Tornare giovani! Un sogno antico come il momlo, ma che per Donald Halifax era divenuto realtà... ed era semplicemente fantastico! Don sapeva che, con l’andare dei decenni, le forze fisiche si erano affievolite ma, siccome il processo era stato graduale, finora non si era reso conto dell’enormità delle perdite subite.
Adesso però, nell’arco di sei mesi, tutte le energie erano riaffluite al suo corpo, e il contrasto tra il prima e il dopo era sbalorditivo; era come essere sempre sotto l’effetto della caffeina. Non si sentiva solo sano e robusto, si sentiva un vulcano in ebollizione.
Quanto al cuore, dire che fosse “felice come per una vincita al lotto” era troppo poco. Era come se ogni miliardo speso per il trattamento gli fosse andato in carne e sangue, e adesso lui era totalmente, profondamente, gioiosamente vivo. Ora non strascicava più i piedi: marciava come un soldato. Quando passeggiava, gli sembrava di muoversi su un tapis-roulant all’aeroporto; e di muoversi veloce come l’Uomo bionico, che ai passanti apparisse come una sagoma in vibrazione. Era in grado di sollevare scatole pesanti chili e chili, di saltare da una sponda all’altra di una pozzanghera, di volare su per le scale. Okay non era la stessa cosa che superare con un balzo un grattacielo ma, maledizione, faceva lo stesso effetto!
Ciliegina sulla torta, era sparito quel sottofondo di dolore che era stato per lunghi anni un compagno inseparabile. Era come se uno fosse rimasto seduto per molto tempo accanto al reattore di un jet, con le mani sulle orecchie nel disperato tentativo di non sentire frastuono, e all’improvviso fosse calato il silenzio assoluto.
“La giovinezza è sprecata per i giovani” recitava una vecchia canzone; verissimo, perché loro non sanno come si sentiranno dopo. Ma Don l’aveva riavuta indietro!
La dottoressa Petra Jones certificò che il suo Rollback era completo. Le cellule avevano ripreso a dividersi a ritmo regolare, i telomeri avevano ricominciato ad accorciarsi, nelle ossa iniziavano a ricomparire gli anelli di crescita, eccetera. Nel frattempo Don aveva ricevuto nuove retine, un rene sostitutivo, una prostata funzionante, tutto realizzato dalle sue stesse cellule; il naso era tornato a dimensioni meno pinocchiesche; le orecchie si erano ridotte; i denti avevano riacquistato bianchezza, riempiendo anche gli spazi delle otturazioni; e vari altri lavoretti di sartoria biologica. Da qualsiasi punto di vista era ridiventato un venticinquenne; in cammino verso i ventisei anni.
Don era ancora nella fase di adattamento a tutte quelle mirabolanti migliorie. Ci vedeva e sentiva alla perfezione, in compenso doveva rifare il guardaroba: grazie ai trattamenti di ricalcificazione e alle terapie genetiche, infatti, aveva recuperato i Cinque centimetri di statura che aveva perso nel tempo, e il suo fisico non era più pelle-e-ossa. Del resto, la sua collezione di cardigan e camicie con bottoni avrebbe fatto una pessima figura indosso a un ragazzo di quell’età.
Per il momento dovette anche rinunciare alla fede nuziale, che dieci anni prima aveva fatto stringere a causa dell’assottigliamento delle dita. Per farla riallargare avrebbe dovuto attendere il termine del Rollback, e mica l’avrebbe affidata al primo gioielliere che capitava.
Lo Stato dell’Ontario imponeva la visita per la patente ogni due anni. L’ultima volta Don non l’aveva superata; poco male, perché Sarah in caso di necessità avrebbe potuto guidare lei. Adesso però lui intendeva ripetere il test, e non nutriva dubbi che ce l’avrebbe fatta.
Gli toccò poi rifare passaporto e carte di credito, con una foto aggiornata. Al ristorante e al cinema, in teoria, godeva ancora degli sconti previsti per le persone anziane; ma adesso era diventata una vera impresa convincere camerieri e bigliettai. Peccato, accidentaccio. Però doveva essere davvero l’unico, tra quelli che avevano avuto un Rollback, a farsi problemi del genere.
Morale della favola, essere tornati giovani aveva anche qualche risvolto negativo. La spesa per frutta e verdura era raddoppiata. Erano aumentate anche le ore di sonno, diversamente dagli ultimi dieci anni, in cui sei ore a letto bastavano e avanzavano. Così Don perdeva due ore di attività al giorno, ampiamente compensate da un guadagno di sessant’anni. E poi, avrebbe ricominciato a dormire poco quando fosse invecchiato la seconda volta.
Erano le undici di sera, Don si stava preparando per andare a letto. Di solito non indugiava a lungo in bagno, ma quella era stata una giornata afosa e lui aveva fatto una serie di giri in città. Toronto in agosto aveva un brutto clima fin da quando lui era ragazzino, ma di recente il calore e l’umidità erano diventati micidiali. Non avrebbe dormito bene se prima non si fosse messo sotto la doccia. All’interno del box era installata (merito di Carl) una maniglia per sostenersi; ormai la utilizzava solo Sarah.
Don si fece lo shampoo, una sensazione meravigliosa. Aveva in testa un rigoglio di capelli castano chiari, quasi a spazzola, e non avrebbe mai finito di strofinarseli.
Anche i peli del torace erano ridiventati scuri; e quelli pubici non erano più grigi.
La pioggia artificiale era tiepida e sensuale. Mentre si massaggiava le parti basse, il pene ebbe un principio di erezione. Lui continuò a strofinarsi, quasi sovrappensiero. Stava valutando l’idea di portare a termine da solo l’operazione, che sembrava l’unica ipotesi realistica, quando in bagno entrò Sarah. La vedeva attraverso la tendina semitrasparente: era china sul lavandino. Don si sciacquò via l’insaponatura, il che gli raffreddò i bollenti spiriti; poi chiuse l’acqua, tirò la tendina e fece un passo fuori della doccia. Ormai poteva scavalcare i bordi della vasca con due movimenti elastici, senza dovervisi sedere sopra come aveva fatto negli ultimi anni.
Sarah gli rivolgeva la schiena. Era già in tenuta estiva da notte, vale a dire una maglietta rossa lunga e sfatta. Don afferrò un asciugamano e se lo passò vigorosamente addosso, quindi attraversò il breve corridoio ed entrò in camera da letto. Era sempre stato un teorico del pigiama, adesso però se ne rimase disteso nudo sulle lenzuola, osservando il soffitto. Dopo un po’ però l’aria condizionata gli fece venire i brividi, e s’infilò sotto.
In quell’istante arrivò anche Sarah. Spense la luce; dall’esterno ne filtrava però ancora abbastanza da permettere a Don di seguire i lenti movimenti di lei per allungarsi sul materasso. — Buonanotte, tesoro — gli disse Sarah.
Lui ruotò di lato e le toccò una spalla. Lei sembrò stupita di quel contatto fisico; negli ultimi dieci anni, le attività sessuali andavano decise in anticipo perché Don doveva prendere una pillola per ringalluzzire le regioni inferiori. Lo stupore passò presto, e Sarah posò delicatamente una mano sui fianchi di lui. Lui si avvicinò di un altro po’ e le diede un bacio. Lei ricambiò. Proseguirono per una decina di secondi. Quando si scostò, Don si accorse che lei giaceva sulla schiena, e che lui la stava osservando dall’alto, appoggiato su un gomito.
— Ehi, ehi... — mormorò lei.
— “Ehi” lo dico io... — rispose lui, sorridendo.
Ebbe l’impulso di scatenarsi in un ciclone erotico da far tremare le pareti... ma lei non avrebbe retto. Si abbassò delicatamente, piano piano, e lei...
— Ahia! — disse.
Don non era sicuro di che errore avesse commesso, ma disse: — Scusami. — Rese il contatto ancora più leggero, come una piuma che si stesse posando su di lei.
Sarah emise un lungo sospiro, difficile comprendere se di dolore o di piacere. Lui cambiò posizione, e lei fece altrettanto. Stavolta Don sentì scricchiolare le ossa della moglie.
Si muovevano così lenti, e la stretta di lei era così debole, che a Don venne naturale procedere con calma. Mentre la guardava negli occhi, si massaggiò con decisione nel tentativo di stimolare l’erezione. Sarah aveva un aspetto così fragile: lui non voleva che lei pensasse di essere disprezzata.
— Dimmelo, se ti faccio male — sussurrò Don, mentre le si stendeva sopra, assicurandosi che quasi tutto il peso gravasse sulle proprie braccia e gambe. Non era certo grasso, ma parecchio più pesante rispetto a prima del Rollback. Manovrò con cautela, cercando il migliore compromesso possibile tra le sue pulsioni e la capacità di resistenza della moglie. Ma già dopo il primo affondo, per quanto delicato, notò l’espressione di dolore sul viso di lei. Si ritirò in fretta da una parte, ricadendo di schiena sul materasso.
— Perdonami — mormorò lei.
— No, no, tutto a posto — le rispose. Si voltò di lato, faccia a faccia con lei, e la abbracciò dolcemente.
Quella fatidica notte del 2009, Sarah era saltata su dalla postazione del computer, e Don l’aveva abbracciata sollevandola da terra. Poi l’aveva fatta roteare e l’aveva baciata a lungo, incurante dei figli.
— Mia moglie è un genio! — aveva esclamato, con un gran sorriso.
— Direi piuttosto, una ricercatrice dai piedi di piombo — replicò lei, ridendo.
— Storie! — fece lui. — Hai avuto tu l’idea geniale. Hai capito il significato del messaggio prima di chiunque altro.
— Devo diffondere la notizia — disse Sarah. — Mantenere il segreto sarebbe puro masochismo: sarà il primo che darà il pubblico annuncio a...
— ...A finite sui libri di Storia! — concluse Don. — Sono così orgoglioso di te.
— Ti ringrazio, tesoro.
— E hai ragione tu: bisogna diffondere la notizia. In fretta. — Lui la lasciò andare, e lei sfrecciò verso il computer.
— Aspetta, mamma. Faccio io — intervenne Carl. Sarah batteva con solo due dita. Il padre di lei, quando vivevano a Edmonton, non aveva mai approvato il suo desiderio di diventare scienziata, per cui l’aveva incoraggiata a frequentare tutti i corsi possibili di dattilografia, in modo da prepararsi una carriera come segretaria.
Nel curriculum era obbligatorio un solo corso di dattilografia, ed era l’unico in cui i risultati di Sarah fossero stati penosi.
Sarah osservò quel suo figlio teenager che stava cercando di dare il suo contributo a quell’evento storico.
— Tu detta, io scrivo — disse Carl.
Lei sorrise, e cominciò a misurare avanti e indietro il pavimento del seminterrato. — E va bene. Ecco il testo: il messaggio degli alieni è stato...
Mentre lei dettava, Don corse al piano di sopra a chiamare il responsabile delle news CBC per la fascia notturna. Quando ridiscese, Sarah aveva appena terminato il “lancio” e Carl lo stava spedendo al sito del newsgroup SETI. Don disse: — Okay amore, ti ho prenotato un’intervista in TV tra un’ora. E domattina sarai ospite sia a The Current che a Sounds Like Canada.
Lei guardò l’ora. — Oddio, è quasi mezzanotte. Emily, Carl, voi due dovreste già essere a letto. Don, senti, io di andare in centro a quest’ora non ho proprio...
— Non sarà necessario. Sta arrivando una troupe, qui.
— Sul serio? Cavoli.
— Serve a qualcosa, avere i contatti giusti — sogghignò lui.
— Solo che... cielo... devo avere un aspetto orribile!
— Hai un aspetto favoloso.
— E poi, chi diavolo guarda la TV a quest’ora?
— Locali notturni, malati d’insonnia, aficionados dei canali porno...
— Papà!! — La piccola Emily teneva i pugni sui fianchi.
— ...Ma la notizia verrà fatta velocemente rimbalzare in tutto il mondo. Stanne certa.
— Eravamo completamente fuori strada — confidò Sarah il mattino dopo a Shelagh Rogers. Anche se Don non era il tecnico del suono di turno a Sounds Like Canada (era Joe Mahoney), Don stava alle spalle di Joe al mixer, con gli occhi fissi alla moglie. E non gli sfuggiva l’ironia della sorte: Sarah si trovava a Toronto e Shelagh a Vancouver, sede del programma. Due persone che non si conoscevano, ma comunicavano a distanza via radio. La corrispondenza con la notizia era perfetta.
— In che senso? — chiese Shelagh con quella sua voce, allo stesso tempo, vellutata e frizzante.
— In tutti i sensi — rispose Sarah. — In tutte le ipotesi che avevamo formulato noi di SETI. Ridicolo, pensare che degli esseri intelligenti mandassero un messaggio a distanza di anni luce, e per parlare di cosa? Di matematica! — Scosse la testa, facendo ondeggiare la bruna capigliatura. — La matematica e la fisica sono identiche in tutto l’universo; non c’è hisogno di contattare una specie aliena per sapere che 1 più 4 fa 5, che 7 è un numero primo, che il valore di pi greco è 3,14 eccetera. Nessuno di questi argomenti è soggetto a differenze culturali o opinioni personali. No, le cose su cui vale la pena discutere sono quelle legate alla morale. Temi caldi, temi su cui gli extraterrestri potrebbero avere idee radicalmente diverse dalle nostre.
— Ed è proprio su questi temi che si incentra il messaggio da Sigma Draconis — la sollecitò Shelagh.
— Esatto! L’etica, la morale... le grandi questioni. Ed ecco l’altro punto su cui ci eravamo sbagliati alla grande. Carl Sagan ha ripetuto varie volte che un bel giorno avremmo ricevuto un’ Enciclopedia galattica. Ma nessuno si prenderebbe la pena di inviare un testo nello spazio siderale per dare delle informazioni. Semmai, per porre delle domande.
— Quindi, il famoso messaggio alla fin fine è... un questionario?
— Proprio così. Contiene una sfilza di domande, molte delle quali permettono una pluralità di opzioni. Sono scritte, per così dire, su un foglio tridimensionale che ha abbastanza spazio da contenere un migliaio di risposte. È evidente che gli alieni vogliono fare un confronto incrociato tra le nostre opinioni; per questo hanno compiuto una fatica immane a creare un vocabolario comune che permettesse di fare valutazioni di merito e di esprimere pareri, con tutta una serie di sfumature.
— Quante sono le domande?
— Ottantaquattro — rispose Sarah. — Sparse per l’intera mappa.
— Per esempio?
Sarah bevette un sorso d’acqua dalla bottiglietta che aveva davanti. — “È lecito programmare le nascite, se la densità demografica è bassa? È lecito controllare le nascite se la densità demografica è alta? È giusto che lo Stato metta a morte i colpevoli?”
— Controllo delle nascite, aborto, pena di morte — si stupì Shelagh. — Anche per gli alieni sono dei dilemmi?
— Parrebbe di sì. — disse Sarah. — Ci sono molte altre domande, tutto più o meno di tipo etico. “Occorre adottare misure per contrastare a ogni costo le truffe?
Se in una data popolazione il livello di malvagità è troppo elevato, è lecito porre restrizioni all’intera popolazione?” Tutte queste, ovviamente, sono solo traduzioni congetturali; sono sicura che verranno fuori accesi dibattiti sul significato di alcune espressioni.
— Già, inevitabilmente — le fece eco l’intervistatrice.
— Tuttavia, mi chiedo se gli alieni non siano un tantino ingenui, in base ai nostri standard. Voglio dire, in linea generale noi umani siamo una massa di ipocriti: riteniamo sempre che le regole valgano per gli altri, non per noi, e che noi abbiamo sempre dei validi motivi per essere esenti. Perciò, d’accordo, molto interessante questa tavola rotonda sulla morale, ma se quelli si aspettano che il nostro comportamento sia coerente con i nostri principi, avranno un’amara sorpresa. Da noi va di moda predicare bene e razzolare male.
Shelagh emise la sua famosa risatina strozzata. — “Fá quello che dico, ma non quello che faccio”, eh?
— Infatti — disse Sarah. — In ogni caso, è strabiliante la quantità di concetti sociologici che gli alieni sono riusciti a tirare fuori da quattro formule matematiche. Per esempio, sulla base della teoria degli insiemi, pongono varie domande su chi è “dentro” e chi “fuori” un determinato gruppo. L’inventore del termine “etnocentrismo”, William Sumner; notava a suo tempo che quelli che lui definiva “popoli primitivi” seguivano criteri etici molto diversi a seconda che la persona implicata fosse dentro o fuori il clan. Gli alieni sembrano curiosi di sapere se abbiamo superato quella fase.
— Voglio sperarlo — disse Shelagh.
— Direi anch’io di sì. A questo punto, possiamo aspettarci che ci chiedano se abbiamo già rinunciato alla religione. — Lanciò un’occhiata a Don attraverso il vetro. — Il vocabolario approntato dai Draconiani avrebbe reso possibile formulare domande circa la nostra fede in un’intelligenza esterna all’universo. In breve: Dio esiste? Così come avrebbero potuto chiedere se crediamo al persistere di pacchetti di informazione dopo la morte; in breve, l’esistenza dell’anima. Invece, queste domande non compaiono. Io e mio marito abbiamo avuto un battibecco sull’argomento proprio mentre venivamo qui. Secondo lui, la ragione di questo silenzio è ovvia: nessuna specie avanzata può ancora nutrire interesse per tali superstizioni. Io la penso all’opposto: forse per gli alieni è così evidente che Dio esiste, che non gli è neanche venuta la curiosità di chiederci se ce ne siamo accorti.
— Affascinante — commentò Shelagh. — Ma perché, secondo lei, gli alieni vogliono sapere tutte quelle cose?
Sarah inspirò a fondo, poi espirò lentamente. Don ebbe un brivido al pensiero del “buco” in trasmissione. Alla fine, la scienziata disse: — Ottima domanda!
Come per la maggior parte degli astronomi, anche per Sarah uno dei film preferiti restava Contact, tratto dall’omonimo romanzo di Carl Sagan. Anzi, secondo lei era uno dei rari casi in cui il film era meglio del romanzo, troppo verboso. Erano decenni che non lo rivedeva, però una citazione contenuta in un articolo sul messaggio glielo aveva riportato alla mente. Quel mercoledì sera prese posto accanto a Don sul divano, ansiosa di gustarsi lo spettacolo. Pian piano, Sarah si stava abituando sempre di più al look di quel suo marito ringiovanito; ma uno dei motivi per cui era felice di vedere un film con lui era che così sarebbero rimasti uno accanto all’altra, anziché di fronte. I loro sguardi non si sarebbero incrociati.
Jodie Foster era bravissima nel ruolo della scienziata innamorata della propria missione, anche se Sarah non poté evitare di sorridere quando lei recito: “Se una sola stella su un milione avesse dei pianeti, e se su un solo pianeta su un milione fosse sorta la vita, e se su uno su un milione di essi ci fosse vita intelligente, là fuori esisterebbero milioni di civiltà... Eh no, mia cara: un milionesimo di milionesimo di milionesimo di 400 miliardi è una cifra così vicina a zero da essere, di fatto, zero.
Sarah si voltò verso Don per vedere se avesse colto, ma lui non ne diede segno.
Del resto sapeva che lui detestava essere interrotto durante un film (ogni parola poteva rivelarsi preziosa per Scarabeo), quindi lasciò che l’errore di sceneggiatura passasse inosservato. Inoltre, a parte l’inaccuratezza della cifra, la Foster citava un dibattito reale. Per decenni erano stati buttati numeri di ogni genere dentro l’equazione di Drake, che serviva a dare una stima di quanta vita intelligente esistesse nella galassia. Il numero “sparato” dall’attrice era tipico di quel clima culturale.
L’ilarità lasciò presto posto a un senso di umiliazione. Il film proseguiva con la protagonista che faceva visita a una multinazionale per ottenere fondi per il progetto SETI. Sentendosi opporre un rifiuto, saliva in cattedra e declamava che un contatto con una civiltà extraterrestre sarebbe stato l’evento più importante della Storia umana, più importante di qualunque risultato raggiunto fino a oggi o immaginabile per il futuro. Sarebbe stato un cambiamento così epocale da giustificare qualunque investimento.
A umiliare Sarah fu il ricordo di simili ridicoli discorsi tenuti da lei stessa. È vero, la ricezione da Sigma era stata sbattuta in prima pagina; ma, fino all’arrivo del secondo messaggio, per trent’anni gli alieni erano spariti dalle prime pagine, fatta ovviamente eccezione per il “National Enquirer”.
Non erano stati solo quelli di SETI a sopravvalutare l’impatto di una notizia come quella. Sarah non se lo ricordava più, ma in Contact faceva una comparsa addirittura l’allora presidente USA Bill Clinton, il quale spiegava, anche lui, quanto profondamente sarebbe cambiato il mondo. Però, a differenza dei ruoli cammeo di Jay Leno e Larry King, il presidente non era stato scritturato; era solo un brano di repertorio, peraltro non riferito a radiomessaggi alieni ma alla scoperta di ALH84001, il meteorite marziano in cui si supponeva fossero presenti dei microrganismi fossili. Nonostante tutta la buona volontà di Clinton, quel pezzo di roccia non aveva cambiato il mondo; anzi, quando anni dopo la notizia era stata smentita, la stampa quasi non se n’era accorta. Non che qualcuno volesse insabbiare la cosa: era proprio che non interessava a nessuno. Per la maggioranza della popolazione la vita nell’universo era una curiosità, nulla più, senza alcun effetto sul modo di comportarsi nei confronti di coniugi e figli, senza conseguenze in Borsa. Chi se ne fregava. La Terra continuò imperturbabile a girare come sempre, con i suoi abitanti che facevano l’amore, e la guerra, con la stessa frequenza di prima.
Più il film procedeva, più Sarah s’irritava. Si supponeva che gli alieni avessero fornito ai terrestri i progetti per un’astronave in grado di sfrecciare nell’iperspazio; Jodie Foster avrebbe incontrato gli ET di persona. Il progetto SETI (insinuava il regista) mica era roba per radioamatori: come in tutti i B-movie di fantascienza, lo scopo finale era lanciarsi alla scoperta di nuovi mondi. Dall’inizio, con la sua matematica sghimbescia; nel prosieguo, con i discorsoni sulla trasformazione dell’umanità; alla fine, con la strampalata promessa che SETI ci avrebbe fatti navigare nella galassia, magari con una rimpatriata con i nostri cari estinti, Contact dipingeva le montature giornalistiche, non la realtà. Se Frank Capra avesse realizzato una serie propagandistica dal titolo Perché ascoltiamo, Contact sarebbe stata la prima uscita.
Mentre scorrevano i titoli di coda, Sarah si voltò verso Don. — Che te n’è parso? — gli domandò.
— Un po’ datato — disse lui. Poi sollevò una mano per prevenire l’obiezione.
— Non che questo sia un male, ma...
Ma aveva ragione lui, pensò Sarah. Le cose appartengono al loro tempo, non possono essere trasferite pari-pari da un’epoca all’altra. — Che fine aveva poi fatto la Foster? — tagliò corto Sarah. — È ancora viva, o no?
— Potrebbe esserlo. Era più o meno della tua... — Si morse la lingua, ma era troppo tardi. Era chiaro che stava per dire “della tua età”, non “della nostra”. Agli occhi di lui, lei aveva tutti i suoi ottantasette anni; per contro, Don stava cominciando a rinnegare i propri dati anagrafici. Il che mandava in bestia Sarah.
— Mi è sempre piaciuta come attrice — glissò lei. Quando era uscito Contact, la stampa USA aveva “rivelato” che a ispirare il personaggio di Ellie Arroway, interpretata dalla Foster, era stata Jill Tarter; i giornali canadesi invece spingevano sull’ipotesi Sarah Halifax. Ora, pur essendo vero che Sarah aveva conosciuto Carl Sagan, il paragone era tirato per i capelli. Da parte sua, lei non capiva perché un personaggio non potesse essere inventato di sana pianta. Ricordava tutte le teorie sui protagonisti di Jurassic Park: qualunque donna avesse seguito un corso di paleontologia, era stata candidata a modello della botanica interpretata da Laura Dern.
— Sai qual è il film in cui la Foster ha dato il meglio di sé? — chiese Sarah.
Don la fissò.
— È... mmm, lo sai anche tu. È sempre stato uno dei miei preferiti.
— Dammi qualche altro indizio — sbuffò lui.
— Ma sì che lo sai! Avevamo comprato il VHS, poi il DVD, e alla fine ce lo siamo scaricati nell’hard disk. Oh bella, perché non mi viene il titolo? Ce l’ho sulla punta della lingua...
— Sto ancora aspettando l’indizio!
Sarah sobbalzò. Don diventava sempre più impaziente con lei. Quando anche lui era ridotto a una tartaruga, non sembrava dare peso alle lentezze della moglie, ma ormai le loro vite non erano più sincronizzate. Come in quel film sul paradosso relativistico dei gemelli, che lei faceva sempre vedere agli allievi. Sarah stava per gridargli in faccia che non era colpa sua se aveva ottantasette anni... ma, se era per questo, anche Don non poteva fare a meno di dimostrarne venticinque. Tuttavia quell’impazienza le urtava i nervi, seppellendo ulteriormente nell’inconscio il maledetto titolo.
— Era quello in cui recitava anche quell’attore... coso...
— Maverick? — scattò Don. — Il silenzio degli innocenti?
— No, no. Sai, quello dove c’è... — perché ora non le veniva neppure il termine? — c’è un... un... bambino prodi...
— Il mio piccolo genio — la interruppe lui.
— Esatto — disse Sarah, in tono quasi impercettibile, voltandosi dall’altra parte 16
Dopo che Sarah fu andata a letto, Don, incupito, si trasferì sulla poltrona anatomica. Si detestava per aver maltrattato la moglie a quel modo mentre lei si sforzava di ricordare il titolo di quel film. Perché era sempre stato paziente quando i suoi giorni erano contati, e adesso che aveva un’intera vita davanti a sé diventava impaziente? Si era sforzato di non esplodere, ce l’aveva messa tutta, ma alla fine era stato più forte di lui. Sarah aveva un atteggiamento così da vecchia, che...
Squillò il telefono. Don guardò il display e fu sorpreso di leggervi il nome TRENHOLM RANDELL. Era un suo ex collega alla CBC, ma erano più di trent’anni che non aveva notizie di lui. Da quando era fallito il Rollback su Sarah, Don aveva smesso di frequentare i vecchi amici; ed era più felice che mai di non possedere un videotelefono.
Randy aveva un paio d’anni in più di lui. Sollevando la cornetta, Don ebbe il sospetto che non si trattasse di lui ma della moglie: era successo spesso, in quegli ultimi anni, che le chiamate dai numeri dei vecchi amici fossero in realtà chiamate delle mogli per annunciare i funerali dei consorti.
— Pronto? — fece Don.
— Don Halifax, vecchia quercia!
— Randy! Come ti butta, ragazzo mio?
— E come potrebbe buttare, a quasi novant’anni? Si vivacchia.
— È già qualcosa — disse Don. Voleva chiedergli come stesse sua moglie, ma non gli tornò in mente il nome.
— Che mi racconti di bello?
— Che ormai fai notizia! — rispose Randy.
— È Sarah la celebrità di casa — precisò Don.
— No, no, quale Sarah? Proprio tu, nei newsgroup che frequento.
— Che sarebbero...?
— “Oltre-umani”, “Immortalità”, “Sempre avanti”.
Come Don immaginava, i pettegolezzi sulla sua situazione si erano diffusi anche oltre i confini del quartiere. Si limitò a rispondere: — Già, bé...
— E così, l’amico Don è culo e camicia con i potenti, eh? — disse Randy — Cody McGavin! Robe da pazzi.
— L’ho incontrato una volta sola.
— Ma deve averti staccato un assegno mica male — obiettò Randy.
Don iniziava a sentirsi piuttosto a disagio. — Boh. Mai visto la parcella.
— Non sapevo che ti interessasse la tematica del prolungamento della vita — tornò l’altro alla carica.
— No, infatti.
— Però ti ci sei sottoposto.
— Randy ascolta, è tardi. C’è qualcosa che posso fare per te?
— Niente. È solo che, siccome conoscevi Cody McGavin...
— Non potrei affermare di conoscerlo.
— ...Allora ho pensato che forse potevi mettere una buona parola per me, ecco tutto.
— Randy, io non...
— Voglio dire, io posso ancora dare tanto, Don. Tante cose che potrei ancora realizzare, se solo...
— Randy sul serio: non...
— E via, Don! Tu non avevi niente di speciale, però quello ti ha regalato un Rollback.
— Voleva regalarlo a Sarah, non a me, ma poi...
— Lo so, lo so, però su di lei non ha funzionato, giusto? Almeno, così ho letto in giro. Ascolta, Don, mi dispiace veramente; Sarah mi è sempre stata simpatica.
Randy tacque come in attesa di una risposta alla sua manifestazione di cortesia, ma Don rimase muto. Dopo che il silenzio fu durato troppo a lungo, l’ex collega aggiunse: — Comunque, quello che conta è che il boss ti ha pagato il trattamento.
Quindi...
— Quindi dovrebbe farlo anche per te? Ascoltami bene, non ho idea di quanto sia costata l’intera operazione, ma...
— Su “Oltre-umani” valutano che la cifra si aggiri intorno agli 8 miliardi di dollari. Su “Sempre avanti” propendono per 10.
— Anche se fosse così — sottolineò Don — non sono stato io a chiederlo, e...
— Noccioline, per gente come McGavin.
— Credo che non siano noccioline per nessuno. Ma non è questo il punto: dei suoi soldi può fare ciò che gli pare.
— Esatto, e adesso che sta offrendo quest’opportunità a persone che non sono ricche sfondate, bé, pensavo che forse... tu capisci...
— Non posso fare niente per te. Mi spiace.
La voce all’altro capo del telefono assumeva un tono sempre più disperato. — Ti prego, Don. Posso ancora dare tanto alla società. Se solo potessi fare il Rollback, potrei...
Don non resse oltre. — Trovare la cura contro il cancro? Già fatto. Inventare una trappola per topi più efficace? L’evoluzione produrrà topi più intelligenti.
— Intendo cose importanti. Sto... tu non sai di che cosa mi sono occupato in questi ultimi vent’anni, Don, ma sto... ho fatto delle cose. E posso portare avanti ancora tanti progetti. Mi serve solo più tempo. Solo tempo.
— Mi spiace, Randy, credimi.
— Se solo tu chiamassi McGavin, Don... Non chiedo altro: solo una telefonata.
A Don venne una gran voglia di urlargli in faccia che gli ci era voluto un secolo per contattare McGavin, l’ultima volta; ma non erano affari di Randy — Mi spiace — ripeté.
— Dannazione, e tu che avresti fatto per meritarlo? Non sei un geniaccio né niente, hai solo vinto a una fottuta lotteria, e adesso non vuoi neppure aiutarmi a comprare il biglietto.
— Cristo santo, Randy...
— Non è giusto. Lo hai detto tu stesso: non ti eri mai neppure interessato di “trans-umanizzazione” né di tecniche di allungamento dell’esistenza. Io, io invece, è una vita che mi ci danno l’anima. “Vivere abbastanza a lungo da vivere in eterno” come diceva Kurzweil. Resistete ancora pochi decenni, diceva, e il ringiovanimento sarà una realtà, e diventerete praticamente immortali. Bé, io ho resistito, e voilà, quelle tecnologie oggi esistono. Ma io non posso permettermele.
— I prezzi sono destinati a...
— Affanculo l’abbassamento dei prezzi! Lo so che succederà, ma non abbastanza in fretta, maledizione: io ho ottantanove anni! Ti chiedo solo di fare una telefonata per oliare un paio di ingranaggi. Solo questo. In nome dei vecchi tempi.
— Mi dispiace — disse Don. — Con tutto il cuore.
— Cazzo, Halifax! Devi farlo! Io... io sto per morire, io sto per...
Don sbatté giù la cornetta, ributtandosi indietro sulla poltrona. Era scosso da tremiti. Aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi per tutto quello che gli stava succedendo... ma Sarah non era più in grado di capirlo; non più di quanto lo fosse Randy Trenholm. Quanto alle altre persone che avevano effettuato il Rollback, vivevano in un mondo a milioni di anni luce dal suo. L’unica cosa che avevano in comune era il fatto di essere ringiovaniti; per tutto il resto, tra loro e lui si spalancava l’abisso dei ceti.
Alla fine Don salì al piano di sopra, compì le operazioni della sera, e andò a stendersi accanto a Sarah. Lei dormiva già. Lui restò a fissare il soffitto, un’abitudine che stava diventando sempre più frequente.
A suo modo, Randy aveva toccato un tasto giusto. C’erano persone che sarebbe valsa la pena mantenere in vita anche se non potevano permetterselo. L’ultimo dei dodici uomini che avevano camminato sulla Luna era morto nel 2028. L’evento più sensazionale della Storia umana era accaduto durante l’esistenza di Don, ma non era rimasto in giro nessuno di coloro che avevano impresso le proprie impronte sul suolo lunare. Restavano solo foto, video, campioni di roccia e qualche scarsa descrizione piena di poesia, tra cui la “magnifica desolazione” di Aldrin. Si continuava a ripetere che era inevitabile, prima o poi, la ripresa delle missioni lunari; e forse lui sarebbe vissuto abbastanza a lungo da vederlo, ma intanto dalla memoria vivente era già scomparso il ricordo di quei “piccoli passi, passi da gigante”.
Ancora più tragico era pensare che l’ultimo superstite dei Lager nazisti, l’ultimo testimone di quelle atrocità, si fosse spento nel 2037. Con lui, se n’era andata la memoria vivente del momento più buio della vicenda umana.
C’era chi negava l’autenticità dello sbarco sulla Luna o della Shoah; persone secondo cui una tale meraviglia, o un tale orrore, non potevano essere veri, perché l’umanità sarebbe incapace di produrre simili prodigi tecnologici o una simile bestialità. E adesso, erano scomparsi dalla scena anche gli ultimi testimoni oculari di quegli eventi.
Viceversa continuava a esistere Donald Halifax, uno che non aveva niente di speciale da raccontare, nessuna esperienza unica nel suo genere, niente da comunicare alle generazioni future. Uno qualunque.
Sarah si mosse nel sonno, girandosi su un fianco. Lui rivolse al buio gli occhi sulla moglie. Lei sì era riuscita là dove tutti gli altri avevano fallito, scoprendo il significato di un messaggio inviato da un popolo alieno. E, secondo gli auspici di McGavin, avrebbe anche potuto bissare l’impresa. Solo che non sarebbe sopravvissuta abbastanza a lungo; sarebbe rimasto solo lui. Se era destino che il Rollback funzionasse su uno solo di loro due, doveva capitare a Sarah: era lei quella importante, non lui.
Don scosse la testa; i capelli rinati sfregarono sul cuscino. A livello razionale, sapeva benissimo che il successo del suo Rollback non era stato determinato dal fallimento di quello di Sarah; eppure il senso di colpa era opprimente come due metri di terra.
— Mi dispiace — sussurrò, tornando a fissare il soffitto.
— Per cosa? — disse Sarah, facendolo sobbalzare. Don non si era accorto che fosse sveglia; ora però, voltandosi verso di lei, percepì nelle sue iridi il pallido riflesso dei lampioni esterni.
Si accoccolò accanto alla moglie e la abbracciò con delicatezza. Quel dispiacere, di primo acchito, si riferiva al fatto di averla offesa qualche ora prima; ma in profondità c’era dell’altro. Molto altro. — Mi spiace — rispose Don — che il Rollback abbia funzionato con me, ma non con te.
Il torace di Sarah, premuto contro il suo, si espanse lentamente, poi si contrasse.
— Se proprio doveva succedere a uno solo dei due — disse lei — allora sono contenta che sia tu.
Don fu colto di sorpresa. — E perché?
— Perché sei un bravo ragazzo.
Lui non riuscì a trovare una risposta. Tenne stretta la moglie finché il respiro di lei non divenne regolare e rumoroso. Rimase lì per ore, sveglio, ad ascoltare.
Era tempo di trovarsi un lavoro. Non che loro due avessero un disperato bisogno di soldi, visto che ricevevano la pensione sia aziendale che sociale, ma Don doveva usare in qualche modo tutta quell’energia che aveva in corpo, e inoltre dedicarsi a qualcosa lo avrebbe aiutato a tenere la mente sgombra dai suoi timori crescenti. Pur con l’esplosione di vita che sperimentava, si sentiva addosso il peso di tutto: le difficoltà di relazione con Sarah, l’invidia dei vecchi amici, le ore infinite che trascorreva a fissare il vuoto, sognando a occhi aperti che le cose fossero andate diversamente.
Raggiunse a piedi la fermata North York-Centro, a un paio di isolati da casa, scese sottoterra in corrispondenza della torre della Biblioteca e prese la metropolitana. Era una torrida giornata di agosto; Don non poté fare a meno di lanciare occhiate alle ragazze seminude, così floride, abbronzate e sexy presenti nel vagone. Lo spettacolo fece passare il tragitto in un battibaleno. Incredibile ma vero, una tipa che poi era scesa alla fermata di Wellesley lo aveva guardato con quello che pareva interesse.
Arrivato alla Union Station, Don uscì e di diresse a piedi al vicino palazzo della CBC, un enorme cubo che sembrava progettato dal Borg di Star Trek.
Conosceva quel posto come... bé, non come il palmo della propria mano. A quel palmo sodo e liscio non si era ancora abituato al cento per cento. In ogni caso, non aveva più il badge, per cui dovette attendere in reception finché non fosse venuto qualcuno ad accompagnarlo negli uffici. Mentre aspettava, osservò gli ologrammi in scala 1:1 degli attuali boss della CBC (ai suoi tempi, al posto degli “olo” c’erano delle sagome in cartone). Riconobbe quasi tutti i nomi, però i volti non gli erano familiari.
— Il signor Donald Halifax? — chiese una voce. Lui si voltò e vide un uomo sui trentacinque anni, asiatico, con incongrui capelli color pesca. — Ben Chou — si presentò.
— La ringrazio per avermi voluto ricevere — disse Don, mentre Ben lo accompagnava verso il corridoio.
— Si figuri! — rispose lui. — Lei qui dentro è un mito.
Don sollevò un sopracciglio. — Sul serio?
Entrarono in ascensore. — Altroché. L’unico tecnico del suono con cui John Pellatt accettava di lavorare!
Usciti dall’ascensore, raggiunsero un ufficetto claustrofobico. — In ogni caso, è un vero piacere poterla incontrare — disse Chou. — Anche se non mi è chiara la sua richiesta di impiego. Voglio dire, se può permettersi un Rollback, che ci fa qui?
— Lanciò un’occhiata, all’intorno.
Erano al quinto piano e, se ci fossero state finestre, si sarebbe potuto ammirare il lago Ontario; ma, a qualunque piano, quell’edificio ti faceva sentire sottoterra.
— Non posso assolutamente permettermela — rispose Don, mentre si accomodava sulla sedia offertagli da Ben.
— Oh, sì, certo, ma dato che sua moglie...
Don si accigliò. — Che intende dire?
Ben sembrava confuso. — Bé, non è ricca? Dopotutto era stata lei a decodificare il primo messaggio.
— No, neppure lei nuota nell’oro. — Sarah avrebbe forse potuto diventare ricca, se avesse firmato il contratto editoriale giusto al momento giusto, o si fosse fatta pagare tutte le conferenze tenute nei mesi successivi alla scoperta... Ma inutile piangere sul latte versato. Per qualunque aspetto della vita.
— Oh, io... bé...
— Ed ecco perché ho bisogno di un impiego — disse Don. Interrompere continuamente un potenziale datore di lavoro non sembrava una buona strategia per fare carriera. Ma lui era fatto così.
— Ah — fece Chou. Controllò sul lettore digitale che teneva sulla scrivania. — Interessante, lei ha frequentato i corsi di Tecniche radiotelevisive all’Università di Ryerson... Anch’io! — Poi Ben ebbe un lieve sobbalzo. — Lei, nel 1982. — Scosse la testa. — Io nel 2035.
Il sottinteso era evidente. Don cercò di dirottare il discorso con una battuta: — Ah! E insegna ancora il carissimo professor Tutankhamon?
Ben ebbe la cortesia di emettere una risatina nasale. — E... per quanto tempo ha lavorato qui alla CBC?
— Per trentasei anni. Avevo la qualifica di direttore di produzione quando sono andato in...
S’interruppe di colpo. Ma Ben supplì il termine, sottolineandolo con un lieve cenno del capo: — Pensione.
— Però, come vede, sono tornato alla mia giovinezza. E desidero tornare a lavorare.
— In che anno è andato in pensione?
“Bastardo, hai il dato lì davanti ai tuoi occhi” pensò Don “ma vuoi che mi autodenunci con le mie labbra.” — Nel 2022.
Chou scosse leggermente la testa. — Wow. Chi era il primo ministro all’epoca?
— Comunque — disse Don, sorvolando sull’ironia — ho bisogno di un lavoro.
E quando uno ce l’ha nel sangue...
Chou annuì. — Ha mai operato sul sistema Mennenga 9600?
Don fece segnò di no.
— E su Evoterra C-49? Sono quelli attualmente in dotazione.
Altro diniego.
— Come se la cava con il montaggio audio?
— Ho migliaia di ore di esperienza. — Per quanto metà di quelle ore le avesse trascorse a tagliare fisicamente i nastri con delle lamette da barba.
— Sì, ma con quali apparecchiature?
— Studer, Neve Capricorn, Euphonix. — Tralasciò deliberatamente di precisare i modelli, e neppure menzionò il marchio Kadosura, fuori commercio da quattro lustri.
— È che la tecnologia si evolve così in fretta — disse Ben.
— Questo lo capisco. Ma i princìpi base...
— Anche quelli, e lo sa. Non montiamo più il materiale audio come si faceva dieci anni fa, per non parlare di mezzo secolo fa. Sono cambiati gli stili, i ritmi; è cambiato il suono in quanto tale. — Scosse di nuovo la testa, e passò al “tu”. — Vorrei poterti essere utile, Don. Qualunque cosa, per un alunno della Ryerson. È che purtroppo... — allargò le braccia. — Anche un novellino appena uscito da un istituto tecnico avrebbe più competenze di te. Cavoli, Don, sono cose che saprai meglio di me.
— Non chiedo di mettermi a smanettare — disse lui. — Nell’ultimo periodo, okay, non per molto, ma mi occupavo soprattutto di coordinare il lavoro altrui. E lì non è cambiato nulla.
— Esatto, proprio così. Non è cambiato nulla: una persona che dimostra poco più di vent’anni non riuscirà mai a ottenere il rispetto di gente che ne ha cinquanta.
In più, qui mi servono coordinatori che si accorgano quando un tecnico li sta prendendo per il culo.
— Non c’è proprio niente? — disse Don.
— Hai provato a chiedere al pianoterra?
Don corrugò la fronte. — L’atrio? — Era stato ribattezzato Barbara Frum Atrium, e Don apparteneva alla generazione di quelli che avevano conosciuto Barbara. Era costituito da un paio di ristoranti, tre gabbiotti della sicurezza e un immenso open space.
Ben annuì.
— L’atrio?! — esplose Don. — Non m’interessa diventare una fottuta guardia giurata.
Ben lo interruppe sollevando una mano. — No, no, non intendevo quello. Non avertene a male, ma pensavo al museo.
A Don cadde la mascella. “Non avertene a male”, e poi gli aveva sferrato un colpo all’inguine. Era un dettaglio di cui si era dimenticato: dall’atrio si apriva un museo sulla storia della CBC.
— Non sono un dannato reperto!
— No, no... no! Neppure quello intendevo. Volevo solo suggerire che potresti proporti come curatore. Voglio dire, su gran parte del materiale in esposizione hai conoscenze di prima mano. Sai tutto non solo su Pellatt, ma su Peter Gzowski, Sook-Yin Lee, Bob McDonald e tutti quanti. Hai lavorato gomito a gomito con loro. Qui dice anche che ti sei occupato di storiche trasmissioni come As It Happens e Faster Than Light.
Ben faceva del suo meglio per apparire gentile, ma quando è troppo, è troppo.
— Non voglio vivere nel passato — disse Don. — Voglio essere parte del presente.
Ben diede un’occhiata all’orologio a muro, uno di quei modelli da studio con al centro i LED dell’ora, e intorno sessanta punti che si illuminano in sequenza al passare dei secondi. — Ascolta — disse — devo proprio andare, sono sommerso di lavoro. Ti ringrazio per essere venuto. — Si alzò e gli tese la mano. Don non poté stabilire se la stretta di Chou fosse abitualmente moscia, o se fosse così blanda per il timore di fare del male a un vecchio di ottantasette anni.
Don ridiscese nell’atrio. Dava una buona immagine del Paese, quel luogo accessibile a tutti, con i suoi sei piani di balconate interne e il suo viavai di celebrità (il termine “star” era considerato un’americanata) che si spostavano senza codazzo di guardie del corpo. Il ristorantino Ooh La La!, che sorgeva lì da sempre, aveva un dehors in cui uno degli anchorman di Newsworld stava consumando un’insalata greca; al tavolo accanto sorseggiava un caffè il mattatore di un programma per bambini che Don aveva visto insieme alla nipote; l’attuale conduttrice di Ideas si stava dirigendo verso l’ascensore. Uno spazio davvero aperto e accogliente, pensò Don; tranne che per lui.
Il Museo radiotelevisivo era piccolo e confinato in un angolo; chiaramente, non faceva parte del progetto originale. Alcuni dei reperti erano più antichi di Don.
Datava a un’epoca anteriore alla sua il programma per bambini Chichimus, e risalivano all’epoca dei genitori This Hour Has Seven Days e Front Page Challenge. Invece era abbastanza anziano da ricordare Wayne and Shuster, sebbene all’epoca fosse troppo giovane per trovarlo divertente. Aveva ricevuto la prima infarinatura di francese grazie alla trasmissione Chez Hélène; aveva trascorso tanti bei momenti in compagnia di Mr Dressup e The Friendly Giant. Don si concesse qualche minuto per contemplare il modellino del castello del gigante amichevole, i pupazzi del gallo Rusty e della giraffa Jerome. Scoprì leggendo la targhetta che i buffi colori di Jerome, violaceo e arancio, erano stati decisi ai tempi della TV in bianco e nero, perché ne risultava un buon contrasto; quando nel 1966 il programma era passato al colore, la pezzatura aveva mantenuto invariato il suo look psichedelico. Un involontario segno dei tempi.
Don aveva dimenticato che di qui era partita anche la carriera di Mister Rogers; ed eccolo là, ora, il tram in miniatura che aveva attraversato la serie Mister Roger’s Neighbourhood.
Al museo non c’era nessun altro visitatore. A dimostrazione del fatto che vivere nel passato non interessa a nessuno.
Sugli schermi andavano in onda delle clip tratte da vecchi spettacoli CBC, alcuni dei quali presenti alla sua memoria, e quasi tutti venerabili. Viceversa, i magazzini dovevano essere zeppi di materiale orrendo come King of Kensington e Rocket Robin Hood. Bé, forse era giusto che alcune cose svanissero per sempre dal ricordo.
Erano esposti anche alcuni apparecchi audio e video, tra cui alcune strumentazioni che lui stesso aveva utilizzato. Scosse la testa. Quale curatore?
Avrebbe dovuto finire nelle vetrinette insieme alle altre anticaglie.
Per quanto, fisicamente, non fosse un rudere. Inoltre all’Expo non era più previsto il padiglione “fenomeni da baraccone” dove, ancora quando lui era bambino, gli imbonitori invitavano la gente a vedere l’uomo-sirena e la donna barbuta.
Uscì dal museo, e dall’edificio. In città avevano sede anche altre reti radiotelevisive, ma c’era da dubitare che Don da loro avrebbe avuto più successo.
Senza contare che la sua passione erano i radiodrammi e i radiodocumentari che non produceva più nessuno tranne la CBC. Per quello che sarebbe importato alle altre aziende, nel suo curriculum poteva anche inserire di aver dipinto le Grotte di Lascaux.
Era arrivato alla Union Station, la fermata proprio al centro della U in cui si snodava il tratto più vecchio della metropolitana. Scese ai tornelli, comprò un biglietto intero (non un ridotto per anziani) e prese la scala mobile verso i treni.
Rimase in attesa sulla banchina al di sotto uno dei grandi orologi sospesi. Arrivò in velocità una metropolitana, spettinandolo con lo spostamento d’aria. Quindi lui...
...Rimase come paralizzato. Le porte si erano aperte con il consueto segnale acustico a ripetizione; la gente scendeva e saliva. Poi il fischio di avviso chiusura porte, e il treno riprese la propria corsa. Don si mise al margine estremo della banchina, restando a osservare il veicolo che si allontanava.
Dall’ultima finestrella lo guardava incuriosito un bambino di cinque o sei anni.
Don ricordò quando, da piccolo, gli piaceva sedersi nella prima vettura per vedere la galleria che sfrecciava verso di lui; ma anche l’ultima vettura doveva offrire un valido spettacolo. Uno stridio, e la metropolitana scomparve, diretta verso nord.
Don abbassò lo sguardo ai binari, poco più di un metro sotto di lui, sotto i suoi piedi quasi aggrappati al margine. Zampettò di corsa un topolino. Don si soffermò a osservare il binario di emergenza e gli avvisi ELETTRICITÁ — PERICOLO coperti di fuliggine.
Non ci volle molto perché arrivasse un altro treno. Prima di entrare nel campo visivo, con i fari proiettò ombre surreali lungo il tunnel. Don percepì le vibrazioni della carrozzeria al suo passargli a pochi centimetri, mentre di nuovo l’aria gli spazzolava i capelli.
Si fermò. Don guardò attraverso la finestra più vicina. Quasi tutti scendevano alla Union, tuttavia qualcuno percorreva la curva fino alla fine.
“La curva...”
Era quello il buon vecchio metodo tradizionale, no? Gli aspiranti suicidi di Toronto facevano così da prima che lui nascesse. Il treno, in quel punto, arrivava a forte velocità da dietro una curva: aspettandolo dalla parte giusta, e saltando al momento opportuno, si poteva...
Dare un taglio a tutto.
Certo, non sarebbe stato carino nei confronti del conducente. Anni fa Don aveva letto sullo “Star” un articolo sul trauma psicologico che questi incidenti provocavano nel personale coinvolto. I conducenti erano spesso costretti a lunghi periodi sabbatici; alcuni erano così terrorizzati dalla possibilità che l’evento si ripetesse, che cambiavano lavoro. In centro città le fermate distavano quarantacinque secondi una dall’altra: tra l’una e l’altra l’uomo ai comandi non aveva neppure il tempo di rilassarsi un po’.
Questo discorso però era valido fintanto che i conducenti erano esseri umani.
Adesso in cabina c’erano dei lucidi meccanoidi, gentile omaggio della McGavin Robotics.
L’ironia della cosa lo stava inducendo in tentazione. Stava...
Stava tremando come una foglia. All’improvviso il suo corpo entrò in azione alla massima velocità.
Si fiondò tra le porte un decimo di secondo prima che si richiudessero. Per tutto il tragitto rimase attaccato a uno dei sostegni. Come un naufrago a un pezzo di scialuppa.
Nel 2009 Sarah aveva diviso equamente il tempo tra l’insegnamento dell’astronomia e le discussioni sul questionario draconiano; quasi sempre il dibattito si riverberava nelle conversazioni serali con il marito. Una sera, mentre Carl era da basso a giocare a The Sims 4 ed Emily era andata alla riunione per guide Scout, Sarah gli aveva detto: — Senti questo problema etico che è venuto fuori oggi sul newsgroup di SETI. Alcuni dei nostri ricercatori sostengono di aver compreso quali siano le aspettative degli alieni, con quella loro inchiesta; il che significa che noi potremmo fornire le risposte che loro vogliono sentire, nella speranza che ciò li incoraggi a portare avanti la conversazione. Domanda: ci è lecito mentire per ottenere il nostro scopo? Ossia: quanto è immorale mentire in un sondaggio sui valori morali?
Don le aveva risposto: — I Draconiani sono almeno intelligenti quanto noi, no?
Perciò, se c’è un trucchetto, se ne accorgeranno.
— Questa è esattamente la mia tesi! — s’infervorò Sarah. — Le istruzioni del questionario stabiliscono in modo chiaro che le risposte che invieremo dovranno essere prodotte in modo indipendente e riservato da mille diverse persone.
Precisano inoltre che in futuro potrebbero arrivare altre domande, ma che un’eventuale scorrettezza da parte nostra farà interrompere i contatti.
Personalmente ritengo che gli alieni possiedano una tecnica per capire se tutte le risposte provengono da una persona sola, o da un gruppo di collaboratori. Tipo, qualche analisi statistica della simbologia adottata.
Erano entrambi impegnati nelle pulizie di casa, dato che le attività di entrambi relegavano questa voce in fondo all’elenco delle priorità. Don stava spolverando la mensola del caminetto. — Sai cosa mi piacerebbe? — disse distrattamente, osservando una stampa incorniciata di Emily Carr — Uno di quegli schermi piatti da 60 pollici. Lo so che al momento costano una cifra, ma sono sicuro che i prezzi precipiteranno.
Sarah stava raccogliendo i giornali sparsi. — Ti auguro di vivere così a lungo.
— Comunque, parlavi del questionario...
— Ecco, bravo. Anche se cercassimo di contraffare le risposte, assegnandole a un comitato, ne esistono comunque parecchie dove non sappiamo che pesci pigliare.
Don adesso stava togliendo le tazze dal tavolo. — Per esempio?
— Bé, la domanda 31: “Tu e un’altra persona trovate, insieme, un oggetto apparentemente senza valore. Nessuno dei due lo desidera. Chi dei due dovrebbe prenderlo?”.
Don si fermò per rifletterci, con due tazze gialle nella mano destra e una nella sinistra; anche Carl, compiuti sedici anni, aveva cominciato a bere caffè. — Mmm, non saprei. Voglio dire: non importa, non è così?
Sarah si era diretta in cucina per buttare la cartaccia nel contenitore della differenziata. — Chi può dirlo? — gridò per farsi sentire. — Qui evidentemente, dal punto di vista degli alieni, c’è un dilemma etico che a noi sfugge. Nessuno, che io sappia, ha scoperto la risposta.
Lui la seguì in cucina, sciacquò le tazze sotto il rubinetto e poi le mise nella lavastoviglie. — Forse è che nessuno dei due dovrebbe prendere l’oggetto.
Bisognerebbe lasciarlo lì.
Lei annuì. — Sembrerebbe una buona risposta, ma non è concessa dal regolamento. Ricorda che, quasi sempre, gli alieni ci chiedono di scegliere tra un ventaglio di opzioni predefinite.
Don stava mettendo nella lavastoviglie anche i piatti. — Capperi, un bell’impiccio. Mmm... diciamo che deve prenderlo l’altro, perché... mmm, perché io sono generoso, va bene?
— Però, neppure lui desidera l’oggetto.
— Ma magari un giorno scoprirà che ha valore.
— E se invece risultasse velenoso? O appartenente a qualcuno che non gradirà il furto e cercherà di vendicarsi?
Scuotendo la testa, Don inserì una pastiglia di detersivo nell’elettrodomestico.
— Non abbiamo dati sufficienti.
— Pare che agli alieni questi elementi bastino.
Don accese la lavastoviglie e fece segno a Sarah di seguirlo fuori, lontano da quel baccano. Poi disse: — Morale della favola, non potete fornire ai Draconiani le risposte che ci farebbero fare bella figura, perché ci sono domande che non capite.
— Esatto — rispose Sarah. — In ogni caso, anche per quelle che comprendiamo meglio, ci sono accesi dibattiti su quale risposta ci farebbe fare bella figura. Alcuni dei nostri principi morali sono razionali, altri basati sui sentimenti... e non è chiaro quali dei due sarebbero più apprezzati dagli alieni.
— Pensavo che tutti i principi morali fossero razionali — disse Don. Diede un’occhiata al soggiorno per accertarsi che non occorressero altri interventi. — Non era questa la definizione di morale? Una reazione razionale, ragionata, invece di una impulsiva e viscerale. — Davvero? — fece lei, raddrizzando la pila di riviste ( Maclean’s, Mix, Discover, The Atlantic Monthly) in equilibrio precario sul tavolino tra il divano e la poltrona. — Allora prova a risolvere questo caso classico, elaborato dalla pensatrice inglese Philippa Foot. C’è un tram che corre a folle velocità, fuori controllo. Sui binari si trovano cinque persone, nessuna delle quali può scansarsi in tempo: se il veicolo le centra, saranno tutte spacciate. Tu però assisti alla scena dall’alto di una sopraelevata, su cui c’è un quadro comandi: se tirerai una determinata leva, il tram verrà deviato su un altro binario, senza investire quei cinque. Che fai?
— Che scoperta! Tiro la leva. — Decidendo che la casa non aveva bisogno di ulteriore manutenzione, si sedette sul divano.
— Che è la risposta data da quasi tutti — disse Sarah, prendendo posto accanto a lui. — Le persone, per lo più, si sentono moralmente obbligate a intervenire in situazioni in cui siano a rischio delle vite umane. Ah, dimenticavo di aggiungere un particolare: sull’altro binario è immobilizzato un uomo, un tipo grande e grosso. Se devii lo scambiò, lo uccidi. Che fai?
Lui la cinse con un braccio. — Bé, mmm... credo... credo che tirerei lo stesso la leva.
Lei appoggiò la testa sulla sua spalla. — Anche qui, sei nella media. Perché agiresti così?
— Perché morirebbe una sola persona anziché cinque.
Sarah sorrise. — Un’idea degna di Star Trek: il bene di molti è superiore a quello di pochi. È chiaramente un principio razionale, ed è per questo che lo accetta anche Spock. Ma ora supponiamo che non esista un secondo binario, e che il grosso tizio, anziché immobilizzato là sotto, si trovi accanto a te sulla sopraelevata. Tu sai per certo che, se lo buttassi di sotto, data la sua mole, l’impatto farebbe deviare abbastanza il tram da salvare le altre cinque persone. Tu invece sei un tipo mingherlino, e non servirebbe a niente se ti sacrificassi buttandoti sotto il tram. Che fai?
— Niente.
Sarah annuì. — Anche qui, quasi tutti si trovano d’accordo. Ma perché?
— Perché, mmm... perché è sbagliato... bé... — Si accigliò, aprì la bocca come per completare la frase, ma poi tacque.
— Vedi dove sta il punto? In entrambe le situazioni, la soluzione consiste nel far morire una persona... la stessa persona, anzi... per salvarne cinque. Nel primo caso, però, tu devi tirare una leva; nel secondo, dovresti dare una spinta al grassone. Il risultato, dal punto di vista razionale, sarebbe identico; ma la seconda scena è diversa sul piano emotivo. Quasi tutti quelli che hanno ritenuto giusto uccidere l’uomo nel primo caso, ritengono che sia sbagliato farlo nel secondo. — Fece una pausa. — Gli alieni nel questionario non hanno proposto un esempio paragonabile a questo, tuttavia ce ne sono vari in cui si dà sia una risposta razionale che una emotiva. E non saprei dire quale delle due risulterebbe più gradita ai Draconiani.
Don era perplesso. — Esseri così progrediti non dovrebbero preferire la razionalità alle emozioni?
— Non è detto. Perfino la lealtà e la reciprocità sembrano essere reazioni emotive: le si ritrova in animali che, com’è ovvio, non fanno ragionamenti astratti o simbolici; eppure per loro, come per noi, si tratta di valori importanti. Se lo fossero anche per gli alieni, significherebbe che si aspettano risposte di tipo emotivo. Ci sono però dei colleghi convintissimi che le risposte giuste siano quelle razionali, in quanto denotano un’intelligenza più sofisticata. La contro-obiezione è che risposte nettamente logiche non fornirebbero un ritratto affidabile dell’umanità.
Prendiamo in considerazione questo esempio, che manca nel questionario, ma mi pare efficace. I protagonisti sono i nostri due figli, tra qualche anno. Carl ed Emily trascorrono un weekend insieme, e a un certo punto decidono di fare l’amore... solo una volta, così, per vedere com’è.
— Sarah!
— Lo vedi? Ti senti immediatamente disgustato. E anch’io, ovvio. Ma perché lo siamo? Bé, presumibilmente perché l’evoluzione ha prodotto in noi una spinta verso l’esogamia, per evitare le disfunzioni che risultano spesso dai rapporti incestuosi. Ora però immaginiamo che i due utilizzino qualche metodo anticoncezionale; questo rende irrilevante la preoccupazione per i difetti genetici.
In più, nessuno dei due ha una malattia venerea. E aggiungiamo che lo fanno una volta sola, senza conseguenze sul piano psichico; e che non lo racconteranno mai a nessuno. È ancora una scena disgustosa? Dico di sì, visceralmente, e sono sicura che vale lo stesso anche per te. Eppure non sapremmo trovare una definizione razionale di questo atteggiamento.
— Pare anche a me.
— Bene. Ma per lunghissimo tempo si è provato disgusto per le unioni omosessuali o quelle miste, che oggi sono accettate dalla maggioranza. Per cui, il solo fatto che qualcosa sia stato ritenuto riprovevole da molte persone non dimostra che sia universalmente sbagliato. La morale si evolve, tanto più che le idee innovative possono essere diffuse tramite il ragionamento, come è successo con i diritti delle donne e quelli civili. Sono stati una serie di principi razionali a convincere la gente che la schiavitù e la discriminazione erano sbagliate.
L’educazione plasma i valori etici. Del resto, succede così anche con i bambini: il loro comportamento diventa più moralmente retto man mano che si sviluppano le loro facoltà razionali. Passano dall’idea che qualche azione è sbagliata “perché se mi scoprono, mi puniscono” all’idea che qualche azione è sbagliata in quanto tale.
Insomma, forse agli occhi dei Draconiani siamo abbastanza adulti da meritare una prosecuzione dei contatti; o forse no, e in quel caso non sappiamo quali risposte scegliere per non darci la zappa sui piedi. — Si accoccolò contro di lui. — Senti, alla fine penso che la cosa migliore sia semplicemente fare ciò che ci hanno chiesto: mandare un migliaio di risposte a ogni domanda, indipendenti tra loro e il più franche possibile.
— Dopodiché?
— Dopodiché rimaniamo ad aspettare se loro ci scrivono ancora.
Era un’altra afosa giornata di agosto. Don era tornato in centro città, ma non in cerca di lavoro, il che gli consentì di indossare un abbigliamento adatto alla stagione: maglietta e pantaloncini. Riemergere dalla metropolitana non fu una sauna, stavolta.
Sarah, come tutto il resto del team SETI, era ancora alla ricerca della chiave per decodificare il secondo messaggio da Sigma Draconis. Nella notte aveva avuto un’intuizione, ma per metterla alla prova aveva bisogno di vecchio materiale cartaceo conservato negli archivi dell’università.
Un breve tragitto a piedi separava la fermata di Queen’s Park dai torreggianti Laboratori di fisica McLennan, sede della facoltà di Astronomia e astrofisica dell’Universita di Toronto. Dal tetto affioravano le cupole di due osservatori. Ogni volta che Don li notava, in passato, pensava sempre che a Toronto, con tutto l’inquinamento luminoso che c’era, erano veramente una spesa inutile. Adesso però si sorprese a paragonarli a un bel paio di tette.
Uscendo dall’ascensore al quattordicesimo piano dell’edificio, vide che lungo le pareti del corridoio era stata allestita una mostra sui personaggi famosi della facoltà. Tra essi: Helen Sawyer Hogg, scomparsa ormai da quarantacinque anni, della quale Don, da ragazzo, leggeva ogni sabato la rubrica di astronomia pubblicata sullo “Star”; Ian Shelton, scopritore della supenova 1987a nella Grande Nube di Magellano; e ovviamente Sarah. Si fermò a leggere la targa relativa a sua moglie, poi diede un’occhiata alla foto, che risaliva al almeno quarant’anni prima, dato che in nessun’altra epoca aveva portato i capelli così lunghi.
Oh bé, le foto d’epoca erano perfette per quel luogo: le università in quanto tali erano un anacronismo, nonostante la loro lotta pluridecennale contro la cultura on-line. Sacri palazzi e torri d’avorio, ecco che cos’erano... che poi era un modo nobile per dire che erano dei dinosauri istituzionali. E tuttavia, in una maniera o nell’altra, resistevano.
Riguardò l’immagine di Sarah, e serrò le mascelle. Se le cose fossero andate come dovevano, adesso sua moglie avrebbe avuto un aspetto ancora più giovanile.
Quella sarebbe stata la fotografia del suo futuro; di quando avrebbe fatto, per la seconda volta, il suo elegante ingresso nella mezza età, intorno al 2070.
Proseguendo lungo la curva del corridoio, trovò una serie di immagini astronomiche incorniciate. Poi, ecco la porta che cercava. Bussò delicatamente: un’abitudine che gli si era creata quando dare colpi troppo secchi alle porte gli indolenziva le nocche artritiche; con il rischio però che nessuno dall’interno lo sentisse. Per sicurezza stava per bussare con più forza, quando sentì una voce femminile che diceva: — Avanti!
Lui entrò lasciandosi la porta aperta alle spalle. Una giovane dai capelli rossi lo osservava con aria interrogativa da dietro una postazione elettronica.
— Cerco la signora Leonore Darby — disse Don.
Lei sollevò una mano: — Presente!
Don restò di stucco. Ora ricordava. La rossa da favola all’ultima festa di Natale in facoltà. Lui aveva fatto di tutto per non notarla, tanto lo sconvolgeva la sua bellezza.
Leonore dimostrava venticinque anni... venticinque anni autentici, ovviamente.
Una cascata di capelli color ruggine le copriva le spalle; aveva una pelle nordica e lentigginosa, occhi verde smeraldo. Anche lei in pantaloncini e maglietta, con la scritta ONDERDONK, che doveva essere un gruppo rock. Aveva annodato la parte inferiore della maglietta al di sopra dell’ombelico; pur essendo seduta, non mostrava neppure un accenno di adipe ai fianchi.
— In cosa posso esserle utile? — domandò, con un sorriso da spot pubblicitario.
Molte persone della generazione di Don erano afflitte da svariate imperfezioni odontotecniche, ma i giovani d’oggi avevano tutti dei denti perfetti, dritti, splendenti, senza neppure una carie.
Don si mise quasi sull’attenti. — Mi chiamo Donald Halifax. Mi è stato detto...
— Oh mio Dio! — esclamò Leonore. Lo squadrò da una parte all’altra, mettendolo in serio imbarazzo; probabilmente lui arrossì. — Mi aspettavo che venisse... bé, sarà suo nonno. Ha preso il nome da lui?
Lo scorso dicembre la ragazza aveva conosciuto un Don Halifax di ottantasette anni, e adesso le avevano annunciato l’arrivo di un tizio con quel nome, che veniva a prelevare materiale per Sarah. Facendo due più due...
L’ipotesi di Leonore, di per sé, non era poi così campata per aria. — Esatto — rispose Don, e lo era sul serio: il suo home completo all’anagrafe risultava Donald Roscoe Halifax, dove Roscoe era il nonno paterno.
Ma sì, perché no? Era uno scherzo innocente, e poi a Don non andava di ripetere tutta la triste storia del Rollback. Senza contare che probabilmente non avrebbe mai più incontrato quella meraviglia in vita sua.
— Felice di conoscerla — disse Leonore. — Ho incontrato suo nonno in un paio di occasioni, è un tipo ancora in gamba!
Lui gongolò. — È vero.
— E come sta...
Don trattenne il fiato. Se la ragazza avesse aggiunto “sua nonna”, lo scherzo avrebbe cominciato a diventare pesante. Ma lei disse: — ...la professoressa Halifax?
— Bene, grazie.
— Sono contenta. — Poi però, a sorpresa, scosse la testa e affermò: — Certe volte vorrei avere qualche anno in più. — Sorrise e si alzò, sciogliendo il nodo della maglietta e tirandola per farla cadere a posto; l’effetto immediato fu di mettere in rilievo le curve dei seni. — Sì, perché in quel modo avrei potuto averla come relatrice di tesi. Non che abbia nulla contro il professor Danylak, ma, sa, è frustrante ritrovarsi a studiare nella sede in cui insegnava la massima esperta, e non poter fare neppure un corso con lei.
— Anche lei al progetto SETI?
Leonore annuì. — Già! Perciò, come può immaginare, per me la professoressa Halifax è un mito.
— Eh sì — rispose Don, poi diede un’occhiata alla stanza, perché...
Perché finora aveva avuto solo occhi, troppi occhi, per quella ragazza.
L’ambiente era suddiviso dalle solite pareti mobili; a una parete erano accostati una schiera di mobiletti per archivio. Gli uffici completamente computerizzati e le automobili volanti facevano parte, da sempre, del “prossimo futuro”; forse la sua nuova vita avrebbe permesso a Don di veder realizzarsi l’una o l’altra delle due ipotesi.
Stava per pronunciare la frase successiva, ma si bloccò in tempo. Le parole sarebbero state: “Sarah mi ha chiesto...”, però nessuno si riferirebbe in quel modo a sua nonna. Ma chiamare Sarah “mia nonna”, mai e poi mai. Dopo un interminabile secondo, optò per il verbo al passivo: — Mi è stato chiesto di prelevare alcuni vecchi documenti.
— Lo so — fece Leonore. — Qui dentro sono l’ultima ruota del carro, perciò hanno spedito me in cantina a scartabellare montagne di carta. Glieli prendo subito.
Attraversò la stanza, seguita dagli occhi di lui, che si soffermarono in particolare sui movimenti della parte posteriore dei pantaloncini. In cima a uno dei mobiletti era posato, un mazzo di fogli racchiusi in una serie di cartelline; il tutto era alto una trentina di centimetri.
Don era terrorizzato dall’effetto che poteva fare sulla gente il suo nuovo aspetto: siccome guardandosi allo specchio aveva sempre un sussulto, immaginava che tutti avessero la stessa reazione. Però, quando Leonore gli porse i documenti, non diede segno di trovare niente di strano in lui.
Da parte sua, Don aveva recuperato anche il senso dell’olfatto: ora assaporava l’aroma di pesca che saliva da lei. Non un profumo; piuttosto, uno shampoo o un balsamo.
— Oh Gesù — disse lui. — Non mi aspettavo tutta... questa roba!
— Ha bisogno di una mano fino alla macchina?
— Per la verità, sono venuto in metropolitana.
— Oh! Allora posso darle un contenitore per trasportarli meglio.
— La ringrazio. Il guaio è che... — Lei lo osservò incuriosita. Lui proseguì: — È che prima di rincasare avevo in programma visitare la Galleria d’arte. C’è una mostra speciale sulle opere in vetro soffiato di Robyn Herrington.
— Magnifico, la Galleria si trova a soli due isolati da qui. Perché non lascia qui i documenti, e non torna a prenderli quando avrà finito?
— Non vorrei disturbare.
— Ma niente affatto! Resterò in ufficio fino alle cinque.
— Stacanovista, eh? Deve piacerle un sacco lavorare qui.
Lei si appoggiò alla scrivania. — Sì, è bellissimo.
— Specializzanda?
— Non ancora. Sto terminando il master.
— Ha fatto qui anche i corsi base?
— No, studiavo alla Simon Fraser.
Lui annuì. — Dov’è più? Vancouver?
— Esatto. E, senza offesa, laggiù era meglio. Qui mi manca l’oceano, le montagne... e questo clima non lo sopporto.
— Ma alla lunga Vancouver non è una palla, con tutta quella pioggia?
— Ormai non ci faccio neanche più caso, mi ci sono abituata. Ma qui... la neve d’inverno, l’afa d’estate! Se non ci fosse l’aria condizionata, sarei già morta.
Neppure Don amava alla follia il clima di Toronto. Annuì di nuovo. — Quindi, terminati gli studi, tornerà tra i suoi monti?
— Mmm, credo di no. Mi piacerebbe andare in qualche posto nell’emisfero australe. Laggiù finora sono state fatte pochissime ricerche in stile SETI.
— Ha in mente qualche posto in particolare?
— L’Università di Canterbury dove hanno un’ottima facoltà di Astronomia.
— Dov’è?
— In Nuova Zelanda.
— Ho capito: oceano e montagne!
Lei sorrise. — Proprio così.
— Ci è mai stata?
— No, no. Ma prima o poi...
— Auguri.
— E lei? — domandò Leonore, sollevando il sopracciglio rosso verso la fronte lentigginosa.
— Oh sì, nel... — frenò in tempo. Stava per dire “nel 1992”. — Qualche anno fa, non ricordo con precisione.
— Oo-uh — reagì lei, formando quasi un cuoricino con le labbra. — E com’è?
Le è piaciuta?
Don pensò che fosse giunto il momento di interrompere il contatto visivo con la ragazza. Spostò le pupille su un orologio a muro. Erano l’una e dieci, e infatti cominciava a sentire fame. Anche il senso del gusto era tornato ai fasti della gioventù: dopo lunghi periodi di sacrifici, l’aumento progressivo della massa muscolare durante il processo di Rollback gli aveva fatto venire un appetito da lupo. Adesso si era stabilizzato sullo standard dei suoi venticinque anni, che era ancora piuttosto notevole.
— Via — disse — la ringrazio della cortesia di tenermi i documenti. Ora devo proprio andare.
— Direttamente in Galleria?
— A essere sinceri, prima farò pausa pranzo. C’è qualche posto carino nei paraggi?
— Il Duca di York, glielo consiglio. Anzi...
— Sì?
— Bé, ho sul serio l’intenzione di trasferirmi in Nuova Zelanda, per cui mi piacerebbe ascoltare le sue impressioni di viaggio. Le spiace se facciamo pausa insieme?
All’uscita dall’edificio, Don e Leonore vennero accolti da un sole a picco nel cielo color mercurio, e da un’umidità soffocante. A sud, in mezzo alla foschia baluginava la sagoma della CN Tower. Il campus era deserto, perlomeno di studenti, ma in Bloor Street si accalcava una folla composta in parti uguali da uomini d’affari locali e turisti, più qualche robot immancabilmente di corsa. Per strada i due parlavano di Nuova Zelanda.
— Un gran bel posto — diceva Don — se non fosse per quella loro mania di ficcare fette di barbabietola negli hamburger che... Toh, guarda là! — C’era un’auto parcheggiata vicino al marciapiede, sulla cui targa comparivano le lettere PQHO. — Qoph — disse lui.
Leonore ebbe un attimo di esitazione, poi: — Ah, è una lettera dell’alfabeto ebraico! Che occhio! Gioca a Scarabeo? — Solo i campioni di Scarabeo sapevano trovare così al volo parole con la O ma senza la U.
Don sorrise. — Ebbene si!
— Anch’io. E anch’io mi esercito leggendo le targhe delle automobili!
Proseguirono verso il ristorante riprendendo l’argomento Nuova Zelanda; quando furono al Duca di York Don aveva quasi esaurito le sue conoscenze in materia. Il locale era una sorta di pub a due piani che dava su una strada tranquilla.
Gli edifici intorno, tutti rimessi a nuovo, davano l’impressione di ospitare uffici di consulenti e avvocati d’alto bordo. I due presero posto a un tavolo in fondo al primo piano; dagli altoparlanti veniva musica rock, o come accidenti i giovani d’oggi chiamavano la roba che ascoltavano; provvidenzialmente c’era l’aria condizioriata.
Al tavolo accanto erano seduti tre uomini. A ricevere le ordinazioni dei vini era arrivata una cameriera dell’età di Leonore, quasi altrettanto sexy con un toppino nero in pelle dalla scollatura vertiginosa.
— Rosso o bianco? — chiese uno dei tre, rivolto ai commensali.
— Rosso — risposero gli altri due quasi all’unisono.
Il primo uomo si rivolse alla cameriera: — Sento rosso.
Leonore si chinò e sussurrò a Don in un orecchio: — Wow, quel tipo deve soffrire di sinestesia!
Don sghignazzò.
Poi la cameriera si rivolse a loro. Era alta, di spalle larghe, con pelle color cioccolata e capelli blu che scendevano fino in vita. — I signori desid... oh, Lennie!
Tesoro, scusa, non ti avevo riconosciuta!
Leonore sorrise rivolta a Don. — Lavoro qui due sere a settimana per arrotondare.
E all’improvviso lui ebbe un glorioso flash di Leonore abbigliata come quella cameriera (Gabby stando alla targhetta). Gabby si portò una mano al fianco generoso. — E il tuo amichetto chi è? — disse in tono ironicamente serio, come se i ragazzi di Lennie dovessero ricevere la sua alta approvazione.
— Si chiama Don — rispose la ragazza.
— Ciao — disse lui — felice di conoscerti.
— Anch’io — disse Gabby. Spostò di nuovo l’attenzione su Leonore. — Allora, okay per sabato alla banca?
— Certo.
Quindi lei ordinò un bicchiere di vino bianco, e Don la sua classica Diet Coke.
La fusione tra la Coca-Cola e la Pepsi aveva risolto un grosso dilemma esistenziale.
Dopo che Gabby si fu allontanata, Don domandò a Leonore: — Insomma, per sabato avete in programma una rapina in banca.
Lei parve imbarazzata. — No, la Banca degli alimenti. Gabby ci si dedica regolarmente, io quasi tutti i sabati sera. — Poi, quasi a doversi giustificare: — A lavorare in un ristorante si vede così tanto cibo andare sprecato, e c’è gente che fa la fame.
Lui distolse lo sguardo per un attimo. Quante persone... Cristo benedetto, quanti milioni di persone si sarebbero potute sfamare con il prezzo del suo Rollback?
Come aveva giustamente rilevato la segreteria telefonica di casa Halifax, a Leonore la parlantina non mancava. Per lui però andava benissimo stare in silenzio: più si fosse esposto, più rischi correva. Il viso di lei era così espressivo, la sua voce così argentina, che Don avrebbe potuto rimanere ad ascoltarla per ore. Qualche volta si sforzava di inserire anche lui qualche brano di conversazione, come: — Vedo che ti piacciono gli Onderdonk — indicando la maglietta.
— Assurdi! — disse lei. Siccome lui non capì se era un insulto o un complimento, se ne restò impassibile.
— E... tu? — proseguì la ragazza. — Qual è il tuo gruppo preferito?
“Oh merda.” Ad averlo saputo prima, si sarebbe preparato. I nomi delle band dei suoi tempi... Elo, Wings, Supertramp, April Wine... a Leonore non avrebbero detto nulla. D’altronde, per quanto lui si spremesse le meningi non riusciva a recuperare neppure un gruppo contemporaneo. — A me, mmm, ecco... — Poi, il lampo di genio: indicò il più vicino altoparlante. Non che avesse idea di che complesso fosse quello in onda in quell’istante, né che titolo avesse il brano.
Lei annuì con vigore. — Iperborei. Troppo oltre — disse. Don mantenne la faccia di bronzo. Uno dei due doveva essere il nome del gruppo, l’altro un apprezzamento, ma vá a decidere quale. Però un momento: a ruoli invertiti, se gli altoparlanti avessero diffuso le note di Call me, uno degli standard dei suoi anni al liceo, lui avrebbe esclamato “Blondie. Favolosa”, quindi c’era da presumere che gli Iperborei fossero la band, e che “troppo oltre” fosse un complimento. Era come decodificare un linguaggio alieno; Sarah sarebbe stata fiera di lui.
— E poi? — chiese Leonore.
— Mmmmm... — Con la forza della disperazione, tirò fuori: — I Beatles.
— Ma vá! — esplose lei. — Li adoro ! E la loro canzone che preferisci?
— Yesterday.
Lei emise un lieve fischio di approvazione.
— Certo — fece lui — che è una bella combinazione che si trovino insieme due fan dei Beatles! — Subito dopo averlo detto, se ne pentì. Magari era in atto un revival dei Ragazzi di Liverpool, come quello dei film di Humprey Bogart quando lui andava all’università.
No, non era stata una mossa falsa. Leonore era entusiasta. — Poco ma sicurol Quasi nessuno dei miei amici li ha mai sentiti nominare.
— Tu come li hai scoperti?
Lei gli rivolse un’occhiata interrogativa; Don doveva aver usato un’espressione fuori moda. In ogni caso il significato della domanda era evidente, e lei rispose: — Mio nonno aveva tutti i loro dischi.
“Ahia.”
— Me li faceva ascoltare — continuò lei — quando andavo a trovarlo da bambina. Possedeva ancora uno di quei vecchi stereo... era il suo hobby... e scatoloni di dischi in nylon.
Don non la interruppe per precisare “in vinile”, perché non era educato correggere gli errori innocenti. Glielo aveva insegnato suo nonno.
Però maledizione, doveva trovare un argomento che non lo costringesse a fare i salti mortali. In teoria, avrebbero potuto parlare dell’unica conoscenza in comune che avevano: Sarah. Molta gente ricorre a questa scappatoia. Ma a Don veniva la pelle d’oca all’idea che Leonore pronunciasse una frase come: “Tua nonna...”.
Gabby tornò con le bevande e prese le ordinazioni del cibo. Don scelse un’insalata di roastbeef e verdure di stagione con pezzetti di gorgonzola. Leonore, senza neppure consultare il menu, ordinò fish and chips.
Un tema che a Don piaceva affrontare era la politica, però mai con gli sconosciuti. Tuttavia erano imminenti le elezioni provinciali e, siccome la ragazza era originaria della Columbia Britannica, era probabile che non fosse troppo coinvolta nelle elezioni dell’Ontario. Pareva un terreno sicuro. — Bé, secondo te chi vincerà le elezioni?
— Io voto NDP.
Don sorrise ripensando ai propri trascorsi socialisti, quand’era studente universitario. In ogni caso, Leonore appariva incredibilmente informata sull’attuale panorama politico. Quando però si cominciò a rinvangare il passato... — Il primo ministro che apprezzo di piu? Direi Mulroney.
Questo mandò Don fuori dai gangheri. E basta con questo revisionismo di moda! — Ascoltami — disse — ricordo bene com’era la situazione quand’era primo ministro Brian Mulroney e... — Leonore strabuzzò gli occhi, lui cambiò corsia: — Voglio dire, ho letto un sacco su quel periodo, ed è stato più squallido dei momenti piu squallidi del governo Chrétien...
Ma insomma, perché continuava a tenere segreta la sua vera età? Non avrebbe potuto indossare la maschera in eterno. Prima o poi la sua storia sarebbe stata risaputa anche nella facoltà di Astronomia, dove Sarah contava ancora numerosi contatti: tra loro due non avevano concordato una congiura del silenzio. Senza contare che Leonore sarebbe probabilmente rimasta affascinata dal racconto dell’incontro con Cody McGavin, che restava il santo patrono di SETI. Poi però, appena riaffiorava il ricordo del diverso esito del Rollback, il senso di colpa gli serrava la gola.
— D’accordo — ribatté Leonore — vediamo di che pasta sei fatto.
Lui la guardò esterrefatto. Lei si mise a trafficare nella borsa; dopo un secondo ne tirò fuori un palmare che piazzò sul tavolo a metà strada tra loro due. La ragazza premette un paio di pulsanti, e sulla tovaglia si materializzò una versione olografica di Scarabeo.
— Wow! — esclamò Don. Possedeva una collezione di Scarabei di tutti i tipi, pieghevoli, magnetici, con fiches autoadesive, elettronici, perfino miniaturizzati, ma questo non l’aveva mai visto. Troppo oltre.
— Molto bene, signor Qoph — disse lei. — Si va!
Una sera di primavera, anno 2009. — Amore, sono a casa! — si era annunciata Sarah.
Don uscì di cucina, attraversò il salotto e si fermò in cima alla scaletta interna.
— Com’è andata?
Ad “andare” era stata la “Prima seduta di collaborazione internazionale sul modo di gestire il messaggio da Sigma Draconis”, una maratona di tre giorni per esperti SETI da tutto il mondo, tenutasi presso l’Università di Toronto sotto la presidenza della stessa Sarah.
— Sono esausta — rispose Sarah, aprendo il guardaroba e appendendo l’impermeabile. A Toronto, aprile non è il mese “piu crudele” ma il più piovoso. — Discussioni a non finire. Ma ne è valsa la pena.
— Sono contento per te — commentò Don. — C’è dell’arrosto in forno, sarà cotto tra venti minuti.
La porta d’ingresso si riaprì ed entrò Carl, bagnato come un pulcino. — Ehi, ma’! Com’è andata la conferenza?
— Bene. Ne stavo giusto parlando a tuo padre.
— Cena è pronta tra venti minuti — aggiunse Don.
— Mi faccio una doccia e arrivo — disse Carl, sfilandosi le scarpe fradice senza chinarsi né slacciarle. Senza togliere il giubbotto, corse di sopra a rotta di collo, evitando per un soffio una collisione con il padre.
— Allora? Racconta — chiese lui alla moglie.
Lei salì in soggiorno, si baciarono. — Tanto per cominciare, abbiamo compilato un inventario di tutte le risposte non autorizzate inviate agli alieni... tutte quelle di cui fossimo al corrente, almeno...
— Del genere?
— C’è un gruppo che afferma di essere riuscito a tradurre nei simboli draconiani l’ incipit del Genesi.
— Gesù — disse Don.
— No, lui compare solo più tardi... Nel frattempo, un altro gruppo ha inviato in orbita un’intera enciclopedia dell’arte islamica. Qualcun altro afferma di aver realizzato una lista com tutti i numeri di matricola dei soldati americani uccisi in Iraq. Un altro ha spedito un test di ammissione universitario, con la motivazione:
“Invece di essere noi a preoccuparci su come passare il test alieno, dovrebbero essere loro a sforzarsi di passare uno dei nostri, se proprio ci tengono a entrare nel nostro sistema”.
— Però — fece Don.
— Quanto ai messaggi musicali, ce n’è un’infinità. — Sarah andò a stravaccarsi sul divano. Don le fece segno di sollevare le gambe per permettergli di sedersi accanto a lei. Poi cominciò a massaggiarle i piedi.
— Che dolce — mugolò lei. — Tornando al punto: c’era anche Fraser Gunn, te lo ricordi?, quello contrario all’invio di brani sonori.
— Perché? Per timore di cause intentate dai detentori dei diritti?
— Oh, no, ma sostiene che l’unica merce di scambio tra noi e gli alieni sarà la cultura. E se diamo via subito il nostro meglio... Bach, Beethoven, i Beatles... dopo, ci ritroveremo a mani vuote quando gli alieni diranno : “Okay, e in cambio dei nostri capolavori, voi che offrite?”
Don conosceva fin troppo l’arte di raschiare il fondo del barile della cultura.
Essendo un DVD-dipendente era andato in estasi quando i programmi TV della sua infanzia erano stati resi disponibili in digitale, e si era procurato tutte le raccolte storiche: Thunderbirds, All in the Family, M*A*S*H, Roots, Kolchak — The Night Stalker, oltre naturalmente alla prima serie di Star Trek. Ma l’ultima volta che era andato al “Future Shop” l’unica novità erano i DVD di cose indegne come Sugar Time! , sitcom con Barbi Benton, e The Ropers, un derivato di Three’s Company il cui unico merito era di aver dimostrato che la serie originale non era il peggio. Ci era voluto poco perché gli studios esaurissero le scorte di materiale valido che avevano in magazzino, e cominciassero a rivendersi la spazzatura.
— Bé — disse Don — forse Fraser ha ragione. Voglio dire, SETI dovrebbe servire solo a inviare informazioni, no?
— Per me, Fraser ha completamente ragione. Solo che non possiamo farci niente: la gente spedisce quello che le pare. Si dovrà ribaltare la celebre domanda di Carl Sagan. Non più “Chi parla a nome della Terra?”, ma “Chi non parla a nome della Terra?”.
— Stiamo esportando il nostro prodotto di maggiore successo: lo spam.
Sarah annuì con una smorfia. Come lei ripeteva spesso, SETI era un progetto nato intorno alla metà del XX secolo dal sogno di Morrison e Cocconi, e portava con sé parecchia zavorra dell’epoca. L’idea che i governi, meglio se in cooperazione globale, mantenessero sotto controllo il traffico dei messaggi era un’utopia che rifletteva una situazione in cui i satelliti non erano un prodotto di massa.
Adesso, però, chiunque fosse in grado di assemblare i pezzi poteva costruirsi un radiotelescopio. Pilotate da appositi software per uso domestico, le parabole orbitanti private non avevano difficoltà a rintracciare nei cieli il segnale di Sigma.
A loro volta le singole parabole, poste a enormi distanze l’una dall’altra, potevano essere linkate via Internet e, con l’ulteriore aiuto di programmi che correggevano automaticamente le distorsioni e cancellavano i disturbi, si creavano sistemi satellitari complessi. L’espressione SETI@home aveva finito per assumere un significato molto più ampio e diverso.
Restava vero che, in molti Paesi del mondo, le trasmissioni radio erano sottoposte a precisi vincoli legali; perciò, su sollecitazione di SETI, le autorità si misero in caccia dei singoli e gruppi che diffondevano via etere risposte non autorizzate. Ma, almeno negli Stati Uniti, i cittadini avrebbero quasi sempre vinto la causa appellandosi al Primo emendamento. Per quanto gli impianti fossero potenti, infatti, una trasmissione a banda ristretta indirizzata verso un puntino in cielo non creava nessuna interferenza con le normali onde radio, perciò qualsiasi tentativo di intervento diventava un attentato alla libertà di espressione.
Don sapeva anche che varie organizzazioni religiose, tra cui alcune nuove sette, avevano costruito a terra enormi parabole dedicate. Alcune di esse inviavano un segnale 24 ore su 24, sfruttando il fatto che, a latitudini superiori a 20° N, Sigma Draconis non tramonta mai.
Per chi intendeva mandare agli alieni solo uno o due messaggi (teorie sballate, poesie illeggibili, trattati di politologia) erano a disposizione aziende private che offrivano diversi pacchetti di trasmissione dalle proprie parabole. Una delle più quotate era la Dracon Express, il cui slogan suonava: “Se vuoi che arrivi assolutamente entro 18,8 anni luce”.
Sbucò Emily, nove anni, che arrivava dal seminterrato. — Ciao, scricciolo — la salutò il padre. — Tra poco la cena è pronta. Ti va di preparare la tavola?
Emily fece una faccia molto espressiva. — Devo proprio?
— Eh sì — rispose Don.
Lei emise un sospiro teatrale. — Sempre tutto io!
— Indovinato — disse Don. — E dopo cena, andrai per qualche ora ad arare i campi, poi, quando avrai finito, ti chiedo di spazzare tutte le strade di qui alla Finch Avenue.
— Ma papà! — Sorrise adesso mentre trotterellava verso la cucina.
— Insomma — domandò Don a Sarah, la quale si sforzava di non fare un salto ogni volta che Emily faceva sbattere i piatti uno contro l’altro — avete scovato la soluzione alla domanda sul perché gli alieni ci abbiano proposto un quiz sulla morale?
Lei scosse la testa. — Secondo qualche paranoico, ci stanno facendo fare i compiti. Se non arriveremo al “6”, ci metteranno in castigo. Un collega francese è arrivato al punto di sostenere che i Draconiani stanno facendo controlli di tipo veterinario per stabilire se possediamo la facoltà razionale o se siamo delle mucche; così, quando verranno a mangiarci, sapranno che cos’hanno in frigo.
— Mi pareva che uno degli articoli del credo SETI affermasse che gli alieni si limitano a comunicare a distanza.
— Dev’essere sfuggito ai parigini — disse Sarah. — Qualcun altro ha ipotizzato che la Terra rappresenti solo un’area all’interno di una ricerca più vasta. Poi, con tutti i dati relativi alle specie incontrate, i Draconiani realizzeranno una serie di coloratissimi grafici a torta da pubblicare sulle loro riviste.
Si sentì il trillo di un timer: Don diede una pacca sulle gambe alla moglie; lei lo lasciò alzare per raggiungere la cucina. Don si lavò le mani e aprì il forno. — E la risposta? — gridò verso il soggiorno. — Che avete deciso di fare?
— Mi do una rinfrescata veloce e arrivo! — rispose lei. — Aspettatemi, eh?
Don prese le manopole, quindi tolse dal forno l’arrosto. Lo posò sui fornelli.
— I tovagliolini dove stanno? — domandò Emily.
— In quel cassetto — rispose il padre, indicandolo con un cenno della testa. — Proprio dov’erano ieri. E l’altroieri.
— Stacie ha detto che ha visto mamma in TV — proseguì la bambina.
— Bello, no? — Scoperchiò la pentola e si mise a rimestare il contorno di verdure.
— Sì, bellissimo — disse Emily.
— Che profumino! — fece Sarah, entrando.
— Grazie — disse Don. Poi gridò: — Carl! In tavola!
Pochi minuti dopo, quando furono tutti seduti e serviti, Don domandò: — In definitiva, che cosa risponderete agli alieni?
— Quello che hanno chiesto loro. Apriremo un sito web gestito dall’università, lasciando che gli utenti di tutto il mondo inviino le risposte. Quindi ne sorteggeremo un migliaio a caso e le codificheremo per i Draconiani.
Carl stava allungando un braccio per prendere un tovagliolo di carta. — Altolà!
— gli intimò il padre. — Non è educato sdraiarsi sul tavolo. Chiedilo a tua sorella, e lei te lo darà.
Carl sospirò. — Mi passi un tovagliolo?
— Chiedi “per favore” lo rimbeccò lei.
— Papà!
Don era stanco. — Emily, passa i tovagliolini a tuo fratello.
Lei eseguì con aria seccata.
— Ma perché vogliono mille risposte? — continuò Don. — Perché non sarebbe sufficiente un riassunto, del tipo: il tot per cento ha scelto la risposta A, tot la risposta B, eccetera?
— Non stiamo mica giocando a Family Feud — disse Sarah.
Don approvò con una risatina.
— A parte gli scherzi — aggiunse Sarah — penso che, se si fa un riassunto dei dati, non si noterebbero più le apparenti contraddizioni. Ad esempio, se ci si limita a riportare che l’ x per cento è contro l’aborto e l’ y per cento a favore della pena capitale, non emerge più il fatto che spesso sono le stesse persone ad avere questi due atteggiamenti. O, se è solo per questo, gli alieni potrebbero trovare bizzarro il mio modo di pensare, a favore della libertà di scelta della donna, ma contro la pena di morte. Cioè, come se considerassi lecita l’uccisione di bambini innocenti ma non quella di persone responsabili di gravi reati. Ovviamente io non descriverei in questo modo la mia posizione, ma si tratta di un’interessante associazione di idee, e sicuramente i Draconiani non desiderano che questa ricchezza di dati sparisca dentro una serie anonima di percentuali.
— Un approccio intelligente — disse Don, tagliando un’altra fetta d’arrosto per il figlio. — E tu, che risposte manderai?
— Non capisco.
— Sei stata tu a scoprire che si trattava di un sondaggio. Ti spetta di diritto che le tue risposte vengano accluse al messaggio dei terrestri.
— Oh... non ci avevo neanche pensato...
— Ma certo, mamma — fece Carl. Non esiste che non partecipi anche tu.
— Bé, vedremo — disse lei. — Emily, per favore mi passi i piselli?
Terminata la pausa pranzo, Leonore tornò all’università e Don si diresse alla Galleria d’arte. Don era rimasto impressionato dalla bravura di quella ragazza a Scarabeo: possedeva un dizionario mentale sconfinato, un ottimo senso della strategia, e rapidità di mossa. Anche se alla fine aveva vinto lui, erano state appannaggio di lei alcune delle soluzioni più clamorose.
La Galleria d’arte dell’Ontario esibiva la più grande collezione al mondo di sculture di Henry Moore, così come un’ampia selezione di antichi maestri europei e del gruppo canadese dei Sette, oltre a una mostra permanente di acquerelli di Helena van Vliet. Tutte cose che Don aveva già visto, ma che rivedeva sempre con piacere. Quel giorno però a calamitarlo lì era stata la mostra itinerante di vetri soffiati della Herrington; si prese il tempo di osservare con calma ogni pezzo. Don amava le forme di creatività che richiedevano abilità manuale, al contrario di tanta arte contemporanea dove il talento non stava più nella pazienza ma negli effetti digitali.
Il museo era pieno di turisti, quindi c’era da mettere in conto il fatto di ricevere occasionali urti e spintoni; ma ormai non gli scricchiolavano più le ossa, e non avrebbe trascorso ore a lamentarsi delle botte subite.
L’opera della Herrington che gli piacque di più fu un pesce giallo con grandi occhi blu e labbroni rosa. Quanta personalità l’artista aveva saputo infondere a un pezzo di vetro fuso!
Venne infine il momento di tornare all’università a recuperare il pacco di documenti. Era già l’ora di punta, le auto si ammucchiavano parafango contro parafango. Quando Don arrivò al quattordicesimo piano della facoltà di Astronomia, mancava già un quarto alle cinque, ma Leonore era ancora in ufficio come promesso.
— Ciao, Don — gli disse. — Cominciavo a temere che fossi caduto in un buco nero.
Lui sorrise. — Chiedo scusa. Ho perso il senso del tempo.
— Com’era la mostra?
— Da non perdere.
— Ti ho suddiviso il materiale in due buste, in modo che sia più comodo da trasportare.
E poi c’era chi accusava i giovani d’oggi di non avere sale in zucca. — Grazie.
— Mi spiace solo — disse Leonore — che la metro adesso sarà strapiena, e lo resterà per un’ora e mezza. Benvenuti in “Sardinia”.
— Cavoli, non ci avevo pensato. — Erano anni che non prendeva la metropolitana a quell’ora. Umani nervosi e sudati in lattina.
— Ascolta — disse Leonore — io sto per tornare al Duca di York.
— Di nuovo?
— Ho uno sconto speciale in quel locale,e poi è martedì, cioè la sera in cui, ogni settimana, io e altri compagni di corso ci ritroviamo per una cena a base di alucce di pollo. Perché non ti unisci a noi? Potresti stare un po’ in compagnia fino al termine dell’ora di punta.
— Non vorrei fare l’intruso.
— Nessun intruso!
— Mmm...
— Pensaci. Io intanto vado un attimo al bagno. — Uscì dall’ufficio, e Don si mise a osservare fuori dalla finestra. Al di là del campus, si intravedevano le strade impacchettate di macchine. Don mise una mano in una tasca dei pantaloncini ed estrasse il palmare. — Chiamata per Sarah — disse all’apparecchio. Un secondo dopo la voce di lei fece: — Pronto?
— Ciao, tesoro. Come va?
— Bene. Tu dove sei?
— Alla tua cara vecchia facoltà. Ho appena preso quei documenti.
— Com’era la mostra?
— Bella, ne è valsa la pena. Però ascolta, non mi va di finire pressato nella calca che c’è in giro in questo momento.
— È sconsigliabile, infatti.
— La nostra Leonore e i suoi amici stasera s’incontrano per un “ala di gallina” party...
— E nessuno può togliere le ali al mio maritino — disse Sarah; si avvertiva anche per telefono il suo sorriso.
— Quindi non ti dispiace se...?
— Niente affatto. Anche perché ha appena chiamato Julie Fein: avevano i biglietti per stasera, ma Howie è un po’ acciaccato, quindi mi hanno proposto di andare al posto suo. Stavo appunto per avvisarti.
— Ottimo, vai tranquilla. Che spettacolo danno?
— Fiddler on the Roof, al Leah Posluns. — Un teatro vicino a casa.
Esibendosi in una discreta imitazione di Topol, Don cantò alcune battute di If I Were a Rich Man. Quindi aggiunse: — Divertiti.
— Grazie, caro. E felice volo.
— A dopo.
— A dopo.
Leonore rientrò mentre Don riponeva il palmare. — Allora — domandò lei — qual è il verdetto?
— Affermativo. Grazie.
Quando Don e Leonore arrivarono al Duca, gli altri erano già lì. Avevano preso posto in una saletta al piano terra, il loro angolino preferito.
— Ciao — disse Leonore, scostando una seggiola e accomodandosi. — Lui è il mio amico Don.
Anche lui si sedette. Erano stati accostati due tavolini rotondi.
Leonore gli indicò un allampanato ragazzo asiatico: — Ti presento Makoto. Lei invece è Halina — una brunetta — e lei è Phyllis — una bionda di altezza considerevole.
— Ciao a tutti — disse Don — e grazie per l’accoglienza. — Un secondo dopo arrivò Gabby, che era ancora di servizio. Dopo che la cameriera ebbe elencato le specialità della casa, Don ordinò una Old Sully’s Light, l’unica birra ipocalorica disponibile.
Leonore si buttò a capofitto nel tema principale della conversazione: un loro amico che aveva litigato con la ragazza. Don ne approfittò per studiare la personalità dei componenti del gruppo. Halina non spiccicava verbo, ma aveva dei lineamenti mobilissimi che reagivano in modo eccessivo a ogni frase che sentiva: sopracciglia che balzavano su, mascella che cascava giù, sorriso da qui a lì, fronte corrugata. Un corso accelerato per aspiranti attori. Phyllis aveva un umorismo becero e usava di continuo l’espressione: “del cazzo”. Makoto sembrava scocciato dalla presenza di Don; forse aveva pregustato una serata come unico maschio in mezzo a tre belle ragazze.
Quanto a lui, per gran parte del tempo si limitò ad ascoltare, ridendo alle poche battute che capiva e tracannando birra. Voglia di intervenire nel dibattito, scarsa: erano tutte questioni terra-terra, gonfiando all’infinito le più banali crisi adolescenziali. I tre compari di Leonore non avevano la più pallida idea di che cosa fosse la vita “vera”, tra educazione dei figli e dinamiche del lavoro. Leonore invece di cose interessanti da dire ne aveva, ed era l’unica che Don ascoltasse con attenzione; per il resto, orecchiava la conversazione della coppia di mezza età al tavolo accanto. Riguardava il partito conservatore, che alle prossime elezioni avrebbe stracciato i liberal, perché...
— Avete visto in TV la famosa Sarah Halifax, l’altra settimana? — disse Makoto. — È un cadavere ambulante, avrà più di cento anni.
— Ne ha solo ottantasette — disse Don, in tono pacato.
— Solo! — fece Makoto, a beneficio di chi non avesse notato l’assurdità.
Intervenne Leonore: — Makoto, Don è il...
Don la interruppe. — Volevo solo precisare l’età di Sarah Halifax.
— Bé, meno male — sghignazzò il ragazzo — somiglia solo a una mummia egiziana. Dev’essere completamente arteriosclerotica.
Halina annuì con convinzione, ma senza fare commenti vocali.
— Cosa te lo fa pensare? — domandò Don, sforzandosi di mantenere la calma.
— Sia ben chiaro — disse Makoto. — Lo so che era stata lei a interpretare il primo messaggio, ma alla TV hanno detto che, secondo McGavin, adesso la befana sarebbe in grado di ripetere l’exploit con il secondo messaggio. — Scosse la testa come a dire: “Ma siamo scemi?”.
— A proposito di messaggi — si intromise di nuovo Leonore, tentando sportivamente di cambiare discorso — l’altro giorno mi ha scritto Ranjit dal CFH.
Dice che...
Ma ormai Don era scattato. — La professoressa Halifax capisce i Draconiani meglio di chiunque altro!
Makoto minimizzò. — Forse ai suoi tempi gloriosi, ma ora...
— Sono ancora i suoi tempi gloriosi. Senza di lei, questo dialogo con gli alieni non esisterebbe nemmeno.
— Okay okay — concesse il ragazzo — ma se McGavin avesse speso un po’ dei suoi soldi per qualcuno in grado di..
— E saresti tu?
— E perché no? Meglio per uno nato in questo secolo, anzi in questo millennio, che per quattro ossa rinsecchite.
Don abbassò gli occhi sulla bottiglietta di birra, semivuota, che aveva davanti.
Era la seconda o la terza? — Stai solo sputando veleno — disse, senza sollevare lo sguardo.
— Ascolta, Dan — disse Makoto — non è il tuo campo. Non sai di cosa stai parlando.
— Si chiama “Don” — fece Leonore. — E sarebbe forse meglio che dicesse chi...
— Io so di cosa sto parlando — disse Don. — Sono stato ad Arecibo e all’Allen Institute.
Makoto lo squadrò. Ma non darti tante arie, che non sei un cazzo di astronomo!
“Fanculo.” — Lasciamo perdere, vá. — Si alzò di scatto, facendo sbattere la sedia contro il tavolo dietro di lui. Leonore lo osservava sconvolta: immaginava che stesse per mollare un pugno a Makoto, il quale a sua volta aveva un’espressione da “avanti, provaci”. Ma Don disse semplicemente: — Vado al bagno — e si lanciò per la scaletta che portava al piano interrato.
Lo svuotamento della vescica richiese un certo tempo, e meglio così, perché aveva bisogno di sbollire. Ma porca puttana, ma perché non imparava mai a tenere il becco chiuso? Gli sembrava di vedere la scena, al piano di sopra: “Bell’amico che ci hai portato, Lennie. Che cos’è, psicopatico?”.
“Gioventù di merda.” Tirò lo sciacquone e si lavò le mani, evitando di guardarsi allo specchio, poi tornò al tavolo. Leonore lanciava occhiate significative a Makoto.
— Ascolta, amico — disse il ragazzo — mi dispiace. Non sapevo che fosse tua nonna.
— Sì — aggiunse Phyllis — scusaci un po’ tutti.
Le parole non gli uscirono, perciò Don annuì.
La conversazione proseguì senza troppa partecipazione da parte sua. Divorarono una montagna di alucce di pollo; la risorta possibilità di staccare la carne dalle ossa con i suoi denti gli restituì un minimo di buonumore. Diviso il conto, Makoto disse: — Bene, la moto mi aspetta. — Voltandosi verso Don, soggiunse: — Lieto di averti conosciuto.
Lui rispose in tono piatto: — Anch’io.
— Io devo andare — disse Pyllis. — Domattina presto ho un incontro con il mio supervisore. Vieni con me, Halina?
— Sì — rispose lei. La prima parola della serata.
Quando furono soli, Don disse a Leonore: — Scusami.
Lei sollevò un sopracciglio. — Per cosa? Per aver difeso una persona assente, e per di più tua nonna? Sei un bravo ragazzo, Donald Halifax.
— Ti ho rovinato la serata. Ai tuoi amici non sono andato a genio, e...
— Sì, invece. Okay, a parte Makoto. Mentre eri al bagno, Phyllis ha detto che sei proprio un tipo galante.
Rimase a bocca aperta. Galante! Non è un gran complimento nei confronti di un venticinquenne.
— Credo di dover andare anch’io — disse.
— Ti seguo — disse Leonore.
Uscirono dal locale; lui con le due borse di documenti. Con grande sorpresa di Don, era già buio: non si era reso conto di quante ore fossero trascorse. — Bé — disse — grazie della serata. Adesso però...
Anche Leonore era stata presa in contropiede dal buio. — Faresti due passi con me per accompagnarmi a casa? Non è lontano, ma non è un quartiere molto raccomandabile di notte.
Don guardò di nuovo l’ora. — Oh... va bene. Okay.
Leonore si accollò una delle buste, e s’incamminarono, con la colonna sonora della parlantina di lei. Il clima era ancora afoso quando raggiunsero la Euclid Avenue, un viale alberato lungo il quale si allineavano edifici cadenti. Incrociarono due tipi tutti muscoli. Uno, con il cranio rasato che scintillava alla luce dei lampioni, e sul bicipite un teschio ghignante. L’altro con cicatrici da laser sul volto e sulle braccia; erano facili da cancellare in ambulatorio, ma probabilmente le teneva come mostrine d’onore. Leonore abbassò gli occhi al marciapiede malandato, imitata da Don.
— Bene — disse lei, un centinaio di metri più avanti — siamo arrivati. — Una casa decrepita, con abbaini.
— Non male — disse lui.
Lei rise. — Fa schifo! Però è economico. — Fece una pausa, assumendo un’espressione preoccupata. — Ma guardati, come sei ridotto. Con questo caldo sarai disidratato, e di qui alla metro è un bel pezzo. Dài, vieni su, ti do una bottiglietta da portarti via.
Si diressero all’ingresso laterale, costringendo alla fuga un animaletto, probabilmente un procione. Leonore aprì e gli fece strada giù per una scala.
Don, ricordando la propria vita da studente, si era preparato al casino totale; invece l’appartamento era lindo e pulito, pur con un mobilio scompagnato che doveva provenire da svendite fatte in garage.
— Carino, sul serio — disse. — Mi...
E sulle labbra sentì le labbra di lei. Leonore premeva con la lingua per entrare.
Lui aprì la bocca, e nello stesso istante iniziò l’erezione. Di colpo la mano di lei fu alla cerniera dei pantaloni, e dopo un altro istante... “Ossignore!”... lei era in ginocchio e glielo prendeva in bocca. Pochi, fantastici secondi, poi si rialzò, lo prese per mano e, tirando Don a sé mentre retrocedeva, con un sorriso lascivo, lo portò in camera da letto.
Don aveva paura di venire troppo presto. Quanti anni erano che non riceveva stimoli di quel genere? Lo salvò l’esperienza, mentre lui e Leonore si rotolavano sul materasso, scambiandosi i posti sopra e sotto; quando poi stava per venire sul serio, ci diede dentro per eccitarla il più in fretta possibile. Lei ebbe un orgasmo selvaggio.
— Grazie — gli disse, con un sorriso, mentre giacevano su un fianco, faccia a faccia.
Lui le passò il dito sul profilo della guancia. — E di che?
— Per... bé... avermi aspettata.
Lui sollevò un sopracciglio. — Ovvio.
— Non a tutti importa, sai?
Le luci erano rimaste accese. Completamente nuda, Leonore mostrava una pelle ricoperta di lentiggini dalla testa ai piedi; lui lo trovò delizioso. I peli pubici avevano lo stesso colore ramato dei capelli. Se lei non provava il minimo imbarazzo, a Don, dopo il sesso, veniva spontaneo rifugiarsi sotto le lenzuola; ma lei le teneva in gran parte premute sotto di sé, per cui l’operazione sarebbe risultata troppo complicata e appariscente. Mentre Leonore giocherellava con i peli del suo torace, Don si accorse, con disagio, che lo stava esaminando con occhio clinico.
— Neppure una cicatrice — commentò lei, soprappensiero.
La rigenerazione dermatologica le aveva cancellate tutte. — Mai fatto brutti incontri — rispose.
— Ma stanotte ne hai fatto uno buono, o no? — E gli diede una pacca sul braccio.
Lui sorrise. Era stata un’esperienza semplicemente stratosferica. Tenerezza e ardore, dolcezza ed energia tutto insieme. Forse non coincideva con l’antico desiderio di “andare a letto com una top model”, ma era più che sufficiente, parola!
La mano di lui trovò un capezzolo di lei, e si mise a titillarlo tra indice e pollice.
— “Il pallido busto di Atena...” — mormorò.
Lei spalancò gli occhi. — Sei il primo che conosco, a ricordare un verso del Corvo che non sia il solito “Mai più”. Ne ho fin qui del romanticismo di seconda mano.
Strofinandole delicatamente il seno, lui intonò:
E il corvo non vola via più,
resta lì fisso, resta lì fermo.
Sul pallido busto di Atena
proprio in cima alla porta.
E i suoi occhi han tutto l’aspetto
di quelli di un demone che sogna.
E la lampada gli oscilla di sopra
e sul pavimento ne getta l’ombra.
E la mia anima, da quell’ombra
che sul pavimento tremola così
libera non sarà mai. Mai più.
— Wow — mormorò Leonore. — Nessun ragazzo mi aveva mai recitato una poesia.
— A me, nessuna ragazza aveva mai sfidato a Scarabeo.
— A proposito, voglio la rivincita!
— Adesso?!
— Ma no, stupidone. — Gli si acquattò contro. — Domattina.
— Non... non posso fermarmi — disse lui. Lei si irrigidì di colpo. — Ho... ho un cane da portar fuori.
Lei si rilassò. — Ah. Okay.
— Scusami — disse Don, sottinteso “per averti mentito”. Ma lasciò che lei lo interpretasse come: “Per non potermi fermare... Si guardò all’intorno in cerca di un orologio, e quando lo ebbe individuato, gli venne un colpo. — Ascolta, devo proprio andare, giuro.
— Va bene — fece lei, non troppo entusiasta. — Ma mi chiamerai, vero? Ti do il mio numero.
Don conservava un bellissimo ricordo del viaggio compiuto con Sarah in Nuova Zelanda nel 1992. L’unico guaio fu che proprio in quell’occasione venne concepito Carl, il che aveva quasi azzerato i loro viaggi per due decenni; o meglio, Sarah si spostava spesso per conferenze, mentre Don restava a casa. Gli era particolarmente dispiaciuto dover rinunciare a una gita a Parigi nel 2003, quando si era tenuto un simposio dallo sciccoso titolo “Codificare l’altruismo. La scienza e l’arte della composiziolle di messaggi interstellari”. In compenso, Don era andato con lei in Portorico nel 2010 per la cerimonia di invio della risposta ufficiale della Terra a Sigma Draconis. I due figli erano stati affidati a suo fratello Billy.
La città di Arecibo si trova a poco più di un’ora a ovest di San Juan; e l’Osservatorio di Arecibo, a sua volta, quindici chilometri a sud della città... anche se sembrava una distanza molto maggiore su per i tornanti di montagna. Secondo l’autista, si trattava di terreni carsici; a sud-ovest dell’osservatorio si aprivano le grotte di Rio Camuy, tra le più spettacolari al mondo. Del resto, l’enorme parabola radiotelescopica era stata costruita là approfittando di inghiottitoi naturali, larghi trecento metri, che sembravano fatti apposta.
Don era rimasto colpito dal fatto che la parabola non fosse in materiale pieno, ma realizzata con asticelle perforate di alluminio, separate da ampi spazi vuoti e tenute insieme da cavi d’acciaio. Al di sotto della struttura, nelle aree in penombra, cresceva un lussureggiante sottobosco di felci, orchidee, begonie. Nei pressi dell’osservatorio, poi, era tutto un brulichio di manguste, lucertole, rospi giganti, chiocciole altrettanto giganti e libellule.
Lui e Sarah erano stati ospitati in una delle “residenze per scienziati ospiti”, un bungalow che si ergeva in cima a una sconnessa collina su dieci palafitte di cemento armato. Il locale era completo di una piccola veranda, perfetta per godersi lo spettacolo dei temporali pomeridiani; cucinino, bagno, telefono. Sotto una delle finestre, con persiane in legno, era piazzato un condizionatore.
Oltre che per comodità pratica, Arecibo era stata scelta anche per motivi simbolici: trentasei anni prima era partito di lì il celeberrimo messaggio SETI di Frank Drake rivolto a M-13. In quel momento, il settantanovenne Drake si trovava di nuovo in sala di controllo, impegnato a monitorare la parabola; mentre Sarah manteneva collegato via cavo al trasmettitore il suo mini-portatile, che conteneva la matrice originale della risposta.
Come concordato, la risposta constava di mille questionari compilati, scelti a caso tra i 1.206.343 pervenuti al sito Internet. Anzi, a dire il vero ne erano stati scelti a caso novecentonovantanove, perché uno era quello di Sarah. Non che lei avesse fatto pressioni in tal senso, però aveva riferito a SETI la proposta di Don e Carl, ed era stata approvata con slancio. Secondo l’istituto, avrebbe offerto agli alieni una prospettiva di grande interesse.
Alla cerimonia vennero distribuiti CD-ROM con duplicati del messaggio da Sigma, ma senza le risposte dei terrestri. I Draconiani stessi avevano richiesto che fossero mantenute segrete, per evitare che i partecipanti subissero a posteriori l’influenza delle opinioni altrui: così, anche gli eventuali questionari successivi sarebbero stati compilati in modo imparziale.
La sala di controllo aveva un pavimento rivestito in mattonelle alternate beige e marroni, in diagonale. Quell’ambiente, con la sua consolle di strumentazioni triangolari pesante seicento tonnellate, metteva le vertigini ancora di più della finestra inclinata che dava sulla parabolica. Vi stavano pigiati scienziati, giornalisti e qualche coniuge. Un po’ dappertutto erano posati dei ventilatori, che però non riuscivano a contrastare la calura, per quanto si fosse appena di mattina. Don rimase a fissare Sarah, seduta alla scrivania centrale a forma di L, mentre caricava la risposta sul proprio computer. Lui le aveva suggerito di prepararsi qualche frase storica, ma lei aveva fatto finta di nulla; la cosa importante era che il messaggio venisse lanciato, non che lei giocasse alla soubrette. Quindi, con un banale “molto bene, si va!” Sarah aveva premuto un pulsante, e a video era comparsa la frase TRASMISSIONE IN CORSO...
Grida di esultanza e tappi di champagne che saltavano. Don rimase in un angoletto, tutto felice di contemplare a distanza lo scintillio negli occhi della moglie. Dopo qualche secondo, il brizzolato e corpulento rappresentante dell’Unione astronomica intemazionale aveva chiesto l’attenzione battendo con una penna di lusso su un bicchiere di cristallo.
— Sarah! — disse. — Un piccolo omaggio per te, da parte di noi tutti. — Aprì uno degli armadietti pensili, che rivelò un trofeo: base di marmo, colonna centrale con inserti in seta blu, e in cima una Atena alata proiettata verso le stelle. L’uomo prese l’oggetto e lo tenne un po’ inclinato di fronte a sé, come stesse stimando una grossa bottiglia di vino d’annata. Infine, con voce stentorea, lesse l’iscrizione incisa sulla targa: — A Sarah Halifax. L’idea geniale è stata sua.
Don risalì i gradini che, dall’appartamento di Leonore nel piano interrato, portavano all’uscita. Erano le undici di sera passate, e quello era un quartiere malfamato, ma non era per questo che il suo cuore batteva all’impazzata.
“Che cosa ho fatto!”
Era successo tutto così in fretta... anche se lui era stato un totale ingenuo a non prevedere che cosa stesse architettando la ragazza. Ma, da quando lui aveva avuto davvero venticinque anni, ne erano trascorsi sessanta; e già allora aveva mancato di dieci anni la rivoluzione sessuale. Il sesso libero anni ’60 era arrivato quando lui era ancora troppo giovane; conservava solo un vago, astratto ricordo di quel fenomeno culturale, come per il Vietnam e il Watergate.
Quando, quindicenne, aveva avuto le prime goffe esperienze erotiche (a parte quelle solitarie), già cominciava a circolare la paura delle malattie. In più, una sua compagna di classe delle superiori era rimasta incinta, diffondendo ulteriori inibizioni tra i coetanei. Perciò, anche se all’epoca non si metteva più in dubbio la liceità delle esperienze sessuali (tutti quelli della sua generazione le cercavano; e ben pochi, nei sobborghi piccolo-borghesi di Toronto in cui era cresciuto, ritenevano che fosse peccato averne prima del matrimonio), si trattava comunque di approcci che richiedevano tempi lunghi, pur senza la vera fobia per la gonorrea o le piattole che sarebbe esplosa nel decennio successivo.
Ma, come si dice, “la Storia si ripete”. L’Aids aveva mietuto vittime tra i conoscenti di tutti quelli della generazione di Don, ma adesso era stato debellato, grazie al cielo. Così come erano scomparse gran parte delle altre malattie veneree, o erano comunque facili da curare. In Canada erano disponibili sostanze contraccettive, femminili e maschili, sicure, virtualmente infallibili e reperibili nella farmacia sotto casa. Il che, unito a un generale rilassamento etico, aveva portato a una seconda Era del sesso libero, quale non si vedeva più dagli anni dei Beatles.
Mentre percorreva lo scalcagnato marciapiede, Don si rendeva conto che quelli erano solo tentativi di razionalizzare. Che c’entrava l’immoralità dei giovani moderni? Era un altro pianeta rispetto al suo. Che c’entravano le idee che facevano furore durante la sua giovinezza (e quella di Sarah)? Aveva resistito per sessant’anni senza mai cadere in tentazione, e adesso, tutto d’un tratto, bang!
Svoltato l’angolo tra la Euclid e la Bloox, accese il palmare. — Chiamata per Sarah. — Aveva bisogno di sentire la sua voce.
— Pronto?
— Ciao, amore. Come... com’era lo spettacolo?
— Bello. L’attore che impersonava Tevye non aveva una gran voce, secondo me, ma in generale buono. E le tue alucce di pollo?
— Squisite. Sto andando solo adesso verso la metropolitana.
— Oh, okay. Ma temo che non ce la farò ad aspettarti.
— No, no, infatti. Lasciami solo il pigiama in bagno.
— Va bene. A dopo.
— A dopo. E...
— Sì?
— Ti amo, Sarah.
La voce di lei appariva sorpresa. — Anch’io ti amo.
— Tornerò presto da te.
— Ancora non capisco — aveva detto Don nel 2009, dopo che Sarah aveva scoperto che il primo messaggio da Sigma era un sondaggio. — Perché gli alieni sono così interessati alla nostra morale? Che cavolo gliene viene in tasca?
Lui e Sarah stavano facendo una delle loro passeggiate serali. Avevano appena oltrepassato casa Fein. — Il motivo — rispose lei — è che tutte le specie intelligenti prima o poi vanno a sbattere contro gli stessi problemi. E, a meno che non abbiano una mente ad alveare, i singoli individui affrontano quei problemi con diversi approcci psicologici. Di qui i grandi dibattiti.
— Le psicologie devono per forza essere diverse?
— La variabilità è una condizione imprescindibile del processo evolutivo.
Senza la variabilità, la selezione non avrebbe nessun fattore su cui agire; e senza selezione, le specie rimarrebbero a sguazzare nel fango. La psicologia è un tratto come un altro, in un organismo complesso; perciò dovrà diversificarsi in qualunque regione dell’universo. Il che implica che sui problemi fondamentali si abbiano idee differenti.
— Obiezione accolta — disse Don. Si era levata una brezza che gli faceva rimpiangere di non aver messo una camicia a maniche lunghe. — Però non è detto che i problemi fondamentali debbano essere gli stessi per loro e per noi.
Sarah scosse la testa. — Invece, scommetto che loro si trovano di fronte agli stessi dilemmi, perché il progresso scientifico porta sempre nella stessa direzione, con le stesse domande.
Lui diede un calcio a un ciottolo. — Ad esempio?
— Prendiamo l’aborto. E stato il progresso scientifico a farlo diventare una questione di primo piano, fornendo tecniche affidabili per eliminare il feto senza uccidere o danneggiare la madre. Questo ha fatto sorgere la domanda: “Possiamo farlo. Ma è lecito farlo?”.
— Però immaginiamo che quelli di Sigma Draconis siano sul serio dei draghi, nel senso di rettili. Mi rendo conto che è improbabile, e che l’associazione deriva solo dal nome terrestre di quella stella; ma facciamo finta. Per una specie intelligente di rettili, l’aborto non richiederebbe una tecnologia molto avanzata per non danneggiare la madre: basta schiacciare le uova.
— Te lo concedo — disse Sarah, mollando un calcio al ciottolo, che nel frattempo era finito tra i piedi a lei. — Ma questo non sarebbe l’equivalente rettiliano dell’aborto. L’equivalente sarebbe la distruzione delle uova fertilizzate quando ancora si trovano nell’utero.
— Altra obiezione: esistono pesci in cui le femmine depongono in acqua uova non fertilizzate, e i maschi le cospargono di sperma all’esterno del corpo delle madri.
— E va bene, creature di quel tipo non avrebbero esattamente lo stesso problema. Tuttavia, come ho detto ad As It Happens, è improbabile che esseri acquatici possiedano la radio o tecnologie affini.
— Insisto — disse Don. — Perché l’aborto deve per forza suscitare un dibattito etico? Per molti terrestri, lo è solo in quanto credono che dentro il corpo, in un momento o nell’altro, entri un’anima. Ma gli alieni non hanno accennato a nessuna anima.
— La parola “anima” è un concetto abbreviato per trattare il tema dell’inizio della vita, e quest’ultimo è senza dubbio un argomento di portata universale.
Almeno, tra le specie che sono alla ricerca di altre forme intelligenti nello spazio.
— Perché?
— Perché un progetto come SETI indica che la vita biologica è importante, e che trovarne dell’altra è una scoperta sensazionale. Se a qualcuno non interessasse la distinzione tra vita e non-vita, si limiterebbe a studiare gli astri, senza mandare segnali radio ad altri esseri intelligenti. Per questo, avrà sempre un’enorme importanza stabilire la linea di confine tra vita e non. Quasi tutti sarebbero d’accordo che è sbagliato uccidere un cane senza motivo, perché un cane adulto è chiaramente un essere vivente... ma l’embrione? Ecco dove sta il busillis con cui ogni specie senziente deve confrontarsi.
— Bé, o la vita comincia al concepimento, o alla nascita.
Sarah scosse la testa. — Non è così facile. Sulla nostra stessa Terra esistono culture in cui non si da un nome ai bambini fino dopo il quarantesimo giorno dopo la nascita. Alcuni affermano che il bambino diventa persona solo intorno ai tre anni, quando cioè è in grado di formare ricordi permanenti. E i dibattiti non finiscono qui. Ora, sappiamo che i Draconiani si riproducono per via genetica e sessuale, come emerge in modo evidente dal loro messaggio. D’altro canto, ho il sospetto che questo metodo riproduttivo sia piuttosto comune nell’universo, in quanto dà una grossa spinta all’evoluzione, producendo nuovi pool genetici a ogni generazione; senza dover attendere che le radiazioni cosmiche provochino mutazioni casuali in esseri che, altrimenti, diffonderebbero copie identiche di sé.
Ricorda che la vita è apparsa su questo pianeta quattro miliardi di anni fa, e che per tre miliardi e mezzo di anni si è manteuuta sostanzialmente identica. Quando però, mezzo miliardo di anni fa, è stato inventato il sesso... boom, si è avuta l’esplosione del Cambriano, e l’evoluzione ha iniziato a procedere a grandi passi. Per questo, qualunque specie che si riproduce sessualmente si interrogherà sulla liceità di distruggere una combinazione irripetibile di materiale genetico, indipendentemente dal fatto che il feto sia considerato vivo o no.
Don aggrottò le ciglia. — È come discutere se occorra salvare tutti i fiocchi di neve. Solo perché una cosa è unica e irripetibile, non significa che abbia valore.
Soprattutto se tutti gli esseri appartenenti a una determinata classe condividono questo carattere di unicità.
Uno scoiattolo attraversò saltellando la strada di fronte a loro. — Inoltre — proseguì Don — per restare in tema di evoluzione: in un sufficiente arco di tempo, la questione dell’aborto non si risolverà da sola? Voglio dire, la selezione naturale favorirà ovviamente le persone che difendono la vita; mentre chi elimina il feto del proprio figlio, elimina dalla circolazione i propri geni. Basta attendere per un certo numero di generazioni, e gli abortisti spariranno.
— Brrrrr! — fece Sarah. — Che scenario raccapricciante. Però, ciò sarebbe vero solo se il “sì alla vita” offrisse vantaggi immediati, anziché far spendere per i figli una quantità enorme di risorse prima che raggiungano a loro volta l’età riproduttiva. Pensa a Barb e Barry che hanno consacrato tutte le proprie energie all’educazione di Freddie. — Barb era una cugina di Sarah; aveva un figlio con grossi problemi di autismo. — Voglio tanto bene a mio nipote, ma è un dato di fatto che sta costringendo i genitori a investimenti molto superiori al normale, e per di più non darà loro dei nipoti.
— Lo sai bene quanto me — disse Don — che solo un numero minimo di interruzioni di gravidanza è dovuto alla presenza di malformazioni nel feto. Le ecografie esistono solo da pochi decenni, ma gli aborti vengono praticati da secoli.
Senza considerare l’infanticidio, che è una cosa diversa, e però...
— La depressione post-parto ha una radice evoluzionista: la madre si rende conto di non avere risorse sufficienti per allevare questo specifico figlio fino all’età riproduttiva; perciò taglia i legami con lui per conservare per il futuro il proprio “patrimonio genitoriale”. Puoi girare la questione come ti pare, ma l’evoluzione ha insiti in sé dei meccanismi che non favoriscono per forza il maggior numero possibile di gravidanze. Comunque, lasciando da parte l’aborto, sono e resto convinta che la maggior parte delle specie intelligenti si trovino ad affrontare problemi simili, man mano che la tecnologia accresce i loro potenziali. È vero che gli alieni non citano mai Dio...
— Infatti — borbottò Don.
— ...Ma ogni specie con una lunga storia alle spalle dovrà confrontarsi, prima o poi, con i pro e i contro di “giocare a fare Dio”.
Era il crepuscolo avanzato; i lampioni si accendevano a scatti. — “Dio” è una parola pesante — disse Don.
— Forse sì, ma rende bene il concetto: se Dio è definito come il creatore dell’universo, allora tutti gli esseri intelligenti possono diventare dèi.
— Eh?
— Pensaci. Anche noi umani saremo presto in grado di produrre realtà virtuali così perfette da essere indistinguibili dalla... dalla realtà vera, no?
— “La realtà virtuale è come suonare la chitarra senza chitarra” diceva uno dei miei scrittori preferiti.
Lei emise un grugnito ironico dal naso, e proseguì: — Una tecnologia abbastanza avanzata sarebbe in grado di simulare gli esseri viventi in modo così accurato che loro stessi penserebbero di essere reali.
— Non lo escludo.
— È così. Hai mai dato un’occhiata al videogame preferito di Carl? Ormai le simulazioni sono sbalorditive, e possediamo la tecnologia digitale solo da... quand’era?... sessantacinque anni. Immagina cosa potremmo fare se possedessimo computer mille volte, o un milione, o un miliardo di volte più potenti di quelli attuali. Cosa che avverrà; se non a noi, a qualche altra specie. E qui torna la domanda: dove sta il confine tra l’inorganico e l’organico? Di che diritti godrebbero le creature virtuali? Ecco le questioni etiche che ci attendono.
Un’altra coppia, uscita per una passeggiata, camminava in direzione opposta a loro. Don li salutò con un lieve inchino.
— Anzi — disse Sarah — c’è qualche indizio che fa sospettare che noi stessi siamo immagini digitali.
— Questa la voglio proprio sentire.
— Nel nostro universo è data una lunghezza minima possibile. È detta “lunghezza di Planck” e corrisponde a 1,6 per 10-35 metri, cioè circa 10-20 volte le dimensioni di un protone. Non è possibile misurare nulla che abbia dimensioni inferiori, probabilmente a causa degli effetti quantistici.
— Ci sono.
— A questo punto, esisterà anche un tempo minimo. Siccome una particella luminosa dovrà trovarsi o qui, nella posizione A calcolata con la misura di Planck, oppure accanto, nella posizione B, allora il tempo necessario per compiere il salto da A a B sarà il minimo intervallo possibile. È stato calcolato, e si chiama “tempo di Planck”: 10-43 secondi.
— L’orologio degli “Adesso Ristretti” — disse Don con un sorriso, ricordando una precedente conversazione.
— Esatto. Ma ora guarda le conseguenze. Viviamo in un universo costituito da bit discreti di materia, e che invecchia per salti cronologici discreti. Un universo composto di pixel di spazio e di tempo. In profondità, tutti noi siamo digitali.
— La Fisica quantistica intesa non come la descrizione del livello più fondamentale della realtà, ma come... mmm... una misura del grado di risoluzione della realtà virtuale in cui ci muoviamo. — Don era impressionato. — Grande!
— Grazie. Il che però significa che il nostro mondo, con tutti i suoi pixel, potrebbe non essere altro che un videogame creato da una civiltà superiore. Quindi, da qualche parte esisterà il programmatore.
— Hai il suo indirizzo e-mail? Dovrei chiedergli qualche chiarimento sulle istruzioni.
— Però ricorda che, dopo che hai aperto la confezione del cosmo, non puoi più farti restituire i soldi. — Voltarono un angolo. — E a proposito di creazione: anche i nostri acceleratori di particelle un giorno potranno dare inizio a filiazioni di universi. Non dico già bell’e fatti, con stelle e galassie; solo delle singolarità come quella da cui è venuto fuori il nostro con il Big Bang; dopodiché quegli universi si svilupperanno per conto loro. Secondo i fisici è un’ipotesi realistica, e personalmente ritengo che ormai sia solo questione di tempo.
— Ti seguo, ma vorrei fare un passo indietro — disse Don. — Intendi dire che c’è la possibilità concreta che noi viviamo in un mondo creato in un acceleratore di particelle di un universo più originario?
— Proprio così, caro. Lo sai che mi appassiona il dibattito in corso negli USA su evoluzione e Disegno intelligente. Bé, io sono una darwiniana convinta, ma c’è un ragionamento degli scienziati evoluzionisti che non mi convince. Continuano a ripetere che la scienza non può ammettere cause “soprannaturali”, nel senso letterale che ogni spiegazione deve limitarsi a cause interne a questo universo.
— E in cosa sbaglierebbero?
— In tutto — rispose Sarah. — Quella definizione ci vieta di concludere che l’umanità possa essere opera di altri scienziati, che vivono in una realtà “al di sopra” di questa. Paradossalmente, la nostra scienza afferma che un giorno saremo in grado di fare delle simulazioni perfette, o addirittura di dare inizio a nuovi universi, ma allo stesso tempo evita di prendere in considerazione l’ipotesi che noi stessi abitiamo in un mondo virtuale o in un universo artificiale.
— Forse alla scienza non interessa questo tema semplicemente perché non farebbe altro che porre altre domande, non delle risposte — obiettò Don. — Già mi vedo Richard Dawkins che salta su e dice: “Siamo stati creati da altri esseri intelligenti... E allora? Chi ha creato quegli altri esseri?”.
— Il fatto è che la scienza, e in particolare l’evoluzionismo che è il cavallo di battaglia di Dawkins, si occupa soprattutto di mettere in fila un’era dietro l’altra e di riempire le caselle. In un’ottica più ampia, chiedersi se gli uccelli si siano evoluti dai dinosauri, o se Lucy fosse davvero la nostra antenata, può sembrare una domanda stupida: il vero punto di interesse è come si sia formato l’organismo originario, antenato di tutte le forme di vita. Bé, non sono d’accordo. Quella è una questione interessante, ma non l’unica, per niente. Chiedersi se viviamo, o no, in un universo virtuale è una curiosità che ha un valore intrinseco e merita l’attenzione della scienza. Se esiste un creatore, o degli esseri diventati come dei, questo solleva immediatamente la domanda su quali doveri abbiamo nei suoi, o nei loro, confronti. E viceversa, anche se non ci riflettiamo mai: che doveri ha il nostro creatore nei nostri confronti?
Don si spostò sul bordo del marciapiede per poter guardare più direttamente il cielo. — Oh, lassù, trattateci bene, eh?
— No, sul serio — disse Sarah. — Non c’è niente da scherzare. La tecnologia conferisce il potere di impedire la vita, o produrre la vita, di ridurla o accrescerla in scala. In definitiva, può rendere uguali a Dio. E, anche se ai nostri scienziati sembra non importare niente, c’è la possibilità che l’umanità sia stata creata da altri esseri i quali, per questo motivo, meritano l’appellativo di dèi. Il che non significa che dobbiamo adorarli; però implica, questo sì, che sia noi sia altre specie evolute dobbiamo affrontare i problemi etici legati alla possibilità concreta di essere “figli di Dio”, se non di diventare dèi noi stessi.
Attraversarono la strada allungando il passo per scansare un’automobile in arrivo. — E quindi — disse Don — i Draconiani si sono rivolti a noi per avere consigli? Che il cielo li aiuti!
Sarah a suo tempo aveva detto che a rendere allettante la prospettiva del Rollback era il fatto di avere finalmente il tempo di leggere tutti i capolavori della letteratura. Don non avrebbe definito un capolavoro il libro a cui si stava dedicando in quell’istante (un giallo di quelli che quando era giovane si vendevano nei supermercati), ma era fantastico poter leggere facendo a meno dei fondi-di-bottiglia, per ore, senza che gli occhi si affaticassero. Alla fine però la trama cominciò ad annoiarlo, quindi si mise a guardare sul palmare i programmi TV, dove...
— Ehi! Su Discovery danno quel vecchio documentario sul primo messaggio.
Sarah, seduta sul divano, si voltò verso di lui che era disteso in poltrona. — Quale?
— Ma sì — disse lui, già spazientito — quella trasmissione di un’ora su quando avete mandato la risposta a Sigma Draconis.
— Ah, sì.
— Non ti va di vederlo?
— No. Tanto più che dobbiamo avere una registrazione da qualche parte.
— Già, ma in qualche formato ormai illeggibile, ci scommetto. Io accendo.
— Preferirei di no.
— E dài! Sarà carino! — Si voltò verso il caminetto. — Accensione TV. Su Discovery Channel. — Le immagini erano pulitissime e i colori vivaci; Don si era dimenticato che l’alta definizione esisteva già allora. Per lo più, infatti, le vecchie trasmissioni ormai risultavano inguardabili, se erano state girate in bassa.
Il documentario era già iniziato. Stavano scorrendo alcune panoramiche dall’alto del radiotelescopio di Arecibo; la voce narrante era quella di quel famoso attore canadese... Maury Chaykin? Presto comunque si passò alla solita storia precotta del progetto SETI: l’equazione di Drake, il progetto OZMA, la targa del “Pioneer 10”, le registrazioni del Voyager... il cui design, si affrettò a precisare lo staff canadese di Discovey Channel, era opera di Jon Lomberg, di Toronto. Don non ricordava più che gran parte della trasmissione non riguardava Sarah. Magari ne avrebbe approfittato per andare in cucina a farsi un drink, mentre...
E all’improvviso, eccola. A tutto schermo.
Don si girò verso sua moglie, seduta sul divano, poi tornò con gli occhi alla TV.
Poi ripeté l’operazione. Sarah sembrava fissare il caminetto, non lo schermo; e sembrava così imbarazzata. Perché...
Perché a video era così giovane, tanto più giovane, tanto meno fragile. Quei fatti risalivano a trentotto anni prima, quando lei ne aveva quarantanove. Anche quella era una forma di Rollback, una regressione alla condizione giovanile. Anche se non così giovanile com’era Don adesso; ma ne sarebbe valsa ugualmente la pena.
— Mi spiace, tesoro — disse lui a bassa voce. Poi, a volume più elevato: — Spegnere TV.
Sarah si voltò verso si lui. Aveva il viso privo di espressione. — Spiace anche a me — disse.
Trascorse altre interminabili ore, Sarah salì nella ex camera di Carl per esaminare la montagna di documenti prelevati da Don all’università.
Lui intanto scese nel seminterrato, un ambiente che era rimasto sempre più inutilizzato; anche perché la scaletta era ripida e a una sola ringhiera, dalla parte del muro. Adesso però per lui non era più un problema percorrerla e, nelle calde giornate estive, quello era il luogo più fresco della casa.
Nonché quello che meglio garantiva la privacy.
Si buttò sul vecchio divano che c’era là sotto, con lo stomaco in subbuglio. Si guardò attorno. Lì dentro era stata scritta una pagina di Storia. Proprio là, Sarah aveva avuto l’idea geniale per decodificare il corpo del messaggio alieno. Se ora fosse riuscita a decifrare anche il secondo messaggio, avrebbe fatto colpo doppio.
Magari un giorno qualcuno avrebbe appeso una targa commemorativa all’esterno della casa.
Don teneva stretto tra le dita il palmare, le cui valve erano madide del suo sudore. Gli era venuta più volte la fantasia di rivedere Leonore, ma era sempre stato bloccato dal super-Io. Però lei gli aveva fatto promettere che l’avrebbe richiamata, e lui mica poteva sedurla e abbandonarla a quel modo. Sarebbe stato brutto, sarebbe stato egoistico. Niente da fare, doveva chiamarla e darle un addio in piena regola. Le avrebbe detto tutta la verità su di sé.
Inspirò in profondità, espirò lentamente. Aprì il palmare, lo richiuse di scatto.
Lo riaprì, con l’allegria di qualcuno che riesumi un cadavere dalla bara.
Disse al palmare a chi dovesse inoltrare la chiamata.
Un tut-tuuu assordante come una campana a distanza ravvicinata. Poi...
Una voce squillante: — Pronto?
— Ciao, Leonore — disse lui, con il cuore che martellava. — Sono io, Don.
Silenzio.
— Don Halifax, ti ricordi?
— Ciao — disse Leonore, stavolta in tono glaciale.
— Ascolta, mi spiace di non aver chiamato prima, ma...
— Sono passati tre giorni.
— Lo so, lo so, ti chiedo scusa. Volevo contattarti, sul serio. Non volevo che tu pensassi che sono uno di quelli che... bé, capisci, uno di quelli che dopo non richiamano.
— Quasi ci ero cascata.
Lui balbettava. — Perdonami. Tu meriti molto di più di...
— È vero.
— Sì, sì, ma ascolta, io...
— Non ti è piaciuto?
— Mi è piaciuto da impazzire! — E non mentiva. Era stato praticamente l’unico momento di felicità nell’arco di settimane. Non solo per il sesso, ma anche per aver incontrato una persona con cui stare così bene, e...
Leonore sembrò sollevata. — Sono contenta. Anche a me. Tu... tu sei speciale.
— Oh... ti ringrazio. Anche tu. È che... mmm...
— Sentimi bene — disse lei, come facendo una concessione speciale. — Domani sarò impegnata alla Banca alimentare, ma domenica sono libera. Ci incontriamo?
“No” pensò Don. — Che cosa proponi? — chiese, stupendosi lui stesso delle parole che uscivano da sole.
— Secondo le previsioni, sarà una giornata da favola. Che ne dici di una gita a Centre Island?
“Non posso” pensò lui. “La faccenda si chiude qui.”
— Don? — disse lei, quando il silenzio si fu protratto per vari secondi.
Lui chiuse gli occhi. — Okay — disse. — Okay perché no?
Arrivò al molo dei battelli, in fondo a Bay Street, con una decina di minuti di anticipo. Si mise a spiare il viavai di gente, finché...
Eccola. La rara, radiosa tra le belle, che gli angeli invocavano con il nome di Leonore. Gli correva incontro in shorts striminziti bianchi e un bianco, svolazzante, top, tenendo stretto un enorme cappello. Leonore si allungò per posargli un bacio furtivo sulle labbra, poi si ritrasse sorridendo, e...
E lui restò di sasso. L’aveva mentalmente invecchiata a trentacinque anni, che riteneva l’età più appropriata per una donna con cui confidarsi; ma la Leonore in carne e ossa, fresca e lentigginosa, dimostrava tutti e dieci gli anni in meno che aveva.
Salirono a bordo del Max Haines, il battello a due ponti che li avrebbe traghettati per un chilometro e mezzo fino a Centre Island, e alle sue passeggiate, spiagge, parchi divertimenti, giardini.
Leonore disse che aveva scelto quella meta perché aveva nostalgia del mare, ma non si era rivelata una scelta azzeccata: i gabbiani rimpinzati di immondizie non erano granché come sostituti dei grandi aironi azzurri di Vancouver, e nell’aria non si respirava nessuno iodio. In compenso, nella mezz’ora di tragitto in balia delle onde, Don trovò stupenda la sensazione del vento che gli arruffava i capelli.
Arrivati a terra, si misero a percorrere la passeggiata, divertendosi a evitare gli escrementi delle oche selvatiche. In lontananza sulla destra s’intravedeva la baia, e sul lato opposto Toronto, con la sua silhouette di edifici che Don aveva visto svilupparsi per gran parte di un secolo. A dominare la città era ancora la CN Tower, che però aveva perso il record di più alta struttura senza supporti del mondo.
Quand’era teenager era andato con l’amico Ivan a vedere il cantiere dove le gru la stavano assemblando; dal suo corpo ciclopico si diramavano lateralmente altri colossi, come un menu messo in piedi su un tavolino. Don ricordava quando nel centro di Toronto c’era solo un pugno di grattacieli, ma adesso arrivavano fino in riva al lago.
E da allora era cambiato molto di più che la skyline. Anche se, viceversa, molte cose erano cambiate molto meno in fretta di quanto lui si aspettasse. Don era andato con il padre alla prima visione di 200l Odissea nello spazio nel 1968, ed essendo nato nel ’6O non aveva avuto difficoltà a calcolare che nel 200l avrebbe compiuto quarantuno anni. All’epoca suo padre ne aveva quarantatré, perciò Don sarebbe stato più giovane di lui nel momento in cui tutte quelle meraviglie sarebbero apparse nel mondo reale: aerei spaziali, stazioni orbitanti ad anello dotate di hotel di lusso, città sulla Luna, viaggi su Giove, sospensione criogenica, e... Hal, l’intelligenza artificiale (purché non ti chiudesse fuori dalla porta).
Allo scadere del 200l non si era avverata nessuna di quelle previsioni. Questo avrebbe dovuto immunizzare Don dalle profezie scritte nel primo decennio del XXI secolo dagli autori di fantascienza: eccentricità scientifiche a gogo; modificazioni corporee spinte all’estremo, o per via genetica o per via bionica; assemblaggi nano-tecnologici in grado di trasformare qualsiasi cosa in qualsiasi altra...
Don osservò la sua città natale al di là della distesa delle acque. Accucciato ai piedi della CN Tower c’era lo stadio in cui giocavano i Blue Jays. Lui lo indicò: — Guarda, lo Sky Dome ha la cupola aperta.
Leonore lo osservò come se avesse parlato in giapponese.
“Stronzo che sono.” Lo aveva chiamato “Sky Dome” come faceva la gente della sua età, ma erano quarant’anni che l’edificio aveva cambiato nome. Il gap tra loro due era un demone onnipresente. — Intendo il Rogers Centre. Ha... il tetto aperto, ecco. — Era un’osservazione così banale che adesso si vergognava di averla fatta.
— Bé, è una magnifica giornata — disse Leonore, cambiando provvidenzialmente argomento.
Camminavano tenendosi per mano, in mezzo alle traiettorie impazzite di mille skate-board, hoverpad, rollerblades e gente che faceva jogging. Leonore aveva indossato il cappello a falde enormi per proteggere la sua pelle diafana. Lui invece si godeva la naturale protezione offerta dai capelli, dopo quattro decenni di calvizie.
Finora avevano chiacchierato del più e del meno, con una vivacità così diversa dagli affettuosi silenzi delle coppie sposate da tempo immemorabile, quando si era ormai esaurito il materiale per condividere opinioni, fare battute, indagare fatti.
— Tu giochi a tennis? — gli domandò Leonore mentre incrociavano due tizi con le racchette.
— Ci giocavo, ma ho smesso ancor prima... — “Che tu nascessi.”
— Sarebbe bello farci una partita una volta o l’altra. Posso procurarti un ingresso-ospiti da Hart House.
— Sarebbe magnifico. — Lo pensava sul serio. La prima volta che aveva avuto venticinque anni, era un tipo molto sedentario; ma adesso adorava la fisicità della vita.
— Ma ti avviso che ti straccerei di brutto. Ho la forza di venti uomini.
Lei sorrise. — Davvero?
— Certo. Chiamami Bjorn Borg.
Lei lo osservò perplessa. Lui ci restò malissimo: Sarah avrebbe capito al volo quella battuta.
Le spiegazioni rendono penoso lo scherzo, ma Don ci fu costretto dalle circostanze. — Era un famoso tennista. Vinse il torneo di Wimbledon per ben cinque volte di fila. Ma Borg è anche... bé, era una specie aliena in una vecchia serie TV dal titolo Star Trek. I Borg hanno la capacità tecnica di aumentare la propria massa fisica, per cui... bé...
— Sei uno stupidone galattico — gli disse lei, illuminandolo con il suo sorriso.
Lui inchiodò sul marciapiede e, per la prima volta, vide Leonore.
Una dottoranda che seguiva il progetto SETI.
Una a cui piaceva mangiare al ristorante, e intanto parlare di filosofia e di politica.
Sicura di sé, frizzante, divertente.
E adesso usava anche gli stessi modi di dire di...
Don se ne accorgeva soltanto adesso. Leonore era la fotocopia di...
Ovvio, fin troppo ovvio.
La fotocopia di Sarah quando aveva la stessa età. Quando lui si era innamorato di lei.
Okay, fisicamente le due erano completamente diverse, e forse per questo a lui finora erano sfuggite tutte le analogie. Leonore era più bassa di Sarah, almeno di Sarah da giovane. E all’epoca Sarah aveva capelli castani, e ancora aveva occhi grigio-azzurri. Leonore aveva il classico look da ragazza irlandese.
Ma per i loro atteggiamenti, lo spirito che le animava, la gioia di vivere, erano come gemelle.
Una giovane coppia stava camminando verso di loro. Lei asiatica, lui anglosassone; l’uomo spingeva un passeggino. Don indossava gli occhiali da sole, per cui osservò spudoratamente la donna mentre passava. Molto graziosa con quei lunghi capelli neri, canotta rossa, pantaloncini rosa.
— Che bella bambina — commentò Leonore.
— Già — disse Don, giocando sull’equivoco.
— A te... a te piacciono i bambini? — Il tono di lei era seducente.
— Sì, molto.
— Anche a me.
A poca distanza c’era una panchina libera, rivolta verso il lago e la città. Don la indicò con un cenno del mento, e andarono a sedersi. Poi lui le mise un braccio intorno alle spalle e rimasero per un po’ a fissare la superficie liquida; un altro battello era in avvicinamento.
— Ti piacerebbe avere dei figli tuoi? — le chiese Don.
— Oh, sì, assolutamente!
— Quando?
Lei gli appoggiò la testa sulla spalla. I capelli, sospinti dalla brezza, gli fustigavano amorevolmente la guancia. — Non saprei, diciamo verso i trent’anni.
Lo so che manca ancora un sacco di tempo, ma...
S’interruppe. Don scosse leggermente la testa: cinque anni sarebbero trascorsi in un soffio, altro che “un sacco di tempo”. Gli sembrava ieri, quando aveva settant’anni... anzi, sessanta. Il tempo vola, e...
E Don si chiese se sarebbe volato anche d’ora in poi. Aveva letto qualche spiegazione scientifica sul perché gli anni trascorrano sempre più veloci con l’età: è che, quando si hanno dieci anni, ogni anno è un dieci per cento della vita, quindi sembra un periodo esteso; ma, a cinquanta anni, è solo il due per cento, quindi sembra un’inezia. Come si sarebbe comportato, in questa seconda giovinezza, il suo senso del tempo? Lui era una delle prime cavie in questo esperimento.
Leonore non aggiunse nulla, rimanendo in silenzio a fissare il lago. Ironia della sorte, era lei a guardare più avanti nel futuro. Lui si portava ancora appresso l’idea che il futuro ormai fosse una porta chiusa; non si era ancora abituato a quell’orologio con le lancette tirate indietro.
Tra cinque anni era probabile che Leonore, con il suo bravo titolo di laurea, sarebbe già stata ben avviata in carriera.
Tra cinque anni, era probabile che Sarah...
Era un pensiero odioso, ma non ci si poteva fare nulla. Nel 2053 Sarah quasi sicuramente non sarebbe più stata al mondo. E lui...
Lui sarebbe rimasto solo.
A meno che...
Non si trovasse...
Una nuova partner.
Però ricordava bene la superficialità dei giovani d’oggi, quella sera al pub.
Gente che con lui condivideva solo l’età biologica, ma senza nessun raccordo intellettuale né emotivo. Leonore, a suo modo, era diversa, e...
Era troppo presto per affrontare il discorso, ma era un dato di fatto: nel suo futuro con Leonore, o con qualunque altra “coetanea”, si stagliava il desiderio di essere di nuovo padre.
Davvero? Se la sentiva di ricominciare il tran-tran dei pannolini, delle pappe, delle mille autodiscipline?
Faticoso, sì. Eppure...
Forse gli sarebbero state perdonate le scappatelle, se lo faceva in vista di una seconda famiglia. Si rendeva conto che, per quanto fosse logico per lui il bisogno di una donna tanto più giovane di Sarah, amici e familiari avrebbero giudicato disgustoso che ragionasse con l’uccello piuttosto che con la testa. Ma, se avessero guardato alla cosa nell’orizzonte della paternità, allora forse avrebbero cambiato parere.
Ora andava di moda il sesso on-line e off-line, ma ai tempi di Don, quando esisteva ancora il “Playboy” cartaceo, una delle conigliette che andavano per la maggiore era Vicki Smith, nome con cui quella stallona texana disegnata da Rubens si era fatta apprezzare come Miss Maggio 1992. Quando nel 1993 era stata eletta “Playmate dell’anno”, aveva nel frattempo cambiato nome in Anna Nicole Smith. Ed era diventata ancora più famosa l’anno seguente, a ventisei anni, sposando un miliardario quasi novantenne.
Don già se lo vedeva: tutti avrebbero fatto il paragone. A parte il fatto che lui non era miliardario, sebbene godesse di un beneficio che era rimasto fuori dalla portata del vecchio marito bavoso della coniglietta. Altra differenza: nel caso di Don era lui, e non lei, a essere rifatto. Anna Nicole Smith si era aumentata il reggiseno di tre taglie grazie al silicone, mentre Leonore era tutta al naturale... nel senso che l’aggettivo “naturale” aveva assunto a metà del XXI secolo. Il corpo di Don al contrario non aveva più nessuno dei pezzi originali, anche se una terapia genetica e un allungamento dei telomeri sembravano meno invasivi che farsi squartare le tette per imbottirle.
Il che non spostava i termini del discorso: un uomo di ottantasette anni con una ragazza di venticinque. Questo avrebbe mormorato la gente. Però, se alla fine fossero venuti alla luce dei bei bambini, bé, allora la situazione sarebbe improvvisamente diventata normale, anzi sacrosanta, e tutti si sarebbero dimostrati comprensivi. Avrebbero confinato le condanne nell’oblio.
Non che desiderasse la paternità solo per quel motivo. Al primo matrimonio, all’inizio, non ci pensava neppure. Però in quel caso non doveva trovare delle giustificazioni; le nozze con Sarah erano sembrate la cosa più naturale del mondo.
Tre anatre planarono sul lago increspandone la superficie. Leonore si strinse a Don per sussurrargli: — È una giornata davvero bellissima.
Lui annuì, accarezzandole la spalla. E chiedendosi che cosa gli riservasse il futuro.
Le ore passate con Leonore erano state memorabili, sia quelle all’isola che quelle dopo, a casa di lei. Stavolta lei aveva da studiare per un seminario del giorno seguente, quindi Don non aveva dovuto inventare chissacché per smarcarsi. Sarah aveva detto che sarebbe rimasta a casa a scartabellare quella montagna di documenti; ma, con grande sorpresa di Don, quando la chiamò dal palmare mentre si dirigeva alla metropolitana, a rispondere fu la segreteria telefonica. È vero che l’udito di Sarah non era più quello di una volta: magari non aveva sentito lo squillo, oppure era uscita un attimo, o...
— Dov’è in questo momento il palmare di Sarah? — domandò Don al proprio apparecchio.
— In casa — rispose l’oggetto, connettendosi al suo simile. — Sul comodino.
Don aggrottò le ciglia. Sarah non si sarebbe allontanata senza il palmare, eppure non rispondeva a nessuno dei due telefoni. C’era qualcosa che non andava, se lo sentiva.
Affrettò il passo verso la fermata Bathurst della metropolitana. Prendere un taxi sarebbe costato un patrimonio e non avrebbe accelerato i tempi, dati gli imbottigliamenti.
La fortuna non lo aiutò. Arrivò alla piattaforma giusto in tempo per vedere un treno che ripartiva; essendo domenica sera, la corsa successiva non sarebbe passata prima di un tempo lunghissimo.
Il palmare aveva segnale anche nel tunnel della metro, ma ogni volta che Don provava a chiamare casa, l’unica voce che sentiva era la propria, quella da vecchio, che diceva: — Salve. In questo momento né Sarah né io possiamo rispondere. Vi preghiamo di...
Si mise a sedere su una delle panche, sostenendosi la testa con le mani e contemplando lo sporco pavimento grigio.
Dopo un’eternità, arrivò finalmente a North York-Centro e si precipitò fuori dalla metropolitana. Corse su per la scala mobile, attraversò come una furia i tornelli, e si ritrovò in una Parke Home Avenue deserta e poco illuminata. A passo svelto si diresse verso casa, a tre isolati di distanza, provando ancora una volta a telefonare, ma senza risultato. Infine, aprì la porta d’ingresso e...
Lei giaceva a faccia in giù sul parquet di fronte al guardaroba. — Sarah!
Aveva braccia e gambe spalancate. L’abito estivo che indossava le si era avvolto intorno come un sudario. Doveva avere perso l’equilibrio mentre scendeva dal salotto verso l’atrio. — Sarah, stai bene?!
Lei ebbe un sussulto, sollevando di un centimetro la testa.
— No! Non fare movimenti!
— La gamba... — mormorò Sarah. — Oh, Dio, l’osso ha dato un colpo secco, e...
Qualche anno prima, Don aveva seguito delle lezioni di pronto soccorso. — Questa? — domandò, toccando la gamba destra.
— No, l’altra.
Don scostò la stoffa. L’arto era sbucciato e gonfio. Lo tastò, e Sarah fece una smorfia di dolore. Non c’era telefono all’ingresso, perciò lei per chiamarlo avrebbe dovuto salire i sei gradini fino al soggiorno, ma non aveva né la forza né la coordinazione per saltellare su una gamba sola. Lui prese il palmare e disse: — Chiamare il 118.
— Vigili del fuoco, polizia o un’ambulanza? — chiese l’operatrice.
— Un’ambulanza. La prego, è urgente!
— Sta chiamando da un apparecchio mobile, ma vedo le coordinate sul GPS. Il suo indirizzo è... — Lo lesse. — Esatto?
— Sì, sì.
— Mi dica cos’è successo.
Lui deglutì. — Mia moglie è... ha ottantasette anni, ed è caduta dalle scale.
— L’ambulanza è partita — disse l’operatrice. — Il palmare da cui chiama è intestato a nome Donald R. Halifax. È lei?
— Sì.
— Sua moglie è in stato cosciente, signor Halifax?
— Sì, ma ha una gamba spezzata, ho verificato.
— Allora non provi a spostarla.
— Non l’ho fatto e non intendevo farlo.
— La porta di casa è aperta?
Lui diede un’occhiata. Lo era. — Sì.
— Molto bene. Resti accanto a sua moglie.
Don prese la mano a Sarah. — Lo farò. — Cristo santo, perché non era lì quando era successo? La guardò negli occhi, occhi azzurri che adesso erano semichiusi, con venature sanguigne. — Resterò accanto a lei. Giuro che non mi allontanerò.
Chiuse la comunicazione e posò il palmare sul pavimento. — Mi spiace — disse a Sarah. — Mi spiace così tanto...
Lei non rispose, ma il pensiero inespresso era che lui avrebbe dovuto rientrare molto prima.
— Mi spiace — ripeté Don, sentendosi sempre più male. — Scusami, scusami, perdonami, io...
— Va tutto bene — disse Sarah, sforzandosi di sorridere. — Sono sicura che non ci sono danni permanenti. Dopotutto, siamo nell’Era delle “magnifiche sorti e progressive”. — Lui riconobbe la citazione, ma annuì vacuo. Sarah continuò a fare cenni con la testa, finché Don capì: stava alludendo a lui. Adesso era lei a stringergli affettuosamente la mano. — Andrà tutto bene — disse. — Tutto bene, vedrai.
Mentre aspettavano l’ambulanza, Don non riuscì più a guardarla negli occhi. Le sirene vennero a liberarlo dagli spettri che gli si agitavano nella testa. Dalla porta aperta filtrò una luminescenza rossastra. Sembrava danzare.
Per fortuna era una semplice frattura. La scienza ortopedica aveva fatto passi da gigante da quando, ai tempi del liceo nel lontano 1977, Don si era rotto una gamba durante una partita di football americano. Le estremità del femore fratturato di Sarah vennero allineate, fu aspirata via parte del liquido in eccesso, si praticò un’infusione di calcio (di cui non ci sarebbe stato bisogno, se il Rollback avesse funzionato), e infine venne fissata una struttura leggera di sostegno intorno alla gamba. Il gesso ormai era usato solo per il trasporto delle ossa dei fossili. Il medico disse che Sarah sarebbe tornata in forma entro due mesi; nel frattempo, grazie al sostegno motorizzato, non avrebbe dovuto fare ricorso alle stampelle, anche se era consigliabile una canna da passeggio.
Per ulteriore fortuna, il loro Piano sanitario copriva quella spesa. La crisi del sistema previdenziale canadese era quasi del tutto superata; all’inizio del boom delle biotecnologie i prezzi erano schizzati alle stelle, poi però, come sempre accade, erano ridiscesi progressivamente. Terapie che negli anni della gioventù di Don costavano centinaia di migliaia di dollari, adesso erano ridotte a una frazione di quella cifra. I farmaci più sofisticati erano diventati così economici che i governi si potevano permettere di regalarli ai Paesi del terzo mondo. E un bel giorno, tutti coloro che lo desideravano avrebbero potuto permettersi un Rollback.
Quando furono tornati a casa dall’ospedale, Don aiutò Sarah a prepararsi per la notte. Pochi minuti e lei dormiva saporitamente, anche per merito degli analgesici prescritti dal dottore. Don, al contrario, non riusciva a chiudere occhio. Disteso sulla schiena, restò a osservare il soffitto immerso nel buio, rischiarato di quando in quando da una lama di luce prodotta da un’automobile di passaggio.
Lui amava Sarah. La amava poco meno che da quand’era nato. E mai, mai l’aveva fatta intenzionalmente soffrire. Però, nel momento in cui lei aveva avuto più bisogno di lui, lui non c’era stato.
In lontananza, la sirena di un’ambulanza. C’era qualcun altro nei guai, come quello che avevano appena passato loro due.
“No.” No, affatto. Non lo avevano passato loro due, lo aveva passato lei.
Buttata per terra per ore, ad aspettarlo per ore, mentre lui era tutto impegnato a scoparsi una che aveva meno... Cristo... meno di un terzo della sua età.
Don si girò su un fianco, rivolgendo la schiena a Sarah e abbracciandosi le gambe in posizione fetale. Gli occhi gli si inchiodarono sui numeri blu della sveglia digitale. Restò lì a guardare lo scattare dei minuti, uno dopo l’altro...
Per la prima volta da anni, Sarah aveva reclinato la poltrona anatomica. Diceva che quella posizione era più comoda per tenere allungata la gamba. Don, nonostante non avesse dormito quasi niente, non riusciva a stare fermo; continuava a camminare avanti e indietro per il lungo salotto. Sarah aveva spesso scherzato sul colpo di fulmine che entrambi avevano avuto per quella casa fin dal primo istante: lei, per via del caminetto; lui, per quel soggiorno lungo e stretto che non chiedeva altro che qualcuno ci camminasse avanti e indietro.
— Oggi cos’hai di bello in programma? — gli domandò lei. Lo schermo a muro indicava le 9.22 del mattino. Grazie alle finestre fotocromatiche, la luce del sole di agosto era sopportabile.
Lui si fermò per un momento e osservò sua moglie. — Io? Rimarrò qui con te, no?
Lei scosse la testa. — Non puoi trascorrere il resto della vita... della mia vita... come un recluso. Sprizzi energia da tutti i pori. Guardati! Non riesci a star fermo.
— È vero, ma...
— Ma cosa? Me la caverò, giuro.
— Già ieri hai avuto un grosso problema, e... — e riprese a muoversi avanti e indietro.
— E...? — disse Sarah.
Lui tacque, rivolgendole la schiena. Ma due persone sposate da una vita sono in grado di completare le frasi lasciate a metà dal partner anche quando il partner preferirebbe di no. — E le cose sono destinate ad andare sempre peggio. È così? — fece Sarah.
Don annuì in modo quasi impercettibile. Poi guardò fuori dalla finestra cromata.
Avevano acquistato la casa nel 1988, subito dopo il matrimonio, grazie al sostegno economico dei rispettivi genitori. All’epoca, lungo il Betty Ann Drive cresceva giusto qualche alberello stentato, a parte un paio di robusti abeti canadesi. Adesso quegli alberelli, piantati dalla municipalità di North York (che ormai non esisteva più come Comune indipendente), si erano trasformati in alti e verdeggianti aceri e querce.
Lui le si avvicinò. — Hai bisogno che io resti con te — disse.
Lei abbassò lo sguardo alla gamba intelaiata. — Ho bisogno di qualcuno, questo sì. Forse Percy...
— Percy tra due settimane riprenderà ad andare a scuola. E Carl ed Emily lavorano entrambi. E noi non possiamo permetterci una badante.
— Potremmo, se... — stavolta fu lei a troncare il discorso.
Il resto della frase avrebbe suonato: “Se vendessimo la casa”.
Lui tornò a guardare fuori dalla finestra. Il ragionamento filava. Per quanto non fosse una reggia, quella casa era troppo grande per loro... lo era da vent’anni, da quando non ci abitava più Emily. Forse venderla sarebbe stata una buona idea.
Inoltre, tutte quelle scale erano un calvario per Sarah. Trasferirsi in un appartamento sarebbe stato più economico e più funzionale.
Don raggiunse l’altrà estremita del salotto, poi girò su se stesso, dirigendo lo sguardo verso sua moglie. L’espressione di lei si rivitalizzò. — Sai cosa farebbe per noi? — disse Sarah. — Un Mozo.
— Mo... zo? — ripeté lui.
Lei annuì. — Sai cosa significa?
— So solo che a Scarabeo farebbe quindici punti.
Sarah sospirò. — È spagnolo. Di per sé significa “servitore”, ma indica anche una linea di robot progettati apposta per assistere le persone anziane.
Don strinse le palpebre. — Costruiscono robe del genere?
— Vedi che ho ragione io? Devi uscire di casa per vedere il mondo. Sì, “costruiscono” robe del genere, se il soggetto è la McGavin Robotics.
Lui si fermò di nuovo. — Anche un robot di fascia bassa costa un patrimonio.
— Certo. Ma Cody è convinto che io abbia un talento speciale per la decodifica dei messaggi alieni, perciò gli dirò che, per la buona riuscita della missione, mi serve un Mozo. E non è una balla. Guadagnerei un sacco di tempo utile, con un servo meccanico che intanto prepara il caffè e tutto quanto. Inoltre, non sarei mai pericolosamente sola, e tu potresti uscire senza preoccuparti.
Don stava per rispondere che l’ultima elemosina ricevuta da McGavin aveva portato solo guai. Poi però si rese conto che Sarah aveva ragione: lui sarebbe impazzito, lì dentro, e poi... bé, un robot domestico avrebbe semplificato un sacco di cose, no?
Sembrava un pacco dell’Ikea. Il Mozo arrivò disassemblato dentro una confezione da un metro cubo. Lo spettacolo della testa dentro un sacchetto di plastica era abbastanza truce. Il montaggio delle gambe, disarticolate in due parti, richiese parecchi minuti. Ma, alla fine, si poté ammirare in tutto il suo splendore quel cyborg blu listato d’argento, rivestito di un morbido tessuto che ricordava le tute da sommozzatore. Aveva una testa sferica delle dimensioni di un pallone, con occhi vitrei. Aveva anche una specie di bocca: una linea orizzontale in grado di muoversi per simulare la pronuncia delle parole: per quanto i robot di quel tipo non fossero piuttosto molto diffusi, a quei pochi che li possedevano piaceva vedere sui loro “volti” delle espressioni più o meno umane.
A Don venne spontaneo un confronto tra il servitore meccanico e i protagonisti dei fumetti di quand’era ragazzino. La sua conclusione fu che, a parte la bocca, somigliasse a uno dei protagonisti della serie Magnus — Robot Fighter. Lo ammetteva, possederne uno era troppo fico. E non solo perché realizzava un altro di quei famosi venti desideri in lista d’attesa.
Guardò il Mozo, portandosi le mani ai fianchi. Ecco un altro lusso che, in teoria, era fuori della loro portata. — Bé, che te ne pare?
— Non male — rispose Sarah. — Che dici, lo accendiamo?
Il pulsante si trovava al centro dell’area addominale. Lui lo premette, e...
— Buongiorno — disse una voce maschile, senza accenti particolari. La bocca si muoveva come quella dei personaggi dei cartoni animati. — Do you speak English? Hola, habla Español? Bonjour, parlez-vous français? Konichi-wa, nihongo-o hanashimasu-ka?
— Parliamo inglese — disse Don.
— Buongiorno — ripeté il Mozo. — Questa è la prima volta che vengo attivato da quando sono uscito dalla fabbrica, perciò mi scuso, ma dovrò chiedervi alcune informazioni. Primo: da chi riceverò ordini?
— Da noi due — rispose Don.
Lui annuì con la testa a palla. — Di default, chiamerò lei “signora” e lei “signore”. Tuttavia posso rivolgermi a voi in modo diverso, se preferite.
Don fece un ghigno diabolico. — Io sono il Grande e Onnipotente Oz.
L’espressione somatica del robot fece capire che aveva capito lo scherzo. — Sono onorato di conoscerla, Grande e Onnipotente Oz.
Sarah rivolse al Mozo un’occhiata da “ecco cosa mi tocca sopportare tutti i santi giorni”. Don fece spallucce, e lei disse: — Dacci pure del tu. Lui è Don, io sono Sarah.
— Lieto di fare la vostra conoscenza, Don e Sarah. Quella che state sentendo è la mia voce di default, ma, se ne preferite una femminile o con un particolare accento, non avete che da chiederlo.
Don guardò Sarah, poi rispose: — No, va bene così.
— Ottimo. E avete già scelto un nome per me?
Sarah era indecisa. Passò con un cenno l’incarico a Don, il quale decise: — Gunter.
— Scritto: gi, u, enne, ti, acca, e, erre?
— Senza la acca — rispose Don. — Anche se non te ne importa un’acca.
— Sei il solito bambinone — disse Sarah, sorridendo.
Era una battuta frequente, solo che adesso era diventata quasi realistica. Lei si accorse della gaffe involontaria, e si affrettò ad aggiungere: — Pardon.
Non c’era nulla di cui scusarsi, pensò Don. Dentro di sé aveva conservato molto della propria infanzia, tanto più di fronte a un robot. Come Sarah sapeva bene, il suo robot preferito era quello del vecchio telefilm Lost in Space, e perdeva le staffe ogni volta che qualcuno lo chiamava Robby confondendolo con quello del Pianeta proibito. Anche se era vero che i due si somigliavano, visto che a disegnarli era stata la stessa persona, Robert Kinoshita. Comunque, i veri fan di Lost in Space lo chiamavano B-9, che era il modello di fabbrica, come risultava da un episodio della serie. Però Don controbatteva che in un altro episodio quel barile automatico con braccia come tubi dell’aspirapolvere rispondeva al nome di Gunter, acronimo per General Unity Non-Theorizing Environmental Robot. In settant’anni Don non aveva convertito molta gente a quella teoria, ma adesso almeno un robot con quel nome c’era!
Don sapeva che anche a Sarah stavano tornando in mente tutte quelle corbellerie. Anche lei era cresciuta a pane e Lost in Space, per quanto ad affascinare lei fossero piuttosto le fotografie, autentiche, di nebulose e galassie utilizzate come fondali; con tanto di “copyright dell’Istituto tecnologico della California, 1959” nei titoli di coda. Tutte cose, pensò Don con amarezza, che non avrebbeno detto nulla a Leonore e a quelli della sua generazione. Di cui adesso faceva parte anche lui.
Continuarono a rispondere alle domande di Gunter per una mezz’ora, specificando i compiti che gli sarebbero spettati, se dovesse o no rispondere al telefono e aprire la porta, il divieto di entrare in bagno a meno che non sentisse chiamare aiuto, eccetera eccetera.
L’incarico principale consisteva nel vegliare sulla salute di Sarah. — Sai prestare i primi soccorsi? — gli domandò lei.
— Sì, ho in memoria il set completo delle procedure. In caso di ncessità potrei perfino eseguire una tracheotomia d’emergenza. Inoltre, i palmi delle mani contengono un defibrillatore incorporato.
— Grande! Come il vero Gunter! — esclamò Don. — Sparava fulmini dalle mani!
Sarah era divertita: — Il vero Gunter?
Don rise. — Hai capito benissimo a cosa mi riferivo. — Poi osservò l’androide blu. — Come dobbiamo comportarci con te quand’è ora di dormire? Ti spegniamo?
Lui esibì un sorriso rassicurante. — Potete farlo, se lo desiderate. Tuttavia suggerirei di lasciarmi acceso, in modo da poter intervenire tempestivamente per qualsiasi emergenza. Inoltre, potete richiedermi di svolgere determinati compiti mentre voi dormite: spolverare, faccende domestiche assortite, e preparare la colazione.
Don si guardò attorno per il salotto. — Sapresti anche accendere il caminetto?
Il robot inclinò lievemente la testa da un lato; parve quasi che le lenti oculari... bé, stessero riflettendo. Poi rispose: — Adesso sì.
— Magnifico — fece Don. — Avremo bisogno di un po’ di legna, quest’inverno.
— Se ti capita di non avere niente da fare — domandò Sarah — ti annoi?
— Oh, no — disse Gunter, con un altro sorriso rassicurante. — Mi piace rilassarmi un po’.
— Un atteggiamento condivisibile — commentò Sarah, lanciando un’occhiata al marito. — Mi chiedo come abbiamo fatto finora, senza un Mozo.
Più passavano i giorni, più nella testa di Don aumentava la confusione.
Maledizione, fino a quel momento aveva saputo che cosa fosse la vita; l’aveva percorsa tutta, con i suoi ritmi e le sue diverse fasi nella dovuta sequenza. Ed era sopravvissuto.
La gioventù, con l’istruzione e l’ingresso nel mondo del lavoro, e le prime esplorazioni del mondo del sesso.
La maturità, con il matrimonio, l’educazione dei figli e il consolidamento del benessere economico, nei limiti del possibile.
Poi la mezza età, il tempo di tirare le prime somme. Era riuscito a evitare gli antidepressivi costituiti dalle macchine sportive e dalle relazioni extraconiugali. La crisi dei cinquant’anni, arrivata in anticipo a causa di un lieve infarto, aveva avuto il risultato di fargli perdere peso. Sentire tante persone, tra cui donne, che gli dicevano che stava meglio a quarantacinque anni che a trenta lo aveva talmente ringalluzzito da non fargli sentire il bisogno di dimostrare in altri modi quanto fosse macho.
Infine aveva imboccato il viale del tramonto... o così credeva. La pensione, i nipotini, godersi le piccole cose della vita, la rassegnazione, la riflessione, le silenziose complicità e la quiete. Tanto per gestire il tempo che mancava allo scadere.
Le epoche della vita. Le aveva attraversate e comprese. Nell’insieme era stato come un arco, una trama con gli immancabili inizio, svolgimento e fine.
Adesso però era cambiato tutto. Altro che un epilogo stiracchiato: qui c’era un intero nuovo volume da sfogliare, e senza averlo minimamente preventivato!
Rollback. L’autobiografia completa di Don Halifax, volume II. E sebbene fosse lui stesso a scriverla, non aveva idea di come procedesse la trama. Non aveva nessun copione da cui sbirciare, non aveva nessun indizio per indovinare la scena finale.
Che avrebbe fatto per i decenni seguenti? No, meglio: che avrebbe fatto per il resto di quella giornata?
Però c’era una cosa che andava fatta, e subito. Per quanto fosse terrificante.
— C’è una cosa che devo dirti — mormorò Don a Leonore, alla prima occasione.
Lei era distesa nuda sul letto accanto a lui, sempre nello scantinato di Euclid Avenue. Si sollevò su un gomito e osservò Don. — Cosa?
Lui esitava. La faccenda si stava dimostrando più tosta del previsto, nonostante avesse messo in conto che fosse molto tosta. Come faceva a spiegare alla sua... alla sua qualunque cosa Leonore fosse per lui... che il problema del matrimonio era il meno?
Espirò, svuotando fino in fondo i polmoni attraverso una minima fessura tra le labbra. Alla fine disse: — Mmm, è che... io ho più anni di quanti tu probabilmente immagini.
Lei fece un’espressione sospettosa. — Non avevi la mia età?
Lui scosse la testa.
— Bé, non ne avrai più di trenta.
— Ne ho di più.
— Trentuno? Trentadue? Don, che mi frega di sei o sette anni di differenza. Ho uno zio che ha dieci anni in più di mia zia.
“Me li mangio a colazione, dieci anni” pensò lui. — Continua...
— Trentatré? — Leonore si stava innervosendo. — Trentaquattro? Eh? Tren...
— Leonore — la interruppe, chiudendo gli occhi per qualche istante — io ho ottantasette anni.
Lei fece una pernacchia. — Cazzo, Don, ma cosa ti vie...
— Io ho ottantasette anni! — ruggì lui. — Sono nato nel 1960. Avrai sentito della tecnologia di Rollback, no? Mi ci sono sottoposto qualche mese fa. Ed ecco il risultato! — tracciò nell’aria un cerchio intorno alla sua faccia con un dito.
Lei scattò di lato come un granchio sulla sabbia.
— Mio... Dio... — disse. Lo esaminava da un punto all’altro del corpo, alla ricerca di un qualsiasi indizio. — Ma se è roba che costa una follia.
Lui annuì. — Ho... mmm... trovato un benefattore.
— Non ti credo — disse Leonore, ma in tono assai poco convinto. — Io... io, voglio dire... non può...
— È la verità, e potrei dimostrartela in un milione di modi. Per esempio, ho qui la mia vecchia carta d’identità.
— No! — Sul viso le era passata un’espressione di... disgusto, probabilmente.
— Lo so, avrei dovuto dirtelo prima, ma...
— Certo che avresti dovuti farlo, cazzo, Don! — Aver pronunciato il suo nome le fece balenare un ricordo. Vi si aggrappò nella disperata speranza che, dopo tutto, fosse solo uno scherzo di cattivo gusto.
— Un momento, tu sei il nipote di Sarah Halifax, me l’hai detto tu stesso.
— No. Sei stata tu a pensarlo.
Leonore si scostò di un altro po’. Si coprì il seno con un lembo del lenzuolo; il primo gesto di pudore che lui le avesse mai visto fare. — Chi cazzo sei? Hai qualche parentela con Sarah Halifax?
— Sì... — sussurrò lui, con dolcezza. — Ma... — deglutì, cercando di raccogliere le forze — ma non sono suo nipote. — Distolse gli occhi da lei, rivolgendoli al pezzo di coperta spiegazzata che li separava. — Sono suo marito.
— Fanculo. Merda.
— Perdonami. Ti prego.
— Suo marito? — ripeté lei, quasi per accertarsi di non avere frainteso.
Don annuì.
— Allora, meglio che ti levi dalle palle.
Le parole di Leonore lo colpirono come proiettili. — Ti prego. Posso...
— Fare che?! Fornire delle cazzo di scuse?! Non c’è nessuna cazzo di scusa per questo!
— No, nessuna scusa. Nessuna giustificazione. Ma, Dio mio, Leonore, giuro che non volevo farti soffrire. Non ho mai voluto far soffrire nessuno. — Si sentì un nodo allo stomaco, ebbe quasi le vertigini. — Vorrei solo che tu... che tu capissi.
— Capire cosa? Che tutto quello che è successo tra noi era finto?
— No! — esclamò lui. — No, Dio, no. È stata la cosa più... più vera nella mia vita, da...
— Da quando? — ringhiò lei. — Da anni? Da decenni?
Don emise un lungo sospiro irregolare. Non poteva neanche accusarla di cinismo; il solo fatto che lei gli rivolgesse ancora la parola era già fin troppo. Tentò di difendersi alla disperata, con il risultato di dire una bestialità: — Ascolta, sei stata tu a trasformarla in una storia di sesso.
— Perché pensavo che tu fossi qualcosa che non sei. Mi hai mentito.
Lui stava per protestare che non era vero, non in senso stretto, non troppo spesso almeno. Ma lei prosegui: — Comunque, non c’entra niente chi ha cominciato, è un problema lontano anni luce. La questione è che tu sei un ottantenne, Cristo santo! Potresti essere mio nonno.
Don si aspettava quelle parole, ma questo non impedì che lo ferissero. — Anche Sarah si è sottoposta al Rollback — buttò là, sconsideratamente. — Solo che su di lei non ha funzionato, così adesso lei è ancora un’ottantenne, e io sono... questo.
Leonore non disse nulla. Aveva le labbra incurvate verso il basso, le sopracciglia quasi si toccavano.
— È stato Cody McGavin a pagare — aggiunse Don. — Voleva che Sarah fosse ancora viva e vegeta all’arrivo del prossimo messaggio da Sigma Draconis. Io sono saltato sul carro, ma ora...
— Ma ora fai il badante di Sarah.
— Non infierire. Non ho chiesto io che succedesse tutto questo.
— Oh, certo che no. Sono cose che capitano: terapie da miliardi di dollari...
Lui scosse la testa. — Sapevo che non avresti capito.
— Se hai bisogno di comprensione, vá a un gruppo di sostegno. Ne esisteranno anche per la tua categoria.
— Come no? Proprio oggi avevano un meeting a Vienna. Che peccato, non ho i soldi per il biglietto. Ho fatto un calcolo: il mio patrimonio è inferiore di quattro decimali rispetto al patrimonio del più povero degli altri beneficiari del Rollback.
Per ogni dollaro che io ho, quei signori ne hanno come minimo 10.000. Quello è un mondo lontano anni luce, Leonore.
— Non provare a passare dalla parte della ragione! Qui, chi ha subito un torto sono io!
Don contò mentalmente per calmarsi. — Sì, hai ragione. Scusami. E solo che adesso non so più che fare, e... E non voglio perderti. Ti voglio bene, davvero. Non smetto mai di pensare a te. Non so che fine farò, ma so questo: in questo ultimo periodo le uniche volte in cui mi sono sentito felice, le uniche volte, è stato quando stavo con te.
— Avrai pur qualche...
— No, nessuno. Quei pochi amici che sono ancora in vita, non mi capiscono. E i miei figli...
— Merda, ecco un’altra cosa a cui non avevo pensato: hai dei figli!
“Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno.” — Ho anche dei nipoti. Mio figlio ha cinquantacinque anni, mia figlia sta per compierne cinquanta, ma non mi aspetto che solidarizzino con un genitore che ha metà dei loro anni.
— Tutto questo è folle.
— Possiamo trovare una via d’uscita, insieme.
— Dai i numeri? Tu sei sposato. Hai sessant’anni più di me. Hai figli e nipoti.
E... Dio santo, sei anche in pensione, vero? Non avrai neppure un lavoro.
— Ho la mia pensione.
— Un pensionato! Alleluia!
— Questo non cambia nulla — disse lui.
— Sei fuori di cranio?
— Leonore, ti supplico...
— Vestiti immediatamente! — urlò lei.
— Per... fare che?
— Rimettiti i tuoi cazzo di vestiti e sparisci!
Erano trascorsi mesi dall’ultima volta che Don aveva visto i nipotini. Sentiva profondamente la loro mancanza ma, non sapendo come spiegare loro il cambiamento che era sopravvenuto, aveva interrotto i contatti. Ora però una rimpatriata era ineluttabile: quel giorno, giovedi 10 settembre, Emily compiva cinquant’anni; e come erano stati precettati tutti per le nozze di diamante di Don e Sarah, adesso era stato precettato lui.
La festa si teneva a casa di Emily a Scarborough, a una comoda ora di macchina lungo la 407. Gunter aveva fatto da autista, e meglio così, perché Don si sarebbe sentito un babbeo a farsi scarrozzare in giro da quella che poteva essere sua nonna; e lui non si era ancora fatto rinnovare la patente. Gli era stato imposto di partecipare ai corsi teorici sulla sicurezza insieme a un gruppo di ultraottantenni; inoltre, per quanto l’esaminatore potesse dispensarlo dalle lezioni di guida, non poteva evitargli le battutine degli impiegati. Né tantomeno quelle dei vecchi-vecchi, che si rodevano il fegato per quel bellimbusto che si faceva beffe della sorte comune.
Quando l’auto di Don e Sarah fu parcheggiata nel vialetto davanti alla grande casa di Emily, lui saltò fuori dalla portiera posteriore per aiutare la moglie a scendere. Poi, a braccetto, si diressero verso la porta d’ingresso lasciando Gunter in macchina, intento a contemplare placidamente il paesaggio. Carl e famiglia erano già arrivati, ma avevano parcheggiato in strada per lasciare libero per i genitori il posto più vicino.
La casa dei nonni riconosceva i dati biometrici di figli e nipoti, ma non viceversa, per cui Don suonò il campanello. Emily aprì all’istante, osservandoli con una certa apprensione e facendo loro cenni furtivi perché entrassero. Chissà cosa avrebbero pensato i vicini, a notare l’anziana professoressa accompagnata da un giovanotto sconosciuto.
Cercando di cacciare quel pensiero, Don si esibì in un: — Tanti auguri, Em! — il più cordiale possibile.
Sarah abbracciò la figlia e, come ogni anno, le disse sorridendo: — Non scorderò mai dove mi trovavo, quando tu sei nata.
Emily a sua volta disse: — Ciao... — e il tono richiedeva l’aggiunta di “mamma, e ciao, papà”, ma si fermò sulla prima parola. Dopo il Rollback, Don non aveva più sentito né lei né Carl chiamarlo papà.
Anche in questa casa, dall’atrio partiva una scalinata. Emily prese la canna da passeggio della madre e la aiutò a salire; Don andò loro dietro.
— Nonna! — gridò Cassie, che indossava un vestitino rosa con decorazione stampata a fiori e portava anelli rosa alle treccine. Raggiunse di corsa la nonna, che si chinò per quanto poté per abbracciarla. Dopodiché la bambina osservò Don come se fosse la prima volta che lo vedeva.
Carl allora la prese e, tenendola seduta sulle braccia come si fa con i bambini alle mostre d’arte, la mise di fronte a Don. — Cassie, lui è il nonno!
La piccola si accigliò, poi si strinse al collo del padre. — Nonno Marcynuk? — chiese, dubbiosa.
Don ebbe una fitta al cuore. Gus Marcynuk era il nonno materno di Cassie.
Abitava a Winnipeg, ed erano secoli che non passava di lì.
— Ma no, tesoro. Nonno Halifax.
Cassie fece una smorfia ancora più evidente, mentre guardava di traverso il padre per capire se scherzava. Però la faccia di Carl rimase seria. — Non può essere lui — obiettò Cassie, scuotendo la testa e facendo ballonzolare le treccine.
— Nonno Halifax è vecchio.
Don fece del suo meglio per sorridere. — Sul serio, scricciolo: sono io!
Lei fu colta in contropiede. Per quanto ringiovanita, la voce era quella del nonno. — E tutte le rughe? — domandò.
— Oplà, sparite!
Cassie sollevò gli occhi al cielo, per sottolineare che ci era arrivata da sola. Don prese a spiegare: — È stato grazie a un processo... — ma s’interruppe. Tutti i termini che sarebbe venuto spontaneo usare in una conversazione con un adulto, “processo, procedura, tecnologia, trattamento”, erano incomprensibili a una bambina di quattro anni. — Sono andato dal dottore, e lui mi ha fatto tornare giovane.
Cassie spalancò gli occhioni azzurri. — Ma vá.
Lui fece spallucce. — Già. Eccomi qua.
La bambina guardò Sarah, poi di nuovo Don. E la nonna? Lei no?
Don stava per replicare, quando intervenne Sarah: — Io no, piccina.
— E perché? Ti piace avere tutte le rughe?
— Cassie! — disse Carl.
Ma Sarah non si era affatto offesa. — Me le sono guadagnate una per una, sai?
— Notò l’espressione interrogativa di Cassie, e cambiò risposta: — No, cara, io no.
Perché il processo che ha ringiovanito il nonno, con me ha fatto cilecca.
La bambina annuì. Forse Don aveva sottovalutato le sue capacità. Poi Cassie disse: — Mi spiace.
Sarah annuì in segno di assenso.
Cassie si rivolse al padre: — Nonno sembra più giovane di te. — Carl restò basito. — Quando io sarò vecchia, mi faranno tornare giovane?
Carl aveva appena iniziato a ruotare lateralmente la testa per dire,“no”, che Don lo precedette: — Ma certo, scricciolo! — Quando la nipotina fosse stata adulta, i prezzi del Rollback sarebbero ormai diventati accessibili. Quella era una buona cosa.
L’espressione di Carl indicava i raggiunti limiti di resistenza a tener sollevato il peso della figlia. Si chinò e la posò a terra. Ed ecco che Don si mise accovacciato, rivolgendo la schiena alla nipote. Sbirciandola da sopra la spalla, le domandò: — Bé, ci facciamo una cavalcata in prateria?
Cassie gli montò in sella, e lui si rialzò. Con la bambina aggrappata al collo, si mise a correre per il soggiorno. Le risatine di Cassie erano musica per le sue orecchie. Per qualche minuto, ringraziò la sua buona stella.
— Ehi, Lennie, c’hai un muso lungo un palmo!
Leonore stava riempiendo le saliere. Si voltò verso Gabby, che la scrutava tenendo le mani sui fianchi. — Come?
— È tutta la sera che hai un’aria da funerale. Che c’è?
Era il giorno della settimana in cui lei e Gabby avevano turno comune al Duca di York.
— Ho rotto con Don. Qualche giorno fa.
— Come mai?
Leonore calibrò le parole. — Tanto per cominciare, era già sposato.
— Il figlio di puttana.
— Già. Anche se, a dire il vero, aveva qualche attenuante...
— Separato?
— No, no, sta ancora con lei. Ma...
— Ma la vecchia non lo capisce. Ho indovinato?
Leonore ebbe una contrazione nervosa alla bocca. — Qualcosa del genere.
— Ragazza mia, di storie come queste ne ho già sentite troppe. Meglio tagliare i ponti.
— Sì. Solo che...
— Che...?
— Mi manca tanto.
— Ci sapeva fare, eh?
— Molto, ma non è questo il punto. Lui era... è...
— Cosa?
— È un uomo sensibile.
— Personalmente li preferisco un po’ rudi — disse Gabby con un sorriso lascivo.
— No, volevo dire in generale. È gentile, rispettoso.
— A parte con sua moglie.
A Leonore tornò in mente quarido Don aveva difeso la professoressa Halifax dalle battutacce di Makoto. — No, a suo modo rispetta molto la moglie, che è una donna molto dolce.
— Vuoi dire che è una che conosci!
Leonore annuì. — Di vista.
— Sveglia, torna con i piedi per terra, bimba!
— Lo so, lo so, ma non riesco a smettere di pensare a lui.
— Facciamo un po’ di ordine mentale. Hai scaricato Makoto perché si ingozzava di porcherie...
— Una avrà diritto ad avere dei principi.
— ...Però adesso vuoi rimetterti con un tizio sposato?
— No. Voglio rimettermi con lui nonostante il fatto che è sposato.
— Non stai parlando con una dottoranda del cavolo — disse Gabby — Spaccare il capello in quattro andrà anche bene nella vostra cricca, ma...
— Lui è diverso da chiunque altro abbia mai conosciuto.
— Perché? Ha tre pettorali?
— Non c’è niente da scherzare, Gab. Lui mi manca. Tantissimo.
— Sul serio?
— Sì.
Gabby rimase in silenzio per un po’. — Bé, allora la cosa giusta da fare è una sola.
— Quale?
Gab traslocò le saliere su un vassoio. — Segui il cuore.
A cena Sarah si ritrovò seduta accanto al nipote Percy che durante l’estate aveva compiuto tredici anni. — Bé — gli domandò — ti piace la scuola?
— Insomma, sì.
— Solo “insomma, sì”?
— Ci danno un sacco di compiti. Ne ho una montagna per lunedì.
Sarah ricordò quando, alla sua età, le avevano regalato la prima calcolatrice.
Erano una novità, e si faceva un gran discutere se il loro uso dovesse essere permesso o no a scuola. “Perché — affermavano quelli di parere contrario — se è una macchina a fare i calcoli al posto loro, i ragazzi non capiranno mai la matematica.” Erano quindi stati profetizzati un ventaglio di scenari che andavano dall’improbabile al ridicolo puro; per esempio che, in caso di tracollo tecnologico, appena si fossero esaurite tutte le batterie si sarebbe precipitati in un’era di barbarie a causa dell’incapacità generalizzata di eseguire i calcoli a mano. Sarah si era sempre chiesta se l’anonimo giapponese che aveva inventato le macchinette a energia solare lo avesse fatto per mettere a tacere quelle panzane.
Dopodiché, Sarah ricordava le identiche polemiche sui computer in classe.
Polemiche che avevano investito le scuole di ogni ordine e grado, per poi spegnersi quando lei già insegnava all’università. Che senso aveva chiedere agli studenti di imparare a memoria, ad esempio, che Sigma Draconis II, in base ai dati forniti dal primo messaggio, è un pianeta roccioso grande una volta e mezzo la Terra, con un raggio orbitale di novanta e rotti milioni di chilometri e un anno solare equivalente a centonovantanove giorni terrestri? Da qualunque parte quell’informazione era ottenibile all’istante con un click.
— Compiti di che cosa? — domandò Sarah, per sincero interesse.
— Di bioetica — rispose Percy. Il che impressionò la nonna: bioetica a quell’età! Ecco uno dei vantaggi di non occupare la mente con fiumi di nozioni da imparare a memoria.
— Cosa devi fare?
— Cercare dei dati su Internet, e poi scrivere una relazione su cosa ne penso.
— Su qualche tema specifico?
— Possiamo scegliere — disse Percy — Però non ho ancora deciso.
Sarah guardò Don. Aveva la mezza tentazione di suggerire al nipote di scrivere qualcosa sugli aspetti etici del Rollback, ma per Don quello era ancora un nervo scoperto.
— Pensavo a qualcosa sull’aborto — continuò Percy.
Lei per un secondo restò stordita. Santo cielo, quel ragazzino aveva solo tredici anni! Anche se...
Anche se, a essere sinceri, aborto, controllo delle nascite e pianificazione familiare erano temi che era importante approfondire fin da quel momento. Percy compiva gli anni a luglio, il che implicava che non ne avrebbe avuti quattordici fin dopo il termine dell’anno scolastico, ma quasi tutti i suol compagni e compagne sarebbero diventati quattordicenni prima; e a quell’età si poteva rimanere incinte, o mettere incinte le amichette.
— Tu cosa ne pensi dell’aborto, nonna?
Sarah si agitò nervosamente sulla sedia. Si sentiva addosso gli occhi della nuora, Angela, oltre a quelli di Emily. — Credo — rispose — che ogni bambino abbia il diritto di nascere in un ambiente in cui lo si desidera.
Percy ci meditò un po’ su. — E se due decidono di fare un figlio ma poi, prima che nasca, la ragazza cambia idea? Che si fa?
Niente da dire, il nipote aveva preso qualcosa da lei: quello era un un’argomento su cui Sarah si era scalmanata a lungo. Anzi, ora che ci pensava, era anche una delle domande poste dai Draconiani. La numero 46: “La persona incinta ha il diritto di interrompere la gravidanza, anche se all’inizio era desiderata da entrambi i partner?”. Per la stessa Sarah, non era stata affatto una passeggiata formulate la risposta da inviare agli alieni.
Bevve un sorso d’acqua, poi disse: — Su questo argomento ho continuato per tutta la vita ad altalenare da una posizione all’altra, tesoro. Oggi, però, propendo a pensare che l’ultima parola spetti alla madre.
Percy rifletté di nuovo tra sé. — Sei troppo oltre, nonna.
— Quanto sei carino! — disse lei. — Se ho capito bene.
Il mattino dopo, di buon’ora, Don era steso sul divano a controllare le email sul suo palmare. Un paio di messaggi erano di vecchi amici che facevano la stessa richiesta già avanzata da Randy Trenholm. Poi un’e-mail dal fratello, che gli inoltrava un simpatico cartone animato che pensava gli sarebbe piaciuto, e poi...
Un bip!
Era arrivato un nuovo messaggio in quell’istante.
“Mio Dio.”
Da: ldarby@utoronto.ca
Don lo aprì e cominciò a scorrerlo freneticamente avanti e indietro con gli occhi come una mosca impazzita. Poi, quando il battito cardiaco si fu calmato un po’, decise di leggerlo in ordine dalla prima riga all’ultima. Diceva:
Ehi Don,
immagino non pensassi di ricevere mie notizie, e non mi aspetto che risponderai, xché mi rendo conto che non sono stata molto comprensiva l’ultima volta, ma fanculo tutto, mi manchi un sacco. Ancora non ci credo che ti sto scrivendo, Gabby pensa che sono sbronza, ma spero che ti vada di trovarci e parlarne, magari giochiamo a Scarabeo o... Fammi sapere.
Sii gentile, perché tutte le persone che incontri stanno combattendo una dura battaglia.
Platone
Don sollevò lo sguardo dal palmare. Gunter, grazie alla sua forza e al suo perfetto senso dell’equilibrio, stava trasportando Sarah giù per la scala, seduta su una delle sedie di legno della cucina. — Buongiorno, tesoro — disse lei, con il solito tremolio nella voce.
— Ciao — rispose lui.
Gunter posò la sedia a terra e aiutò Sarah ad alzarsi. — Qualche messaggio interessante? — chiese Sarah.
Don spense di colpo il palmare. — No. Solo spam.
Il ricongiunimento di Don e Leonore era andato benissimo fino a quel momento. Adesso era sera e stavano finendo una cena cinese da asporto nell’appartamento di lei, dopo aver passeggiato tutto il pomeriggio in centro a guardare le vetrine. — Comunque — disse Leonore terminando il riassunto delle puntate precedenti, da dopo che si erano lasciati — quegli stronzi dell’università mi hanno fregato. Dicono che non ho pagato in tempo la rata, e non è vero, ho compiuto la transazione elettronica un attimo prima della mezzanotte del giorno di scadenza. E quelli mi hanno caricato un giorno di mora.
Don non mangiava mai i biscotti della fortuna ma gli piaceva aprirli. Nel suo c’era scritto: “Favorevoli prospettive di cambiamento”. — Quanto? — chiese.
— Otto dollari. Domattina vado in Amministrazione a sporgere reclamo.
Don fece cenno a Leonore di lasciargli leggere il messaggio che lei aveva sul proprio biscotto. Diceva: “Un tuo sforzo sarà premiato”. Lui annuì, e disse: — Puoi anche provarci, ma ti toccherà perderci mezza giornata.
Lei sembrò non gradire il consiglio. — Non bisogna permettere a quelli di fare tutto quello che gli gira.
— Per otto dollari non ne vale la pena. — Si alzò da tavola e si mise a riassettare. — Devi imparare a fare battaglie mirate. Quando avevo la tua età...
— Non dire quella frase!
Lui si voltò per guardarla. — Come?
Lei incrociò le braccia. — Non voglio sentirti dire: “Quando avevo la tua età”...
— Volevo solo risparmiarti...
— Che cosa? Di affrontare la vita? Di farmi le mie esperienze, di imparare da sola? Voglio imparare da sola, grazie.
— Giustissimo, ma...
— Ma io non ho bisogno di un padre, Don. Voglio un ragazzo. Un coetaneo.
Lui ebbe un tuffo al cuore. — Non posso cancellare il mio passato.
— Ovvio che non puoi — disse Leonore, accartocciando la confezione della cena. — Non esistono cancellini di quelle dimensioni.
— Ora piantala, Sarah! Io...
Don restò paralizzato sul posto, arrossendo vistosamente. Leonore annuì come se i suoi peggiori sospetti fossero appena stati confermati. — Mi hai chiamata “Sarah”.
— Dio, scusami, non volevo...
— Lei è sempre nei paraggi, è così? Come un velo tra noi due. E ci restera per sempre, anche quando sara...
Stavolta fu lei a bloccarsi un attimo troppo tardi. Ma Don proseguì il discorso:
— Sì, anche dopo che sarà... che non ci sarà più. È un dato di fatto con cui dobbiamo confrontarci. — Fece una pausa. — In ogni caso, non posso fare finta di non essere vissuto più a lungo...
— ...Del novantanove per cento della gente di questo mondo — disse Leonore; il che azzittì di nuovo Don, mentre calcolava mentalmente se fosse vero. E lo era.
A Don si annodò lo stomaco.
— Va bene, ma non puoi chiedermi di rinnegare me stesso — disse.
— Non te lo sto chiedendo, infatti. Ti sto solo pregando di...
— Di tenerrni le mie paternali per me?
— Ma no! Però non rinvangare continuamente il passato. Per me è pesante, sai?
Voglio dire, Dio mio, che razza di mondo era quando sei nato? Senza PC, senza nanotecnologie, senza robot, senza TV, senza...
— La televisione ce l’avevamo — precisò lui, ma senza aggiungere “in bianco e nero”.
— Bene, ottimo. Ma santo Dio, ti sei passato la... guerra in Iraq, e ai tuoi tempi c’era ancora l’Unione Sovietica, e hai assistito allo sbarco sulla Luna, e alla fine dell’apartheid in America e in Sudafrica. Hai vissuto l’11 settembre. Eri presente quando è arrivato il primo segnale alieno. — Scosse la testa. — La tua vita è identica al mio manuale di Storia.
Lui stava per replicare: “Allora dovresti prestarmi ascolto quando ti racconto le mie esperienze”, poi per fortuna lasciò perdere. — Non è colpa mia — disse.
— Ma lo so! — scattò lei. Poi ripeté le stesse parole in tono più basso: — Lo so.
Ma devi per forza recitare la parte del vecchio saggio?
Don si era appoggiato al lavandino. — Non lo faccio apposta. Però tu pensi che il pagamento di una mora ridicola sia una tragedia, come...
— Non è una tragedia — disse Leonore, esasperata. — Ma mi rende la vita un inferno, e... — Notò l’espressione di lui. — Che c’è?
— Niente.
— Voglio saperlo.
— Non hai la più pallida idea di che cosa renda la vita un inferno. Andare ai funerali dei propri genitori: quello sì. Vedere il coniuge che lotta contro il cancro: quello sì. Non ricevere una promozione che si merita, perché l’azienda ha deciso diversarnente: quello sì. O dover tirare fuori 20.000 dollari, che non hai, per rifare il tetto...
— E invece so benissimo cosa significano alcune di quelle cose. Mia madre è morta in un incidente quando avevo diciotto anni.
Don si morse la lingua. Non le aveva mai chiesto nulla dei suoi genitcri. Forse perché si sarebbe sentito troppo uguale a loro.
— Non ho mai conosciuto mio padre — continuò Leonore. — Quindi, rimasta orfana, è toccato a me prendermi cura di mio fratello Cole, che all’epoca aveva tredici anni. È per questo che lavoro. Ho una borsa di studio, ma ci sono ancora un sacco di debiti da estinguere in famiglia.
— Mi... ecco...
— Ti dispiace tanto. Sì, dispiace a tutti.
— Non... non aveva un’assicurazione sulla vita?
— Mamma non poteva permettersela.
— Ah... e... come vi siete arrangiati?
Lei alzò le spalle. — Diciamo che ho motivi personali per apprezzare l’opera delle Banche alimentari.
Lui non sapeva che cosa dire. Tutto quello però spiegava perché Leonore sembrasse tanto più matura dei suoi coetanei. “Quando aveva la sua età”, Don faceva la bella vita a spese dei genitori, mentre Leonore era già impegnata nella lotta per la sopravvivenza da sette anni.
— Dov’è Cole adesso? — chiese Don.
— A Vancouver. Ha messo su casa con la sua ragazza poco prima che io venissi qui a completare gli studi.
— Ah.
— Sono una che molto spesso lascia correre, e lo sai — riprese il discorso lei.
— Ma quando qualcuno ti frega dei soldi... e una li ha risicati... allora... — fece spallucce.
Don la guardò negli occhi. — Non mi rendevo conto di quanto fossi insopportabilmente paternalista — snocciolò, lento. — Adesso che mi hai costretto a confrontarmici, mi sforzerò di... — Tacque. Quand’era emozionato, il suo vocabolario tendeva a diventare un po’ ampolloso. Alla fine, concluse: — Stare all’occhio.
— Ti ringrazio — disse lei, ccn un lieve cenno del capo.
— Non prometto che ci riuscirò sempre. Farò del mio meglio.
— Ne sono sicura — rispose lei, con un sorriso paziente che era identico a quello di Sarah. Don le ricambiò il sorriso, poi allargò le braccia invitandola a raggiungerlo. Lei lo fece; lui la strinse forte a sé.
La frattura era ancora un bel fastidio per Sarah. Gunter però era una manna dal cielo: adesso, eccolo con un tazzone di decaffeinato, che portò a Sarah ancora immersa nello studio dei documenti nella ex stanza di Carl. Erano le fotocopie del messaggio inviato a Sigma Draconis dalla stazione di Arecibo: le mille risposte scelte a caso tra quelle compilate dai terrestri. Sarah era sicura che la chiave di decrittazione si trovasse da qualche parte lì in mezzo.
Erano passati decenni da quando lei aveva avuto sott’occhio quel materiale, perciò ne conservava solo un vago ricordo. In compenso a Gunter bastava un’occhiata per mappare il testo; perciò, quando Sarah diceva, ad esempio: — C’erano due risposte che mi avevano colpita perché sembravano contraddittorie.
Un tizio aveva risposto “si” alla domanda sull’eutanasia per le persone anziane e improduttive, e “no” alla domanda sull’eliminazione delle persone che costituiscono un peso per la società — il robot la informava: — Era il questionario numero 785.
Ciononostante, Sarah si ritrovava spesso di umore nero; a volte addirittura piangeva per il senso di frustrazione. La sua mente non era più lucida come un tempo. La cosa magari non si notava quando si trattava di preparare la cena o giocare con i nipotini, ma emergeva in tutta la sua drammaticità quando lei si sforzava di eseguire dei calcoli, di concentrarsi, di pensare. Si affaticava in fretta; doveva allungarsi spesso per riposare, il che ritardava ulteriormente la missione.
Molte altre persone, com’era ovvio, si erano buttate allo stesso scopo nell’analisi del messaggio di Arecibo. Se non avevano trovato una soluzione tanti giovani in gamba, anche lei aveva poco di che rallegrarsi.
Secondo molti analisti, la chiave poteva trovarsi in un questionario specifico tra quei mille: una sequenza che compariva una volta sola, come “sì, no, molto più grande, opzione 3, uguale, no, sì, meno” eccetera. In teoria, di combinazioni ce n’erano 20.000 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi (2 seguito da 40 zeri).
Coloro che non avevano accesso al materiale di Arecibo dovevano tirare a caso, ma anche i computer più veloci del pianeta avrebbero impiegato decenni a esaminarle tutte. Gli altri, quelli che avevano sott’occhio i mille questionari compilati, avevano la fortuna di dover provare solo quel numero limitato di sequenze; ma anche loro non avevano cavato un ragno dal buco. Dal canto suo, Sarah continuava a studiare il contenuto delle risposte. Come diceva una vecchia barzelnletta: “I vecchi docenti non muoiono mai, perdono solo le facoltà”. Gli interessati ribattevano che era così divertente che ci si dimenticava di ridere.
Sarah tentò con un’altra sequenza. Sul monitor comparve la scritta DECRITTAZIONE FALLITA. Non abbatté il pugno sulla scrivania perché era troppo debole per farlo, ma Gunter interpretò ugualmente bene il suo linguaggio somatico. — Sembri delusa — disse.
Lei ruotò sulla sedia girevole per guardare in faccia il Mozo. E le balenò un’idea: Gunter era un’intelligenza non-umana. Forse a lui poteva essere più chiara la forma mentis degli alieni. — Senti. Se avessi criptato tu il messaggio, quale chiave avresti scelto?
— Non saprei. Non ho la tendenza a nascondere le mie opinioni — rispose lui.
— Questo è vero...
— Hai provato a chiedere a Don? — propose Gunter, in tono piatto.
Sarah sollevò un sopracciglio. — Perché dici questo?
La bocca artificiale si distorse come se il robot si fosse morso la lingua; poi lui rispose: — Per nessun motivo particolare.
Sarah stava per lasciare perdere, quando...
Maledizione, Don aveva la sua confidente. E lei no? — Pensi che io non lo sappia?
— Sappia cosa? — chiese Gunter.
— Per favore! Sono in grado di interpretare i segnali dallo spazio, e non saprei cogliere quelli che ho intorno a me?
Impossibile, però, interpretare lo sguardo del robot. — Ah — disse.
— Tu sai chi è lei?
Il Mozo scosse la testa blu. — No. E tu?
— No, e non voglio saperlo.
— Se posso permettermi... come vivi questa situazione?
Sarah guardò fuori dalla finestra. Si vedeva un pezzo di cielo e il tetto della casa accanto. — Non è precisamente ciò che avevo sempre sognato, ma...
Il Mozo tacque. La sua pazienza era programmaticamente infinita. Alla fine, Sarah proseguì: — Ma mi rendo conto che lui ha dei... — Era indecisa se dire “desideri” o “bisogni”; scelse la seconda. — E da parte mia non posso... Non si possono far tornare indietro le lancette dell’orologio. — L’ultima frase doveva veicolare l’idea di una cosa impossibile (a parte il fatto che le lancette erano fuori moda da un pezzo), ma a ben pensarci a Don era successo proprio quello. — Io e lui non siamo più sincronizzati. — Rimase in silenzio per un po’, poi guardò il robot. — E tu? Come ti fa sentire questa situazione?
— Le emozioni non sono il mio forte.
— Suppongo di no.
— Tuttavia, preferisco quando le cose sono... lineari.
Sarah annuì. — Questo è un altro lato positivo del tuo carattere.
— Durante la conversazione, mi sono collegato in Rete per acquisire informazioni sull’argomento. Confesso candidamente che molti aspetti mi restano oscuri, però... tutto questo non ti fa arrabbiare?
— Oh, sì. Ma non con Don, principalmente.
— Non capisco.
— Sono arrabbiata con... con le circostanze.
— Intendi, con il Rollback che su di te non ha avuto effetto?
Sarah distolse di nuovo lo sguardo. Dopo qualche secondo rispose, a voce bassa ma percettibile: — Non perché non ha funzionato su di me. Ma perché ha funzionato su Don. — Fissò il Mozo negli occhi. — Mi sconvolge il fatto che la persona che amo di più al mondo abbia ricevuto altri settant’anni di vita in regalo.
Non è terribile? — Scosse la testa, rimproverando il proprio atteggiamento. — Ma, capisci, già all’indomani sapevo che sarebbe andata a finire così. Che lui mi avrebbe lasciata.
Gunter chinò leggermente la testa. — Ma non l’ha fatto.
— No, bé, e penso che non lo farà.
Il robot elaborò per qualche secondo, poi disse: — Concordo.
Sarah fece spallucce. — Ecco perché devo saper perdonarlo. — La sua voce era distante. — Perché, vedi, a essere sincera fino in fondo... a posizioni invertite, io lo avrei lasciato.
— Come si sente? — domandò la dottoressa Petra Jones della Rejuvenex, venuta a casa di Don per l’ultimo check-up. Sarah non partecipava più ai colloqui: esigevano troppa forza di sopportazione.
Don sapeva di soffrire di un ingombrante orgoglio. Mentre sua madre stava morendo, lentamente e dolorosamente, tanti anni fa, lui aveva represso le emozioni.
Quando Sarah combatteva contro il tumore, lui era rimasto rigido come un palo per nascondere il proprio panico agli occhi di lei e dei figli. Da questo punto di vista, Don era tutto suo padre; era stato educato con l’idea che chiedere aiuto fosse una forma di debolezza. Ma adesso aveva bisogno di aiuto.
— Non... non lo so — rispose.
Era seduto a un’estremità del divano. Seduta sul lato opposto, Petra esibiva un completo giacca-pantalone griffato, color arancio. — Qualche problema? — domandò chinandosi un po’ in avanti, e facendo tintinnare le perline infilate tra i capelli.
Don alzò gli occhi. Dal piano di sopra si sentivano le voci attutite di Sarah e di Gunter. — Io, boh... non mi sento più lo stesso.
— In che senso? — chiese Petra.
Lui inspirò a fondo. — Ho fatto cose... inusuali. Che pensavo che non avrei mai fatto.
— Del tipo?
Lui si voltò altrove. — Bé... mmm...
Petra annuì. — La libido preme molto?
Don la fissò negli occhi, senza parlare.
La dottoressa annuì di nuovo. — E una sintomatologia diffusa. Il livello di testosterone si riduce con l’età, ma il Rollback lo ripristina a valori elevati. Ciò può avere effetti comportamentali.
“Grazie per lo spiegone” pensò lui. — Però non ricordo che fosse così nella mia precedente gioventù. È vero che all’epoca... — Si azzittì.
— Cosa?
— La volta scorsa che avevo venticinque anni, ero parecchio più grosso.
Lei non comprese. — Più alto?
— Più grasso. Più di venti chili al di sopra del mio peso attuale.
— In effetti, anche quel fattore può aver inciso sugli squilibri ormonali. Ma è un disagio su cui possiamo intervenire. Altri sintomi?
— Non mi sento solo... — esistevano termini più eleganti, ma gli venne: — ...infoiato. Mi sento così romantico.
— Anche questo ha una causa ormonale. Dipende dal riassestamento biologico a seguito del Rollback. Altro?
— No — disse lui. Era stato già abbastanza imbarazzante alludere alla relazione con Leonore, figuriamoci...
— Senso di depressione? — disse Petra. — Pensieri suicidi?
Lui non riuscì a guardarla negli occhi. — Bé...
— Serotonina — disse lei. — Il processo provoca anche scompensi biochimici di questo genere.
— Non è solo una questione chimica. Sono successe cose spiacevoli. Io... io... per esempio, ho provato a cercare lavoro, ma nessuna azienda mi prende.
Petra sollevò una mano. — Il solo fatto che la sua depressione abbia motivi sociologici, non implica che non vada curata. Le hanno mai prescritto degli antidepressivi?
Don fece cenno di no.
Lei si alzò e aprì la valigetta di pelle. — Molto bene. Adesso preleveremo qualche campione di sangue per esaminare i livelli dei diversi ormoni. Vedrà che riusciremo a sistemare tutto.
Don stava sognando, disteso a letto accanto a Sarah, quando venne risvegliato all’improvviso. Stava sognando che lui e Sarah si trovavano sui margini opposti di un vasto canyon, e l’abisso tra loro due continuava ad allargarsi per l’azione di forze geologiche ultrarapide, e...
...E squillò il telefono. Lui annaspò in cerca della cornetta, mentre Sarah accendeva l’abat-jour.
— Pronto?
— Don... sei tu?
Lui aggrottò le ciglia. Quasi nessuno riconosceva più la sua voce. — Sì?
— Don, sono Pam. — Sua cognata, moglie di suo fratello Bill. Sembrava sotto stress.
— Pam! Tutto bene?
Sarah, con aria preoccupata, si drizzò faticosamente a sedere sul letto.
— È per Bill. È... Dio, Dio... Don, è morto.
Il cuore di Don ebbe un sussulto. — Oh Cristo...
— Cosa c’è? — domandava Sarah. — Cos’è successo?
Lui si voltò verso di lei, con la voce rotta: — È morto Bill.
Sarah si portò la mano alla bocca. Don parlò di nuovo alla cognata: — Com’è successo?
— Non lo sappiamo. Deve aver ceduto il cuore. Stava... — si interruppe.
— Tu sei a casa? Stai bene?
— Sì, sono appena tornata dall’ospedale. Hanno diagnosticato un infarto.
— E Alex? — Il figlio, di cinquantacinque anni.
— Sta venendo qui.
— Pam, ti siamo vicini.
— Ora non so come farò senza di lui.
— Mi vesto e sarò lì al più presto — disse Don. Di solito Bill e Pam trascorrevano l’inverno in Florida, ma non erano ancora partiti. — Ci occuperemo io e Alex di tutti i dettagli.
— Povero Bill... — gemette Pam.
— Sarò subito lì — ripeté lui.
— Ti ringrazio, Don. Ti aspetto.
— A dopo. Ciao. — Posò goffamente la cornetta, che cadde a terra.
Sarah gli accarezzò un braccio. Lui non riusciva a ricordare quando avesse visto suo fratello per l’ultima volta. Poi ebbe un lampo. L’ultima volta era stato ancor prima.
Lui e Bill s’incontravano un paio di volte all’anno, e ogni estate andavano insieme a vedere una partita dei Blue Jays. Quell’estate però Don aveva declinato, per quel ridicolo desiderio di mantenere un profilo basso, per quel ridicolo imbarazzo a farsi notare in giro. E il risultato era che non avrebbe mai più rivisto suo fratello.
Andò in bagno a prepararsi. Sarah lo seguì a passi lenti. Don stava per dirle che non era necessario che lei venisse, e che avrebbe chiesto a Gunter di accompagnarlo. Ma poi si rese conto di avere bisogno di lei.
— Mi mancherà — disse Sarah, in piedi accanto a lui presso il lavandino.
Lui guardò nello specchio. Il riflesso di se stesso giovane, di lei anziana. — Anche a me — mormorò.
— Sarah! Grazie per essere venuta — disse Pam, aprendo la porta dell’appartamento. La cognata di Don era una gracile signora di quasi 80 anni, bassa di statura, con zigomi pronunciati. Guardò Don e fece un’espressione perplessa. Probabilmente riconobbe alcuni tratti tipici degli Halifax, tra cui il naso grande e la fronte alta, ma non la persona specifica. — E lei, è...?
— Pam, sono io: Don.
— Ah già, il Rollback. Ma non... immaginavo che... — Si fermò. — Hai un bell’aspetto.
— Ti ringrazio. Tu come stai?
Pam era evidentemente sotto esaurimento, ma rispose: — Sto bene.
— Alex dov’è?
— Nello studiolo. Stavamo cercando di recuperare nome e indirizzo dell’avvocato di Bill.
Sarah disse: — Vado ad aiutare Alex — ed entrò.
Don osservò Pam. — Povero Bill — disse, senza trovare nulla di meglio.
— Ci sono un sacco di incombenze — disse lei, esausta. — Mettere l’annuncio sul sito dello “Star”. Organizzare il... le esequie.
— Penseremo noi a tutto, non preoccuparti. — Indicò il salotto, precedendo Pam in casa sua. — Ti preparo qualcosa da bere?
— L’ho appena fatto — rispose lei, sedendosi su un pouf deforme di colore verde fluorescente. In fatto di arredamento Bill aveva sempre avuto idee più eccentriche rispetto a Don. Lui prese posto su una sedia identica.
Il bicchiere di Pam, con un liquido di colore ambrato con ghiaccio, era posato su un tavolino lì accanto. Lei ne bevve un sorso, commentando rivolta al cognato: — Ma Gesù, ma guardalo!
L’alloggio si trovava al quinto piano. Don, a disagio, si mise a osservare il panorama esterno; occupato in gran parte da palazzoni di lusso. — Non è stata un’idea mia — rispose.
— Lo so, lo so, ma il povero Bill... bé, se avesse fatto anche lui il Rollback...
“A quest’ora sarebbe ancora vivo” pensò Don. “Infatti.”
— E tu eri perfino... — Pam annuiva pensosamente, ma non completò la frase.
— Ero cosa?
Ora fu lei a distogliere lo sguardo. Le pareti erano letteralmente tappezzate dagli scaffali della biblioteca. Perfino al di sopra dell’architrave d’ingresso. — Niente.
— Parla.
Lei lo fissò. Uno sguardo pieno di risentimento. — E tu sei perfino più vecchio di Bill.
— Di un anno e tre mesi. Sì.
— A te, però, restano decenni di vita!
— E quindi?
— Eri tu il più vecchio dei due — ribadì Pam. — Sarebbe stato normale che fossi stato tu ad andartene per primo.
La chiesa anglicana di Ognissanti, sulla Kingsway, era stata la parrocchia di Don durante l’infanzia. Al presente, per la verità, lui ricordava di quel periodo più gli incontri Scout che le prediche. Ed erano... bé, l’espressione che sorgeva spontanea era “Dio sa quanti anni”... che lui non ci metteva più piede. Per quanto non credesse nell’esistenza di un Dio che tenesse il conto.
La bara era già stata chiusa. Meglio così: si era sempre detto che Don e Bill si somigliavano come due gocce d’acqua, ma in quel momento sarebbe stato sconveniente notare tutte le differenze. Anzi, al contrario: siccome Bill non aveva mai avuto problemi di peso, Don adesso appariva identico al fratello quando aveva venticinque anni. Ma Don era l’unico a ricordare che aspetto avesse Bill così tanto tempo prima, perciò...
No, aspetta. Quello laggiù, che parlava con Pam, non era mica...?
Ma sì che era lui, Mike Braeden. Cavoli, non lo aveva più incontrato dagli anni delle superiori, ma non c’era possibilità di errore: faccione rotondo, occhietti vicini, un unico sopracciglio ininterrotto. Per quanto fosse curvo sotto gli anni, non era cambiato.
Mike era in classe con Bill, ma aveva fatto amicizia anche con Don. Era uno dei quattro maschi ad abitare in un quartiere dominato dalle femmine. Mike (o Mikey com’era soprannominato, o Mick, come si autodefiniva) era inoltre una colonna della locale squadra di hockey “su strada”, e infine faceva parte dello stesso gruppo Scout.
— Quello è Mike Braeden — lo indicò a Sarah. — Un vecchio amico.
Lei sorrise per incoraggiarlo. — Vá a salutarlo, no?
Don lo raggiunse passando in mezzo a due file di banchi. Quando fu a distanza di udito, sentì che Mike era impegnato in una classica rievocazione del caro estinto.
— Vecchio Bill! — stava dicendo. — Ricordo sempre quanto gli piaceva lo sciroppo d’acero. — Pam annuiva come di fronte a un accordo internazionale. — E mica quella robaccia che ti vendono adesso. Voleva solo quello raccol...
Si immobilizzò come il caro estinto nel suo cappotto di legno. — Mio... Dio...
— riuscì a gemere dopo qualche secondo. — Dio mio... Ragazzo mio, mi hai fatto venire un colpo. Sei il ritratto sputato di Bill. — Aggrottò l’unico sopracciglio, che con l’età era diventato grigio. — Tu... tu saresti?
— Mikey non mi riconosci? Don!
— Bé, non quel... — Poi si bloccò. — Signore benedetto, somigli tutto a Donny ma...
— Ho avuto un Rollback.
— E come avresti fatto a...
— Qualcuno ha offerto il giro.
— Stupefacente — disse Mike. — Sei in gran forma, ragazzo!
— Grazie. E grazie per essere venuto. Sono certo che Bill ne sarebbe stato felice.
Lo sguardo dell’uomo gli pesava addosso. — Il piccolo Donny — borbottava ancora Mike. — Incredibile.
— Mike, per favore, ero venuto per salutarti.
Lui annuì. — Chiedo scusa. E che non avevo mai incontrato nessuno ringiovanito.
— Neppure io, finché non mi è capitato — disse Don. — Ma non parliamo di quello. Stavi ricordando che andava pazzo per lo sciroppo d’acero...
Mike rimase indeciso se tempestare l’amico di domande o proseguire con il discorso intrapreso. Alla fine fece la sua scelta, e annuì. — Ricordi quando con gli Scout si andava d’inverno oltre l’autostrada a incidere gli alberi? Bill si sentiva sempre al settimo cielo. — Mike si accorse di aver usato una metafora discutibile, dato il contesto, ma questo lo stimolò ulteriormente a cambiare discorso, e il Rollback svanì in lontananza.
Pam ascoltava con la massima attenzione, mentre Don si guardava intorno alla ricerca di altri volti noti. Bill aveva sempre avuto molti più amici di lui, dato che usciva più spesso di casa e se la cavava meglio con gli sport. Don si domandò quanti di loro sarebbero venuti anche al suo funerale...
Lo prese lo sconforto. Nessuno. Poco ma sicuro. Né sua moglie né i suoi figli; nessuno dei vecchi amici. Sarebbero morti tutti un bel pezzo prima di lui. Forse gli sarebbero sopravvissuti i nipoti, ma in quel momento non li vedeva; e neanche i loro genitori, del resto. Probabilmente Carl e Angela c’erano, ma dovevano essere in qualche angolo, intenti a rassettare gli abiti ai figli che forse prima di allora non avevano mai partecipato a un funerale.
Tra pochi minuti sarebbe toccato a lui fare il panegirico del defunto. Avrebbe ripescato aneddoti e avvenimenti rivelatori per dimostrare che gran tipo fosse Bill.
Ma al suo funerale non sarebbe stato presente nessuno in grado di riandare con la memoria all’infanzia del caro estinto Donald Halifax, e neppure alla prima maturità. Niente di niente dei primi ottanta o novant’anni della sua vita. Tutto ciò che aveva fatto, dalla nascita a questo stesso giorno, sarebbe stato cancellato dai ricordi di tutti.
Si allontanò, scusandosi con Pam e Mike, che nel frattempo avevano portato il discorso dallo sciroppo d’acero al grande senso di prudenza posseduto da Bill. — Ogni volta che giocavamo a hockey in strada — stava dicendo Mike — e arrivava una macchina, lui era il primo a gridare: “Macchina!”. Mi sembra di sentire ancora adesso la sua voce...
Don ripercorse all’indietro la navata della chiesa. Le vetrate multicolori creavano disegni luminosi sul pavimento in legno. Sarah si era seduta nella seconda fila dei banchi, nell’angolo a destra. Sembrava così fragile e sola. Il bastone da passeggio era infilato tra lo scaffale e lo schienale del banco davanti a lei.
Lui le si chinò accanto. — Come va? — le domandò.
Sarah sorrise. — Bene, grazie. Mi sento solo un po’ stanca. — La sua espressione si fece seria. — E tu?
— Tengo duro.
— È bello che siano venuti così tanti amici.
Don esaminò l’assemblea; una parte di lui avrebbe preferito che ci fosse meno gente. Gli tornava in mente una vecchia battuta di Jerry Seinfeld: “Il terrore numero uno di tutti è parlare in pubblico, e il terrore numero due è la morte. Cioè, a un funerale bisogna avere più compassione per l’oratore che per il defunto”.
Entrò il prete, un nero di bassa statura i cui capelli cominciavano sia a ingrigire che a diradarsi. La messa ebbe inizio, mentre Don si sforzava di rilassarsi in attesa che venisse il suo turno. Sarah gli teneva affettuosamente la mano.
Per la sua statura, il prete anglicano aveva una voce incredibilmente cavernosa.
Durante le preghiere di rito anche Don chinò la fronte, ma senza chiudere gli occhi, fissando l’attenzione su una striscia di pavimento della chiesa.
— E ora — tuonò il reverendo — il fratello minore di Bill, Donald, ci dirà qualche parola.
“Cristo!” pensò lui. Ma averlo definito “minore” era stato un errore più che comprensibile, per cui Don, salendo sul pulpito, decise di non rimarcarlo.
Si aggrappò al leggio, lanciando un’occhiata dall’alto alle persone venute a rendere l’estremo omaggio a suo fratello: i familiari, tra cui Alex, figlio di Bill, e i figli di Susan, la loro sorella scomparsa nel 2033; qualche vecchio amico; alcuni colleghi di Bill della United Way; e molta gente che agli occhi di Don era completamente ignota, ma che doveva far parte del mondo di suo fratello.
— Mio fratello — si lanciò nelle solite formalità introduttive, leggendole sul palmare che aveva appoggiato aperto sul leggio — era una persona magnifica.
Bravo padre, bravo marito, e...
E si bloccò. Non perché ci fosse qualcosa di sbagliato in quelle onoranze, almeno in riferimento agli ultimi anni, ma perché proprio in quell’istante una persona molto particolare era entrata in chiesa e si stava sedendo nell’ultima fila.
Erano trent’anni che Don non vedeva la sua ex cognata Doreen, ma era sicuramente lei. Venuta in gramaglie a dire addio all’uomo da cui aveva divorziato tanto tempo prima. La morte faceva perdonare tutto.
Don tornò con lo sguardo agli appunti elettronici, e proseguì, tentennando un po’: — Bill Halifax cercò sempre di dare il massimo sul lavoro, e ancora di più in famiglia e nei confronti della società. Non capita spesso...
Esitò di nuovo, accorgendosi che avrebbe dovuto saltare le prossime parole, oppure avrebbe sottolineato l’errore commesso dal prete. “Fanculo” pensò. “Questa è una cosa che non avevo mai detto quando Bill era ancora tra noi. O lo dico adesso, o mai più.” — Non capita spesso che un fratello maggiore ammiri il fratello minore, ma tra noi due è sempre stato così.
Qualche mormorio nell’assemblea, facce perplesse.
Don buttò alle ortiche il fervorino prestampato. — Proprio così! — disse, stringendo ancora più forte i bordi del pulpito. — Io sono il fratello maggiore di Bill. Ho avuto la fortuna di fare un Rollback. — Altri mormorii e scambi di occhiate. — È stata un’esperienza... è stata un’esperienza che non ho cercato, né l’avrei neppure immaginato, prima...
Tornò sulla strada principale: — Comunque, conoscevo Bill da quand’era nato.
Nessun altro lo conosce bene quanto me... — si interruppe, poi aggiunse: — ...tra i presenti — anche se avrebbe potuto dire “nessuno al mondo” e sarebbe stato vero.
Mike si era trasferito a Windermere quando Bill aveva cinque anni; tutti coloro che avevano conosciuto Bill dalla nascita, erano già morti.
— Bill ha commesso pochi errori in vita sua. Bé, certo, qualcuno sì... — e si inchinò lievemente in direzione di Doreen, la quale sembrò ricambiare il cenno, e capire il messaggio: l’errore non era stato il matrimonio in sé, ma certe cose che Bill aveva fatto durante la loro unione. — Sciocchezze di cui lui stesso si sarà ampiamente pentito — proseguì Don. — Ma, in linea generale, la sua è stata una vita esemplare. Di certo non lo ha danneggiato il fatto di essere furbo come un’aquila. — Si accorse di aver storpiato la metafora, ma andò avanti: — Anzi, molti si sono stupiti che si dedicasse ad attività di impegno sociale anziché agli affari, dove avrebbe potuto fare molti più quattrini. — Evitò di guardare Pam.
Nell’aria aleggiava ancora la loro discussione sul fatto che Bill non avesse potuto permettersi un Rollback. — Avrebbe potuto fare un carrierone come avvocato, o avrebbe potuto mettere su una grossa azienda. Ma lui voleva qualcosa di diverso.
Voleva fare il bene. E lo ha fatto. Sì, mio fratello questo ha fatto.
Guardò l’assemblea. File di gente vestita a lutto; qualcuno piangeva sommessamente. Il suo sguardo indugiò sui propri figli, sui propri nipoti... dei quali, a loro volta, avrebbe forse fatto in tempo a conoscere i nipoti.
— Nella sua vita non è di certo mancata la quantità di cose fatte, ma è la loro qualità a emergere di prepotenza. — Fece una pausa, chiedendosi fino a che punto potesse spingersi nelle considerazioni personali. All’inferno, lì era tutta una questione personale, e voleva che sentissero Sarah, e i suoi figli, e anche Dio casomai. — Pare che andrò dannatamente vicino... — l’avverbio non era dei migliori in quel contesto, ma lui proseguì: — ...a raggiungere il doppio dell’età di mio fratello. — Lanciò un’occhiata alla bara, lucida e luccicante. — Ma se riuscirò a ricavarci, in tutto, la metà del bene compiuto da Bill, e a meritare in cambiò la metà dell’amore che si è meritato Bill, allora forse mi sarò guadagnato questa... questo...
Tacque, alla ricerca del termine adatto.
Infine concluse: — Questo dono che ho ricevuto.
La notte dopo il funerale Don e Sarah andarono a letto presto. Erano entrambi esausti. Sarah si addormentò all’istante; Don si voltò su un fianco e rimase a guardarla.
Non c’era dubbio che gli antidepressivi prescrittigli dalla dottoressa Petra stessero avendo effetto. Si irritava molto meno facilmente con sua moglie e, su un piano più radicale, non gli passava più per l’anticamera del cervello l’idea di farla finita. Jerry Seinfeld dicesse quello che voleva sul terrore numero uno, ma lui non aveva provato nessuna invidia per il fratello.
Anche il riequilibrio ormonale stava funzionando: non ardeva più dal desiderio di fottere come un riccio. Gli stimoli non gli mancavano, ma riusciva a tenerli a bada.
Però, anche se si erano in parte smorzate le fiamme dell’eros nei confronti di Leonore, l’amore che provava per lei era rimasto intatto. Quella non era una questione di ormoni.
Il che non toglieva che l’impegno che lui si era preso con Sarah risalisse a decenni prima della stessa nascita di Leonore. Sarah aveva bisogno di lui; e sebbene lui non avesse bisogno di lei per la sopravvivenza, la amava ancora, e molto. Fino ai tempi più recenti, quel rapporto tranquillo e ironico che intercorreva tra loro era stato un legame più che sufficiente, e poteva ancora essere sufficiente per il tempo a venire, lungo o breve che fosse.
Inoltre, le circostanze attuali erano sfavorevoli a Leonore. A nessun costo Don poteva essere l’amante che lei avrebbe meritato, sempre presente, accanto a lei in tutto.
Rompere con Leonore? Sarebbe stato come amputarsi un braccio. Eppure, non c’erano alternative, anche se...
Anche se l’idea che il mare è pieno di pesci, e che prima o poi capiterà un’occasione migliore, poteva magari consolare un ragazzino innamorato, ma non un uomo che aveva già attraversato un’intera esistenza. E lui in quei nove decenni aveva conosciuto solo due donne indimenticabili: una nel 1986, l’altra nel 2048. Le chance di incontrarne una terza così, pur con un’altra vita a disposizione, erano quasi nulle.
Ma non era quello il punto.
Il punto era che lui sapeva quale fosse il suo dovere.
Lo avrebbe fatto. Il giorno dopo. Per quanto...
No. Niente scuse.
Lo avrebbe fatto. Domani.
Il calendario non aspetta i comodi di nessuno. E proprio quel giorno, martedì 15 ottobre, cadeva il compleanno di Don. Lui non aveva rivelato la ricorrenza a Leonore; non voleva che lei spendesse per lui neanche uno dei dollari che raggranellava con tanta fatica, tanto più in vista delle cose che lui le stava per dirle.
In più, aveva senso festeggiare un ottantottesimo compleanno, con quel corpo giovanile che si ritrovava? Da ragazzi, i compleanni sono un grande momento.
Man mano che ci si avvicina alla mezz’età, perdono sempre più di importanza; si festeggiano soprattutto quelli che fanno cifra tonda, o al limite quelli che terminano con il numero cinque, se si sta attraversando un periodo particolare. Con l’avanzare del tempo, la cosa cambia di nuovo: ogni compleanno diventa un traguardo... a meno che uno non abbia fatto un Rollback. In definitiva, quegli ottantotto anni andavano celebrati o snobbati?
Dal punto di vista biologico, Don non si sentiva come un venticinquenne che compisse ventisei anni. La cifra venticinque era puramente indicativa: il Rollback era un complesso di riaggiustamenti coordinati, non una macchina del tempo dotata di cronometro. Comunque, accettò di buon grado l’ipotesi di essere diventato un ventiseienne, dato che quei venticinque anni lo avevano fatto sentire un pivellino.
Mentre ventisei... bé, significava andare verso i trenta, diventare rispettabile. Per approssimative che fossero le cifre, la verità era che lui stava ricominciando a invecchiare, come tutti, un giorno per volta. E i giorni trascorsi andavano pur immagazzinati con una qualche etichetta.
Soprattutto, però, si rendeva conto che lo scoccare del suo compleanno, quel giorno, era una sfortunata coincidenza. A quella data sarebbe rimasto associato per sempre, in tutti gli anni futuri, il pensiero di aver rotto la storia con Leonore.
Arrivò al Duca di York verso mezzogiorno. La prima in cui si imbatté fu Gabby.
— Ciao, Don — disse lei con un sorriso. — Grazie per essere venuto alla Banca lo scorso weekend.
— Volentieri — rispose lui.
— Lennie è già arrivata, sta al solito angolo.
Don annuì e si diresse verso il séparé. Leonore stava leggendo qualcosa sul palmare, ma appena lui si avvicinò lei saltò in piedi e lo abbracciò per baciarlo, trillando: — Buon compleanno, amore!
— Co... come fai a saperlo?
Lei esibì un sorriso da canaglia; ma la risposta era semplice: ormai on-line si trovava tutto. Si sedettero, e lei tirò fuori un pacchetto sottile, avvolto in carta blu metallizzato. — Buon compleanno! — ripeté.
Lui osservò il regalo. — Non dovevi.
— Che razza di fidanzata sarei! Dai, avanti, aprilo.
Lui lo aprì. All’interno c’era una T-shirt bianca, con il segnale di “divieto” sopra la parola QWERTY scritta con i caratteri di Scarabeo.
Quella ragazza era un genio. La prima volta che loro due si erano affrontati a Scarabeo, lui le aveva detto di non approvare la presenza di qwerty tra le parole del Dizionario ufficiale del gioco. Il motivo era che in giro la si vedeva sempre riportata tutta in maiuscolo, ma a Scarabeo le sigle non erano valide. Su questo punto gli avevano dato ragione tutti ivocabolari, tranne il Webster’s Third New International Dictionary — Unabridged, secondo cui il termine “compare anche spesso scritto a caratteri minuscoli”. Sì, però il Webster’s ammetteva addirittura “toronto” con la minuscola! In ogni caso, ormai ai tornei di Scarabeo la parola qwerty era diventata moneta corrente, per cui la campagna culturale di Don aveva avuto più o meno il successo di quella su “Gunter”.
— Ti ringrazio — le disse. — È un regalo favoloso.
Lei sorrideva a trentadue denti. — Sono felice che ti sia piaciuto.
— Assolutamente. Me ne sono innamorato all’istante.
— Io mi sono innamorata di te — disse lei, esplicitando per la prima volta quel termine. Allungò una mano e prese quella di lui.
Le foglie cadute lungo la Euclid Avenue avevano un colore tra l’arancio, il giallo e il marrone. L’inverno bussava già alle porte. Don e Leonore passeggiavano mano nella mano. Lei, come al solito, parlava animatamente; lui invece appariva immusonito. Quella sarebbe stata l’ultima volta che sarebbero andati insieme a casa di lei.
La brezza pomeridiana spingeva foglie morte e cartacce sull’asfalto pieno di buche. I due superarono edifici con le finestre chiuse con il cartone, poi un ubriaco buttato accanto a un tombino, e furono alla meta. Aggirarono la facciata principale, scesero per la scala di servizio. Una volta in casa e tolti i cappotti, mentre Leonore preparava il caffè lui si guardò attorno. Di oggetti che appartenessero a Leonore lì dentro ce n’erano ben pochi, l’alloggio le era stato affittato già (squallidamente) ammobiliato. Tutti gli averi di lei potevano essere portati via in un paio di scatoloni. Don sospirò, ricordando quando anche la sua vita era stata così spartana, così precaria.
— Tieni — gli disse Leonore, passandogli un tazzone. — Questo ti riscalderà un po’.
— Grazie.
Lei si accoccolò sul bracciolo del divano. — E conosco qualche altro trucchetto per scaldarti, Mister 26. — Gli occhi di lei scintillavano.
Lui scosse la testa. — Mmm... e se invece giocassimo a Scarabeo?
— Stai dicendo sul serio?
Lui annuì.
Lei lo osservò come fosse un Draconiano. Poi però fece spallucce. — Okay.
Come preferisci...
Si stesero sulla moquette consunta, dove lei materializzò una griglia olografica con il palmare. Tirarono a sorte. Cominciò prima lei.
Qualche volta un giocatore si accorge di possedere alcune lettere che tornerebbero utili per mettere a segno un colpo formidabile; allora le tiene da parte, nella speranza che gli arrivino quelle mancanti. Fin dall’inizio Don aveva una Y e una Q, del valore rispettivamente di 4 e 5 punti. Lasciò perdere varie occasioni per utilizzarle, ma alla fine ebbe a disposizione la parola magica quasi per intero.
Anche se il campione inveterato che era in lui detestava sprecare così una T, Don cominciò a disporre le lettere sulla sinistra di una R di Leonore, e ottenne: QW[...]RTY
— Manca una E — spiegò a Leonore, che non aveva colto. — QWERTY.
Lei fece una smorfia con il naso. — Però avevamo detto che non era valida.
Lui annuì. — No, infatti. È solo che... capisci... è solo che volevo solo... — Si fermò e ricominciò da capo: — Per tutto il resto della mia vita, ogni volta che sentirò quella parola, penserò a te. — Pausa. — Più di tutti i gran dottori della Rejuvenex, più di ogni alchimia del Rollback, sei stata tu a farmi sentire giovane. A farmi sentire vivo.
Lei gli rivolse un sorriso radioso. — Ti amo. Con tutto il mio cuore.
Don cercò di esprimere un sentimento altrettanto intenso: — Anche io ti amo, Leonore. — Osservò il suo viso delizioso, con le lentiggini e gli occhi verdi e i capelli ramati. Per imprimere tutto indelebilmente nella memoria. — E... — sapeva di non mentire — ti amerò per sempre.
Leonore sorrise ancora.
— Ma — continuò lui — io... mi spiace tanto, tesoro mio... — Deglutì, costringendosi a fissarla nelle pupille. — Ma questa è l’ultima volta che ci vedremo.
Lei spalancò gli occhi. — Che... cosa?
— Perdonami.
— Ma perché!
Don abbassò gli occhi alla moquette spelacchiata. — Ho quasi raggiunto l’età massima per un essere umano, ed è ora che cominci a comportarmi da adulto.
— Ma, Don...
— Ho dei doveri nei confronti di Sarah. Ha bisogno di me.
Leonore aveva occhi lucidi. — Anch’io ho bisogno di te.
— Lo so — sussurrò lui. — Ma devo farlo.
La voce di Leonore tremava. — Ti prego, Don... No...
— Non posso darti ciò che chiedi. Ciò che meriti. Io... io avevo già preso un impegno.
— Ma stiamo così bene insieme, noi.
— Sì. Lo so. Ed è per questo che mi fa così male. Vorrei tanto che ci fosse un modo... Ma non c’è. — Deglutì a fatica. — Le stelle sono contro di noi.
Don tornò alla metropolitana a passo lento, tristemente, andando a sbattere contro i pedoni, incluso un robot, e scatenando un concerto di clacson quando attraversò Bloor Street senza guardare il semaforo.
Non aveva voglia di cambiare linea, come sarebbe stato costretto a fare se avesse scelto il tragitto più breve; perciò decise di dirigersi a sud, percorrendo parte di un lato della grande U e poi quasi tutto il lato opposto.
All’arrivo del treno alla fermata ci fu un pigia-pigia di gente che voleva salire, urtando controcorrente la marea di persone che uscivano. Don ricordava com’era quel posto quando lui era giovane: i passeggeri in salita attendevano in buon ordine, disponendosi ai lati delle porte e aspettando che tutti i passeggeri in uscita lasciassero le carrozze. Piano piano quelle piccole forme di civiltà, che avevano ottenuto alla città l’appellativo “la buona Toronto”, erano sparite; e gli altoparlanti si sgolassero pure a ripetere le regole.
La metro era affollata, ma lui riuscì a trovare un posto a sedere. Solo dopo che il treno fu ripartito gli venne in mente una cosa. Si era abituato a vedere giovanotti che gli offrivano il posto, in nome degli ultimi scampoli di civiltà, ed era pur sempre vero che Don aveva ottantotto anni, ma lì intorno c’erano passeggeri anziani che avevano un reale bisogno di sedersi. Si alzò, indicando il posto libero a una donna avvolta in un sari. Lei gli rivolse un sorriso colmo di gratitudine.
Si trovava nella prima carrozza. Alla fermata Union scese un sacco di gente, cosa che gli diede l’opportunità di raggiungere il parabrezza anteriore, accanto al posto del conducente occupato da un robot. Alcuni tratti della galleria erano perfettamente cilindrici, rischiarati a intervalli regolari da anelli di luce. L’effetto visivo gli ricordava quella vecchia serie TV, The Time Tunnel, che gli piaceva quanto Lost in Space per la bellezza della regia, anche se le storie erano veramente stupide.
Dopotutto, non è possibile tornare indietro nel tempo.
Non si può disfare il già fatto.
Non si può cambiare il passato.
Al massimo, si può andare più avanti a vedere il futuro.
La metropolitana si tuffò nell’oscurità per riportarlo a casa.
Don entrò, e rimase qualche istante immobile a fissare le piastrelle dell’atrio.
Era lì che Sarah era rimasta per ore, faccia a terra, ad attendere il suo ritorno. Salì pesantemente i sei scalini e raggiunse il soggiorno.
Sarah si trovava in piedi accanto al caminetto, girata di spalle, intenta aosservare o gli ologramrni dei nipoti o il suo vecchio trofeo. Si voltò, sorrise e si incamminò verso di lui. Don allargò d’istinto le braccia, lei vi si rifugiò e lui la strinse con dolcezza. Le braccia di Sarah, lungo la schiena di lui, sembravano rami di salice mossi dal vento. — Di nuovo buon compleanno — lo salutò.
Don guardò dietro la moglie. Sul grande schermo a muro, il display a caratteri cubitali indicava le 5.59... no, le 6 del pomeriggio. Terminato l’abbraccio, Sarah si diresse lentamente verso la cucina. Invece di precederla di corsa, Don le restò dietro, compiendo un passo ogni due di lei.
— Tu siediti — le disse, quando furono entrambi in cucina. I movimenti lenti e metodici di lei, nel cucinare o fare qualunque cosa, gli davano un antipatico senso di angoscia. E poi, lui mangiava il triplo di lei: toccavano a lui le incombenze domestiche. — Gunter! — disse ad alta voce, ma senza gridare, perché non era necessario. Il Mozo comparve quasi in tempo reale, e Don gli disse: — Ora io e te prepareremo la cena.
Sarah prese posto su una delle tre sedie di legno attorno al tavolo. Mentre “i due uomini di casa” gestivano gli spazi ristretti della cucina, prendendo pentole e padelle e recuperando le materie prime dal frigo, a un certo punto Don si sentì addosso gli occhi della moglie.
— Qualcosa che non va? — gli domandò lei.
Don non aveva quasi pronunciato verbo, e aveva fatto la massima attenzione a non far sbattere le stoviglie, ma Sarah lo conosceva da talmente tanto tempo da capire perfettamente il suo linguaggio somatico anche sotto quelle nuove spoglie.
Forse dal modo di tenere abbassata la testa, o quel mutismo sospetto, a parte le parole indispensabili per dare indicazioni a Gunter. Impossibile nasconderle il suo stato d’animo. Però lui provò lo stesso a negare, per quanto fosse futile: — Tutto a posto.
— È successo qualcosa di spiacevole in città?
— No. È solo che sono stanco. — Nel dirlo, Don era chino sul tagliere, ma sbirciava l’espressione di lei.
— C’è qualcosa che posso fare per te? — domandò Sarah.
— No — rispose lui. Quindi si concesse l’ultima menzogna della giornata: — Mi riprenderò in fretta.
Sarah si risvegliò di soprassalto. Il cuore le batteva a un ritmo che probabilmente non era salutare, alla sua età. Guardò la sveglia digitale: le tre e due minuti del mattino. Accanto a lei, Don russava piano.
Il pensiero che le aveva spezzato il sonno era così eccitante che fu tentata di svegliare il marito. Ma no, no. Era una faccenda lunga, e alla fine lui non sarebbe riuscito a riaddormentarsi.
Sarah dormiva dalla parte del letto verso la finestra. Un milione di anni fa, quando avevano scelto le rispettive metà del materasso, Don le aveva offerto quel lato per permetterle di osservare le stelle ogni volta che voleva. Comunque, mettersi dritta fu un trauma. Le giunture erano irrigidite, le faceva male la schiena, la gamba era ancora in via di guarigione. Alla fine però ci riuscì, scostando la barra di sicurezza e sopperendo alla debolezza fisica con la forza di volontà.
A passi lenti e strascicati raggiunse la porta, fece una pausa appoggiandosi allo stipite, poi si incamminò per il corridoio diretta allo studio.
Lo schermo del computer si animò non appena lei ebbe toccato il mouse wireless; si accese a bassa luminosità, adatta all’occhio in quel buio.
Pochi secondi e arrivò Gunter. Doveva essere al piano di sotto, ma aveva sentito i fruscii. — Tutto bene? — le domandò. Il volume della voce era appena percettibile.
Lei annuì. — Tutto benissimo. Ma c’è una cosa che voglio verificare subito.
Le erano sempre piaciuti i colpi di scena nella storia della Scienza, anche se erano solo leggende. Archimede che salta su dal bagno e si mette a correre nudo per Atene urlando “eureka!”. Newton che vede cadere una mela (ma Sarah preferiva l’ancora più improbabile versione secondo cui la mela gli era caduta in testa) e scopre la legge di gravità. August Kekule che si sveglia con in mente la struttura della molecola di benzene, dopo aver sognato un serpente che si morde la coda.
In tutta la sua vita Sarah aveva avuto una sola illuminazione di questo tipo: quella volta che, giocando a Scarabeo proprio qui, aveva capito il modo in cui andava incasellato il primo messaggio di Sigma Draconis.
Adesso però, forse, ne stava avendo un’altra. Suo nipote Percy le aveva chiesto cosa ne pensasse dell’aborto. Lei aveva risposto che la sua opinione in merito altalenava da una posizione all’altra.
Ed era vero. Ma ora le era tornata alla memoria una notte in cui, come stanotte, si era destata alle tre. Era il 28 febbraio 2010, domenica, il giorno prima che da Arecibo venisse inviata la risposta della Terra agli alieni. Lei e Don erano ospitati nel bungalow dell’osservatorio; lo strofinio delle fronde contro le pareti di legno esterne creava una ninna-nanna naturale.
E Sarah si era accorta di non essere soddisfatta della propria risposta alla domanda 46, che chiedeva: “In caso di gravidanza voluta da entrambi, il giudizio della madre deve sempre prevalere su quello del padre?”. Lei aveva scritto “si”, ma adesso propendeva per il no. Perciò si era alzata, aveva acceso il portatile in cui era contenuta la versione mastro del messaggio terrestre, aveva modificato quella risposta e aveva salvato il file. Siccome, il giorno dopo, il suo computer sarebbe stato interfacciato al trasmettitore, a essere inviata nello spazio sarebbe stata la risposta revisionata.
All’epoca aveva pensato che una sola variante non avrebbe fatto una gran differenza, nel quadro di ottantaquattro risposte date da mille persone. Però aveva ripensato a quella frase di Carl Sagan: “Chi parla a nome della Terra? Noi”. Lei lo aveva fatto. Quindi voleva fornire ai Draconiani una risposta il più corretta possibile.
Solo che, a quel punto, erano già state riversate su CD-ROM le copie di quella che, in teoria, era la versione definitiva del messagio. Era stata anche stampata una copia cartacea di backup: proprio quella che Don di recente era andato a recuperare all’università. Ma Sarah aveva dimenticato tutti questi dettagli su quella notte di trentotto anni prima in Portorico. Fino a questo istante.
— Posso fare qualcosa per te? — domandò Gunter.
— Tienimi compagnia — rispose lei.
— Volentieri.
Con Gunter che gli occhieggiava da dietro le spalle, Sarah si mise a dettare a bassa voce istruzioni al computer, chiedendogli anzitutto di aprire il file originario con le sue risposte al sondaggio alieno.
— Bene — disse al PC. — Ora vai alla mia risposta alla domanda 46.
La freccia luminosa si spostò a video.
— Cambia la risposta in “no“.
Il computer eseguì.
— E adesso riverifichiamo tutte le risposte. La prima è... — e continuò a dare istruzioni.
A un certo punto intervenne Gunter: — Hai il battito cardiaco accelerato. Stai bene?
Sarah sorrise. — Si chiama “eccitazione”. Ed un buon segno. — Tornò a rivolgersi al computer, cercando di mantenere la voce il più ferma possibile: — Copia il testo selezionato negli Appunti. Apri il file con la risposta che abbiamo ricevuto dai Draconiani... Okay ora carica l’algoritmo di decrittazione che gli alieni ci hanno fornito. — Fece una pausa per inspirare a lungo, per calmarsi un po’. — Molto bene. Ora incollaci dentro il testo degli Appunti, ed eseguì l’algoritmo.
L’immagine a video cambiò all’improvviso. E...
“Eureka!!”
Sì. Si riversò fuori un fiume di frasi scritte nell’alfabeto del primo messaggio.
Sarah non vedeva un ideogramma draconiano da decenni, ma ne riconobbe qualcuno al primo colpo. Quel simbolo quadrato significava “uguale”, quella rovesciata stava per “buono”. Però ogni lingua, a non usarla, si perde; per cui tutto il resto restò indecifrabile ai suoi occhi.
Non importava. Esistevano vari programmi di traslitterazione dei simboli draconiani: Sarah chiese al computer di copiare il testo dentro uno di essi. E immediatamente a video si materializzò una traduzione basata sulle corrispondenze con l’inglese stabilite a suo tempo da lei stessa.
Usando il mouse per fare prima, saltò freneticamente da una pagina all’altra.
Era un messaggio di notevole lunghezza. Gunter che possedeva una velocità istantanea di lettura, sorprese Sarah commentando, in tono sommesso: — Wow...
Dopo un po’ Sarah tornò alla pagina iniziale. Aveva l’adrenalina a mille. Gran parte del capitolo introduttivo era in colore nero, per indicare che il PC si sentiva piuttosto sicuro della traduzione; vari termini però comparivano in blu, a indicare una congettura. In ogni caso, pur nell’incertezza di alcuni dettagli, il succo del discorso era chiaro.
Sarah scosse la testa, sbalordita. E beata.
Don si svegliò poco prima delle sei, disturbato da un rumorino. Voltandosi, notò che Sarah, fatto insolito, non era più a letto. Guardò per tutta la stanza, ma lei non c’era. Preoccupato, saltò giù dal materasso, si precipitò in corridoio, e...
Ed eccola, nello studio, insieme a Gunter.
— Tesoro! — disse, precipitandosi nella stanza. — Che ci fai già in piedi a quest’ora?
— Sarah è in piedi da due ore e quarantasette minuti — precisò Gunter.
— Perché? — chiese Don.
Sarah si voltò verso di lui. Aveva gli occhi di una bambina al luna park. — Ce l’ho fatta — disse. — Ho scoperto la chiave di decrittazione.
Don stava per acciuffarla, abbracciarla e farla volteggiare... ma non era più il tempo. Allora si chinò e la baciò signorilmente sulla testa. — Ma è straordinario!
Come hai fatto?
— La chiave di decrittazione era la mia sequenza di risposte.
— Ma non l’avevi già provata?
Allora lei gli raccontò della modifica all’ultimo minuto che aveva fatto ad Arecibo. Mentre lei rievocava, Gunter si accovacciò accanto a lei per avere accesso allo schermo e far scorrere le pagine alla velocità massima.
— Ah... ma... un momento! — esclamò Don. — Aspetta un momento. Se sono state le tue risposte a mettere tutto in moto, significa che questo è un messaggio personale per te.
Sarah annuì, lentissimamente, come se lei stessa facesse fatica a crederci. — Sì, esatto.
— Cavoli! Avevi davvero un amico di penna!
— Pare di sì — mormorò lei.
— E la lettera che ti ha scritto, che dice?
— È un... rendering in 3D, si dice, no?
— Vuoi dire, il progetto per un’astronave? Come in Contact?
— No, no. — Guardò per un attimo Gunter, poi tornò con gli occhi sul marito.
— Il modello di un Draconiano.
— Che?!
— Il grosso del messaggio contiene il genoma completo di un alieno, con tutte le relative informazioni biochimiche.
Lui parve deluso. — Bé, immagino che sarà un affascinante argomento di studio.
— Lo scopo non è studiarlo. O almeno, non l’ unico scopo.
— E che altro?
— Dovremmo... — fece una pausa per scegliere il termine: — ...realizzarlo.
— Come, prego?
— Il messaggio include anche le istruzioni per costruire un utero artificiale e un’incubatrice.
Le sopracciglia di Don scalarono la fronte. — Ci stanno chiedendo di allevare uno di loro?
— Tombola.
— Qui, sulla Terra?
Lei annuì. — Lo avevi detto anche tu, no? Il progetto SETI serve solo a trasmettere informazioni. Bé, il DNA è informazione! E loro ci hanno inviato le istruzioni complete per costruire uno di loro.
— Un bimbo draconiano?
— All’inizio. Poi diventerà un Draconiano adulto.
Nella stanza c’era una sedia sola; Don si appoggiò con il fondoschiena alla scrivania, Sarah girò sulla sedia per guardarlo in faccia. — Ma... — balbettò lui — ma non riuscirà neanche a respirare la nostra atmosfera. Non potrà mangiare il nostro cibo.
Sarah indicò lo schermo. — Lì è specificata la composizione dell’aria di cui avrà bisogno: quali gas e in quali percentuali, le sostanze che per lui risulterebbero velenose, la pressione atmosferica che sarà in grado di sopportare, eccetera eccetera. Ma hai ragione quando dici che non potrà respirare direttamente la nostra aria. Tanto per cominciare, qui abbiamo troppa anidride carbonica; tuttavia sarà sufficiente una maschera di filtraggio. Inoltre ci hanno elencato le formule chimiche degli alimenti che potrà assumere. Temo che da quelle parti non seguano il metodo Atkins: e una dieta a base di carboidrati.
— E per... diciamo, e per la gravità?
— Sigma Draconis II ha una gravità di superficie superiore di circa il trenta per cento rispetto alla nostra. La differenza non dovrebbe creare troppi problemi.
Don guardò Gunter facendo appello alla sua fredda razionalità: — Tutto questo è folle!
Il Mozo non ebbe particolari reazioni. Sarah domandò: — Perché?
— Chi mai sarebbe disposto a mandare suo figlio su un altro pianeta?
— Non stanno mandando nessuno. Non viaggerà niente.
— E va bene, ma allora che cosa sperano di ottenere?
— Non hai letto... aaah, come si chiamava?
Don si accigliò. — Chi?
— Maledizione — borbottò Sarah. Si rivolse a Gunter: — Chi ha scritto Che effetto fa essere un pipistrello?
Senza distrarsi dallo schermo, il robot rispose: — Thomas Nagel.
— Nagel, esatto! Lo avevi letto, Don?
Lui scosse la testa.
— È un testo degli anni ’70, che è...
— Ottobre 1974 — precisò Gunter.
— ...Diventato una pietra miliare della riflessione contemporanea. Si chiede, appunto, che cosa si provi a essere nei panni di un pipistrello. E la risposta, in buona sostanza, è: “Non lo sapremo mai”. Non possiamo neppure immaginare che cosa significhi possedere l’eco-locazione, percependo quindi la realtà in modo completamente diverso. Bene, solo un Draconiano in carne e ossa, con sensi da Draconiano, potrà inviare alla madrepatria un rapporto affidabile su come si viva qui in Terra.
— Cioè, vogliono che facciamo nascere uno di loro, qui, a questo scopo?
Lei fece spallucce. — Gli esseri umani, da millenni, ritengono di essere nati per regnare. A loro magari interessa nascere per fare gli ambasciatori.
— Ma pensa come si sentirebbe, tra noi, tutto solo.
— Perché tutto solo? Se se ne può produrre uno, se ne possono produrre anche molti. Ovvio, sarebbero tutti gemelli identici, ma...
— Per la verità — intervenne Gunter alzandosi — ho letto quasi tutto il documento, ed è vero che hanno inviato un solo genoma completo, però hanno indicato in Appendice una serie di varianti da inserire in determinati punti della sequenza genetica, per dare vita a un secondo alieno in parte diverso. Pare che i due DNA derivino da una coppia “sposata”. In questo caso, si creerebbero una serie di cloni di quella coppia.
— “Se tu fossi l’unica ragazza al mondo, e io l’unico ragazzo...” — citò Don — Se non altro, andrebbero a colpo sicuro per il fidanzamento. — Fece una pausa. — A parte gli scherzi, che ne sappiamo che quello sia il genoma di un autentico Draconiano con il sale in zucca? E se fosse un mostro spaziale o un virus?
— Che scoperta. È evidente che verrebbe prodotto all’interno di un impianto sotto sorveglianza — rispose Sarah. — Ma poi, che senso avrebbe mandarci un mostro?
— Il messaggio disse Gunter — afferma che i due di cui è fornito il DNA sono due Draconiani attualmente esistenti sul pianeta. O almeno, lo erano quando il segnale è stato inviato. Gli alieni sperano di riuscire a mantenere i contatti con i loro cloni sulla Terra nonostante i silenzi di 37,6 anni tra un messaggio e l’altro.
— Insomma, i Draconiani di lassù farebbero un’adozione a distanza — disse Don. Intanto notò, attraverso la finestra, che il sole aveva cominciato a sorgere.
— In un certo senso — rispose Sarah. — E sulla Terra cercano dei bravi tutori.
— Ecco il perché del questionario!
— Infatti. Se intendi affidare i tuoi figli alle cure di qualcuno, prima cerchi di conoscerlo meglio. Se ne può dedurre che, tra quei mille profili professionali, hanno gradito soprattutto il mio; e ora vogliono incaricarmi di allevare i loro piccini.
— Mio Dio... — fece Don. — Cioè... cavoli...
Sarah sorrise. — Ed ecco perché a loro interessava tanto la questione dei diritti del genitore “non partoriente”.
— E dell’aborto. Volevano assicurarsi che non ci prendesse la tremarella e non decidessimo di testa nostra di eliminare i feti.
— È un’interpretazione plausibile. Tuttavia ricorda che a loro sono piaciute le mie risposte, che erano tutte favorevoli all’interruzione di gravidanza, a parte quella clausola sul diritto dell’altro genitore.
— Allora, perché questo li avrebbe soddisfatti?
— Forse volevano vedere se avevamo superato la fase darwiniana.
Don aggrottò le ciglia. — Come?
— Nel senso di aver superato l’istinto egoistico a conservare i propri geni. In un certo senso, essere a favore dell’aborto significa essere contro le teorie di Darwin, perché in quel modo si diminuiscono le proprie possibilità di successo riproduttivo.
Si eliminano feti normali che non avrebbero richiesto sforzi eccessivi a essere fatti nascere e allevati fino alla maggiore età. L’accettazione dell’aborto diventa un marcatore psicologico per indicare la sospensione delle dinamiche di tipo darwiniano, lo sviluppo di una programmazione genetica più libera,la fine di un’epoca in cui si è ancora dominati dal potere del proprio DNA che preme per moltiplicarsi.
— Ho capito — disse Don. Il vetro della finestra si stava scurendo in reazione all’aumento della luminosità esterna. — Se una ama troppo i propri cromosomi, amerà poco quelli alieni.
— Esatto — disse Sarah. — E nota che hanno chiesto mille serie di risposte: sapevano già che non la pensiamo tutti allo stesso modo. Tu dicevi spesso che le specie aliene dovevano per forza avere o menti ad alveare o governi totalitari, perché oltre un certo livello di sviluppo tecnologico la sopravvivenza diventa impossibile, se si lascia spazio di manovra ai terroristi. Ma deve esistere una terza alternativa, migliore dei Borg o di Stalin. I Draconiani apparentemente sapevano di avere a che fare con una società complessa e contraddittoria; poi hanno letto i mille questionari compilati e sono arrivati alla conclusione che non volevano avere niente a che spartire con l’umanità... tranne un’eccezione. — Fece una pausa. — La cosa non mi sorprende più di tanto. Gran parte delle risposte inviate dai terrestri infatti veicolavano qualche forma di etnocentrismo, di ripiegamento sul proprio pool genetico, eccetera.
— Invece, conoscendoti, tu hai risposto in tutt’altro modo. Ed è questo a renderti la tutrice perfetta.
— Robe da matti... — disse Sarah.
— Niente affatto — controbatté Don. — Sono secoli che te lo ripeto: tu sei speciale. Ed è la verità. Il progetto SETI, per sua natura, va al di là dei confini tra specie. Ricordi quella conferenza a cui partecipasti tanti anni fa a Parigi? Come si chiamava...
— Non me lo...
Rispose Gunter: — “Codificare l’altruismo. La scienza e l’arte della composizione di messaggi interstellari”. — Don guardò il Mozo, che alzò meccanicamente le spalle: — Ho letto il curriculum di Sarah.
— “Codificare l’altruismo” — ripeté Don. — Proprio così, è questo il fondamento di SETI. E, bé, tu eri l’unica ricercatrice SETI le cui risposte siano state mandate a Sigma Draconis. Non c’è da stupirsi che i destinatari, che portano avanti un progetto parallelo, le abbiano trovate di loro gradimento.
— Immagino di sì. Ma...
— Ma...?
— Ho superato da un pezzo l’epoca in cui potevo allevare figli. Il che deve valere per molta gente, in giro per il cosmo.
Don aggrottò le sopracciglia. — In che senso?
— Nel senso che probabilmente aveva ragione Cody McGavin: i Draconiani, così come gran parte delle specie che superano l’adolescenza tecnologica, devono avere un’aspettativa di vita lunghissima, se non l’immortalità. A queste condizioni, a meno di non avere mire espansioniste, prima o poi manca lo spazio per tutti, se si continuano a fare figli. Quindi i Draconiani devono aver rinunciato del tutto alla riproduzione.
— L’ipotesi ha una sua logica.
Sarah ebbe un flash. — Anzi, è proprio questa la terza alternativa!
— Come?
— L’evoluzione è un processo cieco. Non ha una meta prefissata, ma questo non significa che non abbia una sua logica. La selezione naturale favorisce l’aggressività, la forza fisica, la protettività nei confronti del proprio clan... tutte cose che alla lunga portano le specie tecnologicamente avanzate ad auto-distruggersi. Perciò, forse il paradosso di Fermi non è affatto un paradosso, è il naturale risultato dell’evoluzione. Quest’ultima porta alla tecnologia, che a sua volta ha un valore ai fini della sopravvivenza solo fino a un certo punto. Ma, quando si arriva a una pericolosa diffusione delle armi di distruzione di massa, ecco che interviene la psicologia di sopravvivenza, che porta al loro abbandono.
— Però, se la gente smette di riprodursi...
— Qui sta il punto: se si decide di uscire dalle logiche dell’evoluzione, se si lascia perdere la lotta per la promozione del proprio DNA, allora si rinuncia anche all’aggressività.
— In effetti questa soluzione sembra meglio della mente ad alveare o del totalitarismo. Ma... aspetta un po’ — disse Don. — Anche adesso, in un certo senso, si stanno riproducendo: ci hanno inviato il loro DNA.
— Si tratta solo di due singoli individui.
— E se si moltiplicassero come conigli? Magari è un modo indiretto per invaderci!
— Non mi preoccuperei di questo — disse Gunter: — I due appartengono allo stesso sesso.
— Ma se avevi detto che sono “sposati”! — Don si bloccò. — Okay, okay ho una mentalità provinciale. Guarda, guarda, guarda... — Si voltò verso Sarah. — Quindi, che farai?
— Non... non lo so. Voglio dire, non è che un utero artificiale si possa costruire con la scatola del bricolage.
Don si massaggiò il mento. — Se però si diffondesse la notizia, i governi farebbero a gara per mettere le zampe sul progetto, e... scusami, ma cercherebbero di levarti dai piedi.
— Ci ero arrivata da sola. I Draconiani sanno senz’altro che allevare un figlio richiede un mix di processi naturali ed educativi, perciò hanno cercato una persona adatta a prendersi cura dei... dei Draghetti. Però, se la formula del genoma diventasse di pubblico dominio, qualcuno potrebbe produrli in serie come cavie o per metterli negli zoo.
— Appena salterà fuori un Draghetto, chiunque potrà sottrargli un campione di DNA. Bastano poche cellule.
— Sì, ma senza avere accesso al messaggio completo, e senza le istruzioni per costruire l’utero e l’incubatrice, diventerebbe quasi impossibile crearne uno. — Sarah fece una pausa di riflessione. — Qui l’unica è mantenere il segreto. I Draconiani hanno donato a me le informazioni, e io ho il dovere di tutelarle.
Don, ancora un po’ assonnato, si sfregò gli occhi. — Forse. Ma qualcuno potrebbe obiettare che, al contrario, hai il dovere di rivelare tutto. Perché il tuo primo impegno deve essere a favore del tuo popolo.
Sarah scosse la testa, — No. Non lo è affatto. Tutto qui.
— È importante che tu impari a memoria la chiave di decrittazione — disse Sarah qualche ora dopo. — Non certo l’intero codice: solo il modo per recuperarlo.
Don annuì. Erano seduti in cucina a fare colazione in ritardo; lui in maglietta e jeans, lei in vestaglia e pantofole.
— Il mio questionario — continuò Sarah — è il numero trecentododici dei mille inviati. All’ultimo minuto ho modificato una delle risposte, quella alla domanda 46.
La risposta che alla fine ho trasmesso è “no”. Fin qui ci siamo?
— Trecentododici, 46, “no”. Non potrei scrivermelo?
— Sì, purché non aggiungi annotazioni esplicative.
— Quindi, la parola magica era la risposta 46? Era quella su cui si concentrava l’attenzione dei Draconiani?
— Cosa? Oh, no, è solo quella che ho modificato; ma la chiave sta in tutte e ottantaquattro le risposte. Ogni volta che tu avessi bisogno della chiave di decrittazione, ti basterà aprire qualsiasi file con il messaggio “teoricamente” inviato agli alieni, e aggiungere quella modifica.
— Ci sono.
— E soprattutto, acqua in bocca!
Don osservò la moglie, seduta al lato opposto del tavolo. Sembrava ulteriormente invecchiata, e non solo a causa della levataccia; erano ormai settimane che il suo organismo continuava a cedere. — Bé, però non credo di dover mantenere il segreto con tutti. Dovrei almeno rivelarlo a McGavin.
Sarah teneva una tazza con entrambe le mani. — E perché?
— Perché è uno degli uomini più ricchi del pianeta, e un progetto come questo richiede un pozzo di finanziamenti: sintetizzare DNA in laboratorio, realizzare l’utero artificiale e poi l’incubatrice, produrre cibo artificiale e tutto il resto. Per venirne a capo, hai bisogno di uno come lui.
Sarah restò in silenzio.
— Bisognerà pur dirlo a qualcuno! — insistette Don. — Presto tu...
Troncò la frase, ma Sarah la completò annuendo: — Presto sarò morta. Lo so.
— Fece una pausa, immergendosi nei propri pensieri. Don la conosceva abbastanza da lasciarla riflettere in pace. Alla fine lei disse: — Sì, hai ragione. Chiamiamolo.
Don andò a prendere il cordless, pronunciando il nome da contattare. Dopo qualche squillo, rispose una voce pimpante: — McGavin Robotics. Ufficio del presidente.
— Buongiorno, signora Hashimoto. Qui Donald Halifax.
La voce di lei si raggelò un po’. L’ultima volta la conversazione era stata abbastanza movimentata. — Mi dica, signor Halifax.
— Niente paura, non chiamo per il Rollback. Anzi, io ho solo composto il numero, ma è mia moglie Sarah che vuole parlare al signor McGavin. Si tratta del messaggio alieno.
— Ah! — fece la Hashimoto. — Magnifico. Restate in linea, ve lo inoltrerò immediatamente.
Coprendo il microfono, Don disse a Sarah: — Te lo passeranno subito. — Lei lo sollecitò a gesti a passargli la cornetta, ma lui le fece segno di aspettare un attimo.
E in quell’istante si sentì la voce: — Parla Cody McGavin.
— Signor McGavin! — disse Don, in tono brillante. — La prego di restare in linea, la metto in comunicazione con la professoressa Sarah Halifax. — Contò sottovoce fino a dieci prima di passare il telefono a Sarah, che sorrideva da un orecchio all’altro.
— Buongiorno, signor McGavin.
Don si avvicinò per ascoltare. Il che non era difficile, perché per Sarah l’apparecchio era settato sul volume massimo. — Sarah! Come stai? — domandò il miliardario.
— Benissimo, grazie. Ho una novità per lei: ho decrittato il messaggio dei Draconiani!
A Don parve di sentire McGavin che saltava per la gioia. Stupendo!! E che dice?
— Veramente... non vorrei rivelarlo al telefono.
— Oh, andiamo, Sarah!
— No. Non possiamo essere sicuri di non essere intercettati.
— E va bene. Manderò un aereo a prenderti al...
— Mmm, non potrebbe venire lei qui? Non me la sento di affrontare un volo.
Lui sospirò in modo udibile. — È in corso, per due giorni, l’assemblea annuale degli azionisti. Non potrò assolutamente venire finché non sarà conclusa.
— Va bene — disse Sarah. — Allora facciamo per venerdì?
— Sarebbe possibile. Ma non potresti più semplicemente inviarmi la chiave per e-mail?
— No. Non sono ancora pronta a divulgare il messaggio.
— Che vuoi dire?
— Che è riservato. A me.
Lunga pausa. McGavin doveva essere rimasto di stucco.
— Sarah, Don è... mmm... ancora li? Vorrei scambiare anche con lui due...
— Non sono arteriosclerotica, mister. Le cose stanno esattamente come ho detto. Se le interessa leggere il messaggio, dovrà venire qui di persona.
— Ah, okay, ma...
— E non riveli a nessuno che ho scoperto la chiave di decrittazione. Deve giurare che manterrà il segreto, almeno fino al momento del suo arrivo qui.
— Affare fatto. Dammi per cortesia il vostro indirizzo...
Quando Sarah ebbe terminato la conversazione, Don si guardò in giro. — Gunter è un maggiordomo così strepitoso che non resta molto da fare per una degna accoglienza a McGavin.
— Una cosa sì, però — disse Sarah. — Vá a prendere il testo del sondaggio draconiano.
Don ne restò sorpreso. — Perché?
Lei non lo guardò dritto negli occhi. — Sara uno degli argomenti principali con McGavin. Tu aiuterai a velocizzare questa parte del discorso.
— Lo rileggerò dalla A alla Z.
— Non basta! — Sarah sembrava accalorarsi. — Compilalo anche tu.
Lui sollevò un sopracciglio. — Come vuoi.
— Lo voglio. Puoi scaricarti il testo sul palmare, connettendoti al sito ufficiale.
Don annuì. Del resto, l’agenda della giornata era vuota. — Agli ordini.
Dopo che ebbe scaricato il questionario, Don si allungò sul divano e si mise a rispondere alle ottantaquattro domande. Gli ci vollero due ore buone, ma alla fine esclamò: — Fatto!
Sarah gli si avvicinò a passi lenti; lui le porse il palmare. — E ora? — domandò.
Lei osservò la schermata, e disse allo strumento: — Salva il file come Risposte Don. Avvia Flaxseed. Carica Risposte Don. Carica Risposte Sarah rivedute, aprendo il file con la password “Aeolus 14 umbra”. Esegui.
— Che stai facendo? — chiese Don, mettendosi a sedere. — Che roba è Flaxseed?
— Un programma inventato anni fa da un docente di Etica, all’epoca in cui esaminavamo l’oltre un milione di questionari compilati mandati sul nostro sito da tutto il mondo. Serve a misurare il grado di concordanza tra i mittenti. Vedi, indicizzare le risposte era un compito piuttosto arduo, perché molte delle ottantaquattro domande prevedevano quattro o cinque possibili risposte, o l’uso di scale graduate. Perciò non si trattava di suddividere le risposte per compartimenti stagni: due risposte diverse potevano essere solo “lievemete diverse”, e una persona che aveva risposto A magari si trovava nello stesso ordine di idee di qualcuno che aveva risposto B, mentre chi aveva scritto C era su tutt’altre posizioni.
— Ah — esclamò Don. Poi indicò il palmare in mano a Sarah: — E quindi?
Lei osservò il risultato sul display, poi di nuovo il marito, e sorrise. — Sapevo che c’era una ragione per cui ti avevo sposato!
— Domani arriverà McGavin — disse Sarah. — C’è qualcosa che dobbiamo discutere, prima che lui sia qui.
Stavano prendendo il caffè mattutino. — Ti ascolto — disse Don.
— È solo che... io non sono in grado di fare quello che mi chiedono gli alieni.
Lui rispose in un sussurro: — Già.
Una bella luce autunnale filtrava attraverso la finestra. All’esterno, Gunter raccoglieva le foglie con il rastrello.
— Perciò — disse Sarah — occorre trovare una sostituta, se proprio vogliamo portare avanti il progetto.
Lui ci pensò. — Potresti usare Flaxseed per individuare qualcuna che abbia risposto in modo simile a te.
Lei annuì. — L’ho fatto, e su mille c’erano solo due questionari che si avvicinavano al mio. Ma vá a sapere chi li avesse compilati.
— Non avete tenuto i dati dei mittenti?
— La ricerca venne svolta in modo anonimo: gli esperti di sondaggi ci dissero che in quel modo le risposte sarebbero risultate più sincere. Inoltre, anche se avessimo chiesto i nomi, poi non avremmo potuto schedarli. Ricorda che il sito era gestito dall’Università di Toronto, e sai benissimo come funziona qui la legge sulla privacy.
— Ahia — disse Don, sorseggiando il caffè.
— In ogni caso, difficilmente sarebbe stata una soluzione.
— Perché?
— Come dicevo, McGavin deve aver ragione sull’incredibile longevità delle specie aliene più evolute. Anzi, siccome sembra che i Draconiani abbiano cromosomi ad anello, è possibile che la loro aspettativa di vita sia sempre stata lunghissima, perché questo elimina una delle principali cause del nostro invecchiamento. Comunque, che gli alieni abbiano immaginato o no che la loro amica di penna terrestre potesse essere defunta dopo trentotto miserabili anni, resta vero che una metà delle persone che compilarono il questionario a quest’ora non esistono più.
— Immagino di no.
— Ma — disse Sarah, osservandolo con aria complice — tu hai dato risposte simili alle mie.
— Così pare.
— Perciò, forse... voglio dire, se a te andasse di...
— Cosa?
— Potresti farlo. Potresti prenderti cura dei nostri Draghetti.
Don strabuzzò gli occhi. — Io?
— Bé, con l’aiuto di Gunter; magari. — Sorrise. — È pur sempre un Mozo, no?
È stato progettato per assistere le persone anziane, ma badare ai bambini non sarà troppo più difficile che fare da badante a questa vecchia pazza.
Don si sentiva girare la testa. — Non... non so che cosa dire...
— Pensaci. Perché sei il mio candidato numero uno.
Mesi prima, quando Sarah e Don si preparavano al Rollback, Carl aveva chiesto loro di aiutarli di più con i bambini; poi però l’idea era stata abbandonata a causa del fallimento della procedura su Sarah. Ma quella sera Carl e Angela avevano portato i figli alla casa sul Betty Ann Drive, con la motivazione ufficiale di lasciarli lì mentre loro andavano a una partita di hockey; Don tuttavia aveva il sospetto che volessero approfittare del “poco tempo rimasto” alla nonna per vedere i nipotini.
Percy era un tredicenne capellone e dinoccolato; Cassie, quattro anni, era un terremoto con le treccine. Data la differenza di età era difficile seguirli entrambi, perciò la piccola e Sarah erano andate al piano di sopra a scoprire i tesori contenuti nell’armadio, mentre Don e il nipote erano buttati sul divano del soggiorno a guardare la stessa partita di hockey a cui erano andati Carl e Angela. Il gioco era scoprire i genitori di Percy tra il pubblico.
— Allora — disse Don, azzerando il volume della TV durante la pubblicità — come ti trovi all’ottavo anno?
Percy cambiò posizione sul divano. — Bene.
— Ai miei tempi, la scuola arrivava fino al tredicesimo anno.
— Davvero?
— Ah-ha. Ma solo nello Stato dell’Ontario, in tutto il Nord America.
— Per fortuna noi ne abbiamo solo dodici.
— Sì? Ma al tredicesimo anno noi eravamo maggiorenni, quindi ci scrivevamo da soli le giustificazioni.
— Figo.
— Altroché. Ma il tredicesimo anno è stato favoloso da tutti i punti di vista. Un sacco di corsi interessanti, incluso Latino. Era praticamente l’ultimo anno che lo si insegnava nelle scuole pubbliche di Toronto.
— Il... il latino?
Don annuì con aria saggia. — Sempre ubi sub ubi.
— E che vuol dire?
— “Ricorda di mettere la canottiera!”
Percy ridacchiò.
Riprese la partita. I Leaf non erano mal messi in campionato, anche se era ancora troppo presto per dirlo. Don, a differenza di Percy non sapeva più i nomi dei giocatori. — Inoltre — aggiunse Don durante un momento di stagnazione — la nostra scuola aveva addirittura una piccola stazione radio, Radio Humberside.La mia carriera partì di lì.
Percy lo guardò con espressione vacua. Don era andato in pensione ben prima che lui nascesse. — Alla CBC — spiegò il nonno.
— Oh, sì, pa’ la ascolta in macchina.
Don sorrise, perché gli era tornata in mente una vecchia discussione con un amico che scriveva per l’edizione canadese del Reader’s Digest. La posizione di Don era: “Meglio produrre materiale che la gente ascolta solo in macchina, piuttosto che materiale che la gente legge solo al cesso”.
— Quando sei andato a lavorarci? — domandò Percy.
— Ho cominciato nel 1986, e sono andato in pensione nel 2022. — Fu tentato di aggiungere: “E, prima che tu lo chieda, ti informo che all’epoca il primo ministro era Sally Ng”, ma non lo fece. Certo che, quand’era ragazzo lui, la Seconda guerra mondiale gli sembrava roba sepolta nei secoli; a Percy il 1986 doveva dare l’impressione del Pleistocene.
Continuarono a seguire la gara. Il difensore degli Honolulu si beccò tre minuti di penalità per aver colpito alto con la mazza. — E tu? — domandò Don. — Progetti per quando sarai... — stava per dire “grande” ma si bloccò. Percy doveva essere convinto di essere già grande. — Per quando avrai terminato la scuola?
— Boh — fece lui, senza distogliere gli occhi dallo schermo. — Forse... vado all’università.
— A studiare...?
— Bé, nei weekend no.
Don sorrise. — Volevo dire: che facoltà?
— Magari Ornitologia.
La cosa colpì Don. — Ti piacciono i volatili?
— Non sono male. — Altra pubblicità; Don tolse il volume. Percy si voltò verso di lui e, forse rendendosi conto che non stava contribuendo troppo al dialogo, disse:
— E tu?
Don fece una faccia stupita. — Io?
— Già. Voglio dire, adesso che sei di nuovo giovane, che farai tutto il giorno?
— Non lo so.
— Potresti tornare alla CBC.
— Veramente l’ho già fatto.
— E...?
Don fece spallucce. — Non mi ci vogliono. Sono fuori dal giro da troppo tempo.
— Che palle. — commentò Percy. Sembrava sbalordito che la vita fosse ingiusta anche contro un adulto.
— Proprio.
— E ora che fai?
— Non so ancora.
Percy rifletté per un po’ tra sé, poi disse: — Dovresti fare qualcosa... non so, qualcosa di importante. Ho dato un’occhiata a quanto costa un Rollback, e se uno ha avuto la fortuna di farlo, allora tanto vale fare qualcosa di grandioso, giusto?
Don lo fissò nelle pupille. — Hai preso tutto dalla nonna.
Il ragazzo si accigliò, indeciso se fosse un complimento.
— Nel senso — disse Don, rialzando il volume sulla partita — che leggi nelle persone come fossero libri aperti.
Dopo che Carl e Angela furono tornati a prendere i figli, Don decise di fare una passeggiata. Aveva bisogno di schiarirsi le idee. C’era un minimarket a tre isolati di distanza; sarebbe andato a comprare degli anacardi, una ghiottoneria compatibile con la dieta.
Era una notte fredda dall’aria frizzante; a qualche davanzale comparivano le prime zucche di Halloween. Quasi per prepararsi all’occorrenza, anche gli alberi si erano ridotti a sottili scheletri contorti. In lontananza abbaiava un cane.
Il percorso prevedeva di costeggiare Diagonal Road, nome efficace ma poco poetico, che lo avrebbe portato nei pressi della Willowdale Middle School. Don deviò verso il grande campo sportivo della scuola, dove aveva portato ogni tanto Carl a vedere le partite di football. Poi si mise il più lontano possibile dalla luce dei lampioni (il che non cambiava molto), tirò fuori il palmare, tenendo il display sollevato a fare da mirino della telecamera, e gli disse: — Aiutami a trovare in cielo Sigma Draconis.
— Spostami da una parte all’altra — rispose il palmare con una calda voce maschile. — Un po’ più su... Ottimo. Adesso verso sinistra. Ancora un po’. No, così è troppo. Così va bene. Sigma Draconis si trova al centro dello schermo.
— La stella luminosa, verso l’alto?
— No, quella è Delta Draconis, e quella anch’essa luminosa più in basso è Epsilon. La luce di Sigma è troppo debole perché tu riesca a individuarla. — A video comparve una X il cui centro indicava una zona apparentemente vuota. — È qui.
Don abbassò il palmare e guardò direttamente verso quello spazio anonimo.
Una stella vicina, per gli standard del cosmo, ma a una distanza abissale su scala umana.
Tutto sommato, sebbene facessero parte della sua vita da quattro decenni, i Draconiani erano rimasti entità piuttosto astratte. Sapeva solo che erano lassù, in linea diretta con il suo sguardo; e magari in quello stesso istante uno di loro stava osservando il Sole terrestre, che ai suoi occhi appariva fioco quanto Sigma Draconis da quaggiù. Magari anche lui si chiedeva quali strani esseri vi abitassero.
Ovvio, Sarah avrebbe obiettato che l’espressione “nello stesso istante” era priva di senso in un universo relativistico. Anche se Don fosse riuscito a scorgere Sigma, avrebbe visto nient’altro che la luce partita di lì 18,8 anni fa. E anche questo contribuiva a rendere irreali gli alieni.
Però, se loro avessero portato avanti il programma suggerito dai Draconiani, questi ultimi sarebbero diventati visibili in carne e ossa. I Draghetti nati sulla Terra non avrebbero avuto nessuna conoscenza di prima mano circa la madrepatria, ma sarebbero comunque stati degli autentici campioni di vita extraterrestre.
Don chiuse il palmare, lo ripose in tasca e riprese a camminare. Forse aver pensato al primo ministro, parlando con Percy, adesso gli fece tornare in mente che quando lui andava alle “medie” il premier era Pierre Trudeau, che durante il suo mandato aveva compiuto numerosi gesti memorabili. Ma quello che era rimasto maggiormente impresso a Don era quando Trudeau si era ritirato in solitudine, a piedi in mezzo alla neve, per valutare il proprio futuro in rapporto al bene del Paese, e quella notte aveva deciso di ritirarsi dalla politica.
Il premier in quel momento aveva ventiquattro anni meno di quanti Don ne avesse ora, ma era già consumato dall’età. Don invece aveva un magazzino imprecisabile di energie e di anni... che però era una pura astrazione, come gli abitanti di Sigma Draconis. Certo, quegli anni si sarebbero concretizzati, uno alla volta, ma per ora anch’essi apparivano talmente irreali.
Uscì dal campetto della scucla, abbandonando la massa scura dell’edificio e proseguendo lungo il tragitto. Qualcuno stava camminando in direzione opposta.
Don ebbe una scarica di adrenalina, da vecchietto timoroso degli incontri nottumi.
Ma si trattava di un uomo di mezz’età, calvo e dall’aria apprensiva; semmai, era lui a essere spaventato da quel ragazzone che vagava nelle tenebre. Sarah aveva proprio ragione: tutto è relativo
Fosse dipeso solo da lei, Sarah avrebbe fatto tutto in un battibaleno: i Draghetti sarebbero stati creati e accuditi a partire da subito. Dipendeva da lei, del resto, se adesso lui godeva di una nuova vita. Don aveva un grosso debito nei confronti di sua moglie, e del miliardario che aveva investito su di loro. Ripagarli facendo da papà a degli alieni?
Proseguì finché giunse in prossimità del minimarket. Ricordava ancora quando tutti i negozi di quella catena aprivano alle sette del mattino e chiudevano alle undici di sera, di qui il nome “7-Eleven”. A saperlo in anticipo, che avrebbero tenuto aperto 24 ore su 24, avrebbero scelto un nome diverso... Ma se perfino una grande catena commerciale faceva fatica a immaginare il future, dove poteva andare a sbattere la testa lui? Comunque, i 7-Eleven si erano adattati alle nuove circostanze. E mentre scivolava dentro il minimarket attraverso le porte scorrevoli, passando dall’oscurità alla luce, Don pensò che forse avrebbe dovuto farlo anche lui.
Quando Don rientrò a casa, Sarah era in bagno a prepararsi per la notte. Lui la raggiunse mentre stava in piedi davanti al lavandino, e la abbracciò teneramente da dietro.
— Ciao — lo salutò lei.
— Ho deciso: lo farò — disse lui.
— Che cosa?
— Accudire i Draghetti.
Sarah ruotò su se stessa tra le braccia di Don per guardarlo in faccia. — Dici sul serio?
— Perché no!
— Non devi farlo solo perché ti senti obbligato. Sei proprio sicuro?
— Come faccio a essere sicuro di qualsiasi cosa? Vivrò forse fino a 160 anni, che sarebbe un territorio inesplorato per tutti. Di come sarà il futuro ne so tanto... quanto so che effetto faccia essere un pipistrello. Ma qualcosa lo devo combinare nella vita, questo sì. E, come mi ha detto tuo nipote prima, deve essere qualcosa di importante.
— Percy ha detto questo?
Don annuì, lasciando esterrefatta Sarah.
— Tuttavia — riprese lei — dev’essere qualcosa che ti senti dentro. Ogni bambino ha il diritto di nascere in un ambieme in cui sia desiderato.
— Lo so. Così come so che voglio farlo.
— Ultima parola?
Lui sorrise. — Ultima parola. Se non altro, non avrò il terrore che questi figli mi vengano su col mio stesso naso.
Don supponeva che ormai i loro vicini di casa non si spaventassero più di niente; tuttavia si domandò se qualcuno di loro si sarebbe messo a spiare la macchina a noleggio dall’aspetto parecchio costoso che era entrata nel vialetto. In quel caso, avrebbe potuto zoomare con le telecamere di sicurezza sul personaggio che ne usciva, e identificarlo in base ai parametri biometrici: Cody McGavin. Il pezzo più grosso che fosse mai transitato da quelle parti.
Don girò la chiave nella serratura della porta d’ingresso per aprirla. Intanto osservava a video la versione in pixel di McGavin che si avvicinava. — Ciao, Don — disse il miliardario. — Felice di rivederti.
Lui spalancò l’uscio. — Benvenuto. Prego, entri. — Gli prese il pesante cappotto e lo osservò mentre si toglieva le scarpe alla moda, quindi lo accompagnò di sopra in soggiorno.
Sarah era seduta sul divano. McGavin ebbe un lieve soprassalto, come se la trovasse incredibilmente invecchiata dall’ultima volta. — Ciao, Sarah — disse.
— Benvenuto, signor McGavin.
Dalla cucina arrivò Gunter: — Oh — commentò il miliardario — vedo che state valorizzando il Mozo che vi abbiamo inviato.
Sarah annuì. — Lo abbiamo chiainato Gunter.
McGavin sollevò le sopracciglia. — Come il robot di Lost in Space?
Don ebbe un colpo. — Esattamente!
— Gunter — disse Sarah, con il solito tremolio nella voce — ho il piacere di presentarti Cody McGavin. È il proprietario dell’azienda che ti ha prodotto.
Don prese posto accanto a Sarah per godersi la scena; la creatura di fronte al creatore. — Buongiorno, signor McGavin — disse Gunter, protendendo una mano blu. — Lieto di fare la sua conoscenza.
— Piacere mio — disse lui, stringendogli la mano. — Spero che tu abbia dato il massimo, per venire incontro alle esigenze della professoressa Halifax.
— La sua presenza in casa è una manna — disse Sarah. — Dico bene, Gunter?
— Faccio del mio meglio — disse lui a McGavin. — Ero presente quando Sarah ha fatto il colpaccio, e ne sono orgoglioso.
— E bravo il mio ragazzo! — fece il miliardario. Si voltò verso i coniugi Halifax: — Begli aggeggi, eh?
— Assolutamente — disse Sarah. — Prego, si accomodi.
Lui scelse la poltrona anatomica. — Graziosa, la casa.
Don meditò su quella frase. McGavin era noto per la sua filantropia; aveva visitato di persona le favelas del terzo mondo, e la villetta sul Betty Ann Drive aveva un valore di mercato più vicino a una di quelle catapecchie che a una delle ville del miliardario. Le pareti avevano graffi un po’ ovunque, l’intonaco cadeva a pezzi, la moquette era sdrucita e macchiata. Il massiccio divano poteva andare di moda alla fine del secolo precedente, ma adesso appariva irrimediabilmente datato, e la fodera color vinaccia era lisa in più punti.
— Molto bene — disse Sarah, citando la stessa frase usata da McGavin la volta precedente — arriviamo al sodo. Come le ho anticipato al telefono, ho trovato il bandolo della matassa. Quando le avrò rivelato il contenuto del messaggio dei Draconiani, spero si troverà d’accordo con me che la nostra risposta non dovrà essere resa pubblica.
McGavin si chinò in avanti, con una mano sul mento sfuggente. — Sono tutt’orecchi. Che dicono?
— Gli alieni ci hanno inviato il loro genoma...
— Sul serio?
— Sì, insieme alle istruzioni su come realizzare un utero artificiale per due embrioni da far sviluppare qui sulla Terra; oltre ai progetti per un’incubatrice.
— Gesù... — fischiò McGavin.
— Non è meraviglioso? — disse Sarah.
— Wow.
— È... stupefacente. Ma saranno in grado di sopravvivere?
— Ritengo di sì.
— A una condizione — disse Sarah. — Gli alieni esigono che sia io... la tutrice legale. Ma io sono troppo avanti con l’età.
— Bé — disse McGavin — sono sicuro che sapremo costruire un laboratorio ad...
— No — lo interruppe Sarah. — Niente laboratori né istituti. Si tratta di persone, non di esemplari. Cresceranno in una casa. Come ho detto, non potrò occuparmene direttamente, ma voglio essere io a decidere chi lo farà.
McGavin rispose in tono cortese, ma senza guardarla negli occhi. — Non sono del tutto sicuro che ti spetti questo diritto.
— Mi Spetta. Perché il messaggio era indirizzato a me.
— Me l’avevi accennato, ma la cosa non mi è chiara.
— La chiave di decrittazione è.... fa esplicito riferimento a me. E non intendo rivelarla a terzi.
— Non è la sequenza delle tue risposte, completa o parziale — disse McGavin.
— Ci abbiamo provato, e non ha funzionato. Cos’altro sanno gli alieni di te?
— Con tutto il rispetto, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.
McGavin fece una smorfia, ma non disse nulla.
— Ora — proseguì Sarah — ripeto di non potermene occupare io. Però posso fornire a chi voglio la chiave di decrittazione, e quindi il genoma.
— Mi accollerei volentieri... — disse McGavin.
— Per la verità — lo interruppe Sarah — la vedrei meglio nel ruolo dello zio ricco. Qualcuno dovrà pur finanziare la realizzazione dell’utero artificiale, la produzione del DNA in laboratorio, e via dicendo.
McGavin appariva a disagio.
— Inoltre — intervenne Don — lei ha già un lavoro che la occupa a tempo pieno. Che dico “un lavoro”! Una caterva: presidente della Robotics, presidente della Fondazione a scopo benefico, interventi pubblici...
Lui annuì. — Vero. Ma se non io, allora chi?
Don si schiarì la gola. — Io.
— Tu? Ma non eri un... come si dice... un DJ o simili?
— Ero tecnico del suono e direttore di produzione. Ma quello era il mio primo curriculum. Sarebbe ora di iniziarne uno nuovo.
— Con tutto il rispetto — disse McGavin — a pronunciarsi in merito dovrebbe essere un Comitato scientifico.
— Sono io il Comitato scientifico — ribadì Sarah. — E mi sono già pronunciata.
— Ascoltami, Sarah — disse McGavin — sarebbe auspicabile una procedura ufficiale di selezione.
— C’è già stata: il questioriario draconiano. Grazie a esso, gli alieni hanno scelto me, e io ho scelto Don. Ma, tra tutti quanti, abbiamo bisogno di lei.
Lui non ne fu entusiasta, ma allargò le braccia e disse: — Sono un uomo d’affari. Che quota mi spetterebbe?
Don notò che il viso di Sarah si corrugava ancora di piu. Non c’erano dubbi: se anche McGavin avesse compilato il questionario, ne sarebbero uscite risposte molto diverse da quelle di lei; e di Don. Ma Sarah calò l’asso: — Tutti i ricavi che ne deriveranno sul piano delle biotecnologie. Non solo dall’analisi del DNA alieno, ma anche dalla progettazione dell’utero e dell’incubatrice, dalle formule chimiche per produrre gli alimenti necessari, eccetera.
McGavin non era ancora persuaso. — Ho l’abitudine di tenere sotto completo controllo le operazioni in cui mi lascio coinvolgere. Non mi cederesti i diritti su quella chiave di decrittazione? Spara qualsiasi prezzo.
Sarah scosse la testa. — Si è già visto che l’unica cosa che desidererei non è acquistabile.
McGavin tacque per alcuni secondi, soppesando i pro e i contro. Poi disse: — Qui si sta parlando di tecnologie all’avanguardia dell’avanguardia. È vero che la sintesi del DNA è un gioco da ragazzi, ed esistono numerosi laboratori in grado di sfornare qualunque sequenza gli si chieda, ma fabbricare l’utero artificiale, eccetera... quello richiederà tempi lunghi.
— Non c’è problema — disse Don — anch’io avrò bisogno di tempo per prepararmi.
— Come si fa a prepararsi a qualcosa del genere?
Don fece spallucce. A questo stadio della ricerca, si procedeva a tentoni. — Darò un’occhiata ai modelli comportamentali che possediamo: l’allevamento di scimpanzé domestici, i “bambini lupo”... Nessuno di questi casi corrisponde alla perfezione a quello voluto, ma sarebbe un inizio. E poi...
— Si?
— Bé, molti anni fa ho scritto un elenco delle Venti cose da fare nella vita. Una era: incontrare il Dalai Lama. Non che lo ritenga probabile, ma immagino di dovermi preparare... — si stupì lui stesso dell’avverbio: — ... spiritualmente a un evento di quel tipo.
— Non stai chiedendo la luna — disse McGavin.
— Lei... conosce il Dalai Lama?
Il miliardario sorrise. Avrai sentito quel Vecchio detto sui “sei livelli di separazione”. Da quando mi conosci, ti trovi a soli due livelli da qualunque personaggio famoso. Basta una telefonata alla persona giusta.
— Wow... oh... grazie. Voglio fare davvero di tutto per diventare un bravo...
— Educatore di extraterrestri — completò McGavin, nel tono di chi debba ancora metabolizzare.
Don cercò un modo terra terra per dirlo: — La metta così: il Dottor Spock che incontra il signor Spock.
L’ospite gli rivolse un’occhiata perplessa. Aveva sicuramente sentito nominare il celebre Vulcaniano, ma era nato troppo tardi per apprezzare a dovere la serie.
— Allora, ci aiuterà? — domandò Sarah.
McGavin continuava a non avere un’aria entusiasta. — Ci terrei davvero molto che mi si lasciasse il comando dell’operazione. Senza offesa, ma ho molta più esperienza di voi nella gestione di faccende complicate.
— Mi spiace, andrà in quest’altro modo — disse Sarah. — Lei sarà dei nostri?
McGavin sospirò. — Okay, okay. — Osservò l’una, poi l’altro. — Sono della partita.
Qualche giorno dopo, Don salì in studio per cercare Sarah, ma non c’era. Allora si affacciò nella loro camera e la vide distesa a letto.
— Sarah — disse a bassa voce. Calibrare il volume era un’impresa: troppo basso, e lei non avrebbe sentito anche se era sveglia; troppo alto, e se dormiva si sarebbe svegliata.
Però qualche volta le cose vengono calibrate giuste. — Ciao, amore — disse lei.
Ma la sua voce era poco più di un gemito.
Lui accorse, accovacciandosi accanto al letto. — Tutto bene?
Le ci vollero alcuni secondi per rispondere; secondi durante i quali Don percepì il battito a martello del proprio cuore. Poi lei disse: — Non... non ne sono sicura.
Don si voltò verso la porta. — Gunter! — Immediatamente, il passo rapido e regolare del Mozo su per le scale. Don rivolse di nuovo le sue attenzioni a Sarah:
— Cosa c’è che non va?
— Mi sento... le vertigini — disse lei. — Tanta debolezza.
Gunter sporse la sua premurosa faccia blu al di sopra della spalla di Don, che gli chiese: — Quali sono le sue condizioni di salute?
— Temperatura 38,1 gradi. Battito cardiaco a 84, irregolare.
Don prese tra le mani le dita diafane di lei. — Dio... Ti portiamo subito all’ospedale.
— No — disse lei. — Non è necessario.
— Si che lo è — disse Don.
La voce di Sarah si fece più ferma. — Tu che cosa consigli, Gunter?
— Non c’è pericolo immediato. Però domani sarebbe saggio chiamare il medico.
Lei annuì in modo quasi impercettibile.
— C’è qualcosa che posso fare, adesso, subito? — domandò Don.
— No. — Poi fece una pausa. Lui stava per dire qualcosa, quando lei aggiunse:
— Ma...
— Dimmi.
— Resta qui con me, tesoro.
— Ma naturalmente! — Prima che potesse muovere un dito, Gunter era già schizzato via. Pochi attimi dopo ricomparve con la sedia da ufficio che Sarah utilizzava per lavorare al computer, e la appoggiò accanto al letto. Don vi si sedette.
— Ti ringrazio — disse Sarah al robot.
Il Mozo annuì. La linea della sua bocca sembrava un elettrocardiogramrna piatto.
Il mattino dopo Sarah, seduta sul divano in soggiorno, scriveva con uno stilo sul palmare. Stava preparando la risposta per gli alieni; McGavin si era impegnato a farla inviare nello spazio.
Affinché i Draconiani capissero che il mittente era quello giusto, Sarah avrebbe criptato il messaggio con la stessa chiave utilizzata da loro. Per adesso, comunque, usava i termini terrestri che lei stessa aveva associato ai simboli alieni; più avanti, sarebbe stato il computer a tradurre il testo in ideogrammi draconiani.
[ opinione ] [ vita ] [ mittente ] << [ vita ] [ destinatari ]
[ vita ] [ destinatari ] &
[ vita ] [ mittente ] ~ [ fine ]
Man mano che buttava giù la bozza, in testa le passava una versione più colloquiale delle stesse frasi: “Ritengo che la mia aspettativa di vita sia molto più breve della vostra. La vostra vita si estende per un tempo indefinito; la mia si approssima alla fine...”.
Il messaggio proseguiva raccontando che, sebbene lei non potesse eseguire di persona le loro richieste, aveva trovato un degno sostituto. In futuro, loro avrebbero ricevuto regolari rapporti dai loro ambasciatori sulla Terra.
Sarah riguardò il testo che aveva digitato fino a quel momento. Il palmare aveva trasformato le linee tremanti tracciate dalla sua mano in caratteri ben definiti.
“La mia si approssima alla fine...”
Una vita lunga quasi novant’anni, di cui sessanta di matrimonio. Chi l’avrebbe mai definita “breve”? Eppure...
Eppure.
Le tornò in mente un ricordo di molti, molti anni prima. Era il suo primo appuntamento con Don, ed erano andati al cinema a vedere un film della serie Star Trek, non ricordava quale, solo che era quello con le balene. Buffo come avesse una memoria così lucida per eventi sepolti nel passato, e avesse difficoltà a richiamare gli eventi di pochi giorni prima. L’episodio cominciava con una scritta a tutto schermo del seguente tenore:
Il cast e l’equipaggio di Star Trek desiderano dedicare questo film agli uomini e alle donne dell’astronave Challenger: il loro spirito audace continuerà a vivere nel XXIII secolo e oltre...
E simultaneamente Sarah ripensò alla tragedia dello Shuttle del 2003, quando il Columbia si era disintegrato in fase di rientro.
Entrambi gli eventi l’avevano profondamente impressionata, per quanto potesse apparire ridicolo accostarli uno all’altro. Nel 2003, lei aveva detto a Don che avrebbe preferito far parte dell’equipaggio del Columbia, piuttosto che del Challenger, perché i primi erano morti a missione compiuta, nel viaggio di ritorno a casa. Erano vissuti abbastanza da veder realizzato il proprio sogno: erano andati in orbita, avevano fluttuato nella microgravità, e da lontano avevano goduto della vista stupenda, confusa, ipnotica e blu della Terra. Mentre gli astronauti del Challenger erano rimasti uccisi pochi minuti dopo la partenza, senza neppure aver raggiunto lo spazio.
Se tocca morire, meglio farlo dopo aver raggiunto lo scopo, anziché prima. Lei era vissuta abbastanza a lungo da assistere alla ricezione di un segnale alieno, e all’invio della risposta, e alla ricezione della controrisposta, e all’instaurarsi di un dialogo tra le stelle. Perciò era ormai nel suo “dopo”. Anche se le sarebbe piaciuto partecipare a tanti momenti del futuro, aveva già toccato la meta. E che meta!
Sollevò lo stilo per riprendere a scrivere.
Una lacrima cadde sul display ingrandendo il testo come se fosse una lente.
Come si faceva a morire nell’Era delle meraviglie e dei miracoli? Piccoli ictus e principi d’infarto erano diventati facili da pronosticare. Il cancro, lo si curava senza difficoltà, così come l’Alzheimer e la polmonite. Potevano pur sempre capitare degli incidenti domestici, ma con un Mozo al proprio servizio la loro percentuale diminuiva in modo netto.
Però, a un certo punto, il corpo si arrende. Il cuore si indebolisce, il sistema nervoso perde colpi, il catabolismo sopravanza l’anabolismo. Nulla di spettacolare come un aneurisma, né di doloroso come le coronarie che saltano, né di prolungato come una metastasi. Solo una lenta dissolvenza in nero.
Era ciò che stava succedendo a Sarah Halifax. Un granello di sabbia per volta.
Finché...
— Non mi sento molto bene — disse una mattina, con un filo di voce.
In un attimo Don fu da lei. Sarah era adagiata sul divano in soggiorno; ve l’aveva trasportata Gunter su una sedia, un’ora prima. Accorse anche il robot, che scansionò i parametri vitali della padrona di casa con i sensori incorporati.
— Che cosa ti senti? — le domandò Don.
Lei si sforzò di sorridere. — Mi sento vecchia. — Tacque, respirando a fatica.
Don le prese la mano, e si voltò verso Gunter.
— Chiamo immediatamente la dottoressa Bonhoff — disse lui, in un tono che tradiva la sua tristezza. Al termine dell’esistenza, tornano di moda le visite mediche a casa. Inutile occupare un letto d’ospedale.
Don le strinse affettuosamente la mano. — Ricorda il nostro accordo — disse lei, a voce bassa ma decisa. — Niente sforzi titanici. Non ha senso accanirsi a prolungare la vita.
— Non passerà la notte — disse la dottoressa Tanya Bonhoff dopo essere rimasta accanto a Sarah per alcune ore. Era una quaramenne dalle spalle larghe e capelli biondi a spazzola. Lei e Don si erano allontanati dalla camera da letto; adesso erano nello studio, dove il computer era spento.
Lui sentì una stretta alla bocca dello stomaco. A Sarah erano stati promessi altri sessanta, altri ottanta anni di vita. E adesso...
Don afferrò lo schienale della sedia, vi si lasciò andare.
E adesso, a sua moglie non restavano neppure sei ore.
— Le ho dato degli analgesici, ma rimarrà lucida fino alla fine — disse il medico.
— La ringrazio.
— Penso che dovrebbe avvertire i suoi figli — aggiunse lei, in tono premuroso.
Don tornò in camera da letto. Carl era in viaggio d’affari a San Francisco: disse che avrebbe preso il primo volo, ma, per bene che andasse, non avrebbe potuto arrivare a Toronto prima del mattino seguente. Anche Emily era fuori città, ad aiutare un’amica a sistemare il cottage per l’inverno; adesso stava correndo a casa, ma le ci sarebbero volute almeno quattro ore.
Sarah era distesa al centro del letto, con la testa sollevata da due cuscini. Don sedette sul bordo del materasso e le prese la mano. La pelle liscia di lui contro quella rugosa e cadente di lei.
— Ehi... — mormorò Don.
Lei sollevò di qualche millimetro la testa, emettendo un sussurro che doveva echeggiare la stessa parola.
Rimasero in silenzio per un po’. Infine Sarah disse: — Ce la siamo cavata benino, no?
— Meglio di così! — disse Don. — Due figli in gamba. Sei stata una madre meravigliosa. — Le strinse la mano, con leggerezza. Il suo braccio sembrava così fragile, con i segni delle iniezioni. — E una moglie meravigliosa.
Lei fece un minimo sorriso, ma era il massimo che potesse. — E tu, un marito mera...
Don non voleva sentirselo dire. La interruppe, sussurrando: — Lo sa il cielo. — Ma, in fondo, anche questo alludeva al loro matrimonio.
— Quando io sarò... — Sarah fece una pausa. — Quando non ci sarò più, voglio che tu non sia troppo triste.
— Non credo di riuscirci — disse lui, in un soffio.
Lei annuì appena. — Però, tu hai un dono che nessun altro di noi possiede. — Non c’era risentimento nella sua voce. — Sei stato sposato per sessant’armi, ma ti resta un tempo ancora più lungo da vivere, dopo... dopo aver perso la tua consorte.
Un lusso che finora non si era concesso nessuno, dopo le nozze di diamante.
— Non mi sono bastati sei decenni con te — disse lui, con la voce che si strozzava. — Non mi sarebbero bastati i secoli.
— Lo so — disse Sarah, ruotando il polso per poter essere lei a stringere la mano a lui. A consolarlo. — Ma siamo stati fortunati lo stesso ad aver trascorso insieme tutto questo tempo. Bill e Pam non hanno avuto questo dono.
Don non aveva mai creduto alle fandonie dello spiritismo, ma in quell’attimo gli parve che il fantasma del fratello aleggiasse nella stanza. Forse era venuto ad accompagnare la cognata nella luce eterna.
Sarah si sforzò di aggiungere ancora qualcosa: — La sorte è stata più benigna con noi che con tanti altri.
Don ci pensò. Forse, nonostante tutto, era così. Come lui stesso aveva pensato il giorno del sessantesimo anniversario, mentre attendeva l’arrivo dei figli: “Ho avuto una vita felice”. Nulla di tutto ciò che era avvenuto in seguito avrebbe potuto cancellare quella verità.
Sarah restò in silenzio a osservarlo. Poi scosse lievemente la testa. — Sei proprio identico a quando ti ho conosciuto.
Lui si strinse un po’ nelle spalle. — All’epoca ero un ciccione.
— Ma il tuo... — cercò un termine — ...calore era lo stesso. E tutto il resto. E...
— fece una smorfia di dolore. Una fitta contro cui non erano serviti gli analgesici.
— Sarah!
— Sto... — si fermò prima di completare la bugia con un “bene”. — Lo so che è stato duro per te, questo ultimo anno. — Tacque di nuovo; era esausta. Don non sapeva come riempire quel vuoto. Attese che lei riguadagnasse abbastanza forze per proseguire: — Lo so che... che era pesante stare con una vecchia, per te così giovane.
Lo stomaco di Don era rigido come un blocco di legno. — Perdonami — sussurrò.
Non capì se Sarah lo avesse udito, ma lei sorrise. — Ricordati di me, di tanto in tanto. Non vorrei... — emise un rantolo, che però esprimeva più tristezza che dolore. — Non vorrei che l’unico a pensare a me fosse il mio amico di Sigma Draconis, e tra diciotto anni.
— Te lo prometto — disse lui. — Penserò a te ogni giorno. Per sempre.
Lei abbozzò un altro sorriso. — Nessuno vive per sempre... però tu potresti andarci vicino.
La sua mano si distese, immobile.
Don la scosse, delicatamente. — Sarah!
Nessuna risposta.
Il mattino dopo, Don ed Emily si misero a fare le telefonate di rito a parenti e amici. Emily era arrivata verso mezzanotte, e aveva dormito nella sua ex cameretta, mentre il padre si era adattato al divano. La quindicesima o ventesima chiamata di Don fu a McGavin; saputo il motivo, la signora Hashimoto lo mise in contatto diretto con il boss.
— Ehilà, Don — disse McGavin. — Che succede?
Lui non fece preamboli: — Questa notte è morta Sarah.
— Dio... Condoglianze, Don.
— I funerali si terranno fra tre giorni qui a Toronto.
— Me lo segno... No, accidenti, dovrò essere in Borneo. Mi spiace tanto.
— Non importa.
— Io... mmm... — disse McGavin — detesto toccare questo tasto, date le circostanze, ma tu sei a conoscenza della chiave di decrittazione, vero?
— Sì.
— Bene, bene. Forse è meglio che tu me ne faccia avere una copia. Per sicurezza.
— Il dato è al sicuro, non si preoccupi.
— È solo che...
— Ora mi scusi — disse Don — ma ho ancora numerose chiamate da fare. Però mi è sembrato giusto avvertirla tra i primi.
— Lo apprezzo molto, Don. Ancora condoglianze.
Quando era arrivata una telefonata dalla Robotics per informarlo che il Mozo andava sottoposto a una revisione di routine, il primo impulso di Don era stato di mandarli al diavolo. Poi però aveva detto: — Va bene. Quando sarete qui?
— Quando fa più comodo a lei — aveva risposto una voce maschile.
— Non sono interventi da programmare con settimane di anticipo?
L’uomo all’altro capo del telefono aveva ridacchiato. — Non quando si tratta di clienti sull’Albo d’oro.
Il furgoncino blu arrivò alle undici spaccate, come richiesto da Don. Un piccoletto di colore, azzimato e di mezza età, suonò alla porta portando con sé una valigetta metallica. — Il signor Halifax? — domandò.
— In persona.
— Sono Albert. Mi perdoni il disturbo, ma questi controlli periodici sono fondamentali. Capisce: meglio individuare subito un piccolo guasto, che aspettare che faccia grossi danni.
— Ovvio. Prego, entri pure.
— E il Mozo dov’è? — domandò Albert.
— Di sopra, penso. — Don accompagnò il tecnico in soggiorno, poi gridò: — Gunter!!
Di solito, il robot compariva alla velocità della luce. Un Battista iperteso.
Stavolta no, e il padrone di casa si spazientì: — Gunter!!
Niente. Don rivolse uno sguardo imbarazzato all’uomo della Robotics, come si fa quando i bambini si comportano male in presenza di ospiti. — Chiedo scusa.
— Che sia in giardino?
— È possibile, ma sapeva del suo arrivo.
Don salì al piano delle camere, seguito da Albert. Guardarono nello studio, nella stanza da letto, nel bagno principale e in quello di servizio, nella ex cameretta di Emily. Di Gunter, nessun segno. Ridiscesero per controllare in cucina e in sala da pranzo. Niente. Quindi andarono nel seminterrato, e...
— Oh Dio! — esclamò Don., chinandosi sul Mozo, che era buttato sul pavimento a faccia in giù.
Anche il tecnico si inginocchiò accanto al robot. — Batteria disattivata — disse.
— Non lo spegnevamo mai — disse Don. — Magari è per questo.
— Dopo meno di un anno? Lo escluderei.
Albert ruotò il Mozo sulla schiena, e sibilò: — Merda. — Al centro del torace metallico si notava un piccolo pannello aperto. Albert prese una mini-torcia dal taschino e ne illuminò l’interno. — Maledizione... maledizione...
— Cos’è successo? — chiese Don. — Che problema c’è? — Sbirciò sotto il pannello. — Che cosa sono questi comandi?
— La memoria principale. — Fece scivolare una mano verso l’ombelico di Gunter e premette il pulsante di on\off.
— Buongiorno — disse il Mozo, mentre la bocca si rianimava. — Do you speak English? Hola, habla Español? Bonjour, parlez-vous français? Konichi-wa, nihongo-o hanashimasu-ka?
— Cosa sta succedendo? — ringhiò Don.
— Inglese — disse Albert.
— Buongiorno — ripeté il Mozo. — Questa è la prima volta che vengo attivato da quando sono uscito dalla fabbrica, perciò mi scuso, ma dovrò chiedervi alcune informazioni. Primo: da chi riceverò ordini?
— Sta dando i numeri? — chiese Don. — Ma quale “prima volta”!
— Si è resettato — disse Albert, annuendo con aria pensierosa.
— Che?
— Ha azzerato la memoria, ed è tornato alle condizioni di default.
— Ma... perché?
— Non lo so. Non avevo mai visto un caso del genere.
— Gunter — disse Don, piantando gli occhi in quelli vitrei e rotondi del robot.
— Chi di voi due è Gunter? — domandò il Mozo.
— Sei tu. Questo è il tuo nome.
— Scritto: gi, u, enne, ti, acca, e, erre?
Don si sentiva male. — Non... non tornerà più, vero?
Il tecnico scosse la testa.
— Non c’è nessun modo di recuperare la memoria?
— No, sono spiacente. Ha spazzato via tutto.
— Ma se... — E in quel momento, Don capì. Ci aveva messo più tempo di Gunter, ma alla fine c’era arrivato anche lui. L’unica... l’unica persona presente quando Sarah aveva decrittato il messaggio, era il Mozo. Quel tecnico non era affatto venuto a fare una revisione periodica: era venuto a ficcanasare nella memoria di Gunter, per rubare la chiave e darla a McGavin. Il quale voleva avere il controllo sull’intera operazione, non era così? Voleva essere l’unico creatore dei Draghetti, e che Don si levasse dalle palle.
— Fuori di qui — disse Don ad Albert.
— Come, prego?
— Fuori-da-questa-casa!!
— Signor Halifax, io non...
— Crede che non abbia capito che cosa ci fa lei qui? Fuori!
— Sinceramente, signor Halifax...
— Subito!
Albert si spaventò. Don aveva biologicamente vent’anni in meno di lui, ed era di quindici centimetri più alto. Acciuffò la valigetta metallica e risalì di corsa verso l’uscita. Mentre Don offriva a Gunter una mano per aiutarlo a rialzarsi.
Gli antefatti non erano difficili da ricostruire. Dopo che Don aveva chiamato McGavin per informarlo del decesso di Sarah, il miliardario aveva ripensato alla sua ultima conversazione con lei, e si era ricordato dell’orgoglio di Gunter per essere stato presente al grande momento. Quindi era probabile che il Mozo avesse memorizzato la chiave di decrittazione.
Don era livido di rabbia, mentre componeva un numero ormai noto, e una nota voce rispondeva: — McGavin Robotics. Ufficio del presidente.
— Signora Hashimoto, buongiorno. Sono Donald Halifax. Desidero parlare al signor McGavin.
— Sono spiacente, ma al momento non è raggiungibile.
Don tenne sotto controllo la rabbia. — Prenda nota della chiamata, e gli dica che ho necessità di parlargli entro oggi.
— Non posso sapere quando il signor McGavin risponderà a una chiamata, e...
— Gli dica che l’ho cercato. Sara sufficiente.
Il telefono squillò due ore dopo.
— Ciao, Don. La signora Hashimoto mi ha informato che mi cercavi...
— Provi un altro trucchetto del genere, e giuro che la lascerò fuori da tutto — sibilò Don. — Cristo, pensavo di potermi fidare di lei!
— Non so di cosa stai parlando.
— Non giochiamo. Ho capito benissimo cosa voleva fare con Gunter.
— Ancora non...
— Non neghi.
— Prendi un bel respiro, Don. Capisco che di recente hai avuto...
— Ci può scommettere. Si dice che nessuno “scompaia” finché qualcun altro lo conserva nella memoria. Bé, ora uno che ricordava perfettamente Sarah non c’è più.
Silenzio.
— Dannazione, Cody! Qui non si combina più niente se manca la fiducia!
— Quel robot è di mia proprieta — disse McGavin. — È solo concesso in prestito. Per cui, tutto ciò che si trova nei suoi circuiti è mio.
— Nei suoi circuiti non è rimasto un accidente.
— Lo... lo so. E mi dispiace. Se solo avessi immaginato che lui si sarebbe... — Pausa. — Nessun robot lo aveva mai fatto.
— Può ricavarci una lezione. Una bella lezione sulla lealtà.
McGavin si irrigidì; non era abituato a che ci si rivolgesse a lui con quel tono.
— Bé, siccome il Mozo era stato concesso in prestito a Sarah, nulla m’impedisce di...
A Don accelerò il battito. — No, per favore!... Non se lo riprenda indietro. Io non...
La voce di McGavin suonava ancora adirata. — Cosa?
Don fece spallucce, anche se l’altro al telefono non poteva vederlo. — Ormai è uno di famiglia.
Una lunga pausa, seguita da un lungo respiro. — Molto bene. Se questo serve a distendere i rapporti tra noi, il Mozo può restare con te.
Silenzio.
— Dico bene, Don?
Lui era ancora fuioso. Se avesse avuto davvero ventisei anni, avrebbe portato avanti la polemica. Ma non era un vero ventiseienne; aveva imparato quand’è il momento di cedere. — Sì, d’accordo.
— Perfetto. — McGavin stava riacquistando l’usuale cordialità. — Perché, vedi, stiamo facendo dei progressi nella costruzione dell’utero artificiale, ma cavoli, non è come bere un bicchier d’acqua. Ogni componente va realizzato a partire da zero, e utilizzando tecnologie che in parte non erano mai state sperimentate prima...
Don passò in rassegna il soggiorno di casa. Adesso sulla mensola del caminetto c’erano decine di biglietti di condoglianze, tutti scrupolosamente stampati e imbustati da Gunter. A Don spiaceva che non esistesse più la posta cartacea; comunque, andava bene anche inviare flussi di dati che poi venivano riconvertiti dal destinatario.
Uno dei biglietti era appoggiato al trofeo dell’Unione astronomica. Un altro copriva parte della foto del loro matrimonio; lui si avvicinò alla mensola, spostò il pezzo di carta e osservò Sarah come era, e com’era lui la prima volta che aveva avuto quell’età.
C’erano anche fiori, naturali o virtuali. Sul tavolino accanto al divano era posato un vaso di rose; al di sopra del tavolino da caffè faceva bella mostra di sé un mazzo di gerani. Don ricordò quanto a Sarah, fin da giovane, piacesse occuparsi delle piante, e come avesse conservato il pollice verde anche a settant’anni. Una volta aveva descritto la Via Lattea come il giardino di Dio.
Mentre continuava a leggere i biglietti, con la coda dell’occhio colse un movimento alle sue spalle. Era Gunter.
— Sono addolorato per la scomparsa di tua moglie — disse. La linea della bocca era incurvata verso il basso in un’espressione che, in circostanze diverse, sarebbe apparsa comica. Adesso però aggiungeva un tocco di sincerità.
Don osservò il robot. — Lo sono anch’io — disse a bassa voce.
— Spero di non aver commesso un’indiscrezione, ma ho letto anch’io quei messaggi — accennò alla mensola. — Doveva essere una donna straordinaria.
— Lo era. — Non le enumerò, ma quella definizione sarebbe stata azzeccata per numerose categorie: come moglie, madre, amica, docente, scienziata, e prima ancora figlia e sorella. Tanti ruoli, tutti portati avanti alla perfezione.
— Se posso permettermi: che cosa hanno detto di lei, i testimoni al funerale?
— Ti farò vedere il nastro.
“Nastro!” La parola rimbombò nella testa di Don. Non la usava più nessuno; si riferiva a una tecnologia obsoleta che nessuno ricordava più.
— Ti ringrazio — disse Gunter — Sarebbe stato un onore conoscerla.
Don lo fissò in quegli occhi immobili. — Domani andrò al cimitero — disse. — Ti... andrebbe di venire anche tu?
Il Mozo annuì. — Lo gradirei molto.
Il lato nord del cimitero di York era delimitato dalle staccionate sul retro delle abitazioni di Park Home Avenue, che si trovava a un solo isolato di distanza dal Betty Ann Drive; perciò Don e Gunter raggiunsero la meta a piedi. Don si chiedeva se qualche vicino li stesse sbirciando attraverso i vetri o le telecamere. Il robot e il Rollback: i due miracoli della scienza moderna, fianco a fianco.
Qualche minuto dopo erano al cancello del cimitero. Quando gli Halifax avevano acquistato la casa, la prossimità con quel luogo aveva fatto crollare il prezzo; adesso invece, data la rarità delle aree verdi, era diventato un valore aggiunto. E, per fortuna, avevano acquistato un’area di sepoltura prima che la tumulazione nella terra diventasse un lusso.
Per arrivare alla tomba di Sarah occorreva percorrere un vialetto interno per qualche centinaio di metri. Gunter si guardava attorno con quelli che, in un umano, sarebbero stati occhi spalancati. Essendo stato testato in fabbrica, e avendo sernpre abitato in casa (dopo il reset), non aveva mai visto tanti alberi e tanti sentieri così ben curati.
Infine, furono sul posto. La buca nel frattempo era stata completamente coperta di zolle. Don guardò il robot, che a sua volta stava leggendo la lapide. — L’iscrizione non è centrata — disse. Don annuì: nomi e generalità di Sarah erano incise in alto a destra.
— Anch’io verrò sepolto qui, e il mio nome verrà scritto sull’altra metà.
Sulla parte destra comparivano le parole:
SARAH DONNA ENRIGHT HALIFAX
MOGLIE E MADRE AMATISSIMA
29 MAGGIO 1960 — 20 NOVEMBRE 2048
PARLAVA CON LE STELLE
Don voltò gli occhi verso la metà della lapide che avrebbe accolto lui. Era probabile che il suo anno di morte sarebbe cominciato con le cifre “21”. La povera Sarah avrebbe giaciuto lì da sola per gran parte di un secolo.
Provava un dolore all’altezza dello sterno. Al funerale aveva pianto poco. La tensione di dover salutare tante persone, e andare, e venire... tutte attività che aveva espletato quasi in stato confusionale, sotto la direzione di Emily.
Ma adesso regnava la calma. Con lui c’era solo Gunter, e lui si sentiva collassare. Guardò di nuovo l’incisione. Le lettere si appannarono.
MOGLIE AMATISSIMA... MADRE AMATISSIMA...
Le lacrime sgorgarono in un fiotto, colando giù per le guance giovanili. Don si fece forza per, forse, mezzo minuto; poi si aggrappò convulsamente al collo di Gunter. Che si trattasse di una situazione pre-programmata, o che avesse visto la scena in TV, o che reagisse in modo spontaneo, il Mozo lo sostenne, battendogli delicatamente delle pacche sulla schiena.
Poco dopo il Rollback, Don si era chiesto se, in questa seconda giovinezza, il tempo sarebbe trascorso rapido o lento. C’era la possibilità che gli anni sembrassero non finire mai, come la prima volta che aveva avuto venticinque anni.
No, per niente. Prima ancora che lui se ne accorgesse, era passato un anno. Sul calendario apparve la cifra 2050, e lui ebbe ventisette anni, e insieme ottantanove.
Ma, per quanto veloce fosse volato il tempo, nel 2049 di cose ne erano cambiate tante. Anche se spesso lui si sorprendeva a fissare il vuoto, pensando a Sarah e a...
No. A Sarah, e basta. Perché solo lei doveva dominare i suoi pensieri. Per quanto...
Per quanto Leonore doveva senz’altro aver saputo della morte di lei. Nelle prime settimane dopo il lutto, Don si era atteso qualche messaggio da Leonore. In un’epoca precedente lei avrebbe potuto inviare un telegramma formale, senza che questo lo invitasse a risponderle; ma oggi le uniche vie sarebbero state una telefonata, che implicava di impegnarsi in una conversazione; o un’e-mail, a cui sarebbe venuto naturale replicare.
Passò un mese, poi un altro, e Don concluse che Leonore non intendeva ripristinare i contatti. Del resto, che cosa avrebbe potuto dirgli? Che era dispiaciuta della notizia? Senza che, tra le righe, lui interpretasse: “Sono dispiaciuta che non sia morta prima”? Mica per cattiveria, ma perché era stata solo l’esistenza di Sarah a dividerli.
Ogni tanto Don faceva una ricerca in Rete su “Sarah Halifax”. Venivano fuori una montagna di pagine, quasi tutte datate, ma che davano la pallida impressione che lei fosse ancora viva.
Sul proprio nome, non curiosava più sul Web. Come aveva detto Randy Trenholm, fioccavano i blog sul suo Rollback, e la cosa lo stomacava. Giusto qualche volta inseriva il nome di Leonore per vedere se saltava fuori qualcosa.
Saltò fuori che aveva terminato il master a Toronto e, come sognava, si era trasferita in Nuova Zelanda per proseguire gli studi.
Don si mise a cercare tutte le informazioni possibili su di lei. Il sito dell’Università di Canterbury, pubblicazioni specialistiche di cui era co-autrice, i suoi occasionali post su newsgroup di stampo politico, immagini in video-conferenza da Tokyo. Riguardò quella clip un milione di volte.
Sapeva che non avrebbe mai colmato la perdita di Sarah. Ma la vita doveva proseguire, e presto anzi sarebbe cambiata in modi inimmaginabili. McGavin gli aveva rivelato che l’utero artificiale sarebbe stato pronto nell’arco di poche settimane. La gestazione, secondo i dati inviati dai Draconiani, sarebbe durata sette mesi.
Era un anno e mezzo che Leonore era uscita dalla sua vita. Era troppo, sperare che fosse ancora libera. Anche in quel caso, sicuramente preferiva mettere tra parentesi quell’“episodio”, così lo aveva chiamato, un uomo che si era rivelato essere, parola odiata, un ottuagenario.
E però...
E però, nell’ultimo periodo trascorso insieme, lei sembrava essersi riconciliata con la storia di lui, accettando la sua doppia età, quel suo corpo giovanile con un’anima un po’ meno giovanile. Trovare un’altra donna capace di tanto, nonostante l’apertura mentale sbandierata da tutti, sarebbe stato un miracolo.
D’accordo, era l’epoca dei miracoli scientifici, ma a tutto c’era un limite.
Ovviamente, un uomo con la testa sulle spalle avrebbe cercato di contattare Leonore per telefono o per e-mail. Un uomo con la testa sulle spalle non avrebbe attraversato in aereo mezzo globo terrestre illudendosi di venire accolto a braccia aperte. Solo che lui non lo era. Lui era uno “stupidone”, come avevano rimarcato entrambe le donne di cui si era innamorato.
E fu così che...
E fu così che si ritrovò su un aereo per la Nuova Zelanda. Mentre allacciava le cinture di sicurezza, si rese conto di avere un vantaggio sui Draconiani: loro spedivano i segnali al buio e, in assenza di risposta, per anni e anni non avrebbero potuto sapere se i messaggi fossero arrivati o meno a destinazione. Lui, se non altro, avrebbe visto Leonore in faccia. E non aveva bisogno di altro: l’espressione di lei sarebbe stato un messaggio immediatamente comprensibile, senza tante decrittazioni.
Con tutto ciò, non vedeva l’ora di sapere il verdetto...
Per quel cielo che si china su noi,
per quel Dio ch’è da noi adorato,
dite a quest’anima in pena se,
là nella remotissima Aidenn,
sarà mai sua la vergine santa
che gli angeli chiamano Leonore.
Il posto di Don era vicino all’oblò. Molto pittoresco su un volo nazionale; ma, su uno intercontinentale, quando uno voleva sgranchirsi le gambe era costretto a infastidire altri due passeggeri. Quello più vicino a Don, sul sedile centrale, era un uomo di almeno settantacinque anni. E Don ricordava fin troppo bene che cosa significasse cercare di alzarsi in uno spazio ristretto, a quell’età, per cui resistette il più a lungo possibile intrappolato al proprio posto, un po’ osservando le infinite distese di nubi dall’alto, un po’ guardando la TV sul monitor.
Dopo circa quattro ore, l’anziano vicino attaccò bottone. — Piacere, io mi chiamo Roger. — Aveva un forte accento australiano: doveva essere di ritorno verso casa, visto che l’aereo, dopo lo scalo ad Auckland (dove Don avrebbe cambiato volo per Christchurch)., avrebbe fatto rotta per Melbourne.
— Come mai era a Toronto? — domandò Don, dopo che Roger ebbe confermato le proprie origini australiane.
— Veramente ero a Huntsville. Ha presente?
— Il paradiso dei cottage.
— Centro! Ci vive mia figlia, che gestisce un bed&bleakfast. Ha appena avuto una bambina, quindi non potevo mancare.
Don sorrise. — I nipotini sono un raggio di sole.
Roger lo guardò con aria incuriosita, ma poi annuì: — Garantito.
— Era mai stato in Canada prima d’ora?
— Questa era la quarta volta, ma... — Sul volto, che era beato al pensiero della nipotina, si disegnò un’ombra. Don pensò che stesse per aggiungere: “Ma forse sarà l’ultima”; invece Roger disse: — Era la prima volta che ci venivo da solo.
L’anno scorso ho perso mia moglie.
Don sentì una fitta al cuore. — Oh... Condoglianze.
— Grazie. Meravigliosa, ecco cos’era la mia Kelly.
— Si vede. Per quanto tempo siete stati sposati?
— Cinquant’anni. Cinquant’anni e una settimana, per la precisione. Come se lei avesse tenuto duro fino al giro di boa.
Don tacque.
— Mi manca da impazzire — continuò Roger — Ogni giorno.
Don restò ad ascoltare in silenzio mentre il vicino rievocava gli anni stupendi trascorsi con Kelly tenendosi nella strozza frasi come: “Lo so”, “Anche per me”, “Proprio come me e Sarah“.
Alla fine, Roger gli rivolse uno sguardo imbarazzato. — Mi scusi, mi sono lasciato trasportare dai ricordi. Sono un vecchio rompipalle.
— Per niente — disse Don.
Roger sorrise. Aveva una faccia tonda con pochi capelli; e la pelle cotta di uno che si era crogiolato a lungo al sole. — Lei è un giovanotto davvero gentile, a sopportare tutte le mie chiacchiere.
Don soppresse un sorrisetto. — Piacere mio.
— Mi racconti un po’ di lei. Che ci viene a fare nel regno di Oz... tralia?
— Ah, no, proseguo per la Nuova Zelanda.
— Isola del Nord o del Sud?
— Sud.
— Bé, sono entrambe incantevoli. A parte le pecore.
Stavolta Don sorrise apertamente. Ma non poteva raccontare di esserci stato sessant’anni fa, e non conosceva la situazione attuale, quindi rispose: — Sì, me l’hanno detto.
— Cosa la porta nella terra dei kiwi? Viaggio d’affari o di piacere?
— Vuole la verità? Sto rincorrendo una ragazza.
Cogliendolo di sorpresa, Roger gli affibbiò una pacca sul ginocchio. — Beato te, ragazzo mio! Beato te!
— Forse, o forse no. Abbiamo rotto un annetto fa, e lei si è trasferita a Christchurch per motivi di studio. Mi è mancata oltre il dicibile.
— Ma la ragazzuola sa che lei sta arrivando, immagino.
Don scosse la testa, preparandosi a essere bollato come un idiota.
Roger sollevò un sopracciglio. — Accetterebbe un consiglio da un vecchio?
— Sono i consigli migliori.
Roger fu preso in contropiede: si attendeva una risposta diversa. Quindi annuì con aria esperta. — Sta facendo la cosa giusta, ragazzo mio. Le uniche cose di cui mi pento, in tutta la mia vita, sono le follie che non ho fatto.
Don sorrise. — Lei è una persona molto saggia.
Roger ridacchiò. — Viva abbastanza a lungo, e lo diventerà anche lei.
Dopo aver cambiato volo, finalmente, alle cinque del mattino ora locale, Don fu all’aeroporto di Christchurch. Detestava dover pagare un albergo senza passarci la notte, ma l’alternativa sarebbe stata presentarsi a Leonore in uno stato pietoso, e l’impresa era già abbastanza picaresca così.
Aveva prenotato una camera nell’hotel più economico che avesse scovato on-line; ci andò in taxi. La camera era piccola in base agli standard nordamericani, ma aveva un balconcino. Dopo essersi rinfrescato, Don si accomodò all’esterno; era estate, ma l’aria frizzante del mattino gli congelava il fiato.
Quasi tutti gli edifici intorno avevano le luci spente. Don tornò in camera e chiuse tutti gli interruttori, per abituare gli occhi alla semi-oscurità, poi tornò sul balcone. Non si può rimanere sposati con un’astronoma per sei decenni senza acquisire un minimo di familiarità con le costellazioni, anche se in quell’emisfero gli risultarono quasi tutte sconosciute. Però individuò due stelle la cui brillantezza superava tutte le altre: Alpha Centauri e Beta Centauri, le uniche di cui si ricordasse da quel famoso viaggio di una vita fa. Oltre a...
Esaminò il cielo da un estremo all’altro. Eccole, inconcepibilmente enormi: le Nubi di Magellano, due graffiti bianchi sul buio. Restò a fissarle, rabbrividendo.
Il sole compariva, lento, all’orizzonte che man mano diventava rosaceo, e...
E all’improvviso esplose una cacofonia di canti di uccelli, completamente diversi da tutto ciò che si poteva sentire in Canada. Come trovarsi su un pianeta alieno.
Don tornò dentro, puntò la sveglia per cinque ore dopo e si distese, a occhi chiusi, chiedendosi che cosa gli avrebbe portato il nuovo giorno.
Appena si svegliò, controllò la posta elettronica sul palmare. C’era il rapporto giornaliero da McGavin: tutto procedeva bene nella realizzazione dell’utero artificiale. Nel frattempo erano state prodotte le sequenze di DNA alieno, suddividendole tra quattro laboratori specializzati e poi assemblandole con la stessa tecnica utilizzata mezzo secolo prima per il Progetto Genoma. “Presto” concludeva McGavin “tutto okay per cominciare a far sviluppare embrioni.”
Don aveva dapprima pianificato di incrociare Leonore mentre usciva o rientrava a casa (non era stato difficile scoprire dove abitava). Ma avrebbe avuto tutta l’aria di un agguato, facendo magari una pessima impressione sull’interessata. Inoltre, se lei conviveva con qualcuno, meglio evitare uno scontro con un fidanzato geloso.
Quindi optò per sbucarle di fronte all’università. Una breve ricerca sul palmare lo aveva informato sugli orari dei colloqui della dottoranda in Astronomia. Prima di lasciare l’hotel, Don prese un po’ di denaro in contanti dal bancomat interno; anche le predizioni sulla scomparsa della Cartamoneta per ora non si erano avverate, perlopiù per motivi di privacy. Le banconote erano nuove di zecca, ma mostravano un ritratto di re William molto più giovane di quello che compariva su quelle canadesi; come se Sua Altezza si fosse concesso un piccolo Rollback anche lui.
Il taxista meccanico lo lasciò all’entrata del campus, dove lo accolse l’insegna:
NAU MAI, HAERE MAI KI TE WHARE WĀNANGA O WAITAHA
Di nuovo un testo alieno... Però sul lato opposto della strada sorgeva una Stele di Rosetta con la traduzione:
BENVENUTI ALL’UNIVERSITÁ DI CANTERBURY
Il campus era attraversato da un fiumiciattolo. Don lo costeggiò fino all’edificio in cui, come gli aveva mostrato un passante, si trovava la facoltà di Astronomia.
Una costruzione recente, in mattoni rossi, semiaffondata dentro una collina. Una volta all’intemo, cercò l’aula che gli occorreva, anche se la numerazione era piuttosto lambiccata.
Alla fine s’imbatté nella segreteria di Astronomia. Infilò dentro la testa: alla scrivania sedeva un maori sulla trentina, con il volto coperto da tatuaggi labirintici.
— Buongiorno — disse Don. — Per favore, potrebbe indicarmi l’aula 42-214B?
— Cerca Leonore Darby? — domandò l’uomo.
A Don andò in subbuglio l’intestino. — Ah... sì.
Lui sorrise. — Lo immaginavo, ha un accento canadese. Allora: prosegua per il corridoio, poi svolti a destra in quello successivo. Troverà l’aula alla sua sinistra.
Mancavano venti minuti alla fine del colloquio. Rin graziò il segretario, fece una sosta al bagno, verificò di non avere rimasugli tra i denti, si pettinò, si lisciò i vestiti. Poi si diresse alla 42-214B. La porta era chiusa, ma munita di finestrella: Don sbirciò all’interno.
Ed ebbe un sussulto. Leonore era lì, in fondo. Come a sottolineare che tante cose erano cambiate, si era accorciata di parecchio i capelli rossi. Appariva anche “invecchiata”, il che a quell’età era sinonimo di maturazione, non di decadenza.
Era una piccola aula per conferenze, con seggiole in pendio di fronte a una scrivania. Leonore però non se ne stava seduta rigida, ma recitava la lezione in piedi sullo spiazzo centrale, in atteggiamento più sciolto. Di fronte a lei erano sedute una decina di persone, di cui Don vedeva le nuche. Alcuni avevano i capelli grigi; dovevano essere membri del corpo accademico. Leonore usava una penna laser per indicare vari punti su un complesso grafico proiettato a schermo. Lui non poteva sentire le parole di lei, in compenso ne distingueval’inconfondibile cadenza squillante.
Don sedette sul pavimento, all’esterno, in attesa che la sessione terminasse.
Quando la porta si aprì, ebbe un picco adrenalinico, ma era solo uno che andava al bagno.
Altre aule, lungo lo stesso corridoio, presero a svuotarsi; solo quella di Leonore rimaneva chiusa, mettendogli addosso un’ansia da panico. Don si rialzò, spazzolandosi con le mani il fondo dei pantaloni. Stava per curiosare ancora attraverso la finestrella, quando la porta si spalancò. Lui si fece da parte, come prescriveva l’antica abitudine alla metropolitana di Toronto.
Passata la calca, Don si sporse dentro l’aula. Leonore, di schiena, parlava con l’ultima persona che non se n’era ancora andata, un ragazzo smilzo. Finalmente anche lui risalì per la scalinata e uscì. Leonore restò alla scrivania a sistemare qualcosa.
Don inspirò profondamente, a lungo, nella speranza che questo lo rilassasse un po’, quindi entrò. Era sceso di appena quattro gradini, quando Leonore sollevò gli occhi, e...
E li spalancò, quasi un cerchio perfetto, mentre le labbra le si aprivano senza emettere un suono. Lui continuò a scendere, tremando peggio di quando aveva ottant’anni.
Lei sembrava ancora non credere ai propri occhi, come se lo sconosciuto fosse un sosia del ragazzo che conosceva. D’altra parte, era qualche tempo che non si vedevano, e magari lo ricordava male, e non era lui, e...
— Don? — disse.
Lui sorrise, ma con gli angoli della bocca che vibravano. — Ciao, Leonore.
— Don! — Quasi gridò il suo nome, sorridendo da un orecchio all’altro.
Lui scese di corsa gli ultimi scalini, a due per volta, e all’improvviso furono uno tra le braccia dell’altra. Don impazziva dal desiderio di baciarla, ma il solo fatto che lo avesse accolto come un vecchio amico non lo autorizzava a farlo.
Dopo un tempo che a lui parve troppo breve, lei si sciolse dall’abbraccio.
Leonore lo esaminò rapidamente da cima a fondo, poi piantò le pupille nelle sue.
— Ma che ci fai qui!
— Spero non ti dispiaccia.
— Dispiacermi?
— Non sapevo se saresti stata felice di rivedermi.
— Ma certo che sì! Sei qui in vacanza?
Lui scosse la testa. — Sono venuto per te.
Lei restò fulminata. — Mio... Dio... Potevi chiamare.
— Lo so. Chiedo scusa.
— No, no, non per quello, ma... — Pausa. — Hai fatto questo viaggio solo per vedere me?
Lui annuì.
— Mio Dio — ripeté lei. Poi chinò lievemente la testa. — Mi è dispiaciuto tanto quando ho saputo di Sarah. Quand’è successo? Quattro, cinque mesi fa?
— Più di un anno — disse lui, senza aggiungere altro.
— Mi spiace. Tanto.
— Anche a me.
— E adesso — il tono di Leonore era ancora esterrefatto — tu sei qui.
— Già. — Non sapeva quale fosse il modo più elegante di porre la domanda successiva, quindi sputò il rospo: — Ti vedi con qualcuno?
Lei lo osservò per qualche secondo. Il sottinteso era chiaro, così com’era chiaro che lui le aveva lasciato una via d’uscita: le sarebbe bastato rispondere “sì”, e la questione sarebbe stata chiusa. — No — squittì lei. — Nessuno.
Lui emise un sospiro infinito, e la attirò a sé. — Grazie a Dio — mormorò.
Dopo un attimo di esitazione, le tirò su il mento con delicatezza e la baciò. Con sua suprema delizia, lei ricambiò il bacio.
E di colpo si levò un applauso.
Don alzò gli occhi. Un gruppo di studenti, in attesa dell’aula, era fermo in cima alla scalinata. Uno aveva dato il via alle felicitazioni, seguito dagli altri. In faccia a Don comparve un sorriso ancora più compiaciuto di quello degli involontari spettatori. Leonore invece era rossa come un peperone.
— Vogliate scusarci — disse Don, prendendo per mano Leonore e trascinandola amorevolmente su per la scalinata, mentre il gruppo scendeva ai banchi. Uno degli studenti gli mollò una pacca complice sulla spalla.
Leonore e Don uscirono nel tepore del clima neozelandese; un bel contrasto con l’inverno canadese da cui lui proveniva. Voleva dirle un milione di cose, ma non sapeva da che parte cominciare. Alla fine attaccò con: — Ti sta bene questa pettinatura.
— Grazie — disse lei, che lo teneva ancora per mano. Stavano passeggiando lungo il fiumiciattolo, che risultò essere l’Avon; produceva un delizioso rumore di sottofondo. Sulla riva opposta sorgevano alcuni edifici e un parcheggio. Il marciapiede era lastricato, affiancato da una fila di alberi di cui Don non avrebbe saputo precisare la specie. Leonore faceva occasionali cenni di saluto a studenti o professori.
— Allora, come ti butta? — gli domandò lei. Davanti a loro saltellarono via due uccelli con piumaggio nero, lunghi becchi ricurvi e macchie arancioni sulle guance.
— Hai... hai poi trovato lavoro? — Lo disse abbassando il tono, sapendo che era un tasto delicato.
Don si fermò, imitato da lei. Le lasciò andare la mano e la guardò dritto negli occhi. — C’è qualcosa che devo dirti, ma devi promettere che manterrai il segreto.
— Ovvio — disse lei.
Lui annuì. Di lei si poteva fidare completamente. — Sarah aveva decrittato il messaggio.
Leonore strinse le palpebre. — Impossibile. Ne avrei sentito...
— Era un messaggio personale per lei.
Leonore aggrottò la fronte.
— Non scherzo affatto — proseguì lui. — Era personale per la terrestre che aveva fornito le risposte più gradite ai Draconiani.
— Ed è stata Sarah?
— Proprio così: la mia Sarah.
— E che diceva il messaggio?
Passarono di corsa due studerrti in ritardo. Don aspettò che fossero fuori portata di udito. — Hanno inviato il loro genoma completo, insieme alle istruzioni per costruire i macchinari necessari a far nascere due piccoli Draconiani.
— Gesù... Sul serio?
— Assolutamente. Nel progetto è coinvolto in prima persona Cody McGavin... e anch’io. Sarò io il... — fece una pausa. Non l’aveva ancora metabolizzato fino in fondo: — ...il tutore legale. Ma per tirar su due Draghetti avrò bisogno di aiuto.
Lei non sembrò cogliere.
— E, bé, vorrei che tu tornassi con me. A far parte della mia vita... e di quella dei nostri figli.
— Io?
— Sì, tu.
Leonore era come stordita. — Io, ah, voglio dire, se è per noi due... non ci piove, ma...
Don aveva il cuore a tamburo. — Ma...?
Lei gli rivolse uno dei suoi sorrisi più radiosi. — Mi sei mancato un botto, m-m-ma questa faccenda di tirare su... Gesù!, non riesco a capacitarmi... due piccoli Draconiani. Non... non ho nessuna qualifica per...
— Nessuno ce l’ha. Però tu sei una ricercatrice SETI, ed è un punto di partenza migliore di tanti altri.
— Mi ci vogliono ancora anni per terminare il dottorato.
— Hai già il titolo della tesi? — disse lui. — Perché avrei un mezzo sugger...
Lei faceva ancora resistenza. — Ma se sto qui in Nuova Zelanda! Tutto il progetto verrà portato avanti in Nord America, no?
— Questo non è un problema. Quando la notizia diventerà pubblica... e lo diventerà dopo la nascita dei Draghetti... tutte le università del mondo ci si butteranno a capofitto. Sono sicuro che si troverà il sistema di arrangiare le cose con Canterbury in modo da non pregiudicare il tuo curriculum.
— Non so che dire. Cioè, è... è un’impresa colossale.
— Lo dici a me?
— Avere dei figli draconiani — ripeté lei, scuotendo la testa. — Sarebbe un’esperienza da cardiopalma, ma ci saranno docenti con ben altri titoli per...
— Non è una questione di credenziali, è una questione di carattere. Gli alieni non avevano chiesto di fornire la propria posizione socio-economica o il curriculum di studi. Erano interessati all’etica personale.
— Ma io non ho mai compilato quel sondaggio.
— Tu no, ma io sì. Inoltre, sono abbastanza bravo a valutare le persone. Fidati.
— Questa cosa mi... mi sta travolgendo.
— Ma ti intriga.
— Cavoli, sì. Ma questo significherà che dovrai fare accettare una ragazza a... ai tuoi figli, e nipoti, e poi ai Draghetti... quanto mi piace questo nome!... e...
— Stai dimenticando il robot domestico.
Lei scosse di nuovo la testa, stavolta sorridendo. — Che famiglia scombinata!
Lui lè restituì il sorriso. — Ehi, siamo negli anni ’50.
Lei annuì. — Sono sicura che sarà semplicemente grandioso. Ma... capisci, mancherebbe qualcosa.Voglio dire, mi piacerebbe tanto avere uno o due figli miei.
— Wow, alla Festa del papà riceverò regali a tonnellate.
— Solo dai figli di cui sarai il vero padre! — Lo guardò negli occhi. — Ti... ti interesserebbe?
— Sì, penso di sì. Se conoscerò la donna giusta.
Lei gli diede una sberla su un braccio.
— Scherzavo. Sarebbe da urlo! E poi, i Draghetti avranno bisogno di fratellini con cui giocare.
Lei sorrise, poi però spalancò gli occhi. — Un momento. I nostri figli saranno... mio Dio, saranno più giovani dei tuoi nipoti. — Scosse un’altra volta la testa. — Non so se mi abituerei all’idea.
Don le prese la mano. — Lo farai, amore. Serve solo un po’ di tempo.