LIBRO SECONDO

XI

La tuta a pressione, gonfiata, stava davanti a Linc come un essere umano. Ma la faccia, il visore del casco, era scura e vuota. Linc tastò tutte le giunture per assicurarsi che non ci fossero crepe: caviglie, ginocchia, fianchi, polsi, spalle. Tutto a posto.

Mise in funzione i sensori a pressione intorno al giunto a tenuta stagna del collo, dove il casco a globo si innestava nel tessuto azzurro della tuta, e sorrise pensando: Solo qualche mese fa avrei pensato che fosse uno spirito maligno o un fantasma. Mi avrebbe spaventato a morte.

Dopo aver constatato che la tuta era a tenuta stagna, Linc premette un pulsante sulla cintura e l’aria torno con un sospiro prolungato nelle bombole sistemate sul dorso della tuta stessa che cominciò ad afflosciarsi e non cadde soltanto perché le bombole erano appese alla paratia dell’officina.

Mentre guardava la tuta sgonfiarsi, Linc pensò a Jerlet. È molto giù in questi giorni. Dimagrisce e fa sempre più fatica a muoversi.

Andò a premere un pulsante rosso sulla tastiera accanto al piccolo schermo inserito nel bancone. — Salve, Jerlet. Ho finito con la tuta — disse.

Sul minuscolo schermo apparve la faccia del vecchio, più stanca del solito, come se quella notte non avesse dormito.

— Bene — borbottò. — Vieni nell’osservatorio. Ho una bella notizia.

Linc uscì dall’officina, percorse il breve corridoio e passò nel compartimento stagno. Ormai si muoveva con disinvoltura in quell’ambiente a gravità ridottissima, senza farci neanche più caso, e quando risalì fluttuando nell’ampia cupola buia dell’osservatorio non fu più preso dal panico alla vista dell’universo che lo circondava da ogni parte.

Eppure era sempre uno spettacolo emozionante.

Ormai lo splendore della stella gialla era tale da far scintillare le strutture metalliche del telescopio principale. Jerlet sedeva al banco avvolto in una tuta termica d’emergenza. Eppure disse fra sé Linc qui non fa freddo.

Evidentemente Jerlet non era dello stesso parere. Mentre premeva i pulsanti per manovrare il telescopio e gli altri strumenti gli tremavano le dita.

Linc si portò alla scrivania ancorandosi con un piede alla sedia di Jerlet. Il vecchio alzò gli occhi e gli rivolse un sorriso stanco. La sua faccia ricordava a Linc una vecchia immagine della Terra: un fiume bellissimo che si snodava attraverso una profonda valle incassata fra colline scabre e terre impervie.

— Finalmente sono riuscito a mettere in funzione l’analizzatore dello spettro — mormorò senza tanti preamboli Jerlet. — Mi ci è voluta tutta la notte, ma, alla fine, ce l’ho fatta.

— Dovresti riposare di più — gli disse Linc.

Il vecchio scosse la testa.

— Penseremo a riposarci quando saremo arrivati. Qua… guarda questo.

Premette alcuni pulsanti e sullo schermo sopra al banco comparve l’immagine di Beryl. Era verdazzurra e bellissima, una delicata falce sospesa nello spazio, picchiettata di nuvole candide e sormontata da una calotta polare di ghiaccio abbacinante.

— E adesso guarda… — Jerlet premette altri pulsanti.

L’immagine sparì per essere sostituita da uno strano susseguirsi di colori brillanti che andavano dal viola al rosso cupo.

Socchiudendo gli occhi davanti a quella vista per lui insolita, Linc notò che quelle fasce colorate erano intersecate verticalmente da centinaia di sottili righe nere.

— Questo è lo spettrogramma del pianeta — spiegò Jerlet. — Una specie di impronta personale di Beryl. Come le impronte digitali per gli uomini. Sai che cosa sono, non è vero?

— Le impronte digitali? — ripeté perplesso Linc.

Jerlet si grattò la faccia rugosa. — Già, non sai cosa sono. Be’, qual è il programma per pranzo?

— Dovremmo riesaminare il tragitto che seguirò per tornare alla Ruota Viva.

— Già. E per cena?

— Non ci abbiamo ancora pensato. — Lui e Jerlet avevano stabilito un programma per ogni pasto. Se Linc aveva da porre domande che esigevano una lunga spiegazione, Jerlet approfittava dell’ora dei pasti per soddisfarlo.

— D’accordo. A cena l’argomento saranno le impronte digitali. Magari ti parlerò anche degli schemi retinici e delle impronte vocali.

Linc annuì. Non capiva ma sapeva che Jerlet gli avrebbe spiegato tutto.

— E adesso, tornando allo spettrogramma — riprese il vecchio, — devi sapere che ci spiega di cosa è fatta l’aria di Beryl… di quali elementi è composta la sua atmosfera.

Linc inarcò le sopracciglia incuriosito. — Come è possibile?

Jerlet tornò a sorridere e spiegò pazientemente che la luce del pianeta era scomposta in un arcobaleno di colori dai prismi dello spettrografo; lo spettrografo andava inserito nel telescopio, e ogni elemento e ogni composto lasciavano il proprio marchio distintivo nello spettro di Beryl.

Linc ascoltava e imparava. Di solito gli bastava ascoltare una cosa una volta sola per non dimenticarla più.

— E qui — la voce di Jerlet tremava per l’eccitazione, — c’è l’analisi fatta dal computer confrontata con quella dell’atmosfera terrestre.

Dicendo ciò, premette un pulsante e Linc lesse sullo schermo:


COMPONENTI ATMOSFERICI

BERYL | TERRA


AZOTO 77,23% | 78,09%

OSSIGENO 20,44% | 20,95%

ARGON 1.01% | 0.93%

DIOSSIDO DI CARBONIO 0,72% | 0,03%

VAPORE ACQUEO: variabile fino a un massimo dell’1,8% | variabile fino a un massimo dell’1,5%


Linc studiò i numeri per qualche istante, poi guardò Jerlet: — Sono quasi uguali a quelli della Terra, ma non identici.

— Abbastanza uguali perché si possano considerare gemelli — esclamò raggiante Jerlet. — Più simili di così è impossibile. Un briciolo meno di ossigeno e un po’ più anidride carbonica, ma può darsi che questo sia dovuto al fatto che Beryl è un pianeta più giovane della Terra. C’è una gran quantità di clorofilla dovunque. Questo sta a indicare la presenza di vegetazione, come sulla Terra.

— Allora ci possiamo vivere.

Jerlet annuì energicamente. Cercò di parlare, ma senza riuscirci, e solo dopo qualche secondo mormorò con voce soffocata: — Sì, potete viverci.

Linc vide che aveva gli occhi pieni di lacrime.

— Devo andarlo a dire agli altri — disse il ragazzo. — Saranno tutti terrorizzati da Baryta. Credono che il sole giallo voglia bruciarci e ingoiarci.

— Lo so — disse Jerlet.

— Bisogna che torni da loro al più presto — continuò Linc. — Devono sapere di Beryl. Bisogna che li persuada a non aver più paura.

Jerlet annuì stancamente.

— Se son convinti di dover morire, non si può prevedere come reagiranno…

— D’accordo! — esclamò Jerlet dando una manata al piano del banco. Colto di sorpresa, Linc sussultò e si allontanò fluttuando di qualche metro. — Lo so bene che devi tornare da loro, maledizione. — La capigliatura scomposta del vecchio sembrava un alone fantastico.

— Lo so… ma è che non voglio più rimanere solo. Vorrei tanto che tu restassi qui con me.

Afferrandosi al sostegno del telescopio, Linc si diede una spinta per tornare vicino al vecchio.

— Ma sai bene che devo farlo — gli disse.

— Sì, lo so — ripeté Jerlet con tristezza. — Ma non per questo sono obbligato a essere contento. Nessuna legge della termodinamica sostiene che debba piacermi l’idea di tornare a rimanere solo.

Senza rendersene conto, Linc aveva trattenuto il fiato, ed ora lo esalò in un lungo sospiro. Per un momento aveva avuto paura della reazione di Jerlet. Ma adesso che il vecchio aveva ripreso a scherzare, pure con i suoi modi bruschi, capì che non doveva preoccuparsi. Sarebbe andato tutto bene. Jerlet non avrebbe cercato di trattenerlo.

Il resto della giornata proseguì normalmente. Jerlet rimase nell’osservatorio a studiare Beryl, e Linc scese nell’officina a studiare i nastri delle memorie del computer per imparare come funzionavano e come si potevano riparare gli strumenti e le apparecchiature del ponte di comando.

Questa sarà la parte più ardua della faccenda pensò. Liberare la plancia dai cadaveri e rimettere in funzione gli strumenti. Rabbrividì involontariamente.

A cena, quella sera, Jerlet si lanciò in una lunga dimostrazione sulle impronte digitali, gli schemi retinici, le impronte vocali e tutti gli altri aspetti del lavoro d’indagine.

Linc era confuso. — Perché prendersi tanti fastidi? Ci Conosciamo tutti, no? Perché non limitarci a chiedere a un altro chi è?

Jerlet per poco non si soffocò con un boccone di bistecca sintetica, e poi cominciò a parlare dei crimini e del lavoro della polizia. Quando ebbero finito di mangiare e i piatti furono introdotti nel riciclatore, Linc chiese: — E va bene, ma chi ha ideato il sistema? Chi ha scoperto che le impronte digitali sono sempre diverse da persona a persona? Kirchhoff e Bunsen?

Jerlet si diede una manata sulla fronte. — No, no! Quei due hanno elaborato i principi della spettroscopia. La tecnica delle impronte digitali è opera di un poliziotto. Un inglese che si chiamava Sherlock Holmes, mi pare. Ci dev’essere un nastro nel computer che spiega bene tutto.

Linc si esaminò i polpastrelli e vide l’insieme di sottili righe curve che formavano dei disegni. Quando rialzò gli occhi, Jerlet era paurosamente impallidito e grosse vene bluastre gli pulsavano sulla fronte.

— Cosa c’è?

— Ahhh… che male — ansimò il vecchio. — Devo aver… mangiato… troppo… troppo in fretta…

Linc si alzò e gli andò vicino.

— No… mi… passerà…

Senza stare a discutere, Linc lo sollevò dalla sedia e lo spinse a spallate. Avrebbe voluto portarlo in braccio, ma era tanto grosso che non riusciva ad abbracciarlo, anche se la gravità ridotta rendeva sopportabile il suo peso.

Lo portò in infermeria. Jerlet ansimava e gemeva mentre Linc lo adagiava sul lettino. Dopo aver attivato la tastiera sul piedistallo metallico accanto al letto, Linc accese i sensori medici. L’infermeria era quasi completamente automatizzata, e Linc non capiva come funzionassero gli apparecchi, ma tenne d’occhio lo schermo sulla parete sopra al letto. Lesse le cifre corrispondenti alle pulsazioni, al respiro, alla temperatura corporea, alla pressione del sangue… Erano tutte rosse, il colore del pericolo. La sinuosa linea verde che tracciava il battito del cuore era discontinua e molto irregolare.

— Cosa devo fare? — chiese Linc a voce alta. Ma gli apparecchi non risposero.

Fu Jerlet a dire con voce rotta: — Premi… il pulsante d’emergenza… di’ al computer medico… attacco cardiaco…

Linc eseguì e sullo schermo apparvero le istruzioni sulla terapia da seguire e su come installare una pompa ausiliaria ventricolare automatica. Linc seguì le istruzioni via via che comparivano sullo schermo. Perse il senso del tempo, ma finalmente riuscì a installare intorno a Jerlet tutte le scintillanti macchine di metallo e di plastica che si agganciarono automaticamente alle braccia e alle gambe di Jerlet.

Ma i numeri sullo schermo erano sempre rossi.

Linc rimase seduto al capezzale. Ogni tanto Jerlet perdeva conoscenza, tornava in sé, ricadeva di nuovo nel torpore.

Linc faceva fatica a tenere gli occhi aperti. I soli rumori nella stanza erano il ronzio degli apparecchi elettrici e il pulsare sommesso della pompa.

— Linc…

Il ragazzo aprì gli occhi con un sussulto. Si era addormentato in piedi.

Jerlet agitava debolmente una mano nel tentativo di toccarlo, ma le macchine lo tenevano saldamente legato al letto.

— Linc… — la voce del vecchio era un sussurro penoso.

— Sono qui. Come ti senti? Cosa posso fare?

— Malissimo… Niente, non puoi far niente. Se le macchine non riescono a tirarmi fuori da questo guaio, per me è finita. Del resto era ora. Ho… — la voce si ridusse a un sussurro incomprensibile.

— Non morire — pregò Linc. — Ti supplico, non morire.

Jerlet strizzò faticosamente un occhio. — Io non vorrei, figliolo… Però sono contento di aver resistito abbastanza… da conoscerti… e istruirti…

— No… — Linc era disperato.

La voce di Jerlet si faceva sempre più debole, e stranamente era diventata più dolce. — Ascolta…

Linc si chinò sulla vecchia faccia devastata. Il respiro usciva dalla bocca in rantoli faticosi che straziavano l’anima a Linc, e a ogni rantolo il grosso corpo sussultava.

— Tu… sai… cosa devi fare?

Linc annuì. Non riusciva a parlare e aveva gli occhi offuscati dalle lacrime.

— Le macchine… le riparerai… In modo da… arrivare a Beryl…

— Sì — mormorò Linc con voce soffocata. — Te lo prometto.

— Bene, — La faccia di Jerlet si distese in un debole sorriso. I rantoli cessarono e gli occhi si chiusero.

— Ti prego! Non morire.

Jerlet socchiuse appena gli occhi. — Puoi farcela anche senza di me.

Linc strinse i pugni sul materasso spugnoso. — Ma io non voglio che tu muoia!

Jerlet si sforzò di sorridere: — Ti… ho detto… che neanch’ io lo… vorrei. Non ho la tempra… del martire eroico, figliolo… ma va’… le macchine devono funzionare… vattene… le macchine possono entrare in funzione da… un momento all’altro…

— Andarmene? Quali macchine?

— Via… vattene… se non vuoi… rimanere congelato anche tu,…

Inconsciamente, Linc si scostò dal letto. Rimase lì un momento, incerto, gli occhi fissi su Jerlet che aveva chiuso gli occhi, I numeri rossi cominciarono a lampeggiare sullo schermo, accompagnati da un tenue, ritmico e insistente bip-bip. Le parole MORTE CLINICA lampeggiarono più volte con tale rapidità che Linc ebbe appena il tempo di notarle. Poi si levò un sibilo acuto dalle macchine intorno al letto, come se i loro visceri meccanici piangessero la morte di Jerlet o si rammaricassero di non essere riuscite a salvarlo. Infine sullo schermo comparve una scritta a grandi lettere verdi: PROCEDIMENTO DI IMMERSIONE CRIOGENICA.

Mentre Linc si allontanava arretrando, sullo schermo apparvero numeri e grafici con rapidità tale che solo una macchina era in grado di leggerli. Le apparecchiature metalliche intorno al letto ronzarono forte, vibrarono e si allontanarono. Linc, affascinato, incapace di muoversi, guardò il corpo di Jerlet affondare lentamente nel pavimento. Le macchine erano immobili e silenziose mentre il letto spariva attraverso una botola. Linc si fece avanti per guardare, ma in quel momento il letto finì di scomparire e la botola si richiuse.

Uno sbuffo di vapore bianco salì prima che si chiudesse del tutto.

Le macchine tornarono nelle loro nicchie dentro ai muri bianchi, e lo schermo si spense.

— Immersione criogenica — mormorò fra sé Linc. La sua mente riprese a lavorare con energia. Aveva preparato tutto in previsione della sua morte. Le macchine lo congeleranno, così un giorno potrà tornare in vita e guarire.

Sebbene sapesse che Jerlet era morto in tutti i sensi, che non avrebbe mai più rivisto il vecchio, perché se anche fosse tornato in vita quel giorno sarebbe stato così remoto nel futuro che lui non poteva sperare di essere ancora vivo, tuttavia quella consapevolezza gli diede sollievo.

— Addio, vecchio — disse alla stanza vuota. — Li porterò su Beryl. Lo farò per te.

XII

Nonostante l’addestramento, nonostante tutto quello che aveva imparato, nonostante le assicurazioni di Jerlet, Linc era teso e preoccupato quando indossò la tuta pressurizzata.

Gli sembrava di essere ingoiato vivo da un mostro di forma vagamente umana, ma più grande e stranamente diverso. Arricciò il naso all’odore di olio di macchina e plastica a cui si mescolava quello del suo sudore. L’odore della paura, paura di uscire nel buio esterno.

È lo spazio si disse per rassicurarsi. È solo vuoto. Jerlet me l’ha spiegato tante volte. Là fuori non c’è niente che mi possa fare del male.

— Purché la tuta funzioni — disse a voce alta mentre si calava sulla testa il casco.

Lo chiuse a tenuta stagna, e controllò che tutte le apparecchiature della tuta funzionassero a dovere e non ci fossero perdite d’aria. Il lieve ronzio del ventilatore lo rassicurò, e così pure l’odore un po’ stantio dell’ossigeno.

Si avviò lentamente verso il compartimento della morte, ma poi si corresse: il compartimento stagno, e alzò la mano guantata verso i pulsanti per aprire il portello. Ma rimase con la mano sollevata. — Potresti restare qui — disse, e la voce suonava stranamente soffocata dentro al casco. — Jerlet ha lasciato tutto in condizioni perfette. Potresti passare comodamente qui il resto della tua vita.

Finché la nave non andrà a schiantarsi su Baryta, e moriremo tutti si corresse mentalmente.

— Che cosa ti fa pensare che Magda e gli altri presteranno fede alle tue parole? Credi che Monel farà quello che gli dirai? Credi che ci sarà qualcuno disposto a toccare le macchine solo perché glielo dirai tu?

Ma Linc conosceva le risposte ancor prima di formulare le domande. Non importa cosa diranno o faranno. Io devo tentare.

La mano protesa superò finalmente gli ultimi centimetri e si posò sul pulsante. Esitò ancora un attimo e poi lo premette: la pesante porta di metallo scivolò silenziosamente di lato davanti a lui. Allora premette i pulsanti che avrebbero fatto funzionare automaticamente i meccanismi del compartimento, ed entrò nel vano angusto. Il portello interno si richiuse con un sospiro. Le pompe entrarono in attività. Linc non poteva sentirle dentro alla tuta, ma ne percepiva le vibrazioni attraverso le suole metalliche degli stivali. Mentre aspettava immobile, il cuore accelerava sempre più i battiti.

Il portello esterno si aprì. Linc si ritrovò sull’orlo estremo del suo mondo, a guardare l’infinito punteggiato di stelle.

Sorrise. Tutte le sue paure erano svanite. Era come nell’osservatorio: la bellezza che lo circondava era tale da mozzare il fiato. Il silenzio e la pace dell’eternità gli stavano davanti, guardandolo, in paziente attesa.

Linc superò la soglia del compartimento e per la prima volta vide la nave come realmente era: un enorme insieme di ruote concentriche illuminate dalla cruda luce abbagliante del sole giallo che stava dietro di lui. Ruote piatte, ognuna più grande della precedente, che partivano dal mozzo centrale dove lui si trovava ora e giravano lentamente sullo sfondo del firmamento. A tenerle unite erano una decina di raggi, i tubi-tunnel visti dall’esterno.

Uno dei raggi era illuminato da una fila di piccole luci ammiccanti. Gli aveva insegnato Jerlet ad accenderle. Erano la sua guida. Seguendole avrebbe percorso dall’esterno il tubo-tunnel per arrivare alla zona abitata, nella ruota più grande, dove si trovavano i suoi compagni.

Linc si avviò lentamente lungo il sentiero formato dalle luci gialle, muovendosi con circospezione nell’ingombrante tuta pressurizzata. Sapeva perfettamente che uno sbaglio anche minimo, uno scivolone, un inciampo, avrebbe potuto mandarlo a rotolare lontano dalla nave senza possibilità di ritorno.

Ma Jerlet era stato un ottimo istruttore Linc vedeva che la superficie esterna del tubo-tunnel era contrassegnata da un succedersi di incavi e sporgenze. Doveva posare i piedi negli incavi e sostenersi alle sporgenze con le mani. Le suole metalliche degli stivali erano leggermente magnetizzate, cosicché doveva fare un piccolo sforzo per sollevare i piedi. L’ossigeno gli dava un po’ alla testa, ma si sentiva caldo e sicuro dentro alla tuta.

Ma soprattutto doveva evitare di guardare le stelle. Dopo aver ammirato per qualche attimo quella stupefacente visione, Linc si rese conto che la rotazione della nave non gli avrebbe permesso di guardare le stelle e procedere contemporaneamente in linea retta.

Così, sia pure con lieve disappunto, tenne gli occhi fissi sulle luci gialle, sugli incavi e sulle sporgenze che contrassegnavano la strada verso la Ruota Viva.

Non si rendeva conto del passare del tempo. Era già tutto sudato ed esausto un bel pezzo prima di arrivare alla Ruota Viva.

Sapeva che avrebbe dovuto aver fame, perché all’interno della tuta aveva a disposizione solo l’acqua. Ma era troppo stanco ed eccitato, e desiderava solo arrivare alla meta.

Via via che si avvicinava alla ruota più esterna la forza di gravità cominciò a farsi sentire. Gli incavi si trasformarono in una serie di gradini che salivano a spirale intorno al tubo-tunnel. A ogni passo la sensazione di «sopra» e «sotto» aumentava e invece di procedere lungo un sentiero, Linc si ritrovò a scendere una scala a spirale.

E poi, quasi senza accorgersene arrivò. L’ultima luce gialla ammiccante fu seguita da un cerchio di piccole luci blu che incorniciavano il portello esterno di un compartimento stagno.

Linc si soffermo a lungo coi piedi che aderivano magneticamente all’ultimo gradino della scala, una mano chiusa sull’ultimo sostegno. Esaminò il quadro dei comandi di fianco al portello. Con la coda dell’occhio vedeva le stelle ruotare maestosamente mentre la ruota più grande girava lenta intorno al mozzo lontano. Aveva percorso una lunga strada.

Premette con la mano libera i pulsanti per far aprire il portello.

Per un’eternità non successe niente. Poi, con estrema lentezza, il portello cominciò a socchiudersi di lato. Nel vuoto non si potevano sentire i rumori, ma Linc era sicuro che il portello dovesse cigolare.

Entrò nel vano del compartimento, e premette i pulsanti per attivarne i meccanismi. E se non funzionassero? si chiese preso da un improvviso senso di panico. Dovrei tornare indietro fino al mozzo e poi scendere all’interno del tubo.

Ma per fortuna le macchine fecero il loro dovere. Il portello esterno si richiuse, l’aria riempì sibilando il vano, le luci sul pannello passarono dal rosso, al giallo e al verde e finalmente il portello interno cominciò a socchiudersi.

Linc varcò la soglia. Era arrivato a casa.

Il corridoio era vuoto. Come sempre, da questa parte, ricordò. Dopo tutto, loro chiamano questo vano il compartimento della morte. Non è un posto allegro.

Si avviò a passi pesanti lungo il corridoio, verso la zona abitata. Era stanco, oppresso da un senso di pesantezza, e solo poco per volta si rese conto che lì, dove la forza di gravità era normale, tuta e bombole pesavano quasi quanto lui.

Ma era troppo eccitato e impaziente per fermarsi a sfilare la tuta.

Si trovava in prossimità della fattoria quando dalle ampie porte doppie uscì un gruppo di uomini.

Linc avrebbe voluto correre loro incontro, ma aveva le gambe così stanche che riuscì solo ad avanzare barcollando.

— Ehi! Sono io… Linc! — gridò agitando le braccia.

Gli uomini si fermarono di colpo. Erano sette; sette facce striate di sporcizia e di sudore che lo fissavano a bocca aperta con gli occhi sbarrati.

— Stav… Cal… Sono io, Linc?

Un’espressione di terrore stravolse quelle facce, e gli uomini si diedero alla fuga urlando.

Linc si fermò ridendo. Non hanno visto me, ma la tuta! Sfilò i guanti per poter svitare il casco e farsi vedere in faccia.

Probabilmente non mi hanno neppure sentito, dall’interno di questa palla, pensò.

Non aveva ancora finito di togliersi il casco, che Stav e altri tre si affacciarono cauti dietro l’angolo del corridoio brandendo pezzi di tubo. Avanzavano lenti, con prudenza, ma non avevano modo di nascondersi. La vista di Linc li arrestò, sopraffatti dal terrore.

Linc sollevò le braccia, ma rendendosi conto che non avrebbero potuto sentirlo dato che aveva ancora il casco avvitato in parte, attivò la radio inserita nella tuta.

— Mi manda Jerlet — disse. L’altoparlante amplificò la voce facendola echeggiare fra le pareti dello stretto corridoio. Linc abbassò il volume.

— Sono io, Linc. Sono tornato. Jerlet mi ha rimandato da voi.

Uno degli operai lasciò cadere l’arma improvvisata e si buttò in ginocchio.

Stav lo guardò con aria di rimprovero, senza perdersi d’animo. — Che specie di mostro sei? Cosa ne hai fatto di Linc?

— Aspettate — disse Linc. Finì si svitare il casco e lo sfilò.

— Non sono un mostro, Stav — disse, senza ricorrere alla radio. — Sono Linc. Sono tornato da voi. Mi ha mandato Jerlet.

Anche Stav e l’altro caddero in ginocchio.

Linc impiegò parecchi minuti a convincerli che era proprio lui in carne ed ossa, e che il mostro era solo uno strano indumento.

Gli altri lo fissavano con un misto di fascino e di paura mentre si liberava dalle bombole e si toglieva i pesanti stivali.

Il primo a riprendersi fu Stav.

— Sei… sei proprio Linc!

Si rialzò lentamente, imitato dagli altri, ancora un po’ dubbiosi.

— Ma certo che sono Linc.

— Te n’eri andato. Monel e gli altri dicevano che eri morto — balbettò uno degli operai.

— Non sono morto. Magda ha mai detto che lo ero? I quattro si scambiarono occhiate perplesse.

— No, non credo — rispose Stav.

Linc tirò un sospirone. — Non sono morto — ripeté. — Sono vivo e normale come voi. Ho trovato Jerlet, che mi ha raccontato tante cose e mi ha dato questo abito che si chiama tuta spaziale per proteggermi, affinché potessi tornare da voi. Mi ha anche dato una bella notizia. La stella gialla non ci ingoierà. Ci porta la vita, non la morte.

Ma evidentemente la buona notizia non li colpì. Tuttavia almeno non erano più spaventati.

Stav gli si avvicinò per toccarlo. Lo scrutò da vicino e finalmente un lento sorriso si dipinse sulla sua larga faccia inespressiva.

— Sei proprio Linc.

— Certo, Stav. E sono felice di rivederti. Vuoi accompagnarmi da Magda?

— Sì, sì, certo — consentì Stav. — Ma credo che Monel ci raggiungerà prima che arriviamo da lei.

Monel arrivò trafelato, seguito da quattro uomini. Erano tutti armati con pezzi di tubi e coltelli da cucina.

Stav e i suoi colleghi portavano il casco, gli stivali e i guantoni di Linc, con timore reverenziale. Linc indossava ancora la tuta e si sentiva un po’ ridicolo coi piedi coperti dalle sole calze e le mani nude che sporgevano dal goffo indumento.

— Sei proprio tu! — esclamò Monel come se si rifiutasse di credere ai propri occhi.

— Esatto — rispose Linc guardandolo con durezza. — Sono tornato. Mi ha mandato Jerlet.

— Jerlet? Non pretenderai che crediamo…

— Non pretendo niente da te — tagliò corto bruscamente Linc. — Sono qui per parlare con Magda, non per perder tempo in discussioni inutili con te.

Monel avvampò e sollevò la mano come per ordinare a Linc di non muoversi. Gli uomini che lo seguivano s’immobilizzarono rafforzando la presa sull’impugnatura delle armi.

— Tu non vedrai né Magda né nessun altro finché non avrò la certezza che non sei pericoloso…

Linc gli sorrise, ma il tono della sua voce era mortalmente serio. — Noi tutti corriamo un solo e gravissimo pericolo, se perdiamo tempo. Jerlet mi ha insegnato come dobbiamo fare per salvare la nave. Non moriremo. Il sole giallo non ci ucciderà. Ma dobbiamo affrettarci ad agire. C’è un nuovo mondo che ci aspetta, purché compiamo le manovre necessarie per arrivarci.

Monel fece arretrare di qualche centimetro la sua sedia, ma non si dette per vinto. — Te l’ha insegnato Jerlet? Vuoi dire che hai parlato con lui?

— Sì.

— E allora perché non ti ha accompagnato?

— È morto.

Rimasero tutti profondamente scossi.

— Morto? Jerlet è morto?

— Sì — rispose Linc. — Ma tornerà, un giorno, quando avremo raggiunto il nuovo mondo e imparato a viverci. Forse noi non lo vedremo, ma i nostri figli sì.

Anche Monel era rimasto visibilmente scosso dalle parole di Linc. — Non capisco,…

— Lo so — disse Linc. — Per questo devo vedere Magda. Lei saprà dirci cosa dobbiamo fare.

Monel sporse le labbra, pensieroso. Tutti gli altri si accalcarono muti intorno a Linc. Un operaio si arrischiò a toccare con un dito il tessuto gommoso della tuta.

— Stiamo perdendo tempo — disse Linc a Monel. — Devo vedere subito Magda.

Si avviò a lunghi passi e gli altri si scostarono per lasciarlo passare. Gli operai lo seguirono. Le guardie di Monel, non sapendo cosa fare, guardavano ora il loro capo, ora Linc che si allontanava.

— Non state lì come degli scemi! — gridò Monel. — Aiutatemi a raggiungerlo.


Se possibile, Magda era ancora più bella di quanto Linc non ricordasse. In piedi al centro del suo piccolo alloggio, gli occhi scuri cupi e tristi, la bella faccia seria, il corpo eretto con fierezza regale, lo accolse dicendo: — Sei tornato.

Linc entrò e gli parve che improvvisamente tutta la piccola folla che si era raccolta lungo il suo passaggio sparisse. Erano soli, lui e Magda.

— Mi ha mandato Jerlet.

Magda non si mosse e non sorrise. Guardò la gente che si accalcava sulla soglia alle spalle di Linc. — Lasciateci — ordinò. — Devo parlare con Linc da sola.

Il gruppo si sciolse a malincuore, borbottando, e Linc chiuse la porta. Poi tornò da Magda.

— Sapevo che saresti tornato — disse lei con voce appena percettibile. — Tutte le notti, durante ogni meditazione, avevo la certezza che eri vivo e saresti tornato.

— Non mi pare che tu ne sia molto felice — osservò Linc.

Magda non rispose direttamente. Disse invece: — Devo conoscere tutti i particolari del tuo viaggio. Hai visto davvero Jerlet? Ti ha parlato?

Linc si mise a sedere a gambe incrociate sul morbido tappeto che copriva il pavimento e appoggiò la schiena alla cuccetta. Magda gli si sedette accanto, e rimase ad ascoltarlo mentre lui le raccontava della sua vita con Jerlet.

Linc conosceva bene quella stanza, la conosceva da sempre, ancor prima della partenza di Jerlet e di quando i ragazzi avevano deciso di eleggere Magda sacerdotessa per la sua saggezza e la facoltà di leggere nel futuro. Ma adesso gli sembrava diversa. Eppure tutto era uguale: il tappeto, i disegni di Peta sulle pareti, i segni dello zodiaco tracciati sul soffitto. Eppure lui la sentiva diversa. Estranea.

Magda lo ascoltò senza interromperlo. Le si offuscarono gli occhi quando le raccontò di Peta, ma per il resto non dimostrò nessuna emozione. Le luci si attenuarono perché era l’ora di dormire, ma Linc non aveva ancora finito. Sul soffitto, il Toro, i Gemelli, il Leone, la Vergine, ascoltavano anch’essi nel loro eterno silenzio. Magda sedeva immobile nella penombra, col dorso eretto, come quando meditava. Unico indizio che lo stesse ascoltando era un cenno della testa di tanto in tanto.

— …bene, credo che non ci sia altro — concluse Linc con voce rauca. Aveva la gola secca.

Magda si alzò dicendo: — Vado a prendere un po’ d’acqua. Non muoverti. Andò alla nicchia dov’era il rubinetto e riempì una tazza che poi porse a Linc. Dopo essersi rimessa a sedere, gli chiese: — Jerlet vuole che ripariamo le macchine?

Linc sentì l’incredulità nella sua voce.

— Sì. Le macchine sono la nostra unica speranza. Se non le ripariamo allora sì che precipiteremo su Baryta, il sole giallo, e moriremo tutti. Ma con l’aiuto delle macchine potremo raggiungere Beryl, il nuovo mondo, e continuare a vivere.

Magda non fece commenti.

Linc allungò la mano nella penombra per afferrarle il braccio. — Pensaci, Magda. Tutto un mondo per noi. Nuovo, libero, intatto. Non più pareti che ci rinchiudano. Tutta l’aria e il cibo che vogliamo… e tanto spazio!

— Le macchine — disse lei, piano. — Jerlet ci ha detto tanto tempo fa di non toccarle. Mai.

Linc sorrise anche se era troppo buio perché lei lo vedesse. — Lo disse quando eravamo bambini perché avremmo potuto farci del male e rovinarle se le avessimo toccate.

Lei rimase immobile. — Se Jerlet ci dicesse che dobbiamo farlo…

— Non può. È morto.

— Me l’hai detto.

— Lui si serviva sempre delle macchine. Anche mentre moriva.

— Non gli hanno salvato la vita.

— Era vecchio, Magda. Incredibilmente vecchio. Ed era malato da tempo.

— Ma le macchine lo hanno lasciato morire — insistette lei.

— Adesso si trova dentro a una macchina che protegge il suo corpo conservandolo finché noi, o più probabilmente i nostri figli, non impareremo a riportarlo in vita.

Sentì che Magda rabbrividiva come se un soffio della tenebra esterna l’avesse sfiorata.

Sdraiato sul tappeto Linc guardava le figure luminose sul soffitto. L’Ariete, la Bilancia, lo Scorpione. Una volta li considerava segni strani e misteriosi che lo turbavano e gli facevano anche paura. Adesso, grazie a Jerlet, sapeva che erano costellazioni astronomiche e sapeva anche quando era nata sulla vecchia Terra l’arte dell’astrologia.

— Magda — disse sorpreso dal tono della propria voce, — si tratta di vita o di morte. Possiamo salvarci tutti e raggiungere il nuovo mondo, ma solo a patto di servirci delle macchine. Se noi le aiutiamo, loro ci aiuteranno. Ci faranno vivere. Altrimenti moriremo tutti.

— Te l’ha detto Jerlet?

— Jerlet mi ha dimostrato la verità di questo. Mi ha insegnato. Mi ha riempito la mente di idee e di nozioni. Io so cosa si deve fare, ma gli altri non mi ubbidiranno se non lo dici tu. Tu sei la sacerdotessa. Se dici loro che è giusto fare come dico io, ti ubbidiranno.

— Monel è convinto di essere il capo.

— Monel! — ripeté con rabbia e disprezzo Linc. — Lui può giocare a fare il capo, ma se tu dici alla gente che possiamo riparare le macchine, non faranno caso a quello che dice lui.

— Sei proprio sicuro?…

— So cosa dobbiamo fare — affermò con sicurezza Linc.

Dopo un lungo silenzio, Magda disse: — Va bene. Voglio crederti. Non m’importa se hai ragione o torto. Voglio crederti.

Lui sorriso nel buio. — Magda…

— Da dove dobbiamo cominciare, Linc? Cosa dobbiamo fare per primo?

— Il ponte di comando. Dobbiamo fare in modo che tutto funzioni di nuovo…

— Il ponte di comando? Dov’è?

Lui esitò. — Be’… noi lo chiamiamo il Posto dei Fantasmi.

Magda sussultò. — Il Posto dei Fantasmi? — ripeté con un sussurro inorridito. — Il Posto dei Fantasmi? Linc, come puoi soltanto pensarci? Non puoi andarci.

— Dobbiamo!

— No! — urlò Magda. — Mai! È un posto di morte. Non ti lascerò mai andare… Né tu né altri.

XIII

Linc si alzò lentamente in piedi.

— Magda — disse, sforzandosi di mantenere la calma. — Ci sono cose che io so e capisco, e tu no. Io ho vissuto con Jerlet. Lui mi ha insegnato quello che dobbiamo fare.

Lei gli si parò davanti coi pugni sui fianchi. — Tu non capisci niente! Non puoi andare nel Posto dei Fantasmi. C’è la morte…

— Non è vero. So come arrivarci. Devo sgombrare i corpi e riparare le macchine, per…

— Linc, ascoltami — la sua voce adesso era supplichevole. — Non resisterei se tu morissi.

— Non morirò.

— Jerlet è morto. Potresti morire anche tu. — Trasse un profondo sospiro, — Inoltre, se vai là, offri a Monel l’occasione che aspetta. Si sbarazzerà di noi due.

— Monel?

— Non ho la forza di lottare contro di lui. Prima voleva eleggere Jayna al mio posto, ma da quando ho smesso di oppormi, e l’ho lasciato fare a suo modo, non ha più insistito. Io continuo a essere la sacerdotessa, ma è lui a comandare.

— Ma adesso che sono tornato, lo terrò a bada io.

— Come? — sbottò Magda. — Andando nel Posto dei Fantasmi? Facendoti uccidere? O spaventando tutti col tuo modo di agire cosicché daranno sempre più ascolto a Monel?

— Magda, dobbiamo farlo, se non vogliamo morire.

— No, Non ci credo. Jerlet non…

— Jerlet non poteva farci niente. Era un uomo, un uomo qualunque, come noi. In questi ultimi tempi non si poteva neanche allontanare dalla zona dove non c’è peso. Non poteva controllare la nave.

Qualcuno bussò con forti colpi imperiosi.

— Chi è? — chiese Magda.

— Monel.

Prima che Linc avesse il tempo di dire qualcosa, Magda gridò: — Entra. La porta si aprì e Monel entrò spingendo la sua sedia.

— Al buio? — chiese con ironia tagliente. — State meditando al buio?

Linc non poteva vederlo in faccia, ma le due guardie rimaste nel corridoio illuminato sogghignavano. Andò a chiudere la porta e accese la luce.

— Voi due avreste avuto il tempo di fare tutto il giro della Ruota — disse Monel. — Non sarebbe ora di raccontare anche agli altri cosa state macchinando?

Gli altri, cioè tu pensò Linc.

— Linc stava raccontandomi del tempo che ha passato con Jerlet — spiegò Magda, guardinga.

— Davvero? Devi parlarne anche a noi. — Monel sorrideva, ma senza calore né cordialità.

— Jerlet mi ha rimandato qui per riparare le macchine, perché solo così il sole giallo non ci ucciderà — spiegò Linc.

— Hai detto che Jerlet è morto — disse Monel, — così non può venire qui a dirci se è vero quello che racconti. Dobbiamo crederti sulla parola.

— È la verità.

— E noi dobbiamo credere che dici la verità a proposito di quello che Jerlet vuole o non vuole?

Linc strinse i pugni. — Intendi affermare che sono un bugiardo?

— L’ho forse detto? — ribatté con la massima calma Monel.

Molto tempo prima, quand’era piccolo e Jerlet viveva ancora insieme a loro, Linc aveva visto due gatti che si preparavano ad assalirsi a vicenda. Si fissavano con occhi di fuoco, emettevano miagolii lamentosi, giravano a gambe rigide uno intorno all’altro… ci volle un bel pezzo prima che si decidessero.

E così facciamo noi adesso pensò Linc mentre lui e Monel si scambiavano domande e risposte. Come i gatti. Ci prepariamo allo scontro.

— Devo riparare le macchine sul ponte di comando — disse. — È indispensabile, se vogliamo raggiungere il nuovo mondo.

— È il Posto dei Fantasmi — spiegò Magda.

Monel non parve sorpreso.

— Io gliel’ho proibito — continuò Magda. — Nessuno può andarci e sopravvivere.

— Io sì — insistette Linc.

— Jerlet ti ha insegnato come devi fare? — chiese Monel.

— Sì.

Magda scosse violentemente la testa. — Sbagli! Non devi disturbare i Fantasmi.

— Se non lo faccio moriremo tutti.

Monel buttò la testa all’indietro e proruppe in una risata aspra che diede sui nervi a Linc.

— E pensi sul serio che qualcuno ti creda? — gli chiese. — Credi che la gente ti lascerà pasticciare con le macchine o andare nel Posto dei Fantasmi?

— Sì, se glielo dirà Magda.

Si voltò a guardarla. Lei ricambiò lo sguardo con un’occhiata ferma dei suoi scintillanti occhi neri, ma non aprì bocca.

— Magda dirà quello che io voglio che dica — precisò Monel, e, avvicinatosi a Magda, le cinse la vita col braccio. — Magda è mia.

Linc si sentì avvampare di rabbia, ma prima che potesse dire o fare qualcosa, Monel aggiunse: — Tutto quello che hai è questa pazzesca storia. Nessuna prova. Nessuno ti crederà. Nessuno, mai.

Linc fece un passo verso quella sogghignante creatura dalla faccia di topo, mosso dall’impulso di far tacere Monel, di cancellargli dalla faccia quel sorriso maligno, di chiudere per sempre quegli occhi malevoli.

Magda lo fermò con una parola. — Linc!

Lui rimase lì, in bilico sui talloni, combattuto fra il desiderio di fracassare Monel e di far sua Magda.

— Vattene in pace, Linc — ordinò lei.

E improvvisamente il sorriso di Monel svanì, per lasciare il posto a un’espressione di delusione rabbiosa. Ah, è così! pensò Linc. Vuole che lo aggredisca. Allora le guardie si precipiterebbero a soccorrerlo e mi arresterebbero per aver compiuto un atto di violenza.

Al fuoco della collera si sostituì un gran gelo. Linc rimase incerto per qualche attimo, poi disse a Monel: — So quello che va fatto. Tutto quello che tu hai da offrire alla nostra gente è la morte. E io ti dimostrerò, lo dimostrerò a tutti, quello che vuole Jerlet. Ve ne darò la prova.

— In che modo? — chiese Monel in tono minaccioso.

Linc lo ignorò e disse a Magda: — Convoca una riunione generale. Medita, e chiedi a Jerlet che ti ispiri. Ti dimostrerà che possiamo raggiungere il nuovo mondo. Ti mostrerà quel mondo e ti dirà cosa dobbiamo fare per arrivarci. — Se riesco a tornare nel regno di Jerlet e inserire i nastri giusti da proiettare sugli schermi.

— Non ci saranno riunioni — dichiarò Monel.

— Ne parlerò io agli altri. Vorranno sicuramente avere la possibilità di vedere la prova — disse Linc. — La sacerdotessa non può impedire a nessuno di farsi ascoltare.

— È vero — ammise Magda. — Se vogliono una riunione, io non posso rifiutare. È il mio dovere di sacerdotessa.

— Dopo la prossima giornata di lavoro — le disse Linc — raduna la gente perché possa vedere la prova di Jerlet.

Magda annuì con un cenno appena percettibile. Monel schiumava di rabbia.

Linc aprì la porta e uscì nel corridoio diretto al suo alloggio.

Non dovrebbe esser difficile rimettere a posto le antenne pensava camminando. Jerlet mi ha mostrato come si fa e nel computer ci sono tutte le informazioni che mi occorrono. Così potrò trasmettere e proiettare i dati di Beryl sugli schermi, qui, anche se i canali normali sono interrotti.

Ma il sonno aveva le sue pressanti esigenze. Quando fu arrivato nel suo vecchio alloggio capì che non avrebbe potuto fare a meno di riposare per qualche ora.

Si addormentò non appena si fu sdraiato sulla cuccetta, sprofondando in un sonno senza sogni. Fu svegliato da qualcuno che lo scuoteva per la spalla.

— Linc… svegliati. Per favore. Svegliati.

Barcollò fra la nebbia, mettendo lentamente a fuoco la vista, con uno sforzo enorme. Era così bello dormire, scivolare nel caldo oblio…

— Linc, ti prego. Svegliati!

Riuscì ad aprire gli occhi.

Jayna stava china su di lui con espressione terribilmente preoccupata.

— Co… cosa succede? — le chiese lui mettendosi a sedere sulla cuccetta.

Jayna si scostò una ciocca dalla fronte. Linc notò che era graziosa. Capelli biondi e occhi azzurro ghiaccio. Come l’oro e l’azzurro di Baryta e di Beryl, salvo che lei gli era così vicina che poteva toccarla, calda e viva.

— Cosa succede? — chiese di nuovo.

Lei diede un’occhiata nervosa alla porta che dava nel corridoio. Era chiusa, ma dall’espressione della ragazza si sarebbe detto che lei temeva d’essere stata vista entrare da Linc.

— Sei in pericolo — disse con la sua voce acuta da bambina. — Monel vuole scacciarti.

— Non è una novità — borbottò lui, infilando i piedi nelle scarpe.

— No, non capisci. Vuol farlo adesso, durante il turno di lavoro. Prima della riunione.

— Che ora è?

— Fra poco inizierà il primo pasto.

— Ho parecchie cose da fare.

Jayna si lasciò cadere in ginocchio davanti alla cuccetta. — Linc, ti prego, ascoltami. Monel vuole scacciarti. Non vuole che tu partecipi alla riunione. Ti vuole morto.

Linc la guardò. Pareva davvero spaventata. — Come lo sai? E perché…

— L’ho sentito ordinare alle guardie di venirti a prendere e portarti nel compartimento della morte. Ti aspettano in refettorio. Se non ci vai, verranno qui loro.

Linc si alzò, e Jayna lo imitò. — Puoi nasconderti nella mia stanza. Non verranno mai a cercarti là.

Era una trappola? — Prendi il casco — le disse, — io porterò il resto della tuta. — Raccolse i vari componenti della tuta pressurizzata, flosci e inerti. Le bombole d’ossigeno erano pesanti ma Linc se le mise in spalla trattenendo le cinghie con una mano.

— Svelto! — lo incitò Jayna.

— Gli stivali… puoi portarli tu? — Era piccola e fragile, ma… Linc lo notò solo in quel momento, tanto più dolce e tenera di Magda.

Lei corse a prendere gli stivali e si infilò il casco sotto il braccio.

Linc socchiuse la porta e sbirciò fuori. Qualcuno passava nel corridoio, ma non si vedeva nessuna guardia.

— Vieni — le disse avviandosi.

— La mia stanza è nell’altra direzione.

Linc fece un gesto brusco. — No, andiamo di qua. Andiamo verso il compartimento della morte.

Lei sembrava ancora più terrorizzata, ma non fece obiezioni. Senza parlare, arrivarono di corsa al portello. Non incontrarono nessuno.

Linc cominciò a indossare la tuta. Mentre chiudeva maniche e gambe a tenuta d’aria, chiese a Jayna: — Perché mi hai avvertito? Credevo che tu fossi la ragazza di Monel.

— Non potevo permettere che ti facesse del male. E poi… — la faccia da bambina aveva un’espressione triste, offesa. — E poi non è vero che s’interessa a me. Gl’importa solo di Magda. Diceva che mi avrebbe nominato sacerdotessa, invece sta sempre con lei.

— Ascolta — le disse Linc. — È meglio che tu vada in refettorio a mangiare insieme agli altri. Comportati come se tutto fosse normale, altrimenti Monel e le sue guardie capiranno che mi hai avvertito.

— Oh! Non ci avevo pensato! — esclamò lei, spaventata.

— Va’… non preoccuparti per me. Andrà tutto bene.

— Sei proprio sicuro?

Lui annuì e lei, esitando ancora, gli porse il casco.

— Grazie — disse Linc.

Di scatto, lei gli gettò le braccia al collo e lo baciò: — Non permettere che ti facciano del male — sussurrò, e prima che Linc potesse rispondere si avviò di corsa verso il refettorio.

Ancora sorpreso e perplesso, Linc si strinse nelle spalle, poi premette i pulsanti per aprire il portello. Non c’era nessuno nei dintorni, ma era comprensibile perché il compartimento della morte era l’ultimo posto dove le guardie di Monel sarebbero andate a cercarlo. Per loro era un posto spaventoso, il locale dove si mettevano i morti prima di lanciarli nel buio esterno. Nessuno ci andava, se non per necessità.

Linc infilò il casco, collegò le bombole dell’ossigeno e controllò la pressione. Poi entrò nel compartimento, ed eseguì il resto delle operazioni necessarie. Il portello interno si chiuse, quello esterno si aprì e l’aria venne pompata nei serbatoi dietro le paratie metalliche, per essere immessa di nuovo nel compartimento a ciclo compiuto. Le luci passarono dal giallo al rosso e il portello esterno si aprì.

Linc si ritrovò un’altra volta all’esterno della nave. Adesso, però, non procedette con la stessa cautela di prima. Sapeva di avere il tempo contato e di dover arrivare al più presto al mozzo. Mancavano dieci ore scarse alla prima riunione che si sarebbe tenuta dopo l’ultimo pasto. Meno di dieci ore per arrivare, cercare e trovare i nastri adatti e inserirli nel sistema di comunicazione.

Posso farcela continuava a ripetersi. So di potercela fare.

Provò una strana sensazione nel rientrare nel regno di Jerlet. I mesi che vi aveva trascorso gli sembravano improvvisamente un sogno, un parto della sua fantasia. Non c’è da meravigliarsi se gli altri non mi credono dovette constatare.

Quasi non ci credo nemmeno io.

Si tolse la tuta, e si mise al lavoro.

Impiegò ore. I nastri in cui le immagini di Baryta e di Beryl erano commentati dalla voce di Jerlet erano pochi, e non ce n’era uno in cui comparisse l’immagine del vecchio. Linc scovò alcuni vecchi nastri con immagini della Terra e dei suoi abitanti, i loro antenati. Scelse anche un nastro in cui la Terra era ripresa da bordo della nave. È identica a Beryl pensò.

Quando finalmente gli parve di aver messo insieme i nastri che riteneva utili, li programmò nel sistema di comunicazione. Poi, fradicio di sudore, rientrò nel compartimento stagno, e s’infilò di nuovo la tuta con tutti gli accessori. Una volta fuori controllò l’antenna. Gli parve a posto. Il pannello di controllo inserito accanto alla piccola antenna parabolica si accese illuminandosi di una forte luce verde quando Linc premette i pulsanti della sua tastiera.

E poi, via di corsa per tornare alla Ruota Viva. Incurante del pericolo, Linc procedette a balzi di dieci e più metri, finché l’assenza di gravità glielo consentì, ma poi dovette per forza rallentare anche se cercò di affrettarsi al massimo. Impiegò parecchi, snervanti minuti per trovare l’antenna di ricezione al primo livello. Era situata proprio dalla parte opposta del compartimento stagno. Comunque riuscì a trovarla e a metterla in funzione, e mandò un gran sospiro quando il piccolo schermo s’illuminò di una luce verde.

Tutto sistemato. Vedranno coi loro occhi come stanno le cose. Mi rimane solo da fare in modo che Magda acconsenta ad accendere lo schermo. Quando chiamerà Jerlet perché la guidi, tutti vedranno il nuovo mondo e le altre cose che ho programmato.

Solo allora si accorse di essere esausto. Con grande fatica fece il giro della ruota e tornò al portello. Prima di entrare nel compartimento si fermò a guardare le stelle che compivano i loro eterni giri seguendo la rotazione della nave. Sarebbe così facile lasciarsi andare. Così facile dimenticare tutto e lasciarsi andare alla deriva nel vuoto. Fluttuare per l’eternità nel firmamento.

Ma mentre guardava le stelle gli tornò in mente l’immagine di Monel che si stringeva a Magda con aria possessiva, come se ne fosse il padrone. E lei l’aveva lasciato fare! Non aveva l’aria felice, ma lo aveva lasciato fare.

Linc era confuso. Magda e Monel… Jayna che lo avvertiva… tutti i valori erano sovvertiti.

Mentre la nave compiva il suo ampio arco, la stella gialla salì oltre la curva della ruota metallica. Il visore del casco di Linc si oscurò automaticamente ma il bagliore era tale che lui dovette socchiudere gli occhi e distogliere lo sguardo.

Può portarci la morte se ci avviciniamo troppo. Ma può invece darci la vita se agiamo nel modo adatto.

E allora capì che non si sarebbe mai lasciato andare alla deriva nell’oblio della morte, anche se questo gli avrebbe consentito di vivere i suoi ultimi istanti fra gli splendori dell’universo. Avrebbe lottato solo per la vita.

Aprì il portello ed entrò nel compartimento. Premette i pulsanti, il portello esterno tornò a chiudersi e le pompe nascoste dietro le paratie metalliche entrarono in funzione. Linc le sentiva vibrare sotto i piedi. L’aria cominciò a entrare con un sibilo. Le luci sul pannello dei comandi passarono dal giallo al verde e il portello interno si aprì.

Monel e le sue guardie lo aspettavano sulla soglia.

— Buonasera — disse ironicamente Monel. — Sono contento di non aver aspettato qui per niente mentre gli altri mangiavano. Però ero convinto che tu tornassi più presto.

— Spiacente di averti fatto aspettare — rispose Linc sfilando il casco. — Ho avuto parecchio lavoro da sbrigare.

— E adesso hai finito? Sei pronto per la riunione?

— Sì. Quando comincia?

— Fra poco. — Sembrava che il colloquio lo divertisse. Sorrideva apertamente quando disse: — Peccato che tu non vi parteciperai.

— Non puoi impedirmelo.

Monel scoppiò a ridere e sollevò la destra e indicò qualcosa alle spalle di Linc. Prima che questi potesse voltarsi, le guardie gli immobilizzarono le braccia sui fianchi. Qualcuno sfibbiò le cinghie delle bombole d’ossigeno che caddero a terra con un tonfo.

Monel teneva in grembo il casco.

— Sarà mio triste dovere organizzare una spedizione per cercarti — disse con aria compiaciuta. — Sai, quando la riunione avrà inizio e tu mancherai, la gente comincerà a preoccuparsi. Noi troveremo questo casco qui in corridoio, vicino al portello del compartimento della morte. Qualcuno lo aprirà, e ti troverà lì dentro, morto. Che disgrazia! Ma sono cose che succedono a chi tocca le macchine. Servirà di lezione a tutti.

Linc era talmente furibondo che non trovava la voce.

Le guardie aprirono il portello e lo spinsero nel compartimento. Linc cadde sul pavimento come un mucchio di stracci. Non aveva fatto ancora in tempo a rialzarsi che il portello si richiuse. La luce sul pannello passò al giallo. Le pompe entrarono in azione, aspirando l’aria.

XIV

Linc si rialzò faticosamente e si precipitò al pannello dei comandi. Niente da fare. Monel era riuscito in qualche modo a disattivarlo. Ma al di sotto delle spie luminose e dei pulsanti che servivano a regolare il ciclo di apertura e chiusura dei portelli, c’era un pulsante rosso contrassegnato dalla scritta: INTERRUZIONE D’EMERGENZA.

Jerlet gli aveva spiegato che l’interruzione avrebbe interrotto le operazioni in corso e il compartimento si sarebbe riempito nuovamente d’aria.

Linc premette il bottone. Niente. Le pompe continuavano a pulsare e il sangue pulsava con lo stesso ritmo nelle orecchie di Linc.

Monel ha manomesso i comandi. Ha toccato le macchine!

Ma questa constatazione non gli era certo d’aiuto.

Cominciava già a risentire gli effetti della mancanza d’aria. Barcollando si accostò al pannello dietro il quale erano installate le pompe e le bombole di ossigeno. Premette il pulsante della chiusura a scatto e il pannello scivolò a terra con un tonfo. Nel compartimento era appesa una tuta. Linc afferrò il casco e se lo calcò in testa. Conteneva aria sufficiente a consentirgli un rapido respiro. Sbattendo le palpebre per scacciare le macchie nere che gli oscuravano la vista vide che sulla paratia erano stampate delle istruzioni sotto la scritta:PROCEDURA D’EMERGENZA.

Benedicendo in cuor suo Jerlet che gli aveva insegnato a leggere, afferrò il tubo che usciva da una bombola d’ossigeno e lo collegò al collare del casco. L’aria che affluì era fredda e sapeva di stantio, ma era respirabile.

Linc si affrettò a chiudere a tenuta stagna il casco, afferrò le bombole della tuta d’emergenza e se le affibbiò alla schiena e alla fine staccò il tubo. Adesso era completamente equipaggiato e poteva affrontare senza pericolo il vuoto. Si voltò e vide che la luce gialla era ancora accesa. Mentre rimetteva a posto il pannello che aveva staccato, la luce passò al rosso e il portello esterno cominciò ad aprirsi.

Se resto qui mi riprendono e siamo daccapo pensò. Aveva una sola via di scampo: uscire nel vuoto.

Afferrò l’orlo del portello e uscì, fermandosi poi finché il portello non tornò a chiudersi. Gli sarebbe piaciuto vedere la faccia di Monel quando avrebbero riaperto il compartimento senza trovarlo. Avrebbero pensato che era stato risucchiato nel vuoto o Monel avrebbe intuito che era riuscito a fuggire? In entrambi i casi, Monel avrebbe lasciato un paio di guardie al portello interno, casomai lui avesse cercato di rientrare.

Il breve sonno non era stato sufficiente a ristorarlo, ma il flusso dell’adrenalina e l’odio lo spronavano dandogli nuove energie. Adesso lottava per la sopravvivenza.

S’incamminò con circospezione sulla passerella che correva lungo la superficie esterna della Ruota. Alla luce di Baryta che «sorgeva» oltre la curva della Ruota stessa, Linc poté vedere che il metallo della nave era segnato da buchi e ammaccature, segni lasciati dal tempo e dalle enormi distanze percorse dalla nave.

Qua e là c’erano fori più grossi, veri e propri squarci, e Linc poté capire perché alcune sezioni della Ruota Viva fossero chiuse. Erano inabitabili. Manca l’aria. È sfuggita attraverso i buchi.

Attraverso uno di quegli squarci, Linc vide una stanza con alcune scrivanie inchiavardate al pavimento, con uno schermo inserito nel ripiano.

E poi, alla luce di Baryta scorse il metallo scintillante di un portello. Con un profondo sospiro di gioia e di sollievo, si precipitò più in fretta che poteva verso di esso. Ma il portello rifiutò di aprirsi. Invano premette più volte i pulsanti dei comandi. Poi ricordò che Jerlet gli aveva detto che, per i casi d’emergenza, si poteva aprire il portello a mano, sollevando una pesante maniglia. Ma anche quella rifiutò di muoversi.

Linc aveva voglia di piangere. Accovacciato sulla passerella guardò Baryta scomparire lentamente. Le stelle fissavano impassibili la figura solitaria, esausta e spaventata del giovane che sentiva sfuggire poco a poco il calore della vita dal suo corpo.

Poi Linc ricordò… Lo squarcio. Forse posso entrare da quella parte. Tornò sui suoi passi finché non raggiunse il foro dagli orli frastagliati. Era largo a sufficienza da consentirgli di passare a stento. Pregando che qualche punta non lacerasse il tessuto della tuta, Linc s’infilò nello squarcio e posò i piedi sul pavimento metallico della stanza. La tuta era intatta.

Sono entrato, ma a che cosa serve se non riesco a uscire da questa stanza?

Il locale aveva due porte, come poté vedere alla luce della lampada fissata al casco. Una, che probabilmente dava su un corridoio, era pesante e a tenuta d’aria, come tutte le porte che davano nei corridoi. L’altra, su una parete laterale, pareva più leggera, ed era di plastica invece che di metallo.

Linc cercò di aprirla, ma inutilmente. Ci si appoggiò e il battente cedette un poco. Allora arretrò e poi sferrò un violento calcio con la pesante suola dello stivale.

La porta si spaccò e lui passò nel varco.

E si trovò nel Posto dei Fantasmi.

Rabbrividì involontariamente. I fantasmi erano muti e immobili con le facce congelate in espressioni di orrore. Avevano la bocca aperta, gli occhi sbarrati, i corpi reclinati o afflosciati. Tenevano le mani sui pannelli dei comandi, e alcuni stavano ancora aggrappati ai portelli d’uscita. I più, però, sedevano ai loro posti di lavoro, davanti a strumenti per lo più morti come loro. Linc notò che solo alcuni schermi emettevano ancora una debole luminosità.

Linc notò che due fantasmi guardavano verso l’alto e seguendo la direzione dei loro occhi ciechi vide che lassù c’erano dei tubi che si erano spaccati e pendevano spezzati dai supporti. Dai colori, ormai sbiaditi, Linc capì che una volta quei tubi contenevano ossigeno ed elio liquido.

Devono essere morti, congelati nella posizione in cui si trovavano quando la cosa che ha provocato lo squarcio nel locale vicino ha spezzato i tubi.

E improvvisamente non pensò più a loro come ai Fantasmi. Erano persone, come lui, come Jerlet, come Stav o Magda o Jayna e tutti gli altri, Persone in carne ed ossa che erano morte al loro posto nel tentativo di salvare la nave invece di scappare.

Linc non aveva più paura. Ma aveva gli occhi pieni di lacrime pensando che quella gente aveva dato la propria vita perché la nave potesse continuare a vivere.

Attraversò lentamente la plancia, fra i morti, diretto al portello che dava sul corridoio esterno. Hanno protetto il ponte con portelli a tenuta stagna perché una perdita d’aria all’esterno non potesse danneggiare il personale in servizio. E poi il disastro si è verificato proprio qua dentro.

Il portello, sigillato dal gelo, non si apriva, ma Linc ricordò che sul ponte di comando c’erano svariati utensili. Trovò un saldatore a laser portatile, lo inserì nell’impianto d’energia e sorrise soddisfatto quando constatò che funzionava. Regolandolo al minimo, diresse il sottile raggio rosso verso i meccanismi del portello. Il metallo scricchiolò, cigolò e finalmente, dopo molti tentativi, la maniglia cedette e Linc poté entrare nel compartimento fra i due portelli. Chiuse quello interno e aprì quello esterno. Immediatamente una folata d’aria tiepida si riversò dal corridoio nel compartimento.

Linc superò la soglia e si ritrovò nel corridoio che gli era familiare. Si avviò verso la biblioteca augurandosi che la riunione fosse ancora in corso, e mentre camminava si tolse il casco e agganciò il saldatore alla cintura della tuta.

Il corridoio era deserto, segno che si trovavano tutti in biblioteca, alla riunione. Linc arrivò al suo alloggio e gli balenò un’idea. Entrò e guardò il piccolo schermo inserito nella parete sopra la cuccetta. Nessuno l’aveva mai toccato, fin da quando lui era bambino. Chissà se funzionava.

Sfilò i guantoni della tuta e premette il pulsante di accensione. Lo schermo si illuminò. Provò altri pulsanti e comparvero immagini di altre stanze vuote. Finalmente, quando stava per rinunciare, sullo schermo comparve l’immagine della biblioteca, piena di gente.

— Non si è ancora fatto vedere — stava dicendo Monel, seduto accanto alla scrivania su cui troneggiava Magda. — Ha paura della verità. Paura di dover ripetere davanti a tutti le sue assurde storie.

Dalla folla si levò un mormorio, alcuni gruppetti cominciarono a discutere animatamente.

— Per quanto tempo dobbiamo aspettarlo ancora? — chiese Monel a Magda.

Lei lo guardò dall’alto del suo seggio e rispose: — Non è da Linc scappare.

Se Monel sentì una vena di rimprovero in queste parole non lo diede a vedere. — Linc ha detto che dovevamo chiedere consiglio a Jerlet — insistette. — Io propongo che lo chiamiamo subito per vedere cos’ha da dirci. Altrimenti sciogliamo la riunione. Linc ormai non arriverà più. Ha paura della verità di Jerlet.

Sorridendo alla tenue luce emanata dallo schermo, Linc premette i pulsanti che attivavano i nastri del computer che aveva programmato. Immediatamente tutti gli schermi della Ruota Viva, compreso quello enorme della biblioteca, si accesero, e comparve un’immagine della vecchia Terra, tutta azzurri vividi e bianchi abbaglianti sullo sfondo nero dello spazio.

— Questa è la Terra, il mondo da cui proveniamo tutti noi… — disse la rauca, inconfondibile, voce rimbombante di Jerlet.

Alla prima immagine se ne sostituì una di un’antica città terrestre. E Jerlet disse: — Non so bene che città sia questa, ma non ha importanza. Erano tutte pressappoco uguali… — Si vedeva una quantità enorme di gente e il frastuono era assordante. Il cielo era scuro, quasi sporco. Milioni di persone e di veicoli s’incrociavano lungo le arterie della città.

Poi seguirono vedute di montagne, fiumi e mari in tempesta. E la voce di Jerlet continuava: — Questo è il mondo in cui abbiamo avuto origine, da dove sono venuti i nostri antenati, dove è stata costruita questa nave. Un tempo era bello, ma poi si guastò. I nostri antenati partirono a bordo di questa nave… pare che fossero stati cacciati da gente malvagia, anche se erano contenti di lasciare la Terra piena di dolore e di malvagità. Erano venuti fra le stelle a cercare un nuovo mondo dove poter vivere felici e sereni.

La scena tornò a cambiare e si vide un’immagine telescopica di Beryl. — Questo è il nuovo mondo — disse Jerlet. — Potremo raggiungerlo, con un po’ di fortuna. Ma se vogliamo arrivarci dovremo lavorare sodo…

Linc lasciò casco e guanti sulla cuccetta e si avviò alla sala delle riunioni.

XV

Mentre percorreva il corridoio con la pesante tuta azzurra, per un attimo Linc si sentì ridicolo. Non aveva nemmeno sfilato le bombole, solo il casco e i guantoni. Ma poi pensò: Bisogna che li colga di sorpresa, e se la vista della tuta li lascia senza fiato, tanto meglio. È necessario che restino impressionati.

Si accertò che il saldatore a laser fosse inserito nella presa di alimentazione della tuta. Se Monel fa un solo gesto per scatenarmi contro le sue guardie, gli brucio le ruote della sedia.

Arrivato alla porta a doppio battente della biblioteca si fermò a sbirciare attraverso una delle finestrelle scolorite. La sala era zeppa, e tutti, Magda compresa, tenevano gli occhi fissi sul grande schermo a muro. Allora, cercando di non far rumore, socchiuse un battente e scivolò non visto nella sala.

Lo schermo mostrava diagrammi tecnici della nave. Alcune parti erano sottolineate da cerchi gialli intermittenti, e la voce di Jerlet stava dicendo: — La chiave di tutta questa maledetta faccenda è il ponte. Il computer dell’astronavigazione e tutti gli altri strumenti sono là. Non si può correggere la rotta finché non sapremo con precisione qual è la nostra posizione esatta rispetto a Beryl e a Baryta. E quando dico «esatta» intendo con la precisione della lunghezza d’onda del laser, figliolo.

Linc sorrise fra sé. Gli pareva di rivedere la figura, quasi grottesca, del vecchio, e l’intensità del suo sguardo mentre cercava di inculcargli il suo punto di vista. Non riesco ancora a credere che sia morto pensò Linc. Ma ancora più difficile era capire come potesse essere congelato nello stesso modo dei fantasmi in plancia, eppure avesse la possibilità di tornare in vita.

— Il sistema di propulsione a razzi dovrebbe essere in ordine. Li avevamo controllati e messi a punto mentre voi ragazzi eravate in incubazione — continuò la voce rombante di Jerlet. Sullo schermo, alcune frecce rosse indicavano i punti in cui erano installati i razzi. — Tu devi controllare che tutti i collegamenti siano perfettamente a posto, così, quando il computer ordinerà che vengano accesi tutti i razzi, non succederanno guai. Per farlo dovrai uscire all’esterno…

Seguirono altre immagini accompagnate dalle spiegazioni dell’inconfondibile voce di Jerlet, che si conclusero con un’altra veduta di Beryl.

— Questo è il nuovo mondo, Linc — disse il vecchio. — Il tuo mondo. Tuo e degli altri ragazzi. Sta a te condurceli sani e salvi.

Poi lo schermo si spense.

Nessuno si mosse. Continuavano tutti a fissare a bocca aperta lo schermo, pieni di reverente timore.

— E io ho intenzione di eseguire gli ordini di Jerlet! — disse con voce alta e ferma Linc.

Si voltarono tutti di scatto verso di lui. Magda si coprì la faccia con le mani. Una ragazza urlò. Monel si accasciò sulla sedia.

A passo volutamente lento, Linc si aprì un varco fra l’uditorio sbalordito, fino al trono dove sedeva Magda.

— Non sono morto — disse poi voltandosi. — E non ho paura di affrontarvi. Ho vissuto a lungo con Jerlet che mi ha incaricato di tornare fra voi perché vi aiuti a raggiungere il nuovo mondo.

Jayna, che sedeva in prima fila, era raggiante. Nessuno parlò. Tutti lo fissavano muti, trattenendo il respiro.

— Avete visto le immagini sullo schermo — proseguì Linc. — Un nuovo mondo ci aspetta. Un nuovo mondo grande e libero dove non avremo problemi di cibo, di caldo o d’altro.

— Ma è proprio vero? — chiese qualcuno.

— È possibile?

— È vero — confermò Linc. — L’ho visto coi miei occhi. Il nuovo mondo esiste realmente. Si chiama Beryl. È stato Jerlet a dargli questo nome.

— E noi ci arriveremo?

— Sì… se ripariamo le macchine.

— È proibito! — gridò Monel.

Qualcuno si associò alla protesta.

— Non più — precisò Linc. — Jerlet ci proibì di toccare le macchine quando eravamo bambini, troppo piccoli per capire quello che facevamo. Adesso vuole che le ripariamo, perché solo così non moriremo.

Monel spinse la sua sedia verso di lui. — Come facciamo a sapere che era veramente Jerlet che parlava? Non lo abbiamo visto. E tu ci hai detto che è morto.

— È morto ma un giorno tornerà in vita. Ci ha lasciato quelle parole e quelle immagini per insegnarci, per mostrarci cosa dobbiamo fare.

— Perché non ci ha parlato direttamente quando era ancora vivo? — chiese qualcuno.

— E tutte quelle chiacchiere sulla necessità di mettere a punto i macchinari sul ponte di comando — aggiunse Monel. — Quello è il Posto dei Fantasmi. Come può pretendere Jerlet che qualcuno possa andarci? È un posto di morte.

— Io ci sono andato poco fa e non sono morto — disse Linc.

Questa dichiarazione li sbalordì al punto che i più vicini si scostarono e anche Monel fece arretrare la sua sedia. Dalla folla si levò un mormorio di sorpresa mista a paura.

— Vi ripeto che tutta questa paura delle macchine è assurda — gridò Linc esasperato. — Sapete come ci giudicava Jerlet? Diceva che eravamo un branco di idioti superstiziosi. Si vergognava di noi.

Gli altri borbottarono scuotendo la testa increduli.

— Come facciamo a sapere che dici la verità? — insistette Monel. — Solo perché tu dici di essere stato con Jerlet, di essere andato nel Posto dei Fantasmi…

Senza accorgersene, Linc aveva impugnato il saldatore. — Questo abito me l’ha dato Jerlet. Qualcuno di voi aveva mai visto niente di simile?

— No…

— E questo… — sollevò il saldatore perché tutti potessero vederlo. — L’ho preso sul ponte di comando. Il Posto dei Fantasmi. Guardate.

Puntò l’utensile verso uno dei pochi libri squinternati rimasti sugli scaffali e premette il pulsante. Un sottilissimo raggio rosso scaturì dal saldatore, e il libro prese fuoco.

Un mormorio di spavento si levò dagli astanti.

Linc spense il laser e disse a una delle guardie di Monel: — Spegni il fuoco prima che si propaghi. — La guardia esitò un attimo, poi andò a spegnere il libro che bruciava con uno straccio.

— Ho vissuto con Jerlet — ripeté Linc. — Sono stato nel Posto dei Fantasmi. Le vostre paure sono sciocche. Dovete smetterla di comportarvi come bambini e cominciare a darvi da fare perché possiamo salvarci e raggiungere il nuovo mondo.

— No.

Linc si voltò. Era stata Magda a parlare.

— Sbagli — riprese lei. — Hai frainteso. Forse credi veramente di fare quello che vuole Jerlet, ma ti sbagli.

— Io ho vissuto con lui!

La faccia di Magda era una maschera di pietra. — Non ci sono prove. Dici che Jerlet è morto ma che rivivrà. Dici che è stato Jerlet a pronunciare le parole che sono uscite dallo schermo, ma lui non si è fatto vedere. Ci inciti a riparare le macchine, ma Jerlet in persona ci ha detto che non le dobbiamo toccare.

Così dicendo premette un bottone giallo sulla scrivania su cui stava seduta.

Lo schermo tornò ad illuminarsi e comparve la faccia di Jerlet. Linc sapeva che quella era un’immagine di Jerlet ancora giovane, che aveva registrato un nastro per loro, quando erano ancora bambini.

— Ho cercato di sistemarvi nel miglior modo possibile — ripeté il nastro come aveva già fatto infinite altre volte.

Linc guardava lo schermo in preda a una collera furibonda. Come posso far capire a questi imbecilli, come posso convincerli?

— …e ricordate le regole che ho dettato per il vostro bene — stava dicendo Jerlet. — Soprattutto non toccate le macchine…

Magda si voltò verso Linc. — Ecco Jerlet. È ancora vivo. Ci parla quando io, la sacerdotessa, lo chiamo — disse. La sua bocca era ridotta a una linea tesa, sottile, e gli occhi bruciavano di cosa? Paura? Dolore? Odio?

Mentre Jerlet continuava a parlare, Magda alzò la mano e puntò l’indice verso Linc. — Quello che ci hai detto è falso!

Quasi senza rendersene conto, Linc afferrò il laser e lo puntò verso lo schermo. Il sottile raggio rosso lo fece esplodere in mille frammenti di plastica. La folla urlò.

— Sbagliate! — gridò Linc agitando il laser. — Siete una massa di idioti superstiziosi. Jerlet aveva ragione. Bene, io andrò lo stesso sul ponte di comando a riparare le macchine. Mi arrangerò da solo, se non posso fare diversamente. E che nessuno provi a fermarmi!

Nessuno si mosse mentre usciva a lunghi passi dalla sala, né per fermarlo, né per offrirgli il suo aiuto.

XVI

Linc sbatté il saldatore sulla scrivania in un impeto di rabbia.

Stava in piedi davanti allo schermo del ponte collegato col computer. I pannelli di accesso al complicato macchinario erano aperti e Linc guardava desolato l’ammasso dei rottami aggrovigliati. Qualcosa aveva spezzato i circuiti, fuso i collegamenti con la tastiera, distrutto i transistor miniaturizzati.

— Che disastro! — mormorò Linc.

Due servomeccanismi stavano impassibili dietro di lui, grossi cubi di metallo sormontati da una cupoletta che conteneva i sensori, e dotati di rotelle per spostarsi. Tenevano le braccia snodate di metallo penzoloni lungo i fianchi. Sebbene fossero stati di grande aiuto a Linc in altri lavori, non erano in grado di aiutarlo a riparare il computer.

Linc ricordava come tutti se la fossero data a gambe in preda al terrore, nel corridoio, quando i primi servomeccanismi erano usciti dal portello del tubo-tunnel avviandosi calmi e decisi verso il ponte di comando mentre Linc li guidava via radio.

Adesso devo mandarne uno su nel mozzo a prendere altri pezzi di ricambio disse Linc fra sé. Nel corso dei mesi da che si era messo al lavoro, aveva mandato diversi servomeccanismi su nel mozzo, ma non tutti avevano trovato la via del ritorno.

— Be, non resta altro che provare — disse alla più vicina delle macchine. — Spero che in magazzino ci siano parti di ricambio sufficienti.

Da mesi, ormai, i servomeccanismi erano i suoi unici interlocutori. Parlava solo con loro, ma c’era poco gusto a parlare con qualcuno che ubbidiva agli ordini ma non rispondeva mai.

Programmò il servomeccanismo e la macchina si avviò ubbidiente verso il portello, sollevò il braccio snodato per manovrare i pulsanti che l’aprivano, e uscì.

Linc inarcò la schiena indolenzita. Lo schermo principale del ponte era messo a fuoco su Baryta. Il sole giallo non era più soltanto una stella luminosa. Era diventato un disco così abbagliante che anche attraverso i filtri abbacinava gli occhi. Vicino a Baryta era sospesa una stella azzurrina: anche Beryl era visibile a occhio nudo. Ma nessuno era venuto a dirgli che aveva visto Beryl. Nessuno era venuto a dirgli che credeva a quanto aveva detto.

— Lasciamoli a meditare e a morire di paura — borbottò mentre si avviava stancamente verso l’alloggio che si era fatto allestire dai servomeccanismi. Aveva la voce rauca, gracchiante, tanto poco aveva parlato negli ultimi tempi.

Comincia a somigliare a quella di Jerlet pensò.

Guardò il portello a tenuta stagna che dava sul corridoio, mentre percorreva la lunga curva del ponte. Di tanto in tanto qualcuno sbirciava dentro attraverso il finestrino, o almeno così gli pareva. Ma forse non era vero. — Te li sei immaginati! — esclamò. — Vorresti che venissero da te e così immagini di vedere delle facce. Fra poco parlerai coi fantasmi…

Tutti avevano visto quando i servomeccanismi, diretti da lui, avevano portato i corpi nel compartimento della morte. Erano rimasti a guardare affascinati, in preda al terrore, e nessuno si era offerto di aiutarlo. Dopo il primo momento di sorpresa, se l’erano data a gambe ed erano corsi a chiudersi a chiave nei loro alloggi.

Il finestrino era buio, come sempre… ma… c’era una faccia! C’era davvero!

Linc si fermò a guardar meglio. La faccia era sempre lì. Non poteva distinguerne i lineamenti. Vide solo che era sormontata da una capigliatura bionda.

Dopo un attimo d’incertezza, Linc si avvicinò al portello. La faccia rimase dov’era.

Linc spalancò il portello. Dall’altra parte c’era Jayna, con un fagotto in mano.

— S… salve — gracchiò Linc.

Lei lo fissava con aria atterrita. Ma non scappò.

— Ti ho portato da mangiare — disse, con voce sottile e tremula.

Ha l’aria così spaventata pensò Linc. Spaventata e indifesa. E com’è carina!

— Grazie — le disse, prendendo il pacco.

— Sono già venuta altre volte, ma tu non mi hai mai visto.

— Avresti dovuto bussare.

— Oh, no… non volevo disturbarti!

— Sarei stato felice di avere un po’ di compagnia. Mi sento molto solo, qui, senza nessuno con cui parlare; salvo le macchine, che non rispondono.

— Oh.

Se ne stavano lì a guardarsi, impacciati, sulla soglia.

— Perché non entri a vedere quello che sto facendo? — propose Linc.

L’espressione impaurita si accentuò.

— Non devi aver paura — sorrise Linc. — Ho portato via i fantasmi e rimesso tutto a posto. — Allungò la mano, e dopo un attimo d’incertezza lei la strinse. Quel contatto morbido e caldo fu un dolce balsamo per lui.

Superarono la soglia, e Linc chiuse il portello.

— Monel e Magda sanno che sei venuta qui?

— No — rispose Jayna, — ma anche se lo sapessero non m’importerebbe. Stanno diventando matti tutti quanti. La stella gialla diventa sempre più grande e più calda, ma loro dicono che se lavoriamo sodo e meditiamo più a lungo se ne andrà. Invece non è vero!

— Ed è meglio che sia così — commentò Linc con un sorriso amaro. — Ci offre la nostra unica possibilità di sopravvivenza. Nessuno ha notato la stellina azzurra che le sta vicino?

— Sì, qualcuno. Però Monel dice che non esiste, che è un trucco fatto apposta per ingannarci.

— Uff! Quel «trucco» è Beryl, il nostro nuovo pianeta, se mai riusciremo ad arrivarci. — Si avviò lentamente verso la fila dei banchi allineati lungo tutta la paratia curva del ponte di comando, e depose il pacco su uno di essi.

— Un trucco, eh? E chi ne sarebbe l’autore? Monel ve l’ha detto?

— Sì… tu.

— Me lo immaginavo.

Poi mostrò alla ragazza le apparecchiature del ponte di comando, soffermandosi sugli strumenti e i sensori che aveva già riparato. Lei guardò ammutolita dalla meraviglia quando Linc fece apparire sugli schermi che correvano lungo la paratia curva immagini di Beryl.

— I sensori cominciano a darci informazioni sulla distanza, sui mutamenti di rotta che dobbiamo effettuare per poter raggiungere il nuovo mondo… — le spiegò, senza aggiungere che tutte quelle informazioni sarebbero state inutili se non fosse riuscito a riparare il computer astronavigatore.

Le mostrò il punto in cui i servomeccanismi avevano riparato lo squarcio nello scafo, nel locale attiguo (dalle piante della nave aveva imparato che quello era stato il salotto del capitano), locale che aveva poi adibito a suo alloggio personale. Non mise in funzione i servomeccanismi perché temeva che Jayna si spaventasse nel vedere quelle macchine muoversi silenziose sulle loro rotelle, agitando le braccia snodate in un lampeggiare di luci intermittenti.

Solo quando la visita fu terminata lei finalmente aprì la bocca esclamando: — È una meraviglia, Linc. Quello che hai fatto è meraviglioso… tu sei meraviglioso.

— Non hai più paura di me?

— No — rispose fissandolo coi dolci occhi azzurri. — Quando sono entrata avevo paura… ero venuta solo per portarti da mangiare. Non credevo davvero di avere il coraggio di entrare.

— Qui non c’è niente di cui aver paura.

Lei gli si avvicinò. — Adesso lo so. — Linc l’abbracciò istintivamente. Rimasero così a lungo, stretti l’uno all’altra, finché Linc non si sciolse con dolcezza dall’abbraccio.

— Sarà meglio che tu vada, prima che scoprano che sei venuta qui.

Jayna sollevò gli occhi, turbata. — Linc, lasciami rimanere qui con te.

— No — rispose lui con fermezza. — Non è possibile.

— Ti prego.

Come dotate di vita propria, le mani di Linc si tesero verso di lei, ma si fece forza e le ritrasse. — No — ripeté. — Devi tornare. Se rimani, Monel manderà le guardie a prenderti. Sarà la scusa che cerca per costringermi a smettere di lavorare.

— Hanno tutti paura di venire qui.

Come vorrei che restasse! Ma disse: — No, Jayna, non puoi. Torna e di’ pure che sei stata qui, se vuoi. Racconta quello che hai visto, quello che faccio. E di’ a tutti che ho intenzione di salvare loro la vita, che lo vogliano o no.

— Voglio aiutarti — insistette lei in tono supplichevole.

— Il miglior aiuto che puoi darmi è tornare a dire quello che hai visto.

Jayna fu lì lì per insistere, ma si trattenne e, senza aggiungere altro, abbassò lo sguardo e corse via.

Linc rimase immobile, come inchiodato al pavimento, guardandola uscire e allontanarsi di corsa per tornare dagli altri.

Idiota! si rimproverò. Lei non sa perché volevi che se ne andasse… e, dopo averci ripensato, ammise: E nemmeno io lo so.


Il tempo non esisteva più. Era solo un susseguirsi di lavoro interrotto dalle ore di riposo e dalle brevi pause dei pasti. Linc mandò un’infinità di volte i servomeccanismi nel mozzo. Imparò quanto gli era necessario sapere dagli schermi didattici del computer e molte cose le intuì da solo.

Jayna tornò altre volte, per brevi visite. Gli portava sempre del cibo, sebbene Linc la rassicurasse che non ne aveva bisogno perché i servomeccanismi gli portavano da mangiare in abbondanza dalla cucina automatica del mozzo. La ragazza non lo pregò più di farla restare, ma si limitò a velate allusioni, che Linc ignorò sistematicamente.

Beryl era sempre più luminosa, e Baryta divenne una sfera così abbagliante che era possibile osservarla solo coi filtri speciali dei telescopi e degli schermi. Finalmente Linc riuscì a rimettere in efficienza il computer navigatore e si dedicò al controllo dei comandi e del sistema di cavi che collegavano il computer ai razzi propulsori.

Fu allora che arrivò Stav.

Senza tanti complimenti, aprì il portello e chiamò con il suo vocione profondo: — Linc! Sono io, Stav!

Linc si trovava dalla parte opposta del ponte, intento a studiare un diagramma sullo schermo. Era il diagramma dei circuiti che portavano ai razzi.

Si precipitò verso il portello mentre Stav ripeteva: — Linc! Dove sei?… Sono io, Stav.

Linc gli arrivò alle spalle e si fermò di colpo, ansante: — Stav… — disse con voce rotta. Non sapeva cos’altro dire. — Io… è… mi fa tanto piacere rivederti, Stav — balbettò poi.

Un gran sorriso illuminò la larga faccia infantile di Stav. — Jayna mi ha detto che è stata qui e che non ci sono fantasmi. Mi sentivo stupido a non venire anch’io.

— Non c’è niente da temere.

— Già… l’ha detto anche Jayna. Così ho pensato di venire a dare un’occhiata.

Linc indicò con un largo gesto del braccio l’insieme delle apparecchiature e degli schermi. — Certo, guarda pure.

Stav si fece avanti, con le mani intrecciate dietro la schiena, fermandosi a guardare gli schermi degli strumenti. Funzionavano quasi tutti, ormai, e mostravano immagini di Beryl, dati, grafici, linee di diversi colori che indicavano il funzionamento dei generatori e delle altre macchine in funzione. Rimase particolarmente affascinato alla vista del computer con le sue luci intermittenti.

— Hai riparato le macchine — disse.

— Quasi tutte — precisò Linc. — Non è stato molto difficile. In genere si trattava di riparazioni di poco conto. Chi le ha costruite sapeva il fatto suo.

Stav annuì, ammirato.

— Mi servirebbe un po’ di aiuto — disse Linc.

Stav sporse le labbra dubbioso. — Monel non approverebbe.

— Non è cambiato?

— No. Casomai è peggiorato.

— Ah…

— Il sole giallo si avvicina ogni giorno di più, la paura cresce e Monel diventa sempre più matto. Al primo pasto dobbiamo metterci tutti in fila e se qualcuno non gli va lo sposta in fondo alla fila e magari lo lascia digiuno. Le sue guardie non ci perdono d’occhio un momento. Non è piacevole lavorare con qualcuno che sta a guardarti. Se cerchiamo di riposarci un momento urlano e ci lasciano senza mangiare.

— E voi li lasciate fare?

— Cos’altro potremmo fare? Per poco non ho strangolato una guardia, ma mi sono trattenuto pensando a quello che era successo al povero Peta. Non voglio essere cacciato via.

— E Magda?

— Non si fa mai vedere. Sta chiusa nella sua stanza. Monel dice che medita giorno e notte per salvarci grazie alla concentrazione mentale.

— Stav — disse Linc dopo un lungo silenzio, — la meditazione non ci salverà, e nemmeno Monel, qualunque cosa faccia. Io invece posso salvare la nave e noi tutti. So come fare per arrivare sul nuovo mondo. Quasi tutte le macchine hanno ripreso a funzionare, ma ho bisogno di aiuto per rimettere in sesto le altre.

— Vorresti che ti aiutassi io?

— Non solo tu. Tutti. Ognuno può rendersi utile. Va’ a riferirlo e di’ che solo aiutandomi potranno salvarsi.

Stav sbatté lentamente le palpebre. Tutti i suoi gesti erano lenti e ponderati. — Non tutti potranno venire. Qualcuno deve occuparsi dei serbatoi della fattoria.

— Chiunque verrà sarà il benvenuto. Stiamo lottando contro il tempo. È necessario che tutto sia perfettamente a posto prima che ci avviciniamo troppo al sole giallo. Altrimenti non riusciremo a sfuggire alla sua attrazione e non arriveremo mai sul nuovo mondo.

— D’accordo — promise Stav. — Andrò a riferire. Però, Monel e le sue guardie…

— Non potranno fermarvi, se sarete d’accordo.

Stav annuì lentamente, ma non sembrava convinto.

XVII

Linc passeggiava lentamente osservando gli schermi e gli uomini e le donne seduti ai banchi davanti agli strumenti. Era fiero e soddisfatto del lavoro compiuto.

La nave funziona alla perfezione si disse. La mia nave. Io le ho ridato la vita. Ha ripreso a funzionare grazie a me. Come avrebbe voluto che Jerlet potesse esser lì con loro a sentire il ronzio e il ticchettio dei macchinari, a vedere come gli altri avevano risposto al suo appello: prima Jayna, poi Stav, poi altri due e infine altri ancora. Adesso disponeva di manodopera sufficiente per svolgere tutte le operazioni necessarie. Nessuno sussultava più quando i servomeccanismi passavano rapidi e silenziosi vicino a loro. Avevano controllato il sistema di propulsione a razzi. Funzionava. I collegamenti erano solidi. Il computer aveva elaborato un piano di volo per portarli in orbita intorno a Beryl.

Resta solo da controllare il trasmettitore di materia, pensava Linc. Ma anche se ci vorrà del tempo per metterlo in funzione, una volta in orbita intorno a Beryl potremo farlo con tutto comodo.

Il computer principale, su nel mozzo, stava già elaborando i dati necessari e preparando un programma grazie al quale Linc avrebbe potuto riparare e provare il trasmettitore di materia.

Se Jerlet fosse qui, come sarebbe fiero di me! Ma Linc sapeva di non essere completamente sincero. La sola persona a cui avrebbe voluto mostrare quello che aveva fatto era Magda, ma lei non si era mai fatta vedere.

Monel, invece, era venuto.

Rosso in faccia, più magro e perfido che mai, era arrivato con sei guardie ed era rimasto ad osservare sogghignando con aria sprezzante gli uomini e le donne intenti ai compiti che Linc aveva assegnato loro.

— Non avrete niente da mangiare! — gridò furibondo. — Non pensate di poter mangiare dopo aver disobbedito ai miei ordini.

— Abbiamo macchine che ci procurano il cibo, nel mozzo e negli altri livelli — ribatté Linc. — I servomeccanismi ci riforniscono in abbondanza. Non moriremo di fame.

Monel aveva fatto fare dietrofront alla sua sedia e se n’era andato. Una delle guardie, un certo Rix, era rimasto con Linc. — È impazzito — disse, alludendo a Monel. — Preferisco restare con te.

Linc non disse a nessuno che i riciclatori non erano in grado di fornire viveri a un numero elevato di persone per un tempo indefinito senza essere riforniti di materiale fresco di tanto in tanto. Ma allora o saremo in orbita intorno a Beryl, o saremo morti.

Monel tornò dopo qualche giorno, minacciando di ordinare alle guardie di portar via le persone che lavoravano alle macchine anche con la forza, se necessario.

— Violenza? — disse Linc.

— Giustizia! — latrò Monel.

Linc si avvicinò a una tastiera e premette un pulsante. Un servomeccanismo sì avvicinò alla sedia di Monel e si fermò coi pulsanti che emettevano una luce rossa intermittente. Monel arretrò.

— Quelle braccia di metallo possono infliggere un bel po’ di giustizia a te e alle tue guardie — disse Linc.

Monel se ne andò. Né lui né le sue guardie si fecero più vedere.


Magda non si decideva a venire.

Potrei andare io da lei pensava Linc. No, è lei che deve venire da me, perché ha torto e io ho ragione.

E poi c’erano Jayna e parecchie altre ragazze disposte a stare con lui. Resti pure nel suo tabernacolo a meditare finché diventerà verde!

Quelli che venivano ad aiutarlo, tornavano a dormire nei loro alloggi e spesso a mangiare nel refettorio. Nonostante le proteste e le minacce, Monel non cercò mai di fermarli. Stav e gli altri lavoratori agricoli si facevano vedere di rado, ma Linc sapeva che erano dalla sua parte.

Linc dormiva in quello che era stato il salotto del capitano, adiacente al ponte di comando, e mangiava insieme a Jayna e alle altre ragazze che spesso venivano lì con lei.

In quel periodo passava la maggior parte del suo tempo a lavorare intorno al trasmettitore. Era un apparecchio incredibilmente complesso e lui capiva solo la decima parte di quello che stava facendo. Ma il computer gli mostrava pazientemente diagrammi dettagliati, lunghi elenchi delle parti e istruzioni sulla loro collocazione e sul modo di servirsene.

Intanto il sole giallo diventava di giorno in giorno più grande e luminoso e sembrava che si avvicinasse per catturarli.

Linc stava disteso sul pavimento della cabina del trasmettitore, un alto cilindro di plastica trasparente situato di fronte al complesso degli strumenti elettronici, quando arrivò di corsa Hollie.

— Linc — disse trafelata, — il computer navigatore sta cominciando a stampare le correzioni per l’ultima parte della rotta.

Linc si affrettò ad alzarsi e la seguì senza dir niente sul ponte. Hollie era una ragazza alta e magra e le sue gambe lunghe le permisero di stare al passo con Linc mentre percorrevano di corsa il corridoio fra la postazione del trasmettitore e il ponte.

Intorno al banco del computer navigatore erano raccolte più di una dozzina di persone, che si fecero da parte all’arrivo dei due, perché Linc potesse mettersi a sedere.

Al di sopra del banco, lo schermo collegato al computer era suddiviso in diverse sezioni. Su una spiccavano alcune cifre: per quanto tempo e per quante volte dovevano essere accesi i razzi propulsori; un’altra mostrava la rotta da seguire attraverso il sistema solare che stavano finalmente per raggiungere. Sottili linee gialle indicavano le orbite dei sei pianeti del sistema: Beryl era il secondo, a partire dal sole. Una luminosa riga azzurra rappresentava la rotta che la nave doveva seguire. Terminava in un’orbita circolare intorno a Beryl. Una brillante luce verde segnava il punto dove dovevano essere accesi i razzi.

Linc studiò attentamente le cifre e annuì. — Dodici ore — disse. — La prima accensione dei razzi avverrà fra dodici ore esatte.

Tutti batterono le mani esultanti. Le lunghe settimane di lavoro avevano finalmente dato un risultato visibile.

Ma Linc era preoccupato. Avrebbe voluto poter disporre di più tempo. Dovrei trovarmi in una decina di posti contemporaneamente pensava. Il trasmettitore di materia non era ancora pronto per il collaudo e solo lui era abbastanza esperto per occuparsene. Però la sua presenza era necessaria anche sul ponte, per accertarsi che i cambiamenti di rotta fossero eseguiti a dovere, altrimenti tutto era perduto.

E, infine, doveva vedere Magda.


Era notte. Dormivano tutti. Linc, in piedi davanti al computer astronavigatore, osservava l’incessante lavoro degli strumenti sul ponte. Tutto dipende da me. La nave è tutta mia. Come se nessun altro esistesse.

Fra tre ore si sarebbero svegliati tutti e si sarebbero ammassati sul ponte mentre i razzi sarebbero entrati in attività per pochi attimi. Bastava infatti una spinta di pochi secondi per la prima correzione della rotta. E quella spinta li avrebbe sottratti all’ardente abbraccio di Baryta.

Pochi secondi. La differenza fra la vita e la morte.

Lei non verrà a vedere. Ne era certo. Se ne starà nel suo tabernacolo ad aspettare che vada io da lei.

Percorse un paio di volte il ponte in tutta la sua lunghezza, poi, d’impulso, andò al portello e l’aprì. Per la prima volta dopo tanti mesi rimise piede nella zona abitata.

Provò una strana impressione nel ripercorrere il vecchio corridoio. Vi aveva trascorso quasi tutta la vita, ma adesso tutto gli appariva vecchio, logoro, diverso da come lo ricordava. Le pareti erano stinte e macchiate, il pavimento opaco e logoro.

Varcò la pesante porta doppia della fattoria. Quanti secoli erano passati da quando aveva riparato la pompa intasata per colpa di Peta! Quante cose erano successe da allora!

Senza volerlo, rallentò il passo man mano che si avvicinava alla porta di Magda. Alzò gli occhi e vide l’obiettivo di una telecamera in disuso da tempo immemorabile che lo fissava cieco dal soffitto. Potrei aggiustarla e vedere il corridoio dal ponte pensò distrattamente.

Finalmente arrivò davanti alla porta, e, dopo aver esitato ancora, bussò.

— Entra, Linc — disse la voce sommessa di Magda.

La stanza non era cambiata. Le pareti emanavano una debole luminosità e i segni dello zodiaco brillavano sul soffitto. Magda sedeva sulla cuccetta, la faccia invisibile nell’ombra. Linc entrò e si chiuse la porta alle spalle.

— Come facevi a sapere che ero io? — le chiese. Lei scostò una ciocca di capelli dalla faccia con gesto aggraziato.

— Sono la sacerdotessa. Vedo cose che gli altri non possono vedere.

Lui non disse niente.

— E poi — continuò Magda, — chi altri avrebbe potuto essere? Sapevo che prima o poi saresti venuto. E probabilmente mentre tutti gli altri dormivano.

Lui attraversò il locale e si sedette sul pavimento ai suoi piedi.

— Non dormi? — le chiese.

— No, non molto.

Da vicino, nonostante la penombra, Linc poteva vedere che la faccia di Magda era ancora più magra e scavata della sua.

— Sono riuscito a far funzionare tutto a dovere — le disse.

Magda si chinò a guardarlo e gli pose una mano sulla spalla. — Sì, lo so. — Attraverso il sottile tessuto della camicia la mano di lei era fredda, tesa, nervosa. Linc ebbe l’impressione che Magda avesse paura.

— Riusciremo a raggiungere il nuovo mondo.

— Forse.

— Tu puoi aiutarci.

— Ti ho già aiutato — disse Magda.

Linc la guardò sorpreso. — Davvero? E come? Meditando? Qualche ora con un cacciavite in mano avrebbe dato risultati migliori.

— Non è il caso di scherzare. Ti ho aiutato stando qui, concentrandomi, meditando ed evitando che Monel ti impedisse di lavorare.

— Monel non poteva…

— Monel cercava di aizzare gli altri contro di te — disse Magda, — ma Stav e i suoi operai si sono rifiutati di ascoltarlo. Grazie alla sacerdotessa.

Linc non capiva. — Cosa? Stai dicendo…

Era difficile vederla in faccia, nell’ombra. Magda teneva lo sguardo fisso lontano, nel buio. — Da quando sei andato nel Posto dei Fantasmi — spiegò, — Monel non ha mai smesso di cercare di farmi ammettere che sei un malvagio e che bisognava fermarti. Io non l’ho accontentato. Stav mi ha chiesto cosa doveva fare e io gli ho detto che non doveva aver paura né di te né del Posto dei Fantasmi…

— Ma avevi detto… — Linc lasciò la frase in sospeso. Non riusciva a raccapezzarsi.

— Siete dei bambini, tutti voi — continuò Magda. — Volete comandare, dare ordini, decidere cosa si deve fare. Tu sai di aver ragione. Monel è convinto del contrario. Per lo meno Stav non pretende di sapere tutto e ha chiesto il consiglio della sacerdotessa.

Linc scosse la testa. — Pensavo che tu credessi…

Magda gli strinse forte la spalla. — Comanda sempre la sacerdotessa. Monel crede di essere il capo. È pazzo. Tu pensi di poterci salvare tutti dalla morte. Sei pazzo anche tu. Io sono il capo, qui, e voi fate quello che voglio io. Ho permesso che tu aggiustassi le macchine perché forse avevi ragione di volerlo fare. Lascio che Monel creda di dare ordini a tutti perché così posso fare in modo che dia gli ordini che voglio io. Quando hai cercato di sovvertire quello in cui avevamo sempre creduto, perfino il potere della sacerdotessa, mi sono servita di Monel per controbilanciare la tua azione. Quando Monel ha cercato di impedirti di lavorare nel Posto dei Fantasmi, mi sono servita di Stav per controbilanciare la sua azione. Voi vi combattete e io rimango la sacerdotessa, il vero capo, colei che diffonde la saggezza di Jerlet.

Linc era sbalordito. — Ci hai messi uno contro l’altro per il tuo interesse?

— Naturalmente. Ho sempre fatto quello che volevo di voi tutti da quando sono sacerdotessa. Anzi, da prima ancora, quando eravamo bambini. Anche allora ero capace di farvi fare quello che volevo.

— Ma non volevi che riparassi le macchine sul ponte.

— È vero. Avevo paura per te. E avevo paura che se tu fossi riuscito nel tuo intento, il mio potere e la fede in Jerlet sarebbero stati in pericolo. Ma quando mi sono resa conto che non avrei potuto impedirtelo, decisi che sarebbe stato stupido resistere. Il tuo modo di agire controbilanciava il potere di Monel. E Stav e i suoi uomini sono diventati un terzo potere, fra voi due.

Appoggiandosi affranto all’orlo della cuccetta, Linc disse: — Non posso crederlo. Non puoi giocare in questo modo con la vita delle persone. Nessuno può. Tu credi…

— Perché credi di essere venuto qui stanotte? — lo interruppe lei.

— Vuoi saperlo? Perché domattina accenderemo i razzi per il primo cambiamento di rotta e ci tengo a che tu sia presente.

— No, non sei venuto per questo. — Gli strinse ancora più forte la spalla. — Linc, tu sei venuto perché io ti ho chiamato. Ecco perché sapevo che eri tu, quando hai bussato.

Lui sbuffò.

— So che non mi credi. — La voce di Magda era così sommessa che la sentiva appena. — Però potresti almeno chiedermi perché ti ho chiamato.

— E va bene. Perché?

— Perché ho una paura tremenda. I tuoi razzi non funzioneranno, domani. Precipiteremo nella stella gialla e moriremo bruciati… o, se no, accadrà qualche altra cosa terribile.

— Non dire sciocchezze. — Ma la mano di lei gli artigliava la spalla. — Magda, è tutto sotto controllo. Il computer…

— Non parlarmi di quello che dicono le macchine! — esclamò brusca lei. — Io so che qualcosa non va come dovrebbe. E bisogna che tu mi aiuti a scoprire di cosa si tratta.

— Hai bisogno di me?

Lei assentì e chiuse gli occhi. — Devo toccarti. Sentire le tue vibrazioni, per scoprire cosa c’è che non va.

— Parli sul serio?

Ma lei non lo ascoltava più. Le brillavano gli occhi, ma fissava il vuoto, mentre tutto il suo corpo era scosso da un violento tremito.

Mosse le labbra come se volesse parlare, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Pur non volendolo, Linc subiva il suo fascino. — Cosa c’è? Cosa vedi? — chiese con apprensione.

Magda non rispose.

I minuti passavano lenti, e lei sembrava sempre posseduta da qualcosa d’invisibile.

Poi si accasciò e gli crollò quasi addosso. Linc si alzò in ginocchio per sostenerla.

— Magda, cosa c’è? Cosa succede?

Lei era fradicia di sudore gelido. — Io… guai… — ansimò con voce flebile. — Guai… i motori…

— Cos’hanno i motori? Di quali guai parli?

— Non lo so. Non riesco a vedere.

Tenendola stretta, con la mente in tumulto, Linc pensava: Sciocchezze! Ti sei lasciato trascinare in queste assurde superstizioni. Ma una voce nel suo intimo diceva: Cosa potrebbe essere successo? Un guasto? Dove? E la risposta era: Ovunque.

Ma dov’è più probabile che qualcosa non funzioni? si chiese. E la risposta balenò come un’esplosione nella sua mente: Se qualcuno ha manomesso i motori… o i collegamenti fra il computer astronavigatore e i comandi… o…

Magda s’irrigidì fra le sue braccia. Lo respinse e lo guardò fisso negli occhi. — Monel — sussurrò.

XVIII

Monel non era nella sua stanza.

Quando vi arrivarono, trafelati per la lunga corsa nel corridoio, ed ebbero bussato senza aver risposta, aprirono la porta. Non c’era nessuno.

— Potrebbe essere in mille posti — disse Linc.

— Cosa dobbiamo fare? — chiese Magda con gli occhi sbarrati per l’apprensione.

Lui la prese per mano. — Andiamo sul ponte.

Linc cercava di costringersi a pensare con calma, ma la sua mente era un carosello di paura, odio, istinti omicidi.

Non pensò neppure che Magda finora non aveva mai messo piede sul ponte. Senza badarle si precipitò a sedere davanti al quadro principale dei comandi. Fece cenno a Magda di prender posto nel sedile accanto al suo, e con la mano libera accese lo schermo del computer.

— Voglio la posizione dei propulsori a razzo, il sistema dei comandi e i collegamenti col ponte — ordinò al computer.

Sugli schermi posti sulla parete curva al di sopra del banco comparvero dei diagrammi con i punti indicati da Linc contrassegnati da cerchi colorati.

— Come fa a sapere Monel dove si trova quella roba? — chiese Magda guardando gli schermi.

— Glielo avrà detto qualcuno — disse Linc. — Rix, la guardia che è rimasta con noi ad aiutarci. È un traditore. Quel grassone con la faccia da topo avrà raccontato tutto a Monel… ci scommetto.

Linc si alzò e andò a un’altra postazione. Premette convulsamente alcuni pulsanti ed esaminò le immagini che via via comparivano sugli schermi: vedute di diverse zone della nave. Tutte vuote.

— Dobbiamo frugare tutti i posti dove può essersi nascosto — si voltò a dire a Magda.

— Quanto tempo abbiamo?

Linc guardò l’indicatore del conto alla rovescia. — Mancano poco più di due ore all’accensione dei razzi.

— Come possiamo cercare…

Ma Linc era già al quadro delle comunicazioni: — A tutti! Sveglia! — tuonò nel microfono che sporgeva dal banco. — Stav, Cal, Hollie alzatevi e venite subito sul ponte! Emergenza! Tutti, qui immediatamente!

Meno di cinque minuti dopo arrivarono, assonnati e perplessi. Linc li mise al corrente della situazione. Erano circa una cinquantina, e lo ascoltarono senza aprir bocca mentre continuava: — Non credo che possa essere arrivato più in là del secondo livello. Il computer ci ha mostrato dove si trovano le zone vitali. Deve trovarsi in una di esse. Abbiamo due ore per trovarlo. Dividetevi in squadre di almeno sei persone ciascuna. Non sappiamo quante guardie ha con sé.

Magda rimase sul ponte con Linc, che controllò tutti i circuiti e i comandi con l’ausilio del computer e dei sensori di bordo per cercar di scoprire se Monel aveva messo fuori uso i razzi o danneggiato i circuiti di comando.

Linc sistemò Magda al quadro delle comunicazioni, insegnandole cosa doveva fare e lei seguì al microfono le squadre che erano andate alla ricerca di Monel. Dagli altoparlanti si sentivano le voci e i rumori provenienti dai corridoi e dai locali del secondo livello.

— Qui non c’è.

— Ehi, mi pare… no, è solo un’ombra.

— Guarda qui… non sono tracce di ruote?

— Dove?

— Qui, ti dico. Deve esser passato sopra questa chiazza d’olio…

Linc si rammaricava di non aver attivato le telecamere in tutti i corridoi per poter vedere quello che succedeva.

Mancava un’ora al momento dell’accensione. Quarantacinque minuti. Mezz’ora.

— Qua, al compartimento della morte.

Linc non aveva smesso un attimo di controllare. Tutto il sistema dei propulsori a razzi sembrava perfettamente a posto. Non aveva rilevato nessun danno.

— Chiedi dove si trovano quelli che seguono le impronte delle ruote — disse a Magda senza distogliere gli occhi dagli schermi.

— Le impronte portano al compartimento della morte, al secondo livello — disse lei.

Il compartimento stagno corresse mentalmente Linc, ma poiché Magda aveva accettato di servirsi degli apparecchi di comunicazione senza discutere né lamentarsi, preferì tenere la bocca chiusa. Se anche ha paura di toccare le macchine, non lo dimostra.

L’abbiamo trovato! — urlò una voce trionfante. — Si era nascosto nel compartimento della morte. L’abbiamo preso e lo stiamo portando sul ponte.

Linc sapeva che avrebbe dovuto provare un gran sollievo. Mancavano ancora venti minuti al momento dell’accensione. Tuttavia era ancora preoccupato. Perché Monel si era nascosto là dentro? Guardò Magda. Anche lei sembrava preoccupata.

— Non sei ancora tranquilla? — le chiese.

Lei scosse la testa. — E tu?

— Starò meglio quando si accenderanno i razzi.


Monel era irascibile e bisbetico come sempre.

— Voi credete che sia pazzo, vero? — gridò. Sedeva accasciato sulla sedia a rotelle, circondato dagli uomini e dalle donne, sorridenti e soddisfatti, che l’avevano scovato nel nascondiglio. Avevano trovato anche le guardie. Tutte, meno Rix.

— Cosa volevi fare? — gli chiese Linc.

— Fermarti.

— Nascondendoti in un compartimento stagno?

— Distogliendo la tua attenzione da queste maledette macchine — ribatté disgustato Monel.

Linc non era soddisfatto dalla risposta, ma prima che avesse il tempo di dire qualcosa, Stav stava scuotendo Monel rudemente e gli chiedeva: — Perché non vuoi che raggiungiamo il nuovo mondo? Vuoi che moriamo tutti?

Monel si liberò dalla stretta con uno scrollone. — Cosa ti fa pensare che potremo vivere sul nuovo mondo? Solo perché lo dice lui? — sogghignò guardando Linc. — Sappiamo di poter vivere sulla nave. Ma quel suo nuovo mondo… chi mai ha vissuto fuori della nave? — La sua voce stridula era indisponente. — Fuori c’è la morte, lo sappiamo tutti. La nave è la vita… altrove c’è soltanto morte.

Linc si fece avanti minaccioso. — E cosa succederà se la nave finirà dentro al sole giallo? Quella sì che è morte sicura!

— E chi dice che cadremo nel sole giallo? — fu pronto a ribattere Monel. — Sei tu che lo dici! E sostieni che te l’ha detto Jerlet. Ma Jerlet non ce ne ha mai parlato.

— Tutti hanno paura di essere divorati dal sole giallo, anche tu — gli ricordò Stav.

— Certo che ho paura! Ma preferisco correre il rischio di finire nel sole giallo piuttosto che lasciare la nave. Noi sappiamo che fuori c’è la morte.

— Linc è stato all’esterno — disse Jayna.

— Con quel vestito speciale — ribatté Monel. — Quanto potrebbe vivere fuori? Linc, diglielo tu! Quanto potresti resistere all’esterno con quel vestito?

— Parecchie ore, forse anche alcuni giorni.

— Ma tu vorresti che noi vivessimo per sempre fuori, non è così?

— Non nello spazio — rispose Linc. — Non nel buio. Su Beryl. Nel nuovo mondo. Vivremo come vivevano i nostri antenati sulla Terra.

— Però loro la Terra l’hanno lasciata, no?

— CONTO ALLA ROVESCIA — disse in quel momento la voce del computer. — INIZIO DEL CONTO ALLA ROVESCIA. CINQUE MINUTI ALL’ORA ZERO. INIZIO DEL CONTEGGIO.

— Tu cos’hai da dire, sacerdotessa? — chiese Stav a Magda. — Ha ragione Linc o Monel? Dobbiamo lasciare la nave e vivere nel nuovo mondo, o restare a bordo?

Tutti si voltarono a guardare Magda che stava fra Monel e Linc.

— Ho meditato a lungo sulla questione — rispose a voce bassa ma ferma. — Ho chiesto consiglio a Jerlet, e ho cercato di scoprire la verità…

— E…?

— Linc ci ha dimostrato che forse noi sbagliavamo quando avevamo paura delle macchine. Adesso dovrebbe essergli consentito di portarci nel nuovo mondo.

Un sospiro generale accolse la decisione.

— Se non siamo destinati a viverci — proseguì Magda, — le macchine si guasteranno. Jerlet non permetterà che ci portino verso la morte. Se le macchine funzioneranno come dice Linc, allora raggiungeremo sani e salvi il nuovo mondo e ci vivremo felici. Se invece le macchine non funzioneranno, resteremo a bordo della nave. Così vuole Jerlet.

Tutti parvero soddisfatti, anche Monel. Ma Linc pensava: Superstizioni. Si tratta soltanto di stupide superstizioni.

— CONTO ALLA ROVESCIA. MANCANO QUATTRO MINUTI ALL’ORA ZERO. IL CONTEGGIO CONTINUA.

Pareva che il tempo non passasse mai. Linc sedeva ai comandi tenendo d’occhio gli schermi su cui si susseguivano le immagini del sistema di propulsione a razzi. Pareva che tutto fosse in ordine e funzionasse alla perfezione.

Tre minuti. Due. Sessanta secondi… trenta… dieci… nove… otto…

Linc aveva la strana sensazione di essersi staccato dal proprio corpo e di guardare dall’alto tutte quelle persone che gli stavano intorno, mentre lui teneva gli occhi fissi sugli schermi, con la mano posata sul pulsante, pronto a interrompere il conto alla rovescia se si fosse rivelato il minimo intoppo.

— …TRE SECONDI…

Il diagramma della pompa del carburante, sullo schermo, passò dal verde al giallo indicando che la pompa era entrata in funzione al momento prestabilito.

— …DUE… UNO…

All’«uno», il diagramma della pompa si accese di rosso.

Spalancando la bocca, Linc premette il pulsante mentre la voce atona del computer diceva: — ZERO. ACCENSIONE.

E un’esplosione fece sollevare il ponte inclinandolo e catapultò Linc contro il banco mentre tutti gli altri finivano a gambe all’aria.

XIX

Erano vivi.

Fu la prima cosa di cui Linc si accertò incurante del dolore che gli bruciava il petto. Si alzò in preda a un senso di stordimento e si guardò intorno. Il ponte sembrava intatto. Non si vedevano fumo né fiamme. Qualcuno cominciava già a rialzarsi. Magda sembrava stordita, ma più per un turbamento interiore che non per la paura di quanto era successo. Hollie e una guardia stavano aiutando Monel a risistemarsi sulla sua sedia.

Quel disgraziato rideva.

Linc esaminò gli schermi. Tutto funzionava normalmente, solo sullo schermo del computer di navigazione lampeggiava a grandi lettere una scritta rossa: ERRORE ERRORE ERRORE.

Linc si accostò a Monel che rideva così sghangheratamente da dover chiudere gli occhi. Teneva la testa buttata all’indietro e il suono aspro e rauco della sua risata era l’unico rumore sul ponte. Linc lo schiaffeggiò.

Con tutta la furia che gli covava dentro, Linc schiaffeggiò la faccia sogghignante di Monel così forte che per poco non lo fece cadere dalla sedia.

Nessuno si mosse.

— Portatelo via — ringhiò Linc. — Ci ha uccisi tutti. Portatelo via e andatevene anche voi. Tutti! Fuori!

Afferrarono Monel che aveva la faccia segnata dalle impronte delle dita di Linc e lo trascinarono via. Uno a uno, sgattaiolarono tutti fuori.

Linc si voltò e vide che Magda era rimasta. Ferma in piedi davanti al banco delle comunicazioni, era rigida come una sbarra d’acciaio.

— Ci ha uccisi tutti — ripeté Linc.

— Lo hai colpito.

— Avrei voluto ammazzarlo — esclamò Linc dandosi una manata sulle cosce.

— Lo hai colpito.

— E che importa? Ormai siamo morti, Monel ha rovinato tutto.

— No, Linc. Niente è rovinato. Solo la tua pace interiore. Tu troverai il modo di portarci sul nuovo mondo a dispetto di Monel. Tu puoi far fare alle macchine quello che vuoi. Ma corri il rischio di diventare anche tu una macchina.

— Vattene, lasciami in pace.

— Vado. La compagnia degli esseri umani non è fatta per te.

Le macchine gli dissero cosa era successo. Qualcuno aveva svitato deliberatamente la valvola di sicurezza di una delle pompe del carburante esattamente un secondo prima dell’accensione. Troppo tardi perché anche i meccanismi automatici impedissero ai razzi di accendersi. Si scoprì che il colpevole era Rix; Monel gli aveva dato le istruzioni del caso, e lui le aveva eseguite. L’esplosione aveva danneggiato uno dei motori a razzo, e lo aveva ucciso. Fu Stav a scoprirlo e a riferirlo poi a Linc.

Il computer gli fornì altre informazioni. L’accensione sbagliata aveva comunque accelerato la velocità della nave alterandone la rotta, ma non nel modo voluto da Linc.

Ora, seduto in preda a un profondo scoraggiamento davanti ai comandi, guardava sullo schermo la linea che rappresentava la nuova rotta. Sarebbero passati a distanza di sicurezza da Baryta, ma non sarebbero entrati in orbita intorno a Beryl. Per quanto Linc potesse fare, la nave non avrebbe mai raggiunto il nuovo mondo.

Solo, rifiutandosi di vedere chicchessia, di mangiare e perfino di dormire, Linc passeggiò a lungo avanti e indietro sul ponte, alla ricerca di una soluzione. Infine chiese al computer informazioni sul trasmettitore di materia.

Domanda: A quale distanza dobbiamo trovarci da Beryl perché il trasmettitore possa funzionare?

Risposta: PORTATA MASSIMA DEL TRASMETTITORE MENO DI 5000 CHILOMETRI.

E al computer astronavigatore chiese: Quale sarà la nostra distanza minima da Beryl? Risposta: 28.069,74 CHILOMETRI.

Domanda: Possiamo portarci a meno di 5000 chilometri da Beryl? Risposta: LA PROPULSIONE NECESSARIA PER RAGGIUNGERE LA DISTANZA VOLUTA ECCEDE I LIMITI STRUTTURALI DELLA NAVE.

Linc riprese a passeggiare su e giù. Gli pareva di essersi trasformato in un blocco di plastica dura. Ignorava il dolore delle contusioni, la stanchezza e la fame. Doveva risolvere il problema. Le macchine non potevano risolverlo per lui.

Perché il trasmettitore di materia non poteva avere una portata più ampia. Perché avrebbe richiesto una maggior quantità di energia, e loro non disponevano del quantitativo necessario… Chi l’ha detto? C’è energia a volontà, qui a bordo: per l’illuminazione, il riscaldamento, per far funzionare le macchine…

Tornò al computer. Formulò altre domande. Ottenne altre risposte.

Rimasero tutti colpiti quando comparve nel refettorio. Era l’ora dell’ultimo pasto, come Linc aveva intuito dal fatto che l’illuminazione del corridoio si era abbassata.

Fu Jayna a correre per prima da lui. — Linc! Ma tu stai male… — Lo prese per un braccio. — Qua… mettiti a sedere.

— No, aspetta. — Fece segno agli altri di sedersi. Non erano presenti tutti. Mancavano anche Magda e Monel.

— Ascoltatemi. Abbiamo ancora una probabilità di arrivare sul nuovo mondo. Sarà difficile ma potremo farcela. In caso contrario, la nave compirà un grande arco che ci allontanerà per un po’ da Baryta. Ce ne stiamo infatti già allontanando. Ma entro un anno torneremo ad avvicinarci e il sole giallo ci brucerà.

Le sue parole furono accolte da un coro di mormorii. Non mi credono pensò Linc. Sono stufi di ascoltarmi. Ma Jayna chiese: — Cosa dobbiamo fare, Linc?

— Niente — rispose lui. — Non dovete far niente. Solo, quando vi dirò di muovervi, dovrete scattare. — L’ultima parola risuonò come una frustata. — Ci resta solo questa piccolissima probabilità di farcela, di salvarci. Sarà quindi meglio che vi muoviate subito non appena ve lo dirò io.

Si trascinò stancamente al computer sul ponte di comando, e cominciò a programmare. Ogni grammo di spinta dei razzi… ogni erg di energia… o la va o la spacca.

Jayna gli portava da mangiare e lui prendeva i piatti senza neanche voltarsi a guardarla. Mangiava alla tastiera del computer, mentre sugli schermi si susseguivano le informazioni che aveva chiesto. Lei restava a lungo muta, alle sue spalle, senza mai interromperlo. Linc ne vedeva l’immagine riflessa sugli schermi, mezza dozzina di Jayne su mezza dozzina di schermi, tutte con la faccia confusa e preoccupata. Ma Jayna non gli fece mai neanche una domanda.

Quando non ne poteva più, appoggiava la testa sul banco e dormiva un po’. Appena sveglio ricominciava a programmare. Il computer assimilava le sue istruzioni e le sue domande, ronzava e ticchettava, e finalmente, dopo aver ronzato e ticchettato per un’ora, un tempo incredibilmente lungo per una macchina come quella, riferì a grandi lettere gialle sullo schermo principale.

IL PROGRAMMA FUNZIONA. TUTTI I SISTEMI FUNZIONANO COME RICHIESTO.

Linc chiese alla macchina: — Fra quanto tempo raggiungeremo il punto di trasferimento?

La risposta fu immediata: FRA 76 ORE 11 MINUTI 14,08 SECONDI.

— Inizia il conto alla rovescia quando mancano tre ore all’ora zero.

RICEVUTO.

— Per quanto tempo resteremo a distanza di trasferimento?

53 MINUTI 12,6441 SECONDI.

— Il trasmettitore di materia dev’essere caricato in modo da accogliere una persona ogni cinquanta secondi circa. Può farlo automaticamente?

I CIRCUITI AUTOMATICI NON FUNZIONANO. NECESSARIA MANOVRA MANUALE.

Il che vuol dire che dovrò restare a bordo finché non saranno passati tutti nel trasmettitore pensò Linc.

Scostò la sedia dal banco e si soffermò poco più in là a osservare la sequenza del conto alla rovescia. Sullo schermo stava scritto: 76 ORE 10 MINUTI 06 SECONDI.

E continua a contare disse fra sé Linc.


Passò, la maggior parte del tempo su nel mozzo, lontano da tutti. Mangiava alla cucina automatica e dormiva profondamente. Poi tornava sul ponte a controllare il trasmettitore di materia.

In confronto alle altre apparecchiature, quella macchina non sembrava niente di eccezionale. C’era una cabina di plastica trasparente capace di contenere una persona, e una lucida console di metallo che racchiudeva complicati circuiti elettronici e infine un’altra console attraverso cui passava l’energia e dalla quale uscivano serpeggiando alcuni grossi cavi. Linc aveva seguito il percorso di quei cavi lungo la parte esterna del tubo- tunnel principale fino ai generatori atomici vicino al mozzo. La tastiera dei comandi era zeppa di manopole e interruttori. Linc doveva manovrare con calma e precisione, evitando il minimo passo falso, se voleva che si salvassero tutti.

Premette i pulsanti che attivavano i sensori di autocontrollo del trasmettitore, e annuì soddisfatto quando si accese una serie di luci verdi. La macchina era in condizioni perfette, pronta a entrare in funzione.

Al pensiero di quello che era capace di fare quel trasmettitore Linc non poteva evitare un senso di ammirazione e di sorpresa. Jerlet gli aveva spiegato che la macchina trasformava gli atomi di qualsiasi oggetto materiale posto nella cabina in energia che poteva venir trasmessa fino a una data distanza. All’estremità opposta del raggio trasmesso, la macchina ricevente ritrasformava l’energia nell’oggetto originale. Chi fosse entrato nella cabina sarebbe stato immediatamente trasferito dalla nave sul nuovo mondo.

Se ci fosse stata energia sufficiente.

Se la nave fosse stata abbastanza vicina al pianeta.

Se la parte ricevente fosse stata sistemata a dovere sulla superficie del pianeta.

Se qualcuno fosse stato disposto a correre il rischio di entrare in cabina ed essere completamente disintegrato.

Possiamo ottenere l’energia sufficiente disattivando tutte le altre apparecchiature di bordo pensò Linc. E i razzi ancora funzionanti possono portarci abbastanza vicino al pianeta. La trasmissione dell’apparecchio ricevente è automatica.

— Così non rimane che un problema — mormorò. Andò a cercare Magda. Non era né nella sua stanza né con Monel. Non riuscendo a scovarla da nessuna parte nella zona abitata gli venne in mente che c’era un altro posto dove poteva essere andata. E infatti la trovò al secondo livello, inginocchiata davanti all’oblò, intenta a guardare il sole giallo. Sebbene l’oblò polarizzato ne attenuasse il fulgore, Baryta emetteva una luminosità abbagliante. Linc distingueva le lingue di fuoco che si levavano dalla superficie della stella, come se volessero tentare di raggiungerli e afferrarli.

— Magda — chiamò piano.

Lei si voltò a guardarlo. — Vieni pure, Linc. Non sto meditando. Siediti vicino a me.

— Cosa fai?

— Aspetto.

— Cosa?

Lei scrollò le spalle e tornò a guardare dall’oblò. — Te. O la stella gialla. Chiunque arriverà primo.

— Io sono già qui.

— Hai trovato il modo di salvarci?

— Sì.

— Lo sapevo — rispose Magda. Non pareva né sorpresa né contenta.

— Vorrei che tu facessi una cosa.

— E sarebbe?

— Devi essere la prima a entrare nel trasmettitore di materia.

Lei si voltò a guardarlo, con la massima calma e serietà. — Non è possibile, Linc. Lo sai. Non posso toccare le tue macchine… nessuna. Hai visto come siamo stati puniti quando ho cercato di aiutarti sul ponte.

Un bagliore vivido lampeggiò al di là dell’oblò e una lunga scia fiammeggiante si disegnò nello spazio in direzione della minuscola falce azzurra che era Beryl.

— Quello è il ricevitore. È collocato in un razzo automatico che lo farà atterrare su Beryl, dove ci aspetterà.

Magda si lasciò vincere dalla curiosità. — Come hai fatto a farglielo fare?

Lui rise. — Hanno fatto tutto le macchine. Sono state costruite tanto tempo fa da scienziati che vivevano qui sulla nave. Gente che era già morta prima che nascesse Jerlet.

— Sono stati loro a fare le macchine?

— Sì. E Jerlet mi ha insegnato a ripararle in modo che funzionassero.

— Linc, io non posso toccare le macchine. Ci ho pensato. Ho meditato a lungo. Non posso. Sarebbe peccato.

— Quindi secondo te sarebbe meglio morire?

— Forse.

— No, niente forse. Moriresti di sicuro. E non solo tu, ma tutti. Perché se non sei la prima a dare l’esempio entrando nel trasmettitore, nessuno vorrà farlo.

Magda chiuse gli occhi. — Mi dispiace, Linc. Non posso fare diversamente.

Lui la prese per le spalle. — Ascoltami! Non hai scelta. Io distruggerò la nave. Se non entri nel trasmettitore morirai… non forse, non fra un anno o dieci, ma nel giro di pochi minuti. È la verità. Non ci sono alternative. O si entra nel trasmettitore per raggiungere il nuovo mondo, o si muore insieme alla nave. Appena ce ne saremo andati finirà a pezzi.

Lei lo fissava furiosa, gli occhi sbarrati. — Non puoi! Nessuno può distruggere la nave… È la nostra casa…

— Solo per poche ore ancora — rispose Linc. — Dovevo farlo, e l’ho fatto. Appena quel razzo è partito per Beryl con il ricevitore, la nave ha cominciato a morire.

— Tu ci vuoi uccidere!

— Io voglio salvarvi!

— Sei pazzo! — strillò Magda. — Le macchine ti hanno fatto diventare un mostro.

Lui si alzò, l’afferrò per un braccio e la costrinse ad alzarsi a sua volta. — Ascoltami, e ascoltami bene. Non c’è più tempo per i tuoi giochetti. Le tue manovre per mantenere il potere tenendo a bada un po’ me e un po’ Monel sono finite. Se vuoi continuare a essere la sacerdotessa di questa gente devi aprire gli occhi alla realtà. La nave morirà fra poche ore, e tutti quelli che sono a bordo, rimarranno congelati, come i fantasmi.

Magda cercò di liberare il braccio, ma Linc rafforzò la stretta.

— Se vuoi davvero essere il capo devi darci l’esempio. Se non entri per prima nel trasmettitore nessuno lo farà. E così moriremo tutti. Devi guidarci verso la vita, Magda. Se davvero sei la nostra sacerdotessa devi darci l’esempio. Si tratta di vita o di morte. E sta a te decidere.

XX

Seduta davanti all’indicatore del conto alla rovescia, Magda si massaggiava il polso fulminando Linc con occhiate micidiali.

Lui non le badava, occupato com’era a seguire le indicazioni del computer. La linea azzurra che indicava la loro rotta era contrassegnata da curve che indicavano le accelerazioni per avvicinarsi al pianeta. E un punto rosso contrassegnava la distanza minima da Beryl. Mancava poco al primo balzo.

— I razzi si accenderanno fra qualche secondo — disse Linc a Magda. — Quelli che funzionano ancora, ovviamente.

Fece scivolare la sua sedia accanto a quella di lei e premette un pulsante sulla tastiera dell’apparecchio a tempo. Intanto, sullo schermo si succedevano le cifre che indicavano ore, minuti e secondi che li separavano dal trasferimento su Beryl. In un angolo, in basso, apparve ora il conto alla rovescia relativo all’accensione dei razzi: MENO 00 00 38 SECONDI ALL’ACCENSIONE.

— Tienti salda — raccomandò Linc. — Potrebbe essere uno scossone forte.

— Ancora violenza — ringhiò lei.

— Chiamala un po’ come vuoi…

Il ponte sussultò vibrando come se una mano gigantesca l’avesse afferrato scuotendolo. Linc batté involontariamente i denti e si aggrappò al banco per non cadere dal sedile. Un rombo assordante lacerò il silenzio.

Era la voce del gigante. Magda si avvinghiò a Linc e lui la tenne stretta.

Poi, all’improvviso com’erano cominciati, la vibrazione e il rumore cessarono.

Magda si staccò subito da Linc, che tornò all’esame dei dati sugli schermi del computer.

— Siamo sulla rotta giusta. — Il punto rosso spiccava nitido sulla linea azzurra, oltre la prima curva.

— Avresti dovuto avvertire anche gli altri — lo rimproverò Magda, — Qualcuno potrebbe essersi fatto male.

— Il peggio deve ancora venire.

— Ci saranno altri scoppi?

Lui annuì, e indicando lo schermo disse: — Vedi? Altri due, e poi saremo su una rotta che passa vicino al pianeta, Per circa un’ora ci troveremo alla distanza giusta per trasferirci su Beryl. Poi, la nave sarà troppo lontana.

— Vado a dirlo agli altri.

— No, resta qui. Puoi parlare all’altoparlante. Laggiù, il secondo sedile al quadro delle comunicazioni. Ti ho già insegnato come devi fare.

Magda si alzò lentamente, guardando il portello che dava sul corridoio. Per un momento, Linc temette che volesse andarsene. Ma dopo un attimo di esitazione la vide avviarsi verso il banco delle comunicazioni. — Il bottone rosso vicino al microfono — le disse. — Basta che lo tocchi con la punta del dito. Non ti mangia!

Lei lo guardò come se le avesse ordinato di mettere la mano sul fuoco. Tuttavia ubbidì, ma ritrasse la mano non appena ebbe premuto il pulsante.

— Brava. Adesso siediti e parla.

Lei sedette fissando accigliata il microfono. Poi disse: — Sono Magda. Ascoltatemi. Non dovete aver paura. Lo scoppio e lo scossone di poco fa sono stati causati dall’accensione dei razzi. Linc ha trovato il modo di farci uscire dalla nave e di arrivare sul nuovo mondo…

Mentre lei parlava, Linc attivò le telecamere che funzionavano, e su tre schermi apparvero le immagini di gruppetti di persone che si affollavano nei corridoi per ascoltare la voce di Magda. Linc riconobbe Stav e Hollie, ma non riuscì a vedere Jayna.

C’è anche Monel. Ha un’aria infelice!

— Non abbiate paura — stava dicendo Magda. — Potremo raggiungere il nuovo mondo. La nave sta per morire, ma Linc ci porterà in salvo sul nuovo mondo.

Si voltò verso di lui. — Non so cos’altro dire.

— Di’ che rimangano in attesa dei miei ordini. Li avvertirò quando sarà il momento di muoversi.

Perplessa, Magda riferì quanto Linc aveva detto.

Dopo la seconda accensione dei razzi, cominciò ad arrivare qualcuno sul ponte. Linc non aveva piacere di aver gente fra i piedi, ma non poteva scacciarli.

— Avrei dovuto chiudere il portello — brontolò fra sé. Ma nessuno lo intralciò. Se ne rimasero a guardare in silenzio gli schermi su cui comparivano disegni, parole e numeri per loro incomprensibili. Linc percepiva la loro presenza, li sentiva respirare, in muta attesa.

Magda, sempre seduta al microfono, aveva chiuso gli occhi e stava a testa china come se meditasse.

Dovrà entrare nella cabina del trasmettitore quando glielo dirò. Sa che deve farlo, altrimenti ci troveremo a dover affrontare un branco di gente impazzita di paura.

Il congegno automatico del conto alla rovescia emise un fischio di avvertimento, e un fremito di paura fece arretrare la folla.

— Non abbiate paura — li tranquillizzò Linc. — È solo il segnale che fra cinque minuti i razzi si accenderanno ancora. Sarà l’ultima volta. — E la peggiore aggiunse fra sé.

Gli occhi di tutti erano fissi sugli schermi, affascinati dal continuo succedersi di cifre di cui ignoravano il significato. Quando mancava un minuto, Linc ordinò che si sdraiassero. — Magda! — chiamò poi.

Lei alzò la testa e lo guardò.

— Di’ a quelli che non sono ancora venuti qui di stendersi sul pavimento o sulle cuccette e di tenersi lontani da qualsiasi oggetto che possa cadere loro addosso. Mancano… cinquantacinque secondi all’ultima accensione dei razzi.

Magda riferì al microfono. Linc incuneò saldamente i piedi sotto i supporti del banco e si aggrappò con le mani ai braccioli del sedile.

Il gigante fece sentire ancora la sua voce. Il suo rombo fece sussultare il ponte come se volesse spezzarlo. Qualcuno urlò. Linc strinse involontariamente le palpebre. Quando riaprì gli occhi cercando di rimettere a fuoco lo schermo che gli stava davanti non ci riuscì perché il ponte continuava a sussultare e tutto quello che vide fu un insieme confuso di macchie colorate.

Poi tornò la calma. Linc si protese a esaminare il tracciato dell’astronavigatore. Erano in rotta! Non provò un senso di trionfo, ma solo di gratitudine.

Magda lo fissava con la stessa intensità con cui lui guardava lo schermo.

— È meglio avvertire tutti che è ora di venire sul ponte. — Voltandosi a parlarle, Linc vide che gli altri cominciavano a rialzarsi. — Ai due lati del portello all’estremità più lontana del ponte ci sono due brevi tratti di corridoio. Avverti che si dispongano là su due file. Niente spintoni né panico. Tutto andrà bene se non facciamo confusione.

Dal portello aperto che dava sul corridoio principale qualcuno arrivò gridando: — I serbatoi della fattoria! È successo qualcosa alle pompe. Si sono fermate.

Linc diede un’occhiata agli schermi che rivelavano il funzionamento delle condutture elettriche. Le luci si stavano spegnendo ovunque e anehe l’impianto di riscaldamento. Tutto come predisposto.

Intanto la gente cominciava a mettersi in fila nel corridoio che portava al trasmettitore di materia. Ma dal corridoio principale arrivava il rumore di voci concitate.

— Si è spenta la luce nel refettorio.

— I ventilatori non funzionano.

— Fa freddo, qui…

Linc si avvicinò al quadro delle comunicazioni e prese il microfono: — Ascoltatemi — ordinò. Magda si alzò e gli si pose accanto. — La nave sta morendo. Abbiamo pochissimo tempo per abbandonarla e andare sul nuovo mondo. Mettetevi in fila sul ponte e tenetevi pronti. Portate tutto quel che riuscite a trasportare a mano. Non abbiamo tempo per prendere altro.

Porse il microfono a Magda che lo prese con una piccola smorfia di disgusto. — Il mio mantello — mormorò. — I miei simboli…

— Non c’è tempo — ribatté bruscamente Linc. — Devo mettere in funzione il trasmettitore. Tu bada a tener calma la gente man mano che arriva. Mi raccomando, che si mettano in fila per uno. E quando ti chiamo vieni senza discutere.

Lei fu lì lì per dir qualcosa ma vi rinunciò. Annuì e disse al microfono: — Non abbiate paura. — Intanto si costrinse a sorridere per rassicurare quelli che erano già sul ponte. — Mettetevi in fila per uno ai lati del portello…

Linc si fece strada fra la calca e aprì la porta che dava nel locale del trasmettitore. Sedette al banco e si mise a manovrare i comandi. Le luci sul ponte si stavano affievolendo. Con la coda dell’occhio riusciva a scorgere, dietro le teste e le spalle della gente in fila nel corridoio, alcuni schermi; anch’essi cominciarono a baluginare e poi a spegnersi.

Ogni erg di energia…

A tratti udiva qualche commento, non sapeva se dal corridoio o dal ponte.

— Le macchine stanno morendo.

— Ehi, vedo il fiato… sembra uno sbuffo di fumo.

E la voce di Magda: — Va tutto bene. Raggiungeremo sani e salvi il nuovo mondo.

— Ma fa freddo!

Le luci sul quadro erano tutte verdi.

Era tutto pronto. Linc si alzò, si fece strada fra la gente in fila nel corridoio e diede un’ultima occhiata allo schermo che indicava le cifre del conto alla rovescia, sul ponte. I numeri gialli spiccavano vividi nella luce attenuata.

— Magda — chiamò, — è ora!

Lei lasciò andare il microfono e lo seguì nel locale del trasmettitore. Mentre entravano, sussurrò: — Non ci hai lasciato alternative.

— Sta’ tranquilla. Va bene così — le rispose lui accompagnandola alla cabina del trasmettitore.

Magda ebbe solo un istante di esitazione. Mentre Linc apriva la porta di plastica trasparente della cabina, lei raddrizzò la schiena ed entrò con piglio deciso. Quelli che si trovavano in principio alla fila guardavano sbarrando gli occhi.

— Sorridi — disse Linc mentre chiudeva la porta.

Lei abbozzò un sorriso che dovette costarle molta fatica.

Linc si affrettò a tornare ai comandi, manovrò qualche interruttore e infine posò il dito sul pulsante arancione dell’accensione. E se qualcosa andasse storto? Se il ricevitore fosse finito in una zona inabitabile? Se invece di salvarla la uccidessi?

— Qui si gela — disse una voce dal corridoio.

Linc premette il pulsante arancione. Per un attimo la cabina del trasmettitore si illuminò di una vivida luce bianca. Quando la luce si spense, la cabina era vuota.

Lui rimase un momento a guardarla, poi si rivolse alla gente in attesa, che aveva seguito la scena.

— Avete visto?

— È sparita.

— È una magia!

— Bene. Adesso fatevi avanti uno per volta. — Linc si sentiva improvvisamente esausto. — Via, per il nuovo mondo!

Ubbidirono. Non vi furono scene di panico. Qualcuno era chiaramente impaurito e mostrò una certa riluttanza, ma gli altri lo incitarono prendendolo in giro. Così, a intervalli di meno di un minuto, entrarono tutti.

Linc manovrava i comandi come un automa, conscio del fatto che tutti entravano nella cabina non perché avessero fiducia in lui, né per seguire Magda, ma perché avevano paura sapendo che la nave moriva. Le luci del ponte si spensero definitivamente, lasciando solo il tenue bagliore fluorescente dei pannelli del corridoio e del locale del trasmettitore a illuminare debolmente le partenze. Faceva già freddo e Linc sentiva un crescente torpore alle dita mentre premeva senza sosta i pulsanti. Venti volte. Trenta. Quarantacinque. Strofinò e batté i piedi per riscaldarli.

Monel! Il pensiero lo colpì mentre continuava a manovrare i comandi. Dov’è? Perché non è venuto? Non è da lui starsene così tranquillo.

Vide Stav, in testa alla fila, e gli fece un cenno. Mentre un altro entrava nella cabina e lui continuava a premere pulsanti, chiese al grosso operaio agricolo: — Hai visto Monel?

— Sì. È in fondo alla fila con le sue cinque guardie.

— Perché ha voluto restare per ultimo?

— Vuoi che rimanga qui ad aspettarlo con te, nel caso che abbia in mente di combinare qualche guaio?

— No, grazie, va’ pure. Ti ho trattenuto anche troppo. Entra nella cabina.

— Non m’importa di aspettare… — disse Stav con un sorriso forzato. — Quel… quel coso mi fa un po’ paura. Una gran luce e puff! chi c’era dentro è sparito.

— È segno che tutto va bene — gli rispose sorridendo Linc premendo il pulsante arancione. Si accese la luce e quando si spense la ragazza che era nella cabina non c’era più. — Con quel puff! ti trovi sul nuovo mondo, capisci? E adesso entra, testa di rapa, prima che anche qualcun altro si tiri indietro per la paura.

Stav lo salutò con una manata sulla spalla ed entrò deciso in cabina. Poco dopo era scomparso. Qualche minuto dopo arrivò Jayna, che sorrideva nervosamente. Linc le fece un cenno di saluto e poco dopo era sparita anche lei, finita nell’oblio… No si affrettò a correggere, non finiscono nell’oblio. Io non li uccido, anzi, mandandoli sul nuovo mondo do loro la vita.

Ma in realtà tutto quello che vedeva erano le persone che conosceva da sempre scomparire ad una ad una. Ognuno entrava nel trasmettitore, calmo o spaventato, sorridente o teso, e lasciava che lui lo facesse sparire… forse per sempre.

Questo pensiero gli fece tremare le mani.

Rimanevano ancora solo quattro minuti di tempo quando arrivarono Monel e le sue guardie.

— Siamo gli ultimi — disse Monel. — Dopo di noi non c’è più nessuno.

— Va bene — disse Linc emettendo dense nuvolette di vapore mentre respirava. — Dovete entrare uno alla volta.

— No! — esclamò Monel. — Sei riuscito a ingannare gli altri, ma a me non la fai.

Linc si era aspettato una reazione di quel genere. — Non fare l’idiota. Ci restano solo pochissimi minuti.

Ma Monel portò la sua sedia vicino al banco dove sedeva Linc, e chinandosi verso di lui sibilò con la sua voce stridula: — Vuoi tenere la nave tutta per te, vero? Be’, non funziona…

— La nave è morta — gli disse Linc. — Non c’è nessuna possibilità…

Monel sorrise. Sulla sua faccia, il sorriso non era per niente piacevole. — Tu pensi che possa credere per un solo istante che Jerlet permetta alla nave di morire?

— Jerlet è morto…

— Lo dici tu. Però hai anche detto che un giorno sarebbe tornato. Come potrà, se la nave muore?

— Non potrà — ammise Linc. — Finirà dentro a Baryta insieme alla nave. Non posso evitarlo.

— Non ti credo.

Linc indicò il segnatempo. — Guarda! Mancano poco più di tre minuti, e dobbiamo passare in sette nel trasmettitore C’è appena il tempo necessario…

— Voglio che tu rimetta in funzione le macchine — lo interruppe Monel. — Voglio luce e caldo, e che tutte le macchine…

— Non posso! — esclamò Linc guardando lo schermo che indicava il trascorrere dei secondi.

— E invece sì! Nessuno di noi entrerà in quella macchina.

Linc guardò le cinque guardie. Parevano tutte solidali con Monel.

— E va bene. Allora io vado da solo… Tienti la nave! — e fece per alzarsi.

— No, tu non ti muovi! — gridò Monel.

Due guardie costrinsero Linc a rimettersi a sedere. Tre minuti… due minuti e cinquantanove…

— Non è assolutamente possibile riportare in vita la nave — urlò Linc. — Ho dovuto immettere tutta l’energia disponibile nel trasmettitore. Se non ci decidiamo entro due minuti e mezzo moriremo tutti.

— Stai bluffando — disse Monel.

— Ah, credi? Ma guardati un po’ intorno, testa di topo. Le macchine sono già morte. Niente funziona più all’infuori del trasmettitore.

— Puoi ripararle.

— Non ricordi quanto tempo mi ci è voluto per risistemare il ponte? Mesi. E noi disponiamo solo di una manciata di secondi. Gli aeratori non funzionano più. Si tratta solo di vedere se moriremo per soffocamento o per congelamento.

Monel scosse la testa, ma Linc si alzò di scatto e disse alle guardie: — Se vuole ammazzarsi, padrone di farlo. Ma sta ammazzando anche noi.

Le guardie si scambiarono qualche occhiata perplessa.

— Ci rimane poco più di un minuto! Fra un minuto saremo tutti morti.

La guardia che si trovava più vicino al trasmettitore cominciò a dire: — Forse…

— No! — s’intromise Monel. — Vuol tenere la nave tutta per sé!

— È pazzo — disse Linc alla guardia che aveva parlato. — Vuole morire e vuole farci morire tutti con lui. Entrate nella cabina. Riuscirò almeno a salvare un paio di voi.

La guardia esitò per una frazione di secondo, poi afferrò la maniglia.

— Non osare! — strillò Monel.

Ma la guardia era già entrata e aveva chiuso la porta. Linc si mise a manovrare i comandi. Monel cercò di impedirglielo ma lui lo respinse.

— Tenetelo lontano da me — ringhiò.

— No, è un trucco, non permettetegli… — continuò a strillare Monel. Ma due guardie lo sollevarono dalla sedia a ruote e lo trascinarono sulla soglia del portello dove lo lasciarono cadere come un sacco.

Le quattro guardie rimaste si accalcarono tutte insieme alla porta della cabina.

— No! — intimò Linc. — Non così. Due alla volta. — E speriamo che il trasmettitore ce la faccia a trasportarne due!

Quando le ultime guardie furono scomparse, mancavano ventiquattro secondi. Linc premette i pulsanti e manovrò l’interruttore che gli avrebbe concesso dieci secondi per entrare nella cabina prima che il trasmettitore entrasse in funzione. Si alzò e si avvicinò a Monel con occhi pieni di odio. — Volevi la nave? Tientela, è tutta tua.

Monel allungò una mano ossuta. La sua voce era querula, implorante: — Ti supplico… non abbandonarmi.

Mancavano solo sette secondi.

Linc spalancò la porta della cabina, entrò, e si chinò a prendere Monel fra le braccia. Era stranamente leggero, fragile, sembrava un bambino. Piagnucolava. Linc riuscì a chiudere la porta e contemporaneamente l’universo esplose in un accecante, doloroso, insopportabile bagliore.

XXI

Non ci volle né poco né molto tempo. Non ci fu tempo, come se non esistesse. Un annullamento totale. Niente da vedere, da sentire, da udire, da gustare, da odorare.

Sono morto pensò Linc. Ecco cosa si prova a essere morti. Il nulla assoluto.

Non era neppure sicuro di pensare. Il nulla era tale per cui perfino l’esistenza era messa in dubbio. Completamente solo, privo di sensazioni, come se corpo e organi non esistessero più. Né desiderio né paura. Niente se non la consapevolezza e un vago ricordo di…

La luce gli fece dolere gli occhi.

Strizzando le palpebre, Linc si accorse di sentire il peso del fragile corpo di Monel fra le braccia. Sentì che i suoi piedi posavano su una superficie solida. Respirava. Sentiva il pulsare del sangue nelle orecchie.

Senza capire perché, si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Li chiuse e li riaprì più volte per schiarirsi la vista, e allora li vide. C’erano tutti, e si accalcavano intorno alla porta del ricevitore, che Stav aveva spalancato sghignazzando come un pazzo.

Si precipitarono ad afferrarlo e, dopo averlo liberato del peso di Monel, se lo issarono sulle spalle, ridendo, gridando, dandogli delle gran pacche.

— Ehi, un momento…

Ma continuavano a farselo rimbalzare dall’uno all’altro, gridando: — Ci sei riuscito! Ci sei riuscito! Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta!

Linc si guardò intorno e vide il nuovo mondo.

Era verde, non azzurro. E questo lo sorprese. Il terreno era coperto da un tappeto di soffice erba verde che ondeggiava al soffio di una tiepida brezza. Il cielo era di un azzurro chiaro, delicato, che si fondeva nel giallo verso l’orizzonte. Alberi, colline e uno scintillante corso d’acqua…

E c’era tanto spazio!

Il mondo non finiva mai. Si stendeva a perdita d’occhio, libero, enorme, verde e caldo. Caldo! Linc voltò la testa e vide che Baryta non era più una minaccia infuocata ma un caldo sorriso che riscaldava la terra.

Il panorama era bellissimo. Dolci colline ondulate correvano fino all’orizzonte. Il corso d’acqua brillava al sole. Ciuffi d’alberi chiazzavano qua e là la prateria per raccogliersi poi, in lontananza, a formare una fitta foresta. Qualcosa veleggiò con movimenti aggraziati nel cielo, lasciandosi trasportare da un paio d’ali distese dai colori smaglianti.

Finalmente Linc fu deposto a terra e poté sentire la morbidezza dell’erba.

— Ci hai portato in un mondo bellissimo — disse qualcuno.

— Non è merito mio. Abbiamo lavorato tutti, con l’aiuto di Jerlet e delle macchine.

— E adesso cosa facciamo?

Linc vide che tutti lo guardavano, in attesa delle sue decisioni.

— Abbiamo bisogno di un capo — rispose. — Qualcuno in grado di prendere decisioni sagge e di aiutarci a imparare a vivere in questo nuovo mondo.

E prima che qualcuno avesse il tempo di aprir bocca, si avvicinò a Stav e gli posò una mano sulla spalla. — Io dico che Stav dovrebbe essere il nostro capo. Se ne intende più di chiunque altro di agricoltura, ed è di queste cognizioni che abbiamo bisogno, adesso.

Tutti gridarono la loro approvazione. Stav arrossì ma non protestò. Linc si fece da parte mentre gli altri si accalcavano a festeggiare il nuovo capo.

Poi si accorse che Magda gli stava accanto.

— Avranno ancora bisogno di una sacerdotessa — disse lei.

Linc assentì. — Probabilmente. E anche di macchine. Credo di sapere come costruirne qualcuna — continuò sorridendo. — Magari un mulino a vento, tanto per cominciare. E anche una nuova sedia a rotelle per Monel. E se troveremo il metallo necessario, un generatore.

Lei allungò la mano e Linc gliela strinse.

— Abbiamo molto da imparare, noi due — disse Magda.

— Impareremo.

Alzarono gli occhi al cielo, mentre una rapida stella cadente lo solcava.

— La nave — disse Linc.

— Porta via Jerlet, lontano da noi — osservò Magda.

Linc sorrise. Ricordando il vecchio obeso e trasandato, coi capelli scomposti e il vocione tonante, disse: — Ha esaurito il suo compito. Ci ha portati qui sani e salvi. E lo ricorderemo sempre.

La brezza scompigliava i lunghi capelli di Magda, che annuì sorridendo a Linc mentre il melodioso cinguettio di un uccello si diffondeva nell’aria.


FINE
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