Il vetro era freddo.
Linc lo strofinò col dorso della mano e sentì il gelo della morte mordergli la pelle. Tremava tutto. Si gelava lì al buio, fuori dal Posto dei Fantasmi, ma lui non tremava di freddo.
Doveva decidersi. Era in gioco la vita di Peta. E prima di decidere, Linc doveva sapere.
Asciugandosi la mano sul tessuto leggero della tuta, guardò attraverso il vetro appannato nel Posto dei Fantasmi.
Erano là, come sempre.
Erano più di quanti Linc ne riuscisse a contare. Più delle dita di tutte e due le mani. Fantasmi.
Sembravano uomini e donne in carne e ossa. Ma naturalmente nessuna persona di quell’età viveva ancora nella Ruota. Gli adulti erano morti tutti, a eccezione di Jerlet, che viveva molto lontano, al di sopra della Ruota.
I fantasmi erano rimasti congelati dove li aveva colti la morte. Molti stavano seduti davanti alle strane macchine allineate lungo una parete. Alcuni giacevano sul pavimento. Uno era inginocchiato con la schiena contro la parete opposta, gli occhi chiusi come se stesse meditando. Quasi tutti voltavano la schiena a Linc, ma le poche facce che riusciva a vedere erano contorte nell’agonia e nel terrore. Linc rabbrividì ricordando la prima volta che li aveva visti, quando era riuscito a stento ad arrampicarsi sulle spalle di un vecchio servomeccanismo morto e aveva visto, sbirciando attraverso il vetro appannato dal gelo, l’orrendo spettacolo.
Adesso non mi fa più paura si disse.
Ma sentiva ancora il sudore freddo colargli lungo la schiena ossuta; l’odore della paura era reale, e pungente.
I fantasmi stavano ai loro posti fissando con gli occhi ciechi la lunga parete curva piena di strane macchine. I tavoli a cui stavano seduti erano pieni di pulsanti e di luci; gli schermi murali che li sovrastavano erano opachi come i loro occhi… quasi tutti, almeno. Linc ebbe un tuffo al cuore quando si accorse che alcuni erano ancora illuminati e vi apparivano strani disegni che cambiavano di continuo.
Capì che alcune macchine funzionavano ancora.
I fantasmi, un tempo, erano stati persone vere. Vere come Magda o Jerlet o chiunque altro. Ma non si muovevano mai, non respiravano, non distoglievano mai lo sguardo fisso dalle macchine morte e moribonde.
Erano persone vere, un tempo. E un giorno… un giorno anch’io diventerò un fantasma. Come loro. Irrigidito nel gelo della morte.
Ma qualcuna delle antiche macchine funzionava ancora; qualche schermo, sulla parete, era illuminato. Questo significa che le macchine devono continuare a funzionare. Significa che io dovrei cercare di riparare le macchine che Peta ha rotto?
Adesso il tremito che lo scuoteva si era fatto spasmodico. Faceva freddo lì al buio. Linc doveva tornare nella sezione abitabile, dove c’erano caldo e luce, e gente viva. Forse era vero che i fantasmi vagavano lungo i corridoi della Ruota quando tutti dormivano. Forse erano vere tutte le storie paurose che Magda raccontava.
Il tragitto di ritorno alla sezione abitabile fu lungo e penoso. Molti corridoi erano bloccati, chiusi da pesanti portelli di metallo. Altri lunghi tratti erano pericolosi per un viandante solitario, infestati com’erano da ratti famelici.
Linc dovette seguire un tunnel per salire al livello superiore, dove si sentiva così leggero che gli pareva quasi di planare come uno degli uccelli variopinti giù nella sezione fattoria della Ruota Viva. Tese le gambe e con un salto solo coprì più passi di quante dita contasse la mano.
Il secondo livello era un posto strano. I corridoi bui e vuoti erano fiancheggiati da porte sigillate che recavano contrassegni di cui lui non capiva il senso. Ma Jerlet aveva promesso da tempo che un giorno avrebbe spiegato cosa volevano dire.
Qui lui era solo e libero, e scivolava in lunghi balzi. Dimenticò i fantasmi, dimenticò che Peta era in difficoltà, dimenticò perfino Jerlet e Magda. Nella sua mente c’era posto solo per l’emozione di quella corsa simile a un volo, e per le parole di un’antica canzone. Da non molto tempo la sua voce si era fatta più profonda, non diventava più stridula o rauca quando si metteva a cantare. Ne ascoltò con gioia l’eco riflessa dalle nude pareti del corridoio:
Weeruffa seethu wizzer
Swunnerfool wizzeruv oz…
Poi, con un salto raggiunse un grande oblò e per poco non scivolò cercando di vincere l’inerzia per fermarsi a guardare attraverso l’ampia lastra di vetroplastica.
Fuori, le stelle ruotavano lentamente, silenziose, solenni, senza mai ammiccare. Quante stelle! C’erano più stelle di quante erano le persone che abitavano nella Ruota Viva. Più degli uccelli e degli insetti e di tutti gli altri animali, giù nella fattoria. Erano ancora più numerose dei topi. Quante!
Aveva afferrato bene il senso di quanto Jerlet aveva insegnato? Secondo lui Jerlet aveva voluto dire che la Ruota Viva, e tutte le altre ruote su su fino ai livelli più alti, facevano parte di una macchina enorme che ruotava portandoli da una stella all’altra. Linc scosse la testa. Era difficile capire il senso di quello che Jerlet diceva, e poi stava a Magda interpretarlo, non a lui.
Poi apparve la stella gialla. Era più luminosa di tutte le altre, così abbagliante che a guardarla facevano male gli occhi. Linc strizzò le palpebre e voltò la faccia, ma continuava a vedere la chiazza gialla ovunque guardasse.
Dopo qualche istante la chiazza sbiadì. E Linc si sentì gelare il sangue nelle vene.
Perché aveva visto, sulle piastre logore del pavimento, un’ombra vaga che si allungava risalendo lungo la parete di fronte all’oblò.
Ma si rese subito conto che era la sua ombra. Questa constatazione, tuttavia, non eliminò la paura. Perché la luce che produceva l’ombra era quella della stella gialla.
Sta davvero avvicinandosi a noi si disse Linc. Le antiche leggende sono vere!
Con le spalle all’oblò e alla stella gialla, gli occhi fissi sull’ombra che andava lentamente spostandosi, Linc si sentì prendere dal panico.
La stella gialla viene a prenderci. Ci farà diventare tutti fantasmi!
Linc non seppe mai per quanto tempo rimase davanti all’oblò, paralizzato dalla paura. La sua ombra continuò ad avanzare strisciando nel buio, per poi riapparire, ancora e ancora.
Finalmente trovò la forza di muoversi, balbettando: — Se lo dico agli altri impazziranno. Magda, però… devo dirlo a Magda.
La sua voce suonava strana alle sue stesse orecchie. Tremula, acuta, incerta. — Vorrei che Jerlet fosse ancora con noi.
Si avviò a passo lento, evitando di proposito i lunghi salti allegri e leggeri. Sbirciò attraverso il primo portello aperto, poi si fermò sulla piattaforma che si apriva sulla lunga scala a chiocciola metallica del tunnel. Jerlet stava lassù in alto, dove le leggende dicevano che non c’era peso e tutto galleggiava a mezz’aria. Giù dove stavano gli altri, quelli come lui, nella Ruota Viva, c’erano calore, cibo e vita.
E paura.
— Jerlet. Devo trovare Jerlet — disse fra sé e sé Linc con voce decisa, sebbene non avesse idea di quanto lungo fosse il tragitto, né delle difficoltà che avrebbe incontrato.
Linc posò il piede scivoloso sul primo gradino della scala di metallo che portava verso l’alto ma un fruscio sommesso, lieve come un sospiro, lo immobilizzò.
Ancora un altro. Un leggero fruscio nel buio. Qualcosa di soffice che si posava sui gradini di metallo nell’ombra sottostante.
Topi?
Da tempo non c’erano più topi in quel tubo-tunnel, e per liberarlo quattro amici di Linc erano morti. Quei piccoli mostri lottavano con ferocia quando non potevano scappare o nascondersi.
Linc strinse l’impugnatura dell’unica arma di cui disponeva, una lama sottile che un tempo era stata un cacciavite. Ne aveva affilato la punta fino a farla diventare tagliente come un pugnale. Tenendo l’impugnatura di plastica nel palmo sudato, Linc sbirciò nel buio del tunnel, guardando giù nella spirale della scala, per vedere se scorgeva i punti rossi degli occhi dei ratti.
Se sono troppi…
Le ombre si gonfiarono e presero forma. Una persona.
— Peta! — gridò Linc, e la sua voce echeggiò tra le fredde pareti metalliche del tubo.
Il ragazzo sussultò come se le scintille di una macchina lo avessero scottato.
— Peta, sono io, Linc. Non aver paura.
— Linc! Oh, Linc… — Peta risalì di corsa i gradini e afferrò la mano protesa di Linc. Era senza fiato, sudato, con gli occhi sbarrati.
— Cosa fai quassù? — chiese Linc. — Credevo che tu aspettassi Magda per…
— Ho dovuto scappare! Monel e le sue guardie… mi cercano.
Linc considerava Peta un bambino, sebbene tutti quelli che abitavano nella Ruota Viva avessero, naturalmente, la stessa età. Ma Peta era piccolo, con la pelle rosea e morbida e i capelli gialli come la stella che stava per raggiungerli. Sembrava un bambino, non un adolescente.
Linc lo afferrò per le spalle sottili. — Ascolta — disse, — tu avresti dovuto aspettare il giudizio di Magda. Non puoi scappare.
Peta agitava convulsamente le mani. — Ma Monel e le sue guardie… Dice che ho fatto apposta a rompere la pompa. Dice che mi butterà fuori nel buio.
— Non lo può fare…
— Magda però sì. Ha detto che Magda gli ha detto che deciderà così.
— No, Magda non prenderà mai una decisione senza prima aver sentito la tua versione.
Peta si guardò alle spalle. — Avevo fame. Ero stanco. Lavoravo da tanto tempo alle vasche… tutti gli altri avevano avuto la possibilità di mangiare, ma Stav diceva che non potevo smettere finché non avessi finito di ripulire completamente la mia vasca.
— Stav sa il fatto suo. È un uomo giusto — disse Linc.
Anche nella penombra del tunnel, Linc poteva vedere che la faccia, solitamente rosea, di Peta era diventata bianca per il terrore. — Lo so… ma io ho buttato le erbacce nel condotto di scarico.
— Oh, no… — Linc si sentì irrigidire i tendini della nuca. — E così hanno intasato la pompa?
Peta annuì, avvilito.
— Per questo la pompa si è rotta, e adesso metà delle vasche della fattoria non ricevono più acqua — concluse Linc. — Metà delle nostre riserve di viveri è rovinata.
La voce di Peta era ridotta a un sussurro. — Monel è venuto nel mio compartimento con le guardie. Mi hanno preso… dicevano che mi portavano al compartimento della morte per buttarmi fuori.
— Non può farlo!
— Sono scappato — balbettò Peta. — Ho afferrato il bastone di Monel e ho colpito la guardia che mi teneva per un braccio. Poi sono scappato.
— Cos’hai fatto?
— Ho… colpito… la guardia.
— L’hai colpita? Dici sul serio? — Linc si lasciò cadere su un gradino stringendosi la testa fra le mani. Peta gli stava davanti, cercava di parlare ancora ma dalla bocca gli usciva solo un balbettio appena percettibile.
Linc alzò la faccia. — Come hai potuto fare un cosa simile? Se avessi cercato deliberatamente di violare le regole che Jerlet ci ha dato, non ti saresti potuto comportare peggio.
— Volevano portarmi nel compartimento della morte — gridò Peta.
Linc scosse la testa.
— Aiutami!
— Aiutarti? — Linc spalancò le braccia in un gesto d’impotenza. — E come? Metà di noi moriranno di fame per colpa della tua pigrizia. Forse riuscirò a riparare la pompa, ma conosci le leggi di Jerlet riguardo alla manomissione delle macchine. E per di più hai colpito una guardia. Sei ricorso alla violenza! Tutte le leggende sulle guerre e le uccisioni non ti hanno insegnato niente?
— Volevano buttarmi fuori.
— Neanche Monel può farlo senza l’autorizzazione di Magda — replicò Linc. — Non gli sono amico, Jerlet lo sa. Non riesco a sopportarlo per molte ragioni. Ma non potrebbe mai farti del male, altro che a parole. Lui e le sue guardie scherzavano, e tu sei stato tanto stupido da credere che parlassero sul serio. Solo Magda può condannare, lo sai bene.
Peta si lasciò cadere in ginocchio e si aggrappò a Linc. — Aiutami, ti supplico. Mi riporteranno indietro, perché venga giudicato…
— È quello che ti meriti.
— No! Ti prego! Nascondimi… aiutami a sfuggirli.
Linc scosse la testa. — Non puoi nasconderti. Da solo, o moriresti di fame o saresti costretto a rubare il cibo. Prima o poi le guardie di Monel ti acciufferebbero. O i topi.
— Ti prego, Linc, fa’ qualcosa! Non lasciare che mi prendano. Mi…
Linc lo respinse e si alzò. — Vieni, ti porto da Magda.
— Noooo! — urlò Peta.
— La cosa migliore che puoi fare è arrenderti. Forse il suo giudizio sarà più mite. Le chiederò di non infierire.
— Ben detto!
Linc si voltò di scatto. Dal buio sovrastante stavano scendendo la scala Monel e tre guardie. Due reggevano la sedia di Monel grugnendo a ogni passo. Altre tre guardie sbucarono dall’ombra sui gradini sotto di loro.
Monel sorrideva. Un tempo era stato alto come Linc, ma da quando la caduta gli aveva rovinato le gambe e l’aveva costretto su una sedia, sembrava che il suo corpo si fosse raggrinzito e rinsecchito. Adesso era ridotto a un fragile e contorto nodo di collera e dolore. I suoi occhi ardevano nel buio. La sua voce era sottile, fragile e pungente come filo spinato.
— Non fare quella faccia sorpresa, piccolo Peta — disse con la sua voce sottile e acida. — Dopo che ti abbiamo visto sgattaiolare in questo tunnel, è stato facilissimo intrappolarti.
Linc si chinò aiutando Peta a rialzarsi.
— Per un attimo — disse Monel a Linc, — ho pensato che avremmo preso in trappola anche te. Ma ti sei rivelato fedele e leale amico di Magda.
Linc non fece commenti. Nella penombra scorse una ecchimosi sulla guancia di una guardia. Dev’essere il segno lasciato dalla bastonata di Peta.
Il sorriso di Monel faceva gelare il sangue. — Andiamo da Magda. Sta aspettando il suo piccolo Peta.
La sala delle riunioni era piena zeppa. Erano presenti tutti; molti più di quanti Linc potesse contarne sulle dita. Più ancora del numero delle nocche di ogni dito. Magda era al suo posto, al centro del locale. Stava seduta sulla vecchia scrivania dotata di un minuscolo schermo ormai cieco contornato da graziosi bottoni colorati. Tutti gli altri le sedevano intorno, accovacciati per terra, come era d’uso, con gli occhi fissi su di lei. Pareva che anche gli scaffali vuoti sulle pareti la guardassero. Su quegli scaffali c’era ancora qualche antico libro, polveroso e accartocciato, con le pagine che si sbriciolavano a toccarle. Erano stati conservati per i casi d’emergenza, in vista di un tempo in cui il freddo si sarebbe infiltrato nella Ruota Viva e ci sarebbe stata necessità di qualunque cosa da bruciare. Gli altri libri erano serviti allo stesso scopo molto tempo prima. Quando, Linc non poteva ricordarlo.
Magda stava seduta con la schiena eretta, il mento sollevato, gli occhi chiusi. Teneva le gambe scarne ripiegate sotto il corpo come si conveniva quand’era nell’esercizio delle sue funzioni di sacerdotessa. Portava i capelli neri accuratamente pettinati che brillavano sotto la cruda luce dei pannelli inseriti nel soffitto.
Indossava il manto da sacerdotessa, liso e rammendato in più punti, su cui però spiccavano ancora strane lettere e disegni: CPRT TERMELETR 110 v. Nella destra reggeva lo scettro simbolo di potere e autorità, un oggetto che gli antichi chiamavano riga; nella sinistra teneva il simbolo della giustizia e della pietà: il teschio di un neonato. Intorno al petto, la catena d’oro dello zodiaco coi suoi dodici segni misteriosi.
Linc sedeva ai piedi di Magda, abbastanza vicino alla scrivania da arrivare a toccarla se avesse allungato la mano. Cosa che nessuno sano di mente avrebbe mai osato fare. La scrivania era riservata esclusivamente alla sacerdotessa e nessuna mano profana poteva sfiorarla.
Linc fissava la faccia di Magda incorniciata dall’enorme schermo grigio argento a muro che le stava alle spalle. Quando esercitava le sue funzioni di sacerdotessa e meditava, come ora, Magda dava l’impressione di non accorgersi di niente, tanto era concentrata nel suo dovere.
Ma era sempre bellissima. Gli occhi erano più scuri della notte eterna dello spazio, la faccia cesellata con la stessa finezza dei segni d’oro dello zodiaco. E tuttavia quegli zigomi accentuati, quella mascella decisa denotavano forza e autorità. E dalle sue labbra sgorgava la saggezza.
Magda si mosse e aprì gli occhi. Gli astanti sospirarono, agitandosi a disagio. La meditazione era terminata.
I profondi occhi neri di Magda si fissarono sui presenti, scrutandoli uno per uno. Poi disse semplicemente: — Sono pronta.
Monel si affrettò a spingere avanti la sua seggiola a ruote, ma Linc fu più svelto di lui e si alzò. Peta, che sedeva con due guardie di Monel ai lati, restò immobile. Sembrava pietrificato, era talmente atterrito da non riuscire nemmeno a muoversi.
— Abbiamo un problema — disse Linc esprimendosi col frasario di circostanza. — Peta ha combinato un pasticcio lavorando nelle vasche della fattoria e una delle pompe principali è guasta a causa della sua trascuratezza…
Un mormorio di orrore si levò dagli astanti. Quasi tutti erano al corrente del guasto alla pompa, ma l’idea di restare a corto di cibo continuava a sconvolgerli.
Magda guardò Peta ma non disse niente.
— E poi, quando Monel e le sue guardie lo hanno minacciato — continuò Linc, — Peta ha colpito una delle guardie ed è scappato.
Un sospiro più forte, seguito da un coro di mormorii, fece eco a queste parole.
La faccia della sacerdotessa s’incupì. — È vero, Monel?
Monel aveva raggiunto Linc, con la sua sedia, ed ora fece cenno alla guardia colpita di farsi avanti. — La prova è qui, chiara e lampante — disse. La guardia si voltò lentamente perché tutti potessero vedere il livido sulla guancia.
— Peta era spaventato — disse Linc. — Monel gli aveva detto che volevano portarlo nel compartimento della morte.
— È falso! — scattò Monel. — Peta stava scappando e noi cercavamo di fermarlo.
Linc fece un cenno di diniego. — Peta aveva deciso di arrendersi al tuo giudizio, Magda. Monel e le sue guardie sono arrivati nel tunnel proprio quando aveva acconsentito a venire a implorare pietà da te.
Magda si picchietto il ginocchio con lo scettro per un momento. — Cosa c’entri tu in tutto questo, Linc? Eri presente al fatto?
— No. Era il mio turno di riposo. — Inutile parlare del Posto dei Fantasmi davanti a tutti. Né della stella gialla sempre più vicina. Sarebbe servito solo a spaventarli. — Ho incontrato per caso Peta nel tubo-tunnel.
Monel sistemò la sua sedia davanti a Linc. — Peta è uno stupido e un fannullone. La sua pigrizia e la sua idiozia hanno rovinato metà delle vasche della fattoria. Chiedi a Stav se non è vero.
— Sono rovinate davvero? — chiese Magda.
— Sì — rispose la voce tonante di Stav dal fondo della sala.
Magda abbassò lo sguardo su Peta. — Tutto quel cibo rovinato! Come possiamo vivere senza cibo?
Prima che il giovane terrorizzato potesse rispondere, Linc disse: — Ti ho portato Peta perché tu eserciti su di lui la tua giustizia con misericordia.
L’ombra di un sorriso passò sulla faccia della sacerdotessa. Per un attimo i suoi occhi rimasero fissi in quelli di Linc, come se loro due fossero soli nella stanza. Linc sentì le sue labbra schiudersi in un lieve sorriso.
— Ma quello che è peggio — urlò Monel — è che Peta è un violento! Ha aggredito la mia guardia. Potrebbe aggredire chiunque, in qualsiasi momento. Chiunque di voi — e agitò il braccio in direzione dei presenti.
Tutti bisbigliarono guardando Peta, che teneva la testa china nascondendo la faccia. Le guardie che lo sorvegliavano si irrigidirono, guardando Monel, non Magda.
— Sappiamo tutti qual è la punizione per gli atti di violenza — continuò Monel rivolgendosi più alla folla che alla sacerdotessa. — La violenza è un crimine che non possiamo tollerare.
— Gettatelo fuori nel buio! — gridò qualcuno.
— Gettatelo fuori! — fece una guardia.
— Sì… sì… — gridarono gli altri.
Monel, con la faccia scarna arrossata, un sorriso di trionfo sulle labbra crudeli, tornò a rivolgersi a Magda. La sacerdotessa alzò le braccia per imporre il silenzio, e subito la folla ammutolì. Peta continuava a sedere immobile, a testa bassa.
— Peta — disse piano Magda, — cos’hai da dire in tua difesa?
Il ragazzo alzò la faccia per poterla guardare, scrollò le spalle e tornò a chinare la testa.
— Peta — ripeté Magda, questa volta in tono imperioso. — Alzati in piedi!
Lui si alzò lentamente.
— È colpa tua se la pompa si è rotta?
Lui annuì.
— È vero che hai colpito la guardia?
— Sì… ma loro dicevano…
Monel intervenne: — Lo ammette.
— Si è rivolto a te perché lo giudichi con misericordia — disse Linc.
— La punizione per chi compie atti di violenza è nota a tutti. Dev’essere gettato fuori nel buio — ringhiò Monel. — Non è vero?
Magda sollevò le braccia sottili. — La punizione — disse con voce dura come l’acciaio — sarà stabilita dalla sacerdotessa e da nessun altro.
— Permettimi di dare un’occhiata alla pompa rotta — disse Linc. — Forse la posso riparare.
— Ripararla? — Monel quasi rideva. — Vuoi dire rimetterla in funzione cosicché il raccolto non vada perduto?
— Sì — rispose Linc.
— Sei pazzo! Sai che è contrario alla legge di Jerlet toccare una macchina come quella. E anche se ti fosse concesso di farlo, credi che ne saresti capace? Non è come un taglio su un dito che poi guarisce…
— O come un livido sulla guancia che poi scompare?
Monel si rabbuiò. — Questo è un altro paio di maniche. La pompa della fattoria è una macchina. Una volta morta è morta per sempre. Non può guarire né essere riparata.
— Lasciami provare — disse Linc a Magda. — Forse riusciremo a salvare il raccolto. Ho già riparato altre cose… cavi, macchine elettriche. Forse…
Magda scosse la testa. — È proibito toccare le macchine di quel tipo. Conosci le leggi di Jerlet.
— Ma…
— È proibito.
Tornò a chiudere gli occhi per meditare. Tutti i presenti la imitarono. Linc tornò a sedersi per terra e chiuse gli occhi.
Cercò di scacciare tutti i pensieri e di lasciare libera la mente. Ma continuava a vedere i fantasmi congelati del Posto Fantasma. Rabbrividì. Il freddo aumenta. Arriverà fin qui dove viviamo. Anche alcune piante nelle vasche della fattoria stanno morendo di freddo. Poi gli tornò in mente la stella gialla che si avvicinava. È strano che moriremo tutti nel fuoco. Se solo potessimo sfruttare quella stella per scaldarci e scacciare il freddo…
Ma pensieri simili non lo aiutavano a meditare. Cercò di sgombrare la mente. Il mondo è solo un’illusione fugace salmodiò fra sé. Il mondo è…
— Ho deciso — annunciò Magda. Tutti la guardarono.
Lei puntò lo scettro verso Peta. — Nessuno ha commesso atti di violenza fra noi da che Jerlet ci ha lasciato, quando eravamo tutti bambini. Dobbiamo chiedere a Jerlet di giudicare perché la punizione per un atto di violenza è troppo grave perché anche una sacerdotessa ne sia l’unica responsabile.
Il petto di Peta si sollevava e si abbassava a un ritmo affannoso. Magda toccò i pulsanti colorati sul ripiano della scrivania dove stava seduta. Il grande schermo alle sue spalle s’illuminò di una luce argentea e la faccia di Jerlet riempì tutto lo schermo.
Enorme, imponente, dominava tutta l’assemblea.
Era vecchio, molto più vecchio di tutti coloro che abitavano nella Ruota Viva. La sua faccia era forte, quadrata, con profonde rughe intorno agli occhi e alla bocca. Aveva i capelli lunghi e folti striati di grigio che gli si arricciavano intorno alle orecchie e sulle spalle. La voce tonante aveva un timbro di comando nel ripetere le parole della legge così come le aveva sempre pronunciate: — Ho cercato di sistemare voi bambini nel miglior modo possibile. I servomeccanismi dovrebbero durare almeno finché non potrete badare a voi stessi. Oltre a voi, l’unico superstite sono io. Non posso rimanere più a lungo, ma credo che ve la caverete. Anzi, ne sono sicuro.
Gli astanti bevevano le antiche parole fissando l’immagine di Jerlet sullo schermo. Le conoscevano tutti a memoria, avendole sentite infinite volte fin dall’infanzia.
— Tornerò quando mi sarà possibile per vedere come vi comportate… e vi terrò d’occhio attraverso gli schermi. Ma adesso devo salire nella sezione a zero g. Il mio cuore non può più sopportare questo peso.
Linc cambiò posizione per poter guardare Magda. Stava là immobile e il suo corpo sottile si stagliava scuro sullo sfondo della presenza imponente di Jerlet.
— E adesso badate di ricordare bene le regole che ho stabilito — stava dicendo Jerlet. — Dovete seguirle per il vostro bene. Badate in particolar modo di non toccare le macchine che non vi ho insegnato a manovrare. Lasciate che ci pensino i servomeccanismi. Sono stati fatti per questo. Se toccate le macchine potreste farvi del male. Sarà già abbastanza dura per voi, rimasti soli, senza pasticciare con le macchine. Ma, soprattutto, non fatevi del male a vicenda. La violenza, la collera e l’odio hanno ucciso quasi tutti quelli che vivevano su questa nave. Voi siete l’unica possibilità di sopravvivenza. Non sprecate tutto quello per cui abbiamo lavorato per generazioni e generazioni. La strada che dovrete percorrere sarà lunga e difficile. La violenza la renderebbe ancora più dura… potreste facilmente estinguervi. Perciò — strinse gli occhi come se fosse stato colpito da un improvviso dolore, — soprattutto… non fatevi del male a vicenda. La violenza è il vostro peggior nemico. Mai farvi del male l’un l’altro. Mai!
L’immagine sparì lasciando vuoto lo schermo luminoso. Linc sentì che qualche ragazza piangeva.
— Jerlet ha parlato — disse Magda.
— Ma… — Peta aveva ritrovato la voce. — Ma è quello che ha sempre detto…
Magda annuì gravemente. — Non ha cambiato la sue regole per te, Peta. Non c’è perdono per il peccato di violenza. Devi essere estromesso.
Peta si alzò. Gli tremavano le ginocchia. Le guardie lo afferrarono mentre lui gridava: — No! Ti supplico.
— Sii misericordiosa — la pregò Linc.
— Non merita nessuna pietà — dichiarò Magda guardando da Linc a Monel. Peta stava in piedi a testa bassa, immobile, saldamente tenuto dalle guardie.
— Ma — proseguì Magda, — è la prima volta che si verifica un atto di violenza, e sarebbe una violenza ancora più grave gettare fuori Peta nel buio. Questa è la natura di tale peccato: violenza genera violenza.
Linc si chiese dove volesse andare a parare.
— Perciò — disse lei, — Peta non sarà spinto nel compartimento della morte e di là fuori nel buio. Invece gli verrà consegnato cibo e acqua per tre pasti, e dovrà risalire il tubo-tunnel fino a raggiungere il regno di Jerlet. Sia lui a emettere il giudizio decisivo.
La folla sbalordita rimase immobile. Allora Madga pronunciò le parole magiche che erano il suggello della sua decisione: -— Quod erat demonstrandum.
Uno dopo l’altro uscirono tutti lentamente dalla stanza, finché rimasero solo Magda e Linc.
Magda premette il pulsante che spegneva lo schermo a muro, poi si lasciò cadere dalle spalle il mantello e depose i simboli del potere. Linc le si era avvicinato, ma non osava toccarla anche se non era più in veste di sacerdotessa.
— Stai bene? — le chiese.
Un cenno di assenso. — Sì.
— Sul serio?
— Be’… — Sorrise e la stanza parve farsi più luminosa. — Quando Jerlet ci parla resto sempre turbata. La sua voce… A volte me la sogno.
— È per questo che sei sacerdotessa.
Adesso che erano rimasti soli nell’ampio locale coi pochi libri negli scaffali vuoti, Magda era meno ieratica e più umana.
— Sei arrabbiato con me? — chiese guardando Linc con uno sguardo indagatore negli occhi bruni.
— Arrabbiato? Perché?
— Volevi che mi mostrassi misericordiosa con Peta.
Linc strinse i denti. Peta. Mi ero quasi dimenticato di lui.
Mi basta restare solo con lei per pochi minuti per dimenticare tutto.
— Si occuperà Jerlet di lui — disse.
— Ma tu pensavi che avrei dovuto essere più indulgente.
Vuole litigare? — Avresti potuto, se l’avessi voluto, Peta non è un violento.
— No. Ho capito che ha agito in quel modo spinto dal panico.
Linc rimase perplesso. — L’hai mandato nel tubo. Può darsi che non riesca mai a raggiungere il regno di Jerlet. I topi, e chissà cos’altro…
— Sai perché l’ho mandato?
Linc scosse la testa.
— A causa di Monel.
— Pensavi che lui avesse ragione e io torto?
Lei scoppiò a ridere e sfiorò con la mano la guancia di Linc. — No, sciocco che non sei altro! E smettila di fare quella faccia cupa. Volevo che Peta fosse assolto. Sarebbe stato divertente veder Monel diventare paonazzo. E poi…
Linc aspettò che finisse la frase, ma poiché lei continuava a tacere chiese: — E poi?
Magda si allontanò di qualche passo, avviandosi verso l’ampia porta a due battenti della sala. — E poi ti avrebbe fatto piacere.
Linc si rigirò di scatto e Magda corse verso la porta.
— Ehi, aspetta, Magda!
Linc scattò veloce sul pavimento sconnesso, raggiunse la ragazza, e le si piazzò davanti bloccando la porta.
— Volevi farmi piacere?
— Sì.
Linc non riusciva a raccapezzarsi. — E allora, perché non l’hai fatto? Perché hai estromesso Peta? Perché hai chiesto a Jerlet di parlare? Sapevi che avrebbe ripetuto le solite vecchie cose… non dice mai altro.
Il sorriso si spense sulla faccia di Magda e gli occhi tornarono ad assumere un’espressione turbata. — Linc, Monel è assetato di potere. È un prepotente. Sono sicura che ha spaventato a morte Peta, altrimenti come si spiega che quel povero ragazzo abbia osato colpire una guardia? Peta non aveva mai fatto del male a nessuno, prima.
— Ma allora…
Lei gli pose un dito sulle labbra per farlo tacere. — Ascoltami. Il vero motivo per cui io sono sacerdotessa è che so come la pensa la gente. Monel vuole diventare il capo. Vuole assumere il comando e farsi ubbidire da tutti. Sarebbe un pessimo capo, dannoso per tutti. Perciò io devo essergli superiore ed evitare in tutti i modi che diventi più potente.
Linc sentì un vuoto nello stomaco come quando saliva al secondo livello dove la gravità era inferiore.
Adesso però la sensazione era molto più sgradevole.
— Monel vuole… come fai a saperlo?
Lei scrollò le spalle esili. — Lo so. Sento mentre lo pensa. Sento l’odore della sua fame.
— A Monel piace comandare perché gli piace darsi arie — disse Linc.
— Mi ha fatto capire chiaramente che gradirebbe molto fare un patto con me. Io resto sacerdotessa e lui mi dice cosa devo fare.
Linc si immaginò mentalmente una scena di lui che affrontava Monel e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di essere violento.
— Stai tremando! — esclamò Magda.
Lui l’afferrò per le spalle. — Monel mi è sempre stato antipatico, fin da quando eravamo bambini e Jerlet viveva insieme a noi. Quando cadde e diventò storpio… be’, mi sforzai… cercai di non provare più antipatia per lui. Ma adesso…
— Non ti preoccupare — lo tranquillizzò Magda avvicinandosi a lui e posandogli la guancia sul petto. — So come va trattato. Ci penso io. Non aver paura…
— Non è paura quella che provo — ribatté lui a denti stretti, abbracciandola. Poi gli venne in mente un’altra cosa. — Ma perché hai fatto quello che voleva Monel? Perché hai mandato via Peta?
Lei si scostò un po’ e sollevò la faccia per guardarlo negli occhi. — Immagina che avessi assolto Peta e che in seguito qualcuno fosse stato aggredito. Cosa credi che sarebbe successo poi?
— Ma Peta non…
— No. L’avrebbe fatto Monel, accusando Peta.
Linc rimase a bocca aperta. — Adesso capisco!
— Non potevo permetterlo. Non potevo correre questo rischio. Monel ne avrebbe approfittato per assumere il comando… per comandare a tutti, anche a me. Questo non deve succedere! Io sono la sacerdotessa e voglio continuare a esserlo, a dispetto delle ambizioni di Monel.
— E così Peta ha dovuto essere sacrificato.
— Punito — lo corresse lei. — Era pigro, stupido e violento, e se fossi stata clemente avrei fatto il gioco di Monel.
Linc tacque a lungo. Quando riprese a parlare disse: — Spero che riesca ad arrivare da Jerlet. È un’arrampicata lunga e pericolosa.
Magda voltò la testa per guardare lo schermo a muro. — Andiamocene di qui. Ho la sensazione che lui senta e veda tutto quello che facciamo.
— Chi, Jerlet?
— No, Monel.
Erano nel corridoio, diretti alla zona viva, quando Linc le parlò della stella gialla.
— Adesso è abbastanza luminosa da formare ombre. Non la si può guardare perché fa male agli occhi.
— Quanto tempo ci resta?
— Chi lo sa! Forse solo pochi sonni. Forse tanto tempo da consentirci di diventare vecchi come Jerlet.
— Nessuno può diventare tanto vecchio!
Rimasero insieme.
Poi Linc le chiese: — Vuoi salire a vedere?
— Sì — rispose Magda dopo un attimo di esitazione.
Erano quasi arrivati al portello che dava sul tubo-tunnel quando uno degli addetti alla fattoria li chiamò. Magda e Linc si fermarono davanti al portello mentre l’altro arrivava di corsa.
— Magda — disse ansando, — Monel vuole vederti… subito.
— Può aspettare — disse Linc.
— No… si tratta del raccolto… Non c’è abbastanza da mangiare per tutti…
La faccia di Magda si trasformò in una maschera dura. Anche così è bella pensò Linc.
— E va bene — disse lei all’operaio. — Parlerò a Monel del cibo.
Si avviarono tutti e tre, e Linc si voltò a guardare il portello del tubo- tunnel. Dev’essere il tunnel dove hanno mandato Peta. Chissà come se la cava. Riuscirà a raggiungere Jerlet prima di aver bisogno di mangiare e di dormire? E il tunnel porta veramente al regno di Jerlet?
Monel si trovava nel piccolo compartimento riscaldato fornito di una cuccetta malandata, di uno schermo che non funzionava sulla parete di fondo e di una scrivania piena di bottoni, anch’essa guasta.
Ma sul ripiano libero della scrivania Monel aveva disposto una gran quantità di dischetti di plastica colorata. Dove li ha presi? si chiese Linc.
Lui e Magda stavano accanto alla porta del cubicolo. Monel sedeva alla scrivania sulla sua sedia a ruote, giocherellando coi dischetti di plastica con le lunghe dita scarne. Sulla cuccetta stava seduta Jayna, una ragazza che aveva lavorato alla fattoria ma che adesso stava con Monel.
— Ho imparato a servirmi di questi pezzetti di plastica per risolvere i nostri problemi alimentari — disse Monel. E Jayna aggiunse: — Io l’ho aiutato.
— Mangeremo la plastica? — chiese Linc.
— Ma no! — sbottò Monel. — Questi pezzi di plastica servono a spiegarci come dobbiamo distribuire il mangiare alle persone giuste.
— Le persone giuste? — ripeté Magda.
— Sì… guarda… — Monel cominciò a disporre in fila i dischetti. — Vedi. Ogni pezzo rappresenta uno di noi.
— I gialli sono per i maschi e i verdi per le femmine — disse Jayna con un gran sorriso compiaciuto.
Linc guardava Monel che disponeva i dischetti in tante file. — Come fai a sapere che il numero dei dischetti corrisponde a quello delle persone?
— Ne ho preso uno per ognuno di noi — spiegò Jayna sempre più compiaciuta di se stessa. — Sono stata io a inventare il metodo. E ricordo a chi corrisponde ogni disco. Come vedi sono di dimensioni diverse. So a chi corrispondono. Ho un’ottima memoria. — Si alzò e andò a sedersi sulla scrivania. — Vedi? Questo è tuo, Magda. È verde, è il più grosso. E questo è di Monel.
— Interessante — osservò Magda. Linc aveva l’impressione che lei facesse uno sforzo per parlare con un tono calmo e pacato, ma senza riuscirci. — Però non capisco affatto cosa c’entri tutto questo col cibo.
— Aaah! — L’abituale cipiglio di Monel lasciò il posto a un largo sorriso. — Da quando Peta ha rotto la pompa ci troviamo di fronte a un grave problema. Non c’è abbastanza da mangiare per tutti.
— Non ancora — corresse Linc. — Per adesso ne abbiamo a sufficienza.
Monel gli diede un’occhiataccia. — Ma quando sarà maturo il prossimo raccolto disporremo solo della metà del nostro fabbisogno. Qualcuno soffrirà la fame… anzi, molti.
— Tutti — precisò Magda, — perché divideremo il cibo in parti uguali.
— Come abbiamo fatto finora — riprese Monel. — Ma questo non significa che dovremo continuare sempre così. Con questi pezzetti di plastica decideremo chi mangerà, e quanto.
— Ma tutti hanno bisogno di mangiare — osservò Linc.
— Però non tutti se lo meritano — rispose pronto Monel.
— Come sarebbe a dire?
— Sai che c’è sempre qualcuno che non si comporta a dovere — spiegò Monel. — Non lavora, si arrabbia, non medita quando dovrebbe… le mie guardie hanno notato un mucchio di infrazioni, e te ne accorgeresti anche tu, se tenessi gli occhi aperti. Incideremo un segno sul gettone corrispondente a chi si comporta male. Più segni ci saranno meno cibo avrà.
Linc rimase a bocca aperta, e prima che avesse il tempo di intervenire, sentì la voce di Magda tagliente e gelida come un coltello. — E chi deciderà se qualcuno si è comportato male?
Il sorriso di Monel diede il voltastomaco a Linc. — La sacerdotessa, naturalmente — rispose Monel. — Con l’aiuto di questi pezzetti di plastica e di coloro che sanno come servirsene.
— Non puoi… — cominciò Linc, ma Magda lo zittì con un gesto.
— E se la sacerdotessa si rifiutasse di ricorrere a questo sistema? Se decidesse che non è giusto privare deliberatamente qualcuno del cibo?
Il sorriso era rimasto stampato in faccia a Monel, come se si fosse raggelato. — Quando la gente sarà stanca di aver poco da mangiare — rispose, — si renderà conto che questo sistema è giusto.
— Per qualcuno.
— Per i migliori — precisò Monel. — Una volta convinti che è meglio far così che lasciar morire tutti di fame, decideranno che la sacerdotessa fa male a opporsi a questo metodo.
— E allora? — chiese Magda.
— Allora sceglieranno un’altra sacerdotessa. — Monel si voltò a guardare Jayna che fissava Magda con occhi di fuoco.
— Non è giusto! — gridò Linc. — Abbiamo sempre diviso equamente il cibo fra noi. Il tuo progetto è contrario alle norme di Jerlet.
— E allora va’ a chiedere a Jerlet cosa dobbiamo fare! — sbottò Monel.
Per la prima volta Magda pareva insicura. Le tremava quasi la voce, quando disse: — Sai che Jerlet non risponde alle nostre domande.
— Lo so benissimo. Jerlet non risponde mai quando gli chiediamo qualcosa — ribatté acido Monel. — Continua sempre a ripetere le stesse cose.
— Ma se avessimo una nuova sacerdotessa… — mormorò Jayna.
— …forse a lei risponderebbe — concluse Monel.
Linc si sentì improvvisamente avvampare. Provava il desiderio incontenibile di prendere a pugni qualcosa: lo schermo a muro, la scrivania, la porta… la faccia contorta di Monel. Violenza! Non dovete commettere il peccato di… Ma ciononostante serrò i pugni, e mosse un passo verso Monel.
Magda gli afferrò il braccio. — Linc! Vieni con me. Siamo stati a sentirli anche troppo.
Lui guardò Monel con odio crescente, ma la mano di Magda sul suo braccio, e la sua voce, lo persuasero a seguirla. Uscirono nel corridoio senza dire altro.
Magda chiuse la porta. Nel corridoio faceva più freddo, e la collera di Linc poco a poco sbollì.
— Non cerca altro — disse Magda. — Se tu l’avessi aggredito, ti avrebbe sbattuto fuori. Adesso capisco come sono andate le cose con Peta. Monel se ne è servito come di una cavia. Se fosse riuscito a indurre il debole Peta ad aggredirlo, tanto più ci sarebbe riuscito con te.
— Io l’ammazzo! — mormorò Linc.
— Tu non farai mai niente del genere — gli intimò lei. — Se solo ti ci provassi, per te sarebbe la fine. E anche per me.
— E allora cosa possiamo fare?
— Non volevi mostrarmi la stella gialla? Andiamo.
— Adesso?
— Sì, adesso.
Si fermarono insieme davanti alla grande vetrata panoramica, tenendosi abbracciati. Guardavano le stelle che punteggiavano l’oscurità, eternamente uguali e splendenti. E quando comparve la stella gialla, voltarono la testa e guardarono le loro ombre strisciare sul pavimento e risalire sulle pareti del corridoio.
— È strano — mormorò Magda. — La stella gialla dà calore… porta via il freddo. Dà un senso di benessere.
— Solo momentaneamente — disse Linc. — Diventerà sempre più calda fino a bruciarci tutti.
— Così calda da ucciderci — disse Magda.
Linc assentì.
— Ma moriremmo comunque perché avremo troppo poco da mangiare.
Lui non fece commenti.
— Linc… Monel ha ragione, non è vero? Devo decidere come vuole lui riguardo al mangiare?
— Non puoi fare una cosa simile. Ci siamo sempre divisi tutto in parti uguali. Non potrai mai decidere di lasciar morire di fame una persona per dar da mangiare a un’altra.
— La sacerdotessa può farlo — dichiarò lei fissandolo con un’occhiata penetrante.
— Sarebbe ingiusto…
— Sono io che decido se una cosa è giusta o no. Io sola, e nessun altro.
— Seguendo le istruzioni di Monel? — ribatté Linc.
— Solo Jerlet può dirmi quello che devo fare.
La collera che Linc aveva cercato di domare tornò a esplodere. — Jerlet non ha mai detto niente di nuovo né a te né agli altri! Ripete sempre le stesse cose!
— Certo. — Magda aveva mantenuto la sua calma gelida.
— Per questo ci ha detto tutto quello che dovevamo sapere. Non capisci? Ci ha impartito tutte le norme necessarie. Sta alla sacerdotessa seguirle con saggezza.
— Lasciando morire la gente di fame.
— Se lo riterrò necessario.
— Se Monel ti dirà che è necessario!
— Linc, ci sono tante cose che tu non capisci. Se decido che certa gente deve morire di fame perché è cattiva, e gli altri acconsentono, cosa potrebbe impedirmi un giorno di lasciar morire di fame Monel?
— Tu… — Linc era a corto di fiato e trasse un lungo respiro. Ma quando riprese a parlare la sua voce era acuta e stridula per lo stupore: — Tu faresti una cosa simile?
— Se decidessi che Monel è malvagio.
Lui la guardava come se la vedesse per la prima volta. Quella ragazza esile e bella poteva disporre a suo piacimento delle loro vite. — Lo uccideresti?
— Non se ne presenterà mai l’occasione — rispose lei con un lieve sorriso. — Talvolta riesco a vedere nel futuro… be’, «vedere» non è forse la parola giusta. È una sensazione, come una ventata fredda…
— E che cosa…?
Lei si scostò un po’ e guardò nel corridoio buio. — Non vedo me stessa condannare a morte qualcuno… Nemmeno Monel… Sento come… come se dovesse succedere un miracolo. Sì, questa è la parola giusta. — Guardò Linc negli occhi. — Un miracolo, Linc! Jerlet rimetterà in funzione la pompa. Ci ridarà la vita.
Linc distolse gli occhi dalla sua faccia sorridente, e intanto pensava: Jerlet non farà niente… a meno che non agisca tu per lui.
Dormirono per terra, lì nel corridoio davanti alla grande vetrata, tenendosi abbracciati per scaldarsi. I raggi della stella gialla non erano ancora abbastanza forti, ma non importava.
Linc fu il primo a svegliarsi.
Si mise a sedere e guardò Magda che respirava leggera nel sonno, calma e tranquilla come quando erano bambini e non avevano paura né preoccupazioni. Allora Jerlet viveva insieme a loro e aveva strane e meravigliose macchine che si occupavano dei bambini: li tenevano puliti, lavavano i loro indumenti, li nutrivano, insegnavano loro a camminare e a parlare. Insomma, provvedevano a tutto.
Poi, una dopo l’altra, le macchine si erano guastate e consumate col tempo. Funzionava ancora qualche macchina addetta alle pulizie. Jerlet diceva che si chiamava «ultrasonica» o qualcosa del genere. Ci si metteva davanti e dalla macchina scaturiva un soffio leggero, come una vibrazione. Dopo di che, la sporcizia era sparita. Ma anche queste macchine si erano logorate.
Linc si accigliò nel ricordare. Parecchio tempo prima, aveva aggiustato una di quelle macchine. Non funzionava bene, e lui aveva frugato nel suo strano cuore pulsante quando nessuno lo vedeva. Dentro c’era una gran quantità di polvere e di sporcizia. Lui aveva pulito, e la macchina aveva ripreso a funzionare.
Non ne aveva mai parlato a nessuno. Jerlet si sarebbe arrabbiato.
Che strana regola pensò. Perché mai Jerlet ce l’ha imposta? Se le macchine non funzionano moriamo tutti. Se invece potessimo ripararle… riparare quelle che ci danno calore, quelle della fattoria, le luci…
Tornò a guardare Magda che si era mossa. Stava per svegliarsi.
Se potessi riparare la pompa non ci sarebbe bisogno di ricorrere al sistema di Monel con i suoi dischetti di plastica.
Ci aveva pensato un’infinità di volte da quando Magda aveva parlato di miracolo.
Se potessi ripararla… e se nessuno mi cogliesse sul fatto…
Finalmente Magda si svegliò e tornarono insieme nella Ruota Viva. Erano già tutti svegli. Monel stava urlando ordini mentre gli altri si mettevano in fila per il primo pasto. Strapazzò i cuochi e badò a che le file fossero ben allineate. Controllò i vecchi, logori piatti di plastica, e si assicurò che nessuno avesse più cibo di quanto gli spettasse. Insomma, diede fastidio a tutti.
Però nessuno si lamentava. Qualcuno sorrideva o faceva al massimo qualche commento scherzoso. Tutto qui. Erano abituati al modo di fare di Monel e avevano paura delle sue guardie.
Poi cominciò la giornata lavorativa. Linc era addetto al centro di distribuzione dell’energia elettrica. Stava davanti a uno schermo a muro che continuava a lampeggiare, come gli aveva insegnato Jerlet quand’era piccolo, e guardava le luci colorate apparire e sparire. Non aveva altro da fare. Ogni tanto una luce cambiava colore, diventava scarlatta e poi si spegneva per non riaccendersi più.
Nel corso degli anni Linc aveva finito col capire che ogni luce corrispondeva a un locale e alle macchine che vi si trovavano. Quando una luce si spegneva, una macchina cessava di funzionare. Poteva trattarsi di un gruppo termico, di un ventilatore o di una cucina. Quale corrisponderà alla pompa che Peta ha rotto? Linc esaminò la parte dello schermo che corrispondeva ai locali della fattoria.
Una delle più grosse emozioni della sua vita l’aveva provata quando si era reso conto che le linee rette sullo schermo rappresentavano i cavi che si stendevano lungo i corridoi dietro i pannelli di plastica delle pareti. Le linee avevano lo stesso colore dei cavi: giallo, verde, rosso, blu, e così via. Una volta aveva perfino aggiustato uno di quei cavi; aveva trovato il punto del guasto notando che le righe sullo schermo avevano mandato un lampo rosso in quel punto.
Dopo un’estenuante discussione e una giornata intera di meditazioni, la sacerdotessa aveva deciso che il filo non era una macchina e quindi poteva essere toccato da mani umane. Linc aveva riparato il cavo difettoso ricordando come faceva Jerlet e dopo di lui i servomeccanismi, e una stanza che era diventata buia e fredda si era improvvisamente illuminata e riscaldata.
Sarò capace di aggiustare la pompa? continuò a chiedersi durante la giornata.
Terminato l’orario di lavoro, continuava ancora a chiederselo. Ci pensò durante l’ultimo pasto, che era molto più scarso del solito, con Monel che correva avanti e indietro sulla sua sedia a rotelle, impartendo ordini e dando fastidio a tutti.
Magda non c’era. Evidentemente si era ritirata nel suo tabernacolo a meditare.
Cerca di mettersi in contatto con Jerlet, si disse Linc.
Con la voce di Monel che gli rimbombava nelle orecchie prese il suo piatto e si ritirò nel suo compartimento e mangiò da solo, in silenzio.
Le luci si attenuarono per indicare che era l’ora di dormire, come sempre dopo l’ultimo pasto. Linc si sdraiò sulla cuccetta e sentì che il caldo diminuiva. Durante il periodo del sonno le macchine che producevano calore si spegnevano automaticamente. Ma Linc non aveva voglia di dormire.
Adesso non si chiedeva più: Sarò capace di aggiustarla?, ma: Mi scopriranno?
Rimase immobile a lungo, gli occhi fissi nell’oscurità. Jerlet non voleva che toccassimo le macchine perché eravamo ancora bambini quando ha dovuto lasciarci. Allora c’erano i servomeccanismi che riparavano i guasti. Lui non voleva che ci facessimo del male o che rovinassimo le macchine.
Si alzò lentamente a sedere sulla cuccetta. I servomeccanismi avrebbero dovuto provvedere a mantenere in funzione tutte le macchine, ma anche loro si sono guastati e sono morti. Così adesso non è rimasto nessuno capace di ripararle. Eccetto me.
Andò alla porta e la socchiuse. Anche il corridoio era buio, E silenzioso. Dormivano tutti.
Speriamo bene! si augurò Linc.
Si avviò di buon passo lungo il corridoio dei dormitoli, attraversò la cucina e il refettorio, e arrivò al portello che si apriva sul corridoio principale.
Magda e gli altri si sbagliano quando dicono che non dobbiamo toccare le macchine. Jerlet non si arrabbierebbe se cercassi di aggiustare la pompa.
Ma nonostante che cercasse di rassicurarsi, era tutto appiccicoso di sudore. Facendosi forza spinse il portello e uscì nel corridoio principale della Ruota Viva. In fondo campeggiava il portello che, attraverso il compartimento a tenuta d’aria, portava alla fattoria.
Finora non hai fatto che un’innocua passeggiata, ma se entrerai nel compartimento della fattoria Monel capirà cos’hai in mente.
Ma l’immagine della faccia odiosa di Monel che giocherellava con i pezzetti di plastica e diceva a Magda che come sacerdotessa era un fallimento, gli diede nuovo coraggio e aprì il portello e attraversò il compartimento.
I locali della fattoria erano illuminati a giorno e la sala delle vasche era calda e impregnata del pungente odore dei vegetali che maturavano. Linc socchiuse gli occhi alla luce vivida e lasciò che l’aria tiepida gli scaldasse le ossa. Le vasche si stendevano in lunghe file ordinate, enormi scatoloni cubici di metallo che brillavano alla luce delle lampade. L’unico rumore era il gorgoglio sommesso dei liquidi nutritivi che fluivano nelle vasche. I maiali, i polli e perfino le api dormivano nella zona buia in fondo all’enorme stanzone.
Linc andò subito alla pompa danneggiata. Vista dall’esterno sembrava perfettamente normale: un grosso pezzo di metallo piatto da cui entravano e uscivano dei tubi. Ma era silenziosa. Le piastre metalliche del pavimento, tutt’intorno, erano macchiate come se i liquidi delle vasche fossero traboccati e poi gli addetti le avessero asciugate.
Linc si arrampicò sulla scaletta di metallo che saliva fino all’orlo della vasca più vicina, e ci guardò dentro. Giovani piantine di frumento crescevano sul fondo coperto di ciottoli insieme ad altri vegetali che lui non riuscì a identificare. Sembravano in condizioni normali, ma lui non era un esperto. Stav diceva che le messi sarebbero avvizzite senza i liquidi forniti dalla pompa, e fra un filare e l’altro i ciottoli di plastica del fondo erano asciutti. Le radici affondavano in quel letto di ciottoli sotto cui aspiravano il nutrimento necessario.
Perplesso, Linc scese la scaletta e tornò a guardare la pompa. Avanti, eroe, cosa aspetti ad aggiustarla? Linc si accorse che non sapeva nemmeno come fare per smontare la pompa e guardarci dentro.
Jerlet lo saprebbe. Ma Jerlet non rispondeva mai alle domande di Magda; ripeteva sempre le stesse vecchie parole. Linc si accovacciò per guardare più da vicino la pompa. Era silenziosa, morta. Dietro ad essa, sul muro, c’era uno schermo spento. Nessuno l’aveva mai riattivato dopo che Jerlet li aveva lasciati. Era una macchina che solo Magda avrebbe potuto toccare.
Linc fissò lo schermo pensando: E se chiamassi Jerlet per chiedergli come si fa a riparare la pompa? Se non volesse che la tocchi me lo direbbe. Ma un’altra voce dentro di lui disse: Cosa ti fa credere che Jerlet ti risponderebbe se non risponde mai neanche alla sacerdotessa?
— Se non risponde — mormorò a mezza voce Linc, — vuol dire che non devo toccare la pompa.
Sì, ma per metterti in contatto con lui devi toccare i comandi dello schermo. Anche questo è proibito.
Non sapeva come risolvere il dilemma. Si alzò e andò davanti alla parete su cui campeggiava lo schermo. Sotto, c’era un piccolo ripiano con tre file di bottoni colorati. Ad alcuni mancava la superficie colorata. Ecco dove Monel s’era procurato i dischetti di plastica!
Non c’erano sedie davanti al piccolo ripiano. Linc guardò i bottoni, poi lo schermo, poi di nuovo i bottoni.
— Jerlet non si arrabbierà se lo chiamo — disse fra sé. — E poi, se Monel ha toccato i bottoni, perché non posso farlo anch’io?
Tuttavia mentre allungava la mano verso quello più grosso gli tremavano le dita. Deglutendo a fatica, lo premette.
Lo schermo s’illuminò di una grigia luce perlacea.
Non comparve nessun disegno, nessuna faccia, né si sentivano suoni o rumori. Ma si era illuminato, era vivo!
— Jerlet — balbettò Linc. — Mi senti?
Lo schermo rimase muto. Linc chiamò ancora. Nessuna risposta. In preda all’ansia e all’impazienza si mise allora a premere a caso un pulsante dopo l’altro. Sullo schermo comparvero disegni, luci, colori lampeggianti. Ma non Jerlet.
— Jerlet! Jerlet! Rispondimi, ti prego!
Dopo pochi secondi estenuanti una voce tonante disse: — IL PERSONALE NON AUTORIZZATO HA IL DIVIETO DI SERVIRSI DI QUESTO TERMINALE.
Linc arretrò barcollando. — Ma… Sei Jerlet?
— IL PERSONALE NON AUTORIZZATO HA IL DIVIETO DI SERVIRSI DI QUESTO TERMINALE.
— Jerlet! Ho bisogno di aiuto!
— IL PERS… — La voce tacque per una frazione di secondo.
— DI COSA HAI BISOGNO?
Non era quella di Jerlet, ma era pur sempre una voce.
— La pompa… la pompa principale delle vasche delle messi — balbettò Linc. — Devo aggiustarla… non so come si fa.
Dallo schermo scaturì un breve ronzio, poi la voce disse: — MANUTENZIONE E RIPARAZIONE SEZIONE IDROPONICA: CODICE SETTE-QUATTRO-QUATTRO.
— Cosa? — disse Linc. — Non capisco.
Sullo schermo comparve all’improvviso l’immagine dei pulsanti del ripiano. Intorno a tre di essi era disegnato un cerchietto rosso.
— INFORMAZIONI PER MANUTENZIONE E RIPARAZIONE APPARECCHIATURE IDROPONICHE. PUNZONARE CODICE SETTE-QUATTRO-QUATTRO.
Linc ci mise un bel po’ a capire il significato di quelle parole oscure. Infine premette i pulsanti indicati e sullo schermo comparvero dei simboli strani. Lui disse allo schermo che la pompa era rotta. Lo schermo rispose con altre parole incomprensibili e gli mostrò dei disegni. Poco a poco, Linc capì che erano immagini della parte interna ed esterna della pompa.
Era passato tanto tempo che Linc pensò che fra poco sarebbe iniziata la giornata lavorativa e gli addetti alla fattoria l’avrebbero scoperto.
Con un susseguirsi di disegni lo schermo gli mostrò di quali utensili aveva bisogno e gli indicò il pannello dietro il quale erano riposti. Linc trovò il pannello, incrostato di polvere e sporcizia. Dovette fare uno sforzo enorme, spinto dalla disperazione, per riuscire ad aprirlo.
Alcuni utensili indicatigli non funzionavano. Uno, che la voce aveva chiamato torcia, era freddo e senza vita anche se il disegno sullo schermo mostrava che ne sarebbe dovuta scaturire una fiamma.
Forse non so adoperarlo, pensò Linc.
Ma lo schermo era molto paziente, e continuava a dirgli quello che doveva fare. Coi disegni e la voce mostrò a Linc come togliere il coperchio della pompa, come staccare i tubi in entrata e in uscita, come controllare i filtri e il motorino. Seduto in mezzo a un mucchio di bulloni svitati, pezzi di metallo, tratti di tubazione, Linc arrivò al cuore della pompa, che era intasato di erbacce e foglie morte. Lo ripulì meglio che poté, poi, seguendo le istruzioni dello schermo, rimontò la pompa.
—ATTIVARE IL PULSANTE DI ACCENSIONE — disse finalmente lo schermo, e comparve una freccia gialla che indicava un piccolo pulsante alla base della pompa.
Linc eseguì, e la pompa si mise a vibrare a scatti, poi la vibrazione si normalizzò e divenne sommessa e costante. Linc sentì al di sopra di lui, nelle vasche, l’improvviso sgorgare del liquido nutritivo. La pompa aveva ripreso a funzionare!
Avrebbe dovuto esultare di gioia, invece era solo esausto. Abbozzando un pallido sorriso tornò allo schermo e disse: — Grazie, chiunque tu sia.
Lo schermo non rispose. Linc lo spense, poi si voltò in tempo per vedere il primo gruppo di operai che entravano nella fattoria.
Il suo primo impulso fu quello di darsela a gambe.
Ma gli operai sembravano più sorpresi e incuriositi che non adirati nel vederlo lì tutto unto e sudato.
Perché dovrei aver paura? pensò Linc. Ho riparato la pompa. Non devo aver paura.
Gli operai si avvicinarono lentamente con aria perplessa.
— Linc, cosa fai qui? — gli chiese una ragazza magra che si chiamava Hollie.
— Cosa succede? — chiese da dietro al gruppo la voce profonda di Stav. La faccia larga sormontata dai capelli biondi del capo-operaio sbucò da dietro Hollie e guardò Linc.
— L’ho aggiustata — rispose lui indicando la pompa. Era tanto stanco che aveva solo voglia di dormire. — Ho salvato il raccolto.
— Cosa? Devi essere impazzito — disse Stav. — Nessuno può aggiustare la pompa. È morta.
— Va’ a dare un’occhiata.
Un gruppo di operai si era raccolto intorno, e Hollie disse con un sorriso stringendosi nelle spalle: — Non ci farà male dare un’occhiata.
Andò alla pompa, si chinò ad ascoltare, la toccò.
— Funziona! — gridò poi.
Tutti si precipitarono alla pompa piantando in asso Linc. Stav si arrampicò sulla scaletta della vasca più vicina. Altri lo seguirono urtandosi per arrivare primi alle scalette arrugginite.
— Il fluido ha ripreso a scorrere! — gridò uno.
Tornarono tutti ad accalcarsi intorno a Linc. Stav lo abbracciò fin quasi a spezzargli la schiena. Gli altri gli davano pacche sulle spalle, ridevano, gridavano, si congratulavano con lui, lo ringraziavano.
— No… lasciatemi respirare — disse con un filo di voce Linc. — Ho sonno… lasciatemi andare.
Lo accompagnarono fino alla porta e poi tornarono al lavoro. Sorridevano tutti. Uno intonò una vecchia canzone e tutti fecero coro. Anche Linc sorrideva, avviandosi verso il suo alloggio.
Fu bruscamente strappato dal sonno quando una guardia di Monel spalancò la porta con un calcio. Prima che Linc avesse il tempo di alzarsi dalla cuccetta, gli furono addosso in tre. Due lo presero per le braccia e lo tirarono in piedi.
La terza guardia disse: — Monel vuole vederti, Immediatamente.
Spinsero Linc in corridoio e lo portarono nel cubicolo di Monel. Questi, seduto alla scrivania, giocherellava coi dischetti di plastica. Jayna, seduta in un angolo con l’aria spaventata, fissava Monel con gli occhi sgranati. Quanto a Monel, sembrava furibondo. Curvava i dischetti fra le dita, piegandoli come se volesse romperli.
Linc rimase a lungo in piedi, con la schiena contro la porta, sotto la sorveglianza delle tre guardie.
Finalmente Monel alzò gli occhi. — Hai toccato le vasche del cibo — disse.
— Ho riparato la pompa.
— Hai toccato una macchina pur sapendo che era proibito.
— Ho riparato la pompa — ripeté cocciuto Linc.
— È un crimine, e lo sai.
Avvicinatosi alla scrivania in modo da sovrastare Monel, Linc disse: — Ho fatto in modo che ci sia da mangiare per tutti, così non dovrai decidere chi deve mangiare e chi deve morire di fame.
— Hai commesso un crimine — insistette Monel.
— Questo deve deciderlo la sacerdotessa, non tu. Monel lo fulminò con un’occhiata. Poi un sorriso tutto denti gli alterò la faccia. — Oh, sta’ tranquillo che sarà anche lei di questo parere. E tu sarai condannato a essere espulso nel buio. Magari ci finirete tutt’e due!
Linc rimase nel suo alloggio fino al termine della giornata lavorativa. Era stato deciso che dopo l’ultimo pasto si sarebbero recati tutti nella sala delle riunioni per ascoltare cosa avrebbe deciso Magda nei riguardi di Linc.
Seduto sulla cuccetta, Linc fissava la parete. Magda mi ringrazierà invece di condannarmi. L’ho fatto per lei. Sarà contenta.
Ma era preoccupato.
Passò l’ora del pasto. Linc non andò nel refettorio, e nessuno gli portò da mangiare.
Ma poco dopo sentì dei passi affrettati nel corridoio. La porta si aprì ed entrò Magda.
Lui si alzò e le andò incontro.
— Come hai potuto? — sussurrò Magda.
— Come sarebbe a dire? — ribatté Linc, guardandola perplesso.
— Come hai potuto far nascere tanto trambusto? Hai riparato la pompa! Sai che è proibito toccare le macchine.
— Ma io l’ho riparata — ribatté Linc. — Sono riuscito a far funzionare lo schermo a muro della fattoria, e lo schermo mi ha detto…
Lei lo guardava inorridita. — Linc, ti rendi conto di cosa stai dicendo? Nessuno può toccare le macchine. E non potevi toccare lo schermo.
— Ma lo schermo sa come si fa a riparare le macchine.
Lei si coprì la bocca con una mano e attraversò la stanzetta con quattro rapidi passi. Poi si voltò: — Hai parlato con qualcuno dello schermo?
— No… non mi pare.
— Meno male. E adesso stammi a sentire. Quando ci rivedremo alla riunione, non accennare allo schermo. No, meglio ancora… di’ che Jerlet è apparso sullo schermo senza che tu l’avessi toccato.
— Volevo parlare con Jerlet, ecco perché ho acceso lo schermo.
— Ascoltami — incalzò lei. — Non dire che l’hai acceso. Io racconterò che stavo meditando alla ricerca di una soluzione per il nostro problema. Il che in fondo è vero. Ci ho pensato tutta la notte. E Jerlet deve avermi sentito o visto… e ha riparato la pompa.
— Ma non è vero! Sono stato io a ripararla! Da solo, con le mie mani.
Magda scosse la testa con impazienza. — Monel ti annienterà… ci annienterà tutti e due se appena gliene offriremo l’occasione.
— Ma io ho salvato il raccolto. Nessuno morirà di fame.
— Proprio per questo è così arrabbiato.
Linc si diede una manata sulla coscia. — Saranno tutti felici di sapere che la pompa ha ripreso a funzionare. Gli operai della fattoria cantavano!
Magda stava per perdere la pazienza. — Linc, la gente non si comporta come le macchine. Non capisci quali sono le intenzioni di Monel? Dirà che toccare le macchine è un delitto, e che tu l’hai commesso. E se anche questa volta ti è andata bene, potresti ritentare e provocare un disastro che ci ucciderebbe tutti.
— Ma è assurdo! — esclamò Linc lasciandosi cadere sulla cuccetta.
— Comunque è quello che dirà Monel. E poi mi inviterà a far parlare Jerlet, e Jerlet ci dirà le stesse cose di sempre e io sarò costretta a condannarti. Non ho altra scelta.
— L’ho fatto per te balbettò Linc. — Volevi un miracolo.
— Lo so — rispose lei raddolcita. — Ma dobbiamo stare molto attenti a come spiegarlo agli altri. Devi dire che lo schermo si è acceso da solo e che Jerlet ti ha detto cosa dovevi fare.
— E come spiego che ero andato alla fattoria? — chiese Linc.
Magda chinò la testa e ci pensò sopra per un momento. Poi la rialzò sorridendo. — Oh, è facile. Dirai che Jerlet ti era apparso in sogno e ti aveva detto di andare alla fattoria.
— Ma non è vero!
Lei gli si mise a sedere vicino sulla cuccetta e gli pose un dito sulle labbra. — Linc, non avresti mai potuto riparare la pompa senza l’aiuto di Jerlet. Lo sai bene.
— Ma…
— Ci limiteremo a spiegare in modo un po’ diverso come ti ha aiutato. Non è una vera bugia, ma solo una piccola alterazione della verità. Così la gente non si spaventerà.
— Non mi piace.
— Fidati di me — sussurrò Magda. — Voglio aiutarti.
— Ma non capisci quello che è veramente importante — insistette lui. — Sono stato io a scoprire che lo schermo sa come si aggiustano le macchine. Così potremo aggiustare tutte quelle che sono rotte…
— No — lo interruppe bruscamente Magda. — Non devi dirlo. Spaventeresti tutti… faresti il gioco di Monel. — Si alzò e riprese a camminare avanti e indietro.
Lui la guardò. — Dimmi, ti faccio paura?
Lei si voltò a guardarlo a sua volta. — Sì, un pochino.
Linc si alzò, la raggiunse e la costrinse a rimettersi a sedere. Le mani di Magda erano fredde come il ghiaccio.
— Possiamo riparare tutto…
— Taci. — Gli strinse le mani con una forza di cui non l’avrebbe mai ritenuta capace. Poi chiuse gli occhi. Tremava tutta. Linc l’aveva vista già altre volte cadere in trance. Si proiettava nel futuro, cercando di vedere quello che sarebbe successo, e cosa avrebbero dovuto fare.
Poco per volta il tremito cessò, e la stretta delle mani si allentò. Magda riaprì gli occhi. Erano orlati di rosso e pieni di lacrime.
— Linc… andrai da Jerlet. — La sua voce era un mormorio spaventato. — Lo vedrai… gli parlerai. Ma, prima… rivedrai Peta.
Linc liberò le mani dalla sua stretta. — È questo che vedi nel futuro? Vuoi scacciarmi come hai fatto con Peta…
— No — rispose lei in un soffio.
Linc scattò in piedi. — Io so riparare le macchine, ma tu e gli altri avete paura della vostra ombra!
— Credi che mi sbagli? — Magda parlava con voce tesa. Era la sacerdotessa, adesso, non più l’amica.
— Sono certo che tutti gli schermi possono insegnarci a riparare i guasti…
— È proibito toccare gli schermi come qualunque altra macchina. Hai commesso un delitto e insisti a esserne fiero. Anzi, vorresti continuare a commetterne.
— Voglio solo salvarvi tutti! Se imparo a riparare le macchine forse riusciremo ad allontanare la stella gialla.
— Jerlet diventerà furibondo. Se la prenderà con tutti.
— No, perché io cerco solo la nostra salvezza.
Magda si avviò verso la porta, e si fermò senza voltarsi. Dalla rigidità della schiena, da come teneva alta la testa, Linc capiva che era in preda alla tensione e alla collera.
Si voltò di scatto a guardarlo.
— Linc, io voglio aiutarti, ma tu hai intenzione di ribellarti, di andar contro tutto quello in cui crediamo, alle leggi di Jerlet. Sì, hai riparato una pompa; ma può esser stato un puro caso, o una trappola.
— Una trappola?
— Sì — insistette lei. — Tu sei convinto di riuscire a riparare tutte le macchine. Supponi che Jerlet volesse metterti alla prova, per vedere se avresti continuato a pasticciare con le macchine. Tu stai violando le regole, Linc, e io non lo posso permettere!
Linc cominciava a seccarsi. — Tu non credi che sia capace di ripararle. Credi in tutte quelle storie sul divieto di toccare le macchine, ma non credi a me.
— Nessuno può ripararle.
— E così preferisci startene con le mani in mano finché non si guasteranno tutte una dopo l’altra e moriremo di fame e di freddo. Ce ne staremo qui senza far niente ad aspettare che la stella gialla ci inghiotta, senza nemmeno alzare un dito…
— Le regole di Jerlet…
— Piantala di parlare delle regole di Jerlet! — sbottò lui. — Sono tutte stupidaggini, e io me ne infischio!
Lei rimase a bocca aperta.
Linc aspirò a fondo cercando di dominarsi. — Magda, ascoltami. Supponiamo che si sia trattato veramente di un esperimento. Supponiamo che Jerlet cercasse di scoprire se siamo capaci di usare il cervello che ci ha dato per tentare di riparare le macchine.
— Ma è stato lui a dirci che non le dobbiamo toccare.
— Ce lo ha detto quando eravamo bambini… così piccoli che arrivavamo appena all’altezza dei tavoli del refettorio. E allora tutti i servomeccanismi funzionavano. Adesso le cose sono cambiate, e Jerlet non ha più detto niente a proposito delle macchine, dopo di allora. Ed è passato tanto tempo! Ti ricordi? — continuò sforzandosi di sorridere. — Ricordi che ti prendevo in braccio perché potessi raggiungere il bottone più alto del selettore dei cibi?
Lei ricambiò il sorriso, ma abbassò subito la testa perché Linc non potesse vederle la faccia. — Sì…
— Poi il selettore si è rotto… e i servomeccanismi hanno smesso di funzionare. Tutte le macchine sono moribonde. Jerlet non vorrebbe certo che morissimo anche noi. Lui vuole che le ripariamo.
— E allora perché non ce l’ha detto?
Linc si strinse nelle spalle.
Lei tornò a sedersi. — Dimentichi Monel — disse.
— Uff! Cosa me ne importa di lui? Dopo che avrò aggiustato qualche altra macchina…
Lei gli toccò la spalla. — Linc, forse conoscerai le macchine, ma non conosci la gente. Monel non ti lascerà aggiustare niente. So bene cosa farà.
Lui le prese la mano. — Non potrà impedirmelo se tu starai dalla mia. Insieme riusciremo a convincere gli altri.
— No — rispose decisa Magda. — No, se dici a tutti che gli schermi parlano e che vuoi riparare le macchine. È troppo, così all’improvviso, tutto in una volta. Monel aizzerà tutti contro di te.
— Ma gli operai della fattoria…
— Loro sono contenti perché la pompa ha ripreso a funzionare, ma Monel può spaventarli e metterteli contro.
— Se dico la verità…
— Se dici la verità saremo scacciati tutti e due. — La voce di Magda era dura come il ferro. — Io voglio salvarti, Linc, ma tu devi aiutarmi. Non voglio che Monel prenda il comando. Non voglio che scelga un’altra sacerdotessa. Solo io devo essere la sacerdotessa, qui. È Jerlet che lo vuole.
Linc si sentì raggelare. — Vuoi dire che saresti disposta a farmi scacciare nel buio, fuori, piuttosto che mettere a repentaglio la tua posizione di sacerdotessa?
— È mio dovere farlo. — La sua voce era appena un sussurro ma sempre ferma e decisa.
— No, è soltanto perché lo vuoi — disse con amarezza Linc.
Lei era immobile come una statua. Anche la sua faccia sembrava una maschera di pietra.
Finalmente parlò: — Io sono la sacerdotessa. Vedo il futuro. Leggo nella mente delle persone. Devo continuare a essere sacerdotessa. Nessun altro può e deve sostituirmi in questo compito.
— E allora?
Sempre immobile, Magda rispose con voce atona, che sembrava venire da lontano. — Ti porteranno davanti a me perché ti giudichi del delitto di aver toccato le macchine.
Lui non disse niente.
— Se confessi, e non parli dello schermo, e dici che hai eseguito gli ordini di Jerlet, io mi mostrerò misericordiosa. Monel non oserà insistere di farti gettare fuori… per questa volta. Ma se insisti a dire che puoi parlare con Jerlet accendendo gli schermi, e che sei capace di aggiustare tutte le macchine…
Non finì la frase.
— E la tua visione del futuro? — obiettò lui. — Dicevi che avrei incontrato Jerlet… e Peta.
Magda annuì lentamente.
— Questo significa che sarò scacciato come Peta.
— Non costringermi a farlo, Linc. Ti prego, non costringermi.
Lui non rispose.
Dopo un lungo silenzio, Magda si alzò e uscì, lasciandolo solo.
Rimase seduto sulla cuccetta ancora per pochi minuti.
Adesso sono tutti in refettorio a mangiare, pensò. Sapeva cosa doveva fare. Di punto in bianco la decisione gli era apparsa chiara come le istruzioni sullo schermo.
La visione di Magda era vera. Andrò a cercare Jerlet.
Aprì la porta e sbirciò nel corridoio. Era vuoto. In punta di piedi percorse il corridoio fino al suo posto di lavoro al compartimento di distribuzione dell’energia elettrica. Raccolse alcuni arnesi: un coltello che aveva ricavato da un cacciavite, un pezzo di tubo metallico, una bobina di filo. Erano i soli oggetti che pensava avrebbero forse potuto tornargli utili nel lungo tragitto su verso la regione dell’assenza di peso.
Arrivò fin quasi al portello che dava nel tubo-tunnel senza incontrare nessuno. Ma, all’improvviso, si imbatté in una coppia che stava nella nicchia in cui era incassato il portello, invisibile dal corridoio principale e non illuminata dalle luci del soffitto. I due rimasero altrettanto sorpresi quanto lui.
— Ehi, ma cosa… — gridò il ragazzo sussultando quando Linc gli finì inavvertitamente addosso.
— Oh… scusa — disse Linc.
La ragazza era ancora più scossa. — Perché non stai attento… ma di’ un po’ — aggiunse avendolo riconosciuto. — Dove stai andando? C’è una riunione fra poco. Ti devono giudicare.
— Io non ci vado — disse lui cercando di passare oltre.
— Non puoi scappare — ribatté il ragazzo afferrandolo per un braccio. — Monel ti vuole…
Linc si liberò dalla stretta. — Non scappo. Vado su a cercare Jerlet. Di’ a Monel che tornerò.
I due lo fissarono sbalorditi mentre apriva il portello e passava dall’altra parte. Quando si voltò a chiuderlo, l’ultima cosa che vide furono le loro facce sbalordite.
Il tunnel era buio. Linc attraversò il pianerottolo di metallo e si chinò sulla ringhiera. Gli scalini salivano a spirale girando intorno alle pareti circolari del tunnel fino a perdersi nell’oscurità.
Quant’era lunga la scala? Riuscirò a salire tanto in alto da raggiungere Jerlet? si chiese Linc.
Mentre cominciava a salire si disse: «Dev’essere possibile. Magda non avrebbe mandato qui Peta se la scala non arrivasse fino a Jerlet».
Improvvisamente gli venne fatto di pensare che era digiuno e non aveva cibo con sé. Veramente, per il momento non aveva fame. Più che altro era eccitato e curioso. Ma se ci volesse molto tempo per arrivare fin lassù? Potrei morire di fame.
Si strinse nelle spalle e continuò a salire. No, la visione di Magda diceva che avrei trovato Peta e Jerlet. Non morirò di fame.
Il sonno si fece sentire prima della fame. Linc salì finché le gambe non lo ressero più, e gli occhi non riuscivano a star aperti. Cercò il modo di uscire dal tunnel. Non voleva dormire in quel tubo di metallo, freddo e buio. Potevano esserci topi, o altre cose, esseri sconosciuti, ancora più pericolosi.
Il primo portello che tentò di aprire non cedette ai suoi sforzi. Salì fino al pianerottolo successivo. Anche qui il portello era chiuso, ma aveva un finestrino da cui entrava una luce giallognola. La stella gialla! È sempre più vicina.
Guardando attraverso il finestrino vide che il corridoio dalla parte opposta del portello era gravemente danneggiato. Ampi squarci si aprivano nelle pareti, da cui si vedevano le stelle. Non era possibile vivere là. Era come stare nel buio del vuoto esterno. Neanche la stella gialla, pur così vicina, riusciva a scaldarlo.
Il portello del pianerottolo successivo era aperto e Linc entrò vacillando nel corridoio. Era intatto e faceva perfino caldo. Lungo le pareti c’erano lunghe file di porte. Ubriaco di sonno, Linc arrancò fino alla prima e l’aprì.
Era un piccolo vano, dove si erano accumulate la polvere e la sporcizia dei secoli. Alla luce proveniente dal corridoio, Linc trovò l’interruttore e accese la luce. Nessuno era entrato in quel locale da chissà quanti anni. Lo spesso strato di polvere era intatto. Non c’erano nemmeno le minuscole orme dei topi. Linc sospirò soddisfatto. Lì sarebbe stato al sicuro. Chiuse la porta, spense la luce e si sdraiò sul pavimento sporco. Nonostante l’acre odore della polvere si addormentò immediatamente.
Fu svegliato da un sogno.
Si alzò a sedere di scatto, tremante, in un bagno di sudore. Aveva urlato, nell’incubo, e aveva ancora la bocca aperta, ma adesso ne usciva solo qualche colpo di tosse soffocato. Il sogno svanì dalla sua mente, e invano cercò di ricordarlo. Sapeva solo che era terrorizzato perché qualcuno o qualcosa lo stava inseguendo.
Tossendo ancora per via della polvere, si alzò e uscì dallo stanzino. Pochi minuti dopo era di nuovo nel tubo-tunnel, rabbrividendo di freddo. Toccò la parete di metallo. Era così gelida che gli bruciò i polpastrelli.
Su, sempre più su. A furia di salire sulla spirale gli vennero le vertigini e dovette mettersi a sedere su un gradino per riprendere fiato. Ma il freddo penetrava attraverso la tuta sottile e fu costretto a riprendere la salita. Il moto lo scaldava. Ma lo stomaco cominciava a protestare. Era vuoto da troppo tempo.
Una volta, quando si fermò, udì un lieve rumore, come di zampette che raschiassero il metallo con le unghie. Erano molte. A causa degli echi del tunnel non avrebbe saputo dire se il rumore proveniva dall’alto o dal basso. Estrasse dalla borsa appesa alla cintura il pezzo di tubo e l’impugnò saldamente. Ma gli tremava la mano, e non solo per il freddo.
Riprese a salire, ma più lentamente, fermandosi spesso ad ascoltare. Il rumore sembrava ogni volta più vicino. Batté col tubo sui gradini, e il rumore metallico sulle prime lo impaurì tanto era rimbombante. Seguì qualche minuto di silenzio assoluto, poi i topi tornarono.
Linc era stato colpito da una scossa quando aveva riparato un filo elettrico che non funzionava al centro di distribuzione. Era stata una sensazione molto sgradevole, ma gli parve insignificante in confronto alla scossa che lo colpì quando vide il corpo di Peta.
Il ragazzo giaceva come un mucchietto di stracci su un pianerottolo, davanti a un portello. Gli abiti erano tutti rosicchiati e macchiati qua e là di sangue. Linc cadde in ginocchio e rimase a fissare il cadavere. Aveva un ampio squarcio sulla fronte e gli occhi spalancati fissavano ciechi il vuoto.
Linc non seppe mai quanto rimase inginocchiato lì senza saper cosa fare. È stato Jerlet? No, impossibile. Questo non è il suo regno.
Eppure qualcuno o qualcosa aveva ucciso Peta.
Le guardie di Monel? Lo hanno inseguito fin qui per ucciderlo? Linc scosse la testa. Impossibile. Perché avrebbero fatto una cosa simile? Nemmeno le guardie di Monel potevano uccidere deliberatamente qualcuno.
Mentre stava inginocchiato, sentì un lieve trepestio sul pianerottolo. Si voltò a guardare i piedi nudi di Peta. Un paio di ratti stavano zampettando, con gli occhi rossi che brillavano nel buio, mentre si avvicinavano annusando. Linc roteò il pezzo di tubo, e i ratti si dileguarono.
Non posso lasciar qui Peta!
Infilò il tubo nella cintura e si caricò in spalla il corpo gelido del ragazzo. Aprì il portello e uscì nel corridoio. Solo allora si accorse di quanto fosse scarso il peso lassù. Vero che da un po’ lui stesso si sentiva più leggero, ma era troppo stanco, affamato e insonnolito per farci caso.
Il corpo di Peta pesava meno del materassino della cuccetta, e Linc fu tentato di avanzare a lunghi salti nel corridoio.
Dev’esserci un portello della morte da qualche parte si disse mentre avanzava in punta di piedi. Devo mettere Peta al sicuro nel buio esterno.
Era uno strano corridoio, col soffitto molto basso e porte solo da un lato, e il pavimento si curvava bruscamente verso l’alto. A Linc pareva di risalire il versante di una collina; ma non faceva fatica, perché era come se camminasse su un pavimento piatto.
Il compartimento della morte era in fondo al corridoio, e lo bloccava con un enorme, massiccio portello di metallo su cui erano disegnati strani simboli tracciati dagli antichi.
Linc li studiò per un po’ per essere sicuro che quel portello si apriva su un compartimento della morte uguale a quello della Ruota Viva. A vederlo sembrava uguale, come se fosse stato fatto da qualcuno incapace di fare due cose diverse.
Non gli andava di restar lì più a lungo dello stretto necessario, ma agì con molta cautela. Seguì accuratamente il rituale che Jerlet aveva insegnato loro tanto tempo prima perché sapeva che se avesse fatto una mossa falsa sarebbe morto istantaneamente.
Con gran cura toccò i pulsanti inseriti nella parete di fianco al portello secondo l’ordine prestabilito e aspettò che si illuminassero uno a uno come dovevano. Quando il rituale fu compiuto, il portello interno si aprì e Linc sbirciò nel locale di metallo che costituiva il compartimento della morte.
Scoprì con sorpresa di aver la vista annebbiata, e stava piangendo quando portò il corpo di Peta nel compartimento e lo depose con delicatezza sul pavimento di metallo, Era così piccolo, così indifeso.
— Presto sarai fuori — disse pronunciando le parole del rituale, — insieme agli altri che vissero prima di te. Diventerai una stella, Peta, e non sarai più solo e non avrai più freddo.
Uscì nel corridoio e premette altri pulsanti per completare il rituale. Il portello interno si chiuse, e sopra di esso si accese una luce rossa. Linc sentì un ronzio sommesso e una folata quando il portello esterno si aprì e il corpo di Peta volò verso le stelle. Poi il ronzio cessò e la luce rossa si spense.
Era fatta. Peta adesso si trovava nell’altro mondo, come era giusto. Eppure, Linc non era contento. Aveva fatto quello che doveva fare, ma era triste e si sentiva solo come non mai, prima.
Oppresso dalla malinconia, tornò sui suoi passi e varcò la soglia del portello che dava nel tubo-tunnel. Adesso i suoi soli compagni erano la fame e il freddo.
E i topi.
Il tunnel non finiva mai.
Linc continuava a salire la scala che si snodava a spirale, con gli occhi che bruciavano per il sonno, le mani tremanti di freddo. Il tunnel era buio, salvo che nei rari punti illuminati da una finestra. La luce delle stelle non dava calore, e, chissà perché, quella della stella gialla non arrivava mai alle finestre del tunnel e così non riusciva a dissiparne il gelo.
Linc sentiva i topi alle sue spalle. Dapprima il loro zampettio era indistinto, lontano, ma adesso percepiva chiaramente il cigolio delle loro unghie sui gradini di metallo, e le pareti del tunnel rimandavano l’eco degli squittii.
Linc continuava a salire. Si sentiva sempre più leggero, ma di pari passo gli venivano meno le forze, per il freddo e la fame.
— Non puoi fermarti — continuava a ripetersi. — Se ti fermi ti addormenti e i topi ti raggiungeranno.
Inciampò. Cadde. Tornò a rialzarsi. Spalancò le braccia e si sollevò senza sforzo. Il tunnel non continuava più a salire a spirale sopra di lui. Alto e basso non esistevano più. Scoppiò a ridere forte e una strana voce roca, gracchiante riecheggiò in risposta.
Galleggiava, quasi senza peso. Galleggiava, galleggiava e tutto era buio intorno a lui. Un’oscurità impenetrabile. Era solo nel buio, senza neanche una stella a guardarlo. Niente… nessuno… solo… Qualcosa, nei più profondi recessi del suo cervello, gli diceva di rimanere sveglio, ma la voce era lontana lontana.
Solo… solo… freddo… Non faceva differenza se teneva gli occhi aperti o chiusi. Non c’era niente da vedere. Il buio era assoluto.
Linc andava alla deriva, privo di peso, con gli occhi chiusi. Gli sembrava che il freddo lo avvolgesse tutto dolcemente. I muscoli indolenziti si rilassavano. Galleggiava nel nulla.
Il nulla.
Fu il dolore a svegliarlo. Non una fitta acuta, ma una specie di remoto senso di disagio, un fastidio come quando c’è un corpo estraneo in una scarpa… o quando un topo rosicchia una gamba intorpidita dal gelo.
Linc scosse la testa per schiarirla. Non era sicuro di esser sveglio…
E poi scorse il luccicore rosso degli occhi, sentì lo squittio di migliaia di topi. Sentì che gli si arrampicavano addosso. Qualcosa di morbido e peloso gli passò sulla faccia.
Allora urlò e si piegò su se stesso nel vuoto privo di gravità e mandò il suo corpo così piegato a ruotare pazzamente attraverso il buio del tunnel in mezzo a una nube di topi privi di peso. Anch’essi urlarono, sparpagliandosi.
Linc fu respinto da una gelida parete di metallo contro cui era andato ad urtare e si tastò alla ricerca del pezzo di tubo, del filo, di qualsiasi cosa che gli servisse da arma. Ritirò la mano appiccicosa di sangue.
Migliaia di occhi rossi scintillanti lo circondavano nel buio. Scalciò, agitando braccia e gambe, con la schiena appoggiata al gelo bruciante della parete.
I topi si allontanarono fluttuando. Squittivano come se si dicessero l’un l’altro: — Attenti, state lontani. È ancora abbastanza forte per lottare. Aspettate. Non resisterà a lungo.
Linc cercò di allontanarsi da quegli occhi infernali strisciando contro la parete. Ma nel buio, e senza peso, non sapeva dove stava andando. Da che parte è «su»? Come faccio a saperlo?
I topi galleggiavano appena fuori dalla sua portata, squittendo, in attesa.
I piedi di Linc dondolavano a mezz’aria. Il suo unico contatto col tunnel era la parete a cui teneva appoggiata la schiena. Strisciava di lato puntellandosi col palmo delle mani insanguinate e allungando i piedi alla ricerca di un appoggio.
Gli scalini. I piedi toccarono uno scalino.
I topi lo seguivano squittendo, pazienti.
Linc cadde in ginocchio sugli scalini costringendo la mente a ricordare. La ringhiera. Quando salivi la ringhiera era a sinistra e la parete a destra.
Allungò la sinistra. Niente. Sbirciò nel buio ma non riuscì a scorgere nemmeno la sua mano. Si sporse più avanti. La mano toccò la parete.
D’improvviso si sentì immerso in un sudore gelido che gli scorreva sulla faccia e sul petto in rivoli di ghiaccio. Si allontanò dalla parete e allungò la destra. Toccò una cosa calda e pelosa che mandò uno strillo. Anche Linc urlò e ritrasse la mano. Tremando, trovò il coraggio di tentare ancora. Sì, lì c’è la ringhiera.
Ringhiera a destra, parete a sinistra.
Significa che ho fatto un giro su me stesso. Guardo verso la parte bassa del tunnel.
Ma qualcosa dentro di lui diceva che non era vero. L’istinto gli suggeriva che se si fosse girato e adesso si fosse trovato a guardare nella direzione da dove era venuto si sarebbe trovato a passare in mezzo a una marea di topi, allontanandosi da Jerlet, percorrendo al contrario il tragitto che gli era costato tanta fatica.
Chiuse gli occhi, strizzando le palpebre, e cercò di concentrarsi. Riandò a tutte le volte che era stato nel tunnel, compreso il lungo viaggio che aveva percorso finora, e si vide salire sulla scala a spirale con la ringhiere alla sinistra e la parete alla destra.
No, gridò dentro di lui la voce spaventata. Sbagli. Sai che sbagli.
Riaprì gli occhi. I topi si erano avvicinati, e lo fissavano con gli occhi luminosi, dicendo: Deciditi. Qualunque direzione tu scelga per noi fa lo stesso. Noi ti raggiungeremo comunque.
L’istinto gli gridava di andare avanti, di non voltarsi, di non voltare la schiena ai topi.
Ma i ricordi e il cervello gli dimostravano senza possibilità di dubbio che doveva avanzare tenendo la ringhiera alla sinistra se voleva continuare a salire fino a raggiungere Jerlet.
Trattenendo con uno sforzo un urlo di paura, Linc si voltò lentamente e afferrò la ringhiera con la sinistra. I piedi si sollevarono senza difficoltà dai gradini. Dopo aver aspirato una profonda boccata d’aria, scosso da un violento tremito, strinse con tutte e due le mani la ringhiera così fredda che gli bruciava la pelle, e si spinse in avanti. Avanzò fluttuando nel buio come una freccia, su, sempre più su, verso Jerlet… Almeno così spero!
I topi lo seguivano squittendo.
Ma Linc spingendosi con le mani riusciva ad avanzare più velocemente di loro. Una spinta dopo l’altra, procedendo sempre più rapidamente nel buio continuò a sfrecciare finché lo squittio dei topi non fu che un lontano, vago mormorio dietro di lui.
Anche se vado nella direzione sbagliata, almeno li ho lasciati indietro.
Si sentiva quasi bene quando andò a sbattere contro una cosa dura e rigida. Il buio fu sbriciolato in mille e mille stelle di dolore.
E poi finì con l’inghiottirlo completamente.
Si svegliò poco dopo.
E quando riaprì gli occhi per un breve attimo non fu sicuro di essere veramente sveglio.
Sogno, si disse. Sto sognando.
Socchiuse gli occhi feriti dalla luce troppo forte e vide che si trovava in una stanza. Una stanza piccola, non molto più ampia del suo compartimento nella Ruota Viva. Ma era illuminata da una luce vivida, bianca, abbagliante. E faceva caldo! Il caldo lo avvolgeva, dolce come una carezza. Linc non aveva mai gustato un tepore simile dall’infanzia.
Poi il sogno si trasformò in incubo. Si sentiva abbastanza in forze da alzarsi a sedere, ma scoprì che gli era impossibile muoversi. Riusciva a sollevare appena la testa, niente più. Il resto del corpo era come paralizzato. Si guardò e vide che ampie fasce gli immobilizzavano le gambe e le braccia e un’altra gli passava sul torace, impedendogli ogni movimento.
Mani e piedi erano coperti da qualcosa che non riuscì a definire. Per il resto indossava una camicia bianca inamidata con le maniche corte.
E c’era un sottile tubo flessibile attaccato al suo braccio destro, proprio al di sopra del gomito.
Spaventato, Linc voltò la testa e vide che l’altra estremità del tubo era infilata in una bottiglia verde capovolta inserita in un supporto appeso al muro. L’estremità del tubo che finiva nell’incavo del suo gomito era coperta da un pezzo di sostanza bianca che sembrava plastica. Linc sentiva il tubo dentro la sua carne. Prudeva.
— Dove sono? — gridò. — Cosa mi state facendo?
Ma a chi si rivolgeva? La nave era molto più grande di quanto avesse immaginato. Chissà quanta gente ci viveva.
Lasciò ricadere la testa sul letto. Non lasciarti prendere dal panico si disse. Se non altro sei riuscito a sfuggire ai topi.
Ma il nodo allo stomaco non voleva sciogliersi. Tornò a guardare il tubo che gli penetrava nel braccio, poi distolse gli occhi.
Cosa mi fanno?
Poi dovette essersi riaddormentato perché sussultò quando la porta si aprì sbattendo. Linc sollevò la testa più che poteva e vide un vecchio grasso e trasandato che si spingeva attraverso la soglia a fatica. Fluttuò privo di peso fino al letto come un’immensa nuvola di carne coperta da una tuta grigia macchiata che gli andava stretta.
— Finalmente ti sei svegliato. — La voce era grossa e rude come il suo corpo e la sua faccia.
— Chi… chi sei?
— Non mi riconosci? — Il vecchio aveva un’aria sorpresa. — Sono Jerlet.
— No, non sei Jerlet. Non gli somigli per niente.
Un lento sorriso si allargò sulla faccia rugosa del vecchio, coperta da ciuffi ispidi di pelo bianco. Aveva le guance cascanti, una grossa pappagorgia e un colorito grigiastro, malsano. I capelli, bianchi e opachi, erano un groviglio di lunghi riccioli che si agitavano contorcendosi nel vuoto a ogni movimento.
— Non mi riconosci, eh? — Sembrava che la cosa lo divertisse.
Cominciò a slegare le fasce che immobilizzavano Linc. — Non muovere quel braccio finché non sfilo la flebo — lo avvertì.
La flebo? Cos’era?
Linc non aveva mai sentito quella parola.
Il vecchio fluttuò leggero sopra al letto per raggiungere il tubo, e la sua forma massiccia oscurò la luce passando sopra a Linc.
— Sì — mormorò con la sua voce profonda, — è passato un sacco di tempo da quando ho registrato i nastri per voi bambini. Ormai sei un adulto… Come ti chiami?
— Linc.
— Linc… Linc… — Il vecchio si concentrò aggrottando la fronte. — Diavolo, è passato tanto tempo che non mi ricordo più niente. Devo dare un’occhiata in archivio.
Linc lo fissava attentamente, e più lo guardava più doveva convenire che c’era una certa somiglianza con l’uomo che parlava dallo schermo nella Ruota Viva. Ma mentre quello era vecchio, questo era… era antico. Anche le mani erano nodose, con grosse vene bluastre in rilievo. Ma aveva un corpo enorme, immenso.
Le dita nodose estrassero il tubo dal braccio di Linc e coprirono la ferita con un pezzo di plastica, così rapidamente che Linc non ebbe nemmeno il tempo di vederla.
— La flebo ti ha nutrito da quando ti ho portato qui… sei rimasto privo di conoscenza per quasi settanta ore.
— Ore? — ripeté Linc.
Il vecchio fece una smorfia di disappunto. — Già, immagino che voi non sappiate neanche misurare il tempo, vero? Linc scosse la testa.
— Non fa niente. Vediamo se riesci a star seduto. Vacci piano.
Linc si alzò a sedere, aggrappandosi all’orlo del letto per non volare via. Senza peso… forse sono davvero nel regno di Jerlet.
— Immagino di essere un po’ invecchiato — stava dicendo l’uomo. — Mi sono gonfiato come un pallone qui in gravità zero. Ma stammi a sentire, figliolo, io sono Jerlet. L’unico e il solo. Quelle mie immagini che vedete sugli schermi giù nella vostra area, be’, sono nastri registrati molto tempo fa. Allora ero più giovane. E voi eravate bambini.
Linc lo ascoltava appena. Si guardava le mani e i piedi fasciati. — Mi hai salvato dai topi.
— No, ti sei salvato da solo — precisò il vecchio. — Io ti ho salvato solo dal morire di freddo o dissanguato. Sei andato a sbattere contro il mio sbarramento elettrificato e ti sei preso una scossa che ti ha messo fuori combattimento. Ho dovuto uscire a prenderti. Non aspettavo visite. Ma mi fa piacere che tu sia venuto.
— Sei… sei davvero Jerlet?
Il vecchio assentì vigorosamente e i riccioli scomposti gli si agitarono intorno alla testa.
Linc si grattò la testa e si accorse che anche i suoi capelli lunghi fluttuavano privi di peso.
— Senti, piccolo, so di non essere molto presentabile, ma sono anni e anni che vivo qui solo… da quando tu e i tuoi coetanei arrivavate appena ai pulsanti dei selettori della cucina automatica.
— Perché ci hai lasciato?
Jerlet si strinse nelle spalle. — Stavo morendo. Se fossi rimasto giù, a gravità terrestre, la mia vecchia pompa non avrebbe retto.
— Cosa? Non capisco!
Jerlet gli sorrise, e quel sorriso era stranamente dolce nella vecchia faccia irsuta. — Vieni, ti spiegherò durante il pranzo.
— Cos’è il pranzo?
— Roba da mangiare. La migliore del mondo… di questo mondo, almeno.
Jerlet precedette Linc fuori dalla stanzetta lungo uno stretto corridoio così ripido che Linc riusciva a vedere solo fino a pochi passi davanti. Ma continuava a essere privo di peso.
— Qui non siamo proprio a gravità zero — spiegò Jerlet mentre percorrevano galleggiando il corridoio. — Ce n’è quel tanto che basta perché una cosa stia al suo posto, se l’appoggio. Ma coi tuoi muscoli abituati alla Ruota Viva devi avere l’impressione di una completa mancanza di peso.
Linc annuì anche se non aveva capito bene tutto. Dev’essere proprio Jerlet, pensò. Ma è completamente diverso da come lo immaginavo.
Passarono davanti a una porta doppia. — Laboratorio di biologia — disse Jerlet indicandola. — Dove siete nati tutti voi. Te lo mostrerò dopo.
Linc non aprì bocca. Le parole di Jerlet erano un enigma per lui.
Jerlet infilò a fatica la sua mole nell’apertura che dava in un’altra stanzetta dove c’erano un tavolo rotondo e alcune morbide sedie. Una parete era coperta di pulsanti, piccoli sportelli e strani simboli.
— Un selettore di cibi! — esclamò Linc. — Funziona?
— Certo! — rispose vivacemente Jerlet. — Guarda come sono grasso. Credi che abbia lasciato andare in malora i riciclatori di viveri?
Linc esaminò i pulsanti e i simboli che li contrassegnavano.
— Avanti — lo incitò Jerlet. — Prendi quello che vuoi. È tutta roba buona.
— Oh… — Linc aveva l’impressione di essere diventato improvvisamente stupido. — Come faccio a sapere cosa devo premere. Giù, a casa, lo sapevamo, prima che il selettore si guastasse…
— Si è guastato? — chiese Jerlet sorpreso. — I servomeccanismi non l’hanno riparato?
— Si sono rotti anche loro.
— E allora come… Vi preparate da mangiare da soli? Linc annuì.
Il vecchio pareva molto turbato. — Non credevo che le macchine si guastassero così presto. Specie quelle addette alle riparazioni. Non sono così intelligente come credevo. — Posò una mano sulla spalla di Linc. Quando riprese a parlare, la sua voce aveva un timbro strano, quasi come se avesse paura di quello che diceva. — Quanti di voi… sono ancora vivi?
— Più di tutte e due le mani — rispose Linc.
— Tutte e due le mani? Non conoscete i numeri? Non sai contare? Cosa ne è stato dei nastri didattici?
Linc ebbe l’impressione di averlo offeso. — Posso dirti i nomi di tutti. Va bene lo stesso?
Jerlet non rispose e Linc cominciò: — Prima di tutti naturalmente viene Magda, la sacerdotessa. Poi Monel, e Stav… — e proseguì elencando i nomi di tutti. Stava per nominare anche Peta, ma si trattenne.
— Cinquantasette — commentò Jerlet. Pareva molto scosso. Si allontanò dal selettore e si avvicinò a una sedia lasciandovisi cadere pesantemente, nonostante la gravità ridotta. — Cinquantasette su cento. In quasi quindici anni ne sono morti quasi la metà… — Si coprì la faccia con le mani.
Linc, immobile accanto al selettore, non sapeva cosa fare. Continuava a fissare la mole enorme del vecchio contenuta a stento nella sedia, meravigliandosi che nonostante la gravità così tenue le sue gambe sottili non cedessero al suo peso.
Finalmente il vecchio tornò a sollevare la faccia. Aveva gli occhi rossi. — Non capisci? — disse con voce rotta, tremante, come se pregasse. — Sono stato io a crearvi. Voi siete miei figli come se io fossi il vostro padre naturale… Vi ho creati e poi sono stato costretto a lasciarvi. E adesso la metà di voi è morta… Per colpa mia…
Linc lo guardava sbalordito.
Jerlet si districò dalla sedia e mosse con fare incerto verso Linc. — Non capisci? — Adesso parlava con voce forte, che sembrava un ruggito straziante. — È colpa mia! Voi dovevate essere i più belli, la nuova generazione, la migliore che fosse mai esistita! Eravate destinati a raggiungere il nuovo mondo… allevati con cura e amore… E INVECE SIETE UN BRANCO DI SELVAGGI IGNORANTI!
La sua voce rimbombava fra le pareti della stanzetta. Linc arretrò urtando inavvertitamente la tastiera del selettore.
— Cinquantasette! — tuonò Jerlet. — Selvaggi stupidi e ignoranti. — Avanzò barcollando verso Linc, poi si fermò, scosso da singhiozzi ansimanti. — No… Non adesso — mormorò fra sé. Ma fissava Linc, e i suoi occhi erano rossi e ardenti come quelli dei topi. Ma non esprimevano odio. Erano pieni di dolore.
— Non… capisci… niente? — ansimò il vecchio, con voce bassa e roca. — Non capisci? No, è al di fuori della tua comprensione…
Linc avrebbe voluto dire qualcosa, oppure scappare, ma era paralizzato e non riusciva neanche a ritrovare la voce.
Jerlet agitò debolmente una mano carnosa e uscì dalla stanza.
È pazzo pensò Linc. Come Robar quando cercò di entrare nel compartimento della morte insieme al corpo di Sheila. Quello che dice non ha senso.
Era incerto se seguire Jerlet, ma in quel momento si accorse che il selettore aveva deposto del cibo sul ripiano. Devo aver premuto dei bottoni quando mi sono appoggiato al muro pensò.
Il cibo, chiuso in involucri ben curati, era sistemato dentro piccoli contenitori su un vassoio. Linc diede un’occhiata alla porta.
Meglio lasciarlo solo. Se è veramente Jerlet, tornerà, pensò.
Portò il vassoio sul tavolo. Aprì gli involucri e guardò le strane cose che contenevano. In uno c’era un liquido dal colore strano, un colore che somigliava a quello di alcuni cavi elettrici della Ruota Viva. Era freddo al tatto. La seconda scatola era un contenitore oblungo pieno di una cosa che sembrava carne. Quando Linc sollevò la plastica trasparente che lo copriva emanò calore. Linc l’annusò. Aveva proprio odore di carne. Il terzo conteneva un ammasso informe di sostanza fredda e biancastra. Linc ci infilò un dito e se lo portò alla bocca. Era dolce! Non aveva mai assaggiato niente di simile, prima.
Senza pensare a scegliere altro, sedette al tavolo. Quella roba aveva un aspetto strano ma era buona.
Il suo primo pasto nel regno di Jerlet consistette in succo d’arancia, bistecca di soia e gelato di crema.
Linc dormì lì nella saletta da pranzo. Il pavimento era morbido e caldo, e lui vi si sdraiò e si addormentò subito.
In sogno vide Jerlet e alcune persone della Ruota Viva. Magda cercava di dirgli qualcosa, ma Monel si frapponeva tra loro. Era tutto strano e confuso.
Poi, sempre in sogno, cadeva nel buio coi diabolici occhi rossi dei topi che lo inseguivano. Gli occhi diventavano più tardi uno solo, enorme, accompagnato da un vocione tonante. Linc continuava a cadere nel vuoto e nel buio, aveva freddo, era solo e disperato…
Si svegliò con un sussulto. Giaceva a faccia in giù sul morbido pavimento della saletta, ed era madido di sudore. Doveva aver urlato perché aveva ancora la bocca aperta. Si mise a sedere, ormai completamente sveglio. I sogni svanirono negli oscuri recessi della mente, dove l’oblio copre tutto.
Piegò le ginocchia fino all’altezza del mento, circondandole con le braccia, e cercò di concentrarsi.
Subito gli venne da sorridere. «Magda, ovunque tu sia, perdonami. Non mi va di meditare. Non voglio chiedere a Jerlet cosa devo fare. Voglio scoprirlo da solo.»
Era divertente ma anche penoso. Per poco non sono morto cercando Jerlet, e quando l’ho trovato ho scoperto che è matto… Forse pericoloso gli venne fatto di pensare. Forse cercherà di farmi del male… di uccidermi. Era così furibondo all’ora dell’ultimo pasto.
Andò ad aprire cautamente la porta e sbirciò in quello strano corridoio angusto in forte pendenza. Nessuno in vista. Si avviò in punta di piedi socchiudendo altre porte. Nessuna traccia di Jerlet, sebbene due delle stanze fossero camere da letto complete di docce a ultrasuoni e rastrelliere piene di strani indumenti.
Qui tutte le macchine funzionavano. Linc notò che le luci erano vivide e non vacillavano. Quando entrò in una delle camere da letto la porta si richiuse automaticamente alle sue spalle. Girò un rubinetto, un beccuccio di metallo lucente posto al di sopra di una vaschetta dello stesso metallo, e l’acqua fluì subito limpida e fresca.
Scommetto che funziona anche la doccia a ultrasuoni.
Esaminò gli indumenti appesi a una rastrelliera nell’incavo della parete vicino al letto. A prima vista gli sembravano troppo piccoli per lui, ma quando provò una camicia scoprì che il tessuto cedeva e si adattava perfettamente alla sua misura. E così anche i calzoni.
Ed erano di tanti colori diversi!
Uno degli schermi a muro aveva una forma strana. Andava dal pavimento al soffitto ed era così stretto che se fosse stato una porta Linc ci sarebbe passato a malapena. E poi era luminoso e rifletteva con precisione tutto quello che c’era nella stanza. Linc non aveva mai visto uno specchio prima, ma ne approfittò istintivamente per rimirarsi mentre provava abiti di colori diversi. Alla fine si decise per una camicia a collo alto dello stesso azzurro dei suoi occhi e un paio di calzoni marrone. In un altro ripostiglio trovò scarpe leggere che gli si adattarono perfettamente.
— Salve!
Linc sussultò come se avesse preso una scossa.
— Salve! — ripeté la voce roca di Jerlet — Mi senti?
Veniva da un altoparlante a grata sul soffitto. Sulla parete davanti al letto c’era uno schermo, ma era spento.
— Senti, tu… accidenti, non mi ricordo come ti chiami. Insomma, figliolo, stammi a sentire, ieri ero sconvolto e mi sono comportato da idiota. Mi dispiace.
Linc notò una piccola tastiera sul tavolino accanto al letto. Si chiese se doveva provare a premere qualche pulsante.
— Non ti gioverà nasconderti. Prima o poi dovrai mangiare — stava dicendo Jerlet. — E io ti voglio aiutare. Te l’assicuro, figliolo. Ieri mi sono comportato in un modo… be’, ti spiegherò se me ne darai la possibilità. Attiva almeno uno schermo, così posso vederti… Ma come ti chiami, accidenti? So che me l’hai detto, ma hai fatto anche i nomi di tutti gli altri, e così adesso non ricordo… sarà perché invecchio.
Linc si avvicinò al tavolino con la tastiera dai pulsanti colorati. Gli girava la testa, non tanto per la gravità ridottissima quanto per lo sforzo di prendere una decisione. Lentamente, con riluttanza, allungò la mano…
— Se vuoi attivare uno schermo — stava dicendo Jerlet, — premi il pulsante rosso su una delle tastiere…
Il dito di Linc premette il bottone rosso e sullo schermo a muro di fronte al letto comparve il faccione irsuto di Jerlet.
— So che ieri sera mi sono comportato come un pazzo — stava dicendo con enfasi. — …Oh, eccoti.
Linc lo guardò negli occhi. Avevano un’espressione triste, addolorata.
— Linc. Mi chiamo Linc.
Jerlet chinò la grossa testa facendo tremolare le guance.
— È vero! Linc. Me l’avevi già detto ma non lo ricordavo.
Linc voleva rispondere ma non sapeva cosa dire.
Jerlet riprese a parlare. — Ho visto che ti sei lavato e cambiato. Bravo! Ci troviamo nell’autocucina, d’accordo? Ho tante cose da mostrarti.
— L’autocucina?
— Sì, la saletta dove c’è il selettore dei cibi.
— Ah, va bene. D’accordo.
— Sai come fare per arrivarci?
Linc assentì. — Troverò la strada.
— Va bene. Ci vediamo. — Il vecchio sorrideva contento. Sorrideva ancora quando infilò la sua mole attraverso la soglia dell’autocucina e veleggiò verso Linc tendendo la mano tozza.
— Linc, non so che abitudini avete voi giù nella zona abitabile, ma è una vecchia usanza umana che due persone si stringano la mano quando s’incontrano.
Imbarazzato e perplesso, Linc tese la mano.
Jerlet agitò un dito. — No, non quella… la destra.
Con una scrollata di spalle, Linc porse la destra e lasciò che Jerlet gliela stringesse. È più forte di quello che pensavo giudicò Linc dalla stretta energica del vecchio.
— Bene! — Jerlet era raggiante. — Adesso ci siamo presentati ufficialmente. Ho tante cose da mostrarti. — Si fregò le mani. — Cominciamo dal selettore. Ti faccio vedere come funziona.
Mangiarono abbondantemente. Jerlet mostrò a Linc una quantità di cibi nuovi che non aveva mai visto prima. Via via che mangiava si sentiva riscaldare piacevolmente lo stomaco, e i suoi sospetti su Jerlet svanirono.
Poi cominciarono a visitare il mondo privo di peso del vecchio. Questi mostrò a Linc i generatori di energia, quelle misteriose macchine ronzanti che fornivano l’elettricità a tutte le parti della nave. Poi fu la volta del computer principale, con le sue luci ammiccanti e le strane voci cantilenanti. Quindi una stanza piena di servomeccanismi, rigidi e immobili, con le braccia di metallo che pendevano lungo i fianchi, e i sensori disattivati.
— Sono morti? — chiese con voce intimidita Linc.
— Vorrai dire disattivati — corresse col suo vocione Jerlet. — Qua… lascia che ti faccia vedere. — Prese una piccola cassetta di comandi da uno scaffale e premette un pulsante sul coperchio. Il più vicino servomeccanismo si mosse voltandosi verso Jerlet sulle sue rotelle silenziose.
— Visto? Funzionano perfettamente.
— Giù da noi sono morti tutti da un pezzo — disse Linc.
Il vecchio sbuffò. — Bene, vedremo di provvedere.
Portò Linc lungo il corridoio fino a una porta doppia che dava in una strana stanza silenziosa. Linc sapeva di non esserci mai stato, eppure il lieve odore che vi aleggiava lo fece rabbrividire. La stanza era piena di sfere di vetro, di lunghe tubature ricurve, schermi, scrivanie, altri oggetti di vetro, metallo e plastica che Linc non aveva mai visto.
— È il laboratorio di genetica — spiegò Jerlet. La sua voce aveva un timbro diverso: un po’ orgoglioso e un po’ triste. — Qui sei nato tu, Linc. E tutti i tuoi compagni della sezione abitabile.
— Qui?
Jerlet annuì. — Sì. Abbiamo preso spermatozoi e ovuli da quei criofrigoriferi dietro lo schermo antiradiazioni lassù — indicò una massiccia parete metallica, — e portato a termine i feti in quelle capsule. Tutto eseguito con la massima cura, con precisione scientifica. Ogni esemplare è stato scelto per la sua perfezione genetica. Ogni neonato portato a termine è stato curato e allevato nel miglior modo dettato dagli psicologi. Una generazione di bambini mentalmente e fisicamente perfetti… Dei geni condannati a vivere in un ambiente idiota.
— Non ti capisco — disse Linc.
Jerlet indicò tutte le strutture del laboratorio con un largo gesto. — Io ero il direttore del progetto. Sono stato io a crearvi. Sì, voi siete stati creati tutti da me.
Prima che Linc facesse in tempo a porgli altre domande, Jerlet lo spinse fuori dal laboratorio, nel corridoio.
— Non hai ancora visto la parte migliore — disse.
Intontito e confuso, Linc seguì in silenzio il vecchio attraverso un portello in uno stanzino di metallo freddo e sinistro come il compartimento della morte. Anche se è pazzo, non ci farebbe entrare tutti e due nel compartimento della morte si disse Linc. Ma subito aggiunse: «Ne sei sicuro?».
La massa enorme di Jerlet riempiva tutto lo stambugio. Linc riusciva a malapena a respirare.
— Qui si sta scomodi in due — mormorò il vecchio mentre premeva una complicata serie di pulsanti. — Anzi, a pensarci bene, ci sto parecchio scomodo anche da solo.
Il soffitto si spalancò e Linc capì che era un portello. Jerlet gli sorrise, poi si diede una spinta contro le pareti del bugigattolo e salì fluttuando attraverso l’apertura. Linc tirò un sospirone, felice di non sentirsi più schiacciato.
— Vieni su a vedere il panorama! — gli gridò Jerlet, e la sua voce suonava lontana, atona.
Linc flette le ginocchia e si diede una spinta. Salì come una freccia attraverso il portello e oltrepassò il corpo obeso di Jerlet che galleggiava a mezz’aria… e improvvisamente urlò di terrore. Si trovava nel buio esterno! Circondato dalle stelle e dalla tenebra, dove non c’era aria, né calore, né…
Una mano gli afferrò la caviglia. — Ehi, vacci piano! — gli gridò Jerlet, e Linc si accorse che c’era aria e faceva caldo.
Jerlet ridacchiava mentre fluttuavano lentamente nel buio pieno di stelle. Però non era proprio buio. Le stelle brillavano, circondandoli da ogni parte.
— Dove siamo? — chiese Linc, e anche la sua voce suonò strana, remota, atona.
— Era un osservatorio — rispose Jerlet.
Gli occhi di Linc si adattarono alla semioscurità. Si trovavano in un ampio locale rotondo quasi tutto di vetro. In effetti si trattava di plastica, ma Linc non lo sapeva ancora. Lo splendore delle stelle che punteggiavano il nero dello spazio li circondava da ogni parte. Stelle bianche, azzurre, rosse, gialle… un’infinità di stelle e anche roteanti ammassi luminosi, spirali che brillavano rosse e azzurre.
Linc guardava a bocca aperta mentre galleggiavano in quell’ambiente a gravità zero, nell’enorme cupola dell’osservatorio che si apriva sull’immensità dell’universo.
Quando guardò in basso (o per lo meno dove si trovavano in quel momento i suoi piedi) vide, vicinissima, la stella gialla. Linc chiuse gli occhi, ma la sua immagine continuò a splendere sotto le palpebre.
— Ci arriveremo presto, figliolo — disse vicino a lui la voce di Jerlet.
Linc riaprì gli occhi, e vide accanto a sé la faccia di Jerlet, incorniciata dall’alone dell’immagine retinica della stella gialla. — Viene a ingoiarci — sussurrò Linc. — Ci brucerà vivi.
La risata rimbombante del vecchio lo colse di sorpresa, riecheggiando nell’ampia cupola.
— Sbagli in pieno, figliolo — disse poi. — La stella gialla non viene verso di noi. Siamo noi che andiamo verso di lei. E non ci ucciderà, ma ci darà vita. Speranza… Se riusciremo a raggiungerla prima che questa tinozza vada definitivamente a pezzi.
Linc stava per dire non capisco, ma l’aveva detto tante volte che si vergognava di ripeterlo ancora.
— Vieni qua che ti faccio vedere una cosa — disse Jerlet afferrandolo per un polso.
Galleggiarono nel vuoto nuotando verso una macchia d’ombra più profonda della semioscurità circostante. Avvicinandosi, Linc vide una specie di grata sottile, e Jerlet tese la mano con gesto esperto.
— Attento — disse a Linc. — Rallenta o ti farai male quando toccherai il ponte. La mancanza di peso non significa che tu non abbia inerzia.
Non è capace di dire tre parole sensate in fila, pensò Linc. Usa parole che non ho mai sentito prima.
Il ponte era di metallo freddo, e Linc notò diverse scrivanie con strumenti strani. Il più grande pendeva su di loro: era un cilindro composto di sezioni metalliche che Jerlet toccò dicendo: — È un telescopio. Facevamo una fatica del diavolo a tenerlo allineato. Il vecchio programma del computer non ce la faceva più a stare alla pari coi nuovi dati, e io non so come aggiornarlo. Anche i giroscopi devono essere sfasati.
Linc si limitò a scuotere la testa.
Jerlet inserì a fatica la sua mole enorme su un sedile davanti a una scrivania. — Da’ un’occhiata a questo schermo — disse premendo qualche pulsante.
Linc notò che tutto il ripiano era coperto da file e file di bottoni.
Lo schermo si illuminò e apparve un’enorme palla gialla infuocata che vibrava tutta emettendo lingue di fuoco.
— È il sole giallo verso cui siamo diretti — disse Jerlet. — Ho cercato per anni di trovare il nome che le avevano dato le vecchie generazioni, ma sui nastri non ci sono elenchi di stelle. O per lo meno non li ho trovati. Comunque io l’ho chiamata Baryta, per il suo calore e a ricordo dei miei antichi studi di chimica. Ecco, la nostra stella si chiama Baryta.
Una voce cominciò a bisbigliare nel cervello di Linc. È proprio pazzo, non ci sono dubbi.
Linc guardò in faccia il vecchio. La luce obliqua della stella gialla disegnava lunghe ombre sulle sue guance cascanti e sul grosso naso aquilino. Le rughe intorno agli occhi e alla bocca erano diventati profondi solchi scuri. La luce del piccolo schermo dove ardeva la stella incandescente non bastava a fugare le ombre.
— Ora, mio piccolo e spaventato amico, guarda un po’ qua — disse Jerlet sorridendo.
Toccò un’altra serie di pulsanti e lo schermo si spense per un attimo, e poi si riaccese mostrando l’immagine di un disco azzurro verdastro, punteggiato da chiazze bianche. Pareva sospeso nel nero dello spazio esterno perché era completamente isolato.
— Il nuovo mondo. — Adesso la voce di Jerlet, appena percettibile, era un mormorio carico di speranza e timore. — È un pianeta, Linc. Un mondo che ruota intorno a Baryta. Io lo chiamo Beryl. È la meta verso cui è diretta questa nave da chissà quante generazioni.
— Un… un mondo?
— Un mondo bellissimo, libero, disponibile. Con aria respirabile e acqua limpida e più spazio di quanto noi possiamo immaginare. Come la vecchia Terra, però migliore. È la nostra meta, Linc. La nostra nuova casa. È lì che siamo diretti.
Poco per volta, Linc cominciò a imparare.
Con Jerlet come insegnante, con l’ausilio del computer di bordo e dei nastri magnetici, Linc cominciò a capire il come e il perché della vita.
La nave era incredibilmente vecchia, così vecchia che nemmeno le memorie del computer sapevano da quanto tempo navigasse attraverso lo spazio. Linc vide che la Ruota Viva, la sezione dove aveva trascorso tutta la vita, era in realtà la ruota esterna di un insieme di venti strutture circolari concentriche. I tubi-tunnel le collegavano come raggi che si dipartivano dal mozzo centrale. Il mozzo era il regno di Jerlet, permanentemente privo di peso. La Ruota Viva che girava senza fermarsi mai, compiendo l’arco più ampio di tutte, era a 1 g, cioè alle stesse condizioni gravitazionali della Terra.
L’origine della nave era avvolta nel mistero, ma dalle memorie del computer risultava senza ombra di dubbio che la generazione più antica era stata costretta a lasciare la Terra e mandata a vagare fra le stelle contro la sua volontà. Guardando uomini e donne che parlavano dallo schermo, Linc capì che consideravano la Terra malvagia e corrotta.
Ma quando gli antichi nastri mostrarono vedute della Terra, fitte di nostalgia di ricordi atavici, Linc provò una stretta al cuore e pianse. Tutte le vecchie storie che aveva visto da bambino prima che le macchine cessassero di funzionare nella Ruota Viva: cieli azzurri e sconfinati, morbide nuvole luminose del candore più immacolato, montagne col dorso ammantato di neve, fiumi di acqua cristallina, prati e campi e foreste che si stendevano a perdita d’occhio… Città che brillavano al sole e scintillavano di notte. E la gente! Gente di tutte le età, dimensioni e colore. Moltitudini incalcolabili. Gente dappertutto.
Ma non tutto quello che vide della Terra era bello. C’erano malattie, morte, scene di violenza che sconvolgevano lo stomaco di Linc, bande che picchiavano la gente nelle vie delle città, strane macchine che sputavano fuoco, morti per le strade. Adesso capisco perché Jerlet ci aveva messo in guardia contro la violenza, pensò Linc.
Ma nonostante tutte le brutture, si capiva che la Terra era un mondo meraviglioso. Al suo confronto, i muri di metallo della nave sembravano quelli di una prigione.
— Beryl è un pianeta che somiglia molto alla Terra — disse Jerlet una sera mentre guardavano gli antichi nastri. Sullo schermo campeggiava l’immagine di una vasta distesa erbosa cosparsa di animali strani dalla lunga coda che procedevano a balzi su zampe esili dotate di zoccoli. — Sarà ancora migliore della Terra. È intatto. Il nostro nuovo mondo. Il nostro Eden.
— Quando ci arriveremo? — chiese Linc.
— Non quando, figliolo… se.
Via via che Linc imparava altre cose sulla storia della nave, venne a sapere come fosse profondo e diffuso il logorio delle macchine. Qui nel regno di Jerlet funzionava tutto alla perfezione, ma quella era solo una parte piccolissima della nave. La maggior parte delle altre sezioni era ridotta a un mucchio di rovine, di macerie inservibili che non era più possibile ripristinare.
— Qualche macchina funziona ancora nella Ruota Viva — disse Linc.
— Lo so — rispose il vecchio. — Abbiamo impiegato gli anni e i cervelli migliori per allestire una zona sicura per voi bambini. Ma evidentemente non ci siamo riusciti del tutto. Siamo in gara col tempo.
Jerlet gli ripeté più volte la storia di come la nave era arrivata a un pianeta simile alla Terra, di come l’equipaggio avesse deciso di non fermarcisi ma di cercarne un altro esattamente uguale alla Terra.
— Beryl è questo mondo… ma potrebbe essere troppo tardi per voi giovani. Per me è troppo tardi senz’altro.
Un po’ per volta, Jerlet gli spiegò tutto. Continuava a parlare del ponte di comando e di come fosse indispensabile che le macchine che vi erano installate continuassero a funzionare. Lentamente Linc arrivò a capire che parlava del Posto dei Fantasmi, e che i «fantasmi» erano gli amici e i compagni di Jerlet rimasti uccisi in un terribile incidente.
Il vecchio gli insegnò a leggere e a contare, a far funzionare i computer, a capire il senso delle strane parole necessarie per governare la nave. E tutte le sere dopo cena e fino a notte inoltrata, finché Linc non cadeva dal sonno, Jerlet gli raccontava la sua storia.
La nave non era stata progettata per funzionare così a lungo senza una completa revisione. Sebbene le antiche generazioni sapessero il fatto loro, non avevano potuto evitare che i macchinari di bordo andassero lentamente deteriorandosi.
Mentre la nave navigava alla cieca nelle profondità degli spazi interstellari, alla ricerca del mondo identico alla Terra, le macchine che mantenevano in vita gli uomini cominciarono a guastarsi e a morire.
Intere parti della nave diventarono inabitabili. Le sezioni ancora intatte divennero ben presto sovraffollate. Cominciarono gli screzi, i litigi, e alla fine divampò la violenza. E per generazioni l’equipaggio rimase diviso in gruppi ostili, che si odiavano a vicenda; impararono a diffidare degli estranei, a combattere, a uccidere.
Il cerchio andò sempre più restringendosi. Col passar degli anni un numero sempre crescente di macchine diventò inservibile. Sopravvivere era diventata un’impresa disperata. Tutte le energie erano impegnate a mantenere in funzione le pompe dell’aria e le vasche della fattoria. Bande di malviventi spietati infestavano i tubi-tunnel, facendo scorrerie nelle zone ancora abitate per rubare e uccidere.
— Per ironia della sorte — ripeteva tutte le sere Jerlet a Linc, — il processo scientifico andava di pari passo con il dissolvimento morale.
Nel mozzo della nave, poche decine di uomini e donne vivevano insieme con un minimo di comodità. Avevano il controllo dei generatori principali, e potevano privare dell’energia elettrica (e cioè di calore, aria, vita) qualsiasi gruppo non andasse loro a genio. Cercarono di por fine alle scorrerie dei malviventi, ma senza esito. Le bande, però, non osarono mai infastidirli.
Gli uomini e le donne che vivevano nel mozzo erano scienziati. Erano pochi e riuscirono sempre a convivere d’accordo.
— Quante cose hanno imparato! — ripeteva spesso Jerlet scuotendo la testa al ricordo. — Le loro ricerche nel campo della genetica raggiunsero la perfezione quando furono in grado, se lo volevano, di creare in laboratorio feti umani perfettamente normali. I fisici studiarono a fondo il rapporto fra energia e materia nel tentativo di trovare il modo di uscire dai confini della nave moribonda.
«Impararono a trasformare oggetti solidi in raggi di energia, e poi a farli ritornare solidi com’erano prima — disse Jerlet. — Ma per fare quello che realmente volevamo era necessaria una quantità enorme di energia. Non ci fu possibile usare questo sistema per trasferirci di nuovo sulla Terra, ma quando saremo abbastanza vicini a Beryl, potrai scendere in un batter d’occhio sulla superficie del pianeta.»
— Ma noi, i bambini della Ruota Viva, da dove siamo venuti fuori? — non si stancava di chiedere Linc. — Perché ci avete creato?
Allora Jerlet sorrideva. — Finalmente trovammo una stella simile al Sole, intorno alla quale ruotavano alcuni pianeti. Sebbene fossimo ancora troppo lontani per vedere se qualche pianeta era veramente uguale alla Terra, decidemmo di correre il rischio… Del resto non avremmo potuto fare diversamente. Sapevamo che la nave non avrebbe potuto resistere ancora per molto.
«Stavo avvicinandomi alla mezza età quando iniziammo il programma che vi avrebbe fatti nascere in laboratorio. Cento esemplari perfetti, fisicamente robusti e intellettualmente dotati al massimo delle possibilità. Cento superuomini e superdonne.
«Be’, il programma riuscì e vi sistemammo giù nella sezione abitabile, nella ruota a un g, vicino alla plancia. Rimanemmo in sei a sorvegliarvi durante i primi anni, per essere sicuri che cresceste nel modo migliore. Naturalmente tutto il lavoro materiale veniva sbrigato dai servomeccanismi. Ma che fatica, e che baccano c’era laggiù. Quando voi avevate appena imparato a camminare fecero irruzione alcuni banditi. Riuscimmo a proteggervi, ma due di noi ci rimisero la pelle. Uno dei due era mia moglie…»
Linc sapeva che moglie voleva dire una ragazza che aveva finito di crescere.
— Nessuno può vivere indefinitamente in un ambiente a un g. Eravamo vissuti troppo a lungo quassù, a zero g. Io fui quello che resistette più a lungo, e lavorai sodo per aver la certezza che macchine e servomeccanismi continuassero a funzionare e si prendessero cura di voi fin quando non foste cresciuti abbastanza da cavarvela da soli. Intanto i miei amici eliminarono sistematicamente tutti i banditi. Non potevamo permettere che tentassero un’altra volta di fare irruzione nel vostro ambiente.
— E poi ci hai lasciato?
Jerlet annuì tristemente. — Sono stato costretto a farlo. La forza di gravità mi aveva fatto ammalare. Il mio cuore cominciava a cedere. Dovevo tornare quassù. Poi, mentre voi crescevate, tutti gli altri miei amici morirono, molti in un incidente giù in plancia. Io sono l’ultimo superstite.
Linc ascoltò più volte questo racconto, ma una sera, mentre Jerlet tornava a raccontarlo, lo interruppe per dire: — Be’, almeno avrai la consolazione di venire con noi sul nuovo mondo… se la nave ce la farà.
Jerlet lo guardò a lungo. — Sta a te fare in modo che questa tinozza riesca ad arrivare fino a Beryl e a entrare in orbita. Per questo ti sto insegnando tante cose, Linc. Ho passato tanti anni nell’attesa che cresceste e veniste da me. Ora sta a te manovrare la nave e depositare sani e salvi tutti voi sulla superficie del pianeta.
Seguì un silenzio prolungato. Poi Linc disse con solennità: — Lo farò. Porterò tutti a Beryl a costo di uscire e spingere la nave con le mie mani.
Jerlet si mise a ridere. — Vorrei proprio vederti!
— Ce la farò. Porterò tutti su Beryl. Te compreso.
Ma il vecchio scosse la testa. — No, io no. Non posso uscire da questo ambiente a gravità zero. Mi scoppierebbe il cuore solo se scendessi di qualche livello, dove la gravità comincia a farsi sentire.
— No… troveremo il modo… qualcosa…
— Ascolta, figliolo — disse calmo Jerlet. — Io sono vecchio. Può darsi che non ce la faccia neanche ad arrivare in orbita intorno a Beryl. Per questo ti sprono con tanta insistenza. È tutto sulle tue spalle, Linc. Tu sei la differenza fra la vita e la morte per i tuoi compagni.