andarmene ora. Non posso…» La collera mi assalì. Perché mi aveva portato lì, per poi scacciarmi? Ricordavo le ammonizioni di Armand. Troviamo la comunione soltanto con gli antichi e non con quelli che creiamo. E io avevo trovato Marius. Ma erano soltanto parole. Non toccavano il nucleo fondamentale di ciò che provavo, l’infelicità e la paura della separazione.

«Ascoltami», disse gentilmente. «Prima che venissi catturato dai galli avevo vissuto un’esistenza piuttosto lunga, per quei tempi. E dopo aver portato lontano dall’Egitto Coloro-che-devono-essere-conservati, vissi per anni ad Antiochia come avrebbe potuto farlo un ricco studioso romano. Avevo una casa, molti schiavi e l’amore di Pandora. Ad Antiochia vivevamo e osservavamo tutto ciò che avveniva. E dopo aver vissuto quella vita, più tardi ho avuto la forza per viverne altre, per diventare parte del mondo a Venezia, come sai. Ho avuto la forza di regnare su quest’isola. Tu, come molti di coloro che finiscono troppo presto nel fuoco o nel sole, non hai avuto una vera vita.

«In gioventù, hai conosciuto la vita vera per non più di sei mesi a Parigi. Come vampiro sei stato un vagabondo, un estraneo tra le vite altrui mentre passavi da un luogo all’altro.

«Se hai intenzione di sopravvivere, devi vivere una vita completa non appena potrai. Se lo rimandassi, potresti perdere tutto, cedere alla disperazione e sprofondare di nuovo nella terra per non destarti più. O peggio…»

«Sì, capisco», dissi. «Eppure quando mi hanno offerto di restare con il Teatro, a Parigi, non ho potuto.»

«Non era posto per te. Inoltre il Teatro dei Vampiri è una congrega. Non è il mondo più di quanto sia il mondo questa mia isola. E là ti sono accaduti troppi orrori.

«Ma nel Nuovo Mondo selvaggio dove sei diretto, nella piccola, barbara città chiamata New Orleans, potrai fare ciò che non hai mai fatto prima. Potrai prendervi residenza come mortale, esattamente come hai tentato molte volte di fare nei tuoi vagabondaggi con Gabrielle. Là non vi saranno vecchie congreghe che ti disturberanno, non ci saranno irregolari che tenteranno di eliminarti per paura. E quando creerai altri, e lo farai per vincere la solitudine, allora cerca di mantenerli più umani che puoi. Tienili vicini come membri di una famiglia, non di una congrega, e sforzati di comprendere l’epoca in cui vivi, i decenni che attraversi. Comprendi lo stile dell’abbigliamento che orna il tuo corpo, gli stili delle abitazioni in cui trascorri le ore libere, il luogo dove vai in caccia. Comprendi ciò che significa sentire il passaggio del tempo!»

«Sì, e tutta la sofferenza di veder morire tante cose…» Tutte le cose contro cui mi aveva messo in guardia Armand.

«Naturalmente. Sei fatto per trionfare sul tempo, non per fuggirne. E soffrirai perché conosci il segreto della tua mostruosità e perché devi uccidere. E forse cercherai di nutrirti solo dei malfattori per alleviare la tua coscienza; e forse ci riuscirai, forse no. Ma potrai giungere molto vicino alla vita, se rinchiuderai il segreto dentro di te. Sei fatto per giungerle vicino, come hai detto una volta ai membri della vecchia congrega parigina. Tu sei l’imitazione di un uomo.»

«Lo voglio, lo voglio…»

«Allora fa’ ciò che ti consiglio. E comprendi anche questo. In un senso molto reale l’eternità è vivere un’esistenza umana dopo l’altra e nulla più. Naturalmente possono esservi lunghi periodi di ritiro, tempi di sonno o di semplice osservazione. Ma poi ci immergiamo di nuovo nella corrente e nuotiamo finché possiamo, finché il tempo e la tragedia ci travolgono come se fossimo mortali.»

«Tu lo farai ancora? Lascerai questo ritiro e t’immergerai nella corrente?»

«Sì, certo. Quando si presenterà il momento opportuno. Quando il mondo sarà di nuovo così interessante che non saprò resistere. Allora percorrerò le vie delle città. Assumerò un nome. Farò molte cose.»

«Allora vieni subito, con me!» Ah, l’eco dolorosa di Armand, e la vana supplica di Gabrielle, dieci anni dopo.

«È un invito più allettante di quanto immagini», rispose Marius. «Ma ti renderei un pessimo servizio se venissi con te. Starei fra te e il mondo. Non potrei evitarlo.»

Scossi la testa e distolsi lo sguardo, pieno di amarezza.

«Vuoi continuare?» chiese Marius. «Oppure vuoi che si avverino le predizioni di Gabrielle?»

«Voglio continuare», dissi.

«Allora devi andare. Fra un secolo o forse meno c’incontreremo di nuovo. Non sarò su quest’isola. Avrò portato in un altro luogo Coloro-che-devono-essere-conservati. Ma, dovunque tu sia e dovunque io sia, ti troverò. Allora sarò io a non volere che tu mi lasci. Sarò io a implorarti di restare. M’innamorerò della tua compagnia, della tua conversazione, della tua semplice vista, della tua energia e della tua avventatezza e della tua assenza di fede in qualcosa… tutto ciò che amo già anche troppo in te.»

Era difficile ascoltarlo senza crollare. Volevo che mi supplicasse di rimanere.

«È assolutamente impossibile, ora?» domandai. «Marius, non puoi risparmiarmi questa vita?»

«Impossibile», rispose. «Potrei raccontarti molte storie, all’infinito, ma non sono surrogati della vita. Credimi, ho tentato di risparmiare altri e non ci sono mai riuscito. Non posso insegnare ciò che può insegnare una vita. Non avrei mai dovuto prendere Armand così giovane, e i suoi secoli di follie e di sofferenze sono una penitenza per me ancora adesso. Gli hai fatto un favore spingendolo nella Parigi di questo secolo: ma temo che per lui sia troppo tardi. Credimi, Lestat, quando ti dico che questo deve avvenire. Devi avere quella vita, perché coloro che ne vengono privati piombano nell’insoddisfazione fino a che si decidono a viverla o vengono annientati.»

«E Gabrielle?»

«Gabrielle ha avuto la sua vita, e ha avuto quasi la morte. Ha la forza per rientrare nel mondo quando vorrà, o per viverne ai margini a tempo indeterminato.»

«E tu pensi che vi rientrerà?»

«Non lo so», rispose Marius. «Gabrielle sfida la mia comprensione. Non la mia esperienza… è troppo simile a Pandora. Ma non ho mai capito Pandora. La verità è che molte donne sono deboli, mortali o immortali che siano. Ma quando sono forti, sono assolutamente imprevedibili.»

Scossi la testa. Chiusi gli occhi per un momento. Non volevo pensare a Gabrielle. Gabrielle se n’era andata, qualunque cosa dicessimo.

E non potevo ancora rassegnarmi all’idea di dover partire. Quello mi sembrava un Eden. Ma non discutevo più. Sapevo che Marius era deciso, e sapevo anche che non mi avrebbe forzato. Avrebbe lasciato che cominciassi a preoccuparmi del mio padre mortale, avrebbe lasciato che mi presentassi a lui e annunciassi la mia intenzione di andar via. Mi restavano poche notti.

«Sì», rispose a voce bassa. «E vi sono altre cose che posso dirti.»

Riaprii gli occhi. Marius mi guardava con pazienza affettuosa. Sentivo la tensione dell’amore con grande forza, come mi era accaduto con Gabrielle. Sentivo il pianto inevitabile e facevo del mio meglio per reprimerlo.

«Hai imparato molto da Armand», mi disse, con voce ferma come per aiutarmi in quella lotta silenziosa. «E hai imparato ancor più da solo. Ma vi sono ancora alcune cose che potrei insegnarti.»

«Sì, ti prego», dissi.

«Ebbene, tanto per incominciare», disse Marius, «i tuoi poteri sono straordinari: ma non puoi aspettarti che coloro che creerai nei prossimi cinquant’anni eguaglino te o Gabrielle. La tua seconda creatura non aveva neppure la metà della forza di Gabrielle, e i figli che verranno poi ne avranno ancor meno. Il sangue che io ti ho dato causerà qualche differenza. Se berrai… se berrai da Akasha ed Enkil, e forse deciderai di non farlo… causerà qualche differenza anche questo. Ma non ha importanza: in un secolo, uno di noi non può creare più di tanti figli. E i nuovi saranno deboli. Questo, comunque, non è necessariamente un male. La legge delle vecchie congreghe era saggia in quanto la forza deve venire con il tempo. E poi c’è un’antica verità: potresti creare titani o imbecilli, e nessuno sa come e perché.

«Ciò che accadrà, accadrà. Ma scegli con cura i tuoi compagni. Sceglili perché ti piace guardarli e perché ami il suono delle loro voci, e perché custodiscono segreti profondi che desideri conoscere; in altre parole, sceglili perché li ami. Altrimenti non riuscirai a sopportare a lungo la loro compagnia.»

«Capisco», dissi. «Devo crearli nell’amore.»

«Esattamente, crearli nell’amore. E accertarti che abbiano vissuto una vita prima di crearli; e non crearne mai uno giovane come Armand. E il crimine peggiore che io abbia commesso contro la mia specie: l’aver preso Armand ragazzo.»

«Ma non sapevi che i Figli delle Tenebre sarebbero venuti quando vennero effettivamente e lo separarono da te?»

«No. Tuttavia avrei dovuto attendere. Era stata la solitudine a spingermi. E il fatto che Armand fosse così indifeso, che la sua vita mortale fosse così completamente nelle mie mani. Ricorda: guardati da quel potere, e dal potere che hai sui morenti. La solitudine che ci affligge, e quel senso di potere, possono essere forti quanto la sete del sangue. Se non vi fosse un Enkil, non potrebbe esistere un’Akasha, e se non vi fosse un’Akasha non esisterebbe un Enkil.»

«Sì, e a giudicare da tutto ciò che hai detto, sembra che Enkil desideri Akasha. E Akasha è quella che ogni tanto…»

«Sì, è vero.» Il volto di Marius si oscurò all’improvviso. I suoi occhi avevano un’espressione confidenziale, come se bisbigliassimo e temessimo che qualcun altro potesse udire. Attese un momento, come se pensasse a ciò che doveva dirmi. «Chi sa cosa potrebbe fare Akasha se non vi fosse Enkil a trattenerla?» mormorò. «E perché fingo di credere che Enkil non possa udire tutto questo mentre lo penso? Perché parlo sottovoce? Può annientarmi quando vuole. Forse Akasha è la sola cosa che glielo impedisce. Ma poi, che sarebbe di loro, se Enkil mi eliminasse?»

«Perché si sono lasciati bruciare dal sole?» chiesi.

«Come possiamo saperlo? Forse sapevano che non ne avrebbero sofferto, ma questo avrebbe punito coloro che l’avevano fatto. Forse nello stato in cui vivono comprendono lentamente ciò che accade intorno a loro. E non hanno avuto tempo di chiamare a raccolta le forze, di destarsi dai loro sogni e di salvarsi. Forse i loro movimenti, dopo che questo è accaduto, i movimenti di Akasha che ho visto, erano possibili solo perché erano stati destati dal sole. E adesso dormono di nuovo, a occhi aperti. E sognano di nuovo. E non bevono neppure.»

«Che cosa significa… se io decidessi di bere il loro sangue?» chiesi. «Come potrei decidere di non farlo?»

«È qualcosa su cui dobbiamo riflettere, tutti e due», disse Marius. «E c’è sempre la possibilità che loro non ti permettano di bere.»

Rabbrividii al pensiero di quelle braccia che scattavano per colpirmi, mi scagliavano a distanza di venti piedi, forse addirittura attraverso il pavimento di pietra.

«Lei ti ha detto il suo nome, Lestat», riprese Marius. «Credo che ti lascerà bere. Ma se prenderai il suo sangue, diventerai ancor più resistente di quanto tu lo sia ora. Poche gocce ti rafforzeranno; se te ne darà di più, se te ne darà una misura piena, allora diffìcilmente ci sarà al mondo, dopo, una forza capace di distruggerti. Dovrai essere ben certo di volerlo.»

«Perché non dovrei volerlo?» chiesi.

«Vorresti ridurti a una brace consunta e continuare a vivere nella sofferenza? Vorresti essere trafitto mille volte da pugnali o crivellato da colpi di pistola e continuare a vivere, ridotto a un involucro lacerato, incapace di difendersi? Credimi, Lestat, può essere terribile. Potresti dover subire addirittura il sole e continuare a vivere, ustionato in modo da diventare irriconoscibile, e augurarti di essere mille volte morto, come se lo auguravano i vecchi dèi in Egitto.»

«Ma non guarirò più in fretta?»

«Non è certo. No, senza un’altra infusione del suo sangue mentre sarai menomato. Il tempo, con la sua misura costante di vittime umane, oppure il sangue degli antichi… questi sono gli elementi restauratori. Ma potresti rimpiangere di non essere morto. Pensaci. Rifletti con calma.»

«Cosa faresti, al mio posto?»

«Berrei da Coloro-che-devono-essere-conservati, naturalmente. Berrei per diventare più forte, più prossimo all’immortalità. Implorerei in ginocchio Akasha di permetterlo, e mi butterei fra le sue braccia. Ma è facile dire queste cose. Lei non mi ha mai colpito. Non me l’ha mai proibito, e io so che voglio vivere per sempre. Sarei pronto a sopportare di nuovo il fuoco. Sopporterei il sole, e ogni altra sofferenza, pur di continuare. Forse tu non sei altrettanto sicuro di desiderare l’eternità.»

«La desidero», dissi. «Potrei fingere di pensarci, fingere di essere saggio e di soppesare le possibilità. Ma… diavolo, non riuscirei a ingannarti, vero? Tu sapevi già quale sarebbe stata la mia risposta.» Marius sorrise.

«Allora, prima che te ne vada scenderemo nella cappella e lo chiederemo umilmente, e vedremo che cosa dirà.»

«E per il momento, hai altre risposte?» chiesi.

Mi accennò di continuare.

«Ho visto i fantasmi», dissi. «Ho visto i demoni infestanti che hai descritto. Li ho visti invasare mortali e abitazioni.»

«Non ne so più di te. Molti spettri sembrano semplici apparizioni, ignari d’essere osservati. Non ho mai parlato a uno spettro, e nessuno di loro mi ha mai parlato. In quanto ai demoni infestanti, che cosa possono aggiungere all’antica spiegazione di Enkil, che impazzano perché non hanno corpo? Ma vi sono altri immortali assai più interessanti.»

«Chi sono?»

«Ve ne sono almeno due in Europa che non hanno mai bevuto sangue. Possono aggirarsi in piena luce non meno che nell’oscurità, hanno corpi e sono fortissimi. Sono identici agli uomini. Ce n’era uno nell’antico Egitto, conosciuto nella corte come Ramses il Dannato sebbene non fosse affatto dannato, a quanto io posso dire. Il suo nome fu cancellato da tutti i documenti reali dopo la scomparsa. Sai che gli egizi avevano quella consuetudine: cancellavano il nome per cercare di uccidere l’essere. E non so cosa sia stato di lui. Gli antichi rotoli non lo dicono.»

«Armand ne ha parlato», dissi io. «Armand ha parlato di certe leggende secondo le quali Ramses era un antico vampiro.»

«Non lo è. Ma non credetti ciò che leggevo di lui fino a che non vidi gli altri con i miei occhi. Tuttavia non ho comunicato con loro; li ho soltanto visti, e hanno avuto paura di me e sono fuggiti. Li temo perché si muovono sotto il sole. E sono potenti ed esangui, e chi sa cosa potrebbero fare? Ma può darsi che tu viva per secoli e secoli senza vederli.»

«Ma quanto sono antichi? Quanto tempo è passato?»

«Sono molto antichi; probabilmente sono vecchi quanto me. Non lo so. Vivono come uomini ricchi e potenti. E forse ce ne sono altri; forse hanno modo di propagarsi. Non ne sono sicuro. Una volta Pandora disse che c’era anche una donna. Ma io e Pandora eravamo in completo disaccordo sul loro conto. Pandora diceva che erano stati ciò che noi eravamo, erano antichi, e avevano cessato di bere come hanno cessato di farlo la Madre e il Padre. Io non credo che fossero mai stati ciò che siamo. Sono qualcosa di diverso, e non hanno sangue. Non riflettono la luce come noi. L’assorbono. Sono appena un poco più scuri dei mortali. E sono forti. Forse non li vedrai mai, ma te lo dico per metterti in guardia. Non devi mai lasciare che sappiano dove giaci. Possono essere più pericolosi degli umani.»

«Ma gli umani sono davvero pericolosi? Io ho trovato che è molto facile ingannarli.»

«Sono pericolosi, naturalmente. Gli umani potrebbero sterminarci se capissero veramente che cosa siamo. Potrebbero darci la caccia di giorno. Non sottovalutare mai questo loro vantaggio. Anche in questo le leggi delle vecchie congreghe avevano una loro saggezza. Non parlare mai, mai ai mortali di noi. Non dire mai a un mortale dove dormi o dove dorme un altro vampiro. È una pazzia credere di poter controllare i mortali.»

Annuii, sebbene per me fosse molto difficile temere i mortali. Non li avevo mai temuti.

«Anche il Teatro dei Vampiri a Parigi», continuò Marius, «nonostante le più semplici verità sul nostro conto. Gioca sul folklore e sulle illusioni, e il pubblico si lascia ingannare completamente.»

Mi rendevo conto che era vero, e che persino nelle sue lettere Eleni mascherava i significati e non usava mai i nostri nomi completi. Quella segretezza mi opprimeva come sempre. Ma mi stillavo il cervello cercando di ricordare se avevo mai visto gli esseri privi di sangue… Per la verità, avrei potuto scambiarli per vampiri anomali.

«C’è un’altra cosa che devo dirti sul conto degli esseri soprannaturali», continuò Marius. «Quale?»

«Non ne sono certo, ma ti dirò ciò che penso. Sospetto che quando veniamo bruciati, quando veniamo completamente distrutti, possiamo tornare in una forma diversa. Non parlo di reincarnazioni umane: non so nulla del destino delle anime degli uomini. Ma noi viviamo in eterno e penso che ritorniamo.»

«Perché dici così?» Non potei fare a meno di pensare a Nicolas. «Per lo stesso motivo che induce i mortali a parlare di reincarnazione. Vi sono quelli che affermano di ricordare altre vite. Vengono a noi come mortali e affermano di sapere tutto di noi, di essere stati dei nostri e chiedono di riavere il Dono Tenebroso. Pandora era una di loro. Sapeva molte cose e la sua conoscenza non aveva spiegazioni, se non forse il fatto che l’aveva immaginata o l’aveva tratta dalla mia mente senza rendersene conto. È una possibilità, l’esistenza di mortali che ricevono i nostri pensieri.

«Comunque sia, non sono molti. Se sono vampiri, sicuramente sono alcuni dei tanti che sono stati distrutti. Gli altri, forse, non hanno la forza di ritornare. O non vogliono. Chi può saperlo? Pandora era convinta d’essere morta quando la Madre e il Padre erano stati esposti al sole.»

«Buon Dio! Rinascono come mortali e vogliono ridiventare vampiri?»

Marius sorrise.

«Tu sei giovane, Lestat, e ti contraddici. Cosa pensi veramente che sarebbe, essere di nuovo mortale? Pensaci, quando rivedrai tuo padre.»

Tacqui. Dovevo ammettere che aveva ragione. Ma non volevo perdere ciò che vedevo nella mortalità con la mia immaginazione. E sapevo che il mio amore per i mortali era legato al fatto che non avevo paura di loro.

Marius distolse gli occhi. Era nuovamente distratto, in atteggiamento d’ascolto. Poi tornò a dedicarmi la sua attenzione.

«Lestat, non ci restano più di due o tre notti», disse in tono triste.

«Marius!» mormorai, e trattenni le parole che mi salivano alle labbra.

La mia unica consolazione era la sua espressione; mi sembrava che non fosse mai apparso neppure lontanamente inumano.

«Non sai quanto desidero che tu resti», disse. «Ma la vita è là fuori, non qui. Quando ci ritroveremo ti dirò di più; ma per ora hai tutto ciò che ti è necessario. Devi andare in Louisiana e accompagnare tuo padre fino al termine della sua vita, e imparare da questo tutto il possibile. Io ho visto legioni di mortali invecchiare e morire. Tu non ne hai visto nessuno. Ma credimi, mio giovane amico: desidero disperatamente che tu resti con me. Non sai quanto lo vorrei. Ti prometto che ti troverò quando verrà il momento.»

«Ma perché non posso ritornare da te? Perché devi andartene da qui?»

«È venuto il momento», disse Marius. «Ho regnato abbastanza a lungo su questa gente. Comincio a destare sospetti e inoltre queste acque sono frequentate dagli europei. Prima di venire qui, ero nascosto nella città di Pompei, sepolta dal Vesuvio; e i mortali hanno cominciato a scavare tra le rovine e mi hanno costretto a fuggire. Ora la storia si ripete. Devo cercare un altro rifugio più remoto e sicuro. Sinceramente, non ti avrei portato qui se avessi avuto intenzione di restare.»

«Perché?»

«Lo sai. Non posso permettere che tu o altri conosciate l’ubicazione di Coloro-che-devono-essere-conservati. E questo mi porta a una cosa molto importante: le promesse che devi farmi.»

«Come vuoi», dissi. «Ma che cosa posso essere in grado di darti?»

«Questo, molto semplicemente. Non devi mai dire ad altri ciò che ti ho detto. Non parlare mai di Coloro-che-devono-essere-conservati. Non riferire mai le leggende dei vecchi dèi. Non dire agli altri che mi hai visto.»

Annuii. Me l’aspettavo: ma sapevo che avrebbe potuto rivelarsi molto difficile.

«Se rivelerai anche una sola parte», continuò Marius, «ne seguirà un’altra, e ogni volta che il segreto di Coloro-che-devono-essere-conservati verrà ripetuto, crescerà il pericolo che vengano scoperti.»

«Sì», dissi. «Ma le leggende, le nostre origini… E i figli che creerò?»

«No. Come ti ho detto, se ne racconterai una parte, finirai per dire tutto. Inoltre, se i novizi sono figli del dio cristiano, se sono avvelenati com’era Nicolas dalla nozione cristiana del peccato originale e della colpa, le vecchie leggende avranno solo il potere di esasperarli e deluderli. Per loro sarà un orrore inaccettabile. Il caso, gli dèi pagani in cui non credono, le tradizioni che non capiscono. Bisogna essere pronti per questa conoscenza, per quanto sia scarsa. Ascolta piuttosto con attenzione le loro domande e digli ciò che devi per farli contenti. E se scoprirai di non poter mentire con loro, non dire nulla. Cerca di renderli forti come oggi sono forti gli uomini senza dio. Ma ricorda le mie parole: le vecchie leggende, mai. Quelle sono mie, e io solo posso raccontarle.»

«Che cosa mi farai, se le racconterò?» chiesi. Mi guardò sorpreso. Perse la compostezza per quasi un secondò, poi rise.

«Sei il più dannato degli esseri, Lestat», mormorò. «Il fatto è che posso farti tutto ciò che voglio, se le racconterai. Lo sai, senza dubbio. Potrei calpestarti come Akasha calpestò l’Anziano. Potrei darti fuoco con il potere della mia mente. Non voglio proferire queste minacce: voglio che tu torni a me. Ma non voglio che questi segreti vengano conosciuti. Non voglio che una banda d’immortali mi piombi di nuovo addosso come avvenne a Venezia. Non voglio essere noto alla nostra specie. Non dovrai mai, di proposito o per caso, mandare qualcuno a cercare Coloro-che-devono-essere-conservati. O Marius. Non dirai mai il mio nome ad altri.»

«Capisco», dissi.

«Davvero? Oppure devo minacciarti? Devo avvertirti che la mia vendetta può essere terribile? Che la mia punizione includerebbe anche coloro ai quali hai rivelato i segreti? Lestat, ho distrutto altri della nostra specie che erano venuti a cercarmi. Li ho distrutti semplicemente perché conoscevano le vecchie leggende e conoscevano il nome di Marius e non avrebbero mai desistito dalla ricerca.»

«Non lo sopporto», mormorai. «Non lo dirò a nessuno, mai. Lo giuro. Ma ho paura di ciò che gli altri possono leggere nei miei pensieri, è naturale. Temo che possano attingere le immagini dalla mia mente. Armand lo poteva. E se…»

«Puoi nascondere le immagini. Sai come fare. Puoi irradiare altre immagini per confonderli. Puoi chiudere la tua mente. È un’arte che già conosci. Ma basta con le minacce e gli ammonimenti. Per te provo amore.»

Per un momento non risposi. La mia mente balzava a ogni sorta di possibilità proibita. Finalmente parlai:

«Marius, non provi mai il desiderio di dire tutto a tutti quelli della nostra specie? Voglio dire, far conoscere a tutti noi l’esistenza dei nostri simili, e chiamarli tutti a raccolta?»

«Buon Dio… No, Lestat. Perché dovrei farlo?» Sembrava sinceramente sconcertato.

«Allora potremmo possedere le nostre leggende, riflettere sugli enigmi della nostra storia, come fanno gli umani. Potremmo scambiarci le esperienze e condividere il potere…»

«E unirci per usarlo come hanno fatto i Figli delle Tenebre, contro gli uomini?»

«No… non così.»

«Lestat, nell’eternità le congreghe sono molto rare. In maggioranza i vampiri sono diffidenti e solitari e non amano gli altri. Non hanno più di uno o due compagni scelti con cura, di tanto in tanto, e proteggono i loro terreni di caccia e la loro intimità come io proteggo i miei. Non vorrebbero unirsi, e se vincessero l’ostilità e i sospetti che li dividono, la loro convocazione finirebbe in battaglie terribili e lotte per la supremazia come quelle che mi furono rivelate da Akasha e che accaddero migliaia di anni fa. In fondo siamo essere malefici. Siamo assassini. È meglio che quanti si alleano su questa terra siano mortali, e che si uniscano in nome del bene.»

Accettai ciò che mi diceva: mi vergognavo delle mie debolezze e della mia impulsività. Tuttavia un altro campo di possibilità mi stava già ossessionando.

«E i mortali, Marius? Non hai mai desiderato rivelarti a loro e raccontare l’intera storia?»

Anche questa volta sembrò sconcertato dall’idea.

«Hai mai desiderato che il mondo sapesse di noi? Per il meglio o per il peggio? Non ti è mai sembrato preferibile alla continuazione dell’esistenza segreta?»

Abbassò gli occhi per un momento e appoggiò il mento sulla mano. Per la prima volta percepivo una comunicazione di immagini che giungevano da lui, e sentivo che mi permetteva di vederle perché non era certo della risposta. Ricordava, con una forza rievocativa così potente che faceva apparire fragili i miei poteri. Ricordava i primi tempi, quando Roma governava ancora il mondo e i suoi anni erano ancora più o meno quelli di una vita umana normale.

«Tu ricordi che avresti voluto dirlo a tutti», mormorai. «Rivelare il segreto mostruoso.»

«Forse», disse Marius, «all’inizio c’era la smania disperata di comunicare.»

«Sì, comunicare», dissi io: Mi piaceva quella parola. E ricordai la notte lontana sul palcoscenico, quando avevo tanto spaventato il pubblico parigino.

«Ma fu all’inizio», disse lentamente Marius parlando a se stesso. Gli occhi erano socchiusi e remoti, come se scrutasse i secoli passati. «Sarebbe una follia. Se l’umanità si convincesse, ci annienterebbe. Non voglio essere annientato. Questi pericoli e queste calamità non mi affascinano.»

Non risposi.

«Neppure tu provi l’impulso di rivelare queste cose», mi disse con fare suadente.

E invece sì, pensai. Sentii le sue dita sul dorso della mia mano. Pensavo al mio breve passato… il teatro, le fantasie fiabesche. Ero paralizzato dalla tristezza.

«Tu senti il peso della solitudine e della mostruosità», disse Marius. «E sei impulsivo e portato alle sfide.»

«È vero.»

«Ma che importanza avrebbe rivelare qualcosa ad altri? Nessuno può perdonare, nessuno può redimere. Pensarlo è un’illusione puerile. Rivelati e sarai annientato: e che cosa avrai ottenuto? Il Giardino Selvaggio inghiottirà i tuoi resti nella vitalità pura e nel silenzio. Dove sono la giustizia o la comprensione?»

Annuii.

Sentii la sua mano chiudersi sulla mia. Si alzò in piedi, e mi alzai anch’io, riluttante ma docile.

«E tardi», disse docilmente. I suoi occhi erano colmi di compassione. «Abbiamo parlato abbastanza per ora. E io devo andare tra la mia gente. Ci sono guai nel villaggio vicino, come temevo. Mi porteranno via tutto il tempo fino all’alba; e poi ancora domani sera. Forse sarà domani dopo mezzanotte che potremo riprendere a parlare…»

Si distrasse di nuovo. Abbassò la testa e ascoltò.

«Sì, devo andare», disse. Ci scambiammo un abbraccio tranquillo.

E, sebbene desiderassi andare con lui per vedere cosa sarebbe accaduto al villaggio e come avrebbe risolto i problemi, desideravo anche tornare nella mia stanza e guardare il mare, e dormire.

«Al risveglio avrai fame», disse Marius. «Avrò una vittima per te. Pazienta fino al mio arrivo.»

«Sì, certo…»

«E domani, mentre mi attendi, fa’ ciò che vuoi in questa casa. Gli antichi rotoli sono nelle custodie, in biblioteca. Puoi guardarli. Gira per tutte le stanze. Ma non devi avvicinarti al santuario di Coloro-che-devono-essere-conservati. Non devi scendere la scala da solo.»

Annuii.

Volevo chiedergli un’altra cosa. Quando andava a caccia? Quando beveva? Il suo sangue mi aveva sostentato per due notti, forse più. Ma quale sangue sosteneva lui? Aveva preso una vittima in precedenza? Sarebbe andato a caccia ora? Avevo il sospetto crescente che non avesse più lo stesso bisogno di sangue che avevo io e che, come Coloro-che-devono-essere-conservati, avesse incominciato a bere sempre meno. Desideravo disperatamente sapere se questo era vero.

Ma mi stava lasciando. Il villaggio lo chiamava. Uscì sulla terrazza e poi scomparve. Per un momento pensai che fosse andato a destra o a sinistra, oltre la porta. Poi arrivai alla porta, e la terrazza era deserta. Mi accostai alla balaustrata, guardai giù e vidi la macchia di colore della sua giacca, molto più in basso.

Quindi possiamo attenderci tutto questo, pensai: non avremo più bisogno di sangue, i nostri volti perderanno gradualmente ogni espressione umana, potremo muovere gli oggetti con la forza della mente e potremo praticamente volare. E una notte, fra migliaia d’anni, staremo nel silenzio assoluto come Coloro-che-devono-essere-conservati? Quante volte, quella notte, Marius era parso simile a loro? Per quanto tempo restava immobile quando non c’era nessuno?

E cosa significava per lui il mezzo secolo durante il quale io avrei dovuto vivere quella vita mortale al di là dell’oceano?

Mi voltai e riattraversai la casa per tornare nella camera da letto che mi era stata assegnata. Sedetti a guardare il mare e il cielo fino a che spuntò la prima luce. Quando aprii il piccolo nascondiglio del sarcofago, vi trovai fiori freschi. Misi La maschera d’oro e i guanti e mi stesi nella bara di pietra. Sentivo ancora il profumo dei fiori mentre chiudevo gli occhi.

Si stava avvicinando il momento. La perdita della conoscenza. E al limitare del sogno sentii ridere una donna. Rise leggermente, a lungo, come se fosse felice e stesse conversando; e un attimo prima di piombare nell’oscurità, vidi la sua gola bianca mentre rovesciava la testa all’indietro.

15.

Appena aprii gli occhi ebbi un’idea. Spuntò già formata, e subito mi ossessionò, tanto che mi accorgevo appena della sete e del bruciore nelle mie vene.

«Vanità», sussurrai. Ma l’idea aveva una sua bellezza affascinante.

No, era meglio non pensarci. Marius mi aveva detto di stare lontano dal santuario, e inoltre sarebbe tornato a mezzanotte, e allora avrei potuto esporgli l’idea. E avrebbe potuto… che cosa? Scuotere tristemente la testa.

Avanzai nella casa. Tutto era come la notte precedente, con le candele accese, le finestre aperte sullo spettacolo della luce morente. Non mi sembrava possibile che presto dovessi andarmene, e che non sarei mai tornato e che anche Marius avrebbe abbandonato quel luogo straordinario.

Ero depresso, infelice. Ma c’era l’idea.

Non volevo farlo in sua presenza, ma in silenzio e in segreto in modo da non sentirmi ridicolo.

No. Non farlo. Dopotutto, non servirà a nulla. Non succederà nulla quando lo farai.

Ma perché no, se è così? Perché non farlo subito?

Rifeci il giro, attraverso la biblioteca e le gallerie e la sala piena d’uccelli e di scimmiette e le altre camere dove non ero ancora entrato.

Ma l’idea mi rimase nella mente. E la sete mi tormentava, mi rendeva più impulsivo e irrequieto, un po’ meno capace di riflettere su tutto ciò che mi aveva detto Marius, su ciò che poteva significare con l’andare del tempo.

Marius non era in casa. Questo era certo. Avevo girato tutte le stanze. Dove dormiva era un segreto, e sapevo che c’erano anche passaggi nascosti per entrare e uscire dalla casa.

Ma riscoprii abbastanza facilmente la porta della scala che conduceva a Coloro-che-devono-essere-conservati. E non era bloccata.

Mi fermai nel salotto dalle pareti tappezzate e i mobili lucidi, e guardai l’orologio. Erano appena le sette di sera, e mancavano cinque ore al suo ritorno. Cinque ore di sete bruciante. E l’idea… l’idea.

Non decisi di agire. Voltai le spalle all’orologio e m’incamminai per tornare nella mia camera. Sapevo che prima di me centinaia d’altri avevano avuto idee simili. E Marius aveva descritto assai bene l’orgoglio che aveva provato quando aveva pensato di poterli destare, dì riuscire a farli muovere.

No. Voglio farlo anche se non accadrà nulla… e sarà così. Voglio scendere laggiù, solo, e farlo. Forse tutto questo ha qualcosa a che vedere con Nicki. Non lo so. Non lo so!

Andai nella mia camera e, nella luce incandescente che saliva dal mare, aprii la custodia del violino e guardai lo Stradivari.

Non sapevo suonare, naturalmente: ma noi siamo imitatori eccezionali. Come aveva detto Marius, possediamo una concentrazione e un’abilità assolutamente superiori. E avevo visto Nicki farlo molto spesso.

Tesi l’archetto e strofinai i crini con il pezzetto di resina, come aveva sempre fatto lui.

Appena due notti prima non avrei sopportato l’idea di toccare lo strumento. Sarebbe stata una tortura.

Lo tolsi dalla custodia e lo portai con me attraverso la casa, come l’avevo portato a Nicki tra le quinte del Teatro dei Vampiri; e, senza più pensare alla vanità, corsi verso la porta della scala segreta.

Era come se mi attirassero, come se io non avessi una volontà. Marius non contava più, ormai. Nulla aveva importanza, se non discendere gli stretti gradini di pietra sempre più in fretta, passando davanti alle piccole finestre piene di spruzzi marini e della luce della prima sera.

Il mio entusiasmo diventò così forte e totale che mi fermai all’improvviso e mi chiesi se nasceva davvero dentro di me. Ma era assurdo. Chi poteva avermelo messo in testa? Coloro-che-devono-essere-conservati? Quella era la vanità autentica; e inoltre, quegli esseri sapevano che cos’era quello strano, delicato strumento di legno?

Emanava suoni che nel mondo antico nessuno aveva mai udito, suoni così umani e così potenti e suggestivi che la gente considerava il violino una creazione del diavolo e accusava i migliori suonatori di essere invasati.

Ero un po’ stordito, confuso.

Come ero arrivato fin lì, e perché non ricordavo che la porta era sbarrata dall’interno? Forse di là a cinque secoli avrei potuto togliere la sbarra… ma non in quel momento.

Tuttavia continuai a scendere. I pensieri si disintegrarono con la stessa rapidità con cui erano affiorati. Mi sentivo di nuovo ardere e la sete mi torturava, sebbene questa non avesse nulla a che fare con ciò che provavo.

E quando superai l’ultimo angolo, vidi che la porta della cappella era spalancata. La luce delle lampade giungeva fino alla scala; e il profumo dell’incenso e dei fiori mi sopraffece all’improvviso e mi afferrò alla gola.

Mi avvicinai stringendo al petto il violino con entrambe le mani. E vidi che le ante del tabernacolo erano aperte, e loro erano là.

Qualcuno gli aveva portato altri fiori. Qualcuno aveva disposto pani d’incenso su piatti d’oro.

Entrai nella cappella, mi fermai a guardarli. E, come prima, mi sembrò che mi guardassero direttamente.

Erano bianchi, così bianchi che non riuscivo a immaginarli abbronzati, e sembravano duri come le gemme che li ornavano. Monili a forma di serpente intorno al braccio di Akasha. Una collana a più giri intorno alla gola.

Il viso della Madre era più sottile di quello del Padre, il naso un poco più lungo. Lui aveva gli occhi più allungati e le palpebre un po’ più spesse. I lunghi capelli neri erano quasi identici.

Respiravo un po’ a stento. Mi sentivo debole; lasciai che il profumo dei fiori e dell’incenso mi riempissero i polmoni.

La luce delle lampade danzava in mille riflessi d’oro sugli affreschi.

Guardai il violino, cercai di ricordare la mia idea, passai le dita sulla cassa di legno e mi chiesi come doveva apparire lo strumento ai loro occhi.

Spiegai a voce sommessa che cos’era, dissi che volevo farglielo ascoltare, e che in verità non sapevo suonarlo ma avrei tentato. Non parlavo abbastanza forte per sentire ciò che dicevo; ma sicuramente loro mi avrebbero udito, se lo volevano.

Mi portai il violino alla spalla, lo strinsi sotto il mento e alzai l’archetto. Chiusi gli occhi e ricordai la musica, la musica di Nicki, il modo in cui s’era mosso il suo corpo, e come le sue dita avevano esercitato la pressione per trasfondere il messaggio della sua anima.

Mi lanciai. La musica salì come un lamento, ondeggiò e ridiscese mentre le mie dita danzavano. Era un canto: potevo creare un canto. I toni erano puri e ricchi ed echeggiavano contro le pareti producendo la voce gemente e supplichevole che è tipica del violino. Continuai con abbandono, ondeggiando avanti e indietro, e dimenticai ogni cosa eccettuata la sensazione delle mie dita che battevano sulla tastiera e la consapevolezza che ero io a generare la musica, che fuorusciva da me e precipitava e ascendeva e traboccava sempre più forte mentre muovevo freneticamente l’archetto.

Cantavo con quella musica, mormoravo e cantavo, e tutto l’oro della cappella era un tremolio. Mi sembrò all’improvviso che la mia voce divenisse più forte, inesplicabilmente, con una nota alta e pura che, lo sapevo, io non ero in grado di produrre. Eppure c’era quella nota bellissima, costante e immutabile, e sempre più alta, tanto che mi feriva le orecchie. Suonai con slancio ancora maggiore, e udii i miei ansiti… e all’improvviso compresi che non ero io a produrre quella nota strana e altissima!

Mi sarebbe sgorgato il sangue dalle orecchie, se la nota non fosse cessata. E non ero io a produrla! Senza interrompere la musica, senza cedere alla sofferenza che mi spaccava il cranio, guardai davanti a me. Vidi che Akasha s’era alzata. I suoi occhi erano spalancati, la bocca era atteggiata in una «O» perfetta. Il suono veniva da lei: e scendeva i gradini del tabernacolo, veniva verso di me con le braccia tese, e la nota mi trapassava i timpani come una lama d’acciaio.

Non vidi più nulla. Sentii il violino urtare le pietre del pavimento. Sentii le mie mani premute contro le tempie. Urlai e urlai ma la nota assorbì il mio urlo.

«Basta! Basta!» gridai. Ma la luce era adesso riapparsa, e Akasha era davanti a me e tendeva le braccia.

«O Dio… Marius!» Mi voltai e corsi alla porta. E la porta si chiuse con violenza davanti a me, facendomi cadere in ginocchio. Singhiozzavo, mentre la nota continuava ininterrotta.

«Marius, Marius, Marius!»

E, quando mi voltai per capire cosa stava per accadami, vidi il piede di Akasha abbassarsi sul violino, che si schiantò sotto il suo calcagno. Ma la nota che lei cantava stava morendo. La nota si disperdeva.

E io rimasi in silenzio, assordato, incapace di udire le mie urla mentre invocavo Marius e mi rialzavo in piedi.

Un silenzio sonoro e tremulo. Lei stava davanti a me. Le sopracciglia nere si accostarono delicatamente, increspando appena la pelle bianca. Gli occhi erano pieni di tormento e di interrogativi. Le labbra rosapallide erano schiuse e rivelavano le zanne.

Aiutami, aiutami, Marius, aiutami, balbettavo, e non mi sentivo se non nella pura astrazione della mente. Poi le sue braccia mi cinsero. Mi attirò più vicino e io sentii la sua mano, come l’aveva descritta Marius, sostenermi la testa molto dolcemente. E sentii i miei denti contro la sua gola.

Non esitai. Non pensai alle braccia che mi stringevano e che avrebbero potuto stritolarmi in un secondo. Sentii le mie zanne penetrarle nella pelle come attraverso una crosta di ghiaccio, e il sangue mi fiottò nella bocca.

Oh, sì, sì… oh, sì. Le avevo passato il braccio sulla spalla sinistra. Stavo aggrappato a lei, alla mia statua vivente, e non aveva importanza che fosse più dura del marmo: doveva essere così, era perfetta… la mia Madre, la mia amante potentissima; e il sangue penetrava ogni particella palpitante del mio essere con i fili della sua rete ardente. Ora le sue labbra erano sulla mia gola. Mi baciava, baciava l’arteria attraverso la quale fluiva con violenza il suo sangue. Le sue labbra si aprirono e, mentre suggevo il sangue con tutte le mie forze e sentivo il fiotto diffondersi dentro di me, provai la sensazione inconfondibile delle zanne che mi affondavano nel collo.

Da ogni vena fremente il mio sangue passò in lei, come il suo sangue passava in me.

Vedevo quel circuito luminoso, e tanto più divinamente lo sentivo perché altro non esisteva che le nostre bocche, serrate l’una sulla gola dell’altro, e il pulsare incessante del sangue. Non c’erano sogni, non c’erano visioni, c’era soltanto questo, questo… meraviglioso e assordante e ardente… e nulla aveva importanza, assolutamente nulla, se non il desiderio che non finisse mai. Il mondo delle cose che avevano peso e occupavano spazio e interrompevano il flusso della luce non esisteva più.

Tuttavia era sopravvenuto un rumore orrendo, come il suono della pietra che si incrina, il suono della pietra trascinata sul pavimento. Marius che si avvicinava. No, Marius, non venire. Torna indietro. Non separarci.

Ma non era Marius, quel suono atroce, quell’improvviso sovvertimento di tutto, la cosa che mi afferrava per i capelli e mi strappava via, mentre il sangue mi sprizzava dalla bocca. Era Enkil. E le sue mani poderose mi serravano la testa.

Il sangue mi scorse sul mento. Intravvidi il viso sconvolto di Akasha. La guardai tendere le braccia verso di lui; gli occhi le sfolgoravano di collera, le sue membra bianche erano vigorose mentre afferrava le mani che mi tenevano la testa. Udii la sua voce levarsi e urlare, più forte della nota che aveva cantato, mentre il sangue le colava dagli angoli della bocca.

Quel suono aggrediva la vista, non soltanto l’udito. L’oscurità turbinò, si spezzò in un milione di minuscoli frammenti. Il mio cranio stava per schiantarsi.

Enkil mi stava costringendo a inginocchiarmi. Era chino su di me. All’improvviso vidi completamente la sua faccia. Era impassibile come sempre, e solo la tensione dei muscoli delle braccia faceva pensare alla realtà della vita.

E, attraverso il suono devastante dell’urlo di Akasha, seppi che la porta dietro di me tremava sotto i colpi di Marius, e le sue grida erano quasi altrettanto forti.

Mi usciva il sangue dalle orecchie. Muovevo le labbra.

La morsa di pietra che mi serrava la testa si allentò. Piombai sul pavimento. Finii disteso e sentii la pressione fredda del piede sul petto. Tra un secondo mi avrebbe schiacciato il cuore. E Akasha, con urla sempre più forti, sempre più penetranti, gli stava alle spalle e gli stringeva il collo con il braccio. Vedevo le sue sopracciglia aggrottate, i capelli neri scomposti.

Ma era Marius che sentivo parlare attraverso la porta, attraverso il suono incandescente delle urla di Akasha.

Uccidilo, Enkil, e io te la toglierò per sempre, e lei mi aiuterà a farlo! Lo giuro!

Un silenzio improvviso. Di nuovo la sordità. Il calore del sangue che mi scorreva sul collo.

Akasha si scostò, guardò davanti a sé e i battenti si spalancarono, urtando contro le pareti dello stretto corridoio di pietra. E Marius stava davanti a me, con le mani sulle spalle di Enkil. Enkil pareva incapace di muoversi.

Il piede scivolò, mi scalfì lo stomaco e sparì. E Marius stava dicendo qualcosa che potevo udire soltanto con il pensiero. Esci, Lestat. Fuggi.

Mi sollevai a sedere con uno sforzo e vidi che li faceva tornare lentamente verso il tabernacolo. Vidi che entrambi lo guardavano, e Akasha stringeva il braccio di Enkil; vidi le loro facce che ridiventavano inespressive e per la prima volta quell’inespressività appariva apatica: non era la maschera della curiosità, era la maschera della morte.

«Lestat, fuggi!» gridò di nuovo Marius senza voltarsi. Obbedii.

16.

ERO nell’angolo più lontano del terrazzo quando finalmente Marius entrò nel salotto illuminato. In tutte le mie vene c’era un ardore che trapelava ancora come se avesse una vita propria. E potevo vedere al di là delle sagome scure delle isole. Sentivo l’avanzare di una nave lungo una costa lontana. Ma continuavo a pensare che, se Enkil fosse tornato a cercarmi, avrei potuto buttarmi dalla balaustrata. Avrei potuto tuffarmi in mare e allontanarmi a nuoto. Sentivo le sue mani sulla testa, il suo piede sul petto.

Rimasi accanto alla balaustrata, tremando. E le mie mani erano coperte del sangue delle lesioni alla faccia, che già erano completamente guarite.

«Mi dispiace, mi dispiace di averlo fatto», dissi non appena Marius uscì. «Non so perché l’ho fatto e non avrei dovuto. Mi dispiace. Mi dispiace, lo giuro, Marius. Non farò mai più qualcosa che tu mi dirai di non fare.»

Si fermò a guardarmi, a braccia conserte. Era furioso.

«Lestat, che cosa ho detto la scorsa notte?» chiese. «Sei il più dannato degli esseri!»

«Marius, perdonami. Ti prego. Non pensavo che sarebbe accaduto qualcosa. Ero sicuro che nulla potesse accadere…»

Mi accennò di tacere e di scendere con lui sulla scogliera. Scavalcò la balaustrata e passò per primo. Lo seguii, vagamente deliziato dalla facilità dei movimenti ma troppo stordito per curarmene. La presenza di Akasha mi permeava come una fragranza: ma lei non aveva un profumo, se non quello dell’incenso e dei fiori che forse era riuscito a penetrarle nella pelle bianca e durissima. Com’era apparsa stranamente fragile nonostante quella durezza…

Scendemmo sui macigni sdrucciolevoli fino a quando raggiungemmo la spiaggia bianca, e camminammo insieme in silenzio guardando la spuma nivea che balzava contro le rocce o correva verso di noi sulla compatta sabbia candida. Il vento mi ruggiva nelle orecchie, e sentivo la solitudine che sempre mi ispira: il vento che ruggisce e cancella ogni altra sensazione e ogni altro suono.

Diventavo sempre più calmo, e nel contempo più agitato e infelice.

Marius mi aveva passato un braccio intorno alle spalle, come faceva sempre Gabrielle, e io non badavo a dove stavamo andando. Rimasi sorpreso quando vidi che eravamo arrivati a una piccola cala, dov’era ancorata una barca con un solo paio di remi.

Quando ci fermammo, ripetei: «Mi dispiace. Lo giuro. Non credevo…»

«Non dirmi che sei pentito», disse con calma Marius. «Non ti dispiace affatto ciò che è accaduto, e non ti dispiace di esserne stato la causa, adesso che sei al sicuro e non sei finito schiacciato come un guscio d’uovo sul pavimento della cappella.»

«Oh, ma non si tratta di questo», replicai. Mi misi a piangere. Presi il fazzoletto, accessorio indispensabile per un gentiluomo del Settecento, e mi asciugai il sangue dal volto. Sentivo Akasha che mi stringeva, sentivo il suo sangue, sentivo le mani di Enkil. Stavo rivivendo quei momenti. Se Marius non fosse arrivato in tempo…

«Ma cos’è accaduto, Marius? Che cos’hai visto?»

«Vorrei che potessimo portarci al di fuori del suo udito», disse stancamente Marius. «È una follia dire o pensare qualcosa che potrebbe turbarlo ancora di più. Devo lasciare che si rimetta.»

Ora sembrava veramente furioso. Mi voltò le spalle.

Ma come potevo evitare di pensarci? Avrei voluto aprirmi la testa ed estrarne i pensieri. Sfrecciavano in me come il sangue di Akasha. Nel suo corpo era rinchiusa una mente, un appetito, un ardente nucleo spirituale il cui calore era scorso dentro di me come un fulmine liquido; e indiscutibilmente Enkil aveva su di lei un potere mortale. Lo odiavo. Volevo distruggerlo. La mia mente si aggrappava a ogni sorta di idea folle, la convinzione che fosse possibile distruggerlo senza danneggiare tutti noi, purché rimanesse Akasha!

Ma non aveva senso. I demoni non erano penetrati prima in lui? Ma se non fosse stato così…

«Fermati!» scattò Marius.

Ricominciai a piangere. Mi tastai il collo dove lei l’aveva toccato, mi leccai le labbra e sentii di nuovo il sapore del suo sangue. Guardai le stelle sparse nel cielo, e persino quegli astri benigni ed eterni mi parvero minacciosi e insensati, e sentii un urlo salirmi pericolosamente alla gola.

Gli effetti del sangue di Akasha svanivano già. La prima visione si annebbiò; le mie membra erano di nuovo mie. Forse erano più forti, ma la magia stava morendo. La magia aveva lasciato soltanto qualcosa di più forte della memoria, nel circuito di sangue che si era stabilito fra noi due.

«Marius, cos’è accaduto?» gridai nel vento. «Non essere in collera con me, non abbandonarmi. Non posso…»

«Taci, Lestat.» Tornò indietro e mi prese per il braccio. «Non preoccuparti per la mia collera. Non è importante, e non è rivolta verso di te. Lasciami un po’ di tempo per riprendermi.»

«Ma hai visto cos’è accaduto fra lei e me?»

Marius guardava il mare. L’acqua era assolutamente nera, la spuma assolutamente bianca.

«Sì, ho visto», disse.

«Ho preso il violino. Volevo suonare per loro. Pensavo…»

«Sì, lo so, certo…»

«… che la musica avrebbe avuto un effetto, soprattutto quella musica, quella strana musica dal suono innaturale. Sai che un violino,…»

«Sì…»

«Marius, lei mi ha dato… e ha preso…»

«Lo so.»

«E lui la tiene là. La tiene prigioniera!»

«Lestat, ti prego.» Marius sorrideva con aria stanca e triste,

Imprigionalo, Marius, come avevano fatto gli altri, e lascia libera lei!

«Tu vaneggi, figlio mio», disse Marius. «Tu vaneggi.»

Si voltò e mi lasciò, indicandomi con un gesto di non seguirlo. Proseguì lungo la battigia e l’acqua gli lambì i piedi.

Cercai di calmarmi. Mi sembrava impossibile che fossi stato in qualche altro luogo all’infuori di quell’isola, che il mondo dei mortali fosse là fuori, che la strana tragedia e la minaccia di Coloro-che-devono-essere-conservati fossero sconosciute al di là di quelle scogliere splendenti.

Finalmente Marius tornò indietro.

«Ascoltami», disse. «A occidente c’è un’isola che non si trova sotto la mia protezione. Sulla punta settentrionale c’è una vecchia città greca, dove le taverne dei marinai rimangono aperte tutta la notte. Vai subito là con la barca. Vai a caccia e dimentica ciò che è accaduto. Studia i nuovi poteri che potresti aver acquisito da Akasha. Ma cerca di non pensare a lei e a lui. E, soprattutto, non complottare contro Enkil. Prima dell’alba, torna alla casa. Non sarà difficile. Troverai una dozzina di porte e di finestre aperte. Fa’ ciò che ti dico, subito. Per me.»

Chinai la testa. Era l’unica cosa sotto il cielo che poteva distrarmi, che poteva cancellare ogni pensiero nobile o sconvolgente. Il sangue umano, la notte umana, la morte umana.

Senza protestare mi avviai nell’acqua poco profonda per raggiungere la barca.


Nelle prime ore del giorno guardavo la mia immagine riflessa nel frammento di uno specchio metallico inchiodato al muro di una lurida stanza d’una piccola locanda per marinai. Mi vidi con la giacca di broccato con le trine bianche, il viso riscaldato dal sangue bevuto, e il morto disteso dietro di me sul tavolo. Stringeva ancora il coltello con cui aveva cercato di tagliarmi la gola. E c’era la bottiglia di vino drogato che avevo continuato a rifiutare con proteste scherzose, fino a che lui aveva perso la calma e aveva giocato l’ultima carta. Il suo compagno giaceva morto sul letto.

Guardai il giovane libertino biondo riflesso nello specchio.

«To’, il vampiro Lestat», dissi.


Ma tutto il sangue del mondo non sarebbe bastato ad arrestare gli orrori che mi assalirono quando andai a riposare.

Non potevo fare a meno di pensare a lei, di chiedermi se era la sua risata quella che avevo udito nel sonno la notte precedente. E mi sorpresi perché non mi aveva detto nulla, per mezzo del sangue; poi chiusi gli occhi e all’improvviso molte cose mi tornarono alla memoria, cose meravigliose e incoerenti come se fossero magiche. Lei e io percorrevamo insieme una galleria… non lì, ma in un luogo che conoscevo. Credo che fosse un palazzo in Germania, dove Haydn scriveva le proprie musiche… e lei parlava con disinvoltura, come aveva fatto con me mille altre volte. Ma dimmi tutto, dimmi ciò che crede la gente, ciò che fa funzionare i suoi ingranaggi, che cosa sono queste invenzioni straordinarie… Aveva un elegante cappello nero con un fregio di piume bianche sulla tesa e un velo candido annodato sotto il mento, e il suo viso era giovane.


Quando aprii gli occhi, seppi che Marius mi attendeva. Uscii e lo vidi accanto alla custodia vuota del violino. Voltava le spalle alla finestra aperta sul mare.

«Ora devi andare, mio giovane amico», disse tristemente. «Avevo sperato di avere più tempo, ma è impossibile. La barca ti aspetta per condurti via.»

«A causa di ciò che ho fatto…» dissi, avvilito. Dunque venivo scacciato.

«Lui ha distrutto le cose nella cappella», disse Marius. Ma la sua voce era un appello alla calma. Mi passò il braccio intorno alle spalle e con l’altra mano prese la mia sacca. Ci avviammo verso la porta. «Voglio che tu vada, ora, perché è la sola cosa che lo quieterà, e io voglio che tu ricordi non la sua rabbia, ma tutto ciò che ti ho detto, e sia certo che ci incontreremo ancora come abbiamo deciso.»

«Ma hai paura di lui, Marius?»

«Oh, no, Lestat. Non portare con te questa preoccupazione. Ha fatto altre volte cose come questa, ogni tanto. Non sa ciò che fa, in realtà. Ne sono convinto. Sa soltanto che qualcuno s’era messo tra lui e Akasha. Basta un po’ di tempo perché si rimetta.»

Di nuovo quella frase: «Si rimetta».

«E lei sta seduta come se non si fosse mai mossa, vero?» chiesi.

«Voglio che te ne vada ora, in modo da non provocarlo», disse Marius. Mi condusse fuori della casa, verso la scalinata nella roccia, e continuò a parlare.

«La nostra capacità di muovere gli oggetti con la mente, incendiarli o causare gravi danni con il solo potere del pensiero, non si estende molto al di là del punto in cui ci troviamo fisicamente. Perciò voglio che te ne vada da qui stanotte, e che vada in America. Tornerai a me quando lui non sarà più agitato e non ricorderà più; io non avrò dimenticato nulla e ti aspetterò.»

Quando arrivammo al ciglio della scogliera, vidi la galea nel porto. La scalinata sembrava impossibile, ma non lo era. L’impossibile era lasciare Marius e l’isola in quel momento.

«Non è necessario che scenda con me», dissi prendendo la sacca. Mi sforzavo di non tradire l’amarezza e l’avvilimento. Dopotutto, ero stato io a causare tutto. «Preferirei non piangere di fronte ad altri. Lasciami qui.»

«Vorrei che avessimo potuto trascorrere insieme altre notti», disse Marius. «Per considerare con calma ciò che è successo. Ma il mio amore ti accompagna. E cerca di ricordare le cose che ti ho detto. Quando c’incontreremo ancora avremo molto da dirci…» S’interruppe.

«Cosa c’è, Marius?»

«Sii sincero», mi chiese. «Ti dispiace che sia venuto a cercarti al Cairo e che ti abbia portato qui?»

«Come potrei?» dissi. «Mi dispiace andarmene, ecco. E se non potessi più trovarti o tu non potessi trovare me?»

«Quando verrà il momento, ti troverò», disse Marius. «E ricorda sempre: hai il potere di chiamarmi, come prima. Quando sento quel richiamo, posso superare ogni distanza per rispondere… una distanza che da solo non potrei valicare. Se sarà il momento, risponderò. Puoi esserne sicuro.»

Annuii. C’erano troppe cose da dire, e non pronunciai una parola.

Ci scambiammo un lungo abbraccio. Poi mi voltai e incominciai la discesa. Sapevo che avrebbe capito perché non mi voltavo.

17.

Non sapevo quanto desiderassi «il mondo» fino a che la mia nave non risalì finalmente il fangoso Bayou St. Jean, per raggiungere la città di New Orleans, e vidi contro il cielo luminoso il nero profilo irregolare della palude.

Il fatto che nessuno della nostra specie fosse mai penetrato in quella terra selvaggia mi eccitava e mi avviliva al contempo.

Prima che sorgesse il sole, quella mattina, mi ero innamorato della campagna bassa e umida come mi ero innamorato del caldo secco dell’Egitto; e con il passare del tempo finii per amarla più di qualunque altro posto al mondo.

Lì gli odori erano così forti che si sentiva quello crudo e verde delle foglie assieme a quello dei fiori rosa e gialli. E il grande fiume bruno, che scorreva davanti alla misera Piace d’Armes e alla piccola cattedrale, eclissava ogni altro fiume favoloso che avessi visto.

Ignorato e indisturbato, esploravo la piccola colonia con le vie fangose e i marciapiedi di legno e i luridi soldati spagnoli. Mi perdevo nelle pericolose baracche del porto, piene di battellieri che giocavano d’azzardo e si azzuffavano e di deliziose donne caraibiche, e uscivo per vedere il bagliore silenzioso del lampo, udire il rombo sordo del tuono, sentire il tepore serico della pioggia estiva.

I tetti bassi delle casette splendevano sotto la luna. La luce si rifletteva sui cancelli di ferro delle belle case spagnole, dietro le tende di pizzo appese all’interno delle vetrate pulitissime. Io camminavo tra i rozzi bungalow sparsi sulle banchine, sbirciavo dalle finestre i mobili dorati e gli ornamenti smaltati della ricchezza e della civiltà che in quel luogo barbaro sembravano inestimabili e un poco tristi.

Ogni tanto appariva una visione: un gentiluomo francese con la parrucca bianca e la giacca elegante, con la moglie in crinolina, e uno schiavo negro che reggeva per loro le scarpe pulite, sopra il torrente di fango.

Sapevo di essere giunto nell’avamposto più remoto del Giardino Selvaggio; sapevo che quello era il mio paese e che sarei rimasto a New Orleans, se New Orleans ce l’avesse fatta a continuare a esistere. Ciò che soffrivo poteva essere attenuato in quel luogo senza leggi; ciò che desideravo poteva darmi un piacere più grande, quando l’avessi avuto nella mia stretta.

E vi furono momenti, nella prima notte, in quel piccolo paradiso fetido, in cui pregai perché, nonostante tutti i miei poteri segreti, potessi essere in qualche modo affine a tutti i mortali. Forse non ero il reietto esotico che avevo immaginato, ma solo il cupo potenziamento di ogni anima umana.

Vecchie verità e antica magia, rivoluzione e invenzione cospirano per distrarci dalla passione che in un modo o nell’altro ci sconfigge tutti.

E alla fine, stanchi di questa complessità, noi sogniamo di quel tempo remoto in cui sedevamo sulle ginocchia di nostra madre e ogni bacio era la consumazione perfetta del desiderio. Cosa possiamo fare, se non cercare l’abbraccio che ora deve racchiudere il paradiso e l’inferno: il nostro destino inevitabile?

Epilogo Intervista col Vampiro

1.

E così sono arrivato alla conclusione dell’educazione e delle prime avventure del vampiro Lestat, il racconto che ho deciso di fare. Avete la descrizione della magia e del mistero del Vecchio Mondo che, nonostante tutte le proibizioni e le ingiunzioni, ho deciso di trasmettere ad altri.

Ma la mia storia non è finita, anche se sono riluttante a continuarla. E devo considerare, almeno brevemente, gli eventi dolorosi che mi portarono alla decisione di sprofondare sottoterra nell’anno 1929.

Erano passati centoquarant’anni da quando avevo lasciato l’isola di Marius, E non lo avevo più rivisto. Anche Gabrielle era andata completamente perduta. Era sparita quella notte al Cairo, e, a quanto mi risultava, non ne sapeva più nulla nessuno, mortale o immortale.

E quando discesi nella mia tomba, nel secolo ventesimo, ero solo e stanco e gravemente ferito nel corpo e nell’anima.

Avevo vissuto la «mia vita intera» come mi aveva consigliato Marius. Ma non potevo rimproverare lui per il modo in cui l’avevo vissuta e per gli errori terribili che avevo commesso.

Era stata la volontà a condizionare la mia esperienza più di ogni altra caratteristica umana. E, nonostante i consigli e le predizioni, andavo in cerca di tragedie e disastri come ho sempre fatto. Tuttavia ebbi le mie ricompense, non posso negarlo. Per quasi settant’anni ebbi i miei vampiri novizi Louis e Claudia, due degli immortali più splendidi che avessero mai camminato sulla terra, e li ebbi alle mie condizioni.

Poco dopo aver raggiunto la colonia, mi innamorai fatalmente di Louis, un piantatore borghese giovane e bruno, garbato nel linguaggio e schizzinoso nei modi, che per cinismo e autodistruttività sembrava il gemello di Nicolas.

Aveva la cupa intensità di Nicki, il suo spirito ribelle, la sua capacità tormentata di credere e di non credere e di disperare.

Tuttavia Louis acquisì su di me un potere assai più grande di quello di Nicolas. Anche nei momenti più crudeli, Louis accendeva in me la tenerezza, mi seduceva con la sua fiducia, l’infatuazione per ognuno dei miei gesti, per ognuna delle mie parole.

E la sua ingenuità mi conquistava sempre, la sua strana convinzione borghese che Dio continuasse a essere Dio anche se ci voltava le spalle, che dannazione e salvezza segnassero i confini di un mondo piccolo e privo di speranze.

Louis amava i mortali ancor più di quanto li amassi io. E a volte mi domandavo se non avevo cercato Louis per punirmi di ciò che era accaduto a Nicki, se non avessi creato Louis perché diventasse la mia coscienza e per anni e anni m’infliggesse la meritata penitenza.

Ma io l’amavo, semplicemente. E fu per il bisogno disperato di tenerlo legato a me nel momento più precario che commisi l’atto più egoistico e impulsivo di tutta la mia esistenza tra i morti viventi. Fu il delitto che doveva rivelarsi la mia rovina: la creazione, per Louis e con Louis, di Claudia, una bellissima bambina vampira.

Il suo corpo non aveva sei anni quando la creai; e anche se sarebbe morta qualora non l’avessi fatto (come sarebbe morto Louis, se non avessi preso anche lui), fu una sfida agli dèi, che io e Claudia avremmo pagato.

Ma questa è la storia che è stata narrata da Louis nell’Intervista col Vampiro, e che, nonostante le sue contraddizioni e i malintesi terribili, riesce a rendere l’atmosfera in cui Claudia, Louis e io ci trovammo immersi e rimanemmo insieme per sessantacinque anni.

Durante quel periodo fummo esemplari ineguagliabili della nostra specie, tre cacciatori letali abbigliati di sete e velluti, e ci gloriammo del nostro segreto e della città di New Orleans che si estendeva e ci ospitava nel lusso e ci forniva innumerevoli vittime.

E, sebbene Louis non lo sapesse quando scrisse la sua cronaca, sessantacinque anni sono un periodo fenomenale per un legame nel nostro mondo.

In quanto alle menzogne che ha detto e agli errori che ha commesso, ebbene, gli perdono l’eccesso d’immaginazione, l’amarezza e la vanità che, in fin dei conti, non è mai stata molto grande. Non gli avevo mai rivelato neppure una metà dei miei poteri, e con ragione, perché si lasciava assalire dal rimorso e dal ribrezzo quando doveva usare una parte dei suoi.

Anche la sua bellezza insolita e il suo fascino infallibile erano per lui una specie di segreto. Quando leggete la sua affermazione che io l’avevo trasformato in vampiro perché desideravo la sua casa nella piantagione, potete attribuirlo più alla modestia, suppongo, che alla stupidità.

In quanto alla sua convinzione che io fossi un contadino, bene, era comprensibile. Dopotutto era un figlio inibito del ceto medio, e come tutti i piantatori coloniali aspirava a essere un vero aristocratico sebbene non ne avesse mai conosciuto uno; e io discendevo da una stirpe di signori feudali che a tavola si leccavano le dita e buttavano le ossa ai cani.

Quando Louis dice che io giocavo con sconosciuti innocenti, facevo amicizia con loro e quindi li uccidevo… come poteva sapere che andavo a caccia quasi esclusivamente tra i giocatori d’azzardo, i ladri e gli assassini, poiché ero fedele più di quanto avessi sperato al mio tacito voto di uccidere solo i malfattori? (Per esempio il giovane Fremere, un piantatore che Louis ammanta di nobili sentimenti nel suo racconto, era in realtà un assassino e un baro sul punto di cedere per debiti la piantagione della sua famiglia, quando lo eliminai. Le puttane con le quali banchettai una volta di fronte a Louis per fargli dispetto, avevano drogato e derubato molti marinai che nessuno aveva più rivisto vivi.)

Ma piccole cose come queste non hanno molta importanza. Louis ha raccontato la storia così come credeva che fosse avvenuta.

E in un certo senso egli era sempre la somma dei suoi difetti, il più interessante demone umano che abbia mai conosciuto. Neppure Marius avrebbe potuto immaginare un essere così compassionevole e contemplativo, sempre gentiluomo, sempre impegnato a insegnare a Claudia l’uso delle posate quando lei non aveva bisogno di toccare mai un coltello o una forchetta.

La cecità di Louis ai desideri e alle sofferenze degli altri faceva parte del suo fascino al pari dei morbidi capelli neri e dell’espressione eternamente turbata dei suoi occhi verdi.

E perché dovrei affannarmi a parlare delle volte che veniva da me, straziato e ansioso, e m’implorava di non lasciarlo mai; delle volte che passeggiavamo insieme e parlavamo, e recitavamo Shakespeare per divertire Claudia, o andavamo insieme a caccia nelle taverne del porto o a ballare con le bellezze dalla pelle scura nei famosi balli delle quadroons?

Leggete tra le righe.

Lo tradii quando lo creai: questa è la cosa importante. Come tradii Claudia. E perdono le assurdità che ha scritto, perché ha detto la verità sulla strana felicità che lui e io e Claudia condividevamo e non avevamo il diritto di condividere in quei lunghi decenni del secolo deci-monono, quando i colori iridescenti del vecchio regime si estinsero e la musica incantevole di Mozart e Haydn lasciò il posto al fragore di Beethoven, che a volte riusciva a somigliare in modo straordinario al suono delle mie immaginarie Campane dell’Inferno.

Avevo ciò che volevo, ciò che avevo sempre voluto. Avevo loro. E ogni tanto potevo dimenticare Gabrielle e dimenticare Nicki e persino dimenticare Marius e il volto inespressivo di Akasha, e il tocco gelido della sua mano e il calore del suo sangue.

Ma avevo sempre voluto molte cose. Che cosa spiegava la durata della vita descritta da Louis in Intervista col Vampiro? Perché duravamo tanto a lungo?

Per tutto il secolo decimonono i vampiri vennero «scoperti» dai letterati europei. Lord Ruthven, la creazione del dottor Polidori, lasciò il posto a sir Francis Varney nelle riviste dell’orrore, e più tardi venne la magnifica, sensuale contessa Carmilla Karnstein, ideata da Sheridan Le Fanu, e infine il gorilla dei vampiri, l’irsuto e slavo conte Dracula, che, sebbene possa trasformarsi in pipistrello e smaterializzarsi a volontà, striscia sul muro del suo castello come una lucertola, apparentemente per divertirsi… e tutti questi personaggi immaginati alimentarono l’appetito insaziabile del pubblico per «i racconti gotici e fantastici».

Noi eravamo l’essenza di quella concezione ottocentesca… alteri e aristocratici, infallibilmente eleganti e invariabilmente spietati, legati tra noi in una terra che era matura per altri della nostra specie, ma ancora non ne era turbata.

Forse avevamo trovato il momento ideale nella storia, l’equilibrio perfetto tra il mostruoso e l’umano, il tempo in cui il fascino vampiresco, nato nella mia immaginazione fra i pittoreschi broccati dell’Ancien Regime, doveva trovare la sua più grande esaltazione nel fluente mantello nero, il cilindro nero, e i riccioli luminosi della bambina che traboccano dal nastro viola sulle maniche a sbuffo del diafano abito di seta.

Ma che cosa avevo fatto a Claudia? E quando avrei pagato questo? Per quanto tempo si accontentò d’essere il mistero che legava tanto strettamente me e Louis, la musa delle nostre ore al chiaro di luna, l’unico oggetto di devozione comune a entrambi?

Era inevitabile che lei, destinata a non avere mai forma di donna, colpisse il demone padre che la condannava ad avere il corpo d’una bambola di porcellana!

Avrei dovuto ascoltare il monito di Marius. Avrei dovuto fermarmi a riflettere, mentre stavo per compiere l’esperimento grandioso e inebriante: fare di una bimba una vampira. Avrei dovuto riflettere profondamente.

Ma, sapete, fu come suonare il violino per Akasha. Volevo farlo. Volevo vedere cosa sarebbe accaduto con una bambina così bella!

Oh, Lestat, meriti tutto ciò che ti è accaduto. È meglio che tu non muoia: potresti andare davvero all’inferno.

Ma perché, per ragioni puramente egoistiche, non ascoltai qualcuno dei consigli che mi erano stati dati? Perché non imparai nulla da loro… Gabrielle, Armand, Marius? Ma, del resto, non ho mai dato ascolto a nessuno. In un certo senso mi è impossibile.

E non posso dire, neppure ora, che vorrei non aver mai visto Claudia e non averla mai tenuta fra le braccia e non averle mai sussurrato segreti o udito la sua risata echeggiare nelle stanze rischiarate dai lumi a gas di quella casa troppo umana dove ci muovevamo tra i mobili laccati e gli scuri quadri a olio e i portavasi di bronzo, come devono fare gli esseri viventi. Claudia era la mia figlia tenebrosa, il mio amore, male del mio male. Claudia mi spezzò il cuore.

E in una notte dell’anno 1860 decise di saldarmi il conto. Mi attirò in una trappola e mi piantò più volte un coltello in corpo, dopo avermi drogato e avvelenato, fino a quando il mio sangue vampiresco sgorgò sin quasi all’ultima goccia prima che le mie ferite potessero risanarsi.

Non gliene serbo rancore. Era quel genere di cosa che forse avrei fatto anch’io.

E, quei momenti di delirio, non li dimenticherò mai, non li rinchiuderò in uno scompartimento inesplorato della mente. Furono la sua astuzia e la sua volontà a devastarmi, con la stessa sicurezza della lama che mi squarciò la gola e mi straziò il cuore. Penserò a quei momenti ogni notte finché continuerò a esistere, e penserò all’abisso che si spalancò sotto di me e quasi mi trascinò alla morte umana. Questo fu Claudia a darmelo.

Ma mentre il sangue defluiva e si portava via la capacità di vedere e udire e muovermi, i miei pensieri tornarono al passato lontano, molto più indietro della famiglia di vampiri nel paradiso di carta da parati e di tende di pizzo, fino ai boschi bui delle terre mitiche dove l’antico dio dionisano delle foreste aveva sentito più volte dilaniare la propria carne e spargersi il proprio sangue.

Se non esisteva un significato, esisteva almeno il lustro della congruenza, la sorprendente ripetizione dello stesso vecchio tema.

Il dio muore. E risorge. Ma questa volta nessuno viene redento.

Con il sangue di Akasha, aveva detto Marius, potrai sopravvivere a disastri che annienterebbero altri della nostra specie.

Più tardi, abbandonato nel silenzio e nel buio della palude, sentii la sete delineare le mie proporzioni, sentii la sete sospingermi, sentii le mie mascelle aprirsi nell’acqua fetida, le mie zanne cercare gli esseri a sangue caldo che mi avviarono sulla lunga strada del ritorno.

E tre notti più tardi, quando ero stato sconfitto di nuovo e i miei figli mi avevano abbandonato per sempre nell’inferno fiammeggiante della nostra casa, fu il sangue degli antichi, Magnus e Marius e Akasha, che mi sostenne mentre mi trascinavo lontano dall’incendio.

Ma senz’altro sangue risanatore, senza un’infusione fresca, restavo in balia del tempo perché rimarginasse le ferite.

E quel che Louis non poteva descrivere nel suo racconto è ciò che accadde dopo a me: per anni cacciai al margine del branco umano, ridotto a un mostro menomato e orrendo che poteva colpire soltanto i giovanissimi e gli infermi. In continuo pericolo di fronte alle mie vittime, divenni l’antitesi del demone appassionato e portai terrore anziché estasi, simile soprattutto ai vecchi revenants del Cimitero degli Innocenti, così laceri e sporchi.

Le ferite influivano sul mio spirito, sulla mia capacità di ragionare. E ciò che vedevo nello specchio ogni volta che osavo guardare consumava ancor più la mia anima.

Eppure, in tutto quel tempo non chiamai Marius e non cercai di colmare la distanza che ci separava. Non potevo invocare il suo sangue risanatore: era meglio soffrire per un secolo le pene del purgatorio anziché sentire la riprovazione di Marius. Meglio soffrire la peggiore solitudine, l’angoscia peggiore, anziché scoprire che conosceva tutto ciò che avevo fatto e da molto tempo mi aveva voltato le spalle.

In quanto a Gabrielle, che mi avrebbe perdonato qualunque cosa, e il cui sangue era almeno abbastanza potente per accelerare le guarigioni, non sapevo neppure dove cercarla.

Quando mi fui ripreso quanto bastava per affrontare il lungo viaggio fino all’Europa, mi rivolsi all’unico cui potevo rivolgermi: Armand. Armand, che viveva ancora sulla terra che gli avevo donato, nella torre dov’ero stato creato da Magnus, Armand che comandava ancora la prospera congrega del Teatro dei Vampiri nel Boulevard du Temple, il teatro ancora di mia proprietà. Dopotutto, non dovevo spiegazioni ad Armand. E lui non mi doveva qualcosa?

Fu un trauma vederlo, quando venne ad aprire dopo che avevo bussato alla sua porta.

Sembrava un giovane uscito da un romanzo di Dickens, nella sobria marsina nera. S’era tagliato tutti i riccioli rinascimentali. Il viso eternamente giovane aveva l’innocenza di David Copperfield e l’orgoglio di uno Steerforth… rivelava tutto, tranne la vera natura del suo spirito.

Per un momento una luce fulgida arse in lui mentre mi guardava. Poi fissò le cicatrici che mi coprivano il viso e le mani e disse a voce bassa, quasi compassionevole:

«Entra, Lestat».

Mi prese la mano. Ci addentrammo nella casa che aveva costruito ai piedi della torre di Magnus, un luogo buio e tetro degno di tutti gli orrori byroniani di quella strana epoca.

«Sai, corre voce che tu abbia incontrato la fine in Egitto o in Estremo Oriente», disse in francese colloquiale, con un’animazione che non avevo mai visto in lui. Adesso era abile nel farsi passare per un essere vivente. «Sei scomparso con l’altro secolo, e da allora nessuno ha più sentito parlare di te.»

«E Gabrielle?» chiesi immediatamente. Mi meravigliavo dì non averlo domandato già sulla soglia.

«Nessuno l’ha più vista o ha saputo qualcosa di lei da quando lasciaste Parigi.»

Ancora una volta il suo sguardo mi accarezzò. C’era in lui un’eccitazione appena velata, una febbre che sentivo come il calore del fuoco vicino. Sapevo che stava cercando di leggere nei miei pensieri.

«Che cosa ti è accaduto?» chiese.

Le mie cicatrici lo sconcertavano. Erano troppo numerose e intricate, retaggio di un attacco che avrebbe dovuto segnare la mia morte. Mi sentii sopraffatto da un panico improvviso, dal timore che, nella confusione, gli rivelassi tutto, le cose che molto tempo prima Marius mi aveva proibito di confidare.

Ma fu la storia di Louis e Claudia quella che mi sgorgò dalle labbra, in mezze verità balbettate, con l’omissione di un fatto saliente: che Claudia era soltanto… una bambina.

Parlai brevemente degli anni trascorsi in Louisiana, e dei due che avevano finito per rivoltarsi contro di me come Armand aveva predetto che avrebbero fatto i miei figli. Confessai tutto, senza astuzie né orgoglio, e spiegai che ora avevo bisogno del suo sangue. Sofferenza e sofferenza e sofferenza, spiegargli tutto e sentire che lui rifletteva. Dirgli: sì, avevi ragione. Non è tutto ma, nel complesso, avevi ragione tu.

Era tristezza quella che vedevo sul suo volto? Non era certo trionfo. Senza darlo a vedere, guardava le mie mani tremanti mentre gesticolavo. Attendeva con pazienza quando m’impuntavo e non riuscivo a trovare le parole giuste.

Una piccola infusione del suo sangue avrebbe affrettato la mia guarigione, mormorai. Una piccola infusione mi avrebbe schiarito la mente. Mi sforzai di non essere altezzoso quando gli rammentai che gli avevo dato la torre, e l’oro che aveva usato per costruire la casa, e che ero tuttora proprietario del Teatro dei Vampiri e che sicuramente mi avrebbe fatto quel piccolo favore personale. C’era una sgradevole ingenuità nelle parole che gli dissi, stordito com’ero e debole, assetato e impaurito. Il bagliore del fuoco mi rendeva ansioso. La luce sulle venature dei pannelli di legno della stanza faceva apparire e scomparire facce immaginarie.

«Non voglio stare a Parigi», dissi. «Non voglio disturbare te o la congrega del teatro. Ti chiedo solo questo. Ti chiedo…» Mi sembrò che il coraggio e le parole mi venissero meno.

Trascorse un lungo momento.

«Parlami ancora di questo Louis», disse Armand.

Le lacrime mi salirono agli occhi. Ripetei alcune frasi sciocche sull’indistruttibile umanità di Louis, sulla sua comprensione di tante cose che gli altri immortali non sapevano afferrare. Imprudentemente, dissi ciò che mi veniva dal cuore. Non era stato Louis ad aggredirmi. Era stata la donna, Claudia…

Lo sentii animarsi. Un lieve rossore gli salì sulle guance. «Sono stati visti qui a Parigi», disse a voce bassa. «E lei non è una donna. È una bambina vampira.»

Non ricordo che cosa accadde. Forse cercai di spiegare il mio errore. Forse ammisi che non c’era giustificazione per quanto avevo fatto. Forse tornai allo scopo della mia visita, a ciò di cui avevo bisogno. Ricordo che mi sentivo estremamente umiliato mentre mi conduceva fuori dalla casa, nella carrozza, e mi diceva che dovevo andare con lui al Teatro dei Vampiri.

«Non capisci», dissi. «Non posso andare là. Non voglio che gli altri mi vedano in questo stato. Devi fermare la carrozza. Devi fare ciò che chiedo.»

«No, hai capito male», disse con la voce più tenera. Eravamo già nelle affollate vie parigine. Non vedevo la città che ricordavo. Questa era un incubo, una metropoli di ruggenti treni a vapore e di giganteschi boulevard di cemento. Il fumo e il sudiciume dell’epoca industriale non mi erano apparsi mai tanto disgustosi come lì, nella Ville Lumière.

Ricordo vagamente che Armand mi fece scendere dalla carrozza e mi sospinse verso l’ingresso del teatro. Che cos’era, quell’enorme edificio? Ed era il Boulevard du Temple? E poi la discesa nell’orrenda cantina piena di bruttissime copie dei quadri più sanguinosi di Goya e Bruegel e Bosch.

E infine l’inedia, mentre giacevo sul pavimento di una cella di mattoni, incapace persino di lanciare maledizioni, e l’oscurità piena delle vibrazioni degli omnibus e dei tram di passaggio, spezzate spesso dallo stridore lontano delle ruote di ferro.

A volte, nel buio, scoprivo una vittima mortale. Ma la vittima era morta. Sangue freddo, nauseante. Il modo peggiore di nutrirsi, steso su un cadavere viscido per succhiare ciò che restava.

E poi Armand apparve, immobile nell’ombra, immacolato nella camicia bianca e nell’abito di lana nera. Parlò sottovoce di Louis e Claudia, e disse che vi sarebbe stato una specie di processo. S’inginocchiò vicino a me, dimenticando per un momento di essere umano… il giovane gentiluomo in quel posto umido e lurido. «Dichiarerai davanti agli altri che è stata lei», disse. E gli altri, i nuovi, vennero alla porta per guardarmi a uno a uno.

«Procurategli i vestiti», disse Armand. Mi teneva una mano sulla spalla. «Dev’essere presentabile, il nostro signore perduto», continuò. «È sempre stata sua abitudine.»

Risero quando chiesi di parlare con Eleni o Félix o Laurent. Non conoscevano i nomi. Gabrielle… non significava nulla.

E dov’era Marius? Quanti paesi e fiumi e montagne stavano tra noi? Poteva udire e vedere tutto ciò che accadeva?

Di sopra, nel teatro, gli spettatori mortali, come pecore sospinte in un recinto, si muovevano rumorosamente sulle scale e sui pavimenti di legno.

Sognai di andarmene, di tornare nella Louisiana e di lasciare che il tempo compisse la sua opera inevitabile. Sognai di nuovo la terra, le sue fresche profondità che avevo conosciuto per breve tempo al Cairo. Sognai Louis e Claudia, ed eravamo insieme. Miracolosamente, Claudia era diventata una donna bellissima e diceva ridendo: «Vedi, sono venuta in Europa per scoprire come divenire così!»

E temevo che non mi sarebbe mai stato permesso di uscire, che sarei rimasto imprigionato come gli affamati sotto il Cimitero degli Innocenti, temevo di aver commesso un errore fatale. Balbettavo e piangevo e cercavo di parlare ad Armand. Poi mi accorsi che Armand non c’era. Se era venuto, se n’era andato in fretta. Ero preda delle illusioni.

E la vittima, la vittima calda… «Dammela, ti prego…» E Armand rispondeva:

«Dirai ciò che ti ho detto di dire».

Era un tribunale di mostri, demoni dalla faccia bianca che gridavano accuse, Louis che implorava disperatamente, Claudia che mi fissava muta; e io dicevo sì, è stata lei, sì, e poi maledicevo Armand che mi spingeva di nuovo nell’ombra e il suo volto innocente era radioso come sempre.

«Hai fatto bene, Lestat. Hai fatto bene.»

Ma che cosa avevo fatto? Avevo testimoniato contro di loro perché avevano violato le vecchie leggi? S’erano ribellati al signore della congrega. Che cosa sapevano, loro, delle vecchie leggi? Urlavo per chiamare Louis. E poi bevevo sangue nell’oscurità, sangue caldo di una vittima viva, e non era il sangue risanatore, era soltanto sangue.


Eravamo di nuovo in carrozza e pioveva. Stavamo viaggiando in campagna. Poi salimmo sul tetto della vecchia torre. Avevo tra le mani l’abito giallo di Claudia. L’avevo vista in un luogo stretto e umido dov’era stata bruciata dal sole. «Disperdete le ceneri!» avevo detto. Ma nessuno s’era mosso per farlo. L’abito giallo, strappato e insanguinato, era sul pavimento della cantina. Ora l’avevo tra le mani. «Disperderanno le ceneri, no?» domandai.

«Non volevi giustizia?» chiese Armand. Si stringeva nel mantello di lana nera per proteggersi dal vento e la sua faccia era scurita dalla potenza dell’uccisione recente.

Che cosa aveva a che fare con la giustizia? Perché tenevo fra le mani quell’abitino?

Guardai dagli spalti della torre di Magnus e vidi che la città mi era venuta incontro. Aveva proteso le lunghe braccia per cingere la torre e l’aria era ammorbata dal fumo delle fabbriche.

Armand era immobile alla balaustrata di pietra e mi osservava. All’improvviso mi sembrava giovane come lo era stata Claudia. E assicurati che abbiano vissuto un po’ prima di crearli, e non creare mai uno giovane come Armand. Morendo, Claudia non aveva detto nulla. Aveva guardato quelli intorno a lei come se fossero giganti che farneticavano in una lingua sconosciuta.

Armand aveva gli occhi rossi.

«Louis… dov’è?» chiesi. «Non l’hanno ucciso. L’ho visto. È uscito sotto la pioggia…»

«L’hanno inseguito», rispose Armand. «È già stato annientato.»

Un bugiardo dalla faccia di chierichetto.

«Fermali, devi fermarli! C’è ancora tempo…»

Scosse la testa.

«Perché non puoi fermarli? Perché hai voluto tutto questo, il processo, il resto; che cosa t’importa di ciò che mi avevano fatto?»

«È finita.»

Tra il ruggito dei venti giunse l’urlio di una sirena a vapore. Stavo perdendo la concatenazione dei pensieri. La perdevo… Non volevo tornare indietro. Louis, torna.

«E non hai intenzione di aiutarmi, vero?» Disperazione.

Armand si tese e il suo viso si trasformò com’era avvenuto molti, molti anni prima, come se la collera lo mutasse dall’interno.

«Tu che ci hai annientati tutti, tu che hai preso tutto. Cosa ti ha fatto pensare che ti avrei aiutato?» Si avvicinò. La faccia era contratta. «Tu che ci hai messi sui manifesti chiassosi nel Boulevard du Temple e ci hai fatto diventare i protagonisti di racconti mediocri e di chiacchiere da salotto!»

«Ma non sono stato io. Lo sai… Lo giuro… Non sono stato io!»

«Tu che hai trascinato i nostri segreti alla luce della ribalta… il marchese dai guanti bianchi, il demonio dal mantello di velluto!»

«Sei pazzo se attribuisci tutta la colpa a me. Non ne hai il diritto», insistetti. Ma la voce mi mancava al punto che stentavo io stesso a comprendere le mie parole.

E la sua voce dardeggiò come la lingua di un serpente.

«Avevamo il nostro Eden sotto quell’antico cimitero», sibilò. «Avevamo una fede e uno scopo. E fosti tu a scacciarci con una spada fiammeggiante. Che cosa abbiamo, adesso? Rispondi. Niente altro che l’amore dell’uno per l’altro e ciò che questo può significare per esseri come noi!»

«No, non è vero. Stava già accadendo. Non capisci nulla. Non hai mai capito nulla.»

Ma Armand non mi ascoltava. E non aveva importanza che mi ascoltasse o no. Si avvicinò. In un lampo scuro la sua mano scattò, la mia testa si piegò all’indietro, e vidi capovolti il cielo e la città di Parigi.

Precipitai nel vuoto.

Precipitai e precipitai, davanti alle finestre della torre, fino a che il marciapiede di pietra salì per catturarmi, e ogni osso del mio corpo si fratturò entro l’involucro sottile di pelle preternaturale.

2.

Passarono due anni prima che fossi abbastanza forte per imbarcarmi per la Louisiana. Ero ancora invalido e sfregiato. Ma dovevo lasciare l’Europa, dove non mi era giunto neppure un sussurro della mia perduta Gabrielle o del grande e potente Marius, che sicuramente mi aveva giudicato.

Dovevo tornare a casa. E per me questa era New Orleans, dove i fiori non avevano mai smesso di fiorire, dove era caldo e dove, grazie alla mia inesauribile riserva di «denaro del reame», possedevo una dozzina di vecchie case vuote con colonne bianche fatiscenti e portici cadenti dove potevo aggirarmi.

Trascorsi gli ultimi anni dell’Ottocento in isolamento completo nel vecchio Garden District, a un isolato dal Cimitero Lafayette, nella più bella delle mie case, a dormire sotto le querce altissime.

Leggevo al lume delle candele o delle lampade a petrolio tutti i libri che riuscivo a procurarmi. Ero come Gabrielle prigioniera nella sua camera da letto al castello; ma io non avevo mobili. I mucchi di libri arrivavano al soffitto in una stanza dopo l’altra, e così mi spostavo. Ogni tanto trovavo abbastanza forza per fare irruzione in una biblioteca o in una vecchia libreria in cerca di volumi nuovi, ma uscivo sempre meno spesso. Ordinavo i periodici per posta. Facevo scorte di candele e bottiglie e latte di petrolio.

Non ricordo quando venne il secolo ventesimo; ricordo solo che tutto divenne più tetro e sgradevole, e la bellezza che avevo conosciuto nel secolo decimottavo sembrava più che mai una fantasia. I borghesi governavano il mondo in base a princìpi noiosi e diffidavano della sensualità e degli eccessi tanto amati dall’Ancien Regime.

Ma la mia vista e i miei pensieri si annebbiavano sempre di più. Non andavo più a caccia di umani. E un vampiro non può prosperare senza sangue umano e morti umane. Sopravvivevo attirando gli animali domestici del vicinato, i cani e i gatti. E quando non era facile procurarmeli, c’erano sempre i grassi ratti grigi che potevo chiamare a me come il Pifferaio Magico.

Una notte mi imposi di compiere il lungo tragitto, attraverso le strade tranquille, fino a un piccolo, modesto teatro chiamato Happy Hour, vicino alle catapecchie del porto. Volevo vedere il nuovo cinema muto. Ero infagottato in un cappotto con una sciarpa che mi nascondeva la faccia scarna. Portavo i guanti per nascondere le mani scheletrite. La vista del cielo di giorno, in quel film imperfetto, mi terrorizzò. Ma mi sembrava che i toni squallidi del bianco e nero fossero adatti per un’epoca incolore.

Non pensavo agli altri immortali. Ogni tanto, tuttavia, appariva un vampiro… un novizio orfano capitato per caso nel mio covo, oppure un vagabondo venuto in cerca del leggendario Lestat per chiedergli segreti e potere. Erano intrusioni orride.

Persino il timbro delle voci sovrannaturali mi spezzava i nervi, mi costringeva a rifugiarmi in un angolo. Tuttavia, per quanto la sofferenza fosse grande, scrutavo ogni mente per cercare qualche notizia della mia Gabrielle. Non ne scoprii mai. E dopo non mi restava nulla da fare se non ignorare le povere vittime umane che il mostro mi portava nella vana speranza di risanarmi.

Ben presto, comunque, quegli incontri finivano. Spaventato, irritato, l’intruso se ne andava bestemmiando e mi lasciava al benedetto silenzio.

Giacevo nel buio e mi allontanavo un poco di più dalla realtà.

Non leggevo più molto. E, quando lo facevo, leggevo la rivista Black Mask, le storie degli odiosi uomini nichilisti del secolo ventesimo, i corrotti vestiti di grigio, i rapinatori di banche, gli investigatori e cercavo di ricordare. Ma ero così debole. Così stanco.

E poi una sera venne Armand.

In un primo momento pensai che fosse un’illusione. Stava immobile nel salotto rovinato, e sembrava più giovane che mai, con i capelli fulvi tagliati a caschetto secondo la moda del ventesimo secolo e l’abito scuro.

Doveva essere un’illusione, la figura che era entrata nel salotto e mi guardava mentre giacevo riverso sul pavimento accanto alla porta-finestra sfondata e leggevo Sam Spade alla luce della luna. A parte una cosa. Se avessi evocato un visitatore immaginario, non sarebbe stato Armand.

Gli lanciai un’occhiata e provai un vago senso di vergogna per il mio essere così disgustoso: non ero altro che uno scheletro dagli occhi sporgenti. Ripresi a leggere la storia del Falcone Maltese, muovendo le labbra per pronunciare le battute di Sam Spade.

Quando rialzai lo sguardo, Armand era ancora lì. Forse era la stessa notte o forse la notte seguente, per quel che ne sapevo.

Parlava di Louis. Stava parlando di Louis da un po’ di tempo. E mi resi conto che era una menzogna, quella che mi aveva detto a Parigi. Louis era stato con lui per tutti quegli anni. E Louis mi aveva cercato. Louis era andato nella città vecchia, a cercarmi nei pressi della casa dove avevamo vissuto per molto tempo. E alla fine era venuto lì e mi aveva visto dalle finestre.

Cercai di immaginarlo. Louis, vivo. Louis lì, tanto vicino… e neppure me ne ero accorto.

Risi, credo. Non riuscivo a tenere presente che Louis non era bruciato. Era meraviglioso che fosse ancora vivo. Era meraviglioso che esistessero ancora quella bella faccia, quell’espressione suadente, quella voce tenera e un po’ implorante. Il mio bel Louis era sopravvissuto, non se n’era andato come Claudia e Nicki.

Ma forse era morto. Perché dovevo credere ad Armand? Tornai a leggere al chiaro di luna, rammaricandomi un po’ che le piante del giardino fossero cresciute tanto. Dissi ad Armand che avrebbe fatto bene a uscire e a strappare un po’ di quei rampicanti, dato che era tanto forte. I tralci delle campanule e dei glicini grondavano dai portici e bloccavano la luce della luna, e poi c’erano le vecchie querce nere che stavano lì da quando il giardino era ancora una palude.

Non credo, comunque, d’averlo davvero detto ad Armand.

Ricordo solo vagamente che Armand mi disse che Louis lo lasciava e che lui, Armand, non voleva continuare. Sembrava svuotato. Inaridito. Tuttavia attirava a sé il chiarore lunare, e la sua voce aveva tuttora la vecchia risonanza, le sfumature purissime di dolore.

Povero Armand. E mi avevi detto che Louis era morto. Va’ a scavarti una camera sotto il Cimitero Lafayette, è proprio in fondo alla strada.

Neppure una parola o una risata, ma solo il godimento segreto dell’ilarità. Ricordo un’immagine chiara di Armand, in mezzo alla stanza vuota e sporca, mentre guardava i libri accatastati tutto intorno. La pioggia era filtrata dalle falle nel soffitto e aveva saldato insieme i volumi come mattoni di cartapesta. E lo notai distintamente quando lo vidi ritto contro quello sfondo. Sapevo che tutte le stanze della casa avevano quei muri di libri. Non ci avevo pensato fino a quel momento, quando Armand incominciò a guardarli. Da anni non ero entrato nelle altre camere.

Pare che Armand sia tornato altre volte.

Non lo vedevo; ma lo udivo muoversi nel giardino, mentre mi cercava con la mente, come un raggio di luce.

Louis era partito per l’ovest.

Una volta, mentre giacevo tra i detriti sotto le fondamenta, Armand si avvicinò alla grata e mi sbirciò, e io lo vidi. Sibilò e mi chiamò acchiapparatti.

Sei impazzito… tu che sapevi tutto, tu che ridevi di noi! Sei pazzo e ti nutri di ratti. Sai? Anticamente in Francia chiamavano acchiappalepri voi signorotti di campagna, perché andavate a caccia di lepri per non morire di fame. E adesso cosa sei, qui in questa casa? Un acchiappatopi. Sei pazzo come gli antichi che smettono di ragionare e farneticano al vento! Eppure vai a caccia di ratti, perché sei nato per farlo.

E io risi. Risi e risi. Ricordai i lupi e risi.

«Mi fai sempre ridere», risposi. «Avrei riso di te sotto quel cimitero a Parigi, ma non sembrava che fosse il caso di farlo. E anche quando mi maledicesti e mi desti la colpa di tutte le storie in circolazione sul nostro conto… anche quello era divertente. Se non fossi stato sul punto di buttarmi dalla torre, avrei riso. Mi hai sempre fatto ridere.»

Era delizioso, l’odio tra noi. O almeno così pensavo. Era un’eccitazione familiare averlo lì per ridicolizzarlo e disprezzarlo.

Ma all’improvviso la scena intorno a me cominciò a cambiare. Non giacevo sui detriti. Camminavo attraverso la mia casa. E non portavo gli stracci luridi che mi avevano coperto per anni, ma una bella giacca a code e un mantello foderato di raso. E la casa, ah, la casa era bellissima, e tutti i libri erano al loro posto sugli scaffali. Il parquet brillava nella luce di un lampadario e da ogni parte giungeva la musica, il suono di un valzer viennese, la ricca armonia dei violini. A ogni passo mi sentivo di nuovo forte e leggero, meravigliosamente leggero. Avrei potuto salire i gradini a due a due. Avrei potuto spiccare il volo nella tenebra, con il mantello come due ali nere.

E poi salii nell’oscurità. Armand e io eravamo insieme sul tetto. Lui era radioso, nell’antiquato abito da sera, e guardavamo una giungla di alberi che stormivano e la curva lontana del fiume e il cielo basso dove le stelle ardevano tra le nubi grigioperla.

Piangevo nel vedere tutto questo e nel sentire il vento umido sul viso. E Armand mi stava accanto, mi cingeva con un braccio. Parlava di perdono e di tristezza, di saggezza e di cose apprese nel dolore. «Ti amo, mio fratello tenebroso», sussurrò.

Le parole scorsero dentro di me come sangue.

«Non volevo vendetta», bisbigliò. Il suo volto era turbato, il suo cuore infranto. «Ma sei venuto da me per essere guarito, e non mi volevi! Avevo atteso un secolo e non mi volevi!»

E seppi, come in realtà avevo sempre saputo, che il mio mutamento era un’illusione, che ero lo stesso scheletro cencioso, naturalmente. E la casa era ancora una rovina. E nell’essere sovrannaturale che mi sosteneva c’era il potere di restituirmi il cielo e il vento.

«Amami e il sangue è tuo», disse. «Il sangue che non ho mai dato ad altri.» Sentii le sue labbra contro il viso.

«Non posso ingannarti», risposi. «Non posso amarti. Cosa sei per me, perché ti ami? Una cosa morta assetata del potere e della passione di altri? L’incarnazione della sete?»

E in un momento di forza incalcolabile, fui io che lo colpii e lo feci cadere dal tetto. Era assolutamente privo di peso e la sua figura si dissolse nella notte grigia.

Ma chi era stato sconfitto? Chi precipitava fra i rami degli alberi, verso la terra, verso gli stracci e il sudiciume sotto la vecchia casa? Chi giaceva fra i detriti, con le mani e la faccia contro il suolo freddo?

Tuttavia la memoria gioca scherzi strani. Forse avevo immaginato il suo ultimo invito e l’angoscia successiva. Il pianto. So che, mentre i mesi passavano, Armand ritornò. Ogni tanto lo sentivo passare per le vecchie vie di Garden District. E volevo chiamarlo, spiegargli che gli avevo detto una menzogna e che l’amavo. L’amavo.

Ma per me era tempo d’essere in pace con tutte le cose. Era tempo di digiunare e di sprofondare nella terra e forse di sognare, finalmente, i sogni del dio. E come potevo parlare ad Armand dei sogni del dio?


Non c’erano più candele e non c’era più petrolio per le lampade. Da qualche parte c’era una cassaforte piena di denaro e gioielli e lettere ai miei avvocati e ai miei banchieri che avrebbero continuato per sempre ad amministrare le mie proprietà, grazie alle somme che gli avevo lasciato.

Quindi, perché non sprofondare nel terreno, sapendo che non sarebbe mai stato scavato, in quella vecchia città con le sue repliche cadenti di altri secoli? Tutto avrebbe continuato a esistere come prima.

Nella luce del cielo continuai a leggere la storia di Sam Spade e del Falcone Maltese. Guardai la data della rivista e vidi che era il 1929 e pensai: Oh, non è possibile… o sì? E bevvi sangue di ratto quanto bastava per avere la forza di scavare a una grande profondità.


La terra mi circondava. Esseri viventi strisciavano fra le zolle umide contro la mia carne inaridita. E pensai che, se mai fossi risorto, se mai avessi visto un piccolo tratto di cielo notturno pieno di stelle, non avrei mai più fatto cose terribili. Non avrei mai ucciso gli innocenti. Anche quando fossi andato a caccia dei deboli, avrei preso i disperati e i moribondi; lo giuravo. Non avrei più compiuto l’Opera Tenebrosa. Avrei… Ecco, lo sapete, sarei stato la «coscienza continuativa», senza uno scopo, senza nessuno scopo.


Sete. Una sofferenza chiara come la luce.


Vidi Marius. Lo vidi così nitidamente che pensai: Non può essere un sogno! E il mio cuore si dilatò dolorosamente. Marius era splendido. Portava un semplice abito moderno, ma di velluto rosso, e i capelli bianchi erano tagliati corti e pettinati all’indietro. Aveva un grande fascino, quel Marius moderno, e un’agilità scattante che l’abbigliamento del passato aveva a quanto pareva nascosto.

E stava facendo le cose più straordinarie. Aveva davanti una macchina nera su un treppiede e girava una manovella con la destra, e faceva film di mortali in uno studio pieno di luce incandescente. Il mio cuore si gonfiò nel vederlo, nel vedere il modo in cui parlava ai mortali e diceva loro come dovevano abbracciarsi e danzare e muoversi. Scenari dipinti dietro di loro, sì. E al di là delle finestre dello studio c’erano alti edifìci di mattoni, e il rumore delle automobili per la strada.

No, non è un sogno, mi dissi. Sta succedendo veramente. Marius è qui. E se tentassi di vedere la città oltre le finestre, se scoprissi dov’è! Se tentassi, potrei udire la lingua che parla ai giovani attori. «Marius!» dissi, ma la terra intorno a me divorò il suono.

La scena cambiò.

Marius scese in cantina dentro la grande gabbia di un ascensore. Le porte metalliche stridettero e sferragliarono. Entrò nel grande santuario di Coloro-che-devono-essere-conservati. E tutto era diverso. Niente più affreschi egizi, profumo di fiori e brillio d’oro.

Le pareti altissime erano coperte dei colori degli impressionisti, e con miriadi di frammenti formavano un mondo vibrante del secolo ventesimo. Gli aerei volavano sopra le città assolate, i grattacieli s’innalzavano oltre le arcate dei ponti d’acciaio, navi di ferro fendevano i mari argentei. Era un universo che dissolveva i muri su cui era raffigurato, e circondava le figure immobili e immutate di Akasha ed Enkil.

Marius si muoveva nella cappella, fra sculture aggrovigliate e apparecchi telefonici, macchine per scrivere su sostegni di legno. Mise un grande grammofono davanti a Coloro-che-devono-essere-conservati. Appoggiò delicatamente la puntina sul disco che girava. Dalla tromba metallica uscì un esile valzer viennese.

Risi nel vedere quella dolce invenzione posta davanti a loro come un’offerta. Il valzer era come l’incenso che saliva nell’aria.

Marius non aveva ancora finito. Aveva srotolato contro il muro uno schermo bianco. Da una piattaforma dietro il dio e la dea proiettò sullo schermo un film dei mortali. Coloro-che-devono-essere-conservati fissavano muti le immagini guizzanti. Statue in un museo, mentre la luce elettrica brillava sulla loro pelle bianca.

E poi accadde una cosa meravigliosa. Le figure sussultanti del film cominciarono a parlare. Parlavano veramente, nello stridore del valzer che usciva dal grammofono.

E mentre guardavo, paralizzato dall’eccitazione e dalla gioia di ciò che vedevo, una grande tristezza mi sommerse all’improvviso, una grande rivelazione schiacciante. Era soltanto un sogno. Perché in verità le figure del film non potevano parlare.

La camera e le sue piccole meraviglie persero ogni sostanza, si offuscarono.

Ah, orrida imperfezione, orrido indizio del fatto che avevo immaginato tutto. E l’avevo creato con frammenti di realtà… i film muti che avevo visto nel piccolo cinema chiamato Happy Hour, i grammofoni che avevo sentito intorno a me in cento case, nel buio.

E il valzer viennese, ah, era tratto dall’incantesimo che Armand aveva operato su di me, troppo straziante per ricordarlo.

Perché non ero stato un po’ più ingegnoso nell’ingannare me stesso, perché non avevo fatto in modo che il film fosse muto come doveva? Allora avrei potuto continuare a credere che fosse stata una visione autentica.

Ma quella era la prova definitiva della mia invenzione, dell’audace fantasia egoistica. Akasha, la mia amatissima, mi parlava!

Akasha era sulla soglia della camera e guardava il corridoio sotterraneo dell’ascensore che aveva riportato Marius al mondo di lassù. I capelli neri scendevano folti e pesanti sulle spalle candide. Alzò la mano bianca per chiamarmi. La bocca era rossa.

«Lestat!» sussurrò. «Vieni.»

I suoi pensieri si irradiavano da lei senza suono, nelle parole della vecchia regina vampira pronunciate sotto il Cimitero degli Innocenti, tanti anni prima:

Dal mio cuscino di pietra ho sognato il mondo dei mortali. Ho udito le sue voci, la sua musica nuova, come nenie che mi cullano nella tomba. Ho visto le sue scoperte fantastiche, ho conosciuto il suo coraggio nel sacrario eterno dei miei pensieri. E, sebbene mi escluda con le sue forme abbaglianti, attendo qualcuno che abbia la forza di aggirarvisi senza paura e di percorrere la Strada del Diavolo attraverso il suo cuore.

«Lestat!» sussurrò di nuovo Akasha. Il suo volto marmoreo era tragicamente animato. «Vieni!»

«Oh, mia adorata», dissi, e sentii tra le labbra il sapore amaro della terra. «Oh, se lo potessi.»


Lestat de Lioncourt

nell’anno della sua Resurrezione

1984

Dioniso a San Francisco

1.

LA settimana prima che venisse messo in vendita il nostro album, loro si mossero per la prima volta per minacciarci per mezzo del telefono.

La sicurezza che circondava il complesso rock Il Vampiro Lestat era dispendiosa ma quasi impenetrabile. Persino gli editori della mia autobiografia avevano collaborato in pieno. E durante i lunghi mesi delle registrazioni discografiche e televisive, non avevo visto uno solo di loro a New Orleans, e non li avevo sentiti muoversi.

Eppure, chissà come, loro si erano procurati il numero che non figurava sull’elenco e avevano dettato ammonimenti e insulti sulla segreteria telefonica automatica.

«Fuorilegge. Sappiamo che cosa stai facendo. Ti ordiniamo di smettere. Vieni fuori dove possiamo vederti. Ti sfidiamo a farlo.»

Avevo isolato il complesso in una vecchia, deliziosa casa coloniale a nord di New Orleans, e versavo il Dom Pérignon per i ragazzi mentre fumavano hashish, e tutti noi eravamo stanchi per la tensione e i preparativi, ansiosi d’incontrare per la prima volta il pubblico di San Francisco e di assaporare per la prima volta il gusto certo del successo.

Poi la mia avvocatessa, Christine, inoltrò i primi messaggi telefonici (è strano come l’apparecchio avesse catturato il timbro delle voci ultraterrene) e nel cuore della notte condussi i miei musicisti all’aeroporto e spiccammo il volo per l’ovest.

Da quel momento neppure Christine seppe dov’eravamo nascosti. Persino i musicisti non ne erano interamente sicuri. In un lussuoso ranch di Carmel Valley ascoltammo per la prima volta alla radio la nostra musica. Ballammo quando i nostri primi video apparvero in tutta la nazione attraverso la TV via cavo.

E ogni sera andavo da solo fino alla città costiera di Monterey a ritirare le comunicazioni di Christine. Poi mi spingevo a nord, a caccia.

Andavo con la lucida, potente Porsche nera fino a San Francisco, affrontando a velocità inebriante le curve strettissime della strada costiera. E nell’immacolata semioscurità gialla delle grandi strade cittadine appostavo gli assassini un po’ più crudelmente e lentamente di prima.

La tensione stava diventando insopportabile.

Non vedevo ancora gli altri. Non li sentivo. Avevo soltanto quei messaggi telefonici, inviati da immortali che non avevo mai conosciuto.

«Ti avvertiamo. Non continuare con questa follia. Il tuo gioco è più pericoloso di quanto immagini.» E poi il bisbiglio registrato che le orecchie umane non potevano udire:

«Traditore!» «Fuorilegge!» «Mostrati, Lestat!»

Se mi davano la caccia a San Francisco, non li vedevo. Ma San Francisco è una città densamente popolata. E io ero furtivo e silenzioso come sempre.

Finalmente arrivarono i telegrammi alla casella postale di Monterey. Ce l’avevamo fatta. Le vendite del nostro album stavano battendo tutti i primati, lì e in Europa. Dopo San Francisco avremmo potuto esibirci in qualsiasi città avessimo desiderato. La mia autobiografia era in tutte le librerie da costa a costa. Il Vampiro Lestat era in testa alle classifiche.

E, dopo la caccia notturna in San Francisco, incominciai a percorrere tutta la lunghezza di Divisadero Street. La Porsche nera passava davanti alle case vittoriane in rovina, e mi domandavo in quale di quelle Louis aveva raccontato al giovane mortale la storia dell’Intervista col Vampiro. Pensavo continuamente a Louis e Gabrielle. Pensavo ad Armand. Pensavo a Marius. Marius che avevo tradito raccontando tutti gli avvenimenti.

Il Vampiro Lestat tendeva i suoi tentacoli elettronici abbastanza lontano da toccarli? Avevano visto i video L’eredità di Magnus, I Figli delle Tenebre, Coloro-che-devono-essere-conservati? Pensavo agli altri antichi dei quali avevo rivelato i nomi: Mael, Pandora, Ramses il Dannato.

Per la verità, Marius avrebbe potuto trovarmi a dispetto della segretezza e delle persecuzioni. I suoi poteri erano tali da travalicare anche le immense distanze dell’America. Se aveva guardato, se aveva sentito…

Tornò il vecchio sogno di Marius che faceva funzionare il proiettore, le figure in movimento sulla parete del sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati. Persino nel ricordo sembrava assurdamente lucido, e mi faceva battere più forte il cuore.

A poco a poco mi resi conto di possedere un nuovo concetto di solitudine, un nuovo metodo per misurare un silenzio che si estendeva sino alla fine del mondo. E le sole cose che l’interrompevano erano le minacciose voci sovrannaturali registrate che non portavano immagini con sé mentre cresceva la loro virulenza.

«Non osare presentarti sul palcoscenico a San Francisco. Ti avvertiamo. La tua sfida è troppo volgare, troppo sprezzante. Siamo pronti a correre ogni rischio, anche un pubblico scandalo, per punirti.»

Ridevo della combinazione incongrua del linguaggio arcaico e dell’accento inconfondibilmente americano. Com’erano, quei vampiri moderni? Ostentavano istruzione e raffinatezza quando si aggiravano tra i Non Morti? Assumevano un certo stile? Vivevano in congreghe, oppure andavano in giro inforcando potenti moto nere, come amavo fare io?

L’eccitazione cresceva incontrollabilmente dentro di me. E, mentre giravo solo in macchina nella notte con la radio che trasmetteva la nostra musica a tutto volume, sentivo crescere dentro di me un entusiasmo puramente umano.

Tenevo a presentarmi al pubblico come ci tenevano i miei amici mortali, Tough Cookie e Alex e Larry. Dopo il lavoro massacrante per preparare i dischi e le registrazioni, volevo che levassimo insieme le nostre voci di fronte al pubblico urlante. A volte ricordavo fin troppo chiaramente le notti lontane nel piccolo teatro di Renaud. Mi tornavano alla memoria i dettagli più strani… la sensazione del cerone bianco che mi spalmavo sulla faccia, l’odore della cipria, l’attimo in cui comparivo afte luci della ribalta.

Sì, tutto stava per compiersi. E se questo avesse portato anche la collera di Marius… ebbene, la meritavo, no?


San Francisco mi affascinava e mi placava un po’. Non era diffìcile immaginare il mio Louis in quella città. Sembrava quasi veneta, con i caseggiati multicolori che sorgevano muro contro muro nelle vie scure e strette. Erano irresistibili le luci sparse sulle colline e sulle valli, e la giungla cruda e fulgida dei grattacieli del centro che si ergevano come una foresta fiabesca in un oceano di nebbia.

Ogni notte, al mio ritorno in Carmel Valley, prendevo i sacchi delle lettere dei fan inoltrate da New Orleans a Monterey, e le sfogliavo cercando di scoprirne qualcuna scritta con la grafia tipica dei vampiri, i caratteri un po’ troppo calcati, lo stile un po’ antiquato… magari uno sfoggio più accentuato di talento sovrannaturale che faceva sembrare una lettera manoscritta simile a una stampa gotica. Ma non c’era nulla, tranne la fervida devozione dei mortali.


Caro Lestat, la mia amica Sheryl e io ti amiamo e non riusciamo a trovare i biglietti per il concerto di San Francisco, anche se abbiamo fatto la fila per sei ore. Ti prego, mandaci due biglietti. Saremo le tue vittime. Potrai bere il nostro sangue.


Le tre del mattino, prima del concerto di San Francisco.

Il fresco paradiso verde di Carmel Valley dormiva. Io sonnecchiavo nel gigantesco studio davanti alla vetrata rivolta verso i monti. Ogni tanto sognavo Marius. Nel sogno, Marius mi diceva:

«Perché hai sfidato la mia vendetta?»

E io rispondevo: «Mi hai voltato le spalle».

«Non è questa la ragione. Tu agisci d’impulso, vuoi buttare all’aria tutti i pezzi.»

«Io voglio influire sulla realtà, far accadere qualcosa!» dissi. Gridai nel sonno, e all’improvviso sentii intorno a me la presenza della casa di Carmel Valley. Era stato soltanto un sogno, un fragile sogno mortale.

Eppure qualcosa, qualcosa d’altro… una «trasmissione» improvvisa, come un’onda radio vagabonda che si insinuava nella frequenza sbagliata, una voce che diceva: Pericolo. Pericolo per tutti noi.

Per una frazione di secondo, una visione di neve e ghiacci. Un vento urlante. Qualcosa s’infranse su un pavimento di pietra. Vetro spezzato. Lestat! Pericolo!

Mi svegliai.

Non ero più sul divano. Ero in piedi e guardavo la porta a vetri. Non udivo nulla, non vedevo nulla se non il contorno indistinto delle colline, la sagoma nera dell’elicottero sul riquadro di cemento, come una mosca gigantesca.

Ascoltavo con l’anima. Ascoltavo così intensamente da sudare. Eppure la «trasmissione» non si ripeté, le immagini non riapparvero.

E poi la consapevolezza graduale che là fuori nell’oscurità c’era un essere e che io udivo suoni minuti.

Qualcuno camminava nel silenzio. E non emanava un odore umano.

Là fuori c’era uno di loro. Uno di loro aveva penetrato il muro della segretezza e si avvicinava, al di là della silhouette scheletrica dell’elicottero, attraverso l’erba alta.

Ascoltai di nuovo. No, neppure una vibrazione che rafforzasse il segnale di pericolo. La mente dell’essere era puntata su di me. Ricevevo solo i segnali inevitabili di una creatura che si muove nello spazio.

La grande casa bassa dormiva intorno a me… sembrava un gigantesco acquario con i muri bianchi e nudi e le luci azzurre e palpitanti del televisore muto. Tough Cookie e Alex erano abbracciati sul tappeto davanti al camino spento. Larry dormiva nella camera da letto simile a una cella in compagnia di una fan carnalmente instancabile, chiamata Salamander, che avevano «raccattato» a New Orleans prima della partenza per l’ovest. C’erano guardie del corpo addormentate nelle altre camere moderne, e nella portineria al di là della piscina azzurra come un guscio d’ostrica.

E là, sotto il cielo nero e sereno, l’essere si avvicinava, si avvicinava a piedi dalla direzione della strada. Era completamente solo. Il battito di un cuore sovrannaturale nell’oscurità. Sì, lo sentivo con chiarezza. Le colline erano fantasmi in lontananza, e i fiori gialli delle acacie brillavano chiari sotto le stelle.

Sembrava che non avesse paura di nulla. Si avvicinava. I suoi pensieri erano assolutamente impenetrabili. Poteva essere soltanto uno degli antichi e dei più esperti: ma se lo fosse stato, non avrebbe schiacciato l’erba sotto i suoi passi. Si muoveva quasi come un umano. Quel vampiro era stato creato da me.

Il mio cuore batteva irregolarmente. Guardai le minuscole spie luminose di un allarme seminascosto dai drappeggi nell’angolo. Le sirene avrebbero suonato se qualcosa, mortale o immortale, avesse tentato di penetrare nella casa.

Apparve al limitare del cemento chiaro. Una figura alta e snella. Capelli corti e scuri. Poi si soffermò come se potesse vedermi nella nebulosità blu-elettrica dietro il velo della vetrata.

Sì, mi vedeva. E si mosse verso di me, verso la luce. Era agile e si muoveva con troppa leggerezza per un mortale. Capelli neri, occhi verdi, e le membra che guizzavano sotto gli indumenti sciupati: un maglione nero e liso che gli pendeva informe dalle spalle, le gambe simili a lunghi pali neri.

Sentii un nodo stringermi la gola. Tremavo. Cercavo di ricordare ciò che era importante, persino in quel momento: dovevo scrutare la notte per cercare gli altri, dovevo essere guardingo. Pericolo. Ma non aveva più importanza. Sapevo. Chiusi gli occhi per un secondo. Non fu d’aiuto, non facilitò nulla.

Poi tesi la mano verso i pulsanti degli allarmi e li disattivai. Aprii i grandi battenti di vetro e l’aria fredda entrò nella stanza.

Aveva superato l’elicottero, e si voltava come un danzatore per guardarlo, con la testa piegata all’indietro, i pollici infilati con disinvoltura nelle tasche dei jeans neri. Quando mi guardò di nuovo, vidi distintamente la sua faccia. E sorrideva.

Anche la nostra memoria ci può tradire. Lui ne era la prova. Mentre si avvicinava, delicato e accecante come un laser, tutte le vecchie immagini si disperdevano come polvere.

Rimisi in funzione il sistema d’allarme, chiusi la porta e girai la chiave nella serratura. Per un secondo pensai: Non lo sopporto. E questo è soltanto l’inizio. E se lui è qui, a pochi passi da me, sicuramente verranno anche gli altri. Verranno tutti.

Mi voltai e mi incamminai verso di lui. Per un momento lo studiai in silenzio nella luce azzurra che filtrava dai vetri. Dissi, con voce tesa:

«Dove sono il mantello nero e la giacca splendidamente confezionata e la cravatta di seta e tutte le altre sciocchezze?»

Ci guardammo negli occhi.

Poi spezzò quell’immobilità e rise in silenzio. Ma continuò a studiarmi con un’espressione rapita che mi dava una gioia segreta. E, con l’audacia di un bambino, tese la mano e passò le dita sul bavero della mia giacca di velluto.

«Non si può sempre essere una leggenda vivente», disse. La voce era come un sussurro che non era un sussurro. E sentivo chiaramente il suo accento francese, sebbene non fossi mai riuscito a sentire il mio.

Stentavo a sopportare il suono delle sillabe, la loro completa familiarità.

E dimenticai tutte le frasi acide che avevo avuto intenzione di dire e lo presi tra le braccia.

Ci abbracciammo come non avevamo mai fatto in passato. Ci abbracciammo come un tempo facevamo io e Gabrielle. Poi gli passai le mani sui capelli e sul viso, per guardarlo come se appartenesse a me. Fece altrettanto. Parlammo e non parlammo. Voci sincere e silenziose, senza parole. Annuimmo un poco. E lo sentii traboccare d’affetto e di una soddisfazione febbrile che sembrava forte quasi quanto la mia.

Ma all’improvviso si fermò e il suo volto divenne un po’ tirato.

«Credevo che fossi morto, lo sai?» disse. La voce si udiva appena.

«Come mi hai trovato?» chiesi.

«Tu volevi che ti trovassi», rispose. Un bagliore di confusione innocente. Scrollò le spalle.

Tutto ciò che faceva mi magnetizzava come era avvenuto oltre un secolo prima. Le dita erano lunghe e delicate, e tuttavia le mani erano così forti.

«Hai lasciato che ti vedessi e ti seguissi», disse. «Giravi in macchina avanti e indietro in Divisadero Street e mi cercavi.»

«Eri ancora lì?»

«Per me è il posto più sicuro del mondo», rispose. «Non lo lascio mai. Sono venuti a cercarmi, non mi hanno trovato e se ne sono andati. Ora mi muovo tra loro quando voglio e non mi conoscono. In realtà, non hanno mai saputo che aspetto avessi.»

«E se lo sapessero cercherebbero di annientarti», dissi.

«Sì», rispose. «Ma hanno sempre cercato di farlo dopo quello che accadde nel Teatro dei Vampiri. Naturalmente, Intervista col Vampiro ha dato loro nuovi motivi. E hanno bisogno di giustificazioni per i loro giochetti. Hanno bisogno dell’impeto, dell’eccitazione. Se ne nutrono come se fosse sangue.» Per un secondo, la sua voce assunse toni affaticati.

Trasse un respiro profondo. Era difficile parlarne. Avrei voluto abbracciarlo di nuovo, ma non lo feci.

«Ma al momento», disse, «credo che vogliano annientare te. E sanno che aspetto hai.» Un lieve sorriso. «Ormai tutti lo sanno. Monsieur Le Rock Star.»

Il sorriso si allargò. Ma il tono era garbato e basso come sempre. Il viso era soffuso di sentimento. Non era ancora avvenuto il minimo cambiamento. Forse non sarebbe mai avvenuto.

Gli passai il braccio intorno alle spalle e ci allontanammo insieme dalle luci della casa. Passammo accanto alla massa grigia dell’elicottero, nel campo arso dal sole, e ci avviammo verso le colline.

Penso che essere tanto felice equivalga a essere infelice, che sentire una soddisfazione tanto grande equivalga ad ardere.

«Sei deciso ad andare sino in fondo?» mi chiese. «Il concerto di domani sera?»

Pericolo per tutti noi. Era stato un avvertimento o una minaccia?

«Sì, certo», risposi. «Cosa diavolo potrebbe fermarmi?»

«Io vorrei fermarti», rispose. «Sarei venuto prima, se avessi potuto. Ti ho individuato una settimana fa, e poi ti ho perduto.»

«E perché vuoi fermarmi?»

«Sai il perché», disse. «Voglio parlarti.» Erano così semplici, quelle parole, eppure avevano un significato così grande.

«Avremo tempo dopo», risposi. «Domani e domani e ancora domani. Non succederà niente. Vedrai.» Continuavo a guardarlo e a distogliere lo sguardo da lui, come se i suoi occhi verdi mi ferissero. Secondo il gergo moderno, era veramente un raggio laser. Sembrava delicato e letale. Le sue vittime l’avevano sempre amato.

E io l’avevo sempre amato, nonostante tutto ciò che era accaduto… E quanto poteva diventare forte, l’amore, se avevi l’eternità per alimentarmi, e se bastavano solo quei pochi momenti per rinnovare lo slancio e l’ardore?

«Come puoi esserne sicuro, Lestat?» mi chiese. Era così intimo, il fatto che pronunciasse il mio nome. E io non avevo trovato la forza di dire «Louis» con la stessa naturalezza.

Ora camminavamo lentamente, senza una direzione, e mi cingeva con un braccio come io cingevo lui.

«Ho un battaglione di mortali che ci proteggono», dissi. «Ci saranno guardie del corpo sull’elicottero e in macchina con i miei mortali. Viaggerò solo dall’aeroporto con la Porsche, e così potrò difendermi più facilmente, ma avremo un vero corteo. E comunque, cosa potrebbe fare un pugno di novizi del ventesimo secolo? Quegli idioti si servono del telefono per le loro minacce.»

«Sono molti di più di un pugno», disse lui. «E Marius? I tuoi nemici discutono ancora se la storia di Marius è vera, se Coloro-che-devono-essere-conservati esistono o no…»

«Naturalmente. E tu, l’hai creduta?»

«Sì, non appena l’ho letta», rispose. E vi fu tra noi un momento di silenzio, nel quale forse ricordammo entrambi l’immortale di tanto tempo prima che mi aveva chiesto con insistenza: Dov’è incominciato?

Era una sofferenza troppo grande per rievocarla. Era come prendere i quadri dalla soffitta, togliere la polvere e scoprire che i colori erano ancora vibranti. E i quadri che dovevano essere i ritratti degli antenati morti erano i nostri ritratti.

Feci qualche piccolo gesto nervoso, come un mortale, mi scostai i capelli di fronte, cercai di sentire la frescura della brezza.

«Che cosa ti rende tanto sicuro?» chiese lui. «E se Marius ponesse fine all’esperimento non appena tu salirai sul palcoscenico domani sera?»

«Pensi che qualcuno degli antichi lo farebbe?» ribattei.

Riflettè a lungo, sprofondando nei suoi pensieri come usava fare, al punto di dimenticare la mia presenza. Mi sembrò che intorno a lui prendessero forma le vecchie stanze, e la luce a gas irradiasse il suo chiarore incerto, e giungessero i suoni e gli odori di un altro tempo, dalla strada. Noi due in quel salotto di New Orleans, il fuoco di carbone acceso nella grata del cammino di marmo, e tutto che invecchiava tranne noi.

E adesso era un giovane moderno con il maglione sformato e i jeans lisi, e guardava le colline deserte. I capelli spettinati, gli occhi accesi da un fuoco interiore. Si scosse lentamente, come se riprendesse vita.

«No. Io penso che se gli antichi si prendono il disturbo di occuparsene, saranno troppo interessati per farlo.»

«Tu sei interessato?»

«Sì, e lo sai», rispose.

Il suo volto si colorò leggermente. Divenne ancora più umano. In realtà, somigliava a un mortale più di qualunque altro della nostra specie che avessi mai conosciuto. «Sono qui, no?» disse. E io percepii una sofferenza in lui che scorreva come una vena di minerale in tutto il suo essere, una vena che poteva portare il sentimento fino alle profondità più fredde.

Annuii. Trassi un respiro profondo e distolsi lo sguardo, augurandomi di poter dire ciò che desideravo. Che l’amavo. Ma non potevo farlo. Il sentimento era troppo forte.

«Qualunque cosa accada, ne varrà la pena», dissi. «Cioè, se tu e io, e Gabrielle, e Armand… e Marius saremo insieme, anche per poco, ne varrà la pena. Supponi che Pandora decida di apparire. E Mael. E Dio sa quanti altri. Se venissero tutti gli antichi… Ne varrà la pena, Louis. In quanto al resto, non m’interessa.»

«No, t’interessa», disse sorridendo. Era profondamente affascinato. «Sei sicuro che sarà esaltante e che, per quanto possa essere accanita la battaglia, sarai tu a vincere.»

Chinai la testa. Risi. Infilai le mani nelle tasche dei calzoni come facevano gli umani di quel tempo, e proseguii tra l’erba. Il campo aveva ancora l’odore del sole, anche nella fresca notte californiana. Non gli parlai dell’aspetto umano, della vanità del desiderio di esibirmi. Quella strana follia che s’impadroniva di me quando mi vedevo sul teleschermo, quando vedevo la mia faccia sulle copertine degli album in mostra nella vetrina di dischi di North Beach.

Mi seguì.

«Se gli antichi volessero davvero annientarmi», dissi, «non credi che l’avrebbero già fatto?»

«No», rispose. «Io ti ho visto e ti ho seguito. Ma prima non riuscivo a trovarti. Appena ho saputo che saresti uscito allo scoperto, ho tentato.»

«Come l’hai saputo?» chiesi.

«Nelle grandi città vi sono luoghi dove s’incontrano i vampiri», disse. «Senza dubbio lo saprai.»

«No, non lo so. Dimmelo.»

«Sono i bar che chiamiamo Vampire Connection», disse lui, con un sorriso lievemente ironico. «Sono frequentati dai mortali, naturalmente, e noi li conosciamo per nome. C’è il Dr. Polidori a Londra e il Lamia a Parigi. Ci sono il Bela Lugosi a Los Angeles e il Carmilla e il Lord Ruthven a New York. Qui a San Francisco abbiamo quello che è forse il più bello di tutti, un cabaret che si chiama Dracula’s Daughter, in Castro Street.»

Scoppiai a ridere. Non riuscivo a trattenermi e sapevo che stava per ridere anche lui.

«E dove sono i nomi di Intervista col Vampiro?» chiesi con simulata indignazione.

«Verboten», disse lui inarcando leggermente le sopracciglia. «Non sono fittizi. Sono reali. Ma posso dirti che in Castro Street stanno guardando i tuoi videoclip. Lo chiedono i clienti mortali. Brindano in tuo onore con i Bloody Mary alla vodka. La Danza degli Innocenti fa tremare i muri.»

Stava per arrivare un attacco di risate. Tentai di fermarlo. Scossi la testa.

«Ma hai causato una specie di rivoluzione anche nel linguaggio», continuò lui con lo stesso tono ironicamente serio.

«Cosa vorresti dire?»

«Opera Tenebrosa, Dono Tenebroso, Strada del Diavolo… adesso tutti usano questi termini, i novizi più rozzi che non si erano mai neppure considerati vampiri. Imitano il libro, sebbene lo condannino completamente. Si sovraccaricano di gioielli egizi. Il velluto nero è ritornato di gran moda.»

«Troppo bello», dissi io. «Ma quei posti… come sono?»

«Sono pieni di armamentari vampireschi», disse lui. «Manifesti di film dei vampiri alle pareti, e i film vengono proiettati di continuo sugli schermi. I mortali che li frequentano sono un assortimento sensazionale… giovincelli punk, artisti truccati con mantelli neri e zanne di plastica bianca. Non ci notano. Spesso, in confronto a loro, siamo scialbi. E nelle luci fioche è come se fossimo invisibili, tra il velluto e i gioielli egizi. Naturalmente, nessuno succhia il sangue dei clienti mortali. Andiamo nei bar dei vampiri in cerca d’informazioni; e quei bar sono i posti più sicuri di tutta la Cristianità, per i mortali. In un bar dei vampiri non si può uccidere.»

«Mi meraviglia che qualcuno non ci avesse pensato prima», dissi.

«Ci avevano pensato», disse lui. «A Parigi c’era il Teatro dei Vampiri.»

«Certo», ammisi. Lui continuò:

«Un mese fa, attraverso la Vampire Connection è arrivata la notizia che eri tornato. Era una notizia già vecchia. Dicevano che andavi a caccia a New Orleans, e poi avevano scoperto che cosa intendevi fare. Avevano le copie-pilota della tua autobiografia. E non si finiva mai di parlare dei video».

«E perché non li ho visti a New Orleans?» domandai.

«Perché da mezzo secolo New Orleans è territorio di Armand. Nessuno osa andare a caccia a New Orleans. L’hanno saputo tramite fonti mortali, a Los Angeles e a New York.»

«Non ho visto Armand a New Orleans», dissi io.

«Lo so», rispose. Sembrò turbato e confuso per un momento.

Provai una lieve stretta al cuore.

«Nessuno sa dove sia Armand», disse lui, con voce un po’ spenta. «Ma quando era là, uccideva i giovani. Gli avevano lasciato New Orleans. Dicono che molti degli antichi lo fanno… uccidono i giovani. Lo dicono di me, ma non è vero. Mi aggiro per San Francisco come uno spettro. Non dò fastidio a nessuno, se non alle mie sventurate vittime mortali.»

Tutto questo non mi sorprendeva molto.

«Siamo troppi», disse ancora. «Siamo sempre stati troppi. E ci sono molte guerre. Una congrega, in ogni data città, è solo un mezzo con il quale tre o più esseri potenti si accordano per non annientarsi a vicenda e per spartirsi il territorio secondo le regole.»

«Le regole, sempre le regole», dissi.

«Ora sono diverse e più rigorose. Non si deve assolutamente lasciare in giro traccia dell’uccisione. Non deve restare un solo cadavere che possa servire ai mortali per le indagini.»

«Naturalmente.»

«E non bisogna assolutamente esporsi, nel mondo delle telefoto e degli zoom, dei video a blocco d’immagine… non si devono correre rischi che possano portare alla cattura, all’arresto e al controllo scientifico da parte del mondo dei mortali.»

Annuii. Ma mi batteva il cuore. Amavo essere il fuorilegge, colui che aveva già infranto ogni legge. Dunque imitavano il mio libro, no? Oh, era già incominciato: gli ingranaggi si erano messi in moto.

«Lestat, tu credi di capire», disse lui pazientemente. «Ma è così? Lascia che il mondo abbia un minuscolo frammento dei nostri tessuti organici da esaminare al microscopio, e non vi saranno più dibattiti sulle leggende e le superstizioni. Ci sarà la prova.»

«Non sono d’accordo con te, Louis», replicai. «Non è tanto semplice.»

«Hanno i mezzi per identificarci e classificarci, per scatenare contro di noi la razza umana.»

«No, Louis. Gli scienziati di questi tempi sono stregoni perennemente in guerra. Litigano per le questioni più elementari. Dovresti mettere quei tessuti sovrannaturali sotto ogni microscopio del mondo, e anche allora il pubblico non ne crederebbe una parola.»

Rifletté per un momento.

«Allora, una cattura», disse. «Un esemplare vivente nelle loro mani.»

«Sarebbe inutile anche questo», dissi. «E come potrebbero tenermi prigioniero?»

Ma era troppo affascinante… l’inseguimento, l’intrigo, la possibile cattura e la fuga. Mi piaceva.

Ora lui sorrideva in modo strano, pieno di disapprovazione e di gioia.

«Sei più pazzo di quanto lo sia mai stato», disse sottovoce. «Più pazzo di quando te ne andavi in giro per New Órleans e spaventavi volutamente i mortali.»

Risi. Ma poi m’interruppi. Non avevamo molto tempo prima del mattino. E avrei potuto ridere lungo tutto il percorso fino a San Francisco l’indomani sera.

«Louis, ho considerato la situazione da ogni punto di vista», dissi. «Scatenare una vera guerra con i mortali sarà molto più difficile di quanto tu creda…»

«… E sei assolutamente deciso a scatenarla, no? Vuoi che tutti, mortali e immortali, si lancino a inseguirti.»

«Perché no?» chiesi. «Facciamo in modo che incominci, e che poi cerchino di annientarci come hanno annientato gli altri loro diavoli. Che tentino di sterminarci.»

Mi guardava con quella vecchia espressione di reverenza timorosa e d’incredulità che avevo visto mille volte sul suo viso. Andavo in estasi per quell’espressione.

Ma il cielo impallidiva, le stelle sbiadivano. Ci restavano pochi momenti preziosi da trascorrere insieme, prima che spuntasse il mattino di primavera.

«Perciò hai deciso che avvenga così», disse lui, in tono più gentile.

«Louis, io voglio che accada qualcosa, che accada tutto», dissi. «Voglio che cambi tutto ciò che siamo stati. Che cosa siamo, ora, se non sanguisughe… ripugnanti, misteriosi, privi di giustificazione. L’antico alone romantico è svanito. Perciò assumiamo un nuovo significato. Desidero le luci fulgide come desidero il sangue. Aspiro alla divina visibilità. Aspiro alla guerra.»

«Il male nuovo, per usare le tue vecchie parole», disse lui. «E questa volta è il male del ventesimo secolo.»

«Appunto.» Ma ancora una volta pensai all’impulso puramente mortale, all’aspirazione vanitosa alla fama terrena, al riconoscimento. Un lieve rossore di vergogna. Sarebbe stato un piacere immenso.

«Ma perché, Lestat?» mi chiese, un po’ insospettito. «Il pericolo, il rischio? Dopotutto ce l’hai fatta. Sei tornato. Sei più forte che mai. Hai il vecchio fuoco come se non l’avessi mai perduto, e sai quanto è prezioso. Perché rischiarlo immediatamente? Hai dimenticato com’era quando avevamo il mondo tutto intorno a noi, e nessuno poteva farci male eccettuati noi stessi?»

«È un’offerta, Louis? Sei tornato da me, come dicono gli innamorati?»

I suoi occhi si oscurarono e si distolsero da me.

«Non ti sto deridendo, Louis», precisai.

«Sei tu che sei tornato da me, Lestat», disse con calma, e tornò a guardarmi. «Quando ho sentito parlottare per la prima volta di te al Dracula’s Daughter, ho provato qualcosa che pensavo fosse perduto per sempre…» S’interruppe.

Ma sapevo di cosa stava parlando. L’aveva già detto. E l’avevo compreso secoli prima, quando avevo sentito la disperazione di Armand per la fine della vecchia congrega. L’eccitazione, il desiderio di continuare per noi erano cose inestimabili. Una ragione di più per il concerto rock, la continuazione e la stessa guerra.

«Lestat, non andare in scena domani sera», disse. «Lascia che siano il video e il libro a fare ciò che vuoi tu. Ma proteggiti. Dobbiamo stare insieme e parlare. Lascia che siamo uniti in questo secolo come non è mai avvenuto in passato. E mi riferisco a tutti noi.»

«È una tentazione molto forte, mio bellissimo», dissi. «Nel secolo scorso ci sono stati momenti in cui avrei dato qualunque cosa per sentire queste parole. E staremo insieme e parleremo, tutti, e saremo uniti. Sarà splendido, meglio di quanto sia mai stato un tempo. Ma salirò sul palcoscenico. Sarò di nuovo Lelio, come non lo ero mai stato a Parigi. Sarò il Vampiro Lestat e tutti mi vedranno. Un simbolo, un fuorilegge, uno scherzo di natura… amato, disprezzato, tutto. Ti assicuro, non posso rinunciare. Non posso. E, per essere franco, non ho la minima paura.»

Mi accinsi ad affrontare la sua freddezza o la sua tristezza. E odiavo l’avvicinarsi del sole più di quanto l’avessi odiato in passato. Lui gli voltò le spalle. La luce lo feriva un poco. Ma il viso esibiva un’espressione sincera, come prima.

«Sta bene, allora», disse. «Vorrei venire con te a San Francisco. Lo vorrei moltissimo. Mi porterai con te?»

Non potei rispondere subito. L’eccitazione era tormentosa e l’amore che provavo per lui era umiliante.

«Certo, ti porterò con me», dissi.

Ci guardammo per un momento di tensione. Ora doveva andarsene. Era venuto il mattino.

«Una cosa, Louis», dissi.

«Sì?»

«Quei vestiti. Sono impossibili. Voglio dire, domani sera, come dicono nel ventesimo secolo, appendi a un chiodo quel maglione e quei calzoni.»


Il mattino appariva vuoto più che mai, dopo che Louis se ne fu andato. Per un po’ rimasi immobile a pensare al messaggio: Pericolo. Scrutai i monti lontani, i campi sconfinati. Minaccia, avvertimento… che importanza aveva? I giovani compongono i numeri telefonici. Gli antichi levano le voci sovrannaturali. Era così strano?

Ora potevo pensare soltanto a Louis, a Louis che era con me. E a ciò che sarebbe stato quando fossero venuti gli altri.

2.

Gli immensi parcheggi del Cow Palace di San Francisco traboccavano di mortali frenetici, mentre il nostro corteo procedeva oltre i cancelli, con i miei musicisti mortali nella berlina e Louis a bordo della Porsche accanto a me. Elegante e splendente nel costume del complesso con il mantello nero, sembrava appena uscito dalle pagine della sua storia mentre gli occhi verdi scrutavano con un po’ di paura gli adolescenti urlanti e i poliziotti in motocicletta che li tenevano a bada.

Tutti i posti erano esauriti da un mese, e i fan delusi volevano che la musica venisse trasmessa all’esterno per mezzo di altoparlanti, per poterla sentire. A terra erano sparse innumerevoli lattine di birra. I ragazzi sedevano sui tettucci e sui cofani e sui bauli delle macchine, con le radio che trasmettevano a pieno volume Il Vampiro Lestat.

Il nostro manager correva a piedi al fianco del mio finestrino e spiegava che avremmo sistemato all’esterno altoparlanti e teleschermi. La polizia di San Francisco aveva dato il benestare per evitare disordini.

Sentivo l’ansia crescente di Louis. Un branco di giovani sfondò il cordone di polizia e venne a premere contro il finestrino dalla sua parte, mentre il corteo svoltava bruscamente e avanzava verso l’orrendo edificio a forma di tubo.

Ero affascinato da quanto stava accadendo. L’irrequietezza che avevo dentro stava per giungere al culmine. Più volte i fan circondavano la macchina prima di venire respinti; e incominciavo a rendermi conto di aver sottovalutato quell’esperienza.

Gli spettacoli rock filmati che avevo visto non mi avevano preparato alla cruda elettricità che già mi investiva, il modo in cui la musica già vibrava nella mia testa e la rapidità con cui svaporava la vergogna per la mia vanità mortale.

Entrare nella sala fu un problema. Tra due file di guardie, corremmo nella zona degli artisti, protetta da un servizio di sicurezza. Tough Cookie mi stava aggrappata e Alex spingeva Larry davanti a sé.

I fan cercavano di strappare i capelli e i manti. Attirai a me Louis e lo portai con noi.

E poi, nei camerini, lo sentii per la prima volta… il suono bestiale della folla… quindicimila anime che cantavano e urlavano sotto un unico tetto.

No, non tenevo sotto controllo la gioia ardente che mi faceva rabbrividire. Quando mi era mai accaduto di provare quella sensazione che era quasi ilarità?

Andai a sbirciare il pubblico dell’auditorium. C’erano mortali sui due lati del lungo ovale, su fino al soffitto. E, nell’immenso centro aperto, una folla di migliaia di giovani che ballavano, si scambiavano carezze, si spintonavano nella penombra fumosa e cercavano di avvicinarsi al palcoscenico. Gli odori dell’hashish, della birra e del sangue umano vorticavano nelle correnti della ventilazione.

I tecnici gridavano che eravamo pronti. Il trucco era stato ritoccato, i mantelli di velluto nero erano stati spolverati, le cravatte nere assestate. Non era il caso di far attendere ancora la folla.

Fu dato l’ordine di spegnere le luci. Un grande urlo disumano si levò nell’oscurità, salì lungo le pareti. Lo sentivo nel pavimento sotto di me. Divenne più forte quando uno stridente ronzio elettronico annunciò il collegamento delle «apparecchiature».

La vibrazione mi passò nelle tempie, e fu come se mi venisse rimosso uno strato di pelle. Strinsi il braccio di Louis, gli diedi un lungo bacio, e poi sentii che mi lasciava andare.

Al di là del sipario gli spettatori fecero scattare gli accendini e migliaia e migliaia di fìammelle tremolarono nel buio. Risuonarono applausi ritmici che poi si smorzarono, e il frastuono aumentò e diminuì, lacerato da urla improvvise. Mi girava la testa.

Eppure pensavo al teatro di Renaud, tanto tempo prima. Lo vedevo. Ma l’auditorio sembrava il Colosseo romano. La realizzazione dei nastri, dei video… era stato un lavoro così controllato, così freddo. Non mi aveva fatto presagire tutto questo.

Il tecnico diede il segnale, e poi balzammo oltre il sipario. I mortali brancolavano un po’, perché non vedevano niente mentre io mi muovevo senza fatica tra cavi e fili.

Arrivai al proscenio, sopra le teste della folla urlante. Alex era alla sezione ritmica, Tough Cookie aveva in mano la piatta, luccicante chitarra elettrica, Larry era all’enorme tastiera circolare del sintetizzatore. Mi guardai intorno e alzai gli occhi verso i giganteschi teleschermi che avrebbero ingrandito le nostre immagini per offrirle a tutti i presenti. Poi li riabbassai sul mare di giovani che urlavano.

Ondate di rumore ci investirono salendo dall’oscurità. Sentivo l’odore del caldo e del sangue.

Poi si accese la batteria di riflettori. Raggi violenti d’argento, azzurro e rosso s’incrociarono, ci avvolsero, e le urla raggiunsero vertici incredibili. Tutti gli spettatori erano in piedi.

Sentivo la luce strisciare sulla mia pelle bianca, esplodere nei miei capelli biondi. Mi guardai intorno e vidi i miei mortali splendenti e già frenetici mentre si appollaiavano tra i fili e le impalcature argentee. Il sudore mi sgorgò dalla fronte quando vidi tutt’intorno i pugni levati in segno di saluto. E nella sala c’erano moltissimi giovani con i costumi da vampiro, le facce lucide di sangue artificiale. Alcuni portavano parrucche bionde, altri avevano cerchi neri dipinti intorno agli occhi, che davano loro un aspetto ancora più innocente e terribile. Fischi e sibili e grida rauche sovrastavano talvolta il frastuono generale.

No, non era come realizzare i video. Non era come cantare nelle sale dello studio con aria condizionata e pareti rivestite di sughero. Era un’esperienza umana resa vampiresca, come era vampiresca la musica, come le immagini del video erano le immagini dell’estasi del sangue. Rabbrividivo per l’esaltazione, e il sudore rosso mi colava sulla faccia.

I riflettori sciabolarono sul pubblico, lasciandoci immersi in un crepuscolo mercuriale, e dovunque si posava la luce gli spettatori andavano in convulsioni e raddoppiavano le grida.

Che cos’era quel suono? Rivelava l’uomo trasformato in folla… le orde che circondavano la ghigliottina, gli antichi romani che chiedevano il sangue dei cristiani. E i celti radunati nel bosco sacro in attesa di Marius divenuto dio. Vedevo il bosco come l’avevo visto quando Marius mi aveva raccontato la sua storia: le torce erano più livide di quei raggi colorati? Gli orrendi giganti di vimini erano più grandi delle scale d’acciaio che sostenevano le file degli altoparlanti e i riflettori incandescenti intorno a noi?

Ma qui non c’era violenza, non c’era morte… solo l’esuberanza infantile che scaturiva dalle bocche dei giovani e dai corpi giovani, un’energia concentrata e contenuta con la stessa naturalezza con cui si scatenava.

Un’altra zaffata di hashish dalle prime file. Motociclisti con i capelli lunghi, tutti vestiti di pelle, con bracciali di cuoio borchiato, che battevano le mani sopra la testa… sembravano fantasmi dei celti, con le chiome barbariche sulle spalle. E da tutti gli angoli di quel luogo pieno di fumo saliva un’ondata priva di inibizioni di qualche cosa che sembrava amore.

Le luci lampeggiavano e il movimento della folla appariva frammentato, come se avvenisse a scatti e sussulti.

Cantilenavano all’unisono, e il volume continuava a crescere: LESTAT, LESTAT, LESTAT.

Oh, era divino. Quale mortale poteva resistere a quella condiscendenza a quella venerazione? Strinsi i bordi del mio mantello nero. Era il segnale. Scossi i capelli. E quei gesti scatenarono una corrente di nuove urla nella sala.

Le luci puntarono sul palcoscenico. Sollevai il manto come due ali di pipistrello.

Le urla si fusero in un immane ruggito compatto.

«IO SONO IL VAMPIRO LESTAT!» gridai con tutta la forza dei miei polmoni, mentre indietreggiavo dal microfono. Il suono era quasi visibile e pareva inarcarsi sull’intera lunghezza del teatro ovale. È rumore della folla salì ancora più alto e più forte, come per divorare quel suono vibrante.

«AVANTI, VOGLIO SENTIRVI! VOI MI AMATE!» gridai all’improvviso senza riflettere. Dovunque gli spettatori pestavano i piedi, sul pavimento e sui sedili.

«QUANTI DI VOI VORREBBERO ESSERE VAMPIRI?»

Il ruggito divenne un tuono. Molti spettatori cercavano di arrampicarsi sul palcoscenico, e le guardie lì tiravano indietro. Uno dei motociclisti irsuti balzava su e giù, stringendo nelle mani due lattine di birra.

Le luci divennero più vivide, come il bagliore di un’esplosione. E dagli altoparlanti e dalle apparecchiature dietro di me salì il fragore di una locomotiva col motore al massimo, come se un treno stesse correndo sull’assito.

Ogni altro suono nell’auditorium ne fu inghiottito. La folla danzava e si dondolava davanti a me. Poi venne la furia penetrante e fremente della chitarra elettrica. La sezione ritmica rombò in una cadenza di marcia, e il suono della locomotiva prodotto dal sintetizzatore salì ancor più, eruppe in un ribollire gorgogliarne, a tempo di marcia. Era venuto il momento di incominciare a cantare. Le frasi puerili guizzavano sopra l’accompagnamento:

Io sono il vampiro Lestat

siete venuti al grande sabba

ma io vi compiango.

Presi il microfono dal sostegno e corsi verso un lato del palcoscenico e poi verso l’altro, facendo svolazzare il mantello.

Non potete resistere ai re della notte

di voi non hanno pietà

e ridono della vostra paura.

Cercavano di afferrarmi le caviglie, mi lanciavano baci, le ragazze si facevano sollevare dai compagni per toccare il mio mantello che volteggiava sopra la loro testa.

Noi vi prenderemo per amore

nell’estasi vi annienteremo

e nella morte vi abbandoneremo

nessuno può dire

che non vi abbiamo avvertiti.

Tough Cookie, strimpellando furiosamente, mi si avvicinò a passo di danza vorticosa. La musica salì in un glissando stridulo, i tamburi e i piatti scrosciarono, il ribollire del sintetizzatore ingigantì di nuovo.

Sentivo la musica penetrarmi nelle ossa. Neppure nell’antico sabba romano mi aveva travolto così.

Mi lanciai nella danza, dimenando i fianchi mentre ci avvicinavamo tutti e due verso l’orlo del palcoscenico. Stavamo eseguendo le contorsioni libere ed erotiche di Pulcinella e di Arlecchino e di tutti i personaggi della vecchia commedia… improvvisamente come avevano fatto loro, e gli strumenti si distaccavano dall’esile melodia, poi la ritrovavamo mentre ci incitavamo a vicenda con la danza senza aver provato nulla, e tutto era in carattere, tutto era assolutamente nuovo.

Le guardie spingevano indietro bruscamente gli spettatori che cercavano di raggiungerci. Ma danzavamo sull’orlo della piattaforma come per provocarli, facevamo ondeggiare i capelli intorno alle facce e ci voltavamo per vederci, in un’allucinazione insostenibile, sugli schermi giganti. Il suono saliva attraverso il mio corpo mentre mi giravo verso la folla, si spostava come una bilia d’acciaio che trova un passaggio dopo l’altro nei miei fianchi e nelle mie spalle, fino a quando mi accorsi che mi stavo sollevando dal pavimento in un grande balzo lentissimo e ridiscendendo silenziosamente, con il mantello nero ondeggiante, la bocca aperta che rivelava le zanne.

Euforia. Applausi assordanti.

E dovunque vedevo le pallide gole dei mortali denudate, ragazzi e ragazze che si aprivano i colletti e tendevano il collo. Mi invitavano a cenni di andare a prenderli, m’invitavano e m’imploravano, e alcune delle ragazze piangevano.

L’odore del sangue era denso nell’aria come fumo. Carne e carne e carne. Tuttavia, dovunque c’era l’innocente, insondabile certezza che si trattava d’artificio, niente altro che artificio. Non sarebbe successo niente a nessuno. Quella splendida isteria non era pericolosa.

Quando io urlavo, credevano che fosse l’impianto sonoro. Quando spiccavo balzi, pensavano che fosse un trucco. E perché no, quando la magia li assaliva da ogni parte e potevano dimenticare la nostra presenza concreta per i giganti luminosi sui teleschermi sopra di noi? Marius, come vorrei che tu potessi vederlo! Gabrielle, dove sei? I versi vennero cantati di nuovo all’unisono dall’intero complesso. La bella voce di soprano di Tough Cookie dominava le altre. Poi fece roteare la testa in cerchio, con i capelli che ricadevano fino a toccare l’assito davanti a lei, la chitarra che sussultava lascivamente come un fallo gigantesco, e migliaia e migliaia di spettatori battevano le mani e pestavano i piedi all’unisono.

«VI DICO CHE SONO UN VAMPIRO!» urlai all’improvviso.

Estasi, delirio.

«SONO MALVAGIO! MALVAGIO!»

«Sì. Sì, Sì, Sì, Sì, Sì.»

Alzai le braccia con le mani protese verso l’alto. «VOGLIO BERE LE VOSTRE ANIME!»

Il colossale motociclista dai capelli lanosi e dalla giacca di cuoio nero indietreggiò, fece cadere quelli che gli stavano dietro, e balzò sul palcoscenico accanto a me, con i pugni sopra la testa. Le guardie del corpo accorsero per bloccarlo; ma io l’avevo già afferrato e me lo stringevo contro il petto. Lo sollevai con un braccio, gli chiusi le labbra sul collo toccandolo appena con i denti, sfiorando quel geyser di sangue pronto a zampillare verso l’alto.

Ma le guardie lo staccarono e lo ributtarono indietro come un pesce nel mare. Tough Cookie era accanto a me, e la luce guizzava sui calzoni di raso nero, la cappa volteggiante, il braccio proteso per sostenermi mentre io cercavo di liberarmi.

Ora sapevo tutto ciò che non figurava nei libri che avevo letto sui cantanti rock… quella folle unione di primitivo e scientifico, quella frenesia religiosa. Eravamo davvero nell’antico bosco sacro. Eravamo tutti con gli dèi.

E stavamo facendo saltare le valvole con la prima canzone. Passammo alla seconda, mentre la folla prendeva il ritmo, gridava le parole imparate dagli album e dai videoclip. Tough Cookie e io cantammo, battendo i piedi a tempo:

Figli dette tenebre,

ecco i figli della luce.

Figli dell’uomo,

combattete i figli della notte.

E tutti acclamarono e urlarono e gemettero, senza ascoltare le parole. Chissà se gli antichi celti si erano scatenati con grida più possenti nell’imminenza del massacro?

Ma stavolta non c’erano massacri, non c’erano offerte sacrificali.

La passione ascendeva verso le immagini del male, non verso il male. La passione abbracciava l’immagine della morte, non la morte. La sentivo come l’illuminazione scottante sui pori della pelle, nelle radici dei capelli. L’urlo amplificato di Tough Cookie iniziava una nuova strofa, i miei occhi scrutavano gli angoli più lontani, l’anfiteatro diventava un’unica, grande anima ululante.


Liberami da tutto questo, liberami dall’impulso di apprezzarlo. Liberami dal pericolo di dimenticare tutto il resto e di sacrificare ogni scopo e ogni risoluzione. Vi voglio, piccoli miei. Voglio il vostro sangue, il vostro sangue innocente. Voglio la vostra adorazione nel momento in cui affondo i denti. Sì, questo trascende ogni tentazione.


Ma in quel momento di prezioso silenzio e di vergogna, li vidi per la prima volta, i veri vampiri. Facce bianche e minute che ondeggiavano come maschere sulle orde di volti informi dei mortali, distinte come mi era apparsa la faccia di Magnus in quel piccolo teatro del boulevard, tanto tempo prima. E sapevo che là, dietro il sipario, li vedeva anche Louis. Ma le sole cose che scorgevo in loro e che sentivo emanare da loro erano lo stupore e la paura.

«TUTTI VOI VERI VAMPIRI, LÀ FUORI», gridai. «RIVELATEVI!» Ma costoro rimasero imperturbabili, mentre i mortali dipinti e in costume che stavano loro intorno sembravano impazzire.


Per tre ore ballammo e cantammo e tormentammo ininterrottamente i nostri strumenti metallici, mentre Alex e Larry e Tough Cookie si passavano il whisky, e la folla continuava ad avvicinarsi a noi fino a che la falange della polizia dovette raddoppiare e le luci si alzarono. I sedili di legno andavano a pezzi negli angoli dell’auditorium, le lattine rotolavano sul pavimento. I vampiri veri non si avvicinarono d’un solo passo. Alcuni sparirono.

Dunque le cose stavano così.

Urla ininterrotte come di quindicimila ubriachi scatenati fino ai momenti conclusivi, quando incominciò la ballata tratta dall’ultimo videoclip, L’Età dell’Innocenza.

Poi la musica si addolcì. I tamburi si smorzarono, la chitarra agonizzò e il sintetizzatore lanciò le splendide note traslucide di un clavicembalo elettrico, note così leggere e tuttavia così profuse che era come se nell’aria cadesse una pioggia d’oro.

Un riflettore dalla luce tenera inquadrò il punto dove mi trovavo, con gli abiti striati di sudore sanguigno, i capelli aggrovigliati, il mantello che mi pendeva da una spalla.

Nelle grandi fauci spalancate dell’attenzione ebbra ed estatica, alzai la voce lentamente in modo che ogni frase risuonasse chiara:

Questa è l’Età dell’Innocenza,

la vera Innocenza,

tutti i vostri demoni sono visibili,

tutti i vostri demoni sono materiali.

Chiamateli sofferenza,

chiamateli fame,

chiamateli guerra.

Non avete più bisogno del male mitico.

Cacciate i diavoli e i vampiri

con gli dèi che più non adorate.

E ricordate:

l’uomo con le zanne porta un manto.

Ciò che passa per incanto

è un incanto.

Capite ciò che vedete

quando vedete me!

Uccideteci, fratelli e sorelle,

tra noi c’è la guerra.

Capite ciò che vedete

quando vedete me.

Chiusi gli occhi nella cerchia di applausi. Che cosa applaudivano veramente? Che cosa celebravano?

La luce del giorno artificiale nell’auditorium gigantesco. I vampiri autentici stavano sparendo tra la folla. I poliziotti in uniforme erano saltati sul palcoscenico per formare una fila compatta davanti a noi. Alex mi tirò per un braccio quando passammo oltre il sipario.

«Ehi, dobbiamo scappare. Hanno circondato la maledetta berlina. E tu non ce la farai ad arrivare alla tua macchina.»

Dissi che no, dovevano andare e salire sulla berlina, e filare via subito.

E sulla mia sinistra vidi la faccia dura e bianca di uno dei vampiri veri mentre si faceva largo a spintoni tra la calca. Era vestito di pelle nera, come i motociclisti, e i serici capelli preternaturali erano un lucente casco nero.

Il sipario si stava strappando e il pubblico invadeva il palcoscenico. Louis era al mio fianco. Vidi un altro immortale sulla mia destra, un maschio magro e ghignante dai minuscoli occhi neri.

Un soffio d’aria fredda mentre uscivamo nel parcheggio e un pandemonio di mortali che si agitavano, i poliziotti che urlavano per imporre ordine, la berlina che dondolava come una barca mentre Tough Cookie e Alex e Larry venivano spinti a bordo. Una delle guardie del corpo mi aveva acceso il motore della Porsche, ma i ragazzi battevano sul tettuccio e sul cofano come se fosse un tamburo.

Dietro il vampiro dai capelli neri ne apparve un altro, una donna. Tutti e due si avvicinavano inesorabilmente. Cosa credevano di poter fare?

Il gigantesco motore della berlina ruggiva come un leone contro i ragazzi che non davano strada, e le guardie in motocicletta facevano rombare i loro motori più piccoli che vomitavano fumi e rumore tra la folla.

Adesso i tre vampiri stavano per circondare la Porsche. La faccia del maschio più alto era sfigurata dal furore. Una spinta del braccio poderoso sollevò la macchina nonostante i giovani che vi stavano aggrappati. Ancora un attimo e si sarebbe capovolta. Sentii Louis che si girava, sentii il suo pugno colpire pelle e ossa soprannaturali dietro di me, sentii una maledizione bisbigliata.

Tutti i mortali incominciarono a urlare. Un poliziotto esortava la folla a disperdersi gridando attraverso un altoparlante.

Corsi in avanti facendo cadere parecchi adolescenti e bloccai la Porsche un momento prima che si rovesciasse sul dorso come uno scarabeo. Mentre cercavo di aprire la portiera, mi sentii schiacciato dalla folla. Da un istante all’altro sarebbe scoppiato il finimondo, una fuga generale.

Fischi, urla, sirene. Louis e io venimmo spinti l’uno contro l’altro. Poi il vampiro vestito di pelle salì sull’altro lato della Porsche, e una grande falce argentea lampeggiò nella luce dei riflettori quando la fece roteare sopra la testa. Sentii il grido d’avvertimento di Louis, vidi con la coda dell’occhio il balenio di un’altra falce.

Ma uno strido ultraterreno lacerò quella confusione, e il vampiro, in un lampo accecante, esplose in fiamme. Un’altra vampata scaturì accanto a me. La falce piombò sul cemento. A qualche metro di distanza un’altra figura di vampiro arse in un guizzo crepitante.

La folla era in preda al panico. Chi si precipitava di nuovo verso l’auditorium, chi correva nel parcheggio o dove capitava, per sfuggire alle figure turbinanti che bruciavano nei loro inferni personali mentre i loro arti si dissolvevano sulle ossa. Vidi altri immortali che si allontanavano a velocità invisibile nella lenta ressa umana.

Louis era stupefatto mentre si voltava verso di me, e senza dubbio la mia espressione di stupore lo sbalordì ancora di più. Non era stato uno di noi due! Non ne avevamo il potere. Conoscevo un solo immortale capace di tanto.

Ma all’improvviso fui scagliato all’indietro dalla portiera che si apriva. Una mano bianca, piccola e delicata, si tese per tirarmi a bordo.

«Presto, tutti e due!» disse in francese una voce femminile. «Cosa aspettate, che la Chiesa lo proclami un miracolo?» Fui trascinato sul sedile prima di rendermi conto di ciò che stava accadendo, e mi tirai addosso Louis che fu costretto a scavalcarmi per passare dietro.

La Porsche partì con un sobbalzo disperdendo i mortali in fuga davanti ai fari. Fissai la figura snella che stava al volante accanto a me, con i capelli biondi sciolti sulle spalle, il cappello di feltro calcato sugli occhi.

Avrei voluto abbracciarla e soffocarla di baci, stringerla a cuore a cuore e dimenticare tutto. Al diavolo quei novizi idioti. Ma poco mancò che la Porsche si rovesciasse, quando lei svoltò bruscamente a destra, fuori dal cancello, nella strada affollata.

«Gabrielle, ferma!» gridai, posandole la mano sul braccio. «Non sei stata tu a bruciarli così…»

«No, naturalmente», rispose lei in francese, lanciandomi una rapida occhiata. Era irresistibile, mentre con due dita girava di nuovo il volante e ci lanciava in un’altra curva a novanta gradi. Eravamo diretti verso la superstrada.

«Allora ci stai portando lontano da Marius!» dissi. «Fermati.»

«Lascia che pensi lui a far esplodere il furgone che c’insegue!» ribattè Gabrielle. «Poi mi fermerò.» Premeva l’acceleratore al massimo, e teneva gli occhi fissi sulla strada, le mani strette sul volante fasciato di pelle.

Mi voltai a guardare, oltre la spalla di Louis, un veicolo mostruoso che si avvicinava a velocità sorprendente… sembrava un gigantesco carro funebre, nero e ingombrante, con una quantità di denti cromati sul muso tozzo, e quattro vampiri che ghignavano dietro il parabrezza azzurrato.

«Non possiamo districarci in mezzo a questo traffico per distanziarli!» dissi. «Torna indietro. Torna all’auditorium. Gabrielle, torna indietro!»

Ma lei proseguì, serpeggiando all’impazzata tra le macchine e costringendone molte a portarsi sul bordo della strada.

Il furgone stava riducendo le distanze.

«È una macchina da guerra, ecco che cos’è», disse Louis. «L’hanno attrezzata con un paraurti di ferro. Cercheranno di speronarci, quei mostriciattoli.»

Oh, avevo sbagliato. Li avevo sottovalutati. Avevo calcolato le mie risorse nell’era moderna, ma non le loro.

E ci stavamo allontanando sempre di più dall’unico immortale che poteva farli esplodere. Bene, mi sarei occupato di loro con molto piacere. Tanto per incominciare gli avrei mandato a pezzi il parabrezza, e poi gli avrei strappato le teste, a uno a uno. Aprii il finestrino, mi sporsi a metà nel vento che mi agitava i capelli e fissai le loro facce bianche.

Mentre sfrecciavamo sulla rampa della superstrada, quasi ci raggiungevano. Bene. Ancora un po’ più vicino, e sarei scattato. Ma la Porsche stava per fermarsi. Gabrielle non riusciva a trovare un varco tra le altre macchine.

«Attento, sta arrivando!» urlò.

«Un corno!» gridai io. Ancora un attimo e sarei balzato dal tettuccio per piombare su di loro come un ariete.

Ma non ne ebbi il tempo. Ci avevano urtati con tutta la loro forza; e io volai, volai oltre il bordo della superstrada mentre la Porsche schizzava in aria.

Vidi Gabrielle saltare dalla portiera prima ancora che la macchina toccasse terra. E io e lei rotolammo sul pendio erboso mentre l’auto si capovolgeva ed esplodeva con un fragore assordante.

«Louis!» gridai. Corsi verso il rogo. Mi sarei buttato fra le fiamme con lui. Ma il vetro del lunotto posteriore andò in frantumi, e lui ne balzò fuori. Atterrò sulla banchina nell’attimo in cui lo raggiungevo. Usai il mantello per soffocare le fìammelle sui suoi indumenti, Gabrielle si tolse la giacca per fare altrettanto.

Il furgone s’era fermato accanto alla ringhiera della superstrada, lassù in alto. Gli esseri si lanciarono come grossi insetti bianchi e atterrarono in piedi sulla scarpata.

E io ero pronto ad affrontarli.

Ma ancora una volta, mentre il primo slittava verso di noi con la falce alzata, risuonò il terribile urlo soprannaturale e si ripeté la combustione accecante. La faccia dell’essere divenne una maschera nera in un tumulto di fiamme color arancio. Il corpo si agitò in un’orrida danza convulsa.

Gli altri si voltarono e corsero sotto la superstrada.

Mi mossi per inseguirli, ma Gabrielle mi afferrò e me lo impedì. La sua forza mi irritava e mi sorprendeva.

«Fermati, maledizione!» disse. «Louis, aiutami!»

«Lasciami!» dissi furiosamente. «Ne voglio uno, almeno uno. Posso raggiungerli!»

Ma Gabrielle non mi lasciò e io non intendevo azzuffarmi con lei, Louis si era associato alle sue suppliche rabbiose e disperate.

«Lestat, non inseguirli», disse, teso. «Ne abbiamo avuto abbastanza. Dobbiamo andarcene.»

«Sta bene!» risposi, arrendendomi. E comunque era troppo tardi. Quello bruciato era spirato tra fumo e fiamme, e gli altri erano spariti nel silenzio e nel buio senza lasciar tracce.

All’improvviso la notte intorno a noi era vuota, a parte il rombo del traffico sulla superstrada. E noi tre eravamo lì, insieme, nel bagliore livido della macchina che bruciava.

Louis si ripulì stancamente il viso dalla fuliggine. Lo sparato bianco della camicia era macchiato, il lungo mantello di velluto era bruciacchiato e strappato.

E c’era Gabrielle, esile come tanto tempo prima, un ragazzo impolverato e lacero con la sahariana cachi un po’ lisa e i calzoni, e il feltro calcato di traverso sulla testa bellissima.

Nella cacofonia dei rumori della città sentimmo avvicinarsi l’ululato delle sirene.

Tuttavia restammo immobili, tutti e tre, ad attendere e a scambiarci occhiate. E sapevo che tutti stavamo cercando Marius. Senza dubbio era Marius. Doveva essere lui. Ed era con noi, non contro di noi. Ora ci avrebbe risposto.

Dissi il suo nome, a voce alta. Scrutai nel buio sotto la superstrada e fra le innumerevoli case che affollavano i pendii circostanti.

Ma sentii soltanto le sirene che diventavano più forti e il brusio delle voci umane, mentre i mortali incominciavano a salire dal viale sottostante.

Vidi la paura sul volto di Gabrielle. Tesi le braccia, mi avviai verso di lei a dispetto della confusione tremenda, dei mortali che si avvicinavano e di tutti i veicoli che si erano fermati lassù in alto, sulla superstrada.

Il suo abbraccio fu improvviso, caldo. Ma poi mi fece segno di affrettarmi.

«Siamo in pericolo! Siamo tutti in pericolo», bisbigliò. «Un pericolo terribile. Vieni!»

3.

Erano le cinque del mattino e io ero solo accanto alla porta a vetri del ranch di Carmel Valley. Gabrielle e Louis erano andati insieme tra le colline per cercare un luogo dove riposare.

Una telefonata fatta a nord mi aveva informato che i miei musicisti mortali erano al sicuro nel nuovo nascondiglio di Sonoma, e stavano festeggiando come pazzi dietro la protezione delle recinzioni elettrificate. In quanto alla polizia e alla stampa e a tutte le loro domande inevitabili, bene, avrebbero dovuto aspettare.

Adesso attendevo da solo la luce del mattino come avevo sempre fatto e mi domandavo perché Marius non si era mostrato, perché ci aveva salvati e poi era svanito senza una parola.


«Supponiamo che non fosse Marius», aveva detto ansiosamente Gabrielle, mentre camminava avanti e indietro. «Ti dico che ho avvertito un senso schiacciante di minaccia. Ho sentito il pericolo per noi come per loro. L’ho sentito fuori dell’auditorium quando siamo partiti. L’ho sentito quando eravamo vicino alla macchina che bruciava. C’era qualcosa. Non era Marius, ne sono convinta…»

«Aveva qualcosa di barbarico», aveva detto Louis. «Quasi, ma non esattamente…»

«Sì, quasi selvaggio», aveva risposto Gabrielle lanciandogli un’occhiata. «E, anche se fosse stato Marius, cosa ti fa pensare che non ti abbia salvato solo per potersi vendicare a modo suo?»

«No», avevo detto con una risata sommessa. «Marius non vuole la vendetta, altrimenti se la sarebbe già presa. Lo so.»

Ma mi emozionava troppo guardarla… il suo passo, i suoi gesti. E i lisi indumenti da safari. Dopo duecento anni era ancora l’esploratrice intrepida. Si mise a cavalcioni della sedia come un cowboy, quando sedette, e appoggiò il mento sulle mani, sopra la spalliera.

Avevamo tante cose da dirci, e io ero troppo felice per avere paura.

E poi era orribile avere paura, perché adesso mi rendevo conto di aver commesso un altro grave errore di calcolo. L’avevo compreso per la prima volta quando la Porsche era esplosa con Louis all’interno. Quella mia piccola guerra avrebbe messo in pericolo tutti coloro che amavo. Ero stato sciocco a pensare di poter attirare su di me soltanto tutto il veleno.

Dovevamo parlare. Dovevamo essere astuti. Dovevamo essere molto prudenti.

Ma per il momento eravamo al sicuro, le avevo detto. Lei e Louis non sentivano la minaccia, lì: non ci aveva seguiti fin nella valle. E io non l’avevo mai avvertita. E i nostri giovani, stupidi nemici immortali si erano dispersi, convinti che avessimo il potere di incenerirli a volontà.

«Sai, ho immaginato il nostro incontro mille e mille volte», aveva detto Gabrielle. «Ma non l’ho mai immaginato così.»

«Io penso che sia andata splendidamente», aveva detto. «E non credere neppure per un momento che non avrei potuto tirarci fuori dai guai. Stavo per strangolare quello con la falce e buttarlo oltre l’auditorium. E ho visto l’altro che si avvicinava. Avrei potuto spezzarlo in due. Una delle cose che mi dispiacciono, in quel che è successo, è che non ho avuto la possibilità…»

«Monsieur, sei un diavolo», aveva detto Gabrielle. «Sei impossibile. Sei… come ti aveva chiamato Marius…, il più dannato degli esseri. Sono perfettamente d’accordo.»

Avevo riso, felice. Che dolce adulazione, adorabile nel francese antiquato.

E Louis era rimasto affascinato da lei, mentre stava nell’ombra e la guardava, reticente e pensoso come sempre. Era di nuovo immacolato, come se fossimo appena usciti dall’ultimo atto della Traviata per guardare i mortali che bevevano champagne ai tavoli dei caffè mentre passavano sferragliando le carrozze eleganti.

Avevo sentito che s’era formata la nuova congrega, un’energia magnifica, la negazione della realtà umana, noi tre insieme contro tutte le tribù e tutti i mondi. E un profondo senso di sicurezza, di slancio inarrestabile… come potevo spiegarglielo?

«Madre, non preoccuparti più», avevo detto, sperando di sistemare tutto e di creare un momento di pura serenità. «È inutile. Un essere abbastanza potente da bruciare i nemici può trovarci quando vuole e fare ciò che vuole.»

«E questo dovrebbe impedire che io mi preoccupi?» aveva chiesto Gabrielle.

Avevo visto Louis scuotere la testa.

«Io non ho i tuoi poteri», aveva detto. «Tuttavia sento questa… questa cosa. E ti assicuro che è straniera, assolutamente selvaggia… non so trovare una parola più adatta.»

«Ah, hai di nuovo colpito nel segno», era intervenuta Gabrielle. «È completamente straniera, come se venisse da un essere così distante e diverso…»

«E il tuo Marius è troppo civilizzato», aveva insistito Louis. «Troppo farcito di filosofia. Perciò tu sai che non vuole vendetta.»

«Straniera? Selvaggia?» Li avevo guardati entrambi. «Perché io non ho sentito questa minaccia?»

«Mon Dieu, poteva essere qualunque cosa», aveva detto Gabrielle. «La tua musica potrebbe svegliare i morti.»


Avevo pensato al messaggio enigmatico di quella notte, Lestat! Pericolo!… Ma l’alba era troppo vicina perché ne parlassi agli altri due. E non spiegava nulla. Era solo un altro frammento del rompicapo, e forse non ne faceva neppure parte.


Adesso se n’erano andati insieme, e io ero solo davanti alla porta a vetri e guardavo il barlume di luce che diventava sempre più vivo sopra i monti di Santa Lucia, e pensavo.

«Dove sei, Marius? Perché diavolo non ti sei rivelato?» Poteva essere tutto vero ciò che aveva detto Gabrielle, «È un tuo gioco?»

Ed era un gioco, per me, il fatto che non lo chiamassi veramente, che non levassi la mia voce segreta con tutte le forze, come due secoli prima mi aveva detto che avrei potuto fare?

In tutte le mie lotte era diventata una questione d’orgoglio, per me, non chiamarlo… Ma ormai, cosa contava l’orgoglio?

Forse Marius aveva bisogno che lo chiamassi. Forse lo esigeva. Tutta l’amarezza e l’ostinazione di un tempo mi avevano abbandonato. Perché non fare almeno un tentativo?

Chiusi gli occhi e feci ciò che non avevo fatto da quelle notti del secolo decimottavo, quando gli avevo parlato a voce alta per le vie del Cairo e di Roma. Chiamai in silenzio. E sentii il grido senza voce levarsi da me e allontanarsi nell’oblio. Quasi lo sentivo attraversare il mondo delle proporzioni visibili, lo sentivo diventare sempre più fievole e consumarsi.

E per una frazione di secondo riapparve il luogo lontano e irriconoscibile che avevo intravvisto quella notte. Neve, distese interminabili di neve e una specie di abitazione di pietra con le finestre incrostate di ghiaccio. E su un alto promontorio un bizzarro apparato moderno, un grande disco di metallo grigio che girava sul proprio asse per attirare a sé le onde invisibili che solcano i cieli terrestri.

Un’antenna televisiva! Si protendeva da quel deserto di neve verso il satellite… ecco! E il vetro rotto sul pavimento era il vetro di un teleschermo. Lo vedevo. Una panca di pietra… uno schermo. Rumore.

Una dissolvenza.

MARIUS!

Pencolo, Lestat. Siamo tutti in pericolo. Lei ha… Non posso. Ghiaccio. Sepolto nel ghiaccio. Una visione del vetro infranto su un pavimento di pietra, la panca vuota, il clangore e le vibrazioni del Vampiro Lestat che uscivano dagli altoparlanti. Lei… Lestat, aiutami! Tutti noi… in pericolo. Lei…

Silenzio. Il contatto s’era spezzato.

MARIUS!

Qualcosa, ma troppo debole. Nonostante tutta la sua intensità, era troppo debole.

MARIUS! Stavo appoggiato alla finestra e guardavo la luce del mattino che diventava sempre più viva, e i miei occhi lacrimavano, i miei polpastrelli quasi bruciavano sul vetro caldo.

RISPONDIMI, È AKASHA? VUOI DIRMI CHE È AKASHA, CHE È LEI, È STATA LEI?

Ma il sole spuntava sopra le montagne. I raggi letali si riversavano nella valle, dilagavano.

Corsi fuori casa, attraverso il campo in direzione delle colline, con il braccio alzato per ripararmi gli occhi.

E dopo pochi attimi raggiunsi la mia cripta sotterranea, scostai la pietra e discesi i gradini rozzamente intagliati. Ancora una svolta e mi trovai nell’oscurità fredda e protetta e nell’odore di terra, e mi stesi sul pavimento di fango della piccola camera, con il cuore che martellava nel petto e un tremito che mi scuoteva le membra. Akasha! La tua musica potrebbe svegliare i morti.

Il televisore nella camera, naturalmente. Marius gliel’aveva dato, e le trasmissioni giungevano via satellite. Avevano visto i video! Lo sapevo, lo sapevo con certezza assoluta, come se me l’avesse spiegato fino all’ultimo dettaglio. Aveva portato il televisore nel loro sacrario, come molti anni prima gli aveva portato i film.

E lei si era svegliata, si era levata. La tua musica potrebbe svegliare i morti. L’avevo fatto di nuovo.

Oh, se avessi potuto tenere aperti gli occhi, se avessi potuto pensare, se il sole non fosse sorto.

Lei era stata là, a San Francisco, così vicina a noi, e aveva bruciato i nostri nemici. Straniera, assolutamente straniera, sì.

Ma non incivile, no. Non selvaggia. Non lo era. S’era appena ridestata, la mia dea, come una magnifica farfalla uscita dal bozzolo. E cos’era il mondo per lei? Com’era venuta a noi? Qual era lo stato della sua mente? Pericolo per tutti noi. No, non lo credevo. Aveva annientato i nostri nemici. Era venuta a noi.

Ma non riuscivo più a resistere alla sonnolenza e alla pesantezza. Quella sensazione scacciava lo stupore e l’eccitazione. Il mio corpo diventava inerte, immobile sulla terra.

All’improvviso sentii una mano stringere la mia.

Era fredda come il marmo, e altrettanto forte.

Aprii gli occhi nell’oscurità. La mano strinse di più. Una grande massa di capelli serici mi sfiorò il viso. Un braccio freddo si mosse sul mio petto.

Oh, ti prego, mia adorata, mia bellissima, ti prego, avrei voluto dire. Ma i miei occhi si chiudevano. Le mie labbra non si mossero. Stavo perdendo conoscenza. Lassù era sorto il sole.


FINE
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