Questo libro è dedicato con affetto a Stan Rice, Karen O’ Brien, e Allen Daviou
Sono il vampiro Lestat. Sono immortale. Più o meno. La luce del sole, il calore continuativo d’un fuoco intenso… ecco, potrebbero annientarmi. O forse no.
Sono alto un metro e ottantasei, una statura piuttosto ragguardevole intorno al 1780, quando ero un giovane mortale. Adesso non sono tanto malaccio. Ho i capelli biondi molto folti che arrivano fin quasi alle spalle, e piuttosto ricci, che sembrano bianchi sotto la luce fluorescente. Ho gli occhi grigi, ma assorbono facilmente l’azzurro e il viola dalle superfici che ho intorno. Ho un naso piuttosto corto e sottile, una bocca ben modellata anche se un po’ troppo grande per il mio volto. Può sembrare maligna o estremamente generosa, la mia bocca. E appare sempre sensuale. Ma i sentimenti e le reazioni si rispecchiano davvero sempre in tutta la mia espressione. Il mio viso è molto animato.
La mia natura di vampiro si rivela in una carnagione bianca e lucida, che è necessario rendere opaca con la cipria davanti alle telecamere e agli obiettivi in genere.
E se ho sete di sangue divento orrendo… con la pelle incartapecorita e le vene che spiccano come corde sulle ossa. Ma ormai non permetto più che succeda. E l’unico indizio del fatto che non sono umano è costituito dalle mie unghie. È così per tutti i vampiri. Le nostre unghie sembrano di vetro. E certuni se ne accorgono anche quando non notano niente altro.
Ora sono ciò che l’America chiama una superstar del rock. Il mio primo album ha venduto quattro milioni di copie. Sto per andare a San Francisco per la prima tappa di una tournée nazionale di concerti che porterà il mio complesso dalla costa del Pacifico a quella dell’Atlantico. La MTV, la televisione rock via cavo, da due settimane trasmette notte e giorno i miei videoclip, che vengono mandati in onda anche in Inghilterra nel programma Top of the Pops, e sul continente, e con ogni probabilità anche in alcune parti dell’Asia e in Giappone. Anche le videocassette dell’intera serie dei clip si vendono in tutto il mondo.
Sono perfino autore di un’autobiografia che è stata pubblicata la settimana scorsa.
A proposito del mio inglese, la lingua che uso nell’autobiografia, l’ho imparato grazie a un battelliere che scendeva il Mississippi fino a New Orleans circa duecento anni fa. Ho imparato di più, in seguito, dagli scrittori di lingua inglese, da Shakespeare a Mark Twain e a H. Rider Haggard, che ho letto con il passare dei decenni. L’ultima trasfusione l’ho ricevuta dai racconti polizieschi dell’inizio del ventesimo secolo, pubblicati dalla rivista Black Mask. Le avventure di Sam, Spade, l’investigatore creato da Dashiell Hammett, sono state le ultime che ho letto prima di darmi, per così dire, alla latitanza.
E questo accadde a New Orleans nel 1929.
Quando scrivo tendo a usare un vocabolario che per me sarebbe stato naturale nel secolo decimottavo, in frasi ispirate dagli autori che ho letto. Ma, nonostante il mio accento francese, il mio modo di parlare è una via di mezzo tra la lingua del battelliere e quella dell’investigatore Sam Spade. Perciò spero che mi perdonerete se il mio stile è incoerente. E così ogni tanto rovino l’atmosfera di una scena settecentesca.
L’anno scorso sono riemerso nel ventesimo secolo.
A portarmi qui sono state due cose.
Innanzi tutto le informazioni ricevute dalle voci amplificate che avevano incominciato a diffondersi rumorosamente nell’aria più o meno all’epoca in cui mi ero steso a dormire.
Mi riferisco alle voci delle radio, ovviamente, e dei fonografi e dei televisori apparsi più tardi. Sentivo le radio delle macchine che passavano per le strade del vecchio Garden District, vicino al posto dove mi trovavo. Sentivo i fonografi e i televisori accesi nelle case intorno alla mia.
Ora, quando un vampiro si dà alla latitanza, come diciamo noi, quando smette di bere sangue e resta sepolto nella terra, presto diventa troppo debole per risuscitare, e piomba in uno stato onirico.
In quello stato assorbivo torbidamente le voci, le circondavo di immagini nate per reazione, come fanno nel sonno i mortali. Ma a un certo punto, negli ultimi cinquantacinque anni, incominciai a «ricordare» ciò che ascoltavo, a seguire i programmi d’evasione, ad ascoltare i notiziari e le parole e le musiche delle canzoni.
E a poco a poco incominciai a comprendere la portata dei cambiamenti subiti dal mondo. Incominciai ad attendere informazioni specifiche su guerre e invenzioni e su certi nuovi modelli del linguaggio.
Poi cominciai ad acquisire coscienza di me. Mi accorsi che non sognavo più. Pensavo a ciò che avevo udito. Ero sveglio. Giacevo sottoterra ed ero assetato di sangue vivo. Incominciai a dirmi che forse tutte le mie vecchie ferite si erano rimarginate. Che forse avevo ritrovato la forza. Che forse quella forza s’era addirittura accresciuta, come sarebbe accaduto con l’andar del tempo se non fossi mai stato ferito. E desideravo accertarlo.
Cominciai a pensare incessantemente di bere sangue umano.
La seconda cosa che mi ridestò completamente, anzi il fattore scatenante, fu la presenza vicino a me d’un complesso di giovani cantanti rock che si chiamava Satan’s Night Out.
Si erano stabiliti in una casa nella Sesta Strada, a meno di un isolato dal luogo dove dormivo sotto casa mia in Prytania, vicino al Cimitero Lafayette, e avevano cominciato a provare la loro musica rock in soffitta, intorno al 1984.
Sentivo il piagnucolio delle chitarre elettriche e il loro canto convulso. Valeva quanto le canzoni che ascoltavo alla radio e allo stereo, anzi era più melodico dì tanti altri. Era carico di sentimento nonostante il martellare della sezione ritmica. La tastiera elettrica sembrava un clavicembalo.
Coglievo immagini dai pensieri dei suonatori: mi dicevano che aspetto avevano e che cosa vedevano quando si guardavano tra loro o allo specchio. Erano giovani mortali snelli, scattanti e adorabili, androgini e un po’ selvaggi nel modo di vestire e nei movimenti: due maschi e una femmina.
Quando suonavano, soffocavano quasi tutte le altre voci amplificate che rintronavano intorno a me. Ma non mi dispiaceva.
Volevo alzarmi e unirmi al complesso Satan’s Night Out. Volevo cantare e ballare.
Ma non posso dire che all’inizio il mio desiderio fosse motivato da grandi pensieri. Era piuttosto un impulso, abbastanza forte per richiamarmi dalla sepoltura.
Rimasi incantato dal mondo della musica rock… i cantanti potevano urlare parlando del bene e del male, autoproclamarsi angeli e diavoli, e i mortali si alzavano e applaudivano. A volte sembravano incarnazioni della follia pura. Tuttavia era abbagliante, da un punto di vista tecnologico, la complessità della loro performance: era barbara e cerebrale in un modo che, pensavo, il mondo del passato non aveva mai visto.
Naturalmente quel delirio era una metafora. Nessuno di loro credeva agli angeli e ai diavoli, anche se ne assumevano la parte alla perfezione. Solo gli interpreti dell’antica commedia italiana sapevano essere altrettanto sconvolgenti e inventivi e lubrichi.
Eppure erano incredibilmente nuovi gli estremi ai quali portavano la brutalità e la sfida, e il modo in cui venivano abbracciati dal mondo, tanto dai più ricchi come dai più poveri.
E poi, c’era qualcosa di vampiresco nella musica rock. Doveva apparire sovrannaturale anche a coloro che al sovrannaturale non credevano. Alludo al fatto che l’elettricità poteva protrarre una nota all’infinito, al modo in cui era possibile sovrapporre armonia ad armonia fino a quando ti sentivi dissolvere nel suono. Era eloquente, quella musica. Il mondo non l’aveva mai posseduta in nessuna forma.
Sì, volevo avvicinarmi a loro. Volevo suonarla anch’io, e magari rendere famoso il piccolo complesso sconosciuto Satan’s Night Out. Ero pronto a riemergere.
Impiegai una settimana, più o meno. Mi nutrii del sangue fresco dei piccoli animali che vivono sottoterra, quando riuscivo a prenderli. Poi incominciai a risalire verso la superficie, dove potei chiamare i ratti. Quindi non fu troppo difficile catturare qualche felino e infine l’inevitabile vittima umana, anche se dovetti attendere a lungo per incontrarne una del tipo particolare che cercavo… un uomo che avesse ucciso altri mortali e non ne provasse rimorso.
Finalmente ne arrivò uno; passò lungo la recinzione, un giovane maschio con la barba grigia che aveva assassinato un suo simile in una località lontana, dall’altra parte del mondo. Un vero assassino. E… oh, quel primo assaggio della lotta umana e del sangue umano!
Non fu un problema rubare indumenti nelle case vicine e riprendere una parte dell’oro e dei gioielli che avevo nascosto nel Cimitero Lafayette.
Naturalmente, ogni tanto mi spaventavo. Il puzzo delle sostanze chimiche e della benzina mi dava la nausea. Il ronzio dei condizionatori d’aria e il sibilo degli aerei a reazione mi ferivano le orecchie.
Ma a partire dalla terza notte dopo la mia resurrezione, cominciai a girare per New Orleans su una grossa, rombante Harley-Davidson nera e a fare fracasso anch’io. Cercavo altri assassini di cui nutrirmi. Portavo una splendida tuta di pelle nera che avevo sottratto a una delle mie vittime e avevo nella tasca un piccolo Walkman Sony che mi riversava nella testa l’Arte della Fuga di Bach attraverso la minuscola cuffia mentre sfrecciavo di qua e di là.
Ero ridiventato il vampiro Lestat. Ero tornato in azione. New Orleans era di nuovo il mio territorio di caccia.
E la mia forza, ecco, era tre volte maggiore di quella d’un tempo. Potevo balzare dalla strada alla sommità di una casa a quattro piani. Potevo strappare le grate di ferro dalle finestre. Potevo piegare in due una moneta. Potevo sentire le voci e i pensieri degli umani, quando volevo, a diversi isolati di distanza.
Verso la fine della prima settimana mi rivolsi a una avvocatessa molto carina che aveva lo studio in un grattacielo tutto acciaio e vetro, e che mi aiutò a procurarmi un certificato di nascita perfettamente legale, la tessera della Previdenza Sociale e la patente. Una parte cospicua delle mie ricchezze stava arrivando a New Orleans dai conti numerati presso l’immortale Bank of London e la Rothschild Bank.
E soprattutto, navigavo nelle rivelazioni. Sapevo che quanto mi avevano detto del ventesimo secolo le voci amplificate era vero.
Mentre giravo per le vie di New Orleans nel 1984, ecco che cosa vedevo:
II mondo industriale buio e squallido nel quale mi ero addormentato aveva finito con l’esaurirsi da sé, e la vecchia pruderie e il conformismo borghese avevano perduto il loro potere sulla mentalità americana.
La gente era di nuovo avventurosa ed erotica come lo era stata un tempo, prima delle grandi rivoluzioni del ceto medio verso la fine del Settecento. Aveva persino l’aspetto che aveva avuto allora.
Gli uomini non portavano più l’uniforme alla Sam Spade, camicia, cravatta, abito grigio e cappello grigio. Si vestivano nuovamente di velluto e di seta e di colori vivaci, se ne avevano voglia. Non erano più costretti a tagliarsi i capelli come i soldati romani: li portavano lunghi quanto volevano.
E le donne… ah, le donne erano splendide, nude nel tepore primaverile come lo erano state all’epoca dei faraoni egizi, con le gonne succinte e le tunichette, oppure con i calzoni maschili e le camicie incollate ai corpi tutti curve. Si truccavano e si ornavano d’oro e d’argento persino per andare al supermercato. Oppure andavano a zonzo con la faccia pulita e senza gioielli… non aveva importanza. Si arricciavano i capelli come Maria Antonietta o li tagliavano cortissimi o li lasciavano sciolti e spettinati.
Forse per la prima volta nella storia erano forti e interessanti quanto gli uomini.
E quella era la gente comune americana. Non soltanto i ricchi, che hanno sempre raggiunto una certa androginia, una certa joie de vivre che in passato i rivoluzionari del ceto medio chiamavano decadentismo.
La vecchia sensualità aristocratica era patrimonio di tutti. Era indissolubile dalle promesse della rivoluzione del ceto medio, e tutti avevano diritto all’amore e al lusso e alle cose belle.
I grandi magazzini erano diventati palazzi dallo splendore orientale… merci esposte tra moquette dalle tinte delicate, musica suggestiva, luci ambrate. Nei drugstore aperti tutta la notte, le bottiglie di shampoo viola e verde brillavano come gemme sugli scintillanti ripiani di vetro. Le cameriere si recavano al lavoro al volante di automobili con i sedili in pelle. Gli scaricatori di porto tornavano a casa la sera e si facevano una nuotata nelle piscine riscaldate del giardino. Le donne delle pulizie e gli idraulici, al termine del lavoro, indossavano indumenti confezionati d’ottimo taglio.
La miseria e il sudiciume che erano stati tanto comuni nelle grandi città della terra fin dai tempi più remoti erano stati cancellati quasi completamente.
Non si vedevano gli immigrati che stramazzavano nei vicoli, uccisi dalla fame. Non c’erano slums dove dormivano otto o dieci persone per stanza. Nessuno buttava i rifiuti per le strade. I mendicanti, gli invalidi, gli orfani, i malati incurabili erano diventati così poco numerosi che non costituivano più una presenza nelle vie immacolate.
Persino gli ubriaconi e i matti che dormivano sulle panchine dei parchi e delle stazioni degli autobus mangiavano regolarmente carne e avevano radioline da ascoltare, e abiti lavati.
Ma questa era soltanto la superficie. Ero sbalordito dai mutamenti più profondi che mettevano in moto questa corrente impressionante.
Per esempio, al tempo era accaduto qualcosa di veramente magico.
Ciò che era vecchio non veniva più sostituito automaticamente dal nuovo. Al contrario, l’inglese che sentivo parlare intorno a me era lo stesso che avevo conosciuto nell’Ottocento. Era ancora usato persino il vecchio gergo. Tuttavia, sulle labbra di tutti c’erano frasi nuove e affascinanti come «ti hanno fatto il lavaggio del cervello» oppure «è così freudiano» oppure «non ci vedo una relazione».
Nel mondo dell’arte e dello spettacolo venivano «riciclati» tutti i secoli precedenti. I musicisti eseguivano Mozart non meno del jazz e della musica rock; la gente andava a vedere una sera Shakespeare e la sera dopo un nuovo film francese.
Nei giganteschi empori illuminati da luci fluorescenti potevi comprare registrazioni di madrigali medievali e ascoltarli allo stereo della macchina mentre sfrecciavi sull’autostrada a centocinquanta all’ora. Nelle librerie la poesia rinascimentale si vendeva accanto ai romanzi di Dickens e di Ernest Hemingway. I manuali sul sesso erano esposti sugli stessi banchi del Libro dei Morti egizio.
A volte la ricchezza e il lindore che mi circondavano diventavano quasi un’allucinazione. Avevo l’impressione di essere sul punto di perdere il senno.
Guardavo stupefatto le vetrine con i computer e i telefoni dalle forme e dai colori purissimi come le conchiglie più esotiche reperibili in natura. Gigantesche berline argentee navigavano per le vie strette del quartiere francese come indistruttibili mostri marini. Gli svettanti grattacieli di uffici trapassavano il cielo notturno come obelischi egizi, dominando i cadenti edifici di mattoni della vecchia Canal Street. Innumerevoli programmi televisivi riversavano un incessante flusso d’immagini in tutte le stanze d’albergo ad aria condizionata.
Ma non era una serie di allucinazioni. Era un secolo che aveva ereditato la terra in ogni senso della parola.
E una parte non trascurabile di questo miracolo imprevisto era l’innocenza curiosa di tutti costoro, in mezzo alla libertà e alla ricchezza di cui godevano. Il dio cristiano era morto come nel Settecento. E nessuna religione mitologica nuova era venuta a prendere il posto di quella vecchia.
Al contrario, le persone più semplici di quest’epoca erano guidate da una vigorosa morale laica, forte quanto le morali religiose che io avevo conosciuto. Erano gli intellettuali a far testo. Ma in tutta l’America una quantità di individui assolutamente comuni amavano appassionatamente «la pace» e «i poveri» e «il pianeta», come se fossero animati da un mistico zelo.
In quel secolo contavano di eliminare la fame. Intendevano annientare le malattie a qualunque costo. Discutevano rabbiosamente sull’esecuzione dei criminali e sugli aborti. E combattevano le minacce dell’«inquinamento ambientale» e della «guerra catastrofica» con lo stesso ardore con cui nelle epoche passate gli uomini hanno combattuto la stregoneria e l’eresia.
In quanto alla sessualità, non era più oggetto di superstizione e di paura. Le ultime sfumature religiose andavano svanendo. Perciò tutti andavano in giro seminudi, si baciavano e si abbracciavano per le strade. Adesso parlavano di etica e della responsabilità e della bellezza del corpo. Erano riusciti a tenere sotto controllo la procreazione e le malattie veneree.
Ah, il secolo ventesimo. Ah, il volgere della grande ruota. Aveva superato anche i miei sogni più audaci, questo futuro. Aveva ridicolizzato i profeti di sventura delle epoche passate.
Pensavo molto a questa morale laica priva di peccati, a questo ottimismo. Questo mondo fulgidamente illuminato dove il valore della vita umana era più grande di quanto fosse mai stato in precedenza.
Nell’ambrato crepuscolo elettrico di una grande stanza d’albergo guardavo sullo schermo davanti a me il sorprendente film di guerra intitolato Apocalypse Now. Era una sinfonia di suoni e di colori e cantava l’antica battaglia del mondo occidentale contro il male. «Dovete diventare amici dell’orrore e del terrore morale», diceva il comandante pazzo nel giardino selvaggio della Cambogia, e l’uomo occidentale rispondeva «No», come ha sempre risposto.
No. L’orrore e il terrore morale non possono mai esser giustificati. Non hanno un valore reale. Non c’è spazio per il male puro.
E ciò significa — non è forse vero? — che non c’è spazio per me.
Eccettuata, forse, l’arte che esorcizza il male, i fumetti dei vampiri, i romanzi dell’orrore, i vecchi racconti gotici… o i canti ruggenti delle rockstar che drammatizzano le battaglie contro il male combattute da ogni mortale nell’intimo del proprio essere.
Era sufficiente per indurre un mostro del Vecchio Mondo a seppellirsi di nuovo, quella sbalorditiva irrilevanza nei confronti dello schema universale delle cose, era sufficiente per indurlo a buttarsi a terra piangendo. Oppure per farlo diventare un cantante rock, a pensarci bene…
Ma dov’erano gli altri mostri del Vecchio Mondo? Me lo domandavo. Come potevano esistere altri vampiri in un mondo dove ogni morte veniva registrata da giganteschi computer e i cadaveri venivano portati in celle frigorifere? Probabilmente si nascondevano nell’ombra come insetti ripugnanti, come hanno sempre fatto, per quanto parlassero di filosofia e istituissero conventicole.
Bene, quando avessi levato la voce con il complessino chiamato Satan’s Night Out, li avrei riportati alla luce molto in fretta.
Continuavo a istruirmi. Parlavo con i mortali alle fermate degli autobus e ai distributori di benzina e nei bar eleganti. Leggevo molti libri. Mi bardavo dei luccicanti indumenti di sogno dei negozi alla moda. Portavo maglioni bianchi a collo alto, fresche sahariane, oppure raffinati blazer di velluto verde con sciarpe di cachemire. Mi incipriavo la faccia per poter passare inosservato sotto le luci chimiche dei supermercati aperti tutta la notte, dei fast-food, e delle strade piene di locali notturni, sfolgoranti come luna-park.
Imparavo. Ero innamorato.
E il mio unico problema era che scarseggiavano gli assassini di cui nutrirmi. In quel mondo brillante d’innocenza e di abbondanza, di cortesia e di gaiezza e di stomaci pieni, i tagliagole del passato e i loro pericolosi ritrovi lungo il porto erano quasi scomparsi.
Perciò dovevo lavorare per vivere. Ma ero sempre stato un cacciatore. Mi piacevano le sale da biliardo, semibuie e piene di fumo, con l’unica lampada che splendeva sopra il feltro verde mentre gli ex galeotti tatuati vi si raccoglievano intorno, e allo stesso modo mi piacevano i night-club tappezzati di raso dei grandi alberghi di cemento. E continuavo a imparare sempre di più sui miei assassini… i trafficanti di droga, i ruffiani, i teppisti che s’imbrancavano con le bande motorizzate.
Ero più che mai deciso a non bere sangue innocente.
E alla fine venne il momento di far visita ai miei vecchi vicini del complesso rock chiamato Satan’s Night Out.
Alle sei e mezzo di un afoso sabato sera suonai alla porta dello studio all’ultimo piano. I giovani, bellissimi mortali stavano sdraiati nelle loro camicie di seta iridata e nei calzoni attillati, e fumavano sigarette d’hashish e si lamentavano della loro sfortuna che li condannava a lavorare nel Sud.
Sembravano angeli biblici, con i lunghi capelli puliti e i movimenti felini: e portavano gioielli egiziani. Anche per provare si dipingevano gli occhi e la faccia.
Mi sentii sopraffare dall’eccitazione e dall’amore soltanto a guardarli, Alex e Larry e la piccola, appetitosa Tough Cookie.
E in un momento stranissimo in cui mi parve che il mondo rimanesse immobile sotto di me, dissi loro che cos’ero. Per loro la parola «vampiro» non era una novità. Nella galassia in cui splendevano, altri mille cantanti avevano portato i canini finti e il mantello nero.
Tuttavia era così strano dire apertamente ai mortali la verità proibita. In duecento anni non l’avevo mai rivelata a qualcuno che non fosse destinato a diventare uno di noi. Non lo confidavo neppure alle mie vittime prima che chiudessero gli occhi.
E adesso lo dissi chiaramente e distintamente a quelle creature giovani e belle. Dissi che volevo cantare con loro, che se mi avessero dato fiducia saremmo diventati tutti ricchi e famosi. Dissi che, su un’onda di ambizione preternaturale e spietata, li avrei portati fuori da quelle stanze, nel mondo sconfinato.
I loro occhi si velarono mentre mi guardavano. E la stanzetta di stucco e cartapesta echeggiò delle loro risate allegre.
Ero paziente. Perché non dovevo esserlo? Sapevo d’essere un demone capace d’imitare quasi tutti i suoni e i movimenti degli umani. Ma come potevo pretendere che capissero? Andai al piano elettrico e cominciai a suonare e cantare.
All’inizio imitai le canzoni rock, e poi rievocai vecchie melodie e vecchi versi, canzoni francesi sepolte nel profondo della mia anima e tuttavia mai abbandonate… e li intessei in ritmi brutali, mentre vedevo davanti a me un piccolo, affollato teatro parigino di un paio di secoli prima. Una passione pericolosa sgorgò dentro di me, minacciò il mio equilibrio. Pericolosa perché si rivelava troppo presto. Tuttavia continuai a cantare, battendo sui tasti bianchi del piano elettrico, e qualcosa si spalancò nella mia anima. E poco contava che le tenere creature mortali raccolte intorno a me non l’avrebbero mai saputo.
Mi bastava che fossero giubilanti, che amassero quella musica bizzarra e sconnessa, che gridassero e vedessero un futuro di prosperità, l’impeto che prima era loro mancato. Misero in funzione i registratori e cominciammo a cantare e suonare insieme… jamming, era la loro espressione di gergo. Lo studio era saturo dell’odore del loro sangue e delle nostre canzoni fragorose.
Ma poi accadde qualcosa che non avevo previsto neppure nei miei sogni più strani… qualcosa che fu straordinario quanto lo era stata la mia piccola rivelazione a quelle creature. Anzi, fu così sconvolgente che avrebbe potuto scacciarmi dal loro mondo e ricostringermi alla clandestinità.
Non voglio dire che sarei sprofondato di nuovo nel sonno. Ma avrei potuto allontanarmi dai Satan’s Night Out e vagare per qualche anno stordito, nel tentativo di ritrovare la lucidità.
Gli uomini, Alex, il giovane batterista esile e delicato, e il fratello Larry, più alto e biondo, riconobbero il mio nome quando dissi che era Lestat.
Non soltanto lo riconobbero, ma lo collegarono a una massa d’informazioni sul mio conto che avevano letto in un libro.
Anzi, trovarono delizioso che io non fingessi d’essere un vampiro qualunque. Oppure il conte Dracula. Erano tutti stanchi e nauseati del conte Dracula. Giudicavano meraviglioso che io fingessi d’essere il vampiro Lestat.
«Io fingo d’essere il vampiro Lestat?» chiesi.
Risero della mia esagerazione, del mio accento francese.
Li guardai, tutti, per un lungo istante, cercando di scrutare i loro pensieri, Naturalmente non mi ero aspettato che mi credessero un vampiro autentico. Ma aver letto di un vampiro inventato con un nome insolito come il mio? Come lo si poteva spiegare?
Stavo perdendo la sicurezza. E quando la perdo, i miei poteri si riducono. La stanzetta sembrava diventare ancora più piccola. E c’era qualcosa di minaccioso negli strumenti, l’antenna, i fili.
«Mostratemi il libro», dissi.
Andarono a prendere nell’altra stanza un «romanzo» tascabile che stava cadendo a pezzi. La rilegatura era andata, la copertina era strappata e le pagine erano tenute insieme da un elastico.
Provai un brivido sovrannaturale quando vidi la copertina, Intervista col vampiro. Parlava di un ragazzo mortale che convinceva uno dei non-morti a raccontare la sua storia.
Con il loro permesso andai nell’altra stanza, mi stesi sul letto e cominciai a leggere. Quando arrivai a metà, presi con me il volume e uscii. Rimasi immobile sotto un lampione con il libro, fino a quando lo finii. Poi lo riposi con cura nella tasca.
Non tornai dai tre del complesso per sette notti.
Durante gran parte di quel tempo ripresi a vagare rombando nella notte sulla mia Harley-Davidson, con le Variazioni Goldberg di Bach suonate a pieno volume. E mi domandavo: Lestat, adesso che cosa vuoi fare?
Per il resto del tempo studiavo con impegno rinnovato. Leggevo le grosse storie tascabili e i lessici della musica rock, le cronache dei suoi divi. Ascoltavo gli album e meditavo in silenzio sui videotape dei concerti. E quando la notte era deserta e silenziosa, sentivo le voci di Intervista col vampiro che cantavano per me, come se uscissero dalla tomba. Rilessi molte volte il libro. E poi, in un momento di collera riprovevole, lo feci a pezzi.
Alla fine presi una decisione.
M’incontrai con la mia giovane avvocatessa, Christine, nell’ufficio in cima al grattacielo dove c’era soltanto la luce del centro cittadino. Era incantevole, sullo sfondo della vetrata con gli edifici indistinti che formavano un panorama aspro e confuso dove ardevano mille torce.
«Non mi basta più che il mio piccolo complesso rock abbia successo», le dissi. «Dobbiamo creare una fama che porti il mio nome e la mia voce nei luoghi più remoti del mondo.»
Con calma e intelligenza, come fanno gli avvocati, mi sconsigliò di rischiare il mio patrimonio. Tuttavia, mentre insistevo con sicurezza maniacale, sentivo che si lasciava sedurre e che lentamente il suo buon senso cedeva.
«I migliori registi francesi dei video rock», dissi. «Deve chiamarli da New York e Los Angeles. Il denaro non manca. E qui può senza dubbio trovare gli studi dove faremo il lavoro. I giovani produttori discografici che poi provvedono al missaggio sonoro… anche in questo caso, cerchi i migliori. Non importa quello che spenderemo. L’importante è che sia orchestrato tutto, e che manteniamo il segreto fino al momento della rivelazione, quando i nostri album e i nostri video verranno diffusi assieme al libro che mi propongo di scrivere.»
Alla fine, l’avvocatessa aveva la testa che girava per i sogni di ricchezza e di potere. La sua penna volava mentre prendeva appunti.
E io cosa sognavo mentre le parlavo? Una ribellione senza precedenti, una sfida grandiosa e terribile ai miei simili in tutto il mondo.
«I video», dissi. «Deve trovare registi che realizzino le mie visioni. Devono essere in sequenza, devono narrare la vicenda del libro. Le canzoni, in gran parte le ho già scritte. Deve procurarsi strumenti di qualità superiore… sintetizzatori, i migliori sound systems, chitarre elettriche, violini. Agli altri dettagli penseremo poi. I costumi da vampiri, il metodo di presentazione alle stazioni televisive rock, la gestione della nostra prima comparsa in pubblico a San Francisco… tutto a suo tempo. L’importante è che adesso faccia le telefonate, si procuri le informazioni che le occorrono per incominciare.»
Non tornai dai Satan’s Nìght Out fino a quando non furono stilati i primi accordi e non ebbi le firme. Le date furono fissate, gli studi vennero presi in affitto e furono scambiate le lettere d’intesa.
Poi Christine venne con me. Avevamo una colossale berlina per i miei cari, giovani suonatori di rock, Larry, Alex e Tough Cookie. Avevamo a disposizione capitali enormi, e avevamo i documenti da firmare.
Sotto le querce sonnolente della tranquilla via di Garden District, versai per loro lo champagne nei bicchieri di cristallo.
«Al Vampiro Lestat», cantammo al chiaro di luna. Sarebbe stato il nuovo nome del complesso, del libro che avrei scritto. Tough Cookie mi abbracciò. Ci baciammo teneramente tra le risate e l’odore del vino. Ah, il profumo del sangue innocente!
E quando se ne furono andati a bordo della berlina tappezzata di velluto, mi avviai tutto solo nella notte tiepida verso St. Charles Avenue, e pensai al pericolo che incombeva sui miei piccoli amici mortali.
Non ero io a costituirlo, naturalmente. Ma quando il lungo periodo di segretezza fosse finito, sarebbero apparsi ignari e innocenti nella luce della ribalta internazionale con il loro divo sinistro e avventato. Be’, li avrei circondati di guardie del corpo e di assistenti per tutti gli scopi immaginabili. Li avrei protetti dagli immortali come meglio potevo. E se gli immortali erano ancora come nei tempi andati, non avrebbero mai rischiato una lotta volgare con una simile forza umana.
Mentre percorrevo la via affollata, avevo gli occhi coperti da occhiali a specchio. Presi il vecchio, traballante tram di St. Charles.
E tra la folla della prima sera entrai nell’elegante libreria a due piani De Ville Books, e fissai il piccolo tascabile che stava su uno scaffale, Intervista col vampiro.
Mi chiesi quanti della nostra specie avessero «notato» il libro. Non aveva importanza, per il momento, che i mortali lo considerassero un’opera di fantasia. E gli altri vampiri? Se c’è una legge che i vampiri considerano sacra, è questa: non si parla di noi ai mortali.
Non si rivelano mai agli umani i nostri segreti, a meno che s’intenda far loro il Dono Tenebroso dei nostri poteri. Non si nominano mai gli altri immortali. Non si dice mai dove potrebbero essere i loro covi.
Il mio carissimo Louis, il narratore dell’Intervista col vampiro, tutto questo l’aveva fatto. Era andato molto al di là della mia piccola rivelazione segreta ai cantanti rock. L’aveva detto a centinaia di migliaia di lettori. Era quasi come se avesse disegnato una piantina e tracciato una «X» nel punto di New Orleans dove io dormivo, anche se non era chiaro cosa ne sapesse e quali fossero le sue intenzioni.
Comunque, gli altri gli avrebbero dato la caccia per ciò che aveva fatto. E ci sono sistemi molto semplici per annientare i vampiri, soprattutto ora. Se Louis esisteva, era un fuorilegge e viveva sotto la minaccia di un pericolo rappresentato dalla nostra specie, un pericolo quale nessun mortale avrebbe mai potuto costituire.
Era una ragione di più perché io portassi il libro e il complesso del Vampiro Lestat alla fama, e il più rapidamente possibile. Dovevo trovare Louis. Dovevo parlargli. Anzi, dopo aver letto la sua versione dei fatti, smaniavo per lui, avevo nostalgia delle sue illusioni romantiche e persino della sua disonestà. Avevo nostalgia della sua malizia aristocratica, della sua presenza fisica e del suono ingannevolmente dolce della sua voce.
Naturalmente l’odiavo per le menzogne che aveva detto sul mio conto. Ma l’amore era molto più grande dell’odio. Aveva diviso con me gli anni tenebrosi e romantici del secolo decimonono, ed era stato il mio compagno come non lo era mai stato nessun altro immortale.
E smaniavo di scrivere la mia storia per lui: non già una risposta alla malizia del suo libro, ma il racconto di tutte le cose che avevo visto e imparato prima d’incontrarlo, la storia che prima non avevo potuto dirgli.
Ormai, le vecchie leggi non contavano più nulla neppure per me.
Volevo infrangerle tutte. E volevo che il mio complesso e il mio libro attirassero non soltanto Louis ma tutti gli altri demoni che avevo conosciuto e amato. Volevo ritrovare i perduti, destare coloro che dormivano come io avevo dormito.
Nuovi e vecchi, belli e perversi e dementi e senza cuore… sarebbero venuti tutti a me dopo aver visto quei videoclip e aver ascoltato quei dischi, dopo aver visto il libro nelle vetrine, e avrebbero saputo esattamente dove trovarmi. Allora sarei stato la superstar del rock Lestat. Appena arrivato a San Francisco per il primo concerto. Mi avrebbero trovato lì.
Ma c’era un’altra ragione per quell’avventura… una ragione ancor più pericolosa e deliziosa e folle.
E sapevo che Louis avrebbe capito. Doveva essere alla base della sua intervista, delle sue confessioni. Volevo che i mortali sapessero di noi. Volevo proclamarlo al mondo come l’avevo detto ad Alex e Larry e Tough Cookie, e alla mia dolce avvocatessa Christine.
E non avrebbe avuto importanza se non mi avessero creduto. Non avrebbe avuto importanza che la giudicassero una finzione artistica. Il fatto era che, dopo essermi nascosto per due secoli, sarei apparso visibile ai mortali! Avevo detto il mio nome a voce alta, avevo rivelato la mia natura. Ero là!
Ma mi stavo spingendo più lontano di Louis. La sua storia, nonostante le stranezze, era passata per un’opera di fantasia. Nel mondo dei mortali, era innocua come i tableaux del vecchio Teatro dei Vampiri a Parigi, dove i demoni avevano finto di essere attori che fingevano di essere demoni su un palcoscenico remoto illuminato da lampade a gas.
Sarei apparso sotto le luci solari davanti alle telecamere, avrei toccato con le dita gelide mille mani protese e calde. Avrei spaventato tutti a morte se fosse stato possibile, e se fosse stato possibile li avrei affascinati e condotti alla verità.
E supponiamo… supponiamo che quando i cadaveri avessero incominciato a comparire in gran numero, quando i più vicini a me avessero cominciato a prendere sul serio i sospetti inevitabili… supponiamo che l’arte cessasse di essere arte e diventasse realtà!
Voglio dire, se avessero creduto davvero, se avessero compreso che esisteva ancora il demone del Vecchio Mondo, il vampiro… oh, allora avremmo avuto una guerra grandiosa, splendida!
Ci avrebbero conosciuto e ci avrebbero dato la caccia, e ci avrebbero combattuto in quella scintillante giungla urbana come nessun mostro mitico è mai stato finora combattuto dall’uomo.
Come potevo fare a meno di amare l’idea? Come poteva non valere la pena di rischiare il pericolo più grande, la sconfitta più tremenda? Persino nell’attimo dell’annientamento, sarei stato vivo come non lo ero mai stato.
Ma per dire la verità, non pensavo che si sarebbe mai arrivati a tanto… voglio dire, al fatto che i mortali credessero in noi. I mortali non mi hanno mai fatto paura.
Era l’altra guerra che sarebbe scoppiata, la guerra cui avremmo partecipato tutti insieme, o in cui tutti sarebbero venuti a combattere contro di me.
Era quella la vera ragion d’essere del complesso del Vampiro Lestat. Era quello il gioco che intendevo giocare.
Ma l’altra, meravigliosa possibilità di rivelazione e del disastro… ecco, aggiungeva a tutto un sapore molto stuzzicante!
Dalla tetraggine di Canal Street, risalii la scala del mio appartamento nel vecchio albergo del quartiere francese. Era tranquillo, e mi piaceva così, con il Vieux Carré sotto le finestre e le viuzze con le case spagnole che conoscevo da tanto tempo.
Accesi il televisore gigantesco e misi la cassetta del bel film di Visconti, Morte a Venezia. A un certo punto un attore diceva che il male era necessario. Nutrimento per il genio.
Io non lo credevo. Ma avrei voluto che fosse vero. Allora avrei potuto essere semplicemente Lestat il mostro, no? E sapevo fare il mostro così bene! Ah, sì…
Misi un dischetto nuovo nel word processor e incominciai a scrivere la storia della mia vita.