— Tutti, in macchina! Si va!
Don aveva spostato il furgone sul piazzale davanti alle banchine del porto.
Centinaia di turisti andavano e venivano, o per raggiungere gli aliscafi o, come la famiglia Halifax, per ridiscendere a terra. Sul piazzale si allineavano venditori di magliette, hot dog e merci assortite. Leonore era in piedi accanto alla barriera pedonale. — Avete sentito papà? — gridò. — Vogliamo arrivare finché è giorno!
Don non se la prendeva se la truppa indugiava. Questo punto, all’estremità di Hurontario Street, era l’unico da cui si poteva avere una vista panoramica sull’intera Fiera, che si estendeva tra due isole artificiali dell’Ontario. Il padiglione degli Stati Uniti era un gigantesco diamante (anche nel prezzo); quello cinese rendeva omaggio sia alla cultura autoctona sia alle celebrità extraterrestri con la sua forma di drago rampante, le cui spire seguivano la disposizione dell’omonima costellazione. Trai due padiglioni si proiettava verso il cielo la Guglia della speranza, che aveva fatto riguadagnare a Toronto il primato per l’edificio più alto.
Don era abituato a quei suoi due figli che deambulavano su tre arti posteriori, ma i turisti restarono affascinati dalla grazia dei loro movimenti. Viceversa sua figlia Gillian, quindici anni, non si mosse dal posto: era quasi il suo turno alla bancarella dello zucchero filato. Si voltò verso il padre con aria indecisa se dovesse fornire rassicurazioni. Aveva le lentiggini della madre ma i capelli castano chiari di lui.
— Va bene, va bene — disse Don. — Però spicciati.
I due genitori si erano impegnati a fondo per la sua educazione; anzi, Don aveva scoperto che la nuova esperienza come padre era molto più rilassante della prima, in virtu dell’accresciuta capacità di distinguere tra le crisi autentiche e quelle che si sarebbero risolte da sole.
Erano venuti su bene anche i due figli, che ora, con i loro due metri e mezzo di altezza e i due quintali di peso, non avevano difficoltà a farsi largo tra la folla.
Erano cresciuti insieme a Gillian nella casa fatta costruire da McGavin a Winnipeg: località scelta a causa della presenza di un laboratorio specializzato in rischi ambientali, e l’unico in Nord America progettato per ospitare macro-forme di vita.
Centinaia di studiosi seguivano le giornate degli Halifax tramite webcam, dando tutti i consigli che ritenessero utili, ma i genitori erano e restavano Don e Leonore, e l’ultima parola spettava al loro istinto parentale.
Don premette il comando che apriva il portello posteriore del furgone. Il veicolo, che sui mass media era subito diventato “la Dragomobile”, era abbastanza alto da contenere i due alieni in piedi; era loro impossibile sedersi, data la struttura non umanoide dei due arti anteriori e dei tre posteriori. Dopo che furono entrati, Don richiuse il portello e azionò gli aspiratori di anidride carbonica. Quando arrivò anche Gillian, con una maxi-sfera di zucchero filato, si erano ormai accese le spie verdi e i due fratelli si erano levati le maschere di filtraggio.
In passato Don non si sarebbe mai sognato di acquistare un veicolo di quelle dimensioni, ma attualmente il conto del benzinaio non lo terrorizzava più. Dopo un po’ aveva anche smesso di ripetere, ogni volta che dava gas, l’esclamazione di Robin dalla serie Batman anni ’60: “Batterie atomiche accese! Turbine avviate!”.
Leonore prese posto accanto al guidatore, mentre Gillian e Gunter, familiarmente detti “le due G”, si misero nei sedili posteriori.
— A che ora inizia la cerimonia? — chiese Don.
— Alle nove — rispose Gunter.
— Perfetto — disse Don, scostando dal marciapiede — abbiamo tutto il tempo che vogliamo. — Avrebbe anche potuto chiedere al Mozo di guidare ma, miseriaccia, portare a zonzo la famiglia sul vecchio furgone era una delle massime gioie della paternità.
— Vi siete divertiti? — domandò Leonore, girandosi verso gli altri occupanti.
— Tantissimo! — rispose Amphion, corrugando allegramente le creste. — Uno sballo! — I ragazzi potevano riprodurre senza difficoltà i suoni delle lingue terrestri, anche perché avevano una più ampia gamma di vocali. Tuttavia, per quante lezioni ricevessero, non riuscivano a usare le forme impersonali (“si va, si dice”...). Secondo alcuni studiosi, qui si toccava lo zoccolo duro della moralità draconiana: ogni azione richiedeva un soggetto responsabile.
— Ho trovato fantastica la dimostrazione della nebbia artificiale — disse Zethus. Quando erano nati i due Draghetti, era stato lanciato un concorso per i nomi. A vincere erano stati quei due, ripresi dalla coppia mitologica Anfione e Zeto, figli di Zeus allevati sulla Terra da genitori putativi.
Don annuì. La nebbia nanotecnologica era stata un vero spettacolo. Però lui era rimasto elettrizzato soprattutto dalle automobili volanti. Si era realizzato un vecchio sogno degli scrittori di fantascienza, alla buon’ora!
Da quell’estate il Canada stava celebrando il proprio bicentenario. E lo stava facendo nello stesso modo di cent’anni prima: con una Fiera internazionale. Don aveva visitato quella del 1967 che era ancora bambino, insieme ai genitori; all’epoca lo avevano lasciato a bocca aperta i laser giganti, i telefoni regolabili, le monorotaie e un’enorme sfera geodetica riempita di capsule spaziali USA. Anche quella di adesso, come allora, era chiamata Expo 67; ed era bastato percorrere due terzi del primo secolo del nuovo millennio per mandare in soffitta le teorie di Peter de Jager. Allora come oggi, si trattava di una grande mostra degli ultimi ritrovati tecnologici; alcuni dei quali erano ricadute dei progetti per l’utero artificiale e l’incubatrice dei Draconiani.
Si immisero nel traffico. Qualche automobilista dava un colpetto di clacson e salutava: Amphion e Zethus erano delle star, e la sagoma della Dragomobile, verde e massiccia, era inconfondibile; comunque, a scanso di equivoci, era targata STARKIDS, “figli delle stelle”.
Nel 1967, all’epoca della prima ricorrenza nazionale, Don aveva sei anni. In quell’occasione il Governo aveva contattato le persone nate nello stesso anno dell’indipendenza, facendo passare nelle scuole i centenari che erano ancora in salute. Don ricordava ancora che era stato allora che aveva visto la prima persona di cento anni in vita sua, un uomo impossibilmente anziano sulla sedia a rotelle.
Adesso però erano cambiate molte cose. Anzitutto lui stesso era un centenario, anzi aveva centosei anni, quasi centosette. Facevano un tour delle scuole quelli della classe del1967, tra cui una Pamela Anderson che si era sottoposta al Rollback dopo che, pochi anni prima, i costi erano scesi alla portata del jet-set televisivo. Era arrapante come all’epoca in cui posava per “Playboy”.
Don invece, attualmente, dimostrava quarant’anni abbondanti. I capelli se n’erano di nuovo in buona parte andati, ma chi se ne importava. Don si sentiva meglio adesso della prima volta che aveva avuto 44-45 anni; l’unico infarto della sua vita era sepolto nei ricordi di sei decenni fa.
Anche Leonore aveva quell’età, ma non era sicuramente la sua mezza età. I prezzi del Rollback continuavano a scendere, e già sette milioni di persone se l’erano permessa; quando anche Leonore ne avesse avuto bisogno, sarebbe stata una terapia alla portata delle loro tasche. A beneficio di lei... e di lui, per un secondo Rollback. Incredibile ma vero.
Durante il tragitto Amphion e Gillian si misero a litigare, mentre Zethus osservava dal finestrino il traffico di Toronto. Per quanto fossero nominalmente gemelli, i due alieni non si somigliavano manco un po’. Amphion aveva pelle blu scuro e due sottili creste che gli scendevano dalla nuca; Zethus aveva una pelle argentea e iridescente, con tre creste. Ancora più diversi erano i loro caratteri: l’avventuroso e permaloso Amphion contro il timido Zethus, che in compenso era un campione a Scarabeo.
Don guardò nello specchietto retrovisore. — Amphion, lascia in pace tua sorella.
Lui rivolse due dei suoi quattro occhi verso il padre. — È stata lei a cominciare!
— Ognuno degli occhi di un Draconiano vedeva una diversa gamma cromatica.
Due occhi erano specializzati in diverso modo a percepire lo spettro luminoso fino agli ultravioletti; il terzo percepiva fino all’infrarosso; il quarto si estendeva dagli infrarossi agli ultravioletti, ma in bianco e nero. La combinazione degli occhi utilizzati per fissare un oggetto non creava solo un diverso tipo di visione, ma dava anche sensazioni differenti. Inoltre i Draconiani possedevano un senso, assente nei terrestri, che permetteva loro di individuare un corpo pesante all’esterno del campo visivo.
I Draghetti avevano cinque arti, due anteriori e tre posteriori. Se la loro ontogenesi embrionale rispecchiava la filogenesi, le due gambe dirette in avanti si erano sviluppate dalle pinne pelviche di un antenato acquatico, e quella rivolta all’indietro, più robusta, da una coda di pesce. Invece le braccia non derivavano da pinne, come negli umani, bensì da una complessa serie di ossa che anticamente sorreggevano le branchie.
Le mani possedevano solo tre dita, ma la loro specie era approdata lo stesso al calcolo decimale (utilizzato nei radiomessaggi) grazie ai dieci piccoli tentacoli che contornavano l’apertura boccale, due paia sopra, sei sotto. In quel momento Zethus li stava usando per portare alla bocca un fiocco di zucchero filato che Gillian gli aveva passato attraverso un breve condotto. Siccome gli occhi erano affossati dentro cavità ossee, i Draconiani non erano in grado di vedere i propri tentacoli; per cui, se volevano sfruttarli come pallottoliere, dovevano farlo tramite l’immagine mentale che ne avevano.
Il precedente Expo 67 aveva un sottotitolo che ben presto era apparso orribilmente sessista: “L’uomo e il suo mondo”. L’attuale Expo non aveva un sottotitolo, che Don sapesse, ma “L’umanità e i suoi mondi” sarebbe stato perfetto.
Anche perché si era finalmente tornati sulla Luna, e su Marte si era stabilita una piccola colonia internazionale.
Poi c’erano altri mondi che non erano di competenza dell’umanità. Erano 18,8 anni esatti che Sarah aveva mandato la sua risposta ai Draconiani, dando ricevuta del loro messaggio e spiegando che il suo successore si sarebbe premurato di far nascere i due “figli delle stelle”. Il che significava che più o meno in quell’istante l’amico di penna su Sigma Draconis II stava ricevendo il segnale di Sarah. Già ci si immaginava le celebrazioni per l’evento; e per non essere da meno, si era deciso di festeggiarlo anche sulla Terra, quella notte stessa. Un segnale poteva essere inviato nello spazio a qualsiasi ora, ma per spirito poetico si preferì attendere che in cielo comparissero le stelle. Per quanto l’inquinamento luminoso avrebbe cancellato dalla vista umana la patria dei due Draghetti.
Alla cerimonia sarebbe stato scoperto un monumento a Sarah Halifax, immortalata con l’aspetto che aveva nel 2009, anno della ricezione del primo messaggio. Statua che, alla chiusura dell’Expo, sarebbe stata collocata in modo permanente ai Laboratori di fisica McLennan. Subito dopo l’inaugurazione, non solo Amphion e Zethus (che avevano inviato rapporti settimanali, dei quali però nessuno era ancora pervenuto a destinazione) ma anche i rappresentanti di tutte le decine di Paesi presenti alla Fiera avrebbero spedito una cartolina di auguri verso Sigma Draconis.
Il traffico era moderato, così che nel giro di mezz’ora la Dragomobile era arrivata a destinazione. Negli ultimi vent’anni Don era tornato spesso a Toronto a trovare i nipoti, oltre alla recente, tragica circostanza dei funerali di Carl, scomparso a soli settantadue anni. Ogni volta che ci veniva, compiva il pellegrinaggio che stava ripetendo anche adesso, ma per Gillian e i ragazzi era la prima volta.
Guidando lungo Park Home Avenue, Don notò con disappunto che era sparita la biblioteca a cui era così affezionato. La stessa sorte, ovviamente, era toccata a gran parte delle biblioteche del mondo; ma da questo punto di vista lui era un po’ retrogrado, tanto che usava ancora un palmare anziché farsi impiantare collegamenti neuronici alla Rete, come avevano fatto Leonore e Gillian.
Parcheggiò il furgone nel cimitero... altro anacronismo... il più vicino possibile alla tomba di Sarah. I ragazzi infilarono le maschere, e tutti percorsero a piedi i metri che mancavano, facendo scricchiolare le foglie secche sotto i piedi e gli arti.
Don aveva portato un mazzo di fiori virtuali, con batteria a fusione a freddo; le olo-rose potevano durare quasi in eterno. I ragazzi, di solito chiassosi, compresero che il padre aveva bisogno di un po’ di silenzio e glielo concessero. Qualche volta, a venire qui, Don si sentiva sopraffatto dalle emozioni, al ricordo dei primi appuntamenti con Sarah, dei primi anni di matrimonio, e tanti aneddoti di quando Carl ed Emily erano bambini, e la bufera di quando Sarah aveva decodificato il primo messaggio... Ma adesso l’unico ricordo era quello, di quasi vent’anni prima, di quel mitico sessantesimo anniversario, quando lui si era chinato su un ginocchio di fronte a sua moglie. Lo fece anche adesso, per posare i fiori. Sarah continuava a mancargli ogni giorno della sua vita.
Poi si rialzò e osservò la lapide, rileggendo l’iscrizione. Lo spazio accanto era ancora vuoto. L’epitaffio che aveva predisposto per se stesso, NON RIMASE MAI CON UNA O ALL’ULTIMA MANO, era meno lirico di quello di Sarah, ma rendeva l’idea.
Qualche secondo dopo, si voltò verso Leonore. Lei sapeva che un bel giorno Don sarebbe venuto a riposare in pace qui, non accanto a lei: che sensazione le dava? Leonore, che con gli anni aveva perso le lentiggini sostituendole con delicate striature, gli lesse nel pensiero e gli diede una pacca sulla mano. — Non preoccuparti, tesoro. Tanto, quelli della mia generazione non vengono più interrati.
Questo posticino te lo sei comprato, ed è giusto che lo usi... un secolo o l’altro.
“Un secolo o l’altro.” Magari nel XXII, o nel XXIII, o...
L’epoca delle meraviglie e dei miracoli. Scuotendo la testa, si rivolse ai tre figli.
Sarah non rappresentava nulla di speciale per Gillian: solo la prima moglie del padre, una donna scomparsa anni prima che lei nascesse, e con la quale non condivideva nessun tratto del DNA. Non che Sarah avrebbe dato peso alla cosa; però non esisteva in società un nome specifico per definire i rapporti tra la sua prima moglie e la figlia avuta dalla seconda moglie.
Del resto non esisteva neppure un termine esatto per indicare il legame tra Sarah e i due alieni; eppure, senza di lei, loro non sarebbero mai esistiti. Amphion esaminava perplesso i quattro nomi incisi sulla lapide, “Sarah Donna Enright Halifax”, e doveva stare pensando le stesse cose, perché domandò: — Come devo chiamarla?
Don ci rifletté. “Mamma” non sarebbe stato carino: la madre era Leonore.
“Professoressa Halifax”? Troppo formale. “Signora Halifax” in teoria non era concorrenziale, perché Leonore aveva conservato il proprio cognome da nubile, come era ormai nell’uso. “Sarah” suonava troppo familiare. Don fece spallucce. — Non sap...
— Zia Sarah — suggerì Leonore, che in vita l’aveva sempre e solo chiamata “professoressa Halifax”.
I Draconiani non potevano annuire per mancanza di collo, ma Amphion eseguì il lieve inchinò che era stato convenuto per quei casi. — Grazie per averci portato a conoscere zia Sarah. — Teneva un occhio su Don e tre alla lapide.
— A lei sarebbe piaciuto un sacco conoscere voi — disse Don, sorridendo a tutti e tre i figli.
— Peccato che non l’abbia potuta incontrare di persona — disse Zethus.
— Era una donna unica — rispose Don.
Gillian si rivolse a Leonore: — Anche tu l’avevi conosciuta, no, mamma?
Lavoravi nello stesso settore. Che tipa era?
Leonore guardò Don, poi di nuovo la figlia. Pensò al termine più appropriato, poi, sorridendo in direzione del marito, rispose: — Troppo oltre.