PARTE SECONDA E ARRIVO’ SUBITO IL GIORNO…

37

Isaac Newton non pensò di stabilire un nesso tra l’improvvisa luminosità della cometa di Halley e le conversazioni sul disarmo a Ginevra, alle quali aveva partecipato più di un anno prima per cui, adesso, erano solo un lontano ricordo. Parcheggiò la macchina e si preparò a superare con pochi balzi sotto la pioggia gelida il tratto che lo separava dal portone d’ingresso del Cavendish Laboratory.

«Niente cometa oggi!» esclamò la voce familiare di Scrooge, l’assistente che sovrintendeva al magazzino del laboratorio.

«Spero che tutto sia in ordine, Scrooge», rispose Isaac Newton scrollandosi di dosso la pioggia, «nessuna incursione nel suo magazzino?»

«Lei sa che tengo tutto sotto chiave, professore, può fidarsi», rispose Scrooge con un largo sorriso.

Boulton, di Geostrofica, stava aspettando nell’ufficio di Isaac Newton. «Stai lasciandoti scappare una grossa occasione, sai?» cominciò.

«E quale?»

«Con tutta questa gente a zonzo nel laboratorio! Giornalisti da tutto il mondo! Quelli sarebbero disposti a pagare un biglietto da dieci sterline senza fare una piega.»

«Francamente, non ci avevo pensato. D’altra parte è il mio destino quello di morire povero, temo.»

«Oh, non mi riferivo alla tua persona. Pensavo a tutto quello che spende il laboratorio, caffè per gli assistenti e quel genere di cose. E’ uno stillicidio continuo, se non ci badi.»

«Come vanno i tuoi marchi tedeschi?»

«Me ne sono liberato da un pezzo. Gli yen giapponesi sono quelli che ora ti ci vorrebbero. Se fossi in te cambierei i franchi svizzeri in yen. Tanto più che gli interessi delle banche svizzere sono bassi. Oppure potresti pensare al peso. Dicono che salirà, probabilmente.»

«O che scenderà, come vorrà il caso. Sei sicuro che non sarebbe meglio la dracma?»

«Quella è una moneta con la quale bisogna stare attenti. Tutto dipende dal raccolto delle olive, e molto anche dal raccolto delle noci.»

«Lo immagino.»

«Quelli che sembrano promettenti adesso sono i giocattoli a forma di cometa per i bambini. Sembra che ci sarà da guadagnare molto. Ne ho parlato con un paio di industrie. Ci servono delle idee. Sembra proprio roba del tuo ramo. Ho pensato anche ai fuochi artificiali a forma di comete. Naturalmente non è detto che devi associarti se non ci tieni, ma bisogna sempre entrare nelle imprese all’inizio. E’ importante. Una volta che tutti cominciano a interessarsi all’affare è troppo tardi.»

«Quanto correrei il rischio di perdere?»

«Oh, non perderesti nulla perché non rischieresti altro se non le tue idee.»

«Questo è un sollievo.»

«E’ davvero una buona occasione. A proposito: sto pensando di acquistare il Ragamuffin. E’ una proprietà esente da oneri e vincoli, vedi, così o l’Università o uno dei College potrebbero essere interessati un bel giorno al terreno. Naturalmente, trattandosi di un’impresa funzionante, vive dei suoi guadagni.»

«Perché, allora, uno dovrebbe volerlo vendere?»

«Per un sacco di motivi. Tasse di successione, artrite, dolori nelle ossa quando il proprietario invecchia, roba del genere.»

«Non ti è mai venuto in mente di cambiare facoltà e chiedere una cattedra a Economia?»

«Non c’è pericolo che mi venga. Gli esperti di economia perdono sempre denaro, è un assioma. Ecco, vedi, la Borsa è in realtà un gioco nel quale le somme si azzerano. Così, se tu guadagni, un altro perde. Quasi sempre sono gli esperti di economia quelli che perdono. A beneficio di tutti. Persino le vedove e gli orfani riescono a sfruttarli.»

La signora Gunter, segretaria di Isaac Newton, apparve nel riquadro della porta per annunciare: «Stiamo per ricevere una visita del signor Scuby, professore».

Boulton si precipitò all’istante alla porta d’uscita riservata ad Isaac Newton dicendo: «Allora me ne vado. Pensa ai giocattoli a forma di cometa. Adesso vado da Pocombe, a Chimica. Per parlargli dei fuochi d’artificio, voglio dire».

Fece appena in tempo a uscire prima che John Jocelyn Scuby, segretario delle facoltà, emergesse dall’ufficio della signora Gunter.

«Potrei chiedere se quel tale che è uscito proprio adesso…?» cominciò Scuby.

«… era il professor Boulton? Sì, era proprio lui», rispose Isaac Newton completando la domanda.

«Mi vedo quasi costretto a dargli la caccia. Adesso è riuscito a sfuggirmi con notevole abilità. Vediamo un po’: dev’essere passato circa un anno da quando sono riuscito ad acciuffarlo», continuò Scuby.

«Credo che debba aver subito pesanti perdite sul mercato valutario, con i marchi tedeschi.»

«E’ senz’altro possibile. Ma non sono le sue faccende personali che mi preoccupano. Il caos che regna nel suo istituto ci disturba tutti.»

«Chi è Pocombe della facoltà di chimica?»

«Il nome ha un suono familiare, ma temo di non ricordare perché.»

«Potrebbe trattarsi di fuochi artificiali?»

«Ah! Fuochi artificiali. Sì, fuochi artificiali, naturalmente. Pocombe è una specie di esperto in quel particolare campo. Li fabbrica per le feste di beneficenza, credo.»

«Beh, signor Scuby, spero che lei sia riuscito a mettere a posto il caos in «questo» istituto.»

«Non direi proprio un caos, professor Newton. Qualche irregolarità, forse, prima del suo arrivo, naturalmente. No, sono venuto a trovarla per sondare la sua disponibilità a una proposta avanzata da molte parti, direi, quella di conferirle la carica di membro del Comitato finanziario dell’Università.»

Isaac Newton fece passare un intervallo per buona educazione prima di rispondere: «Purtroppo ogni giornata è composta solo da un numero determinato di ore».

«Lo so benissimo, professor Newton, e l’ho fatto spesso osservare a mia moglie. Il problema dell’Università è che i suoi dirigenti più abili sono i più oberati dal lavoro. Se tutti si rifiutano di prestare i loro servigi, beh, lo vede lei stesso che cosa succede», concluse Scuby come se stesse lanciando a gran voce un appello.

«Non potrebbe prendere in esame la possibilità di conferire la carica al professor Boulton?»

«Dio me ne guardi!» esclamò Scuby la cui bocca rimase spalancata per l’orrore destato in lui da una simile idea.

«Ammetterà senz’altro che proprio in questo momento ho per le mani un mucchio di impegni estremamente urgenti, signor Scuby.»

«Naturalmente, professor Newton. Ma gli impegni vengono e vanno, come mi suggerisce l’esperienza. Nell’Università, comunque, i cambiamenti sono più lenti, ma altrettanto decisivi. Shakespeare, come lei ricorderà, ha detto: ’E’ la pioggerella che dura a lungo; i rovesci improvvisi sono brevi’.»

«L’attuale situazione può cambiare, come anche no. Non lo sappiamo ancora.»

«Credo che lei finirà per trovare incostante l’interesse dell’opinione pubblica. Il ricordo svanisce presto.»

«Mentre invece l’Università continua la sua vita?»

«Esattamente», annuì Scuby, «ed è in questi termini che dobbiamo pensarla tutti. Spero che lei ci rifletterà sopra, professor Newton.»

«Prometto di farlo», annuì Isaac Newton.

Scuby si alzò per andarsene.

«Naturalmente, non mi aspettavo una risposta immediata.»

Dopo che la porta si fu richiusa alle spalle di Scuby, Isaac Newton continuò a fissare il vuoto pensando che Wordsworth non aveva capito niente. Le ombre della prigione stavano circondando non già il ragazzo in procinto di crescere, ma l’accademico che stava invecchiando.

38

«Secondo noi hai qualche idea sbagliata, Isaac», disse Kurt Waldheim quando lui e Frances Margaret Haroldsen entrarono nell’ufficio di Isaac Newton. Waldheim teneva in mano una tazzona di caffè bollente con la quale si scaldava le mani.

«Il freddo umido che avete qui a Cambridge è peggio, penso, che sulla vetta dell’Everest», disse.

«Quali sarebbero queste idee sbagliate?» chiese Isaac Newton.

«Questa rotazione alla cieca nello spazio», disse Kurt Waldheim. «Nella dotta conferenza che ci hai tenuto l’altra sera, hai detto che le comete ruotano alla cieca. Hai detto che erano disorientate. Ma perché non ci dovrebbero essere dei sensori sulla superficie di una cometa? Sensori ovunque sulla superficie di ogni cometa, simili a occhi, a migliaia, a milioni di occhi. Eh, Isaac? Che ne dici di questa formidabile idea?» concluse Waldheim con il solito sorriso leggermente canzonatorio.

«Le comete si muovono in orbite che le portano molto lontane dal Sole. Effettivamente trascorrono la massima parte della loro esistenza molto lontano dal Sole, tanto lontano che la temperatura sulla loro superficie non può essere molto superiore allo zero assoluto. Ora non vedo come degli occhi possano esercitare bene la loro funzione in prossimità dello zero assoluto», rispose Isaac Newton.

«Non occhi biologici, naturalmente», convenne Waldheim, «ma occhi elettronici. Perché no, Isaac?»

«Gli occhi elettronici hanno bisogno di un’industria che li costruisca. Per separare i materiali di cui sono composti, elementi come il selenio, i semiconduttori e così via.»

«Nonostante questo, perché no? Le cellule biologiche sono particolarmente abili quando si tratta di separare elementi diversi. La tua stessa tesi sui reattori nucleari biologici all’interno delle comete era basata proprio su questo. O ti ho frainteso, Isaac?» insisté Waldheim, sempre con il suo sorriso tranquillo e canzonatorio.

«Dovrebbero esserci dei conduttori elettrici o canali che colleghino la superficie gelata con gli strati interni più caldi», continuò Isaac Newton, «altrimenti le informazioni provenienti dai sensori non potrebbero essere elaborate.»

«Insisto: perché no? Sai, Isaac, cominci ad aver l’aria di uno che stia per avere la peggio in una discussione; vedo la maschera della disperazione calare sul tuo volto.»

Frances Margaret era seduta su uno dei braccioli della grande poltrona di cuoio.

«A volere essere razionali», fece lei, «la cosa migliore è quella di supporre il meglio, di supporre che tutto ciò che «potrebbe» essere possibile lo è «effettivamente», capite?»

Isaac Newton picchiò con la matita sul tavolo e poi annuì con una certa riluttanza: «Benissimo. Supponiamo allora il meglio. Supponiamo che la cometa di Halley abbia dei sensori sparsi sulla propria superficie. Questi sensori secondo te dovrebbero funzionare a fasi sintonizzate, immagino?»

«Perché no?» convenne Kurt Waldheim.

«Così, la cometa potrebbe sintonizzare i suoi sensori…» continuò Isaac Newton. «Per funzionare come un grande telescopio», concluse Frances Margaret.

«Su tutte le lunghezze d’onda?»

«Non tutte simultaneamente, forse», ammise Waldheim, «a meno che la superficie della cometa non sia suddivisa in un certo numero di telescopi, alcuni per le onde corte e altri per le onde più lunghe.»

«Provvisti di dispositivi per trasmettere e ricevere?»

«Ripeto: perché no? Che cosa c’è, Isaac?» chiese Waldheim.

«Oh, solo il barlume di un’idea.»

«Sarebbe lecito chiedere in che cosa consiste l’idea?»

«No, non lo sarebbe. Si tratta di un’idea che a qualcuno non piacerebbe molto.»

«E’ meglio per noi non conoscerla?»

«Come se fossimo bambini piccoli?» interloquì Frances Haroldsen.

«Molto meglio», annuì Isaac Newton. «Occhio non vede, cuore non duole.»

«Grazie», fece lei con una smorfia, spostandosi sul bracciolo della poltrona.

«Per farla breve», proseguì Isaac Newton, «la cometa può ricevere o trasmettere un fascio di segnali. In tal modo può formarsi un’immagine del mondo esterno.»

«Il cielo notturno», convenne Frances Margaret. «E un cielo sereno, per giunta, senza nubi.»

«Anche se la cometa sta rotando intorno al proprio asse.»

«Sì, anche se sta rotando intorno al proprio asse. Anche se la rotazione richiede tre o quattro ore. La situazione non sarebbe molto diversa dalla nostra, qui.»

«Tenendo però presente», sottolineò Kurt Waldheim alzando la mano, «che in presenza di vari dispositivi equivalenti a telescopi ve ne potrebbe essere sempre uno sul versante opposto a quello esposto al Sole.»

«Un vero e proprio mostro con tante teste come l’idra, ecco l’idea che tenti di propinarmi, Kurt. Occhi rivolti in tutte le direzioni.»

«Una bella situazione, non ti pare?»

Isaac Newton parve assorto nei propri pensieri. Il silenzio scese su tutt’e tre. Kurt Waldheim si avvicinò a una lavagna appesa a una delle pareti dell’ufficio e cominciò a fare dei calcoli con una grafia minuta e precisa mentre Frances Haroldsen cambiava ancora una volta posizione sul bracciolo della poltrona di cuoio nero.

Dopo una lunga pausa, Isaac Newton si alzò dalla scrivania, si avvicinò a una finestra, si volse e disse con una voce che sembrava venire da lontano: «Capisco che la cometa potrebbe decidere come puntare questi telescopi se stesse guardando nello spazio. Getterebbe lo sguardo verso le cose interessanti, così come facciamo noi. Ma come potrebbe prendere la decisione di puntare le sue trasmissioni?»

«Beh, se riesce a vedere la Terra, che difficoltà ci dovrebbe essere?» replicò Frances Margaret.

«Il punto al quale vuole arrivare Isaac, e sento già arrivare la domanda», cominciò Kurt Waldheim con il suo sorriso tranquillo, voltando la schiena alla lavagna, «è quello di stabilire come una cometa potrebbe essere consapevole che la sua trasmissione è indirizzata a un’altra cometa.»

«Proprio così!» esclamò Isaac Newton. «Le comete per lo più si trattengono nei recessi più lontani del sistema solare dove sono effettivamente invisibili.»

«Dal punto di vista ottico, forse, ma come la mettiamo con i radiotelescopi?» chiese Frances Margaret.

«Se una cometa sapesse dove se ne trova un’altra, i due corpi celesti potrebbero comunicare via radio, naturalmente. Ma non sanno e non possono», rispose Isaac Newton. «Se ci fosse solo un centinaio di comete vedrei per loro la possibilità di scoprire le reciproche posizioni: trasmettendo nella direzione del Sole potrebbero trovare la cometa di Halley, per esempio. In tal caso, la cometa di Halley saprebbe dove si trova ognuna delle altre e potrebbe a sua volta informarle.»

«In tal caso sarebbe necessario determinare sia le distanze che le direzioni», fece rilevare Kurt Waldheim.

«D’accordo. Tuttavia, la cosa sarebbe probabilmente fattibile, purché si trattasse solo di poche comete. La cometa di Halley è una cometa condannata che sta evaporando senza sosta nello spazio. Essa potrebbe essere in grado di scoprire le posizioni di una manciata di altre comete, ma sarebbe solo una goccia in un oceano se si pensa che esistono miliardi di comete.»

«Che cosa stai cercando in tutta questa confusione, Isaac?»

«Immaginavo ogni cometa come una cellula appartenente a un cervello gigantesco. Anche una sola cometa è probabilmente un cervello gigantesco secondo i nostri parametri, ma immagina un cervello con centinaia di miliardi di parti separate, ognuna delle quali compone un’intera cometa. In questo momento, però, si tratta di un cervello con tutte le cellule in disordine, incapaci di comunicare reciprocamente. Un cervello gigantesco ridotto, potremmo dire, alle condizioni di un vegetale.»

«Continua», lo incoraggiò Frances Haroldsen quando Isaac Newton esitò per un attimo.

«Sin da quando abbiamo cominciato a occuparci di questa faccenda, provo un senso di ansia, come se ci fosse da fare qualcosa di estremamente importante. Penso che per un certo verso tutti abbiamo la stessa sensazione. Non a proposito delle comete, ma in genere: ci deve pure essere un qualche scopo.»

«Nella vita umana?»

«Sì, nella vita umana. La gente ha avuto questa sensazione sin dai primordi. Ecco perché ha costruito le chiese, perché credeva istintivamente in un rapporto tra se stessa e un misterioso scopo connesso in un modo o nell’altro con il cielo… connesso con il mondo extraterrestre.»

«Qui siamo in piena mistica, Isaac. Non è qualcosa che possiamo calcolare.»

«E’ proprio qui che sbagli, Kurt. Supponi che noi esseri umani si sia preprogrammati per perseguire uno scopo. Questo scopo, se debitamente identificato, non è per niente mistico. Lo scopo è quello di costruire una sorta di centrale telefonica cosmica, un centro nervoso capace di destare un cervello veramente gigantesco dalla sua attuale condizione di vegetale per trasformarlo in un fattore dominante nella nostra galassia. Forse persino un fattore dominante nell’intero universo.»

«Tutte belle parole, Isaac, ma come dobbiamo fare i calcoli?»

«Facciamo i calcoli per vedere se la cosa è possibile.»

«Benissimo, facciamo i calcoli per vedere se la cosa è possibile.»

Kurt Waldheim cancellò lentamente e con cura i simboli che aveva tracciato sulla lavagna in precedenza. Poi si rivolse ad Isaac Newton con un’espressione seria sul volto.

«Allora?»

«La prima cosa da decidere è il numero dei telescopi di cui avremmo bisogno per la nostra centrale telefonica cosmica. Supponi che le comete siano in tutto un centinaio di miliardi. Supponi anche che ogni telescopio possa provvedere canali sufficienti per… diciamo mille comete. In tal caso avremmo bisogno di un centinaio di milioni di telescopi.»

«Sono tanti, Isaac!»

«Me ne rendo conto. Ma si tratta solo di un giudizio valutativo, non di un calcolo. Cominciamo a stimare lo spazio di cui avremmo bisogno. Diciamo un chilometro quadrato per ogni telescopio, uno spazio sicuramente più che sufficiente. Così, il fabbisogno totale di spazio ammonterebbe a un centinaio di milioni di chilometri quadrati. Qual è il rapporto con la superficie della Terra?»

«Di tutta la Terra?»

«Sì, di tutta la Terra. Se abbiamo bisogno di uno spazio maggiore della superficie della Terra, l’idea è irrealizzabile. In caso contrario è realizzabile.»

Kurt Waldheim fece alcuni brevi calcoli e disse: «La Terra ha una superficie complessiva di circa cinquecento milioni di chilometri quadrati, di cui due terzi coperti dagli oceani. Di conseguenza, la superficie asciutta disponibile ammonta a qualcosa di meno di duecento milioni di chilometri quadrati. La tua idea resiste, Isaac, ma appena appena».

«Resiste. E’ tutto quello che ci occorre sapere per il momento. Inoltre sono stato molto cauto nel calcolare la superficie necessaria per ogni telescopio.»

«E quanto verrebbe a costare? Sicuramente somme incredibili», intervenne Frances Margaret.

«Hai ragione. Vediamo i costi. Quanto per ogni telescopio?»

«Beh, non ci vorrebbe del materiale di scarto, a buon mercato. Il costo attuale ammonterebbe a cento milioni di dollari al pezzo», continuò Frances Margaret.

«Questo sarebbe il costo se ordinassimo i telescopi uno o due alla volta. Ordinandoli in massa, con tutti i perfezionamenti tecnologici raggiungibili durante lo sviluppo del progetto, il costo dovrebbe scendere parecchio. Di dieci milioni di dollari al pezzo», stabilì Isaac Newton.

Kurt Waldheim scrisse immediatamente una cifra — $ 1.000.000.000.000.000 — sulla lavagna e commentò con il solito sorriso canzonatorio: «Sei abituato a ragionare in grande, Isaac».

Al che, Isaac Newton rispose: «Mille bilioni corrispondono al reddito annuo di tutto il mondo moltiplicato per cento. Ma noi non ci occupiamo di un solo anno. Ciò che importa è che gli esseri umani dovrebbero costruire la centrale telefonica completa non in uno dei «nostri» anni, ma nei periodi orbitali delle stesse comete che arrivano a circa centomila anni terrestri. Così saremmo nel giusto affermando che si tratta di un progetto per molti millenni, non per un secolo o un decennio. Così non verrebbe a costare che una piccola percentuale del giro di affari economico umano. Il che sarebbe perfetto perché darebbe una linea direttrice a tutta l’attività economica umana».

«Questo è molto strano», disse Frances Margaret pensierosa.

«Che cos’è molto strano?»

«Beh, se prendi in esame l’economia, si presenta come una nave senza timone: ingovernabile, con ogni sorta di gente che si precipita ad afferrare la sbarra — intendo gli uomini politici, gli esperti di economia e gli indovini in genere — , eppure, come un albero della cuccagna, nessuno sembra capace di afferrarla.»

Isaac Newton annuiva mentre nuove riflessioni si affacciavano alla sua mente in rapida successione.

«Sì», disse infine. «Combacia tutto, e in modo quasi inquietante, non vi pare? Se il progetto fosse di dimensioni più ridotte non concluderebbe molto. Ma in questo caso saremmo in presenza di una direttiva stabile…»

«Con molti incentivi per l’elettronica», convenne Kurt Waldheim.

«E un lavoro sicuro e motivante per molte persone.»

«Ma temo che non sia realizzabile», disse Frances Margaret con rammarico.

«Perché non dovrebbe essere realizzabile?»

«Per motivi politici. Non sarebbe possibile impiegare la gente nella realizzazione di un così gigantesco progetto ed essere contemporaneamente alle prese con un conflitto tra le superpotenze. Non funzionerebbe dal punto di vista economico.»

Seguì un lungo silenzio, rotto alla fine da Isaac Newton.

«Un po’ alla volta, tutto si chiarisce», cominciò. «Gli uomini devono scegliere. Possono farsi reciprocamente la guerra in un confronto tra superpotenze, una guerra che li porterà probabilmente al disastro e all’estinzione per lasciare il sistema solare trasformato in un perpetuo vegetale, oppure possono sollevare l’importanza del nostro sistema a un livello che è difficile persino immaginare.»

Kurt Waldheim non si lasciò sedurre da queste riflessioni sentimentali. «Il particolare curioso», disse, «è che le proporzioni economiche finiscono per assomigliare a quelle dei faraoni al tempo in cui si costruirono le piramidi, che durarono anch’esse per un paio di millenni. In proporzione alla nostra tecnologia, è la stessa cosa.»

«Ed è la stessa cosa dei bilanci militari sulla Terra», soggiunse Frances Margaret. «Lo stesso effetto determinante sulla gente in genere; lo stesso come la costruzione di Stonehenge in tempi remoti, immagino. Ma come realizzare una cosa del genere? La gente semplicemente non ci starebbe. E’ già stato abbastanza difficile per noi ottenere un piccolo satellite.»

«C’è una grande differenza», ribatté Isaac Newton. «Prima lavoravamo alla cieca, senza sapere che cosa stavamo cercando.»

«E ora che lo sappiamo…?» chiese Frances Margaret.

«… o crediamo di saperlo», soggiunse Kurt Waldheim.

«Dobbiamo farlo», rispose Isaac Newton dando la risposta più semplice possibile.

«Proprio così! Dobbiamo farlo. Cambiare tutto!»

«Beh, che altro possiamo fare se non ricorrere a qualche piccolo espediente tattico senza perdere altro tempo nel tentativo di convincere un paio di miscredenti come voi due?» concluse Isaac Newton.

«E che cosa sarebbero questi piccoli espedienti tattici?» volle sapere Kurt Waldheim; ma qualsiasi risposta Isaac Newton avesse in mente venne impedita dal telefono.

Dopo aver ascoltato per alcuni istanti, Isaac Newton depose il ricevitore e disse: «Torniamo alla realtà. Era l’ufficio del Primo Ministro. Hanno deciso di indire le elezioni».

39

Il piacevole crepitio di un ceppo che ardeva nel grande caminetto accompagnò Isaac Newton mentre si calava in una poltrona con un bicchiere di whisky e soda in mano. Era arrivato in macchina da Cambridge alla tenuta di Godfrey Wendover presso Midhurst nel Sussex.

«Mi dispiace di averla dirottata dal suo itinerario elettorale», disse.

«Per essere sincero, non sono proprio infelice per essere stato dirottato. Ci aspetta un’altra settimana di tali fatiche, e gli ultimi giorni prima delle elezioni sono una specie di incubo. Esiste sempre la possibilità di commettere qualche orrenda gaffe che poi non si riesce a far dimenticare alla gente prima del voto», rispose il Cancelliere dello Scacchiere.

«Credevo invece che tutti avessero già deciso come votare, per cui non importa granché, durante l’ultima settimana, che cosa dice un uomo politico o l’altro.»

«In genere questo è vero. Ma alla vigilia del voto c’è sempre un’ultima piccola percentuale di votanti ancora indecisi. Piccola percentuale che può rappresentare una grande differenza, capace di spostare il risultato. Nei tempi passati consideravamo le elezioni come un tutto inscindibile, e quindi una faccenda abbastanza riposante. Ora, invece, si parla solo dei piccoli scarti di voti, nel qual caso possono bastarne poche centinaia per alterare il risultato.»

«Beh, Cancelliere, non voglio che lei perda quelle ultime centinaia di voti per colpa mia. Per questo sono venuto qui.»

«Com’è possibile? La cometa di Halley rappresenta un grosso guadagno per noi. In realtà mi dispiace di averne approfittato. Ma con la cometa che brilla a quel modo e tutto il chiasso dei mass media, la tentazione è stata troppo forte.»

«La carne è debole e non riesce a resistere, immagino.»

«Non la carne del Primo Ministro, comunque. Tanto più che abbiamo davanti solo un altro anno per restare al potere.»

«Il fatto è che mi ritrovo in una situazione scottante e volevo che lei ne fosse al corrente», fece Isaac Newton benché l’espressione della sua faccia fosse più aggressiva che contrita.

«Pensavo che lei fosse abbastanza abituato alle situazioni scottanti», osservò il Cancelliere sistemandosi in una poltrona situata al lato opposto del caminetto.

«Voglio staccarmi da questa faccenda del satellite», cominciò Isaac Newton. «Mi sento a disagio con i satelliti.»

«Perché?»

«Perché dipendiamo sempre dagli altri: altra gente effettua i lanci e determina persino lo spazio per il carico utile.»

«Non sarà per caso la sua vecchia bega con il CERC che rispunta?»

«Sì, fino a un certo punto. Il CERC è il canale principale del governo per quanto riguarda i satelliti nello spazio. Così, inevitabilmente, l’equilibrio si sposterà in quella direzione allontanandosi dall’Università per finire nelle grinfie della burocrazia statale.»

«Mi compianga perché io mi trovo sempre nelle sue grinfie», osservò il Cancelliere con aria mesta. «Ma com’è possibile evitare i satelliti, se mi è concesso chiederlo?»

«Come ricorderà, avevamo bisogno di un satellite…»

«… perché la cometa di Halley trasmetteva con onde molto lunghe. Sì, ricordo. Lo porto scritto nel cervello. In questa maniera è stata evitata qualsiasi interferenza radio diretta proveniente dalla Terra. Come vede ho imparato la lezione a fondo.»

«Benissimo», annuì Isaac Newton. «Il fatto è che l’interferenza proveniente dalla Terra può essere evitata in un altro modo.»

«Perché, allora, ci siamo dati tanta pena?»

«Ce l’hanno imposta le comete stesse, all’inizio. Ma adesso la situazione è diversa perché abbiamo stabilito un sistema di comunicazioni a doppio binario. Ecco, vede, Cancelliere, contemporaneamente alla trasmissione a onda lunga ne ho iniziato un’altra in parallelo a lunghezza d’onda più corta. Il segnale trasmesso con l’onda corta presentava il vantaggio di raggiungere direttamente la cometa di Halley invece di essere ritrasmesso dal satellite.»

«E lei ha potuto trasmettere questo segnale a onde corte dalla superficie terrestre?»

«Sì, è stato facile. Abbiamo effettuato la trasmissione direttamente dal Cavendish.»

«E come se l’è cavata con le interferenze dovute ad altre trasmissioni effettuate da terra?»

«Mi sono servito di una lunghezza d’onda proibita, una delle lunghezze d’onda riservate ai radioastronomi, che nessuno dovrebbe usare per le proprie trasmissioni. Lo vieta un trattato internazionale.»

«Tra i governi?»

«Sì, le trasmissioni su quelle lunghezze d’onda sono vietate non solo al traffico commerciale, ma persino ai militari. Alle nazioni del Patto di Varsavia come alla NATO nonché, naturalmente, ai governi stessi.»

«In tal caso sarebbe meglio che lei non lo facesse più!»

«Troppo tardi, Cancelliere. Ormai il guaio è irreparabile.»

Godfrey Wendover si spostò sulla poltrona e bevve un sorso di gin and tonic.

«Come può essere già irreparabile?»

«Perché la cometa di Halley si è impadronita immediatamente della trasmissione con l’onda più corta. La cometa di Halley deve aver interpretato il cambiamento della lunghezza d’onda come un invito, come una sorta di garanzia che poteva servirsi di quel canale evitando problemi dovuti a interferenze.»

«Che secondo lei non ci sono?»

«Esattamente.»

«Qual è allora il problema?»

«Il problema consiste nel fatto che la cometa di Halley sta ora trasmettendo con l’onda più corta. I segnali penetrano attraverso la ionosfera e arrivano a terra, inondando i radioastronomi. Questi hanno perso il loro canale.»

«E ne sono piuttosto irritati, immagino?»

«Dire che sono irritati è poco, Cancelliere. Mi ero atteso qualche protesta, naturalmente, ma non la baraonda che stanno inscenando. Lo fanno tramite l’ICSU»

«L’ICSU?»

«L’International Council of Scientific Unions.»

«Chi lo rappresenta nel nostro paese?»

«La Royal Society.»

«Capisco», fece il Cancelliere, assorto. «Che cosa sta succedendo esattamente?»

«Mi aspettavo che le acque avrebbero cominciato a muoversi nei prossimi due o tre mesi e invece si sono mosse subito. Il Comitato per le Informazioni Scientifiche della Royal Society si riunisce domani. L’organismo come tale non è un comitato particolarmente formidabile, ma saranno presenti i rappresentanti stranieri dell’ICSU, come pure i massimi dirigenti della Royal Society. Così, il comitato è stato gonfiato ad arte fino a superare di gran lunga la sua composizione numerica normale. E saranno presenti naturalmente anche i radioastronomi che batteranno i pugni sul tavolo con tutta la forza di cui sono capaci.»

«Hanno invitato anche lei?»

«Sarebbe più corretto dire che mi hanno ordinato di presentarmi.»

«Non vedo che cosa potrei fare.»

«Non mi aspettavo un intervento dal governo. Quello che piuttosto desta i miei sospetti è la fretta. Per quanto riguarda i radioastronomi, il danno è ormai fatto. Non può essere riparato se non assegnando loro una nuova lunghezza d’onda, il che sarà fatto senza dubbio, anche se la procedura dell’assegnazione richiederà un po’ di tempo.»

«Non avrebbe potuto chiedere lei stesso l’assegnazione di una lunghezza d’onda? Sarebbe stato meglio passare attraverso le abituali istanze internazionali. Con un forte appoggio del governo immagino che la richiesta sarebbe stata accolta», osservò il Cancelliere.

«I radioastronomi hanno dovuto aspettare anni perché la loro richiesta venisse accolta nonostante le pressioni esercitate dagli scienziati di tutti i paesi, compresi quelli dell’Est. Dubito, Cancelliere, che si sarebbero potuti persuadere i russi e gli americani a mettere da parte i loro interessi commerciali e militari. Non a breve termine, comunque, non prima che la cometa di Halley si fosse allontanata da noi. Così, nel momento in cui saremmo giunti in possesso di una lunghezza d’onda esente da interferenze, l’occasione sarebbe già venuta meno.»

«Non avrei mai pensato che il comportamento della Royal Society potesse essere determinato da particolari motivazioni politiche.»

«Non il comportamento di tutta la Royal Society, questo no», convenne Isaac Newton. «Un sondaggio tra i membri rivelerebbe la presenza di simpatizzanti di tutti i principali partiti. Ma in tempo di elezioni politiche, la frazione che appoggia i vostri avversari…»

«… potrebbe aver dato una spintarella per montare questa faccenda…»

«E’ quel che sospetto. Il governo, dopo tutto, riceve vantaggi dal fatto di appoggiare il Progetto Halley. Così, perché i vostri avversari non dovrebbero approfittare dell’occasione per mettervi i bastoni tra le ruote e indebolire la vostra posizione?»

«Non esiste alcuna possibilità che la riunione di domani abbia luogo a un livello riservato?»

«L’atteggiamento ufficiale della società sarà senza dubbio tenuto a livello riservato, ma con tanta gente presente alla riunione, con tanti ospiti, le occasioni favorevoli a una fuga di notizie saranno molte», disse Isaac Newton al Cancelliere.

«Capisco.»

«Che cosa mi consiglia di fare, Cancelliere? Tanto per cominciare: devo presentarmi alla riunione?»

«Lei è membro della Royal Society?»

«Sì.»

«In tal caso, deve andarci. Ma dica il meno possibile. Così vedrà un po’ che cosa si prova a essere attaccati in pieno Parlamento.»

«Senza l’appoggio del mio partito?»

«I ministri non vengono sempre appoggiati dai banchi della maggioranza. E allora la situazione è doppiamente difficile, glielo posso dire per esperienza.»

«Non mi sarà facile dire il meno possibile. In realtà significherebbe non dire assolutamente nulla.»

«Ovviamente lei deve difendere la sua posizione, ma lo faccia nella maniera più breve e più chiara possibile. E insista su ciò che ha detto. Non si lasci fuorviare. Continui a ripetere, restando solido come una roccia. Una lunga esperienza m’insegna che la migliore tattica è quella di sgusciare tra le maglie e non scomporsi. Non perda le staffe, sarebbe l’atteggiamento peggiore. Dopo tutto, lei ha questa lunghezza d’onda e loro l’hanno persa. Provi a rammaricarsi con loro per questo.»

«L’idea che lei possa perdere i pochi voti decisivi per colpa mia non mi va proprio giù.»

«Terremo conto di questa possibilità. Cerchi di non offrire alla stampa appigli ai quali aggrapparsi. Tenga presente che i giornalisti cercheranno di voltare in peggio quel che dice; noi ci troviamo sempre alle prese con questa difficoltà. La miglior linea di difesa è mostrare nobili sentimenti e tenere alta la bandiera, naturalmente. Se le riesce di essere untuoso, elogi tutti perché si interessano della questione, ma continui ad accennare a mete più elevate e roba del genere. Il che, immagino, non è troppo lontano dalla verità», osservò il Cancelliere mentre metteva altra legna sul fuoco.

40

Isaac Newton infilò l’automobile in uno spazio a parchimetri davanti al palazzo della Royal Society nella Carlton House Terrace. Frances Haroldsen mise alcune monete nel parchimetro, dicendo: «Massimo due ore. Basteranno?»

«Può darsi, ma nessuno può sapere quanto durerà questa faccenda.»

«Allora sarebbe meglio lasciare la macchina in un posto qualsiasi, accanto al marciapiede.»

«Con tutto questo traffico?»

«Sì, tanto per bloccare un po’ la circolazione. Lasci aperto il cofano, così tutti penseranno che ci sia un guasto. Quando ritornerai, dovrai fingere di darti da fare con il motore. Meglio ancora se ti metti una tuta e hai le mani sporche di olio.»

Era proprio da lei parlare di tute e mani sporche di olio in una delle rare occasioni in cui indossava uno dei suoi abiti più eleganti invece dei soliti pantaloni e camicetta.

Il portiere di servizio appena dentro l’ingresso del palazzo alzò lo sguardo quando entrarono e annunciò senza che i nuovi venuti gli avessero chiesto qualcosa: «Comitato Informazioni Scientifiche. Nella sala del consiglio, signore».

Isaac Newton porse al portiere una banconota.

«Potrebbe mettere delle monete nel parchimetro? La riunione durerà sicuramente più a lungo.»

«E’ probabile, signore. Promette di essere un vero convegno, a quanto vedo.»

I tacchi delle scarpe di Frances Margaret picchiettarono sonoramente sul pavimento a piastrelle mentre si dirigevano verso la scalinata che portava al primo piano. Ai piedi della scalinata, la ragazza cinse con il braccio la spalla di Isaac Newton, lo baciò, e disse: «Ne avrai bisogno. Ci vediamo a colazione. E ricordati: la migliore tattica è l’attacco. Il guaio è che tu sei più educato di me, ed è per questo che sei arrivato più lontano nella vita».

Un rumore di voci fece da guida ad Isaac Newton in uno dei corridoi fino alla sala del consiglio quasi piena. Poiché il comitato, assieme al suo sottocomitato ICSU, non aveva più di quindici membri, doveva esserci un notevole numero di invitati. Molti dei posti lungo il grande tavolo del consiglio erano stati «occupati» con il sistema della cartella lasciata sul tavolo. Poi i rispettivi «proprietari» se n’erano andati in un angolo dove veniva servito il caffè. Adesso se ne stavano lì, chiacchierando, con la tazzina in mano. L’improvvisa sensazione di gelo che si diffuse nell’atmosfera apparentemente distesa della sala fece capire ad Isaac Newton che avrebbe incontrato alcune difficoltà. Dopo aver scelto una delle sedie libere andò a sua volta a bere una tazza di caffè. Un attimo più tardi entrò il presidente della Royal Society, Sir Alistair Airey. Il presidente indirizzò cenni del capo a qualche convenuto, strinse varie mani e alla fine si avvicinò al posto in cui era seduto Isaac Newton.

«Mi hanno chiesto di assumere la presidenza, dati i tanti ospiti venuti dall’estero.»

«Più che giusto», convenne Isaac Newton.

«Abbiamo con noi Artimovic dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, O’Donovan da Washington e Langevin da Parigi», continuò Airey.

«Membri dell’ICSU?»

«Esattamente. I tedeschi non hanno mandato il loro rappresentante. Forse perché sono coinvolti nel suo satellite. Vuol conoscerli?»

«Se pensa che questo possa indurli a dire qualcosa di diverso da quello che sono venuti a dire qui. Altrimenti la faccenda potrebbe essere un po’ imbarazzante», ribatté Isaac Newton.

«In tal caso sarà meglio che non ne facciamo niente.»

Poco dopo la seduta venne dichiarata aperta e occorse breve tempo perché venissero letti i verbali della riunione precedente. Senza tergiversare, il comitato affrontò quindi l’ordine del giorno consistente nella voce «Trasmissioni sulla frequenza riservata di 408 megahertz». Il presidente spiegò che la frequenza di 408 megahertz, riservata con un trattato internazionale ai radioastronomi, era adesso inquinata dalle interferenze dovute alla cometa di Halley, e che la riunione era stata convocata su richiesta dell’ICSU per discutere la situazione. La riunione aveva luogo a Londra in parte a causa degli interessi britannici nel campo della radioastronomia e in parte perché le prime trasmissioni dirette alla cometa di Halley e da essa ricevute erano state ispirate dalla Gran Bretagna, specialmente a opera del Comitato per il Progetto Halley e dell’Università di Cambridge. Il professor Newton era stato invitato a partecipare alla riunione in quanto appartenente sia all’università sia al comitato.

Quando il presidente ebbe concluso il suo discorsetto introduttivo, un uomo smilzo dai capelli scuri, seduto alla sua destra, alzò di colpo il braccio.

«Sì, professor Trugood?»

«Spero, presidente, che non perderemo troppo tempo con i convenevoli. Alcuni dei presenti sono venuti da molto lontano a causa dell’estrema gravità della situazione, per cui penso che dovremo occuparci immediatamente della questione di fondo.»

Isaac Newton poté rilevare dall’annuario della Royal Society posato sul tavolo che Trugood apparteneva all’istituto di radioastronomia dell’Università di Winchester. Nessun aiuto su quel fronte, decise.

«Se mi è concesso prendere subito di petto la questione, signor presidente», si affrettò a dire un uomo dai capelli grigi che, a giudicare dall’accento, doveva essere O’Donovan dell’Accademia degli Stati Uniti, evidentemente in procinto di scatenare un attacco premeditato insieme a Trugood, «vorrei chiedere al professor Newton se trasmissioni sulla frequenza di 408 megahertz sono state effettuate da Cambridge.»

«Si tratta di una domanda introduttiva, dottor O’Donovan, di carattere piuttosto personale, ma anche di primaria importanza nell’ambito della materia all’ordine del giorno, devo ammetterlo. Le dispiacerebbe rispondere, professor Newton?» chiese Sir Alistair Airey.

«Su richiesta della presidenza, risponderò, signore, benché debba manifestare la mia obiezione al fatto che il dottor O’Donovan mi rivolge una domanda di cui deve già conoscere la risposta», rispose Isaac Newton. «A causa della grande sensibilità dei radiotelescopi dev’essere perfettamente noto che delle trasmissioni sono state effettuate da Cambridge o da una località vicinissima a Cambridge. Così, la domanda in realtà non è una domanda.»

«La prima trasmissione è stata effettuata da Cambridge?» intervenne di nuovo Trugood. «Chi è stato a iniziare le trasmissioni, lei o la cometa? Si tratta secondo lei di una domanda questa volta?»

«Sir Alistair, vorrei ricordare sia ai membri del Comitato Informazioni sia ai membri dell’ICSU che sono venuto ad assistere a questa riunione in seguito a un invito. Sono venuto alla riunione per fare una cortesia…»

Isaac Newton attese che il mormorio intorno al tavolo cessasse e poi proseguì:

«… per fare una cortesia. Non sono venuto per assoggettarmi a bordate di domande e osservazioni astiose. Se lo si desidera, sono pronto a descrivere ciò che è avvenuto a Cambridge. Oltre, non sono disposto a spingermi».

«Eppure lei è un membro di questa società, professor Newton, e come tale è responsabile degli impegni che la società prende. Tra questi impegni è particolarmente importante la nostra appartenenza all’ICSU», disse il presidente in tono risoluto.

«Me ne rendo conto, Sir Alistair, ed è proprio per questo che sono venuto qui stamattina e che sono disposto a fare una comunicazione ai convenuti», rispose Isaac Newton con tutta la calma di cui fu capace.

«Benissimo, professor Newton. Il comitato ascolterà la sua comunicazione.»

«Senza dubbio, Sir Alistair, tutti qui si rendono conto delle circostanze nelle quali sono state stabilite le comunicazioni con la cometa di Halley», incominciò Isaac Newton. «Purtroppo, la tecnologia applicata aveva solo carattere temporaneo, in parte per la durata limitata del satellite, ma più particolarmente perché la nostra trasmissione collegante il satellite con la cometa era troppo debole per propagarsi a grandissima distanza nel sistema solare. Il contatto con la cometa sarebbe andato necessariamente perso e non avrebbe potuto essere ristabilito per altri settant’anni, a meno che non si fosse stabilito un nuovo sistema di comunicazioni.

«C’era un nuovo sistema, cioè la trasmissione dalla superficie terrestre con un’onda abbastanza corta da superare la ionosfera, purché, naturalmente, fossimo riusciti a risolvere il problema delle interferenze locali in presenza della nuova lunghezza d’onda. Una maniera per risolvere questo problema era quella di servirsi di una frequenza già esistente, esente da interferenze, cioè una delle frequenze messe a disposizione dei radioastronomi. Un’altra possibilità consisteva in una richiesta avanzata dal Comitato per il Progetto Halley tramite questa società e questo comitato per farsi assegnare una nuova frequenza esente da interferenze, una frequenza che doveva essere approvata a livello internazionale. Questa seconda soluzione sarebbe stata evidentemente preferibile se fosse stato possibile negoziarla con sufficiente rapidità. Purtroppo il passato non offre esempi di un simile accordo internazionale raggiunto entro il tempo disponibile, in questo caso solo qualche mese.

«Così sono stato costretto a fare una scelta che non è stata facile: perdere il contatto con la cometa o servirmi di una delle frequenze riservate alla radioastronomia. A mio giudizio, l’impiego della frequenza di 408 megahertz avrebbe recato il minore disturbo perché le ricerche nel campo della radioastronomia vengono compiute, di questi tempi, in buona parte con frequenze riservate a onde ancora più corte. I convenuti sanno quale è stata la mia scelta.»

«Ha fatto di proposito questa scelta?» chiese il presidente in tono grave.

«Era inevitabile», ammise Isaac Newton.

«Agirebbe nello stesso modo se dovesse ripetere la scelta?»

Isaac Newton stette a pensare per un attimo e poi disse: «Non posso rispondere che non lo farei».

Trugood non si rivolse al presidente per chiedere la parola. A voce alta esclamò: «Si è mai sentita risposta più presuntuosa? Secondo me, questa assemblea dovrebbe condannare nella maniera più severa possibile il professor Newton e il suo comportamento che a questo punto sta diventando veramente infame!»

Il presidente stava domandandosi come avrebbe potuto mitigare quest’esplosione emotiva quando colse le occhiate che una donna dai capelli grigi e l’espressione intelligente gli lanciava.

«Sì, professor Worthing?» fece.

Si trattava di Wendy Worthing, una studiosa di matematica dell’Università di Manchester, di cui Isaac Newton aveva sentito parlare.

«Sono venuta a questa riunione senza preconcetti», cominciò la donna, «pronta a esprimere un giudizio in base a ciò che avrei sentito. Purtroppo non ho sentito dal professor Newton una sola parola che riveli il minimo pentimento per aver infranto in maniera così clamorosa uno degli impegni internazionali della Royal Society. Lei, signor presidente, ha già richiamato l’attenzione del professor Newton sulle sue responsabilità come membro della Royal Society. Mossa da considerazioni analoghe, vorrei chiedere al professor Newton se si rende conto di quanto stabilito dal paragrafo ventisette a pagina uno-otto-sette del nostro statuto?»

«Io non mi esprimerei in termini così drastici, professor Worthing», la mise in guardia il presidente.

«Ma è questo il nocciolo della questione, non le pare?» insisté Wendy Worthing in tono severo, decisa a non lasciarsi sopraffare neppure dal presidente. «Nel caso il professor Newton non sia al corrente di quanto stabilito dal paragrafo menzionato, lo leggerò: ’Qualunque membro della Royal Society venga meno per oltraggio o insubordinazione a quanto stabilito dagli statuti od ordini di detta organizzazione o del consiglio, oppure diffami pubblicamente con parole, scritti o pubblicazioni la Royal Society, oppure consapevolmente, per dolo o malafede agisca a danno, detrimento o disonore dell’organismo stesso, verrà radiato dalla Royal Society’.»

«Mi sembra che il professor Worthing abbia messo proprio il dito sulla piaga», annuì vigorosamente O’Donovan. «Spero che non ci saranno obiezioni se l’Accademia che rappresento dovesse esprimersi in modo analogo.»

Seguì un lungo discorso di Artimovic, il rappresentante sovietico dell’ICSU. Benché Isaac Newton non afferrasse il senso delle parole, era facile arguire dall’espressione del viso e dai gesti di Artimovic che egli non stava esprimendo un giudizio favorevole nei confronti dell’accusato, cosa che si rivelò evidente al momento della traduzione. Come Wendy Worthing, Artimovic si aggrappava al regolamento, con un lungo discorso sugli impegni dei membri dell’ICSU nell’ambito del trattato. Fu durante la traduzione del discorso di Artimovic che i convenuti si accorsero che Isaac Newton stava picchiando con la matita sul tavolo.

«Le dispiacerebbe rispondere, professor Newton?» chiese il presidente quando la traduzione ebbe fine. La tensione aumentò durante il lungo silenzio che seguì, rotto solo dal ritmico picchiettio della matita di Isaac Newton.

«No, non mi dispiace, presidente», disse infine Isaac Newton. «Prima di tutto vorrei rispondere al professor Worthing. E vorrei risponderle esprimendo il dubbio che abbia detto la verità quando ha dichiarato di essere venuta a questa riunione senza preconcetti. Come studiosa di matematica converrà che sarebbe stato più esatto dire che è venuta qui con la mente non totalmente ottenebrata da preconcetti.

«Poi mi consenta, Sir Alistair, di esprimerle il mio profondo apprezzamento per il suo tentativo di impedire al professor Worthing la lettura del paragrafo ventisette. Così facendo, il professor Worthing ha dato l’impressione che tutte le nostre iniziative e responsabilità rientrino nell’ambito di questa organizzazione oppure, nel caso del dottor O’Donovan, nell’ambito dell’Accademia che rappresenta, come pure nel caso del dottor Artimovic. Purtroppo, la vita non è così semplice, una cosa di cui, del resto, si rendono ben conto i tesorieri di tutte le società e accademie. Non è necessario, credo, ricordare ai presenti che le massime società scientifiche esistenti nel mondo dipendono in misura considerevole dall’appoggio dei rispettivi governi. Di conseguenza, nessuna società del genere è un’isola a sé. Neppure tutta la scienza è un’isola a sé stante. Bisogna tener conto in certa misura degli interessi dei rispettivi governi e della gente in genere, e di ciò che è importante per loro. Poiché sono vissuto in questa atmosfera durante quasi tutta la mia carriera accademica, questa cosa è forse più chiara a me che non a tanti altri.

«Prima di congedarmi vorrei lasciare la riunione con quello che considero un utile suggerimento. Tutto ciò che è successo fino adesso può considerarsi solo come una serie di inconvenienti passeggeri. Ma se questa situazione dovesse arrivare a conoscenza dell’opinione pubblica in seguito a fughe di notizie provenienti da questa riunione, tutto il mondo comincerebbe a servirsi di altre frequenze riservate, e l’impulso a comunicare con la cometa di Halley su quelle frequenze diventerebbe irresistibile. Così potrebbe accadere ai radioastronomi di perdere tutte le frequenze loro riservate.»

«E di chi sarebbe la colpa?» fece Trugood quasi gridando.

«Non mia», rispose Isaac Newton alzandosi per andarsene. «Per quanto mi riguarda, nessuno sarebbe venuto a sapere mai nulla. La situazione era perfettamente sotto controllo finché non è stata sconvolta dal comitato qui presente. La colpa starà nella vostra presunzione e nel vostro tentativo di esercitare un po’ di potere.»

Frances Haroldsen, che stava aspettando da basso, gli si avvicinò producendo, come prima, un sonoro ticchettio di tacchi.

«Non ho impiegato molto tempo a fare la spesa. Com’è andata?»

«Male. Mi sono incavolato e ho detto cose terribili», rispose Isaac Newton con un sorriso di deplorazione.

«Molto bene!» ribatté Frances Margaret prendendolo sottobraccio.

«E’ stata interessante, la riunione, signore?» chiese il portiere nell’atrio con le sopracciglia inarcate per la curiosità. Ricordando la promessa di non dire nulla, Isaac Newton per tutta risposta inarcò le proprie sopracciglia. Poi, lui e Frances Margaret uscirono a braccetto sulla Carlton House Terrace.

41

L’indomani mattina, durante la prima colazione, Frances Margaret porse ad Isaac Newton un giornale. «Da’ un po’ un’occhiata.»

Il giornale era aperto a una pagina che portava il seguente titolo a caratteri cubitali:

RAGAZZA SQUILLO COINVOLGE L’ICSU IN UNO SCANDALO.

L’articolo diceva:


Alcuni membri del prestigioso Consiglio Internazionale delle Unioni Scientifiche si sono riuniti ieri a Londra. Nelle ore diurne hanno preso parte a quello che uno scienziato ha definito «la Rissa del Secolo». Ma una volta calata l’oscurità, altre idee sono entrate, sembra, nelle teste degli studiosi…


C’erano le fotografie di Trugood e del russo Artimovic, ognuno a contatto di pelle con una ragazza la quale era, con evidentissima delizia del giornale, «déshabillée» al massimo.

«Ma che diavolo succede?» esclamò Isaac Newton, sbalordito.

«Maisie sta imperversando. E’ questo il genere di cose per cui è particolarmente portata. Infilarsi in camere d’albergo e farsi fotografare. Ti costerà cinquecento sterline», fece Frances Margaret, sorridendo.

«Scusa, hai detto cinquecento sterline?»

«Precisamente.»

«Ma è roba dell’altro mondo!»

«Al contrario. E’ proprio come fanno in Russia, per cui quell’Artimovic si dev’essere sentito come a casa sua. Effettivamente, è molto onesto da parte di Maisie cedere le foto al prezzo di costo. Sono sicura che avrebbe potuto ricavarne molto di più facendone un uso diverso. Molto onesta.»

«Onesta o no, non sono disposto a pagare quelle foto», dichiarò Isaac Newton in tono brusco.

«Nemmeno per quelle di Trugood? Non saresti disposto a pagare, anche solo per fare un piacere a me?»

«No, non sarei disposto. Non t’immagini che cosa succederebbe se la cosa venisse fuori?»

«Ma va’! Un giorno non fai altro che raccontare che cosa faresti per riformare l’universo. Poi, il giorno dopo, cominci a spaventarti all’idea di quello che la gente potrebbe dire a proposito di un paio di fotografie, scattate del resto con molto buon gusto. Senza contare che diventeresti un eroe nazionale da un giorno all’altro per avergliela fatta al russo.»

«Neppure questa splendida prospettiva riesce a farmi cambiare idea.»

«Beh, se tu non vuoi pagare, dovrò trovare qualcuno che pagherà. Sono sicura che John Jocelyn Scuby pagherà. Quello sa che cosa gli conviene di più. Dopo aver capito che quella gente dell’ICSU rappresenta una minaccia per il tuo contratto, Scuby aprirà i forzieri dell’Università in un batter d’occhio.»

«E’ una situazione impossibile. Inoltre, chi controlla il forziere è il tesoriere dell’Università, non Scuby.»

«Più sono e meglio è. Potrei anche tentare con il professor Boulton. Ho sentito che ha comprato il Ragamuffin, per cui dev’essere in soldi.»

Isaac Newton indossò il cappotto con mosse decise e si accinse ad andarsene. Arrivato alla porta esclamò, rivolto a Frances Margaret: «Non pago un soldo per una cosa tanto immorale. Sono proprio deciso».

«Posso servirmi di ciò che rimane di quei franchi svizzeri che mi hai dato? Quelli che non ho speso?» chiese allora lei.

«In tal caso assicurati che passino per il conto cifrato», furono le ultime parole di Isaac Newton.


Sulla scrivania della signora Gunter c’era un pacco di manifesti sui quali stava scritto a lettere cubitali: MANGIATE I PANINI AL RAGAMUFFIN. Sotto lo slogan era raffigurato un ragazzo dalla faccia paffuta, intento ad affondare i denti in qualcosa di indefinito da cui colava una sostanza rossa.

«Non riesco a capire se è marmellata oppure ketchup», osservò la signora Gunter.

«Da dove vengono?» chiese Isaac Newton.

«Li ha portati il professor Boulton. Ha detto che gli piacerebbe vederli affissi in tutto il laboratorio.

«Ho un’idea migliore, signora Gunter. Li mandi al professor Featherstone, a Veterinaria. Probabilmente lui ha un paio di capre, animali piuttosto ghiotti di carta.»

«C’è una visita, professore. Il dottor Bristow della rivista «Nature».»

«Davvero? Chissà cosa vuole. Ha visto i giornali del mattino, signora Gunter?»

«Non ancora, professore.»

«In tal caso può contare su una gradita sorpresa.»

«Di che cosa si tratta, professore?»

«Porti pazienza fino all’intervallo per il caffè, signora Gunter. Sempre che ci si riesca ad arrivare.»

«Oh, dottor Bristow. Quale buon vento la porta?» esclamò in tono entusiastico Isaac Newton, manifestando una affabilità che in realtà non provava.

Alan Bristow si alzò dalla grande poltrona di cuoio nell’ufficio di Isaac Newton. «Beh, sono contento che lei consideri con ottimismo la situazione.»

«Non venga a dirmi che il mio collega, il professor Boulton di Geostrofica, che ha appena comprato, a quanto mi dicono, il Ragamuffin, è rimasto coinvolto in una crisi del mercato. Lei non sarebbe disposto a pubblicare questa notizia su «Nature», immagino? Ne potrebbe ricavare una bella copertina», osservò Isaac Newton, porgendo a Bristow uno dei manifesti.

«Straordinario!» osservò Bristow dopo averlo esaminato. «Questo Boulton è veramente l’ordinario di Geostrofica?»

«E’ proprio lui. Che ne direbbe di appendere questo poster nel suo ufficio? Magari incorniciato di legno scuro, mogano, accanto a un dipinto ottocentesco con cervi in una radura?»

«Suppongo che lei ieri abbia avuto difficoltà alla riunione della Royal Society», replicò Bristow, evidentemente deciso a non lasciarsi distogliere dall’obiettivo della sua visita.

«Oh, davvero?» disse di rimando Isaac Newton sorridendo amabilmente mentre prendeva posto dietro la scrivania.

«Non voglio giocare a carte coperte, per cui mi lasci dire che ieri sera sono stato a cena con Trugood. A suo giudizio lei avrebbe preso una bella batosta.»

«La pensava così? Beh, vediamo un po’ come la pensa questa mattina», rispose Isaac Newton sollevando il ricevitore del telefono. «Signora Gunter, potrebbe chiamarmi per piacere l’istituto di radioastronomia dell’Università di Manchester?»

Isaac Newton rimase con l’orecchio incollato al ricevitore per un paio di minuti, tendendolo poi ad Alan Bristow.

«La situazione sembra caotica. Sarà meglio che se ne occupi lei.»

Invece di prestare orecchio ai monosillabi e alle domande di Bristow, Isaac Newton si mise a esaminare uno dei manifesti di Boulton con un’attenzione certo non giustificata dalle qualità artistiche dell’immagine. Finalmente, Alan Bristow depose il ricevitore.

«Sono d’accordo. La situazione sembra un po’ strana. Pare che Trugood non ci sia.»

«Neppure per il direttore di «Nature»! Davvero insolito, non le pare? Se si pensa agli sforzi che noi professori universitari facciamo per riuscirle simpatici, Bristow!»

«Spesso vorrei che le cose non stessero così.»

«Ah, ma il sistema dei graziosi sussidi che riceviamo dai consigli di ricerca ci costringe ad assumere questo atteggiamento, sa?»

«La sua lite con il CERC è ormai nota a tutti, e a volte mi chiedo dove la porterà.»

«Me lo chiedo anch’io.»

«E adesso se la prende con un’organizzazione mondiale di società scientifiche. Certo non deve sentirsi a suo agio, specialmente con tutti i radioastronomi alle calcagna.»

«Non ho provato alcun particolare disagio, ma forse mi sfugge una cosa importante. Spero che lei riesca a illuminarmi. Mi dica una cosa, Bristow. Secondo lei all’uomo comune interessa molto la radioastronomia? Almeno quanto lo interessa il fatto che la cometa di Halley è viva, per esempio?»

«L’uomo comune è senza dubbio più interessato alla cometa di Halley. Ma questo è poco importante, le pare? Ciò che conta è quello che pensa la Royal Society, ciò che pensa l’ICSU.»

«E ciò che pensa la rivista «Nature»?»

«Sì, fino a un certo punto anche. E ciò che pensano i consigli di ricerche. Lei si compiace di ignorare i consigli di ricerche, ma non dovrebbe farlo.»

«Senta, Bristow, lei è un tipo pieno di contraddizioni. Solo un paio di settimane fa mi ha criticato dicendo che ero troppo autocratico, che mi mancava il senso della democrazia. Eppure adesso lei sta facendo proprio quello che prima criticava, dicendo che l’uomo comune, pur pagando le tasse, non decide e non dovrebbe decidere come i soldi così raccolti devono essere spesi.»

«Se ho detto che la scienza è democratica, ho naturalmente sbagliato. La scienza è un’oligarchia. La sua colpa, professore, se posso dir così, consiste nel fatto che lei è spiritualmente un monarchico.»

«Capisco. Lasciamo che l’uomo comune affronti il freddo di una mattinata invernale per guadagnare i soldi che noi scienziati spendiamo. Poi mettiamoci tutti seduti intorno a un tavolo per dividerci con mutuo consenso le spoglie, alla faccia della democrazia. Parti uguali per tutti con la tessera del sindacato degli scienziati. Vuol sapere una cosa, Bristow? Per quanto so della storia della mia famiglia, questa ha sempre coltivato la terra, affrontando appunto il gelo delle mattinate invernali, il gelo di ogni mattinata invernale. Perciò non condivido affatto i suoi punti di vista. Tutto quel che mi viene affidato, si tratti di una borsa di studio come quand’ero giovane, oppure di un aggeggio scientifico o, adesso, di tutto questo laboratorio, lo considero qualcosa assegnatomi dalla fiducia della gente. La gente confida che farò ciò che trovo giusto, senza curarmi di ciò che possano dire i suoi amici provvisti di tessere sindacali. Lei mi ha fatto capire chiaramente che non approva il mio modo di agire, ed è un suo diritto. Ma lei non ha il diritto di fare il doppio gioco. Quello di appoggiare chi ha la tessera in tasca e nello stesso tempo venire da me in ufficio alla ricerca di briciole di informazioni. Mi sono spiegato?»

«Si è spiegato molto bene. Ed è stato poco saggio nel farlo, direi», rispose Bristow con un accento di astio nella voce mentre varcava la porta.

Isaac Newton prese in mano la matita, continuò a picchiare sulla scrivania per un pezzo e infine disse, rivolto a se stesso: «Una cosa simile sarebbe difficilmente accaduta ai tempi di Rutherford». Poi soggiunse: «Il che dimostra solo quanto democratici siamo diventati tutti».

42

Il rettore del Trinity College lanciò un urlo mentre toglieva di scatto la mano dalla caffettiera d’argento bollente che stava al solito posto sulla credenza del grande salone dell’alloggio del rettore.

«E’ l’idea più assurda che io abbia mai sentito», disse il rettore dirigendosi con passo strascicato verso il punto dove Isaac Newton era seduto. «Sarà meglio che versi lei il caffè, Brutte Notizie. Io sono rimasto senza dita a furia di scottarmele. Ne ho abbastanza di questa maledetta caffettiera.»

Isaac Newton si diresse a sua volta verso la credenza e versò il caffè servendosi di una presina imbottita. Quando ritornò, disse: «C’è qualcosa che non va».

«Ci sono tante cose che non vanno. Ma a che cosa sta pensando di preciso, Brutte Notizie?»

«Dovrebbe procurarsi un servizio di tazzine da caffè d’argento, rettore.»

«Oh, no! Non sopporto l’idea di tazzine da caffè d’argento», gemette questi, continuando a soffiarsi vigorosamente sulle punte delle dita. «Dove abita adesso?» chiese poi.

«In un cottage che lei definirebbe un «bijou», a Grantchester. L’ha trovato Rosie Waldheim. E’ formidabile quando si tratta di cercare casa. Mi ci sono sistemato quando i Waldheim se ne sono andati.»

«Allora se n’è andato, Kurt Waldheim?»

«Sì, non si poteva tenerlo lontano dal CERN per molto tempo, non quando qui le cose si sono calmate. Ma ritornerà appena ci mettiamo di nuovo in moto.»

«Beh, lei non andrà probabilmente molto lontano con quella sua proposta assurda. Costruire milioni di telescopi, che Dio ce la mandi buona! Non ha già abbastanza nemici?» grugnì il rettore, soffiando di nuovo ostentatamente sulle dita.

«In effetti sembra che io stia accumulando nemici come insetti sul parabrezza di un’automobile in estate. Ho appena avuto uno scontro con quel tipo della rivista «Nature», quello che ho portato qui una sera.»

«Per che cosa avete litigato?»

«Non per colpa mia. Per lo meno non credo. E’ venuto da me e ha cominciato a fare domande. E’ una specie di schema fisso. Vengono da me per chiedermi che cosa intendo fare in futuro e dirmi che non approvano ciò che ho appena fatto. Poi li sbatto fuori a calci nel sedere, e neppure questo è di loro gradimento.»

«Lo credo bene! Lei non può pretendere di dire peste e corna del loro partito senza provocare reazioni. Per adesso lasci perdere», tuonò il rettore.

«Sapremo domani come andrà a finire. E’ deciso a restare in piedi, rettore?»

«Dico sempre che non lo farò, ma lo faccio sempre. Benché l’esito di domani sia già scontato, lo sappiamo dai sondaggi d’opinione. Poi analizzeranno con il computer i primi diecimila votanti, con tanto di interviste, naturalmente. Il computer ci dirà il risultato e si potrà andarsene tranquillamente a letto conoscendo la risposta. Ma non lo si fa. Si sta in piedi ciondolando per ore e ore aspettando di conoscere un po’ alla volta i risultati dei singoli seggi elettorali, con gli occhi sempre più pesti e continuando a bere birra. Oppure caffè, che è peggio perché allora davvero non si riuscirà più a prender sonno. Mi andrebbe di scrivere una commedia su questa faccenda, solo che nessun teatro la metterebbe in scena, sarebbe troppo noiosa. Eppure, si rimane in piedi la sera delle elezioni perché tutti lo fanno. E’ un comportamento assurdo, come i suoi telescopi. Potrei avere un’altra tazza di caffè? Se è capace di affrontare di nuovo quella caffettiera.»

«Sono riuscito a interessare il Tesoro», annunciò Isaac Newton mentre ritornava dalla credenza con altre due tazze di caffè.

«Ai telescopi?» chiese incredulo il rettore.

«All’aspetto economico della faccenda. Ho riflettuto negli ultimi tempi sugli aspetti economici, e quelli sono davvero un argomento idiota per lei.»

«In economia, la cosa più difficile è di distinguere», osservò il rettore sorseggiando il caffè, «il suo aspetto più idiota. Tra tante cose prive di senso è come scegliere il punto più scuro in uno stagno al buio. Beh, quale aspetto ha scelto lei, Brutte Notizie?»

«Il valore, penso.»

«E allora me ne parli, con spirito e allegria.»

«Si dice che il valore delle merci prodotte da una società sia determinato dal prezzo al quale i prodotti possono essere venduti sul mercato.»

«Un retto pensiero secondo Adam Smith. Riesco ad afferrarlo, almeno in parte, comunque. Alcuni dei libri migliori vengono venduti per poco mentre altri tra i peggiori vengono ceduti a caro prezzo. Ma continui, vecchio mio.»

«In che cosa consiste allora il valore dei soldi per i quali le merci vengono vendute?»

«Il problema riguarda lei, Brutte Notizie, e tocca a lei rispondere.»

«Il valore dei soldi consiste in ciò che essi riusciranno a comprare sul mercato. Così, quel che all’inizio sembrava sensato non è altro che un ritorno al punto di partenza.»

«Una tautologia, perdio! L’ho sempre saputo.»

«Così ho continuato a preoccuparmi del valore. Il prezzo della sopravvivenza, tanto per cominciare: gli alimenti, il vestiario e l’alloggio. Ho attribuito valori elevati agli alimenti, al vestiario e all’alloggio. Scendendo di un gradino la scala sono arrivato a cose come lavastoviglie e automobili, tutte cose senz’altro utili, ma non assolutamente necessarie. Ma il grosso balzo in giù mi ha portato ad articoli il cui supposto valore dipende interamente dalla nostra mentalità che può subire mutamenti del tutto arbitrari con l’andar del tempo.»

«Mi citi degli esempi, per favore.»

«Il suo televisore, per esempio, ha un valore se mette in onda un programma che lei vuole veramente vedere, ma non ha alcun valore immediato se tutti i canali trasmettono spettacoli scadenti; dipinti che si vendono oggi per milioni alle aste e che non valevano più di un paio di sterline al tempo in cui vennero eseguiti. Oppure i cosiddetti armamenti, come cannoni, carri armati, navi e aerei: quelli hanno un valore se si crede di averne bisogno, ma non valgono assolutamente niente se si ritiene di non averne bisogno.»

«Chi pensa di non avere bisogno di cannoni e carri armati?»

«Per oltre trent’anni, i giapponesi se la sono cavata molto bene pensando di non averne bisogno, e i russi se la sono cavata molto male pensando di averne bisogno.»

«Dove vuole arrivare, Brutte Notizie?»

«Fino a questo punto, la mia è stata solo un’introduzione.»

«Allora sentiamo il resto», grugnì il rettore bevendo rumorosamente l’ultimo sorso di caffè.

«La faccenda ha cominciato a diventare interessante quando ho provato ad applicare un po’ di aritmetica alle mie tre categorie di valori: valori indispensabili per la sopravvivenza come gli alimenti, valori utili come le lavastoviglie, e valori concettuali come i cannoni. Prima di tutto ho scoperto che una frazione sorprendentemente elevata di ciò che ci piace chiamare il nostro prodotto nazionale ha solo un valore concettuale. In secondo luogo ho scoperto come tutto ciò che chiamiamo il progresso realizzato nel corso degli anni non è altro che un aumento nella quota di economia assorbita da voci di valore concettuale. Il che significa che se la gente dovesse cambiare idea a proposito delle cose che considera importanti, una buona parte del nostro prodotto nazionale andrebbe in fumo. Diventerebbe un’illusione.»

Il rettore rifletté per un po’ su queste parole e poi annuì.

«La faccenda comincia a quadrare. E’ per questo che noi abbiamo la sensazione di essere truffati da tutto questo supposto progresso, che abbiamo la sensazione che gli esperti di economia hanno sbagliato i loro calcoli. E’ uno stramaledetto casino, d’accordo, ma è un casino dal quale noi in questo College siamo in buona misura protetti, sono contento di dirlo. Ma che cosa l’ha spinta a calarsi in quest’abisso analitico?»

«Perché volevo orientarmi prima di andare al Tesoro.»

«Con che cosa? Con una bomba a mano?»

«Volevo indurre il Tesoro a studiare a fondo l’effetto di un eventuale cambiamento dei nostri valori concettuali passando dai cannoni e i carri armati ai telescopi.»

«C’è una differenza?»

«Sì, c’è. Tanto per cominciare c’è una grossa differenza tra una situazione stabile e i progetti sporadici come la costruzione di una nave o lo sfruttamento di una miniera. Nei tempi passati, quando veniva allestita una nave da battaglia, c’era lavoro per un mucchio di gente, ma solo per un periodo. La gente confluiva nel porto dove la nave veniva costruita. Le paghe venivano spese immediatamente senza favorire alcuno sviluppo nella regione. Terminato il lavoro sopraggiungeva la disoccupazione con il suo effetto devastante. Lo stesso discorso valeva per le miniere. Una prosperità temporanea, un mucchio di casette dall’aspetto provvisorio e poi una grossa macchia sul paesaggio non appena la miniera era esaurita. La prosperità sporadica comporta sempre cattivi risultati, per quanto grande possa sembrare la prosperità per un po’ di tempo. Mentre una prosperità pur minore, ma conservata indefinitamente, crea un’atmosfera diversa dando luogo al solido sviluppo che si riscontra in centinaia di centri di smistamento della produzione agricola in tutto il paese.»

«E secondo lei, immagino, la sua proposta assurda garantirebbe un impiego stabile alla gente?» grugnì di nuovo il rettore.

«Sì, e non solo per anni o decenni, ma per secoli, con continui perfezionamenti tecnici. Così mi sembrava.»

«E con quest’idea ridicola lei si è presentato al Tesoro?»

«Sì. Da principio pensavano che fossi impazzito. Ma è bastato un cenno del Cancelliere perché se ne occupassero, e più se ne occupavano, più aumentava il loro interesse. Spero che avremo la relazione del Tesoro in tempo per la prossima riunione del Comitato.»

«Non tenterà seriamente di convincere il Comitato? Telescopi a bizzeffe?»

Il telefono impedì la risposta di Isaac Newton, qualunque dovesse essere. Rispose il rettore. Un istante dopo guardò Isaac Newton con un’espressione molto diversa da quella abituale, tanto spavalda.

«E’ il suo laboratorio», disse. «Temo che ci siano veramente brutte notizie. C’è stata un’esplosione, una bomba pare, e ci sono dei feriti gravi.»

43

La facciata del Cavendish Laboratory era stata parzialmente demolita, e le finestre di una buona parte del piano rialzato a ponente erano rotte o sfondate. Il peggio era toccato alle molte finestre della mensa al pianterreno. Ma non furono i danni materiali ad attirare l’attenzione di Isaac Newton e del rettore del Trinity mentre si dirigevano dalla parte più distante del parcheggio verso la palazzina. Davanti all’ingresso principale sostavano due ambulanze e una terza arrivò nell’istante in cui il professore e il rettore raggiunsero l’edificio.

Una barella venne trasportata fuori coperta da un lenzuolo macchiato di rosso. Qualcuno toccò il braccio di Isaac Newton. Questi alzò lo sguardo e vide che era Featherstone, il professore di veterinaria.

«Ho fatto arrivare subito i miei assistenti, abbiamo una certa esperienza…» disse Featherstone.

«Hai fatto bene. Grazie.»

«Ci siamo occupati prima dei feriti, che ora stanno per raggiungere quasi tutti l’ospedale di Hills Road.»

Isaac Newton si fece avanti e sollevò il lenzuolo. Il corpo inerte con gli occhi vitrei era quello di Scrooge. Scrooge che aveva lavorato con coscienza e fedeltà giorno per giorno sin dall’anno in cui Rutherford era morto. Scrooge che gli aveva trovato un secondo galvanometro venti anni prima, quando lui, Isaac Newton, aveva sostenuto l’esame per l’assegnazione della borsa di studio e aveva messo piede per la prima volta, tremebondo, a Cambridge.

«Più che altro si tratta di ferite prodotte da schegge di vetro», continuò Featherstone. «Hanno un aspetto orribile, ma generalmente non sono così gravi come sembrano. Uno o due dei feriti si trovavano nel corridoio che parte dall’ingresso, purtroppo, e sembrano essere stati colpiti in pieno dall’esplosione. Per quelli non abbiamo potuto fare nulla, temo.»

In quel mentre veniva portata fuori un’altra barella; i gemiti che ne provenivano indicavano che l’uomo che stavano trasportando non era morto. Era avvolto in una coperta dalla quale emergeva solo la testa.

«Dio buono, quello è Boulton», esclamò Featherstone.

Isaac Newton stette a guardare mentre la barella veniva infilata in una delle ambulanze. Boulton continuava a gemere.

«Sembra conciato male», disse il rettore del Trinity College.

«Non ricordo di aver visto Boulton là dentro», soggiunse Featherstone. «Dev’esser stato uno dei miei assistenti a occuparsi di lui.»

Isaac Newton porse le chiavi della propria automobile al rettore.

«Potrebbe andare lei all’ospedale, rettore? Per il momento io non posso proprio.»

«Spero di essere ancora capace di guidare. Negli ultimi tempi ho messo mano a un volante solo raramente», rispose il rettore. «Telefonerò», soggiunse mentre, piuttosto teso, si dirigeva verso il parcheggio.

«Ringrazia i tuoi collaboratori, Featherstone. Io verrò più tardi da voi per ringraziare ognuno di persona.»

«Tu pensa a dare un’occhiata in giro. Io non ho fatto in tempo a prendere nota dei danni materiali.»

«I danni materiali non sono importanti, benché immagini di doverli controllare», rispose Isaac Newton con voce cupa mentre i due uomini entravano nel laboratorio.

Era evidente che l’onda d’urto dell’esplosione si era propagata nel corridoio principale. L’esplosione e il successivo risucchio avevano persino divelto le porte dai cardini. Isaac Newton camminava lentamente, a testa bassa, sforzandosi di notare i particolari, nonostante il senso di nausea che lo aveva preso. Finalmente arrivò nella zona riservata alle trasmissioni alla cometa di Halley. Poiché tale luogo era situato sul lato orientale della palazzina, separato dall’ingresso principale a ponente da un considerevole numero di porte, nella zona riservata alle trasmissioni si registravano solo pochi danni. Isaac Newton esaminò a lungo le apparecchiature elettroniche, poi chiuse a chiave le varie porte che separavano l’area trasmissioni dalla parte principale del laboratorio.

La signora Gunter non era seduta alla propria scrivania, e il vento freddo soffiava attraverso una finestra dai vetri rotti, al punto da raggiungere l’ufficio di Isaac Newton. Questi si diresse come un automa verso la propria scrivania dove sollevò il telefono con l’intenzione di chiamare l’ospedale, ma il telefono non funzionava. C’era qualcosa di strano nell’aria, lui, però, non riuscì a individuare di che cosa si trattasse. Non era più capace di pensare. Alla fine sollevò entrambe le braccia, calò con forza i pugni stretti sul tavolo e gridò: «E’ colpa mia. E’ tutta colpa mia!»

«Che cosa è colpa sua, professore?» chiese una voce dalla soglia della porta aperta, dove c’era una figura in uniforme. La polizia, naturalmente.

Isaac Newton riconobbe l’uomo nel riquadro della porta, un uomo massiccio sulla cinquantina. Riconobbe l’ispettore per averlo già visto. Poi ricordò il nome. «Lei è l’ispettore Grant, no?» riuscì a dire.

«Sì, noi abbiamo già avuto modo di incontrarci, se ricorda, professore.»

«Ricordo. Certo che ricordo.»

«Lei stava dicendo che era colpa sua, professore. Che cosa intendeva dire con questo?»

«Intendevo dire che avremmo dovuto mettere una guardia alla porta già molto tempo fa.»

«Non c’era proprio nessuno? Neppure una «receptionist»?»

«E’ una tradizione del laboratorio che risale alla sua nascita, cento anni fa. Chiunque può entrare liberamente. Neppure ai tempi di Rutherford, quando vennero fatte le scoperte che diedero l’avvio all’era nucleare — con tutto ciò che l’era nucleare implica — , c’era una guardia. Credo che dobbiamo essere un autentico fenomeno per rimanere così attaccati alle vecchie tradizioni, di questi tempi. Tuttavia avrei dovuto accorgermi che i tempi sono cambiati in peggio. Specialmente con la cometa di Halley e tutta la pubblicità di cui siamo vittime. Era inevitabile che tutto questo attirasse qualsiasi pazzoide esistente nell’universo.»

«Così lei pensa che sia stato un pazzoide?» domandò l’ispettore, sedendosi sulla grande poltrona di cuoio.

«Questo è ovvio. Non abbiamo fatto del male a nessuno. Chi può essere stato se non un pazzo?»

«Me lo stavo chiedendo, professore.»

«Avrei proprio creduto che in questo frangente ci si preoccupasse innanzitutto dei feriti.»

«Per loro si sta facendo tutto il possibile, professore. Può esserne sicuro. Il fatto è che lei può forse darmi un’idea che ci aiuti nelle nostre indagini. Sarebbe meglio se riuscissimo a muoverci già da ora, anziché più tardi.»

«In tal caso situate un posto di blocco sulla M 11 all’ingresso di Londra e fermate tutte le macchine che entrano in città.»

«Purtroppo questo è quasi impossibile.»

«Beh, sarebbe il sistema migliore se volete ottenere un risultato. Con la M 11 distante solo poche centinaia di metri dev’essere stato facile scomparire rapidamente. Avrei dovuto rendermi conto del pericolo rappresentato dalla M 11. Sono stato proprio uno stupido», ammise Isaac Newton.

«Io non ne sono tanto sicuro, professore. Voglio dire, dell’idea che si tratti di un pazzo.»

«Chi altri potrebbe essere stato?» chiese Isaac Newton.

«E’ quello che sto cercando di scoprire, professore. Questa bomba non era un ordigno semplice, fatto in casa. Lo si capisce vedendo ciò che è accaduto. Questa palazzina non è stata costruita in maniera raffazzonata. Non si possono produrre danni simili con un fuoco d’artificio. Sembra un lavoro fatto da professionisti, non da un pazzoide. Per questo mi sto domandando se ha un’idea di chi potrebbe aver voluto compiere questo misfatto.»

«Francamente, ispettore, non posso pretendere di godere la simpatia di molta gente.»

«Me ne rendo perfettamente conto, professore», osservò Grant in tono asciutto.

«Ma non ho nemici veramente tali, voglio dire, nemici capaci di concepire gesti violenti di questa entità.»

«Può esserne certo, professore?»

«Riesco a immaginare qualcuno che abbia voglia di sferrarmi un pugno nell’occhio, sì. Ma non di fare una cosa del genere.»

«Capisco.»

«Che cosa?» chiese Isaac Newton.

«Non c’entrerà per caso la cometa di Halley?»

«Questa è la mia impressione, ispettore. Certo si è parlato molto di noi a proposito della cometa. Così, qualcuno può avere pensato che questo fosse un buon sistema per attirare l’attenzione su di sé…»

«Sarebbe troppo semplice, professore.»

«Questo lo dice lei, ma non ne sono convinto. Non vedo perché un pazzoide non possa aver usato una bella quantità di esplosivo. Di proposito o per errore… per ignoranza.»

«Mi creda, professore. Non è stato un pazzoide.»

Isaac Newton alzò lo sguardo e vide John Jocelyn Scuby nel vano della porta.

«Questa è la cosa più terribile che mi sia mai capitato di vedere», fece Scuby.

«Sono proprio sconvolto, signor Scuby. Posso presentarle l’ispettore Grant?»

«Mi dispiace di fare la sua conoscenza in queste terribili circostanze, ispettore. Ciò che mi stavo domandando, professor Newton, era se lei possiede un elenco di tutte le persone che lavorano qui. Abbiamo tutto negli archivi, ma faremmo più presto se lei avesse un elenco. Così potrei controllare cosa è successo a ognuno di loro.»

«Il rettore del Trinity è andato all’ospedale.»

«Bene, ma è improbabile che il rettore abbia «tutti» i nomi.»

Isaac Newton fece entrare Scuby nell’ufficio della signora Gunter. Poi si accorse di non avere la minima idea di come consultare lo schedario.

«Devo avere un elenco nella mia scrivania», fece quasi gridando, in preda alla frustrazione. Una frenetica ricerca nei cassetti della scrivania portò alla luce l’elenco desiderato.

«Grazie», annuì Scuby. «Dove la posso trovare se dovessi avere bisogno di lei?»

«Sarò o qui o all’alloggio del rettore.»

«Quando avrò saputo i particolari dall’ospedale, ritornerò da lei», disse Scuby. Poi se ne andò subito, lasciando Isaac Newton ancora una volta solo con l’ispettore.

«Stava dicendo, professore?» riprese Grant.

«Non stavo dicendo nulla d’importante, ispettore. Quello che è importante, invece, è la vita dei feriti.»

«Sono perfettamente d’accordo con lei, professore. Se potessi fare qualcosa in tal senso, lo starei già facendo.»

«Suppongo, ispettore, che i suoi uomini sorveglieranno il laboratorio stanotte?»

«Naturalmente.»

«E stanotte prenderò in esame le sue domande. L’unica idea che mi viene in mente al momento è che l’attentato possa aver avuto uno sfondo politico, con tutta l’agitazione che c’è in giro per le elezioni di domani. Ma un’idea simile dev’essere già venuta in mente anche a lei.»

«Certo, ma io in questo campo mi trovo al buio», rispose l’ispettore Grant.

Isaac Newton si alzò per andarsene.

«Poiché mi trovo esattamente nella stessa situazione, ispettore, andrò a vedere cosa succede all’ospedale. Ecco, vede, stavo aspettando una telefonata, ma il telefono è guasto. Il rettore del Trinity ha la mia macchina, così mi domando se posso chiederle di distaccare uno dei suoi uomini…»

«Se non ha altro…»

«Non ho altro da dire. Sono troppo sconvolto per ragionare a mente serena, temo.»

«Posso capirla, professore. Sì, una delle nostre auto la porterà all’ospedale. Vedrà che non ha perso tempo: i rapporti medici sui feriti saranno pronti solo adesso.»

Isaac Newton condusse l’ispettore da basso fino all’atrio distrutto del laboratorio. Mentre uscivano all’aperto videro venirsi incontro, correndo, Featherstone.

«C’è stata una telefonata del rettore del Trinity», gridò quand’era ancora distante una ventina di metri.

Isaac Newton ebbe la sensazione che la camicia gli si fosse incollata alla schiena.

«Sì?» riuscì a dire.

«La telefonata riguardava la tua giovane amica», fece Featherstone con il respiro grosso. Evidentemente aveva compiuto tutto il percorso correndo. «E’ stata fortunata. L’hanno dimessa dall’ospedale e il rettore la sta riportando al Trinity College. Ma temo di doverti dare una brutta notizia. Ci sono tre morti, due tuoi assistenti e un giovanotto chiamato McClelland.»

«Ha detto qualcosa della mia segretaria?»

«Non ha detto nulla, ma ho capito che molta gente è stata dimessa. E’ andata più o meno come ho già detto. Brutta per quelli che sono stati investiti direttamente dall’esplosione, meno brutta per gli altri: ferite superficiali e shock.»

«Ci sono notizie di Boulton?»

«Se c’erano, il rettore non me le ha date», rispose Featherstone.

44

Frances Haroldsen gli si precipitò incontro non appena Isaac Newton raggiunse il soggiorno dell’alloggio del rettore. La baciò con tenerezza e poi le sollevò il viso. Aveva l’avambraccio sinistro fasciato dal polso fino al gomito.

«Hanno dovuto mettermi qualche punto. Per fortuna, le schegge di vetro non mi hanno preso in faccia», disse Frances mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

«Lei dovrebbe essere a letto, ragazza mia», brontolò il rettore dal fondo del salone. Portava, ripiegata su un braccio, una grossa coperta. Si fece avanti e disse: «Questa, però, può mettersela almeno sulle spalle».

«Ho preso delle aspirine che mi hanno fatto passare, sembra, le fitte. Che cosa è successo agli altri?»

Isaac Newton vide che il rettore lo stava fissando e rispose: «Secondo Featherstone non è andata così male come sembrava. Non ho saputo ancora nulla della signora Gunter. Posso usare il telefono per sentire come sta?»

Quando Isaac Newton ritornò dall’apparecchio, che si trovava all’altro capo della stanza, vide che Frances Margaret aveva ceduto alle insistenze del rettore e ora si trovava seduta su un divano con la grossa coperta ad avvolgerle le spalle.

«Non l’hanno dimessa», annunciò Isaac Newton, «ma dicono che sta benino, benché solo il Cielo sa che cosa significa questo.»

«Siccome è un po’ più avanti con l’età, è probabile che risenta maggiormente lo shock», soggiunse il rettore in tono pacato.

«Boulton non ha avuto uno shock. Lo hanno dimesso.»

«Ma guarda! Io credevo che fosse ferito piuttosto gravemente», rispose il rettore.

«Sembra di no.»

«Penso che farei bene a sdraiarmi un po’», disse improvvisamente Frances Margaret. Il rettore balzò immediatamente in piedi.

«Ecco una buona idea.»

Quando Isaac Newton si mosse per accompagnare Frances Margaret e il rettore, la ragazza disse: «Tra poco mi sentirò bene. Mi hanno dato un sedativo da prendere. Ma non allontanarti troppo. Quel che volevo dirti è di chiedere un servizio di guardia per le attrezzature. E assicurati che siano truppe regolari dell’Esercito, non un qualche distaccamento speciale».

«Credo che farebbe bene ad andare nella mia tana», fece il rettore ad Isaac Newton mentre lasciava il locale insieme con Frances Margaret.

Isaac Newton raggiunse la «tana» come gli era stato detto di fare. Era talmente immerso nei propri pensieri che si accorse a malapena dei due domestici del College che portavano vassoi pieni di birra, caffè e panini imbottiti. Se ne rese pienamente conto solo quando uno dei domestici si fermò nella stanza per accendere il fuoco nel caminetto.

Dopo un po’ di tempo il rettore ritornò per dire, mentre si lasciava cadere su una grossa poltrona color prugna: «Pensavo che non avrebbe voluto cenare. Così ho fatto arrivare un po’ di panini».

«Credo che non mangerò nulla, rettore.»

«Anch’io non ho appetito, ma dovremmo ugualmente mangiare qualcosa. Ho promesso di andare incontro alla guardia alle dieci dietro il College. Ho telefonato a uno dei nostri membri onorari che è nell’Alto Comando dell’Esercito. Lei dovrà naturalmente far confermare il provvedimento dall’ufficio del Primo Ministro, ma il nostro membro onorario è disposto ad aspettare un paio di giorni perché la faccenda possa essere sistemata ufficialmente.»

Isaac Newton fissava il fuoco a occhi sbarrati, cosa che non andava a genio al rettore, che avrebbe preferito chiacchierare. Infine chiese ad Isaac Newton: «Che cosa c’è? Capisco il suo stato d’animo, ma sembra che ci sia qualcosa d’altro».

«Ci sono molte altre cose, rettore», rispose dopo una pausa Isaac Newton. «Non molto tempo fa ho raccontato al Primo Ministro come, da ragazzo, avessi l’abitudine di osservare il comportamento del tordo cacciato dall’avvoltoio. Gli altri uccelli tentano di scappare in volo e vengono acciuffati a mezz’aria. Il tordo, invece, continua a correre di qua e di là a terra per cui l’avvoltoio non si getta in picchiata per il timore di andare a sbattere contro il terreno e di restare secco. Ho sempre pensato che il sistema del tordo fosse valido e me ne sono servito in questa faccenda. Ma ora, con cinque morti…»

Il rettore tacque quasi altrettanto a lungo di quanto prima aveva taciuto Isaac Newton.

«Ha detto «cinque» morti?» disse infine con tono basso e intenso. «Oggi tre; un anno fa c’è stato quel Mike Howarth la cui morte non è stata mai chiarita a fondo; ma chi è il quinto sfortunato?»

«Un uomo dai capelli grigi con la giacca imbottita. Portava un berretto di lana con un grande pompon.»

«Che cosa c’entra questo, in nome di Dio?»

«E’ stato ucciso da un fulmine. Così, almeno, sostiene la polizia.»

«Mi piacerebbe sapere in quale maniera un uomo dai capelli grigi con un berretto di lana, ucciso da un fulmine, c’entri con questa faccenda nel laboratorio», tuonò il rettore prima di addentare un panino.

«Non c’entra, non direttamente.»

«Perché parlarne, allora?»

«Perché c’entrava con la morte di Howarth.»

«Sono tutt’orecchie.»

«Non so proprio come cominciare.»

«Non si preoccupi. Cominci e basta!»

«Allora comincerò col chiederle se negli ultimi tempi ha avuto notizie di Howard Baker.»

«Non recentemente. Ha trovato un bellissimo posto, sa — organista alla cattedrale di Chichester. Ma che cosa…»

«Sarebbe interessante telefonare al vescovo.»

«Per quale motivo?»

«Tanto per chiedere notizie di Baker.»

«Dio buono! Non vorrà dirmi che Baker c’entra con questa faccenda!»

«Sarebbe interessante sapere se un Howard Baker esiste effettivamente alla cattedrale di Chichester. Se esiste, sono pronto a scommettere quello che vuole che è senza barba, perfettamente rasato.»

Una volta tanto, il rettore rimase interdetto.

Isaac Newton approfittò dell’occasione offertagli dalla pausa per afferrare un panino. Poi proseguì: «Ho appena commesso un altro sbaglio, rettore. Ho detto che sono morte cinque persone. Dovrebbero essere sei. C’era un giornalista, ricorda, che è rimasto fulminato dalla corrente elettrica nel cottage di Howarth. Ma non c’entrava per niente».

Finalmente il rettore, simile a una diga che cede, esplose: «Secondo me lei ricava un diabolico piacere da tutti questi enigmi!»

Isaac Newton, che stava addentando il suo panino, finse di non accorgersi dell’agitazione del rettore.

«In effetti, rettore, ci sono talmente dentro fino al collo che penso sia meglio continuare!»

«Sarà meglio sì!» esplose il rettore.

«Immediatamente prima di lasciare il CERN e trasferirmi al Cavendish sono rimasto coinvolto in una faccenda che si potrebbe definire delicata.»

«Ne ho sentito parlare.»

«Così non dovrebbe essere sorprendente se un paio di persone curiose avessero deciso di tenermi d’occhio. Effettivamente ne ho subito individuata una.»

«Baker.»

«No, non Baker. Arrivo subito a lui. Se non fosse stato per lo sfortunato caso Howarth nel quale sono stato coinvolto, la curiosità si sarebbe ben presto spenta. La cosa che ha fatto nascere i guai…»

«… era rappresentata dagli eventuali aspetti militari della scoperta di Howarth. Me l’ha raccontato molto tempo fa.»

«Mi sono ben presto reso conto che la situazione si sarebbe deteriorata, ed effettivamente si è deteriorata. Finché non abbiamo ottenuto una risposta visibile dalla cometa di Halley, quasi tutti credevano che si trattasse di una questione militare. Ora immagini di essere un appartenente ai servizi segreti, circondato da quell’atmosfera di supposizioni, rettore. Che cosa farebbe per infiltrarsi?»

«Agiterei un po’ le acque, immagino.»

«Così come lo sparviero mette in agitazione gli uccellini nella speranza di acciuffarne uno a mezz’aria.»

Il rettore si avvicinò al caminetto per ravvivare il fuoco.

«Lei vorrebbe dire che sbarazzarsi di Howarth con un sistema relativamente poco vistoso, come un incidente di macchina, non avrebbe agitato abbastanza le acque.»

«Uccidere Howarth con un incidente di macchina non avrebbe avuto senso, o quasi. Per questo non gli è accaduto nulla fino al mio arrivo. Il vero scopo era quello di coinvolgermi nella faccenda, con tale chiasso da finir sui giornali.»

«Così, l’impresa è stata compiuta nella cappella, sotto il naso della statua del grande Isaac Newton. E’ questo che lei vuol dire?»

«E’ quello che Frances Margaret ha detto sin dall’inizio.»

«Che ragazza intelligente!» brontolò il rettore, versando birra da una grande brocca in due bicchieri.

«Vuol saperne una, rettore? Quei dischi non mi sono stati mai restituiti, quelli depositati alla Barclays Bank. Il Coroner se li è fatti consegnare con la mia autorizzazione.»

«Vuol dirmi adesso che anche il Coroner era coinvolto?»

«Ne dubito. Quel che voglio dire è che quei dischi, una volta usciti dai forzieri della Barclays, potevano finire nelle mani di chiunque, e qualcuno li ha presi.»

«Quell’avvocato. Come si chiamava, già?»

«Sherbourne? Non credo.»

«La gente che lui rappresentava?»

«Il Consiglio delle Ricerche? Dubito anche di questo.»

«Perché?»

«Me lo avrebbero detto. Anche solo per menarne vanto. Qualcuno ha raggirato sia il Coroner sia il Consiglio delle Ricerche. Già a quel tempo avevo intravisto uno sviluppo del genere. Uno dei motivi per cui sono abbastanza sicuro che il Consiglio delle Ricerche non lo ha fatto, vede, consiste nel fatto che Sherbourne ha fornito la chiave di tutto. Furono le sue domande quelle che misero quasi a nudo la faccenda.»

«Ecco una cosa che non mi sarebbe mai venuta in mente.»

«Ma è andata proprio così. Ricorda quando lei e io quel pomeriggio lasciammo la sala del municipio per venire qui?»

«Dopo il suo scontro con Sherbourne?»

«Sì, dopo il mio scontro con Sherbourne. L’irritazione mi impediva di ragionare bene. Ma lei avrebbe potuto accorgersene, rettore, come pure Featherstone e il sergente Atkinson.»

«Accorgermi di che cosa?»

«Che sarebbe stato sufficiente per noi entrare nella cappella.»

«Non riesco proprio a seguire il suo ragionamento», brontolò il rettore.

«Bastava andare a vedere se l’organo era provvisto di un interruttore a tempo.»

«Ricordo di averla sentita dire alla corte del Coroner che doveva esserci un interruttore a tempo perché nessuno aveva raccontato di aver spento l’organo. Eppure era spento.»

«Era certamente spento perché, con tutti intorno al corpo di Howarth, uno di noi deve aver senz’altro sfiorato i tasti, inavvertitamente se non di proposito. Eppure, dall’organo non è uscito alcun suono. Dopo la nota lamentosa sentita dal signor Kent l’organo ha taciuto.»

Il rettore bevve un lungo sorso di birra, per osservare poi con aria perplessa: «Riesco a seguire il ragionamento, ma non a trarne conclusioni».

Isaac Newton affondò il proprio sguardo negli occhi del rettore. «Immagini — e sono certo che le cose stavano così — di non aver trovato alcun interruttore a tempo. Quali conclusioni ne trarrebbe, in tal caso, rettore?»

Per quanto l’amor proprio del rettore nella sua qualità di romanziere e commediografo fosse ormai stuzzicato, la cosa migliore che gli venne in mente fu questa: «Concluderei che qualcuno che non faceva parte della comitiva doveva aver spento l’organo. L’assassino, mi dirà indubbiamente lei. Glielo leggo negli occhi. Ma perché?»

«Perché se l’organo fosse esploso in un’orgia di suoni, la nostra attenzione sarebbe stata distolta dalla salma di Howarth per indirizzarsi all’organo. In tal caso avremmo trovato la zeppa che bloccava il tasto da cui veniva quella nota lamentosa. Vede, rettore, l’assassino ha dovuto dare al materiale di cui era composta la zeppa il tempo necessario per evaporare. Era una fredda notte autunnale e il signor Kent e il decano avevano fatto arrivare subito la polizia, probabilmente prima di quanto l’assassino si aspettasse.»

«Continuo a non capire bene perché la scoperta, o non scoperta, di una zeppa fosse importante», disse il rettore mentre vuotava il bicchiere.

«Perché avrebbe tolto di mezzo il tocco di mistero. Il Coroner praticamente non avrebbe potuto evitare un verdetto per omicidio. La polizia avrebbe avuto a disposizione un obiettivo ben definito sul quale puntare, e il mio coinvolgimento sarebbe andato a farsi benedire… avevo un alibi perfetto, ricorda? E non ci sarebbe voluto molto perché la gente cominciasse a chiedersi chi mai, meglio dell’organista stesso, potesse conoscere l’organo al buio. L’uomo doveva essere lì, in attesa. Una situazione certo poco piacevole, con il chiaro di luna che filtrava appena attraverso le finestre dell’atrio. Noi tutti abbiamo provato una strana sensazione, come se ci trovassimo in presenza di forze occulte, persino la polizia.»

«Quando ha capito tutto?» chiese il rettore con tono grave.

«Nell’attimo in cui ho visto il tipo con i capelli grigi e il berretto di lana. Aveva in cima un grosso pompon.»

«Lasci stare il pompon. Spieghi semplicemente come è arrivato alle sue conclusioni.»

«Quello stava aspettando noi.»

«Al cottage di Baker?»

«Sì, siamo caduti in trappola. Sono riuscito a persuadere Frances Margaret che eravamo stati scoperti per caso, ma…»

«Ma lei non crede al caso…»

«Solo nei lavori teatrali, rettore.»

«Poi, che cosa è successo?»

«Per nostra fortuna, l’uomo con il berretto di maglia è stato colpito da un fulmine, come le ho già raccontato. Lo strano è che il pompon non riportò alcun danno.»

Il rettore, sprofondato nella poltrona color prugna, era interdetto. Alla fine chiuse le mascelle di scatto per dire con voce improntata a un sonoro crescendo: «Fulmine! Non mi prenda per un «idiota»!»

«Idiota o no, è questo che la polizia le dirà.»

«E che cosa mi racconta lei?»

«Nulla che abbia un significato particolare. Solo che, una volta ritornato a Cambridge, ho dato un’occhiata all’organo.»

«E che cosa ha trovato?»

«Come c’era da aspettarsi, adesso l’interruttore a tempo c’è. L’interruttore è stato applicato recentemente, molto recentemente, direi. Poi mi sono ricordato che Baker aveva compiuto ogni sforzo per sottolineare che un mucchio di gente aveva maneggiato l’organo in ogni sua parte.»

«Ma è stato lui a fare l’ipotesi che la chiave fosse stata bloccata con una zeppa.»

«Solo quando ha capito senza ombra di dubbio i miei sospetti. In realtà ha fatto le cose così bene che a quel tempo non sospettavo di nulla…»

«Neppure io», brontolò il rettore, «nessun dubbio. Poi è venuto a dire che i pedali non funzionavano bene. Ha detto anche che forse bisognava smontare le canne grandi. Non è così? Come crede che sia stato ucciso Howarth?»

«Un’idea come un’altra: da qualcosa preso per bocca, forse una bevanda.»

«Qualcosa che ha prodotto un mucchio di adrenalina», annuì il rettore, soggiungendo: «Non sarebbe troppo difficile ingannare un Coroner locale se la faccenda fosse stata architettata da gente con buona esperienza forense. Ho scritto una volta una pièce su quest’argomento».

«Non le va di telefonare al vescovo?»

«Non in questo momento», rispose il rettore scuotendo la testa. «Altra birra?»

«Grazie.»

«Non vedo come Baker possa essere coinvolto nella faccenda di questo pomeriggio», continuò il rettore dirigendosi verso il tavolo dove si trovava il grande boccale con la birra rimasta.

«Molto probabilmente non lo è», convenne Isaac Newton avvicinandosi a sua volta al tavolo per prendere la birra. «Non c’è un unico sparviero al mondo. Il micidiale errore da me commesso in questo caso consiste nel fatto che un uccello, che avevo preso solo per un passero, si è rivelato in realtà uno sparviero. Ma prima di toccare quest’argomento vorrei raccontarle esattamente qual è la situazione del Progetto Halley.»

«Non mi venga a dire che ha tenuto altre carte strette al petto!»

«Temo proprio di sì. Vede, rettore, io ho seguito i miei schemi come il tordo sul terreno. Ed è qui che forse ho sbagliato», confessò Isaac Newton. «La cosa più importante a proposito delle trasmissioni indirizzate alla cometa di Halley», continuò, «è che nessuno all’infuori di noi è riuscito a stabilire un contatto.»

«Perché non sono riusciti?» chiese il rettore dopo essere ritornato alla poltrona.

«In quanto la cometa non vuole rispondere. Risponde solo alle nostre chiamate.»

«E perché gli altri non si servono del vostro stesso segnale di chiamata? Conosco quel gergo: ’Terra chiama Cometa Halley, Terra chiama Cometa Halley’», cantilenò il rettore, di nuovo esuberante.

«Sembra che una miriade di satelliti svolazzi sopra le nostre teste di questi tempi e così un mucchio di gente tenta di decifrare le nostre chiamate. Il che in fondo è impossibile perché il codice cambia continuamente.»

«Qual è la formula magica per ottenere un simile risultato?»

«Beh — e questo è veramente il punto notevole di tutta la faccenda — ce la suggerisce la cometa stessa. Naturalmente ce l’abbiamo messa tutta per decifrare i messaggi che riceviamo. In genere non abbiamo avuto troppo successo. Ma ci è andata bene con questa faccenda del segnale di chiamata, forse perché avevamo più o meno la stessa idea.»

«Così siete davvero arrivati a uno scambio di comunicazioni?»

«In misura limitata, sì.»

Il rettore emise un fischio, per osservare poi con voce tonante: «Nessuna meraviglia che tutti siano in agitazione».

«Dubito che qualcuno possa prevedere i cambiamenti degli indicativi da un giorno all’altro», continuò Isaac Newton. «E’ un po’ come servirsi di un «one-time pad» (12), solo che operiamo con i numeri senza tradurli in parole.»

«Un «one-time pad», perdio! Credo bene che tutti sono in agitazione, è un po’ come se il nostro sparviero fosse in agguato nel cielo. La cometa potrebbe trasmettere le più micidiali informazioni. Lei sa, no, che il governo tende sempre a pensare il peggio. Si potrebbe quasi dire che pensare il peggio sia la principale occupazione del governo. Dio sa che cosa combinano la cometa di Halley e il Comitato!» esclamò il rettore aspirando tanto rumorosamente da provocare una sorta di fischio alla rovescia.

«L’unica maniera per neutralizzare un «one-time pad»», disse Isaac Newton, «è quello di rubarlo.»

Il rettore ci rifletté sopra per un po’. Poi fece una smorfia, lanciò un’occhiata corrucciata al soffitto, chiuse di scatto la bocca, si alzò dalla poltrona e si mise a passeggiare per la stanza per un bel po’, prima di dire: «Insomma, se ho ben capito, se qualcuno riuscisse a entrare in quel suo locale di trasmissione, avrebbe la possibilità di rubare questo «one-time pad»?»

«Ha capito benissimo, rettore. Così pure deve capire che la bomba esplosa questo pomeriggio ha creato un notevole diversivo che ha offerto a qualcuno proprio questa occasione. Quando lei mi ha lasciato per recarsi all’ospedale, sono andato subito al centro operativo. Due dischi di fondamentale importanza erano scomparsi. Per fortuna, però, i circuiti che provvedono automaticamente alla cancellazione delle incisioni avevano reso inutilizzabili i dischi.»

«I circuiti per la cancellazione automatica?»

«Un dispositivo piuttosto simile a quello esistente nei computer che ordina alla macchina di cancellare tutte le registrazioni. Se qualcuno tenta di bloccare l’operazione o di portar via informazioni di essenziale importanza, in maniera non perfettamente corretta, entra automaticamente in funzione un’istruzione che ordina di sgomberare i circuiti. L’operazione viene registrata. Ho visto la registrazione non appena sono entrato nel centro operativo», spiegò Isaac Newton.

«Così lei sa con certezza che qualcuno ha manomesso il computer?»

«Più che manomesso. Come le ho appena detto, rettore, due dischi sono scomparsi.»

«Anche se non potranno essere di alcuna utilità per chi li ha presi?» insisté il rettore.

«Esattamente», annuì Isaac Newton.

«Chi potrebbe averlo fatto?»

«Qualcuno che conosceva il laboratorio, ovviamente. Un estraneo non avrebbe saputo da dove cominciare. Tuttavia non può essere stato qualcuno che fa parte del Progetto Halley.»

«Perché non avrebbe fatto entrare in funzione i suoi circuiti di cancellazione», annuì il rettore, pensieroso, per soggiungere: «Ma chi l’ha fatto deve aver avuto bisogno di un potente appoggio esterno. Per predisporre la bomba, voglio dire».

«Anche questo è vero», convenne Isaac Newton. Si sentiva che era turbato.

«Una brutta faccenda.»

«Ciò che la rende ancora più brutta è il fatto che in un batter d’occhio mi sono trovato davanti, sulla porta, il poliziotto.»

«Quale poliziotto?»

«Grant, l’ispettore con cui avevo già avuto a che fare.»

«Aveva sospetti?»

«Quello tenta sempre, a quanto pare, di scoprire che cosa stiamo facendo. Si comporta più come un ufficiale dei servizi segreti che non come un ufficiale di polizia.»

«Il che potrebbe essere vero», brontolò il rettore.

«Ecco perché l’idea di Frances Margaret, quella di far proteggere le attrezzature dall’Esercito, è buona», osservò Isaac Newton.

«A meno che la mia memoria non stia andando completamente a patrasso, lei ancora stamattina mi ha detto che i militari hanno solo un valore concettuale.»

«Un altro dei miei errori, rettore.»

«Se vuol fare proprio penitenza, mi racconti la verità sulla talpa.»

Isaac Newton stette un bel po’ a pensare prima di rispondere: «Se proprio vuol saperlo, è stato Boulton».

Anche il rettore stette a pensare per un pezzo la risposta a questa rivelazione. Poi chiese in tono di proposito molto obiettivo: «Perché Boulton? Perché non Featherstone? Aveva l’aria di essersi già dato molto da fare quando siamo arrivati».

«Featherstone non è mai entrato nel laboratorio se non con me. Anzi, devo dire che io sono stato più spesso nel suo ufficio che non lui nel mio.»

«Ma è arrivato sul posto con estrema rapidità.»

«Un’esplosione simile non poteva sfuggirgli, stando alla facoltà di veterinaria. Non appena l’ha sentita, si dev’essere precipitato lì. Ci vogliono solo cinque minuti per arrivare da Veterinaria al Cavendish.»

«Boulton aveva l’aria di essere ferito.»

«Se lo era, l’ospedale non sembra saperne gran che. Dalle annotazioni all’ospedale risulta che aveva delle escoriazioni e soffriva di shock. Un po’ poco per un uomo che gemeva a quel modo.»

«Allora perché ha inscenato tutti quei gemiti?»

«Per distogliere l’attenzione dalla coperta che lo ricopriva. Il fardello sulla barella era piuttosto voluminoso. Ricorda?»

«Così lei pensa che abbia fatto uscire i dischi rubati sotto la coperta», disse il rettore, come se stesse parlando a se stesso, mentre tracannava la birra.

«Sì, ma ha esagerato con i gemiti. Sin da quando sono arrivato a Cambridge, Boulton ha continuato a entrare e uscire dal laboratorio, senza mai farsi annunciare. Aveva un sistema addirittura geniale per sgusciare di qua e di là senza essere visto.»

«Ma lei ha preso in affitto una casa da lui, se ben ricordo?»

«Un po’ perché avevo bisogno di un posto dove abitare — e lui lo sapeva — e un po’ per curiosità.»

«La curiosità ammazza il gatto, come dice un nostro proverbio.»

«Non lo dica, rettore!» ribatté Isaac Newton quasi gridando. «Me ne rendo conto fin troppo bene. Lei deve sapere che nella casa ho trovato un microfono nascosto. Eppure ho continuato a non prendere sul serio Boulton. Persino negli ultimi giorni ha continuato ad aggirarsi nel laboratorio tentando di appiccicare i suoi manifesti.»

«Che genere di manifesti?»

«Ridicoli manifesti pubblicitari per un locale che dice di aver acquistato, un posto chiamato Ragamuffin.»

«Lo conosco.»

«E Boulton aveva sempre una gran fretta, era sempre in procinto di partire da Cambridge. Scuby le confermerà che non si può mai trovarlo dove dovrebbe essere.»

«Il guaio è che si tratta solo di indizi.»

«Uno dei morti non può essere considerato alla stregua di un indizio, rettore.»

«Come sarebbe a dire?»

«Un giovane, McClelland, che era di servizio al momento dell’esplosione.»

«Di servizio dove?»

«Nel centro operativo.»

«Ma il centro operativo si trova nella parte retrostante della palazzina, lontano dal punto dov’è avvenuta l’esplosione. Non poteva essere più lontano di così. Per quale motivo McClelland avrebbe lasciato il centro operativo?»

«Dubito che lo abbia lasciato», replicò Isaac Newton.

Il rettore, che stava bevendo, si interruppe. Poi, asciugatasi la bocca con un tovagliolo, disse con voce grave: «Sta forse tentando di dirmi che anche questo McClelland è stato assassinato? Di proposito, per consentire l’accesso ai dischi?»

«Secondo me, un attento esame necroscopico del corpo di McClelland dovrebbe dimostrare che la sua morte non è stata causata dall’esplosione.»

«Che è come dire la stessa cosa.»

«Ciò che mi domando è se devo chiedere un attento esame necroscopico. Se lo chiedo, dovrò anche spiegare un mucchio di cose, senz’altro più di quante sia disposto a spiegare, dato che non vedo quale vantaggio potrei ricavarne. Un’autopsia non ridarebbe la vita a McClelland.»

«Tocca alla polizia decidere. Non tocca a lei insegnare alla polizia il suo mestiere.»

«Anch’io la penso più o meno così.»

«Per quanto tempo ci vorrà il servizio di guardia, secondo lei?»

«Finché il Comitato Halley non avrà avuto il tempo di riorientarsi.»

Il rettore fece una smorfia, respirò profondamente e disse scuotendo la testa: «Speriamo che non ci voglia troppo tempo. Ecco, vede, una presenza più o meno permanente dei militari all’Università farebbe sorgere tante domande: tra gli studenti, in alto loco, alla Regent House. Si comincerebbe a dire che l’Università non è il posto adatto per simili attività. Non che io sia d’accordo con questo genere di mentalità, ma siccome so come stanno le cose, so che la gente lo direbbe.»

«Lo immagino», rispose Isaac Newton con aria stanca. Nel silenzio che seguì, i due uomini ascoltarono il crepitio della legna nel caminetto.

Isaac Newton sentì improvvisamente una terribile sete. Stava per afferrare il suo bicchiere quando il rettore proruppe in un’esclamazione allarmata: «Ma se tutto è cancellato, se i suoi dischi sono scomparsi, che altro possiamo fare? E’ tutto finito!»

«No, rettore, ho commesso degli sbagli psicologici, non tecnici. Da molto tempo ho imparato che bisogna possedere delle copie, da conservare nei punti in cui nessuno vada a cercarle. Una volta sistemate le guardie sul posto, possiamo iniziare le trasmissioni, entro un paio d’ore.»

45

Il Primo Ministro e il Cancelliere dello Scacchiere procedevano tra i cespugli che crescevano sulla cresta dei Downs sopra Midhurst, pochi chilometri a sud della tenuta del Cancelliere presso la quale il Comitato Halley doveva riunirsi il giorno dopo. Sopra le loro teste volava un elicottero che seguiva una direzione parallela alla loro.

«Non mi piace quell’accidente sopra la testa», fece il Primo Ministro aggrottando le sopracciglia.

«Oh, gli elicotteri? Io non me ne accorgo, praticamente», rispose il Cancelliere allungando il passo e colpendo uno dei cespugli con il bastone.

«Di quanti seggi siamo debitori, secondo te, alla cometa di Halley? Trenta o quaranta?» chiese il Primo Ministro.

«E’ impossibile dirlo. Secondo me, al posto dell’attuale maggioranza di sessanta alla Camera dei Comuni ne avremmo una di venti o giù di lì, senza la cometa, voglio dire. L’asso nella manica consisteva nel fatto che il nostro messaggio alla cometa di Halley era un primato inglese, e noi negli anni appena trascorsi di primati ne abbiamo registrati ben pochi.»

«Così siamo debitori della cometa?»

«In certo qual modo», annuì il Cancelliere.

«Beh, in tal caso sarei disposto ad accettare la proposta del professor Newton.»

«Quella dei telescopi, immagino?»

«Naturalmente. Quale altra proposta avrei potuto avere in mente?»

«E’ un po’ strano, non ti pare? Newton sembrava immaginarselo, che la relazione del Tesoro sulla sua proposta avrebbe avuto il tenore che ha avuto, più telescopi si costruiranno e meglio sarà. Lo strano è che l’economia non trae alcun vantaggio dal realizzare le cose su scala ridotta. Il guadagno si ha solo se il progetto è abbastanza grande, altrimenti è marginale. Come i soliti finanziamenti per la ricerca scientifica.»

«Non esiste la possibilità che il professor Newton e i tuoi esperti di economia fossero sulla stessa lunghezza d’onda, di proposito diciamo?»

«Nessuna. Ne sono certo.»

«In tal caso dovremmo realizzare il progetto. Tanto per cominciare, un progetto ben definito è meglio di un obiettivo vago. Uno non può mai sapere che cosa succede quando la gente si entusiasma per qualcosa senza pensare a un obiettivo particolare.»

«Finché non vede i lati negativi del progetto alla luce dell’inflazione», convenne il Cancelliere sferrando un’altra mazzata con il bastone.

«Che ne pensi delle ultime comunicazioni venute da Cambridge?»

«Quella bomba è stata una brutta faccenda. So che Newton se l’è presa molto a cuore. Lo sentiremo nel corso della riunione.»

«Avremmo dovuto metterci già prima un servizio di guardia come si deve. Siamo colpevoli quanto lui, ammesso che la colpa sia di qualcuno.»

«Che cosa dicono i servizi segreti?»

«Nebulosi. Disperatamente nebulosi, Godfrey. Non riesco a farmi realmente un’idea all’infuori del fatto che qualcuno sembra proteggere qualcun altro.»

«In patria o all’estero?»

«All’estero, direi. I nostri organi investigativi, persino gli elementi della polizia locale, tendono a essere solo dei ficcanaso.»

«Un po’ come i rabdomanti?»

«Un po’. Vuoi sapere una cosa, Godfrey? Più campo e più apprezzo la profonda saggezza insita nella deposizione sotto giuramento.»

«Quale saggezza, in particolare?»

«La saggezza insita nell’obbligo di dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità. Dubito che quel che mi raccontano sia proprio sempre falso, ma dubito anche di vedere il giorno in cui mi diranno tutta la verità su qualsiasi cosa.»

«Nessuno conosce tutta la verità. Qui sta l’inghippo, temo.»

«Se non dopo che il fatto è avvenuto. Allora, tutti sembrano conoscere tutta la verità, specialmente i giornali.»

«Beh, non ce la siamo cavati tanto male.»

«Nelle elezioni? No, non ce la siamo cavati male. Anzi, per essere sincero, provo un certo senso di spavalderia.»

I due raggiunsero un viottolo che scendeva in direzione nord verso la tenuta del Cancelliere. Il viottolo era fiancheggiato da due fitte siepi di rovi. Circa a metà strada prima di raggiungere la camionale asfaltata che portava al villaggio di Bepton, incontrarono una figura solitaria che stava salendo. Fu solo dopo aver fatto un altro centinaio di metri che il Cancelliere si fermò ed esclamò di colpo: «Buon Dio! Hai fatto caso al tipo che è appena passato? Aveva in testa un colbacco di astrakan. Quello era Tom Taylor dell’«Observer».»

«Non mi sembra la stagione giusta per un copricapo del genere, devo dire», fece il Primo Ministro arricciando il naso.

«Lo strano è che l’ho incontrato proprio qui vari mesi fa mentre facevo una passeggiata con Newton.»

«Forse è accampato da queste parti», insinuò il Primo Ministro.

«Questo è senz’altro possibile», convenne il Cancelliere. «Dev’essere convinto di essere sulle tracce di qualcosa di grosso. Newton mi ha raccontato la storia di un peschereccio affondato.»

«Beh, non ci sono pescherecci affondati da queste parti», disse il Primo Ministro in tono deciso.

«Forse secondo l’«Observer» ce ne sono», mormorò il Cancelliere, menando un’altra botta con il bastone.

46

Il Comitato si riunì nella grande cucina della casa di campagna del Cancelliere, una cucina piena di pentolame di rame lucido, appeso alle pareti. I membri del Comitato erano seduti intorno a un lungo tavolo rettangolare, il Primo Ministro a un capo e il rettore del Trinity all’altro. Isaac Newton si trovava all’immediata destra del Primo Ministro e aveva a fianco, sulla destra, Kurt Waldheim, venuto da Ginevra per la riunione. Alla sinistra del Primo Ministro sedeva Sir Harry Julian, il burocrate del Tesoro nominato dal Cancelliere membro del Comitato. Il cancelliere era seduto alla sinistra di Julian.

Frances Haroldsen disponeva di un tavolino separato sulla sinistra, un po’ dietro al rettore. Sul tavolino teneva le minute delle riunioni precedenti e prendeva nota di quanto veniva detto. Per fortuna, il braccio destro era indenne.

«Devo chiedere scusa per l’assenza di Sir Anthony Marshall», cominciò il Primo Ministro. «In via del tutto riservata potrei soggiungere che Sir Anthony sta lasciando il CERC per diventare vicepresidente onorario di un’Università, naturalmente. Non di Cambridge, dove il Comitato è già rappresentato in pieno. Il rettore del Trinity College potrebbe forse spiegarci perché i presidenti dei nostri consigli di ricerche finiscono sempre per gravitare intorno alla carica di vicepresidenti.»

«Evidentemente considerano il sentiero per arrivare alla carica lastricato d’oro, Primo Ministro. Benché non me ne sia mai accorto», rispose immediatamente il rettore facendo sorridere tutti.

«Argomenti da discutere», continuò il Primo Ministro. «Professor Newton, credo che lei debba riferire parecchie cose. Alcune delle quali di notevole gravità.»

«Sì, grazie, Primo Ministro. Vorrei parlare prima di tutto della grave esplosione che si è verificata alle sedici e quindici circa del venticinque dello scorso mese», cominciò Isaac Newton. «Una relazione giudiziaria sull’esplosione si trova sul tavolo per cui dirò solo che l’esplosione è stata causata, così si ritiene, da una bomba di considerevole potenza.

«Ciò che riguarda direttamente la riunione», proseguì Newton, «sono le ferite riportate dal personale del Cavendish Laboratory. In tutto sono rimaste ferite trentasette persone, la maggioranza delle quali da schegge di vetro, come nel caso della segretaria del nostro Comitato. La sfortuna ha voluto che tre persone esposte direttamente allo scoppio rimanessero uccise. Tutte le persone ferite erano protette dalla normale assicurazione stipulata dall’Università, ma nella misura in cui il Comitato ritenesse che la sua attività possa aver contribuito a causare l’esplosione, mi propongo di mettere sul tappeto in seguito una proposta di risarcimento ai feriti e soprattutto alle famiglie delle vittime.»

«Come potrebbe ritenersi coinvolto il Comitato?» disse immediatamente Sir Harry Julian.

«Il Comitato potrebbe essere coinvolto perché la cometa di Halley comunica le sue trasmissioni solo a noi e a nessun altro.»

A questa uscita, il Primo Ministro si tirò su e disse: «E’ la prima volta che lo sento, professor Newton. Come fa la cometa a distinguerci dagli altri?»

«A causa di un cifrario continuamente correggibile che viene usato nelle comunicazioni tra noi e la cometa.»

«Lo chiami un «one-time pad», Primo Ministro», tuonò il rettore del Trinity dall’altro capo del tavolo. «Noi possediamo un «one-time pad», e il professor Newton dice che qualcuno può aver tentato di rubarcelo, servendosi dell’esplosione come copertura. Se le cose stanno così, il Comitato ha delle responsabilità nei confronti dei feriti e in particolare delle famiglie dei deceduti.»

«L’Università ha forse intenzione di sottrarsi alle proprie responsabilità?» chiese Sir Harry Julian.

«L’Università desidera solo adempiere i propri obblighi», dichiarò il rettore.

«Esistono prove dei fatti cui ha accennato il rettore?» chiese il Cancelliere.

«Sono giunto al laboratorio circa mezz’ora dopo l’esplosione e ho trovato la saletta operativa non presidiata. Non era presidiata in quanto il giovane preposto al servizio era morto. Per farla breve, ho scoperto che una persona non autorizzata era arrivata lì prima di me, presumibilmente durante la precedente mezz’ora», spiegò Isaac Newton.

«Come può esserne sicuro?»

«Nei dispositivi elettronici si rilevavano interferenze che potevano essere state originate esclusivamente da un intruso», rispose Isaac Newton.

«I dispositivi elettronici sono concepiti in maniera tale», intervenne Kurt Waldheim, «da dare l’allarme nell’eventualità di un’interferenza da parte di un estraneo. Su questo punto non ci possono essere dubbi.»

«Ne è stata informata la polizia?» volle sapere il Cancelliere.

«No. Dato il carattere delicato della situazione, ho ritenuto opportuno informare prima il Comitato», rispose Isaac Newton.

«Se stiamo ricevendo segnali dalla cometa a un livello più o meno segreto, la situazione mi sembra molto delicata», annuì il Primo Ministro.

«Proprio così», convenne il rettore. «Poiché gli altri sono tutti esclusi, nessuna meraviglia che cerchino di carpire il segreto.»

«Il motivo per cui facciamo difficoltà, Primo Ministro, consiste nel fatto che per il Tesoro c’è una gran differenza se l’operazione a Cambridge è un’iniziativa di dominio pubblico o riservata», spiegò Julian.

«Non potremo effettuare alcun pagamento se si tratta di un’iniziativa riservata», spiegò il Cancelliere.

«Ah, ora capisco che cosa vi preoccupa», interloquì il Primo Ministro. «Si tratta evidentemente di uno di quei piccoli problemi la cui soluzione delizia le menti più sottili del Tesoro, non è così?»

«Temo che non si tratti affatto di una sottigliezza, Primo Ministro», insistette il corpulento Julian. «Se rendiamo di pubblica ragione questa faccenda tramite la polizia, possiamo effettuare i pagamenti che ci sembrano ragionevoli e dovuti, direttamente tramite l’amministrazione del Comitato. Ma se decidiamo di mantenere segreta la faccenda, come penso sarà, nessuna somma di denaro può essere contabilizzata dal Comitato. In questo caso, qualunque versamento dev’essere effettuato tramite l’amministrazione autonoma del Primo Ministro, l’amministrazione riguardante le attività riservate, voglio dire. In parole povere: i soldi devono passare sotto banco da lei al professor Newton.»

«Con la possibilità che io decida poi di svignarmela?» chiese Isaac Newton, alquanto sbalordito.

«Esattamente», annuì Julian. «Può sembrare strano, ma è proprio così che bisogna fare.»

«Sono proprio contento di occuparmi solo di fisica, e non di finanze governative», fece Kurt Waldheim, sbalordito anche lui, con l’abituale sorriso canzonatorio.

A questo punto entrarono due donne del vicino villaggio. Una reggeva un vassoio di thermos contenenti tè e caffè, l’altra due vassoi di dolci assortiti.

«Ah, qui dobbiamo stare attenti alla linea», esclamò il Primo Ministro, interrompendosi subito perché si era reso conto di aver fatto una gaffe. La figura di Julian spiccava per le sue rotondità.

La gaffe venne riparata, o no, secondo i punti di vista, dal rettore che all’istante tuonò: «Riuscire a ignorare la linea può essere una delle grandi conquiste della vita, Primo Ministro. Ci si sottrae così a uno sforzo insopportabile». Detto questo, il rettore affondò i denti in un enorme bignè alla panna che per un momento gli imbiancò le labbra come quelle di un clown.

Il Primo Ministro non perse altro tempo e richiamò all’ordine i presenti: «Dobbiamo sbrigarci. La voce successiva riguarda i futuri sviluppi. Dobbiamo sentire di nuovo lei, professor Newton».

«Gli sviluppi contemplati da questa voce sono già stati superati dagli eventi», cominciò Isaac Newton. «Ora siamo occupati più che altro nella decifrazione dei messaggi venuti dalla cometa di Halley. Non si tratta di un’illusione perché continuiamo a fare progressi. A giudicare dal livello raggiunto, dovremmo arrivare a uno scambio di comunicazioni abbastanza esteso entro un anno.»

«Che cosa è successo esattamente?» chiese il Primo Ministro.

«La cometa di Halley ci ha detto di prendere contatto con altre comete nella zona di Nettuno, e noi abbiamo stabilito effettivamente un contatto con esse. Fino a stamattina pensavo che fossimo riusciti in sette casi, ma Kurt Waldheim mi dice che il numero è salito ora a nove. Il risultato è stato raggiunto usando i radiotelescopi di Jodrell Bank e il telescopio di Bonn in Germania, come pure le nostre installazioni.»

«Ovviamente avevamo ricevuto dalla cometa di Halley le istruzioni necessarie per sapere dove guardare», soggiunse Kurt Waldheim.

«Dove guardare?» chiese il Cancelliere con un’espressione perplessa.

«E’ stata una faccenda un po’ complicata», ammise Kurt Waldheim. «Alla fine ci siamo resi conto che la cometa di Halley ci stava fornendo un elenco delle direzioni in cui dovevamo guardare. Restava da stabilire se queste direzioni partivano dalla cometa di Halley stessa, dal Sole o dalla Terra.»

«Solo le direzioni partenti dalla Terra sarebbero state utili, immagino?» chiese il Cancelliere.

«Sì, ma non le abbiamo ottenute in questo modo. Come abbiamo visto poi, l’elenco si riferiva alle direzioni in partenza dalla cometa di Halley», gli disse Kurt Waldheim.

«Tanto per cominciare abbiamo dovuto affidarci al caso», intervenne Isaac Newton. «Abbiamo convertito le direzioni indicateci dalla cometa in direzioni partenti dalla Terra, il che è stato un lavoro piuttosto duro. Non i calcoli matematici della conversione, ma la determinazione della distanza della cometa di Halley che doveva essere inserita nei calcoli. Ma una delle cose di cui ci occupiamo ora è un sistema di trasposizione.»

««Ja»», fece Kurt Waldheim che cominciava a divertirsi. «Noi trasmettiamo un segnale alla cometa di Halley che provoca un’immediata risposta; poi, misurando con precisione la durata della trasmissione, veniamo a conoscere la distanza della cometa di Halley; quindi le direzioni in cui si trovano le altre comete alla periferia del sistema solare. Effettivamente, la cometa di Halley funziona come una sentinella, come un pastore.»

«E allora, che cosa è successo?» chiese il Primo Ministro tentando di mettere in corto circuito le sottigliezze scientifiche.

«Abbiamo avvertito il telescopio anglo-australiano in Australia e quelli si sono messi a osservare mentre noi facevamo le nostre trasmissioni.»

«Osservavano nella stessa direzione nella quale voi lanciavate la vostra trasmissione radio, è così?» chiese il Primo Ministro.

«Precisamente», annuì Isaac Newton. «E in tutti i casi abbiamo riscontrato la stessa improvvisa luminosità della cometa — quella lontana, in questo caso — che avevamo riscontrato in precedenza nella cometa di Halley.»

«Lei intende l’improvvisa esplosione di particelle? Come una balena che si mette a soffiare?»

«Esattamente. Sembra un segnale di riconoscimento convenuto.»

«E lei dice che è accaduto nove volte?»

«Nove volte», confermò Isaac Newton, «e adesso i nostri telescopi cominciano a essere saturi, in Germania come nel nostro paese.»

«Come mai?»

«Perché le comete cominciano a chiacchierare parecchio le une con le altre.»

«Perché, prima non chiacchieravano?»

«No, perché le comete non riuscivano a trovarsi a vicenda finché non abbiamo stabilito i contatti.»

A questo punto, il Cancelliere alzò la mano e disse parlando lentamente: «Intende dire che le comete, pur non essendo capaci di trovarsi a vicenda direttamente, possono comunicare osservando le sue frequenze radio?»

«Sì, una cometa invia una propria trasmissione sulla nostra frequenza, che la cometa sta ricevendo, ovviamente. Poi ritrasmettiamo il messaggio con un’altra frequenza diretta a un’altra cometa», disse Kurt Waldheim tracciando un diagramma triangolare su un pezzo di carta, dove la Terra era all’apice, le due comete comunicanti alla base e varie frecce indicavano le direzioni delle trasmissioni radio.

«Capisco», disse il Cancelliere sempre parlando lentamente. «Effettivamente, comincio a capire molte cose.»

«Che cosa capisci, Godfrey?»

«Forse ancora solo in maniera approssimativa, ma capisco che cosa sta succedendo, ed è un fenomeno che fa piuttosto paura. Noi abbiamo compiuto il primo passo per inserirci in un sistema di comunicazioni extraterrestri.»

«Lei ha capito perfettamente, Cancelliere», convenne Isaac Newton.

«Un sistema di teleinterscambio, perdio!» intervenne il rettore. «Ma siamo in grado di decifrare questi messaggi che passano per i nostri telescopi, le nostre trasmittenti? Questo mi sembra il problema più importante. Altrimenti, che beneficio ne ricaviamo?»

«Secondo me», rispose Kurt Waldheim, «finiremo per essere in grado di decifrarne tanti quanti ne vorremo. Ma non tutti, perché decifrare tutti i messaggi ci sarebbe impossibile.»

«Francamente non riesco a capire, professor Waldheim. Potrebbe essere più chiaro o fornire altri particolari? Perché quella che il rettore ha sollevato è una questione veramente importante», dichiarò il Primo Ministro serio in volto.

«Le voglio citare come esempio due atomi diversi: quello semplice dell’idrogeno e quello estremamente complesso dell’uranio», cominciò Kurt Waldheim, tornando a sorridere e respingendo con un gesto della mano la ciocca di capelli sulla fronte. «Noi uomini siamo capaci di capire completamente l’atomo dell’idrogeno. In questo modo, comprendiamo i principi essenziali in base ai quali sono costruiti tutti gli atomi, e credo che saremo in grado di decifrare le informazioni di questa specie. Ma i particolari, non i principi, dell’atomo dell’uranio sono troppo complicati per noi. I numeri da prendere in considerazione con qualsiasi metodo a noi noto sono troppi. Sono nubi di numeri, come le nubi di numeri che sarebbero necessarie per descrivere i movimenti di tutte le molecole esistenti nell’aria contenuta in questa stanza, o gli atomi esistenti nel nostro organismo. Principi, sì; nubi di numeri, no. Ecco che cosa voglio dire.»

«Secondo me, Kurt sta dicendo», interloquì Isaac Newton, «che saremo in grado di decifrare tutte le cose che ci sembrano importanti, i principi fondamentali delle situazioni. Ma quelli che tendiamo a considerare particolari privi d’importanza ci sfuggiranno. Non perché non saremmo in grado di decifrarli, ma perché nel decifrarli ci troveremmo di fronte a un volume eccessivo di numeri.»

«E allora, perché queste disgraziate nubi di numeri sono importanti?» chiese il rettore.

«E’ la differenza tra il comprendere una cosa e il farla. Tutte le volte che costruiamo qualcosa, un’automobile o un aereo o un computer, dobbiamo calcolare una nube di numeri, tanto per cominciare. Ma sono nubi piccole a paragone con quelle del nostro caso. I luridi particolari, si potrebbe dire.»

«La differenza tra l’idea per un libro e il processo meccanico per mettere per iscritto le parole?» suggerì il rettore.

«La cosa si riduce in fondo a questo, rettore. Se lei la prende in esame nei termini di un libro, c’è sempre un limite alle dimensioni del libro che possono essere affrontate da un singolo scrittore. Altrimenti la nube delle parole diventerebbe troppo grande. E se lei immagina di prendere in considerazione tutti gli scrittori e di mettere i loro libri in una biblioteca, vi è sempre un limite per le dimensioni della nube più grande di parole che una biblioteca può accogliere.»

«E secondo lei, questa faccenda può superare di gran lunga la capacità umana?» chiese ancora il Primo Ministro.

««Ja», le cose stanno proprio così», annuì Kurt Waldheim.

«Ma quale sarebbe il risultato finale, il prodotto?»

«Qualcosa di grosso. Qualcosa di molto grosso», insisté Isaac Newton.

«Lo immaginavo», osservò il Cancelliere. «L’ho intuito dal primo momento. Primo Ministro, posso proporre un intervallo per la colazione? E’ ancora presto, ma noi tutti ci siamo rimpinzati a tal punto finora che dobbiamo digerire un po’ ciò che abbiamo detto prima di affrontare le altre voci dell’ordine del giorno.»

«Devo essere di ritorno in città al più tardi alle sei», avvertì il Primo Ministro.

«Me ne rendo conto», rispose il Cancelliere, «ma accelereremo la colazione. Andremo a mangiare all’albergo di qui. Ho già predisposto tutto. Si mangia abbastanza bene e sono molto cortesi.»

Isaac Newton si mise al volante della sua macchina, pensando di portar lui Kurt Waldheim e Frances Haroldsen all’albergo del villaggio, ma il rettore del Trinity si sistemò con un balzo agilissimo sul sedile anteriore accanto al guidatore.

«Andiamo. Gli altri possono seguire. Voglio parlare con lei da solo.»

Quando ebbero superato un centinaio di metri, Isaac Newton chiese: «Di che cosa?»

«Dei soldi per tutti quei telescopi, quel suo progetto assurdo. Glieli daranno, l’ho letto negli occhi di Godfrey Wendover. Così cerchi di comportarsi bene questo pomeriggio.»

47

Dopo colazione, il Cancelliere e il Primo Ministro tornarono insieme in macchina.

«Le trovi realmente sbalorditive, tutte queste cose?» chiese il Primo Ministro.

«E tu non le trovi sbalorditive, tenendo conto che per il momento abbiamo dato solo uno sguardo attraverso il buco della serratura?» chiese il Cancelliere di rimando.

«Che altro ci può essere da quelle parti?»

«Non lo so. Neppure Newton e Waldheim lo sanno. Stanno procedendo a tentoni come noi. Secondo me, però, è estremamente improbabile che sin dal principio si sia già visto tutto quello che c’è da vedere.»

«Questo sistema di telecomunicazioni…»

«Sì? Che cosa c’è?»

«Beh, mi stavo domandando se alle volte non potesse diffondersi all’esterno», fece il Primo Ministro come parlando a se stesso.

«Al di fuori della Terra?»

«No, al di fuori dell’intero sistema solare.»

Il Cancelliere ci rifletté sopra un po’ e poi si strinse nelle spalle. «Perché no?»

Dopo circa mezzo chilometro, il Cancelliere riprese passando a un argomento più concreto: «Come intendi impostare la riunione questo pomeriggio?»

«Beh, abbiamo già preso una decisione, non ti pare? Non c’è senso discutere a lungo su quello che dobbiamo o non dobbiamo fare. Così mi concentrerò piuttosto sui procedimenti e i mezzi, specialmente sull’organizzazione.»

«Anche se siamo decisi», disse il Cancelliere, «gradirei che tu non mettessi troppo in disparte Julian. Si è impegnato molto con la sua relazione, per cui ti prego di dargli retta per un po’.»

Nonostante la promessa del Cancelliere, che la colazione sarebbe stata servita presto, erano già le due del pomeriggio quando la seduta riprese.

«Dobbiamo accelerare i tempi», annunciò il Primo Ministro. «Così affronteremo ora l’argomento principale della riunione, i telescopi. Stamattina abbiamo sentito che gli strumenti disponibili si stanno già avvicinando al punto di saturazione, sia nel nostro paese sia in Germania, proprio quando gli sviluppi stanno diventando interessantissimi. Propongo che la necessità di ulteriori risorse strumentali venga data per scontata. Ora dobbiamo occuparci dei procedimenti e dei mezzi economici e logistici. Parliamo prima dei procedimenti e mezzi economici sui quali Sir Harry Julian ha preparato un’ampia relazione, un lavoro per il quale intendo esprimere il ringraziamento del Comitato a lui e ai suoi collaboratori. Sir Harry, le dispiacerebbe esporci la sua relazione?» concluse il Primo Ministro, pensando che se il discorso di Julian poteva essere contenuto in trenta-quaranta minuti, il successivo argomento critico poteva essere sbrigato per le quattro. Un’ora e mezzo per ritornare a Londra nonostante il traffico sostenuto doveva essere sufficiente, lasciandogli un margine di trenta minuti prima dell’arrivo del Presidente indonesiano al numero 10 di Downing Street.

Il resoconto di Julian fu molto simile alla conversazione avuta da Isaac Newton alcuni giorni prima con il rettore del Trinity. L’esposizione di Julian era impostata sulla fermezza dei propositi. La fermezza dei propositi nel campo economico, come negli altri rami della vita, trovava sempre il suo compenso, un concetto che Julian sottolineò agitando in continuazione i suoi pince-nez. Il rettore non poté esimersi da numerosi interventi, e il Primo Ministro dovette faticare non poco per impedire che gli interventi si trasformassero in discussioni in piena regola. Interruzioni a parte, la mente del Primo Ministro cominciò a divagare pensando alla stanza nella quale si trovavano, alla tenuta del Cancelliere, a tutta la Gran Bretagna, finché non venne lentamente sopraffatta dalla continua decisa avanzata di un enorme ghiacciaio, un ghiacciaio composto da intoppi e cavilli burocratici. Mentre Julian continuava la monotona esposizione, tutti caddero preda di quella specie di sonno ipnotico che talvolta si impadronisce di comitati e consessi. Quando vide che erano quasi le tre, il Primo Ministro decise di tagliare il nodo gordiano.

«Raramente, o forse mai, mi è capitato di ascoltare un’esposizione così convincente come quella fatta da Sir Harry. Era mia intenzione di chiedere al professor Newton un appoggio sotto forma di argomentazioni tecniche, ma l’esposizione di Sir Harry è stata talmente esauriente che qualsiasi aggiunta sarebbe sicuramente superflua.»

«Sono d’accordo, Primo Ministro. Sarebbe ’portare, come si dice, a Samo vasi, nottole a Atene’», intervenne il rettore del Trinity con il suo basso più profondo e incisivo.

«La ringrazio, rettore. Volendo proseguire arriviamo a un altro problema, quello di trovare il metodo migliore per realizzare l’ingegnoso programma proposto dal professor Newton e sottoposto a un’analisi così accurata da Sir Harry, supponendo, come penso che possiamo, che il governo di Sua Maestà ci farà pervenire l’appoggio finanziario. Non chiedetemi di impostare una impresa come questa su basi insufficienti», continuò il Primo Ministro dando un’occhiata all’orologio. «Nonostante il rischio di turbare l’attuale stato di cose, lasciatemi dire che impostare le nostre attività al momento attuale su Cambridge non sarebbe la soluzione migliore per arrivare alla realizzazione di un programma di costruzione di telescopi continuativo ed esteso. Il migliore impegno per le nostre università consiste nelle iniziative di ricerca, non in lavori eseguiti per contratto, a meno che questi lavori non coinvolgano un unico strumento scientifico. Cosa ne pensa, professor Newton, di questa proposta a sfondo didattico?»

Isaac Newton rimase a pensare per un attimo, tentando di ricordare che cosa significasse esattamente il termine «didattico». Poi disse: «Per quanto riguarda la costruzione — e con ciò intendo il controllo dei particolari del progetto, la stipulazione dei contratti e le continue trattative con i fabbricanti — prendo atto che un’università non sarebbe il centro ideale per attività simili. Attività nel campo costruttivo, devo sottolineare, non attività operative. Le università potrebbero essere comunque i luoghi in cui installare i telescopi».

«Non solo Cambridge?»

«No, non solo Cambridge. Noi stiamo già impegnando in misura notevole Jodrell. Naturalmente, tutte le università disposte a farlo dovrebbero essere incoraggiate a unirsi a noi.»

«Rettore, che cosa ha da dire nella sua qualità di vicepresidente di Cambridge?»

«Sono perfettamente d’accordo con quanto è stato detto finora.»

«Un consorzio di università potrebbe forse essere la forma corretta per un’organizzazione del genere, Primo Ministro», suggerì Isaac Newton.

«Il problema per il governo consiste francamente nel fatto che abbiamo già un’organizzazione», replicò il Primo Ministro, «ed è un’organizzazione che non le è particolarmente simpatica, temo. Il CERC.»

«Lo dicevo che si stava profilando la risurrezione del CERC», brontolò Isaac Newton.

A questo punto intervenne il Cancelliere. Puntando lo sguardo su Isaac Newton, disse: «Penso sarà d’accordo con me che questo progetto supera di gran lunga qualsiasi controversia personale».

«Si trattasse solo di una controversia personale, non di una riguardante i risultati ottenuti…» ribatté Isaac Newton.

«C’è un sistema facile per salvaguardare i risultati», disse il Primo Ministro.

«A opera del CERC? Come sarebbe a dire?»

«All’inizio della riunione ho detto, in via del tutto confidenziale, naturalmente, che Sir Anthony Marshall sta lasciando il CERC. Il che offre al governo l’occasione di sostituirlo con lei, professor Newton. Una simile soluzione le offrirebbe l’occasione di ottenere le più ampie garanzie per il raggiungimento dei risultati che lei vuole ottenere nel contesto di quanto lei stesso ha proposto. Potrei essere più accondiscendente di così?»

Si udì all’istante un gemito del rettore del Trinity College. «Oh, no, l’idea mi è insopportabile. Dobbiamo restare a Cambridge senza alcun sostegno? Per citare la Bibbia, Primo Ministro: ’Concedimi ancora il conforto del Tuo aiuto: e dammi forza con il Tuo Spirito libero. Allora insegnerò agli empi la Tua via: e i peccatori saranno convertiti a Te’.»

«Un nobile sentimento, rettore», replicò il Primo Ministro con voce piana. «Non occorre che lei alzi gli occhi al cielo per ricevere l’aiuto che brama. Se prova a guardare alla sua sinistra, troverà un immediato rimedio alla sua preoccupazione. Mi riferisco naturalmente al professor Waldheim. Lo nomini ordinario del Cavendish e avrà immediatamente la giusta lunghezza d’onda, dopo di che tutto procederà alla massima velocità.»

«Ah, ma non è così semplice…» cominciò Kurt Waldheim.

«E’ semplice, professor Waldheim. Dopo tutto, questo è il vostro progetto, di voi due signori. La mia parte consiste solo nel mostrarvi come realizzare nel modo migliore quanto volete fare con tanto impegno.»

«Mia moglie», annaspò Kurt Waldheim, «ecco, vede, lei dispone di molti voti, il che in una casa democratica può creare qualche difficoltà.»

«Concedetemi di seguire i precetti del rettore», continuò il Primo Ministro, senza lasciarsi smontare, «citando il vecchio detto: ’volere è potere’. Il che ci porta al termine dei lavori ricordando che su consiglio di Sir Harry la grave faccenda degli indennizzi alle persone rimaste ferite al Cavendish Laboratory dovrà essere sistemata direttamente tra il professor Newton e me. Contrariamente a una nota osservazione di William Cobbett, che tutti ricordano, possiamo dire, penso, di aver fatto oggi un bel lavoro, per di più utile», concluse il Primo Ministro, chiudendo rumorosamente le cartelle sparse intorno a lui, come per dire che tutto era ormai deciso e fatto.

Dieci minuti più tardi, il Primo Ministro, il Cancelliere e Sir Harry Julian stavano ritornando a Londra a bordo di una grande berlina nera guidata da un autista. Prima di andarsene, il Cancelliere disse: «Restate qui finché vi fa comodo». Poi agitò cordialmente la mano e se ne andò.

«Oilà», tuonò il rettore, «un ingegnoso espediente, se mai ne ho visto uno. Come nel caso degli uccellini che seguono con l’occhio lo sparviero in volo, la tentazione è quella di disperdere le nostre forze. Waldheim di nuovo a Ginevra, noialtri tre di corsa a Cambridge. Ma abbiamo preso alloggio all’albergo per la prossima notte perché pensavamo che la riunione si protraesse fino a domani, senza immaginarci che il governo si preparava a spendere centinaia di milioni, se non miliardi, di sterline per se stesso. Io propongo, cittadini di Roma, di fermarci qui per la notte anziché disperderci nella direzione dei quattro venti. Propongo di rifugiarci all’albergo per consultarci come si deve. Confidiamo in Dio e teniamo all’asciutto il tabacco per le nostre pipe di guerra!»

48

Quando Frances Margaret, Kurt Waldheim, il rettore del Trinity e Isaac Newton scesero nella sala da pranzo dell’albergo, trovarono un tavolo riservato per loro sul quale erano state posate quattro bottiglie di vino già aperte. Due di queste — di vino bianco — si trovavano in un secchiello di ghiaccio.

«Non so cosa farete voialtri», annunciò il rettore prendendo una sedia, «ma io sono deciso a sbronzarmi.»

«Tramonto della fanciullezza», disse Frances Margaret sedendo accanto al rettore. «In realtà è finita con l’esplosione, non è così?»

««Fin de siècle»», annuì il rettore, versandosi da bere da una delle bottiglie di vino bianco. «Per antipasto ho ordinato salmone. Non vale la pena di preoccuparsi delle portate perché abbiamo troppe cose da dirci. Siamo vittime di un’astuta manovra. Ma il buon senso mi dice che non possiamo fare gran che per opporci.»

«Io posso rifiutare», disse Isaac Newton in tono conciso.

«Lei non può e sa che non può. Tanto per cominciare, la gente direbbe che si è perso di coraggio nello scontro con la burocrazia governativa. Inoltre le sfuggirebbe di mano tutto: la costruzione di quei dannati telescopi e anche la facoltà di scegliere i punti dove devono essere collocati; una serie di battaglie tutte perse. No, lei si trova in una via senza uscita e lo sa», asserì il rettore cominciando a bere il vino.

«E’ meglio riflettere sui risultati che possiamo ottenere, e quando potremo ottenerli», osservò Kurt Waldheim.

«Se si trattasse solo di stare a capo di un organo governativo col compito di costruire telescopi, le prospettive non sarebbero tanto brutte. Ma il CERC ha le mani in pasta in ogni ramo della scienza britannica», rispose Isaac Newton con aria cupa.

«In tal caso avrai occasione di costringerlo a tirare le mani fuori della pasta!» fece Frances Margaret con un sorriso che non si rivelò di grande aiuto.

«Neppure questo è possibile. La caratteristica più notevole della burocrazia statale è la sua eccezionale capacità di ostacolare validamente chiunque voglia introdurre dei cambiamenti.»

«Questo lo diciamo tutti», convenne il rettore, versandosi altro vino, per continuare: «Ho intenzione di ubriacarmi. Così posso buttare per aria tutto». Bevve d’un fiato quant’era nel bicchiere e poi emise un gemito. La cameriera che stava portando il salmone rimase costernata.

«Oh, no, non lo sopporto. Che tormento! Proprio quando vedevamo in lontananza le torri dell’Eldorado. Non lo sopporto!»

«Neppure Rosie lo sopporterà. Non esistono montagne coperte di neve intorno a Cambridge», disse Kurt Waldheim, anche lui in tono cupo.

«Quant’è buffa la vita», osservò Isaac Newton. «Non volevo tornare a Cambridge, e ora non voglio andarmene.»

«Ci si affeziona», convenne il rettore.

«Senti, Kurt, tu mi hai chiesto quali risultati possiamo ottenere. Te lo dirò io. Conoscendo l’inerzia delle istituzioni umane, possiamo arrivare a costruire circa dieci telescopi all’anno quando in realtà ne dovremmo costruire centinaia. Possiamo farlo restando aggrappati alle redini e stringendo i denti, circondati dalle risate ululanti di chi ci sta intorno.»

«Contumelia è la parola corretta», riuscì a interpolare il rettore nello sconsolato discorso di Isaac Newton.

«Possiamo ottenere che i telescopi vengano collocati nei punti giusti e possiamo organizzare un gruppo di università incaricate di controllare l’impiego di questi strumenti. Possiamo fare progressi nella decifrazione. Così, quando arriveremo all’età di andare in pensione, la faccenda potrà continuare da sola per inerzia. Tutto questo supponendo che riusciamo a evitare cambiamenti di governo. E sempre ammesso che le superpotenze non si sterminino a vicenda, trascinando con sé il resto del mondo.»

«Non è tanto divertente come la scienza pura», annuì Kurt Waldheim. «Toccherà a te, Isaac, persuadere Rosie. Io so di non poterlo fare.»

«Andrai al Cavendish?» chiese Frances Margaret.

«Non me l’hanno ancora chiesto», disse Kurt Waldheim eludendo la domanda.

«No, ma il Primo Ministro arriva lontano.»

«Dovrei accettare, data la situazione. Se Rosie lo permetterà, del che dubito. Domani devi tornare con me a Ginevra, Isaac.»

Il rettore riempì i bicchieri di tutti.

«Mangiamo, beviamo e godiamocela. Perché il mondo non va mai per il verso che vorremmo noi? Temo che siamo stati vinti da una tattica superiore, non in combattimento. Oh, no, non la sopporto, l’idea di una simile disgrazia.»

«Non sono tanto sicura che abbia ragione a questo proposito», osservò Frances Margaret.

«Si spieghi, incomparabile fanciulla.»

«Beh, tanto per cominciare, hanno convenuto di finanziare il programma, il che non era affatto scontato. E poi, tutto adesso è a un livello più alto, per orribile che possa sembrare. Per far marciare quest’iniziativa come si deve, bisogna agire dall’alto. Inoltre c’è qualcosa di cui vi state dimenticando tutti quanti.»

«Di che cosa ci stiamo dimenticando, Frances Margaret?» chiese Kurt Waldheim.

«Delle comete. Voi tutti, sembra, date per scontato che quelle si accontenteranno di restare passive.»

«Un’osservazione intelligente, ma che cosa possono fare quegli accidenti?» chiese il rettore.

«Non lo so, naturalmente. Ma se là, nello spazio, esistono davvero menti formidabili, mi aspetterei da esse prima o poi una manifestazione clamorosa. Non penso che resteranno con le mani in mano per lasciare a noi meschinelli il compito di sopportare tutto l’onere.»

49

Il generale a cinque stelle incontrava sempre difficoltà quando andava dal Presidente, specialmente se questi lo riceveva nella Stanza Ovale. Per il generale era una questione di principio quella di sparpagliare la cenere del suo sigaro ovunque andasse. Gli ufficiali da lui dipendenti arrivavano al punto di affermare, parlando naturalmente «in camera caritatis», che tutta la carriera del generale era basata in realtà su questa piccola idiosincrasia. Nella Stanza Ovale, comunque, il generale manifestava di solito la sua deferenza nei confronti del Presidente servendosi ostentatamente di un portacenere. Ma non questa volta, perdio, tanto più che in quest’occasione non aveva alcun asso nella manica. Inoltre stavolta gli toccava ascoltare un impiastro come il Segretario di Stato con i suoi discorsi, come al solito, a vanvera.

«Il problema, signor Presidente», disse il Segretario di Stato aggiustandosi gli occhiali cerchiati d’acciaio, «è quello di vedere quali altre misure, oltre a quelle già in atto, possiamo prendere per esercitare una pressione sulla sterlina. Il bilancio in rosso e i nostri elevati tassi d’interesse l’hanno già fatta scendere. Inoltre, la bilancia commerciale britannica è in attivo, per cui gli elementi più importanti sono a loro favore. L’esperienza dimostra che non bisogna prendersela con gli elementi fondamentali. Una lieve pressione, somministrata con delicatezza, magari sì, ma questa non può essere la nostra azione principale, temo», concluse il Segretario di Stato in tono sommesso proprio quando una scarica del sigaro del generale finiva sul tavolo, sparpagliando la cenere nella sua direzione.

«Maledizione, non può farli pagare sangue per ogni dollaro che possiedono? Gli inglesi hanno bisogno di dollari come tutti», esplose il generale.

«Non ne hanno bisogno», replicò il Segretario di Stato con tutta la fermezza di cui fu capace, soffiando vigorosamente sulle proprie carte per far volare via la cenere del sigaro.

«E’ questo il punto importante», continuò la signora che occupava la carica di Segretario per il Commercio, parlando con il naso chiuso. «Vede, generale, gli inglesi hanno il greggio. Così, a differenza di altri, non hanno bisogno di dollari per comprarlo. Anzi, fanno dei bei guadagni in dollari, vendendo il greggio, per cui a loro conviene che il dollaro sia alto. Né hanno bisogno di dollari per prodotti alimentari, perché l’Europa è sommersa da montagne di carne e burro nonché da oceani di grano e laghi di whisky, birra e vino. Può darsi che gli inglesi abbiano bisogno di dollari per certi tipi di armi, ma fino adesso sembra che il Pentagono sia stato fin troppo contento di passare le sue armi più moderne e micidiali all’Inghilterra senza chiedere un soldo. Tanto per dirgliene una, noi diamo dollari agli inglesi persino per mantenere le nostre forze armate in Inghilterra dove queste provvedono alla manutenzione, sempre gratis, di tutte le armi che il Pentagono manda in continuazione in quel paese. A bordo di navi inglesi, senza dubbio, un’operazione per la quale gli inglesi riscuotono altri dollari. Questa è la situazione creata dal Pentagono, generale. A lei non rimane che dormirci sopra insieme coi suoi eccellenti sigari.»

«Sì, beh, esaminiamo per gradi questa situazione», suggerì il Presidente con un tono destinato a placare gli animi esagitati.

«Non è possibile esaminarla per gradi, signor Presidente!» esclamò il generale, esterrefatto. «C’è in ballo la sicurezza degli Stati Uniti.»

«Secondo me non esiste alcuna prova che il fatto che gli inglesi siano intenti a chiacchierare con quella cometa ci possa arrecare il minimo danno», precisò il Segretario per il Commercio con il naso sempre chiuso.

«Perché, allora, lo fanno servendosi di un cifrario indecifrabile?» chiese il generale con la voce rombante di un vulcano alla vigilia di un’eruzione mentre espelleva dalla bocca una grande nube di fumo nella speranza di soffocare la signora con un parossismo di tosse.

«Ha detto indecifrabile, generale?» chiese il Segretario di Stato in tono volutamente retorico. Ora, dopo aver liberato le sue carte dalla cenere, si fece di nuovo attento. «Pensavo che il Pentagono riuscisse a decifrare qualsiasi cosa.»

«Tutti sanno che esistono i codici indecifrabili, e questo è da annoverarsi in tale categoria. Il che dimostra molto bene che cosa bolle in pentola», replicò il generale, convinto di aver messo a segno un buon punto.

«Sembra strano, davvero strano», convenne il Presidente. «E’ difficile spiegarsi perché un codice indecifrabile dovrebbe essere usato, a meno che non si tratti di una cosa molto importante.»

«Esattamente, signor Presidente», incalzò il generale. «E’ ben difficile che lo facciano per scambiarsi baci, gli inglesi e la cometa.»

«L’idea eccita la mia fantasia», disse il Segretario per il Commercio soffiandosi rumorosamente il naso in un fazzolettino di carta.

Il generale diede il via a una nuova poderosa eruzione di fumo che indusse il Segretario di Stato ad appoggiarsi allo schienale della poltrona e a domandarsi se l’infernale sigaro e le micidiali nubi potessero rivelarsi efficaci contro la più sottile astuzia del Segretario per il Commercio che stava diffondendo sicuramente milioni di particelle virali nell’atmosfera. Mentre faceva questa riflessione, bevve un sorso d’acqua notando con disgusto che minuscole particelle di cenere stavano galleggiando nel bicchiere. Non gli restava altro che far scendere le particelle virali dalla gola nello stomaco dove, trattandosi di virus del raffreddore, non potevano combinare molti guai. Da una tasca interna della giacca estrasse un taccuino annotando che doveva fissare un appuntamento con il medico. Una visita di controllo non poteva fargli male; il Segretario per il Commercio si soffiò di nuovo il naso in un fazzolettino di carta, ma più discretamente di prima.

«Se invece di procedere a tentoni, lei ci raccontasse come stanno le cose e quali sono i suoi progetti?» suggerì il Presidente guardando il direttore della CIA.

Questi aveva una grande zazzera bianca e vivaci occhi azzurri. Tutti a Washington nutrivano per lui molta stima, a cominciare dal Presidente, per l’abilità con la quale aveva accaparrato vari anni prima il mercato mondiale del pepe, estromettendo da Zurigo un’organizzazione multinazionale messa in piedi da un uomo che si faceva passare per Kaufman Saint John, uno pseudonimo quanto mai buffo.

«La posizione britannica è insieme forte e debole», cominciò il direttore della CIA con voce incisiva.

«Come può essere nello stesso tempo forte e debole? Parlando di sé, lei direbbe forse di essere nello stesso tempo alto e piccolo?» chiese il Segretario per il Commercio in tono caustico con la voce femminile stranamente alterata dal raffreddore di testa.

Prendendo mentalmente nota del fatto che la dichiarazione dei redditi della signora doveva essere esaminata in maniera più che esauriente, il direttore della CIA continuò: «La posizione è forte perché la conoscenza del sistema di cifratura usato per comunicare con la cometa di Halley è limitata a pochissimi individui in un luogo unico».

«Dove?» chiese il Presidente.

«Al Cavendish Laboratory a Cambridge, in Inghilterra.»

«E gli individui?»

«Sono il professore che occupa la cattedra, alcuni suoi diretti collaboratori, e un tedesco che lavora a Ginevra. Ho le fotografie di tutti», replicò il direttore della CIA, consegnando al Presidente una busta. Questi ne esaminò con indifferenza il contenuto finché non si vide davanti una foto di Frances Haroldsen, al che esclamò: «Per tutti i diavoli! Conosco questa donna. Non aveva affatto l’aria di un’esperta di cifrari. Sembrava più una giornalista».

«Senza dubbio, signor Presidente», annuì il direttore della CIA, «ma ci sono alcuni piccoli particolari interessanti a proposito di questa giovane donna che probabilmente le farebbe piacere sapere. E’ la figlia dell’ex capo del Servizio Informazioni della Marina inglese. Prima scoperta. Di recente è stata assunta provvisoriamente al Goddard Space Flight Center. Seconda scoperta. Lo stesso giorno in cui il generale qui presente prese in mano le redini del Programma Cometa Halley — ricorderò che è stato lei, signor Presidente, a ordinarlo — la giovane signora lasciò il Goddard senza farsi viva con l’amministrazione. Abbiamo cominciato a provare una certa curiosità per lei non appena questo fatto ci è stato riferito, per cui abbiamo preso immediatamente le misure per scoprire come ha fatto a uscire dagli Stati Uniti. Lo ha fatto da vera professionista. Terza scoperta, signor Presidente.»

Il generale a cinque stelle calò un pugno sul tavolo con violenza, chiedendo a voce alta, mentre la cenere si sparpagliava in tutte le direzioni: «Che cosa è riuscita a portarsi via?»

«In realtà non lo sappiamo, generale. Abbiamo intercettato un nastro del Goddard Center nella valigia diplomatica britannica.»

«Allora lo sapete», insisté il generale spegnendo rabbiosamente il sigaro sulle carte appartenenti al Segretario di Stato.

«No, non lo sappiamo, generale», ripeté il direttore della CIA, «perché il nastro era privo di registrazioni.»

««Aha»!» gracidò il Segretario per il Commercio sparpagliando altre particelle virali in prossimità del Segretario di Stato.

«Questo è grave, molto grave», disse il Presidente con un’espressione seria sul volto.

«Perché è grave, signor Presidente?» chiese il Segretario per il Commercio tirando su con il naso. «Pensavo che il nastro privo di registrazioni non fosse affatto una cosa grave.»

Tutto questo minacciava di provocare un travaso di bile nel Segretario di Stato. Visto che l’economia degli Stati Uniti andava a gonfie vele, il Segretario per il Commercio poteva permettersi il lusso di essere irriguardosa, persino parlando con il Presidente, che non poteva rischiare un suo licenziamento in vista delle imminenti elezioni. La situazione nella quale versava la Segreteria di Stato era invece completamente diversa, con tutti i disastri che succedevano nel mondo ogni mese se non ogni settimana. Il Segretario di Stato bevve un altro sorso d’acqua, badando anche stavolta a sciacquare bene la gola, in maniera da far finire nello stomaco le particelle virali.

«Perché era una pista falsa», spiegò il direttore della CIA al Segretario per il Commercio come se fosse una bambina.

«Beh, questo significa per lo meno che possiamo procedere senza tanti scrupoli, con la coscienza pulita. Che cosa propone lei?» chiese il Presidente.

«Ho detto che la posizione era insieme forte e debole.»

«Perché debole?»

«Perché il Cavendish Laboratory di Cambridge è molto esposto.»

«Niente reticolati ad alta tensione tutt’intorno?» chiese il generale.

«No, niente reticolati.»

«In che cosa consiste allora il problema?»

«Eccolo. Circa tre settimane fa il laboratorio ha subito un attentato, è esplosa una bomba. Qualcuno ha cercato di portarsi via il cifrario, ma è fallito nell’impresa. Ne siamo abbastanza sicuri.»

«Chi è stato, i nostri bestiali amici simili a orsi?» chiese il Presidente.

«Ci sono varie possibilità. Il K.G.B. ne rappresenta ovviamente una, ma ve ne sono altre che ho in mente. Dopo l’esplosione hanno messo delle guardie.»

«E allora?» chiese il generale.

«La guardia è costituita da truppe dell’Esercito in assetto di combattimento, generale, e lei sa meglio di me che cosa significa questo.»

«Che cosa significa?» chiese il Segretario per il Commercio prima di esplodere in un formidabile sternuto.

«Significa che sono addestrate ad ammazzare la gente», le disse il Segretario di Stato in tono lugubre.

«C’è di peggio», continuò il direttore della CIA, «significa che un’infiltrazione è molto difficile. Se gli inglesi si fossero serviti di uno dei loro organi di sicurezza abituali, la situazione non sarebbe stata così brutta.»

«Che cosa c’è allora di tanto sicuro quando si parla di organi di sicurezza?» chiese il Segretario per il Commercio, al che il direttore della CIA lanciò un’occhiata al Presidente nella speranza che questi avrebbe allontanato a calci nel sedere quella donna che non capiva niente.

Ma il Presidente si limitò a osservare: «Beh, questo significa che dobbiamo procedere per gradi. Con un po’ di pressioni economiche e diplomatiche, e anche un po’ di infiltrazione a Cambridge, naturalmente. Cerchiamo di fare del nostro meglio».

«Questo è grave, signor Presidente! Siamo alle prese con una crisi!» tuonò improvvisamente il generale a cinque stelle, scagliando in aria il sigaro con tale abilità da farlo finire dritto in un cestino dal quale ben presto cominciarono ad alzarsi volute di fumo. Il fuoco venne spento dagli assistenti del Presidente.

«Qui non si sa dove andremo a finire», continuò il generale senza rendersi conto della perspicacia di cui stava dando prova.

«Sì, beh», continuò il Presidente con la solita voce suadente che piaceva tanto agli elettori, «speriamo che tutto finisca bene.»

«Tutto è bene ciò che finisce bene», annuì il Segretario per il Commercio con una voce che stava diventando sempre più gracidante.

«Lei con quel raffreddore dovrebbe andare a letto», disse il Segretario di Stato.

«A letto, già», fece lei con un sorriso lascivo, lasciando il Segretario di Stato ad aggiustarsi sul naso gli occhiali cerchiati d’acciaio.

50

Per ogni cometa come si deve che diventa un argomento di primo piano per i mass media ve ne sono molte piccole di cui nessuno parla. La cometa X sarebbe appartenuta a queste ultime se non fosse stato per un notevole avvicinamento alla Terra e per la sua scoperta, avvenuta per puro caso, da parte di un astronomo giapponese. L’avvistamento venne poi confermato dall’osservatorio di Tonanitla nel Messico e da un osservatorio sovietico nel Pamir. Le maggiori istituzioni astronomiche mondiali, invece, non si fecero vive, impegnate come erano in una faccenda che a loro sembrava più importante. Inoltre, l’Europa era coperta quasi interamente da grosse nubi durante i pochi giorni critici in cui la cometa X avrebbe potuto essere vista dai molti osservatori dilettanti del continente.

Qualcosa come cinque settimane dopo il passaggio della cometa X, una riunione del Politburo dovette occuparsi ancora una volta di un argomento insolito. Alla riunione presero parte due estranei, Igor Lobocevski, professore di microbiologia all’Università di Mosca, e Aleksandr Krilov della divisione extraterrestre del K.G.B. Entrambi occupavano una posizione abbastanza elevata nella «nomenklatura» perché le loro mogli venissero lasciate passare dai poliziotti che sorvegliano il centro speciale di acquisti di Via Granovskij. Ma nessuno dei due valentuomini si aspettava neppure lontanamente di essere chiamato a partecipare, anche per occuparsi di un solo argomento, a una riunione del Politburo. E’ comprensibile, quindi, che fossero piuttosto innervositi, tanto più quando videro che uno dei membri sembrava aver l’abitudine di fagocitare grandi quantità di aria. Si trattava dell’ex Numero Undici che, nelle poche settimane trascorse dall’ultima riunione già descritta, era stato retrocesso a Numero Dodici. L’ex Numero Dodici, in piena ascesa, occupava ora l’undicesimo posto, per cui era ormai alle costole del Numero Dieci, il membro che aveva una certa tendenza a tagliarsi con i rasoi Bic importati dall’estero.

Igor Lobocevski e Aleks Krilov contavano più per il nome che portavano che non per la posizione che occupavano nella scala gerarchica poiché ognuno si era distinto a modo suo creandosi una base per sopravvivere nel sistema sovietico. Lobocevski era sopravvissuto per quasi quarant’anni all’oltraggioso sistema per cui è impossibile comunicare senza servirsi dell’ascensore tra un piano e l’altro nell’edificio che ospita l’Università di Mosca, un palazzo noto tra gli architetti come un esempio dello stile tardo-grottesco a causa della sua forma. Igor Lobocevski non aveva mai trovato il coraggio di calcolare il tempo sprecato nell’attesa degli ascensori, talmente inefficienti da essere diventati proverbiali persino nell’Unione Sovietica. Si accontentava invece di pensare alla sua piccola dacia in campagna, un centinaio di chilometri a ovest di Mosca. Era una dacia a un solo piano, priva di ascensore. Questo era il modo in cui la gente viveva prima che le saltasse in mente di costruire palazzi con più di cento piani, sormontati da una stella rossa che si accendeva alla sera. Sulla dacia di Igor Lobocevski non svettava alcuna stella rossa né era probabile che svettasse in futuro a meno che non lo ordinasse il Comitato Centrale, una cosa improbabile.

Aleks Krilov si considerava fortunato perché lavorava più per le sezioni civili della divisione extraterrestre (VOK) che per le sezioni più losche. Questo significava che era occupato più che altro a setacciare e riordinare le informazioni sul mondo che vengono pubblicate apertamente sui giornali non comunisti d’Europa e d’America. Informazioni all’apparenza semplici, che debitamente assortite e messe in relazione l’una con l’altra potevano essere utili al K.G.B. Occupava il 173esimo posto nella chilometrica classifica dei giocatori di scacchi sovietici, per cui apparteneva alla classe dei campioni. Siccome era residente a Mosca ed era per di più nella manica del Partito, poteva partecipare a tutti i tornei più importanti di scacchi, e una volta ebbe modo — occasione unica — di sconfiggere uno dei massimi campioni sovietici. Aveva una massa di capelli neri che si alzavano dritti dalla fronte come un berretto o un cappello, a differenza di Igor Lobocevski i cui capelli, che incorniciavano una faccia tonda, erano lisci e grigi. Entrambi indossavano completi espressamente stirati per l’occasione, abiti scuri così simili per tessuto e taglio che nel mondo non comunista i due uomini sarebbero stati scambiati per rappresentanti della stessa multinazionale. E tutti e due avevano da raccontare qualcosa d’interessante.

Igor Lobocevski aveva ritenuto più sicuro preparare una minuta che si mise a leggere con voce priva di qualsiasi sfumatura. In questo modo non avrebbe mai potuto essere accusato — come avevano stabilito lui e sua moglie dopo una lunga discussione — di lasciar intendere, anche senza dirle, cose inopportune.

«Il giorno 3 maggio», cominciò, «una strana malattia è scoppiata nella città di Onega che si trova in cima al Golfo di Onezskaja sul Mar Bianco, circa centocinquanta chilometri a sud-ovest della città di Arkhangel’sk. La forma curiosa della malattia è ben descritta dall’ateniese Tucidide con le seguenti parole: ’… la febbre interna era intensa, i pazienti non sopportavano di aver indosso il minimo indumento, neppure di lino; volevano restare nudi a tutti i costi e bramavano soprattutto di gettarsi nell’acqua fredda… Erano tormentati da un’incessante sete che non poteva essere estinta né bevendo molto né bevendo poco. Non riuscivano a trovare il modo di riposare e soffrivano tutti di insonnia…’»

Lobocevski sollevò per un attimo lo sguardo dopo aver finito la citazione, per riprendere poi con la stessa voce monotona: «Io, Igor Lobocevski, sono stato chiamato dal Comitato Centrale guida dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica per investigare su tale epidemia. Questo perché ho fatto degli studi sull’ergotismo, una malattia con sintomi simili a quelli prodotti da quella appena citata. L’ergotismo, conosciuto anche come fuoco di Sant’Antonio, è causato da un fungo chiamato «Claviceps purpurea», talvolta presente nella farina usata dai fornai. La malattia è dovuta alla consumazione di prodotti da forno, di solito il pane.

«Il 7 maggio ho raggiunto da Mosca la città di Onega dove ho esaminato, assieme ai medici locali, un certo numero di persone che soffrivano di questa malattia. A prima vista vi erano delle analogie con l’ergotismo, ma c’erano anche discrepanze che hanno generato in me il sospetto che potesse trattarsi di qualche altra malattia. A questo scopo sono stati compiuti esami virologici su tamponi e altri campioni che sono stati immediatamente spediti a Mosca. Qui i compagni dell’Istituto di Virologia hanno isolato una nuova forma di virus dell’erpete, conosciuto come ’pseudorabbia’, che provoca nel bestiame una malattia chiamata ’prurito folle’.

«Mi rimane da porre termine alla mia testimonianza con una nota più allegra», continuò Lobocevski nella voce atona di sempre. «A differenza dell’ergotismo, che ha gravi conseguenze sulla circolazione del sangue, con fenomeni di gangrena nelle gambe, nel naso e nelle orecchie, la nuova malattia aveva un decorso blando per cui i pazienti non lamentavano con il passar del tempo alcun inconveniente. I particolari tecnici sono citati nell’appendice della mia relazione».

Non appena Lobocevski ebbe indicato con un cenno della mano di aver finito, il Numero Uno gli chiese: «Concludendo, compagno Lobocevski, mi dica sotto quale aspetto questa malattia era anomala».

«Era anomala a causa dell’intensità degli attacchi, della stranezza dei sintomi e della nuova forma del virus patogeno.»

«Era facile da diagnosticare la malattia?»

«Una volta descritta non ci potevano essere fraintendimenti, compagno.»

«Prima di chiedere al compagno Lobocevski di lasciare la riunione, ci sono altre domande?» continuò il Numero Uno.

Seguì un breve silenzio, spezzato dopo pochi secondi dal nuovo Numero Undici, già Numero Dodici, il quale fece una domanda così pertinente e improntata a una tale sicurezza da destare preoccupazioni nei membri fino al Numero Sette.

«Era infettiva la malattia?»

«Non da quanto ha potuto osservare chi l’ha seguita», rispose Lobocevski il quale poi, a un breve cenno del Numero Uno, lasciò l’aula con la sensazione di aver superato un ostacolo senza combinare guai.

«Ora sentiamo il compagno Krilov del VOK che parlerà alla luce di ciò che avete appena sentito», annunciò il Numero Uno, indirizzando lo stesso breve cenno con il capo ad Aleks Krilov.

«Il giorno 21 maggio», cominciò Aleks Krilov, «il computer del VOK, impegnato nella ricerca di relazioni e nessi di eventi su scala mondiale…»

«Di quale natura?» intervenne il Numero Undici, sempre sicuro di sé.

Troppa grinta. Quello va in cerca di guai e magari, con un po’ di fortuna per noi, finisce nella merda, pensò dentro di sé il Numero Cinque.

«Di qualsiasi natura», precisò Aleks Krilov. «Nel caso presente, i due eventi in relazione erano due esplosioni di epidemie, quella di Onega, della quale avete appena sentito parlare, e un’epidemia all’apparenza simile sull’Isola di Marion nell’Oceano Indiano meridionale. L’isola di Marion è amministrata dal Sudafrica e noi abbiamo sul posto un agente, tenuto perfettamente al sicuro, per ovvie ragioni.»

«Per seguire un eventuale esperimento nucleare del Sudafrica», intervenne ad alta voce il retrocesso Numero Dodici senza rivolgersi a nessuno in particolare, per concludere la perentoria interruzione con un profondo respiro, come se stesse inghiottendo aria, il che fece venire improvvisamente in mente ad Aleks Krilov il proverbio che stava cercando di ricordare sin da quando aveva notato il Numero Dodici all’inizio della seduta: «ciò che cade dal carro è perduto».

«Non c’erano dubbi sull’analogia della malattia?» chiese il Numero Due.

«Le descrizioni erano sufficientemente simili perché il computer le notasse», continuò Krilov. «Ma quando ho cominciato a interessarmi di ciò che aveva scoperto il computer, ho voluto andare più a fondo. Così ho constatato, entro i limiti nei quali ho potuto investigare, che si trattava della stessa malattia. A questo punto è stato naturale dare l’avvio a una ricerca allargata a tutto il mondo per ottenere altre notizie sull’argomento. Per fortuna, è stato lanciato un allarme Alfa, data la singolare stranezza della situazione.»

«Perché era considerata tanto strana?» chiese il Numero Uno.

«Perché entrambe le epidemie si sono verificate in luoghi più o meno isolati, separati da un’enorme distanza: latitudine sessantaquattro gradi nord per Onega e quarantasette gradi sud per l’Isola di Marion. Ma entrambe le località si trovano quasi esattamente sullo stesso meridiano. Sembrava strano, la stessa malattia insolita.»

«Continui», grugnì il Numero Due.

«La malattia che il compagno Lobocevski ha descritto come una specie di ’prurito folle’, dà molto nell’occhio. La gente geme e si lamenta e si sbarazza degli indumenti», continuò Krilov. «Così ho pensato che se ne sarebbe parlato, se dei casi si fossero verificati altrove. Di conseguenza, il mio piccolo dipartimento ha lanciato l’allarme Alfa ai nostri agenti in tutto il mondo perché fornissero informazioni sulla comparsa della malattia. Per farla breve, abbiamo constatato solo altre due epidemie, anche queste localizzate nei punti più strani, entrambi remoti come le prime due località. La terza segnalazione ci è pervenuta dall’estremità orientale delle Isole Salomone nell’Oceano Pacifico, e la quarta dalle Galapagos al largo della costa sudamericana, pure nell’Oceano Pacifico.»

«Perché dobbiamo prendercela tanto, se finora la malattia non ha fatto male a nessuno?» chiese il Numero Dodici con un singhiozzo non dissimile da un rutto.

«Perché sembra l’ideale della guerra biologica, compagno, capace di indurre interi eserciti a gettar via le armi e a liberarsi delle uniformi», rispose Krilov.

Il Numero Dieci si seccò perché avrebbe voluto difendere la sua posizione contro l’avanzante Numero Undici con questa risposta piena di buon senso.

«Continui», grugnì di nuovo il Numero Due.

«La cosa veramente sorprendente nel caso dello scoppio della terza e della quarta epidemia è che si siano manifestate quasi sullo stesso parallelo. Le prime due sono comparse lungo lo stesso meridiano e le seconde due alla stessa latitudine.»

A Krilov fu chiesto a questo punto di spiegare la curiosa circostanza, al che egli chiese a un fattorino di mettere sul tavolo un grande pacco che aveva portato con sé. Tolto l’involucro del pacco davanti al Numero Uno, comparve un globo di materia plastica blu sulla cui superficie erano tracciati in rilievo i contorni dei continenti e degli oceani della Terra. Il mappamondo conteneva una pila elettrica e altri dispositivi, e quando Krilov schiacciò il pulsante di una piccola radiotrasmittente che teneva in tasca, quattro luci si accesero in vari punti sulla superficie del globo.

«Ecco i punti dove il male si è manifestato, uno nella nostra remota città di Onega a nord, gli altri su remote isole oceaniche. Quando ho segnato tutt’e quattro i punti sul mappamondo, come si vede qui, sono rimasto impressionato dalla regolarità nel dislocamento di questi punti. Al principio ero un po’ incredulo di fronte a ciò che gli occhi tentavano di dirmi, ma poi, improvvisamente, mi sono accorto che se i quattro punti venivano collegati con rette attraversanti la Terra, la figura così ottenuta sarebbe stata un tetraedro.»

Al che, Krilov schiacciò un secondo pulsante e sei rette si accesero all’interno del globo congiungendo i punti indicati sulla superficie. Dimostrata così la disposizione in maniera pratica, la regolarità del tetraedro risultava ovvia.

Si udì un forte mormorio intorno al tavolo e il Numero Due espresse ciò che tutti provavano in poche parole, come faceva di solito: «Questo dev’essere stato un fenomeno provocato di proposito, compagno Presidente».

Con molta audacia, Aleks Krilov ruppe il silenzio che seguì dicendo: «Lo pensavamo anche noi, compagno Presidente. Perciò abbiamo segnalato le posizioni esatte dove la malattia si era manifestata ai nostri esperti in matematica, chiedendo loro di determinare con esattezza la misura in cui le quattro località corrispondevano ai quattro vertici di un tetraedro regolare ideale. Gli esperti riferirono che la situazione era ideale entro margini ridottissimi. Inoltre riferirono che a causa delle forme irregolari delle masse di terraferma, e poiché le isole negli oceani non possono essere collocate in un ordine esatto, sarebbe difficile trovare quattro località remote che formassero un tetraedro più regolare».

«E’ per questo che ho ritenuto tanto importante prospettare la faccenda al Comitato», intervenne il Numero Tre, un tipo dalla faccia come squadrata da un’accetta, deciso ad approfittare almeno in parte della scoperta di Krilov. Dopo aver in tal modo stuzzicato la curiosità di tutti con l’aiuto del suo subordinato, Krilov, il Numero Tre proseguì: «Noi sappiamo anche che lo scoppio delle epidemie è il risultato di un preciso disegno tenendo conto dei tempi nei quali si sono verificate. Infatti, i fenomeni si sono manifestati contemporaneamente, con uno scarto di un’ora al massimo».

«Ma come sono riusciti gli americani a fare una cosa simile?» chiese il Numero Cinque.

«Con i sommergibili. Come potrà notare, compagno», rispose il Numero Tre, «ognuna delle quattro località, persino la nostra città di Onega, è facilmente accessibile dal mare. Siamo in possesso di una segnalazione ampiamente controllata e confermata nella quale si parla di una specie di palla di fuoco che si è vista sopra la città di Onega nella primissima mattina, e di una simile palla di fuoco sopra l’Isola di Marion nello stesso giorno e ora. Vien naturale pensare che gli americani abbiano fatto esplodere un ordigno biologico contemporaneamente sopra ognuna delle quattro località.»

«Ma perché dovrebbero aver fatto una cosa del genere?» chiese il Numero Uno in tono perplesso. La sua voce era così umana da giustificargli quasi l’assegnazione di un nome. «Capisco», proseguì, «che gli americani possano fare una cosa del genere per sperimentare il loro ordigno contro la nostra città, forse anche per mettere in guardia i sudafricani in relazione all’Isola di Marion, magari persino nel quadro di una controversia con i francesi a proposito degli esperimenti nucleari da questi effettuati nel Pacifico meridionale. Ma perché prendersela con le Galapagos, e perché questa strana organizzazione?» Il Numero Uno puntò il dito sul tetraedro illuminato che stava sul tavolo immediatamente davanti a lui.

«Bisognerebbe pensare che gli americani abbiano voluto fare uno scherzo di chissà quale genere», rispose il Numero Tre stringendosi nelle spalle.

«Gli americani non scherzano. Sono privi di senso dell’umorismo», asserì il Numero Due con voce lugubre.

«In tal caso, il compagno Krilov potrebbe suggerire un’altra teoria che vi andrà forse più a genio», rispose il Numero Tre.

«Dica, compagno Krilov?» fece il Numero Uno.

«Beh, si tratta solo di questo, compagno Presidente. Nello stesso istante in cui questa malattia si è manifestata, nello stesso istante veniva avvistata dal nostro osservatorio astronomico sui monti del Pamir la cometa X che passava vicinissima alla Terra. La coincidenza è suggestiva.»

«Ma una simile opinione implicherebbe l’esistenza di una azione intelligente e deliberata da parte della cometa», obiettò il Numero Due.

«Sì, compagno, proprio così. Ma non è esattamente quello che gli inglesi continuano ad affermare?»

Seguì un lungo silenzio intorno al tavolo, il che instillò in Aleks Krilov la speranza di aver acciuffato per i capelli la fortuna per la seconda volta nella sua vita.

Poi, il Numero Uno pose termine alla discussione con una appropriata osservazione: «La capacità di colpire gli esseri umani con un prurito folle», disse, «in qualsiasi punto specifico sulla Terra rappresenterebbe un potere formidabile e decisivo del quale dovremo occuparci con molta attenzione nell’intento di salvaguardare il pensiero marxista-leninista e gli inalienabili diritti dei lavoratori di tutto il mondo».

51

Un uomo con una faccia che qualcuno non in vena di gentilezze avrebbe potuto descrivere come un pomodoro maturo entrò nella stanza.

«Ah, Jamesborough, ecco che è finalmente arrivato», disse Sir Arthur. Un ventilatore dalle pale molto larghe girava senza posa, appeso al soffitto sopra la sua testa.

«Pensavo che dovesse arrivare Smithfield», osservò John Jamesborough.

«Finora sono stato risparmiato da questa calamità», replicò Sir Arthur con una smorfia. «Allora, che cos’ha da riferirmi, Jamesborough?»

«Un’area di alta pressione proveniente dall’altra parte dell’Atlantico, Sir Arthur.»

«A proposito della faccenda di Cambridge?»

«Sì, Sir Arthur.»

«E Washington, offre un «quid pro quo»? Vuol saperne una, Jamesborough? Quando ero a Harrow ho scritto una volta «quo pro quid». In un saggio. Me ne hanno dette di tutti i colori. A me era sembrata un’uscita piuttosto buffa.»

«Era troppo sottile per loro», annuì Jamesborough la cui faccia sorprendentemente rossa era celata in parte dall’ombra di una grande pianta tropicale simile a una felce che minacciava continuamente di precipitare dall’enorme vaso nel quale era intrappolata.

«La posta in gioco potrebbe essere alta, secondo le nostre spie a Washington. Si parla di un’eventuale riduzione nell’invio degli armamenti al Sudamerica.»

«Il che farebbe molto piacere al Primo Ministro, Jamesborough.»

«Esattamente, Sir Arthur. Sarebbe un bel vanto per noi.»

Si udì bussare frettolosamente alla porta e poi, senza aspettare risposta da Sir Arthur, entrò un omino molto magro, più basso della media, che indossava un abito piuttosto stazzonato. La trascuratezza nel vestire era sottolineata dalla sigaretta che gli pendeva dall’angolo sinistro della bocca semiaperta. Era Smithfield, e il suo aspetto era più scheletrico del solito, rifletté Jamesborough. Come un uomo simile fosse riuscito a farsi assumere dal Foreign Office era un mistero. I cinici di Whitehall dicevano che Smithfield era considerato uno dei membri meno balordi, solo che gli altri spostati sapevano nascondersi meglio. Smithfield infatti non nascondeva le sue qualità eccentriche né metteva in mostra le proprie presunte capacità. Era stato inevitabilmente assegnato all’Ufficio Attività Insolite sotto l’alto patronato di Sir Arthur, a sua volta uscito da Oxford dopo essere stato a Harrow e già presidente del Jockey Club di Ranjipur. Dio salvi l’Inghilterra, amava dire Smithfield, sapendo che Sir Arthur non aveva alcuna possibilità di liberarsi di lui per la semplice ragione che nessun altro lo avrebbe voluto. Inoltre, Smithfield sapeva di essere un tipo longevo, per cui poteva vivere abbastanza a lungo per vedere Sir Arthur sdraiato tra quattro assi, come del resto Jamesborough, che poteva scoppiare da un momento all’altro.

«E’ un bel casino, la situazione nella quale ci troviamo», annunciò Smithfield con aria lugubre sprofondando nella poltrona scelta di proposito perché era la più lontana dalla mostruosità simile a una felce.

«In che cosa consisterebbe questo casino, Smithfield?» chiese Sir Arthur.

«Provi a entrare in quel laboratorio a Cambridge e capirà perché.»

«Che cosa scoprirei?»

«Che non ci vuole niente per farsi accoppare.»

«Ci sono state altre bombe?» si lasciò scappare Jamesborough, venendo meno al suo impegno di non fare mai domande a Smithfield.

«Neanche per sogno. Si fanno proteggere dal SAS.»

«Buon Dio!» esclamò Jamesborough, sorpreso, «devono considerare davvero grave la situazione.»

«Certa gente prende le cose sul serio, anche se qui non sembra», ribatté Smithfield.

«Non sia acido», lo rimproverò Sir Arthur. «Chi ha dato l’ordine di fare entrare in azione il SAS?»

«Il Primo Ministro. Non ci vuole molto per capirlo, non le pare? E’ una domanda che si potrebbe fare ai bambini dell’asilo.»

«Le ho già detto di smetterla, Smithfield», ripeté Sir Arthur.

«La colpa è tutta di quelle pressioni. Il Primo Ministro ha perso le staffe, comprende?» ribatté Smithfield.

«E fa salire la posta, non è così?» disse John Jamesborough, pensieroso.

«Come sarebbe a dire, Jamesborough?»

«Fa sembrare la cosa più importante. Aumenta il «quo pro quid», Sir Arthur.»

«Oh, capisco quello che vuol dire. Sì, ah-ah! Lo fa salire, per Giove. Altri progressi, Smithfield?»

«Un passo avanti, due indietro. Se questo lo chiama progresso… La polizia collabora e ora sappiamo chi ha provocato l’esplosione a Cambridge.»

Smithfield s’interruppe per accendere un’altra sigaretta e ci mise un po’ di tempo.

«Sto aspettando», disse finalmente Sir Arthur. «I russi, immagino?» chiese.

«I russi non prendono sul serio questa faccenda. Non ancora, comunque. Naturalmente hanno sguinzagliato in giro degli agenti, ma quelli hanno agenti dappertutto. Sembra che i fottuti russi abbiano più agenti di tutta la razza umana messa insieme. Ma non sono stati loro. Provi ancora.»

«Da quanto sentiamo in giro, gli americani sono molto interessati.»

«Gli Yankees sono capaci, sì, di andar giù duro, ma in posti lontani come il Panama o Timbuctù. A Cambridge non lo farebbero perché l’opinione pubblica potrebbe esserne informata e in tal caso quelli che sperano nell’elezione sarebbero finiti. Gli Yankees tenteranno naturalmente di dare addosso alla sterlina, come fanno sempre. Così, se lei ha intenzione di investire il patrimonio di famiglia, sa come regolarsi», sentenziò Smithfield soffiando due sottili fili di fumo attraverso le narici.

«E noi, in quale posizione veniamo a trovarci?»

«Non ci resta che trattare con il mediatore. Vendere a chi offre di più. Riesce ad arrivarci?»

«Non ho detto…»

«Di essere meno acido, sì. Il fatto è che sono pieno di bile.»

«Lei mi sbalordisce», interloquì Jamesborough.

«Non si preoccupi per me», fece Smithfield con un ghigno sarcastico. «Sono così sin dalla nascita.»

«Sappiamo chi è il mediatore?»

«No, noi non lo sappiamo, ma io lo so», replicò Smithfield. «Un tipo da prendere con le molle. Opera stando in Svizzera. Come fanno tutti quelli della stessa risma…» S’interruppe quando vide Sir Arthur guardare improvvisamente in alto, rimanendo con la bocca spalancata. Per un breve attimo, pensò che si trattasse di un infarto. Poi vide che le pale del ventilatore avevano smesso di girare.

«Maledizione!» esclamò Sir Arthur, «è saltata la corrente.»

A questo punto qualcuno bussò con energia alla porta. Quando Sir Arthur ebbe risposto, la porta si aprì ed entrò una ragazza. Un osservatore occasionale avrebbe potuto scambiarla per Frances Haroldsen. La ragazza mise alcuni fogli sulla scrivania davanti a Sir Arthur.

«Sono appena arrivati.»

«Grazie, signorina… vuol sapere una cosa? Credo di non averla mai vista finora da queste parti.»

«No, certo che non mi ha vista, Sir Arthur. Sono nuova. Mi chiamo Maisie. Maisie Cooke.»

«Beh, grazie, Maisie. «Aha»!»

Non appena la ragazza se ne fu andata, Sir Arthur riprese: «Se vuol saperlo, mi è venuta un’idea».

«Se vuol saperlo, quella ragazza mi ricorda qualcuno», disse Smithfield, parlando più a se stesso che agli altri, mentre fissava il ventilatore fermo.

«Stavo pensando, Smithfield, che sarebbe una buona idea infiltrarsi a Cambridge», concluse Sir Arthur con un sorriso che sentiva di aver guadagnato.

52

La comitiva era ben coperta per difendersi dal freddo, dato che la pista di curling vicina all’albergo Derby di Davos, in Svizzera, era già in ombra all’inizio del pomeriggio trattandosi di una giornata di febbraio. Tutto aveva un aspetto abbastanza innocente e lo era anche, in buona parte. Tutte le volte che qualcuno prendeva lo slancio per scagliare una pietra lungo la pista di ghiaccio levigato, un’altra persona precedeva di corsa la pietra per spianarle il percorso sul ghiaccio con l’aiuto dell’apposita scopa.

La comitiva si componeva di persone di varie nazionalità per cui il gioco era accompagnato da esclamazioni in molte lingue. A causa del freddo, la partita si protrasse per poco più di un’ora. Poi, la comitiva si sciolse e le persone che ne facevano parte si sparpagliarono in ogni direzione, dimostrando che dietro a quel raduno non vi era alcun sinistro intento.

Due uomini tarchiati con berretti di lana in testa si diressero verso il vicino albergo Derby dove uno di loro disse in tono conciso alla «receptionist»: «Il solito, «Fraülein»».

I due entrarono nella cabina di un piccolo ascensore che li portò al secondo piano dove ben presto cominciarono a liberarsi degli indumenti pesanti in un appartamento di varie stanze, uno dei più grandi di cui disponesse l’albergo.

Qualcuno bussò alla porta esterna della suite. Era una cameriera con un vassoio sul quale si reggevano in bilico due bicchieri di «Glühwein».

Fuori, le luci di Davos si stavano accendendo. Gli sciatori ritornavano dalle piste. Si potevano vedere nella via principale con gli sci in spalla, intenti a camminare con molto impaccio a causa dei rigidi scarponi da sci. Slitte provviste di campanelli, trainate da cavalli con le code intrecciate, ritornavano dalle escursioni pomeridiane attraverso i boschi e le valli dei dintorni dove osterie di montagna prosperavano grazie all’incessante fiumana dei visitatori che arrivavano ogni anno a Davos per le vacanze invernali.

Qua e là si vedevano dei poliziotti armati, con colbacchi di pelliccia in testa e avvolti in pesanti pellicce, i quali non immaginavano che cosa stesse accadendo all’albergo Derby, così come non lo immaginavano il cordiale proprietario dell’albergo né la cameriera che aveva appena portato i due bicchieri di «Glühwein» rosso in una delle più grandi suite dell’hotel. Mentre fuori, sulla pista del curling, i due uomini ora intenti a sorseggiare il vino bollente e zuccherato erano sembrati ugualmente massicci, ora si poteva notare che, una volta tolti gli indumenti pesanti, uno era effettivamente tarchiato e con un torace possente mentre nell’altro l’aspetto massiccio era dipeso esclusivamente dall’imbottitura. Il secondo uomo era in realtà abbastanza magro. Di statura media, aveva capelli grigi tagliati cortissimi e uno strano atteggiamento simile a quello di un uccello, per cui dava l’impressione che stesse per alzarsi in volo non appena si muoveva. Era Boulton, il professore di geostrofica a Cambridge.

Non appena l’uomo con il torace possente si tolse il berretto di lana, fu chiaro che doveva trattarsi di un personaggio di spicco. L’effetto era rafforzato dagli occhi azzurri penetranti, dal viso abbronzato e il cranio calvo. Normalmente, l’uomo dal torace possente lo si vedeva sulle piste più alte dove scendeva con la velocità di una pallottola dopo aver scelto con circospezione l’inclinazione della pista, una misura precauzionale che l’uomo badava a tenere ben nascosta agli occhi dei conoscenti, così come badava a nascondere molte altre cose agli occhi dei conoscenti e soprattutto delle autorità.

Ma ciò che colpiva veramente era la conformazione del suo cranio, una forma che qualsiasi studente di antropologia avrebbe subito definito di tipo neandertaliano, espressione con la quale gli esperti indicano i crani di notevoli dimensioni, non primitivi. Si tratta di un argomento sul quale si potrebbe scrivere un intero trattato, ma che è più facile comprendere guardando uno scultore che stia plasmando l’argilla. Occorrono circa 125 chili di argilla per ricavare la statua a grandezza naturale di una persona, di cui i primi 100 chili o poco più servono a ricavarne il tronco, la testa e i quattro arti. L’insieme, a questo punto, potrebbe rappresentare vuoi un uomo vuoi un orso ritto sulle zampe posteriori. I successivi 22 chili circa di argilla vengono impiegati per conferire alla statua l’aspetto dell’uomo a stazione eretta, ma potrebbe trattarsi tanto dell’«homo erectus» di un milione di anni fa quanto di un uomo moderno. Solo dall’ultimo chilo di argilla vien fuori l’uomo dei tempi nostri, quando l’artista modella con più attenzione la faccia. Solo in quel momento sorge il problema di stabilire quale particolare tipo di uomo dev’essere raffigurato dalla statua, e la risposta a questa domanda dipende dagli ultimi grammi di argilla, dagli ultimissimi ritocchi. Effettivamente, se gli scienziati del passato si fossero presi la briga di osservare uno scultore al lavoro, avrebbero visto delinearsi davanti ai loro occhi il processo evolutivo dei mammiferi. Ma in tal caso, l’evoluzione sarebbe diventata un fenomeno banale anziché qualcosa di speciale da presentare a un pubblico credulone come una grande e profonda scoperta. Se l’opinione pubblica si fosse accorta dell’inganno sarebbe stato concesso agli scultori più che agli scienziati di affondare le mani nei forzieri coi soldi dei contribuenti, e il mondo sarebbe stato pieno di statue e mostri scolpiti anziché di testate nucleari sulle quali le superpotenze stavano trattando in quel momento a Ginevra, a solo poche centinaia di chilometri di distanza dall’albergo Derby. O non trattando, a seconda del caso.

Il lettore comprenderà perciò che il cranio da uomo di Neandertal di Kaufman St John non aveva nulla di primitivo. Mentre il cranio normale al di sopra delle orecchie assume una forma ovoidale, quello di Kaufman St John tendeva ad allargarsi, predestinandolo all’importante ruolo che doveva recitare nelle vicende umane, un ruolo molto superiore, come si vide poi, a quello dei negoziatori delle superpotenze nella vicina Ginevra.

A coloro che dovessero trovare noiosa quest’analisi dimensionale del cranio di Kaufman St John sarà opportuno dire che aveva denti grandi, bianchi e forti. Il fatto che fossero allineati con una notevole regolarità dimostrava subito che si trattava di un fenomeno insolito. Infatti, in un cranio normale non ci sarebbe stato posto per spaziare tanto regolarmente denti così grandi.

«Ma senta, Kaufman, io sono riuscito ad avere i nastri», disse Boulton, sorseggiando il suo «Glühwein». «E’ sicuro che i suoi non li abbiano cancellati per sbaglio?»

«Certo che ne sono sicuro, amico mio. Erano muniti di circuiti protettivi, come li chiamano.»

«Ma io comunque li ho presi», insistette Boulton. «Ho tenuto fede al mio impegno, Kaufman.»

«Sì, lei li ha presi, ma non servono a niente. Motivo per cui lei non può aspettarsi di ricevere i contratti.»

«Non vedo assolutamente perché. Ma se lo dice, immagino…»

«Molto saggio da parte sua. Lei aspetterà che il mio dispositivo alternativo sia soddisfacentemente completato. Lei capisce, no, che cosa occorre? Ci vorrebbe proprio un genio per mandare ancora una volta a monte ciò che deve fare lei.»

Un inglese avrebbe detto che l’accento di Kaufman St John era tedesco, un tedesco avrebbe affermato che era ungherese, e un ungherese avrebbe detto che si trattava di un accento o bulgaro o della gente che abita intorno alle paludi del Pripet. Si udì di nuovo bussare alla porta e la stessa cameriera comparve con un secondo vassoio sul quale c’erano altri due bicchieri di «Glühwein», solo che stavolta i bicchieri erano alti e sottili.

Quando la ragazza se ne fu andata, Kaufman St John prese uno dei bicchieri e disse con un largo sorriso: «Così, beviamoci anche questo!»

E vuotò il bicchiere in un solo sorso, costringendo Boulton a fare lo stesso. Kaufman St John se ne stava semplicemente lì e sorrideva, sorrideva con i denti perfettamente allineati bene in mostra. Poi, dopo questi cenni all’apparenza di placido consenso, esclamò: «Basta!» invitando senza tante storie Boulton a lasciare la stanza.

Dalla finestra dell’appartamento lo sguardo poteva spaziare sul viale coperto di neve e ghiaccio che portava dalla strada principale del paese all’albergo Derby. Kaufman St John rimase alla finestra a osservare Boulton che incespicava nel viale, investito in pieno dalla carica di «Glühwein» nella fredda aria pomeridiana. Fu una camminata piena di scivoloni fino all’Hôtel de la Poste, all’altra estremità del paese, dove Boulton era alloggiato. Lungo il viale ci furono molte occasioni per incespicare e cadere. Una caduta grave con una gamba rotta, magari? Nel qual caso Boulton non poteva servire più, nel qual caso Boulton non avrebbe lasciato Davos vivo. Sarebbe bastata una semplice iniezione, il perfetto analgesico, pensò Kaufman St John, sorridendo tra sé.

Si udì bussare più forte alla porta. Stavolta si trattava di una ragazza dall’aspetto robusto che indossava un cappotto.

«Ah, sei arrivata», mormorò Kaufman St John occupandosi del cappotto della ragazza.

L’abbronzatura dorata del volto portava il riflesso dei campi di sci più alti e delle discese attraverso i boschi più in basso. Kaufman St John continuò per un po’ a darsi da fare attorno a lei. Poi, come se avesse premuto un interruttore, indicò di colpo con il pollice rovesciato la stanza da letto. Quando la ragazza esitò per un attimo, la colpì all’istante con un manrovescio in piena faccia. Come aveva detto Smithfield al Foreign Office, un tipo da prendere con le molle, e dal quale Boulton avrebbe fatto bene a tenersi lontano. Così come Kaufman St John aveva un piano per la ragazza, che a questo punto si precipitò nella stanza da letto per spogliarsi il più presto possibile ed evitare così di essere picchiata sul serio, ne aveva uno per Boulton. Uno era ovvio, l’altro non proprio tanto ovvio.

53

Dopo tre giorni al suo nuovo posto come presidente del CERC, Isaac Newton aveva cominciato a orientarsi a Swindon, per lo meno al punto da saper raggiungere senza difficoltà la North Star Avenue. Aveva imparato persino a riconoscere l’Oasi quando la vedeva e a parcheggiare la macchina all’esterno del buffo edificio con richiami architettonici all’antica Mesopotamia dov’era la sede del CERC. Non si era comunque ancora abituato alla soffice moquette nell’ufficio presidenziale nella quale i piedi sprofondavano per qualche centimetro. Né riusciva ancora a comprendere il significato mistico della moquette per le menti dei funzionari governativi né lo scopo delle schiere all’apparenza infinite di segretarie e fattorini che sciamavano continuamente nel palazzo, trasformandolo in un formicaio, un formicaio della Mesopotamia.

Si era trastullato con l’idea di far venire dal Cavendish Laboratory la sua segretaria, signora Gunter, ma poi aveva rinunciato perché, riflettendoci sopra, era giunto alla conclusione che l’energica signora scozzese avrebbe con molta probabilità messo in subbuglio il sindacato interno dei lavoratori. Così pure aveva detto a Frances Margaret che avrebbe fatto meglio ad andarci da solo perché, come tarlo solitario, gli sarebbe stato più facile penetrare nelle strutture legnose del CERC. Non soltanto: il rettore del Trinity aveva dimostrato di essere un uomo di parola facendo nominare Frances Margaret Fellow del College, per cui ora poteva marciare, con la testa incappucciata, all’una di notte, dall’atrio della cappella fino al chiostro tutte le volte che al rettore e ai Fellows veniva in mente di sfilare in parata con campana, Bibbia e candela.

Ma c’era una cosa grave. Era la prima volta nella sua vita lavorativa che Isaac Newton avesse trascorso anche una sola giornata in un’organizzazione non dedita in qualche maniera a una vera e propria attività scientifica. Il compito principale del suo personale era stato sempre quello di lavorare nei laboratori di ricerca o di andare in giro per fare conferenze e dimostrazioni agli studenti, non quello di formare una gigantesca segreteria impegnata a scarabocchiare sulla carta. Era la caratteristica quasi irreale del palazzo in stile mesopotamico quella che aveva colpito Isaac Newton immediatamente al suo arrivo. Ognuno in quel palazzo faceva o il fattorino o la dattilografa, la telefonista oppure l’impiegato che riceveva telefonate. Il resto leggeva o compilava documenti amministrativi. L’idea che il destino scientifico del paese potesse essere pianificato o influenzato con successo da un posto simile era, secondo Isaac Newton, pura follia. Il grano non cresce dalla gramigna né le mele sui rovi.

Aveva cominciato con l’esaminare i bilanci del CERC, nella forma in cui erano stati pubblicati durante gli anni precedenti. Ricordando la malsana attenzione per i particolari che il CERC esigeva dalle università di cui finanziava le ricerche, la pochezza delle informazioni che il CERC offriva nei propri bilanci parve ad Isaac Newton il massimo dell’impertinenza burocratica. Ne risultava chiaramente che il cosiddetto Comitato dei Bilanci Pubblici era poco più di una facciata, un cane da guardia sdentato, e che i veri particolari riguardanti le somme versate dai contribuenti e spese per la scienza sfuggivano alla conoscenza e al controllo dei ministri responsabili. A Cambridge, John Jocelyn Scuby poteva essere considerato una vecchia lavandaia, ma ciò che occorreva a Whitehall, rifletté con un amaro sorriso Isaac Newton, era un intero treno pieno di John Jocelyn Scuby. Nessuna meraviglia che l’Università fosse sopravvissuta mentre i governi venivano e se ne andavano senza lasciare traccia o quasi nelle pagine della storia.

Tuttavia non era necessario conoscere tanti particolari per accorgersi che i trecento milioni di sterline che ogni anno finivano nelle casse del CERC defluivano attraverso tre canali principali. In primo luogo sotto forma di quote associative versate ogni anno a organizzazioni internazionali come il CERN di Ginevra, dove lo stesso Isaac Newton era stato impiegato; in secondo luogo sotto forma di finanziamenti per le ricerche alle università e in terzo luogo come versamenti a favore dei complessi di ricerche dello stesso CERC, sparpagliati in tutto il paese in regioni diverse come il Sussex, il Berkshire, il Lancashire e la Scozia. Per quanto riguardava il primo di questi canali, il governo si serviva del CERC semplicemente come organo amministrativo senza che al CERC fosse permesso di esercitare un controllo degno di nota sulle attività in questione, decise in base ad accordi internazionali. Poiché il consiglio direttivo non era riuscito a impadronirsi del controllo del primo canale, gli alti gradi del CERC sarebbero stati in linea di massima felici se le spese in campo internazionale fossero state ridotte, purché, naturalmente, questi soldi potessero essere trasferiti al secondo e terzo canale sui quali il CERC era riuscito a stabilire un controllo quasi totale.

La sproporzione tra le risorse assegnate alle università e i bilanci annuali dei complessi di ricerche appartenenti al CERC era ormai uno scandalo di dominio pubblico da oltre un ventennio. Il fatto che non si fosse cercato di por riparo a tutto questo era una chiara dimostrazione della pusillanimità alla quale si era ridotta la scienza britannica. Quando il sistema dei consigli di ricerche venne adottato, alla metà degli anni ’60, per il CERC venne stabilito uno statuto che imponeva a chiare lettere di promuovere le ricerche nelle università. Oltre a questo primo dovere, il Consiglio era stato anche incaricato di assumere il controllo di alcuni centri di ricerche gestiti dal governo e finora autonomi, un’incombenza supplementare affidata al Consiglio come se si trattasse di una faccenda di secondaria importanza. A nessuno venne in mente che questa soluzione potesse pregiudicare l’appoggio che il CERC doveva dare alle università. I pianificatori non immaginavano neanche lontanamente che il flusso dei fondi alle università sarebbe stato dirottato un po’ alla volta nelle casse di questi centri. Le cause lontane di questo pervertimento delle intenzioni originarie erano le pressioni dei sindacati nei centri, pressioni alle quali i successivi presidenti del CERC non avevano potuto o voluto resistere, nonché il fatto piuttosto ovvio che i dipendenti governativi alla sede del CERC erano della stessa risma dei dipendenti dei centri, per cui era naturale che facessero comunella.

Poi, tanto per peggiorare una situazione già compromessa, il morale degli scienziati nelle università dovette subire sempre più cocenti frustrazioni in seguito a provvedimenti più che naturali in un’amministrazione come quella del CERC, per esempio quello di promuovere scienziati di categoria inferiore e incompetenti a posti da dove potevano esprimere giudizi sul lavoro di colleghi a loro superiori.

La già tanto fiera barca della scienza fisica britannica era ormai per tre quarti sommersa quando Isaac Newton era arrivato, dal CERN, al Cavendish Laboratory. Con l’espediente di escludere il CERC dalla creazione del Comitato per il Progetto Halley e grazie al successo conseguito dal Comitato nello stabilire il contatto con la cometa, qualcosa era stato fatto per raddrizzare un po’ la barca e liberarla in parte dall’acqua. Ma persino questi pochi risultati ora sembravano vani, rifletté Isaac Newton, mentre prendeva dal sedile della macchina la borsa portacarte e si avviava a percorrere i cinquanta metri che lo separavano dal palazzo del CERC. Sia il Primo Ministro sia il Cancelliere dello Scacchiere avevano commesso un errore pensando che la sua nomina a presidente avrebbe potuto correggere l’andazzo delle cose al CERC. Era un errore che permeava tutto il sistema di governo inglese, un errore che il sistema addirittura incoraggiava vedendo in esso un mezzo per perpetuarsi, per cui i tentativi di riforma quasi sempre finivano per moltiplicare gli abusi che avrebbero dovuto eliminare. Tanto valeva tentare di bonificare un campo pieno di erbacce profondamente radicate nel suolo, rifletté Isaac Newton, scoraggiato, mentre si avvicinava alla costruzione di stile mesopotamico. L’unica maniera efficace per liberarsi delle erbacce era quella di sradicarle. Completamente. Basta lasciare un ciuffo o due e l’erbaccia si espanderà di nuovo peggio di prima. L’ultima volta che questa soluzione elementare era stata compresa regnava Enrico Ottavo. Per combattere efficacemente il CERC ci sarebbero voluti tanti carnefici con la maschera nera e gli attrezzi di tortura.

Comunque, doveva prendere di petto la situazione. Se non su tutta la linea, almeno parzialmente. Tutte le volte che una persona di chiara fama viene indotta ad accettare un incarico che non le è gradito, può sempre porre condizioni per accettarlo: un paio di condizioni, non molte. E questo dev’essere fatto prima, non dopo. Isaac Newton aveva perso parecchie ore di sonno per riflettere sulle condizioni che poteva porre. Aveva cominciato a mettere per iscritto tutto, ma siccome ogni provvedimento a lui gradito avrebbe avuto per conseguenza l’impiccagione del CERC previ numerosi tratti di corda e squartamento (una cosa che gli uomini politici non avrebbero mai approvato pensando ai mass media e ai giornalisti come Alan Bristow della rivista «Nature»), Isaac Newton si era messo ad accorciare l’elenco. Così era arrivato alla fine a due sole condizioni, condizioni alle quali il Primo Ministro e il Cancelliere avevano poi aderito. Queste erano le ultime due cartucce con le quali si consolava ora entrando nel palazzo del CERC per affrontare per la prima volta a fondo le cariche più elevate del Consiglio.

54

Ricordando lo scandalo ICSU, Isaac Newton ebbe la sensazione di essere ormai abituato a non vedere alle riunioni una sola faccia non scontrosa. C’erano i capi delle cinque principali divisioni del CERC, rafforzati per l’occasione dai capi di tutt’e sette i complessi di ricerche distaccati appartenenti al CERC, un totale di tredici persone compreso Isaac Newton. Per molti un numero che porta disgrazia, rifletté assestando un colpetto a una delle pile di fogli per annotazioni che la segreteria aveva distribuito sul tavolo prima della riunione. In barba allo statuto stabilito dal governo che imponeva di promuovere l’attività di ricerca nelle università, non una sola persona appartenente al mondo accademico era stata invitata alla riunione, convocata non da Newton ma dai funzionari permanenti del Consiglio.

Il mucchio di foglietti fece venire un’idea ad Isaac Newton. Indicando con cenni che stava richiamando all’ordine l’assemblea, si mise a disegnare ostentatamente i contorni del tavolo sul foglio di carta, segnando i posti occupati dai presenti. Poi fece il giro del tavolo chiedendo i nomi e com’erano scritti. Nessuno poteva protestare contro questa procedura che feriva l’amor proprio perché Isaac Newton, essendo il nuovo presidente, aveva ogni diritto di conoscere la composizione della riunione al punto da sembrare pedante e nonostante fosse stato già brevemente presentato a tutti, a eccezione di due ragazze e di un giovanotto con la barba rossiccia che erano seduti all’estremità più lontana del tavolo e si accingevano a prendere nota di ciò che sarebbe stato detto.

L’ordine del giorno era stato preparato senza alcun riferimento ad Isaac Newton e conteneva ai primi posti un certo numero di voci delle quali lui non sapeva nulla. La voce di fondamentale importanza sulla costruzione dei telescopi era collocata sotto il numero otto, il che sarebbe andato a detrimento della sua importanza. Per di più era probabile che la discussione a quel punto venisse interrotta per la colazione.

«Noto che l’ordine del giorno contiene un considerevole numero di voci», cominciò Isaac Newton, seduto sulla poltrona presidenziale, «delle quali la più importante di gran lunga è la numero otto riguardante la costruzione dei telescopi. Forse i precedenti presidenti del Consiglio avevano la tendenza a procrastinare il più a lungo possibile le questioni importanti. Io, invece, preferisco occuparmi delle cose in ordine decrescente di importanza. Perciò inizieremo i lavori della riunione dalla voce otto.»

«Purtroppo più tardi dovrò allontanarmi dalla riunione, presidente, ma ci sono un paio di questioni di cui mi piacerebbe parlare prima», disse il dottor Falconer, capo della divisione di biologia del CERC.

Isaac Newton ribatté immediatamente: «Forse, dottor Falconer, lei solleverà queste questioni subito dopo la voce otto. Le dispiacerebbe cominciare, signor Hoddinott? Per accontentare il dottor Falconer, dobbiamo procedere speditamente».

Charles Hoddinott era il capo della divisione amministrativa.

«Sì, beh», cominciò Hoddinott, «ovviamente dobbiamo capir meglio la forma di questo progetto dei telescopi, proposto dal Comitato Halley di cui lei stesso fa parte, presidente. In particolare, dobbiamo considerare in che modo quella che appare come un’impresa di notevolissime dimensioni possa essere messa in relazione con gli altri impegni già in atto del Consiglio. Credo che Harry Henderson abbia da manifestare qualche riflessione sull’argomento.»

Il modo in cui Hoddinott si serviva delle parole ricordava quello di un giocatore che distribuisca le carte traendole da un mazzo. A prima vista, le sue osservazioni sembravano piene di buon senso, e l’aria grave con la quale le pronunciava le facevano sembrare importanti. Ma riflettendoci sopra, si vedeva che era tutta aria fritta senza un solo punto veramente interessante. Isaac Newton rifletté cupamente che era destinato ad ascoltare discorsi del genere per i prossimi uno o due anni.

Harry Henderson era il responsabile della divisione di fisica. Poiché intratteneva rapporti con il CERN, Isaac Newton lo conosceva meglio degli altri.

«Il buon senso direbbe, presidente, che faremmo bene a tirare un po’ il fiato senza perdere lo slancio», disse Henderson con voce flautata facendo cadere un suono suadente sulla parola «slancio».

Isaac Newton si propose di esercitarsi alla chetichella a pronunciare questa frase. Facendo uno sforzo per non scoppiare a ridere, chiese: «Come si propone di fare una cosa del genere?»

«Noi dobbiamo dare avvio a uno sforzo considerevole nel campo della progettazione, uno sforzo «davvero» considerevole, direi.»

«A quale scopo?»

«Per essere sicuri, presidente, di avere il migliore progetto di telescopio quando arriveremo a dare il via al programma di costruzione.»

«Io stavo pensando di copiare semplicemente i radiotelescopi a grande portata della NASA», rispose Isaac Newton con voce pacata.

A questa dichiarazione risposero un increspare di labbra e uno scuoter di teste intorno al tavolo che avrebbero smontato chiunque all’infuori di un tipo ostinato come lui.

«La NASA ha avuto molti problemi a causa dei venti e altri grossi problemi quando si è trattato di montare in superficie le antenne circolari coniche», osservò il capo della divisione di astronomia del Consiglio col tono di un medico che esprima una prognosi infausta.

Il guaio di questo genere di affermazione, rifletté Isaac Newton di nuovo, era che si scostava in maniera tale dalla verità da costringere uno o ad accettarla oppure a dire all’uomo che era un bugiardo. Rivolgendo la sua attenzione a Harry Henderson, chiese: «Quanto dovrebbe durare, secondo lei, questo intervallo iniziale per prendere fiato, signor Henderson?»

«Si pensava a un anno.»

«Al quale può aggiungere un altro anno di difficoltà iniziali, supponendo che il suo progetto riesca a risolvere i problemi che hanno dato così grosse preoccupazioni alla NASA. In tal modo potremmo trovarci alle prese con un ritardo di due anni o anche più.»

«Non si può chiamarlo un ritardo, presidente.»

«In tal caso mi dev’essere sfuggito qualcosa, perché se ci decidiamo per il progetto della NASA, possiamo passare subito l’ordinazione.»

Un mormorio di dissenso si alzò intorno al tavolo.

«Lei non comprende, presidente», insistette Henderson, «che non possiamo gettarci a capofitto in questo progetto. Lei deve sottrarre dal suo ritardo di uno o due anni un ragionevole periodo di transizione.»

A questo punto, Isaac Newton ebbe la sensazione di aver capito molto bene che cos’era il CERC e che cosa erano probabilmente molti dei metodi della burocrazia. Questa era composta da un certo numero di persone, tutte provviste di un’intelligenza piuttosto eccezionale, che si sforzavano sistematicamente di misinterpretare con astuzia la verità. Lo facevano collettivamente per cui era difficile dipanare la matassa.

Come per confermare quest’opinione, intervenne Hoddinott. «Inoltre», disse, «secondo me dobbiamo vedere come saranno finanziati dal governo i costi operativi degli strumenti. Passare direttamente alla costruzione potrebbe sembrare un po’ prematuro finché non avremo formulato un piano operativo.»

Dopo aver visto a che punto era capace di arrivare il CERC, Isaac Newton, molto soddisfatto, ebbe la sensazione di scorgere in lontananza le torri dell’Eldorado, intravide cioè un mezzo che gli avrebbe consentito di liberarsi del CERC a breve scadenza. Così diede l’avvio al suo subdolo piano riassumendo ciò che era stato appena detto: «Così, secondo lei il lavoro di progettazione dei telescopi dovrebbe svolgersi in parallelo con la formulazione di un piano operativo. Nel frattempo, il Consiglio dovrebbe adeguare opportunamente le sue attuali attività? E’ questo il senso della riunione?»

Molti intorno al tavolo annuirono. Adesso veniva la mossa importante. Con uno sforzo per parlare con voce piana, Isaac Newton continuò: «Le dispiacerebbe formulare questa sua proposta per iscritto, signor Henderson? Magari dopo essersi consultato con il signor Hoddinott?»

Isaac Newton sapeva che neppure la convenienza politica di associare il progetto dei telescopi al CERC avrebbe persuaso il Primo Ministro e il Cancelliere a digerire le sciocchezze che lui stesso aveva appena sentito. Se solo fosse riuscito a far mettere tutto per iscritto, avrebbe avuto buone possibilità di ritornare a Cambridge prima della fine del mese.

Ma sia che Isaac Newton si fosse tradito con una strana inflessione nella voce sia che Hoddinott si fosse reso conto all’istante della situazione in cui si trovava, grazie all’esperienza di tutta una vita — questo nessuno poteva saperlo — , fatto sta che Hoddinott rispose: «Con la sua approvazione, presidente, compileremo senz’altro insieme un documento in questo senso». E annuì.

Ad Isaac Newton non rimase quindi che celare il proprio disappunto spostando rapidamente il tiro.

«Non vedo un importante documento», osservò con un distratto aggrottar di sopracciglia. «Intendo la lettera ufficiale del dipartimento dell’Istruzione e delle Scienze che porta questo progetto a conoscenza del Consiglio.»

Per la prima volta si stabilì nella sala un’atmosfera di leggero disagio. Dopo essersi mosso sulla propria sedia, Hoddinott tentò di parare quest’altro colpo dicendo: «Beh, non abbiamo ancora una lettera, presidente. In questo senso, ciò che abbiamo deliberato oggi può essere considerato un tantino prematuro, il che sarebbe un buon motivo per dilazionare una dichiarazione da parte nostra, a meno che non fosse destinata a circolare solo all’interno del Consiglio. Ecco, vede, presidente, i dialoghi tra noi e il dipartimento dell’Istruzione e delle Scienze spesso si sono rivelati vantaggiosi per noi… voglio dire prima che la situazione venga definita per iscritto».

«Ma voi state aspettando un documento dal dipartimento dell’Istruzione?»

«Naturalmente, prima o poi dovrà arrivare.»

«Perché aspettate un documento?»

«Non capisco, presidente», replicò Hoddinott con la voce palesemente tesa.

«Pensavo che la mia domanda fosse abbastanza chiara», insistette Isaac Newton, picchiando la matita sul tavolo. «Questa riunione non è stata convocata da me, come voi tutti sapete benissimo. Occupo la carica solo da tre giorni e in questi tre giorni non ho avuto occasione di indire alcuna riunione. Eppure, l’ordine del giorno comprende la costruzione dei telescopi, una faccenda di cui si occupa il Comitato per il Progetto Halley. Sto chiedendo semplicemente, signor Hoddinott, come il Consiglio sia giunto a conoscenza degli affari del Comitato Halley. Poiché l’informazione non è arrivata tramite il Comitato Halley stesso, voglio sapere se è arrivata tramite il dipartimento dell’Istruzione e delle Scienze.»

Il mormorio che seguì sembrava voler dire che le osservazioni di Isaac Newton erano fuori luogo e perciò sgradite.

«Beh, sì», finì per ammettere Hoddinott.

«Tramite quale via ufficiale è arrivata l’informazione, signor Hoddinott?»

«Anche questa volta non capisco.»

«Penso che lei capisca benissimo e penso anche che tutti qui capiscano benissimo. Lei ha convocato la riunione in base a una voce filtrata come al solito attraverso il setaccio di Whitehall. Lo ha fatto con considerevole cura perché alcuni dei presenti sono arrivati persino dalla Scozia per partecipare alla riunione, a quanto pare per premunirsi.»

Hoddinott arrossì e vedendo che Isaac Newton continuava a fissarlo picchiando forte sul tavolo con la matita, rispose a voce notevolmente più alta: «Posso assicurarle che le mie fonti sono estremamente attendibili. Del resto, per quale altro motivo è stato nominato presidente lei al posto di Sir Anthony Marshall?»

Dato che aveva ceduto alla tentazione di far salire la temperatura della riunione, Isaac Newton sapeva di non poter fare altro che stare al gioco e mettere in tavola la prima delle sue carte alte. Gli dispiaceva di doverla giocare così presto, ma se voleva conservare l’iniziativa non poteva fare a meno di sbattere la carta sul tavolo con un colpo il più possibile rumoroso.

«Non ci sarà mai una lettera ufficiale del dipartimento dell’Istruzione e delle Scienze, signor Hoddinott. La lettera arriverà dal Comitato per il Progetto Halley e sarà firmata dal Primo Ministro.»

«Mai avrei pensato che si possano concepire le cose in questo modo», disse il dottor Falconer in tono asciutto, come per dire: basta con questa faccenda.

«Mi dispiace che abbiamo messo tanto tempo per arrivare agli argomenti che la interessano, dottor Falconer», ribatté Isaac Newton, facendo uno sforzo per non mettersi a ridere apertamente. «Forse dovrei spiegare la situazione in questi termini: se un’industria volesse consultare il CERC sulla base di un rapporto cliente/fornitore, scriverebbe al presidente del Consiglio, cioè a me, non al dipartimento dell’Istruzione e delle Scienze. Le comunicazioni con il dipartimento delle Scienze si stabilirebbero poi tra me e il Ministro. Mi corregga, signor Hoddinott, se sbaglio.»

Se la moquette fosse stata meno soffice, si sarebbe sentito cadere uno spillo. La gente che vive una vita normale, cioè la gente che produce cose e fa crescere cose, avrebbe avuto una certa difficoltà a capire in che cosa consisteva la bomba che Isaac Newton aveva appena fatto esplodere. La gente normale comprende ben difficilmente che il potere del governo non deriva già dal fatto di usare alternativamente il bastone e la carota, ma dal controllo dei canali di comunicazione all’interno dei singoli dipartimenti e tra di essi.

«Lei vuol dire che il Tesoro invia i fondi direttamente al Comitato per il Progetto Halley?» Hoddinott chiese con voce tesa.

«E il Comitato Halley opererà poi sulla base di un contratto cliente/fornitore», annuì Isaac Newton. «Naturalmente riferirò al Comitato i suggerimenti espressi in questa riunione, e il Comitato deciderà, credo abbastanza presto, se accettare la sua proposta di un rinvio di due anni o se rivolgersi a qualcun altro.»

«Così, la progettazione dei telescopi non rientrerebbe nelle responsabilità del Consiglio», disse Harry Henderson, segnalando in tal modo a tutte lettere ai suoi seguaci di invertire la rotta.

«Il Comitato Halley intende assumersi la responsabilità per la progettazione. Naturalmente nessuno potrebbe muoverle un rimprovero, signor Henderson, se manifestasse al Comitato i suoi eventuali dubbi a proposito di esso. Non solo: le questioni già sollevate, quelle riguardanti la stabilità sotto la pressione dei venti e l’esportazione in superficie, saranno riferite alla NASA per un suo parere.»

«Se il Consiglio non dovrà occuparsi di questioni riguardanti i piani di progettazione, credo che dovremmo astenerci dal manifestare le nostre opinioni», osservò il capo della divisione di ingegneria.

«Sono d’accordo su questo. In che cosa consisterebbe effettivamente l’apporto del Consiglio?» chiese Hoddinott, di nuovo intento a mimetizzarsi.

«Nell’amministrazione del progetto in genere. Il Consiglio dovrebbe pubblicare i bandi di concorso per le forniture e stipulare i contratti sorvegliandone l’osservanza, ma dovrebbe anche, in modo speciale, seguire attentamente le operazioni di controllo qualitativo.»

«Ciò che non riesco a capire, presidente», continuò Hoddinott, un tipo abituato a non lasciarsi tagliar l’erba sotto i piedi, «è perché, essendo lei stesso un esperto in tutte queste materie — lo riconosciamo tutti — e visto che il Comitato Halley dispone della sua esperienza, tutto non viene fatto tramite il Comitato?»

«Francamente», prese a rispondere Isaac Newton, «anche io lo avrei preferito. Ma ho dovuto arrendermi agli altri membri del Comitato i quali mettevano in evidenza che il nostro compito in seno al Comitato stesso è quello di creare ciò che chiamiamo una rete di comete. Concentrare l’attenzione sulla costruzione delle apparecchiature ci avrebbe distolto troppo dall’obiettivo principale.»

«Si comincia a vedere chiaro, presidente. Magari ci fosse stata la possibilità di informarci sullo stato delle cose alquanto prima. In maniera che le voci non potessero… ha capito, no, quello che intendo?» osservò Hoddinott, facendo un altro passo indietro.

«Prevenire le voci è sicuramente ottima cosa, signor Hoddinott, specialmente per quanto riguarda Whitehall. Io avrei pensato piuttosto che stiamo procedendo abbastanza alla svelta», fece Isaac Newton con un sorriso benevolo sulla bocca e con la sensazione che stava orientando in maniera ragionevole il «bla bla» burocratico.

«Qual è l’ordine di grandezza dei compensi che il Comitato Halley pensa di offrire?» continuò Hoddinott.

«Beh, come lei sa, signor Hoddinott, i compensi per l’amministrazione nel caso di incarichi speciali non continuativi ammontano a circa il venticinque per cento. Ma questo è un incarico permanente, per cui il Consiglio dovrà accontentarsi di meno del quindici per cento per restare ragionevolmente competitivo. Personalmente direi che qualcosa come il dieci per cento sarebbe giusto, visto il carattere ripetitivo e l’ordine di grandezza dell’impresa. Comunque prevedo che discuteremo molto sul numero preciso.»

Hoddinott volse lo sguardo in giro per vedere se i suoi colleghi gli lanciassero qualche segnale. Siccome non ve ne furono, proseguì: «Sarebbe di grande aiuto se lei potesse farci conoscere l’ammontare effettivo delle somme. Voglio dire, quanto all’anno».

«Lei mi chiede quanto potrebbe introitare questo Consiglio di Ricerche?»

«Sì. Una previsione di larga massima, presidente.»

«Diciamo cento milioni di sterline.»

«All’anno?»

«Sì, all’anno.»

Seguì un lungo silenzio, interrotto alla fine dal capo della divisione di astronomia che proruppe a dire: «Ma questo significa una quantità tremenda di telescopi!»

«Sì, significa una grande quantità di telescopi», convenne Isaac Newton.

«Ma a che cosa servono?»

«Se potesse fornirmene un migliaio oggi, sarebbero già in piena funzione nella rete delle comete prima della fine dell’anno», rispose Isaac Newton in tono pacato.

«Dal punto di vista economico sarà un impegno enorme», disse Hoddinott con una voce dalla quale si capiva che stava afferrando per la prima volta l’ordine di grandezza dell’impresa.

«Il Tesoro ci ha inviato una relazione sugli aspetti economici, compilata da Sir Harry Julian. Non vedo alcun motivo per cui questa relazione non dovrebbe essere sottoposta alla visione dei più alti dirigenti del Consiglio, tenendo presente che si tratta di una faccenda riservata, motivo per cui non voglio parlarne ora. Dirò solo che la relazione giunge alla conclusione che gli effetti economici saranno più che positivi. La relazione è piuttosto lunga.»

«Sir Harry fa parte del Comitato Halley, a quanto mi risulta», osservò Henderson.

«Sì, effettivamente», rispose Isaac Newton, trattenendo il sorriso che stava per affiorare sulla sua bocca al ricordo del tentativo compiuto da Julian per riassumere in breve la sua relazione.

«Ma come saranno finanziati i costi operativi di tutti questi telescopi, dove saranno dislocati e chi li riceverà?» chiese il capo della divisione di astronomia del CERC con una voce stridula, non si sa se causata dalla rabbia o dallo sbalordimento.

«Per rispondere in breve alla domanda», replicò Isaac Newton sempre in tono pacato, senza far rilevare che si trattava di una questione che non riguardava affatto il CERC, «dirò che i telescopi andranno alle università e forse ai politecnici competenti e disposti a operare in seno alla rete delle comete. Questi enti riceveranno finanziamenti previsti dal bilancio. Tuttavia non vedo alcun motivo perché i centri di ricerca di questo Consiglio non debbano essere coinvolti nella misura che il Consiglio stesso riterrà conveniente nel quadro delle sue attività.»

«Quando si dovrebbe cominciare?» chiese Henderson.

«Non appena il Consiglio avrà deciso se accettare o no l’incarico di amministratore del progetto.»

«Intravedo un unico intralcio di una certa importanza», disse Hoddinott, facendo ancora di più marcia indietro. «Non occorre essere saggi come Salomone per accorgersi che il Tesoro potrebbe ridurre la nostra voce in capitolo in compenso di quel che riceveremmo come amministratori del progetto. Temo che non ce ne lasceranno gran che.»

Isaac Newton annuì. «Capisco ciò che lei pensa, signor Hoddinott. Un simile pericolo potrebbe effettivamente esserci se si trattasse solo di un incarico temporaneo. Ma francamente non riesco a vedere il Tesoro intento a scremare ogni anno il compenso spettante al Consiglio per l’amministrazione del progetto.»

«Perché no?»

«Perché il programma avrà inevitabili sviluppi collaterali. Questi sviluppi diventeranno importanti sia dal punto di vista economico che scientifico.»

«Vuol dire, presidente, che il compenso del Consiglio dovrebbe essere impiegato nel perfezionamento degli sviluppi collaterali?» chiese il capo della divisione di ingegneria.

«Questa sarebbe la mia intenzione, condizionata dall’approvazione del Consiglio», convenne Isaac Newton.

«E il Comitato Halley, che cosa ne pensa?»

«Gli sviluppi collaterali non riguardano il Comitato Halley, a meno che non si ripercuotano sulla rete delle comete. Gli sviluppi collaterali sono una materia che riguarda l’industria e questo Consiglio. Lei troverà esposta tutta questa faccenda nella relazione di Sir Harry Julian. E ora, vogliamo passare alle questioni che interessano in particolare il dottor Falconer?»


Ventiquattro ore più tardi, il giovanotto con la barba rossiccia portò ad Isaac Newton le bozze del verbale di riunione.

Dopo aver letto alla svelta le minute, il professore disse: «Devo correggere alcuni punti. Perché non lascia qui le minute per un paio d’ore? Lei si chiama John Brownrigg, no?»

«Esattamente, professor Newton», rispose il giovanotto con un sorriso.

«Noto che lei ha lasciato fuori tutta la prima parte della riunione. Voglio dire, la parte in cui noi tutti si manifestava il nostro disaccordo.»

«Beh, nessuno desidera che venga messa a verbale. Voglio dire: tanto non ha concluso nulla.»

«Immagino di no. Da quanto tempo si trova al CERC?»

«Da quasi tre anni, da quando ho lasciato l’università.»

«E le ragazze che stavano stenografando? Immagino che debbano essere venute da poco?»

«Non lo so con precisione, professore. Saranno qui da un anno o due, suppongo, ma non da così poco tempo come lei», rispose Brownrigg con un altro sorriso mentre si dirigeva verso la porta dell’ufficio.

Quando Brownrigg se ne fu andato, Isaac Newton rimase seduto a immaginare una grande piramide con tanti gradini o piani che salivano da un’ampia base fino alla sommità molto ristretta: la piramide della burocrazia governativa. Quelli al vertice della piramide si guardavano bene dal fare annotazioni alle riunioni e delegavano il compito a quelli del piano sottostante. Queste persone delegavano a loro volta il compito a quelli del piano sottostante, e così via finché non veniva raggiunta la base della piramide. Così succedeva che molte persone del piano più basso sapevano esattamente ciò che accadeva al vertice. E succedeva anche che la piramide perdesse acqua in ogni direzione. Non che Isaac Newton avesse un buon motivo per sospettare fughe di notizie in questo caso. Eppure c’erano qui John Brownrigg e due ragazze che conoscevano a menadito cose che ufficialmente non erano state ancora comunicate al CERC.

I giornali accennavano in continuazione con una prosa sinistra alle talpe annidate ad alto livello nel governo. Ciò che l’uomo della strada non riusciva a capire quando gli artefici di importanti fughe di notizie venivano scoperti era il fatto che queste talpe presumibilmente sinistre erano in realtà delle persone piuttosto innocue che occupavano posizioni non certo elevate. La piramide della burocrazia statale spiegava questo stato di cose. Era una spiegazione così ovvia e inevitabile che Isaac Newton cominciò a provare un senso di rabbia nei confronti degli uomini politici e persino del Primo Ministro e del Cancelliere dello Scacchiere, i quali deploravano senza fine questa situazione, ma non facevano mai nulla di veramente efficace per stroncare il fenomeno.

Per quanto riguardava lo stroncare il fenomeno, ben poco si poteva fare. Isaac Newton dovette ammetterlo. C’era solo il sistema di sradicare completamente la gramigna. Erano passati circa vent’anni da quando Isaac Newton aveva strappato le erbacce in un campo per guadagnare i soldi necessari all’acquisto dell’abito con il quale era poi andato a Cambridge. Quel campo abbondava di erbacce. Quando Isaac Newton ebbe finito il suo lavoro di pulizia, c’era ben poco che non sapesse a proposito della gramigna. Ancora adesso ricordava le parole di uno scrittore del Cinquecento il quale riassumeva la situazione con parole mirabili. Erano parole che si adattavano perfettamente alla burocrazia governativa, rifletté Isaac Newton: «Agevolmente alligna e s’allarga pur senza semenza, e sì tenacemente si barbica che l’estirparla è impresa vana; di anno in anno, invece, sempre maggior area infesta con gran dispetto per l’erbe migliori».

55

Igor Lobocevski era l’uomo più spaventato di Mosca. Dopo che ebbe spiegato alla moglie bisbigliando la situazione, lei divenne la donna più spaventata di Mosca. La verità nuda e cruda era che i papaveri più alti del paese soffrivano di «prurito folle». La madrepatria era senza governo. Se questa paurosa notizia si fosse diffusa, sarebbe successo il finimondo. Come unico esperto riconosciuto del nuovo virus, riconosciuto grazie a quanto aveva avuto modo di osservare nella città di Onega, Igor Lobocevski era stato chiamato ripetutamente per fare delle diagnosi. Così, fatalità del destino, si trovava meglio di chiunque nella condizione di far trapelare la notizia. Per cui diventava il bersaglio ovvio per un eventuale esilio in un campo di concentramento o il ricovero in un ospedale psichiatrico. Questi erano i motivi che lo trasformarono nell’uomo più spaventato di Mosca. Ciò che peggiorava la situazione era il fatto che gli attacchi del male, a differenza di quanto era accaduto a Onega, non passavano dopo pochi giorni. Il virus aveva subito una mutazione e il male era diventato cronico. Il germe era riuscito a evitare le difese immunologiche delle vittime col risultato che, come Igor Lobocevski ebbe a spiegare senza tante storie alla moglie: «Si grattano tutti come tanti maiali».

Nel corso di una riunione estremamente agitata in cui tutti si sentirono a disagio, i membri del Politburo riuscirono a prendere una sola decisione prima che i convenuti si disperdessero in totale disordine: la mobilitazione immediata dell’Esercito. A questo punto, infatti, era evidente per la segreteria che bisognava assolutamente imporre un totale blocco nella diffusione di notizie riguardanti gli eventi del Cremlino. La mobilitazione dell’Esercito venne subito considerata una eccellente copertura per garantire il blocco delle notizie.

Solo il Numero Quattordici, afflitto da aerofagia e recentemente retrocesso dalla posizione di Numero Undici passando per il Numero Dodici, non soffriva di prurito folle. Tuttavia ritenne prudente celare la sua buona salute e prese a grattarsi furiosamente anche lui.


La mancanza di notizie provenienti dalla Russia, le severissime restrizioni imposte da Mosca ai corrispondenti stranieri e la mobilitazione dell’Armata Rossa confermata dai satelliti-spia provocarono un clima di tensione nelle capitali occidentali, clima di tensione che acquistò le dimensioni di una crisi.

Il Primo Ministro britannico, preoccupatissimo, ritornando al numero 10 di Downing Street dal Parlamento, trovò Pingo Warwick, il suo segretario privato, che camminava su e giù per l’ufficio con un’espressione colma di ansia.

«C’è uno del Foreign Office che aspetta di essere ricevuto da lei», cominciò Warwick.

«Per quale motivo?»

«Deve parlarle del blocco delle notizie provenienti dalla Russia.»

«Dio mio, apprendo con gioia che il Foreign Office nutre un’opinione. Chi è?»

Pingo Warwick si mostrò a disagio.

«Il tipo non mi piace. Dice di chiamarsi Smithfield. Ho controllato, naturalmente, e ho scoperto che esiste effettivamente uno Smithfield, lavora per Sir Arthur Fotheringham nella Sezione Attività Insolite.»

«Beh, questo è già abbastanza insolito, non le pare? Che cosa c’è in lui che non va?»

«Preferirei che lei lo scoprisse da solo, Primo Ministro. Probabilmente avrei dovuto mandarlo via. Qualsiasi tentativo di contatto del Foreign Office dovrebbe essere effettuato per lo meno da Sir Arthur, anche se si tiene conto che le attività sono insolite. Ma Smithfield ha detto di conoscere il motivo del blocco delle notizie…» disse Warwick, come per scusarsi.

«Lei ha fatto molto bene, Pingo», annuì il Primo Ministro. «Non si può lasciare nulla di intentato per cui conviene sentire anche il Foreign Office.»

La comparsa di Smithfield non contribuì a migliorare l’opinione che il Primo Ministro nutriva nei confronti del Foreign Office. Come al solito, Smithfield indossava un abito troppo grande per lui, il che accentuava il suo aspetto emaciato. Quando entrò il Primo Ministro, si alzò dalla poltroncina sulla quale era spaparanzato mentre alcuni centimetri di cenere si staccavano dalla sigaretta fissa all’angolo della bocca per finire sul tappeto.

«Se c’è una cosa che detesto più delle mosche, è la cenere delle sigarette sul tappeto, il «mio» tappeto!» ululò il Primo Ministro.

«Ah, quella», rispose Smithfield un tantino sorpreso, per soggiungere: «Credevo che le interessasse la Russia, non la cenere delle sigarette. Ma per lo meno non ha sopra la testa un grosso ventilatore che ronza tutto il giorno appeso al soffitto».

«La Russia mi interessa, ma mi interessa anche la cenere delle sigarette sul mio tappeto.»

«Che strane precedenze», grugnì Smithfield, scagliando la sigaretta nel caminetto vuoto con uno schiocco delle dita.

«Chi è la persona, se mi è concesso di chiederlo, che ha un ventilatore ronzante sopra la testa da mane a sera?»

«Sir Arthur Nullità, lo scioccone per il quale lavoro al Foreign Office.»

«Lei intende Sir Arthur Fotheringham, immagino?»

«Esattamente. Sir Arthur Fotheringham, come ho detto. Uscito da Oxford dopo essere passato per Harrow. Ex presidente del Jockey Club a Ranjipur. Coltiva felci nel suo ufficio, se le interessa.»

«Non mi interessa.»

«Le interesserebbe se dovesse trovarsele davanti ogni giorno della settimana come succede a me. Peggio delle scartoffie, con rami che potrebbero nascondere un serpente boa.»

Il Primo Ministro aveva già deciso che c’era un limite a tutto. Ma prima di sbattere fuori Smithfield, volle cavarsi una curiosità che doveva soddisfare.

«Come ha fatto a farsi assumere al Ministero degli Esteri?»

Quando udì la domanda che gli veniva rivolta spesso, Smithfield si sistemò meglio sulla poltrona, accese un’altra sigaretta e disse: «Ho fatto l’esame di concorso per diventare funzionario del governo. Lei sa che cosa chiedono, no? Traduca:

«Lugete, o Veneres Cupidinesque,

et quantum est hominum venustiorum:

passer mortuus est meae puellae,

passer, deliciae meae puellae,

quem plus illa oculis suis amabat».

«Beh, ho fatto la traduzione. Comprende? Se lei non sa il latino, Primo Ministro, ecco che cosa dice la poesia:

«Piangete, Veneri e Cupidi, e voi

che siete più gentili. Morto è il passero,

il passero, delizia della mia

fanciulla, che lei amava più degli occhi».

«Questa è proprio roba da Foreign Office, l’aiuta a capire il mondo».

«Sì, ma…» lo interruppe il Primo Ministro.

«Oh, lei si sta domandando come me la sono cavata con il colloquio. E’ stato facile per uno come me, con la preparazione culturale che ho. Poiché non ho il vantaggio di essere l’ex presidente del Jockey Club di Ranjipur, mi sono rivolto a un agenzia e ho assoldato un attore, un tipo con il naso dritto e l’accento giusto. L’ho istruito per due settimane sulle cose che gli esaminatori, lo sapevo, gli avrebbero chiesto, e poi l’ho mandato al colloquio al posto mio. Come ho già detto, è stato facile. Sono passato con il gran pavese, come dicono in Marina.»

«E l’attore?»

«E’ finito male, come quasi tutti.»

Smithfield tossì emettendo una nube di fumo. Il Primo Ministro era più irritato che mai. Eppure, quell’uomo emanava un abominevole fascino. La posizione in cui era seduto sulla poltrona faceva sì che le maniche del soprabito troppo grande gli coprissero quasi del tutto le mani, per cui si vedevano solo le punte delle dita; e il modo in cui parlava, poi, senza fare il minimo sforzo per tenere la sigaretta in bocca… Gli pendeva semplicemente dall’angolo sinistro, sfidando la legge di gravità.

«Lei voleva informarmi sul blocco delle notizie dalla Russia.»

«Precisamente, era questa la mia intenzione. Ma lei non mi crederà. Non ci crederei io stesso se all’improvviso venisse, come ho fatto io, qui qualcuno a raccontarmelo.»

«Saprò se credere al suo racconto quando lo avrò sentito.»

«Beh, quello che sta succedendo in Russia non è un’esercitazione militare, questo posso assicurarglielo.»

«Che cos’è allora?»

Smithfield aspirò un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta e anche questa volta la scagliò nel caminetto vuoto, esalando il fumo attraverso le narici che aveva dilatato per l’occasione. Poi disse: «E’ il prurito folle».

«Non mi sembra una storia verosimile, temo», rispose il Primo Ministro in tono suadente, convinto ormai di avere a che fare con un pazzo.

«Il prurito folle», ripeté Smithfield con voce cupa, il che non contribuì ad aumentare la sua credibilità. Il Primo Ministro non disse nulla e cosi Smithfield fece un ultimo disperato tentativo: «E’ una nuova malattia che ha avuto origine nella Russia Settentrionale, in una piccola e anonima cittadina chiamata Onega. Ci sono stati altri, pochi, casi in altre località, le Isole Salomone, per citarne una. La malattia provoca un terribile prurito e per ora non c’è in vista una cura. Li ha colpiti tutti.»

«Chi esattamente?»

«Quelli del Politburo. Ce l’hanno tutti. Il blocco delle informazioni è stato proclamato per impedire che la notizia si diffondesse. Comprende?»

«Potremmo consultare il Consiglio di Ricerche Mediche», suggerì il Primo Ministro, deciso a non contrariare l’uomo.

«Potrebbe anche consultare Babbo Natale», rispose Smithfield in tono sarcastico. «Sono venuto a riferirglielo personalmente perché si tratta di una notizia importante e perché avrebbero impedito che arrivasse alle sue orecchie.» Dopo essersi alzato compostamente dalla poltrona sollevò di qualche centimetro le maniche del cappotto e soggiunse: «E ora me ne vado».

Un paio di minuti dopo che Smithfield se ne fu andato, Pingo Warwick entrò nell’ufficio del Primo Ministro, al primo piano, con un mucchio di documenti.

«Ha detto qualcosa che valesse la pena di sentire?» chiese.

«Ha detto che il Politburo è afflitto da una nuova malattia chiamata prurito folle.»

Pingo Warwick esplose in una risata.

«Questa barzelletta mi procurerà inviti a cena per il resto della settimana», disse, ridacchiando.

Smithfield proseguì lentamente fino in fondo a Downing Street. Quando raggiunse Whitehall accese un’altra sigaretta, tossì per un momento e si avviò nella direzione del Cenotafio. Non gli importava che la gente lo ignorasse o non gli credesse. Quello che non riusciva a sopportare era la perenne, seppur inespressa, accusa di non fare il proprio lavoro.

56

«Che giornataccia schifosa», disse il Primo Ministro quando Isaac Newton si sottrasse alla fitta pioggia gelida entrando nel grande atrio della residenza di campagna del Primo Ministro nei pressi di Princes Risborough.

«Frances Haroldsen è già arrivata», disse il Primo Ministro accompagnando Isaac Newton lungo scale e corridoi fino alla piccola biblioteca, situata accanto a quella più grande all’estremità di un’ala della casa. Il Primo Ministro si trattenne per un attimo nella biblioteca più grande mentre Isaac Newton proseguiva per salutare Frances Margaret con quel genere di abbracci e baci ben noti a buona parte della razza umana.

Poi il Primo Ministro entrò a sua volta nella biblioteca piccola, si sedette a un tavolo ed entrò subito in argomento: «Beh, come vanno le cose a Swindon?»

«Il CERC inghiottirà il rospo, come del resto lei immaginava. Possiamo procedere nel modo da lei desiderato, Primo Ministro. Certo, dopo un paio di settimane a Swindon non sento il minimo desiderio di tentare una riforma di quell’organismo. Seguirò fino in fondo la faccenda dei telescopi, ma lascerò che il resto vada avanti come prima.»

«E’ il sistema migliore, come ho potuto constatare», annuì il Primo Ministro. «Invece di proclamare ai quattro venti l’eliminazione del vecchiume, si dà l’avvio a qualcosa di nuovo, lasciando poi che le novità prendano piede. A proposito, i francesi stanno agitandosi.»

«Per i telescopi o le montagne di burro?»

«Per tutti e due. Che ne dice?»

«Facciamo come coi tedeschi, lasciamo che comincino. Sarebbe un vantaggio se scegliessimo tutti lo stesso progetto.»

«Quella roba della NASA?»

«Sì. A parte il fatto che si tratta di un buon progetto, questa soluzione impedirà il sorgere di rivalità nazionali tra noi, i tedeschi e i francesi, se, come dice lei, questi vogliono davvero partecipare.»

«Ora state per andare tutti e due in Germania, no?»

«Si, devo incontrarmi con Otto Gottlieb. E’ la mia controparte, come dicono a Swindon. Era a proposito dell’incontro con Gottlieb che volevo parlare con lei, Primo Ministro», disse Isaac Newton.

«Di che cosa, precisamente?»

«Delle dimensioni del progetto da noi proposto. I tedeschi ritengono che stiamo pensando solo in termini di pochi strumenti, e i francesi avranno ovviamente la stessa idea. Che cosa facciamo? Dobbiamo disilluderli o lasciare che ne costruiscano pochissimi, mentre noi ne costruiremo a centinaia?»

«Una faccenda un po’ delicata, non le pare? Che cosa le suggerisce l’istinto?»

«L’istinto mi dice sempre di essere sincero. In questo caso, purché lei mi rassicuri in proposito, Primo Ministro, dovrei essere certo che la posizione è ben definita. Ci sono ancora formalità da superare al Tesoro.»

«Secondo me, le formalità saranno presto superate. Può contarci.»

«Era questo che volevo sapere.»

«Può contare sul segnale di partenza, diciamo, tra un mese, a cominciare da adesso», concluse il Primo Ministro.

Ci vollero circa quaranta minuti perché Frances Haroldsen e Isaac Newton raggiungessero Heathrow da Princes Risborough; quindi parcheggiarono e si diressero verso il terminale 1. L’aereo per Francoforte doveva partire entro un’ora. All’arrivo sarebbero stati ricevuti da Otto Gottlieb oppure da qualcuno dei suoi collaboratori. Il banco d’accettazione era affollato, come lo è quasi sempre, e ci vollero circa quindici minuti perché consegnassero i bagagli e si dirigessero verso la zona d’attesa, dove si sistemarono su poltrone dalle quali potevano vedere un grande tabellone indicatore.

Erano li seduti da circa cinque minuti quando gli altoparlanti dell’aeroporto diffusero un messaggio: «Attenzione, prego. Il professor Newton, diretto a Francoforte con il volo novantadue delle BA, è pregato di presentarsi all’ufficio informazioni».

«Qualche ripensamento del Primo Ministro», disse Frances Margaret e si rimise a leggere una rivista mentre Isaac Newton si dirigeva all’ufficio informazioni nell’atrio, vicino all’ingresso della palazzina.

Frances Margaret alzò lo sguardo al tabellone e improvvisamente cominciò a provare un senso di disagio. Il volo 92 delle BA era salito in testa al tabellone, per cui c’era da aspettarsi da un momento all’altro l’avviso ai passeggeri di salire a bordo dell’aereo. Dando un’occhiata all’orologio, si avvide che Isaac Newton era ormai assente da quasi quindici minuti. Naturalmente non poteva far altro che aspettare, però si alzò in piedi per esaminare meglio la folla che si dirigeva verso l’ingresso. A tratti voltava la testa per dare un’occhiata al tabellone.

I minuti continuarono a passare e giunse l’avviso per i passeggeri del volo 92 di salire a bordo. La situazione non era comunque ancora compromessa in quanto occorre sempre un po’ di tempo perché i passeggeri superino il controllo dei passaporti e quello della polizia. Peraltro non era affatto nelle abitudini di Isaac Newton di combinare pasticci al momento dell’imbarco. Poi, a Frances Margaret venne il dubbio che il messaggio provenisse da Otto Gottlieb, che magari voleva rinviare l’incontro in Germania. In tal caso non c’era fretta. L’unico inconveniente consisteva nel fatto che avevano già consegnato i bagagli. Forse Isaac Newton stava tentando di ricuperarli, il che poteva spiegare il suo ritardo. Questa sembrava la spiegazione migliore e Frances Margaret ritornò all’idea di aspettare dove si trovava, riflettendo che, quando due persone si perdono di vista nella folla, quella che si trova nel punto noto a entrambe non deve muoversi. Altrimenti corrono il rischio di non ritrovarsi più.

Dopo essersi convinta che non era il caso di preoccuparsi, e non potendo fare altro, Frances Margaret continuò ad aspettare. I minuti passarono finché, a un certo punto, il tabellone indicò uno spostamento di cifre e il volo 92 scomparve. Così avevano perso l’aereo. E allora? Ci dovevano essere altri aerei per Francoforte, naturalmente. Sentendosi ormai libera di muoversi, Frances Margaret si diresse rapidamente verso l’ufficio informazioni nell’atrio, solo per scoprire che allo sportello non c’era il funzionario incaricato. Bestemmiando quasi a mezza voce, la ragazza guardò in direzione dello sportello delle BA dove un’ora prima avevano consegnato i bagagli. Ma, come allora, c’era sempre una lunga coda di passeggeri in attesa, e altri passeggeri facevano la fila agli sportelli vicini. Sempre più frustrata, Frances Haroldsen si rivolse a un agente di polizia nelle vicinanze e spiegò la situazione. L’agente di polizia, con crescente irritazione di Frances Margaret, non si rivelò molto sollecito e le disse semplicemente di rivolgersi allo sportello delle BA. Probabilmente, situazioni simili si verificano almeno una decina di volte in un pomeriggio per un agente di polizia in servizio a Heathrow.

Ricordandosi di essere priva di spiccioli per il telefono e promettendosi di non lasciarsi mai più intrappolare in una situazione simile, Frances Margaret si diresse verso l’edicola dove aveva comprato la rivista. Dopo aver fatto la coda per cinque minuti, vide la giornalaia, alla quale non andava di cambiare un biglietto da cinque sterline, fare una smorfia, seccata, al che afferrò un sacchetto di caramelle a casaccio da un espositore accanto alla cassa, e lo spinse insieme col biglietto da cinque sterline verso la donna. Dopo aver messo gli spiccioli nel borsellino e aver lasciato sul posto il sacchetto di caramelle, volse lo sguardo in giro per vedere dov’erano i telefoni, borbottando tra sé: «Dove diavolo saranno?»

Ripeté la stessa domanda investendo una delle ragazze sedute al banco delle BA. L’impiegata indicò con la mano in direzione dell’atrio e poi si strinse nelle spalle guardando la fila di passeggeri che facevano la coda al suo sportello, come per dire che aveva ogni momento a che fare con persone simili.

Le cabine dei telefoni erano tutte occupate e Frances Margaret dovette aspettare altri cinque minuti osservando le espressioni vaghe e i sorrisini futili della gente che stava telefonando. Finalmente, una delle cabine si liberò. Compose il numero dell’ufficio del Primo Ministro e disse alla persona che le rispose che doveva trasmettere un messaggio importante. Poi soggiunse che avrebbe richiamato con tassa a carico del destinatario. Dopo aver rifatto il numero, spiegò quello che era successo dal momento in cui lei e Isaac Newton avevano lasciato Princes Risborough. Prima di riattaccare chiese di essere messa in contatto con la polizia dell’aeroporto e disse che sarebbe rimasta in attesa accanto allo sportello delle informazioni.

Allo sportello delle informazioni, il funzionario di servizio era sempre assente.

«Perché lo chiamano sportello delle informazioni?» chiese qualcuno.

«E’ uguale a tutti i posti che dovrebbero essere a servizio del pubblico», rispose un altro.

Finalmente arrivarono due uomini in uniforme, muniti di ricetrasmittenti portatili. Frances Margaret li seguì mentre questi si avviavano tra la folla a passo spedito. Ma i due uomini in uniforme la portarono solo fino alla saletta riservata ai personaggi importanti, pensando evidentemente che una comoda poltrona e una tazza di caffè avrebbero tenuto occupata la mente della ragazza. A questo punto, Frances Margaret si infuriò.

«Portatemi al vostro centro comunicazioni. Non qui», esplose con una violenza che sbalordì i due uomini.

«Ci hanno ordinato di portarla qui», rispose uno di loro.

«E io vi dico di portarmi al vostro centro comunicazioni. Non vi viene in mente che potrebbe essere accaduto qualcosa di grave e che posso essere in possesso di informazioni che vale la pena di ascoltare?»

Così accompagnarono Frances Haroldsen fuori della palazzina e la condussero su una Land Rover, girando intorno al piazzale dell’aeroporto, a un edificio non tanto grande, a tre piani, più simile a un prefabbricato. La costruzione doveva essere temporanea, ma a quanto sembrava, non veniva sostituita mai. Dal terzo piano lo sguardo poteva abbracciare tutto il piazzale. Era il centro che consentiva alla polizia di sorvegliare tutto l’aeroporto, com’era facile capire dalle attrezzature elettroniche e dal numero delle persone che erano di servizio.

«La giovane signora ha voluto essere portata qui a tutti i costi.»

«Sì, beh, la presenza del pubblico non è gradita in questi uffici», cominciò un uomo piuttosto anziano la cui uniforme era provvista di un numero di galloni maggiore che non quella degli altri.

«Non siete intervenuti per ordine dell’ufficio del Primo Ministro?» chiese Frances Haroldsen con voce autoritaria.

«Sì, abbiamo avuto una chiamata urgente, ma pare che la linea con l’ufficio del Primo Ministro sia caduta», rispose l’uomo mostrando una certa sorpresa. «Tuttavia credo che abbiamo delle informazioni per lei, signorina. Sembra che verso le due e quarantacinque — quella è l’ora, penso — un uomo si sia accasciato accanto allo sportello delle informazioni nell’atrio. Un uomo alto, a quanto pare. E’ stato portato via da un’ambulanza e noi stiamo ora telefonando agli ospedali. Spero che avrò presto altre notizie per lei, e che siano buone.»

«Che cosa dicono quelli del pronto soccorso?» chiese Frances Margaret.

«Sembra che sia stato portato via da un’ambulanza, in barella. Chi ci ha segnalato il caso è stato un agente di polizia di servizio all’esterno dell’edificio.»

«Non quelli del pronto soccorso?» ripeté Frances Haroldsen.

«No, quelli del pronto soccorso sono stati ovviamente sostituiti dal gruppo dell’ambulanza. Ora stiamo facendo indagini tramite la polizia metropolitana, indagini negli ospedali di Londra, voglio dire.»

«Al diavolo gli ospedali!» sbottò a questo punto Frances Haroldsen che stava perdendo completamente il controllo. «Vuol raccontarmi forse che se uno si sente male improvvisamente in una delle palazzine riservate ai passeggeri, trova subito un’ambulanza, con barella e tutto il resto, pronta a precipitarsi in suo soccorso? Balle! Qualcuno chiamerebbe il pronto soccorso dell’aeroporto e pochi minuti più tardi comparirebbe sul posto un infermiere o magari anche un medico. Se il caso dovesse essere grave, chiamerebbero un’ambulanza che ci metterebbe un’altra decina di minuti per arrivare. Per l’amor del cielo, cominci a indagare sul serio. Cominci con il pronto soccorso.»

«Lo abbiamo già fatto, signorina, ma quelli non avevano nulla da segnalare», disse uno degli uomini più giovani, di servizio a un quadro di comando delle apparecchiature elettroniche. Il giovanotto aveva fatto l’osservazione nell’intento di smontare un po’ la ragazza, ma ottenne l’effetto opposto. Il poliziotto più anziano cominciò a intuire che la situazione poteva avere dei punti oscuri. Si rese conto all’istante che non aveva a che fare con il solito passeggero colpito da infarto, come succede a ogni piè sospinto in un aeroporto come quello di Heathrow.

«Ha dei motivi per credere, signorina… beh, che ci possa essere di mezzo qualcosa contro la legge?» chiese il graduato.

«Sì, un motivo potrebbe esserci. Un motivo molto valido. Infatti, abbiamo commesso uno sbaglio per non avervi avvertiti in anticipo», rispose Frances Margaret, più calma.

«Un vero peccato, signorina. Ma che cosa possiamo fare? Lei conosce il traffico di Londra. E le ambulanze hanno automaticamente la precedenza. Non voglio dire che sia un caso disperato, ma…» La voce del graduato si spense un po’ alla volta.

«Fuori dell’aeroporto è una cosa. Entro il recinto un’altra», ribatté Frances Margaret immediatamente.

«Che cosa intende dire, signorina?»

«Supponga che qualcuno abbia l’intenzione di far uscire una persona dal paese. Come potrebbe fare?»

«Io lo farei con un aereo da trasporto», disse qualcuno.

«In tal caso «cercate di scoprire» se un’ambulanza è stata vista verso le due e quarantacinque nel recinto delle merci», proruppe Frances Margaret, alzando di nuovo la voce.

Tutti si misero ad ascoltare la conversazione avviata con il sistema di comunicazioni interne dell’aeroporto. Le frasi si incrociarono fulminee tra le palazzine riservate ai passeggeri, la sezione merci e la torre di controllo. Con il passare dei minuti, l’espressione del volto del graduato diventava sempre più preoccupata.

«Ora lo sappiamo», disse finalmente. «Nella sezione merci «c’era effettivamente» un’ambulanza, e cinque aerei da trasporto sono decollati dalle due e quarantacinque in poi. Naturalmente, a partire da adesso non ne faremo decollare altri senza averli perquisiti a fondo per trovare l’uomo scomparso. Peccato non averlo saputo prima.»

Frances Haroldsen fece uno sforzo per dominarsi e non esplodere.

«Se doveste venire a sapere qualcosa, vi dispiacerebbe telefonare a questo numero? E ora, potete chiamare un taxi?»

Il taxi portò Frances Margaret al centro di Londra, a Trafalgar Square e da qui a Downing Street. I due agenti di polizia di guardia al numero 10 la fecero entrare dopo un breve controllo. Il Primo Ministro, arrivato da Princes Risborough, la stava aspettando quando venne fatta salire. Era del tutto sconvolta: aveva compiuto troppo a lungo notevoli sforzi per controllarsi e ora, alla vista del Primo Ministro, scoppiò improvvisamente a piangere. Sembrava passato così poco tempo dal momento in cui tutto andava a gonfie vele, nonostante l’incessante pioggia che aveva continuato a cadere per tutta la giornata.

57

Isaac Newton riprese i sensi. Aveva un forte mal di testa, terribilmente peggiorato da un senso di soffocante prigionia: le mani rifiutavano di muoversi e un buio impenetrabile lo soffocava. L’immagine di Boulton, il professore di geostrofica, si affacciò per un attimo alla sua mente, per dissolversi subito. Nonostante il mal di testa giunse alla conclusione che doveva avere le mani legate, una sensazione resa ancora più insopportabile da una continua vibrazione accompagnata da un rombo senza fine, come se si trovasse all’interno di una cassa alla deriva nelle rapide di un fiume e in procinto di essere inghiottita da una cascata.

La vista di Boulton avrebbe dovuto metterlo in guardia. L’uomo si era avvicinato a lui. Dov’era successo? Era accaduto di recente o tanto tempo fa? Isaac Newton tentò di rispondere a tutte queste domande e giunse alla conclusione che era accaduto poco tempo prima. Sì, ora ricordava: in un aeroporto. Il cervello sembrava schiarirsi ma c’erano degli intervalli durante i quali ripiombava in uno stato di semi-incoscienza. Un aeroporto? Era Ginevra? No, quello di Londra era più probabile se c’era Boulton. Lo aveva visto venirgli incontro; faceva segno di averlo riconosciuto e Isaac Newton aveva interpretato subito il segnale come un avvertimento. Per metterlo in guardia contro che cosa? Prima che potesse rispondere a questa domanda si udì una specie di schianto, come se la cassa nella quale aveva la sensazione di essere sepolto avesse urtato contro uno spuntone di roccia in fondo al fiume, mentre il rumore indicava che la cascata era vicinissima.

Gli schianti si susseguirono, un fragore di legno che andava a pezzi. Per Isaac Newton era un mistero perché l’acqua del fiume non stesse già riempiendo la cassa, e come mai, con la cascata evidentemente così vicina, la cassa non l’avesse ormai superata, rigirandosi e roteando nell’aria per fracassarsi violentemente sulle rocce sottostanti, e lui non stesse affogando nei gorghi dell’acqua sotto la cascata stessa.

Poi accaddero tre cose. Qualcosa lo stava tirando fuori con energia dalla cassa, per cui Isaac Newton ebbe la sensazione di essere risucchiato. Inoltre scorgeva un debole chiarore, che sarebbe stato spiegabile con l’immersione nell’acqua profonda; il fenomeno era accompagnato da un’improvvisa sensazione di freddo intenso, che pure si accordava a queste supposizioni. Il freddo, Isaac Newton se ne rese conto nonostante l’attutita reazione dei sensi, lo avrebbe ucciso ben presto.

Poi accaddero altre tre cose: il risucchio riprese vigore ed egli ebbe la sensazione di essere trascinato sul fondo. Quindi, altrettanto all’improvviso com’era stato investito dal freddo, ci fu uno sbalzo di temperatura che lo portò a un caldo soffocante. In quell’istante udì delle voci e riuscì per lo meno a distinguere bene l’ambiente che lo circondava. Prima aveva avuto gli occhi bendati.

Per quanto riguardava la cassa di legno in cui era stato imprigionato, aveva ragione. A questo punto vide che la cassa si trovava nello scomparto refrigerato di un cargo e che era stata ben isolata per non far passare il freddo. Era lo strato di isolamento che aveva attutito il rumore dei motori dell’aereo, creando nella sua fantasia l’immagine di una cascata. La forza di risucchio era stata esercitata in realtà da un uomo enorme, accompagnato da un altro che, a paragone, sembrava un nano. Quest’ultimo aveva aperto una porta pressurizzata che divideva lo scomparto frigorifero da quello riscaldato, per i passeggeri, e l’uomo grande e grosso aveva trascinato Isaac Newton dall’uno all’altro; si spiegava così l’improvviso aumento di temperatura. Qui era in corso una conversazione in una lingua che lui non capiva, con una terza voce che interveniva ogni tanto. Al termine della conversazione, Isaac Newton sentì improvvisamente allentarsi le bende che lo avevano fasciato come una mummia. Lentamente, barcollando si alzò in piedi. Si vide di fronte un secondo uomo dall’aspetto possente, calvo, sulla cinquantina, con occhi di un azzurro intenso e con un cranio che si dilatava stranamente sopra le tempie.

«Spero che Bolbocian non sia stato troppo rude con lei, professor Newton», disse l’uomo, in inglese, con un largo sorriso che mise in mostra una chiostra di denti perfetti, ma molto grandi. «Permetta che mi presenti. Sono Kaufman St John. Se vorrà essere così gentile da accomodarsi da questa parte, si renderà conto di trovarsi tra amici.»

Kaufman St John lo precedette verso la parte anteriore dell’aereo, fornita di poltrone, come la prima classe degli aerei di linea. Seduto in una di queste, fingendo di leggere una rivista, c’era il professore di geostrofica di Cambridge.

«Oh, finalmente ti hanno lasciato uscire! Sono contento. Se fossi in te, racconterei loro ciò che vogliono sapere. Non ha senso fare tante storie. Dopo tutto, personalmente non ci rimetterai nulla», disse Boulton.

Ciò indusse Kaufman St John a sorridere di nuovo per dire poi: «Lei si domanderà indubbiamente, professor Newton, come Boulton e io ci siamo conosciuti. Un paio di anni fa ci siamo incontrati nel tentativo di accaparrarci il mercato mondiale del pepe; l’impresa è stata sventata, purtroppo, dalla CIA. Ma non prima che il povero Boulton ci rimettesse anche la camicia».

«Sospettavo una cosa del genere», rispose Isaac Newton.

«Il suo acume commerciale, professor Newton, torna a suo credito. Abbiamo avuto delle perdite, perdite che ora verranno risarcite, e l’idea mi riempie di gioia. Verranno risarcite con notevoli interessi. Quest’idea mi diverte ancora di più.»

«Da chi verranno risarcite?»

«Dagli americani. Sono sempre gli americani, non è così?»

«Non saprei. E’ veramente così?»

«Vogliono il cifrario per comunicare con la cometa di Halley, capisci?» intervenne Boulton. «Tu non devi far altro che metterlo per iscritto e spiegarlo affinché gli americani sappiano come utilizzarlo per stabilire un contatto con la cometa.»

«E gli americani sono disposti a pagare?» chiese Isaac Newton.

«Naturalmente», rispose Kaufman St John in tono asciutto. «Pagheranno.»

«Molto?»

«Molto.»

«Abbastanza per accaparrarvi il mercato mondiale del pepe? Si trattava del mercato del pepe, no?»

«Non perdiamo tempo con cose che per il momento non hanno importanza, professor Newton.»

«Sono curioso, signor St John. Curioso di sapere come vengono combinati questi pagamenti. Con quale valuta? E dove? O lo fa in previsione di compensi futuri, un’attività che piace tanto a Boulton, sembra?»

«Ho detto di mettere da parte le cose prive di importanza, professor Newton.»

«Ritiene che sarebbe di scarsa importanza per me, chiedere che cosa accadrà quando avrò consegnato il cifrario?»

«La sbarcheremo all’aeroporto di Stoccolma.»

«Ciò che mi preoccupa un tantino è la possibilità che l’aereo vada al di là di Stoccolma», insisté Isaac Newton. «Nel qual caso ci ritroveremmo in un territorio molto meno amico dal mio punto di vista. A dir la verità pensavo che avremmo dovuto già raggiungere Stoccolma.»

«Le sue obiezioni sono del tutto irrilevanti, professor Newton. E’ come se lei tentasse, per qualche futile motivo, di guadagnare tempo. Ma per placare la sua curiosità le dirò che ora siamo vicinissimi al Polo Nord, ben lontani dalle normali rotte commerciali. Adesso ci metteremo a volare intorno al Polo finché non avremo concluso il nostro affare.»

«E se mi rifiutassi di concluderlo?»

«Ma non puoi rifiutare, Newton! Non puoi! Non ti rendi conto che l’aereo è una camera di tortura volante?» gemette Boulton, estremamente nervoso.

A questo punto, Isaac Newton si rese conto che la parte posteriore dell’aereo era celata da una tenda. Mentre alzava gli occhi per guardarla, questa si scostò e nell’apertura apparve un uomo con il volto cereo, i capelli bianchi e lisci lunghi fin quasi alle spalle, vestito tutto di bianco come un chirurgo.

«E’ una questione di aritmetica», disse Kaufman St John. «Nessuno rifiuta dopo la settima iniezione. Già alla quinta iniezione il cervello non funziona più tanto bene. Con la decima arriva la morte. Tocca a lei decidere, professor Newton.»

Isaac Newton sapeva di dover rifiutare, ma non sapeva ancora perché. Perché doveva scegliere la via più difficile quando in fin dei conti il fatto di mettere per iscritto il cifrario non avrebbe avuto importanza? Se le cose stavano così, perché non doveva dare immediatamente il cifrario a questi gaglioffi? Eppure, aveva chiaro nella mente che non era ancora il momento di farlo. Prima di arrivare a tanto bisognava seguire la via più difficile, così avevano fatto altri in millenni di storia e tra questi altri Scrooge, l’umile assistente di magazzino del laboratorio.

Bolbocian lo sollevò dal sedile come si fosse trattato di un bambino e lo trasferì dall’ambiente lussuoso della parte anteriore dell’aereo in un mondo ben diverso che si trovava al di là della tenda, un mondo di luci abbaglianti, arredato con gli strumenti di una sala operatoria.

Kaufman St John stava gridando alle sue spalle: «Solo l’iniezione, per questa volta».

Con una velocità che dimostrava come si trattasse di un’operazione abituale, Isaac Newton venne fatto sdraiare e immobilizzato su uno stretto lettino. Poi gli venne tolta la giacca e gli fu arrotolata la manica della camicia. Provò una sensazione di gelo sul braccio.

«Così non sentirà l’ago», disse l’uomo dal volto cereo, vestito di bianco, con voce melliflua.

L’ago lo punse mentre l’uomo dal volto cereo continuava a dire con la stessa voce suadente, ma anche agghiacciante: «Solo un po’ di pressione, un po’ di pressione».

Le cinghie che trattenevano le braccia e le gambe di Isaac Newton dovevano essersi sciolte automaticamente perché le sentì allentarsi proprio nell’istante in cui una gabbia d’acciaio alta circa sessanta centimetri veniva calata dall’alto sopra il lettino.

Le convulsioni arrivarono circa trenta secondi più tardi. I muscoli cominciarono a contrarsi in tutto il corpo — i muscoli delle gambe, dell’addome e della schiena, del torace e del collo — costringendolo a urlare, a rantolare, a singhiozzare senza tregua. Il dolore insopportabile diminuiva in un determinato punto per ripresentarsi altrove. Gli sembrava che qualcuno lo stesse strangolando, che ai polmoni non arrivasse abbastanza aria. I ripetuti spasmi si traducevano in una perdita dei sensi, ma l’intensità del dolore lo riportava allo stato di coscienza. Alla fine, dopo un ultimo periodo di incoscienza, Isaac Newton si riprese.

Si ritrovò seduto sulla poltrona nello scomparto anteriore dell’aereo. Quando aprì gli occhi, udì una voce: «Gli concederemo solo pochi momenti per riprendersi. Fagli sentire la registrazione e continua a ripeterla».

A tratti Isaac Newton riuscì a riconoscere, seppure a malapena, la voce urlante diffusa dagli altoparlanti ai due lati dell’aereo come la propria, ma per lo più i suoni emessi dagli altoparlanti erano le parole irriconoscibili e i sussulti di una creatura «in extremis», privi di qualsiasi discernibile qualità umana. Quando si riprese a sufficienza per rendersi conto che aveva la camicia fradicia incollata alla schiena, vide che l’uomo dal volto cereo, parzialmente nascosto dalla tenda, stava pettinandosi i lunghi capelli lisci. Nella direzione opposta, cioè nella parte anteriore dello scomparto principale, c’era una porta ben chiusa che doveva portare alla cabina di pilotaggio. Da chi era composto l’equipaggio? Forse da normali avieri che seguivano il prescritto piano di volo senza preoccuparsi tanto di ciò che stava succedendo alle loro spalle? Quale che fosse la risposta alla sua domanda, Isaac Newton improvvisamente si convinse che la salvezza gli sarebbe arrivata in qualche modo dalla porta che dava accesso alla cabina di pilotaggio. Tuttavia non riuscì a trovare una spiegazione razionale per questa sua convinzione.

La faccia di Boulton era bianca come quella dell’orribile gaglioffo dal volto cereo dietro la tenda.

«Io al posto tuo direi loro ciò che vogliono sapere. Non ha senso torturarti in questo modo!» balbettò Boulton, quasi istericamente.

«Il professore ha ragione», annuì Kaufman St John. «Il professore di geostrofica ha ragione. Geostrofica! Il vento! Ne ho abbastanza di questo pallone gonfiato. Ora le faccio vedere, professor Newton, che cosa succede quando perdo la pazienza. Bolbocian! Vogliamo mettere in atto il nostro piano per questo pallone gonfiato di un professore?»

Passo per passo, lentamente, bilanciandosi sui tacchi, il gigantesco Bolbocian si avvicinò alla poltrona in cui stava seduto Boulton. Il minuscolo compagno di Bolbocian ne osservava ogni passo con un’espressione piena di ammirazione dipinta sulla faccia.

«Oh, no, non «io»!» cominciò Boulton, urlando senza ritegno. «Non ho fatto niente di male, «io»!»

«Solo una cosa: quella di essere te stesso», rispose Kaufman St John con disprezzo.

«Oh, «no»!» strillò Boulton di nuovo, con Bolbocian distante ormai solo due o tre passi. «Le pagherò tutto quanto le devo», gridò Boulton, «tutto, fino all’ultimo copeco.»

«Certo che pagherai», ribatté Kaufman St John con voce soave. «Il tuo debito verrà ripagato con un prezioso contributo al mio archivio. Liquidatelo!»

Bolbocian afferrò il professore di geostrofica come un adulto afferra un bambino che si dibatte. Isaac Newton si aspettava già di vedere l’energumeno fracassare all’istante con un colpo brutale l’osso del collo di Boulton, ma invece questi venne condotto fuori ed egli rimase con la momentanea speranza di trovare l’occasione per fare i conti con il mostro dal volto cereo dietro la tenda. Il guaio era, comunque, e se ne rese conto quando tentò di alzarsi di scatto dal sedile, che era del tutto privo di forze.

Ma Isaac Newton non fu lasciato solo per molto. Due o tre minuti più tardi Bolbocian, di ritorno, lo afferrò e, in parte facendolo camminare, in parte sollevandolo, lo portò da basso fino all’ultimo ponte dell’aereo dove Kaufman St John e il piccolo compagno di Bolbocian stavano guardando attraverso la metà superiore, trasparente, di un ampio portello. Dall’altra parte del portello stava Boulton, il professore di geostrofica, cioè dei venti, come Kaufman St John aveva giustamente osservato. Bolbocian costrinse Isaac Newton a premere il naso contro l’oblò per cui venne a trovarsi con il volto a soli pochi centimetri di distanza da Boulton. Isaac Newton rimase a guardare inorridito mentre Boulton, con il viso contratto dalla paura, chiedeva disperatamente aiuto, ma non una sola parola di ciò che stava dicendo poté essere udita attraverso il portello.

Boulton era intrappolato in un piccolo scomparto che aveva da un lato il portello e sul lato opposto la fusoliera. Isaac Newton si rese conto un po’ alla volta, sempre più inorridito, che Boulton era prigioniero entro una camera pressurizzata. Quando comprese pienamente il vero significato di tutto questo, il minuscolo compagno di Bolbocian si alzò sulla punta dei piedi, per raggiungere un pulsante che prese a schiacciare con un gesto enfatico, da apprendista stregone. Con una lentezza all’apparenza infinita, due portelli scorrevoli sulla fusoliera si aprirono centimetro per centimetro. Isaac Newton vide Boulton tentare di affondare le unghie delle dita nel durissimo materiale trasparente. Una frazione di secondo più tardi, il professore dei venti era già scomparso, risucchiato dalla corrente d’aria prodotta dall’aereo. L’ometto minuscolo, alzandosi di nuovo in punta di piedi, premette un altro pulsante e Isaac Newton assistette incredulo allo spettacolo dei portelli che ritornavano nella posizione di «chiuso». Poi notò che Kaufman St John stava parlando a un microfono del sistema di comunicazione interna. Benché la lingua usata non gli fosse familiare, capì che stava evidentemente impartendo ordini all’equipaggio dell’aereo. Infatti l’apparecchio andò subito in picchiata, virando di qua e di là come se il pilota avesse un’unica preoccupazione: sfracellarsi al suolo. Finalmente, l’aereo si raddrizzò, riassumendo il normale assetto di volo, per poi cabrare subito. Dopo vari minuti trascorsi nel tentativo di resistere alle drastiche e mutevoli accelerazioni, Isaac Newton venne sospinto da Bolbocian sul sedile nella parte anteriore dello scomparto principale.

Per un po’ non accadde altro. L’uomo dal volto cereo era ancora lì, in attesa dietro la tenda, e Bolbocian stava accanto alla poltrona di Isaac Newton. Quanta parte della faccia di Bolbocian sarebbe stato necessario asportare per renderlo indistinguibile da una scimmia? Non molto, decise Isaac Newton. L’ometto minuscolo fissava con gli occhi la porta chiusa che separava lo scomparto dalla cabina di pilotaggio. Nel frattempo, Kaufman St John stava scrivendo con molto impegno su un librone rilegato in pelle che alla fine chiuse con uno scatto, dicendo con un sorriso soddisfatto: «Il mio archivio!»

Una spia rossa si accese sopra la porta di accesso al ponte di volo, al che l’ometto fece una piroetta abbastanza ben riuscita, per passare poi attraverso la porta, dimostrando che questa non era chiusa a chiave. Questo fatto avrebbe offerto ad Isaac Newton l’occasione che stava cercando per soddisfare la propria curiosità a proposito dell’equipaggio, solo che il massiccio corpo di Bolbocian si frapponeva tra lui e la porta. Si rese conto che si sarebbe trovato in una posizione molto migliore per guardare attraverso la porta se fosse stato seduto su uno qualsiasi degli altri sedili, ma per chissà quale motivo gli sembrava importante essere seduto proprio lì.

L’ometto riapparve portando ciò che ad Isaac Newton sembrò una telecamera portatile. Ancora una volta, la porta di accesso alla cabina di pilotaggio si chiuse di scatto prima che lui riuscisse a gettare un’occhiata dall’altra parte. Ma la vista della telecamera contribuì in maniera decisiva a spegnere ogni minima speranza che Isaac Newton avesse riposto in un aiuto da parte dell’equipaggio. Evidentemente, rifletté, quegli uomini non erano semplici avieri come aveva sperato, un’opinione che trovò ben presto la sua drammatica conferma. Eppure, Isaac Newton non riusciva a distogliere la mente dalla porta, ma non avrebbe saputo dire il motivo di questa ossessione.

L’ometto collocò la telecamera in quello che sembrava un proiettore nascosto dietro un tramezzo. Dopo che ebbe schiacciato un certo numero di pulsanti, un fascio di luce emerse dal proiettore, passando attraverso un foro nel tramezzo, praticato a circa un metro e mezzo sopra il pavimento della cabina. L’ometto riemerse dopo aver sistemato la telecamera, fece un’altra piroetta e poi srotolò dall’alto uno schermo di quelli usati per proiettare in volo pellicole cinematografiche.

«Vedo che è proprio un esperto di elettronica», commentò Isaac Newton, sorprendendosi egli stesso per questa osservazione.

Kaufman St John replicò immediatamente: «Non bisogna prendere in giro Margolis, come qualcuno ha già imparato a proprie spese, per esempio il nostro comune amico Boulton».

Isaac Newton constatò che era stato usato un nastro, non una pellicola, per seguire Boulton che cadeva, sospeso nell’aria con le braccia e le gambe divaricate come le pale di un mulino a vento per cui ruotava piuttosto lentamente su se stesso. Il pilota dell’aereo aveva ripreso la caduta con molta abilità, addirittura collocandosi a tratti sotto l’uomo condannato cosicché Boulton sembrava quasi piombare addosso all’obiettivo. Le braccia e le gambe sembravano così irrigidite da indurre Isaac Newton a domandarsi se Boulton si fosse congelato in quella posizione o se fosse il ghiaccio a serrarlo strettamente come un involucro rigido. La ripresa offriva anche panorami delle montagne artiche all’apparenza infinite verso le quali l’aereo si era gettato in picchiata. Dapprima, i monti sembravano molto lontani e confusi, salvo aumentare di dimensione man mano che l’apparecchio si abbassava in quota, offrendo una mutevole scena caleidoscopica di tratti argentei e bianchi. E sempre, al centro dell’inquadratura c’era Boulton, metà illuminato dal sole e metà in ombra, che cadeva contro il fianco coperto di neve di una montagna. Fu quando la figura rotante su se stessa passò dalla luce alla zona d’ombra che il professore di geostrofica finalmente scomparve dalla vista precipitando in un buio abisso.

La proiezione era durata un paio di minuti o giù di lì; ma era sembrata molto più lunga ad Isaac Newton. Tentò di ricordare la velocità massima che un corpo umano può raggiungere cadendo nell’aria. Centocinquanta chilometri all’ora? Ma no, dovevano essere sicuramente di più! Il che significava, secondo Isaac Newton, che Boulton era caduto da una quota di almeno novecento metri dove la temperatura era probabilmente inferiore ai 30 gradi sotto zero. Gli venne in mente la tremenda sensazione di freddo provata quando lo avevano estratto dalla cassa nello scomparto merci dell’aereo.

Il nastro venne proiettato varie volte, e ogni volta Isaac Newton, come affascinato, notò un sempre maggior numero di particolari dinamici, specialmente il modo in cui l’asse di rotazione della figura in caduta si spostava come una foglia che cade in una giornata senza vento. Poi si disse che una simile curiosità era completamente fuori luogo. Tuttavia non riuscì a trovare una motivazione etica. Ogni volta che cercava di provare pietà per Boulton, gli veniva in mente l’immagine di Scrooge morto, mentre lo portavano fuori del laboratorio in barella. Con questo ricordo, Isaac Newton si sentì pervadere man mano da un senso di rabbia contro quelli che gli stavano attorno, e insieme col senso di rabbia si fece strada la strana convinzione che fosse ormai quasi tempo… tempo di che cosa? Non riusciva a immaginarlo.

«Per il mio archivio!» abbaiò Kaufman St John, tutto euforico.

«No, non per il suo archivio, ma per qualcosa di ben più terribile», disse Isaac Newton con aria assente, quasi senza tener conto degli altri. Adesso era certo che la strana sensazione da lui provata a proposito della porta di accesso al ponte di volo non aveva nulla a che vedere con l’equipaggio dell’aereo. Era una porta che dava accesso a qualcosa di ben diverso.

«Ho detto per il mio archivio», tuonò di nuovo Kaufman St John. «E adesso occupiamoci di lei, professore.»

«Credo di averla sentita dire che voleva il cifrario. Il cifrario della cometa di Halley, vero?» chiese Isaac Newton con una voce distaccata che lui stesso trovò strana.

«Lei si è rivelato molto abile nel procrastinare le cose, professore. Anche se il ritardo non ha importanza. Ma non ci saranno altri rinvii. Il cifrario!»

«Il cifrario non è una cosa tanto semplice. Altrimenti, quelli che lo vogliono lo avrebbero già decifrato da un pezzo. Mi dia un bloc-notes e lo metterò per iscritto. Ci vorranno parecchie pagine.»

Margolis portò l’occorrente per scrivere e Isaac Newton cominciò a vergare sulla carta, con mano tremante, il cifrario. Dopo un po’ si accorse che l’uomo dal volto cereo era ricomparso e stava dietro di lui, intento a osservarlo e a pettinarsi i lunghi capelli.

«Se lei vuole questo cifrario», esclamò Isaac Newton con un ringhio, rivolto a Kaufman St John, esprimendo finalmente tutta la sua rabbia, «dica a questo abominevole individuo di star lontano da me.»

Se non fosse stato per l’incessante rombo dei motori dell’aereo, l’osservazione di Isaac Newton avrebbe provocato un lungo attimo di silenzio, e anche espressioni di sgomento sulle facce di Bolbocian e del piccolo Margolis.

«Professore, non le viene in mente che potrebbe arrivare presto il momento in cui ogni nervo tormentato del suo corpo invidierà la fortuna del professore di geostrofica per la maniera in cui è morto? Impetronius è offeso, professore», rispose infine Kaufman St John con voce soffocata.

«Perché dovrei allora prendermi la briga di farle conoscere il cifrario? Non dovevo essere sbarcato all’aeroporto di Stoccolma?»

«Lei mi farà conoscere il cifrario, professore. Me lo farà conoscere per guadagnare tempo. Solo per guadagnare tempo e rimandare l’inevitabile. Ma se la lascio lì a scrivere a suo piacimento, come faccio a esser certo che non stia scrivendo cose prive di senso per rimandare il momento fatale?»

«Lei può avere i fogli man mano che finisco di compilarli», rispose Isaac Newton, strappando il primo foglio dal blocco e lanciandolo con un gesto di disprezzo a Kaufman St John.

Margolis fece un’altra delle sue piroette e lo ricuperò.

«In tal caso Impetronius si scosterà da lei. Per un po’», annuì Kaufman St John prendendo il foglio che Margolis gli porgeva.

Impetronius si scostò avvicinandosi alla tenda semi-aperta, davanti alla quale rimase a pettinarsi i lunghi capelli bianchi.

Isaac Newton «sentiva» ora il rumore dei motori. Il che era strano perché durante l’ora appena trascorsa era riuscito a imporsi di ignorarlo. La mano gli tremava mentre scriveva. E tremava sempre di più con il passare dei minuti. Si sforzò di concentrarsi, altrimenti non avrebbe scritto più nulla a causa della paura subentrata alla rabbia, una paura folle, una paura che aveva già provato durante la notte di tempesta nel cottage sulla costa del Norfolk. Come allora, qualcosa di oscuro era entrato ora nell’aereo. Isaac Newton, preso da una strana frenesia, ebbe la sensazione che il qualcosa fosse penetrato chissà come nell’apparecchio proprio nell’istante in cui Boulton ne era stato espulso, quando si erano aperti i portelloni esterni della fusoliera.

Un centimetro alla volta, mentre scriveva, Isaac Newton si spostava sulla poltrona. Il sedile — particolare rilevante — non era fissato al pavimento ma scorreva su due guide come i sedili dell’automobile. Spostare un po’ alla volta la poltrona, in maniera che gli altri non se ne accorgessero, gli pareva ora più importante dello stesso cifrario che continuava a mettere sulla carta con mano tremante, gettando sul pavimento della cabina i fogli appena riempiti. Vedeva Margolis ricuperare i fogli per consegnarli a Kaufman St John, e anche questo gli sembrava stranamente importante. Nonostante il tremito che continuava a scuoterlo, la perplessità si impadronì di lui.

Il rumore dei motori scese improvvisamente dal diapason fino a diventare un ronzio; quindi, anche il ronzio si spense. Newton si chiese per un breve attimo se per caso non gli stesse dando di volta il cervello. Poi vide gli altri fissare uno sguardo sgomento in direzione della porta che li separava dal ponte di volo. La porta! La porta di accesso a che cosa? Non era più un portello metallico. Era una porta di legno, bloccata per traverso da una robusta sbarra. Isaac Newton vide che si trattava in realtà della porta di un cottage, non di un portello d’aereo. E improvvisamente, non appena spenti i motori, gli parve di sentire l’ululato del vento e il rumore delle onde che s’infrangevano sulla battigia.

Era il cottage sulla costa del Norfolk nella notte della grande tempesta. E così, come quella notte vi era stata un’apparizione nella stanza, ora ci fu un’apparizione così brillante che Isaac Newton rotolò all’istante su se stesso per allontanarsi. Ma non senza aver prima visto la spettrale apparizione spaccarsi in due e poi in quattro, quattro figure ardenti, torreggianti come giganti, che attraversavano la porta ed entravano nella cabina. Ad Isaac Newton parve che alle loro spalle si stesse rovesciando nella cabina una rombante ondata di mare.

58

Ora si udivano delle voci nell’aereo. Isaac Newton ascoltò con attenzione, quasi aspettandosi che parlassero un linguaggio extraterrestre. Ma la lingua era di ceppo germanico benché certamente non fosse tedesco. Si mise ad ascoltare a occhi chiusi, rimanendo immobile come un animale ferito, tentando di non farsi notare. Poi, qualcuno lo toccò e lo rigirò. Isaac Newton aprì gli occhi e vide due uomini e una donna, tutt’e tre con indosso una specie di uniforme, probabilmente della polizia.

Dopo un’esclamazione di sorpresa di uno dei due uomini, Isaac Newton chiese: «Dove mi trovo?»

«Inglese», osservò la donna rivolta ai due uomini, per proseguire poi: «Si trova all’aeroporto di Stoccolma».

Con il cervello ancora annebbiato, Isaac Newton ricordò che era diretto da qualche parte insieme con Frances Margaret. Ma si era trattato di Francoforte, non Stoccolma. Così l’aereo aveva evidentemente abbandonato la rotta e aveva compiuto un atterraggio d’emergenza. All’improvviso gli tornò alla mente Boulton gettato fuori del velivolo, Bolbocian e l’uomo dal volto cereo, e quell’individuo pazzo con il cranio dilatato, Kaufman St John, non si chiamava così? Ma doveva trattarsi di una fantasia dovuta probabilmente all’incidente, decise, di un disturbo mentale. E Frances Margaret, che cosa le era successo?

Ossessionato da questa domanda, cominciò a dibattersi per alzarsi in piedi.

«No, no!» esclamò uno degli uomini. «E’ meglio che aspetti.»

«Finché non arriva la barella per trasportarla», soggiunse la donna.

I tre tentarono di trattenerlo ed egli si infuriò.

«Lasciatemi stare!» intimò loro con la voce più ferma e forte di cui fu capace. «Devo scoprire che cos’è accaduto agli altri passeggeri.»

A quest’uscita, i tre agenti si guardarono in faccia.

«Meglio di no», gli disse la donna con voce suadente, ma ferma. Il che non fece che confermare Isaac Newton nella decisione presa.

«Al diavolo la barella», disse, alzandosi in piedi.

Ora vedeva l’interno dell’aereo. L’assenza di rottami indicava che l’apparecchio non si era schiantato al suolo. Forse c’era stato un atterraggio a violenti sobbalzi, ma nient’altro: persino le luci dell’aereo erano ancora accese. Inoltre, Isaac Newton intravide la tenda semi-aperta. Così, i suoi ricordi da incubo corrispondevano alla realtà, dopo tutto. L’uomo dal volto cereo e Boulton e gli altri c’erano stati davvero. Sapeva che cosa era successo a Boulton, ma dov’erano gli altri? La domanda ebbe una risposta da far accapponare la pelle. Poco lontano dal sedile dov’era stato seduto si vedevano dei cosi scuri, come dei cilindri della grandezza di un uomo. Ve n’erano quattro, e infatti erano rimasti in quattro dopo che Boulton era stato gettato dall’aereo. Quattro cilindri simili a stalagmiti, ma non bianchi, come le stalagmiti naturali, bensì neri come il carbone. I cilindri se ne stavano lì, come fossero altrettanti uomini ritti in piedi. Isaac Newton si mosse verso il punto in cui si era trovato l’uomo dal volto cereo.

«Stia attento!» gridò la poliziotta.

Poiché Isaac Newton era ancora malfermo sulle gambe, aveva toccato inavvertitamente quella sostanza nera, che all’istante si disfece come un giornale bruciacchiato. Guardò allora in direzione della porta della cabina di pilotaggio, la porta che gli era sembrata così importante, la porta che gli aveva ricordato quella del cottage di Howard Baker, la porta che dava misteriosamente accesso — così gli sembrava — a un’altra dimensione. Dove conduceva? Deciso a chiarire finalmente il mistero, Isaac Newton si avvicinò, sempre malfermo sulle gambe, al portello. Uno dei poliziotti lo afferrò per un braccio nel tentativo di dissuaderlo, ma Isaac Newton scosse la testa e proseguì meglio che poté. L’agente gli rimase al fianco e i suoi due colleghi li seguirono a ruota, in maniera che Isaac Newton, l’uomo che lo teneva per il braccio e gli altri due varcarono la porta quasi contemporaneamente.

Con grande sorpresa — e un pizzico di delusione — di Isaac Newton, la cabina di pilotaggio era a posto, con tutti i suoi strumenti. No, non del tutto a posto, in realtà anzi per niente a posto, perché il limitato spazio era occupato da altri quattro di quegli orribili cilindri neri.

«Ma come ha fatto ad atterrare l’aereo?» esclamò Isaac Newton.

«Questo è il problema», rispose il poliziotto accanto a lui.

««Uno» dei problemi», soggiunse la donna poliziotto.

Prima di dichiararsi disposto a lasciare l’aereo, Isaac Newton volle visitare a tutti i costi lo scomparto merci, dove vide che la cassa di legno che egli ricordava così bene era stata scaraventata contro la fusoliera in seguito all’impatto durante l’atterraggio. E quella cassa era una chiara prova del perfetto funzionamento della sua memoria. Poi volle scendere da solo la scaletta, respingendo ripetutamente l’offerta di una barella e ignorando il poliziotto accanto a lui che continuava a ripetergli: «Non possiamo rispondere della sua sicurezza se non segue i nostri consigli».

«Non vi ho chiesto alcun consiglio», ribatté Isaac Newton in tono secco. Ora, passato il pericolo, tutta questa sollecitudine gli dava fastidio. Nonostante ciò, si lasciò portare via a tutta birra da un’ambulanza dopo essersi accertato, esaminando le luci visibili in distanza, che quello fosse veramente l’aeroporto di Stoccolma. L’orologio da polso gli disse che erano quasi le dieci di sera e che erano passate circa sette ore da quando aveva lasciato Londra. In quel lasso di tempo, l’aereo doveva aver superato una distanza ben superiore alla rotta diretta tra Londra e Stoccolma. Forse aveva effettivamente raggiunto il Polo Nord, come aveva sostenuto Kaufman St John, ora ridotto in cenere. Nel qual caso le ultime ore di volo dell’aereo esigevano qualcosa di più di una piccola spiegazione. Isaac Newton suppose che l’aereo fosse munito di un pilota automatico benché un congegno del genere sarebbe stato ben difficilmente in grado di pilotare un aereo dal Polo Nord fino all’aeroporto di Stoccolma. Ma la testa gli faceva troppo male perché le sue riflessioni potessero avere molto valore.

Un capitano della polizia e un uomo in camice bianco assieme a due infermiere stavano aspettando nella sala in cui venne condotto Isaac Newton. Dopo un breve scambio di parole, in svedese, l’uomo in camice bianco scosse la testa in segno di disapprovazione, dicendo poi, in inglese: «Non è saggio essere così ostinati. Vorrei esaminarla, per favore».

«E io vorrei servirmi di un telefono. E poi vorrei prendere il primo aereo per tornare a Londra», rispose Isaac Newton.

«Non è saggio…» ripeté l’uomo in camice bianco.

«Non la sto consultando, dottore», ribatté Isaac Newton. «Mi porti a un telefono senza tante storie», disse poi, rivolto al capitano di polizia.

«Vuol dirmi il suo nome, per favore?» fece l’uomo.

«Newton. N-e-w-t-o-n.»

Il capitano annuì e disse: «Permette che mi allontani per un momento, signor Newton? Ritorno subito».

Una delle infermiere, una biondina paffutella e attraente, gli portò due pillole bianche e un bicchier d’acqua.

«Che cos’è questa roba?» chiese Isaac Newton.

«Aspirina. Lei è molto sospettoso. Le prenda, per favore.»

Mentre inghiottiva le pillole, Isaac Newton si sentì per un istante girare la testa ed ebbe paura di accasciarsi. Quello che lo disturbava, decise, era il fatto che il camice bianco del dottore gli ricordava l’uomo dal volto cereo.

«Lei si chiama per caso Impetronius?» chiese al medico, che si strinse nelle spalle scuotendo la testa. «No, lo immaginavo», soggiunse Isaac Newton in tono acido.

«Il professor Isaac Newton?» chiese il capitano di polizia, di ritorno proprio allora.

«Sì.»

«Professor Newton, lei è, penso, un cittadino responsabile. Capirà», proseguì il capitano, «che è necessaria una dichiarazione.»

«Mia?»

«Sua, naturalmente.»

Isaac Newton rifletté per un attimo e poi rispose: «Comprendo, capitano. Ma non sarebbe possibile per me ritornare qui da Londra? Vede, a Londra tutti devono essere preoccupati. Ansiosi di sapere dove mi trovo, voglio dire».

«E’ facile telefonare.»

«E’ dall’istante in cui mi trovo qui che sto chiedendo il telefono. Forse lo ha dimenticato?»

«La cosa migliore per lei, professor Newton, sarà dormire qui stanotte.»

«E il telefono?»

«Sì, sì, a quello possiamo provvedere. Ecco, vede, non ci sono più aerei in partenza per Londra fino a domani.»

«In tal caso andiamo a telefonare», insistette Isaac Newton, alzandosi dalla sedia.

«Possiamo provvedere, se lei mi dà il numero.»

Il capitano gli consegnò un taccuino nel quale il professore annotò il numero dell’ufficio del Primo Ministro dicendo: «Sembra che lei stia recitando una commedia, capitano! Preferirei telefonare di persona».

«Quell’aereo là fuori non è una commedia molto divertente.»

«Le voglio fare una domanda esplicita, capitano. Mi sta impedendo di usare il telefono?»

«E’ un ordine, professor Newton. Ma verrà riferito che lei è salvo.»

«Un ordine di chi?»

«Non posso dirglielo.»

La rabbia che s’impadronì di Isaac Newton a questo punto non fece altro che peggiorare il suo mal di testa, tanto che decise di rimandare l’idea di una vendetta. Riflettendo che le leggi svedesi potevano benissimo conferire alle autorità dell’aeroporto il diritto di trattenere i passeggeri per un periodo limitato, una cosa prevista probabilmente dalle leggi di quasi tutti i paesi, e riflettendo anche che le circostanze del suo arrivo a Stoccolma erano sicuramente molto strane, Isaac Newton decise che effettivamente la cosa migliore era di dormirci sopra e far passare il mal di testa, per scatenare poi il pandemonio al mattino.

«Dove mi mettete a dormire in tal caso?» chiese.

Il medico si mosse per avvicinarsi a lui, e Isaac Newton, perdendo ogni controllo, gridò in tedesco: «Si avvicini di un solo passo e la spiaccico contro il muro!»

Il capitano di polizia fece un piccolo cenno al medico e questi lasciò immediatamente la saletta.

La seconda infermiera, non quella attraente, ma una ragazza biondo platino dall’espressione altezzosa, senza parlare condusse Isaac Newton attraverso un piccolo vestibolo e lungo corridoi vuoti fino a una breve rampa di scale che conduceva a una porta. L’aprì, e fece entrare il professore in un appartamento. Dopo avergli indicato il letto, e tolto dall’armadio un pigiama che gettò sul letto, lo lasciò solo.

Il pigiama era troppo piccolo. Caricaturalmente troppo piccolo. Così gettò via la giacca tenendo i pantaloni che lasciavano scoperti quindici centimetri di polpaccio. Poi, tanto per aumentare la sua irritazione, udì bussare alla porta esterna proprio mentre stava entrando nel letto. Questa volta era l’infermiera attraente. Non che Isaac Newton fosse animato da pensieri galanti. La testa gli faceva troppo male e il pigiama, o meglio la mancanza di esso, gli dava la sensazione di essere ridicolo. L’infermiera attraente portava un vassoio sul quale c’erano un altro bicchiere d’acqua e altre pillole.

«Queste fanno dormire. Ma non c’è bisogno che le prenda, se ha ancora sospetti», disse la ragazza, per scomparire subito. Evidentemente, neppure lei era animata da pensieri frivoli.

Isaac Newton giunse alla conclusione che non aveva senso farsi sangue marcio. Così, per non pensare ai cilindri neri sull’aereo, inghiottì le pillole. Il letto aveva un piumino, cosa che di solito non apprezzava perché i piumini riscaldano troppo. Ora, però, provò piacere nel coprirsi con il piumino fino alle spalle. Aveva brividi. Lo shock, probabilmente. L’ultimo gesto prima di cadere preda di un sonno esausto fu quello di ripiegare un cuscino sotto la testa, il suo rimedio per impedire ai problemi insolubili di frullargli nella mente.

59

Nell’attimo in cui si svegliò, Isaac Newton si rese conto di aver dormito molto a lungo. Guardando l’orologio vide che erano quasi le tre del pomeriggio. E pensare che la sera prima aveva fatto tante discussioni per prendere l’aereo del mattino per Londra. Per un po’, mentre gli avvenimenti del giorno precedente gli tornavano alla memoria, rimase a fissare il soffitto. Poi, d’un tratto, si rese conto che la stanza nella quale si trovava non era quella nella quale era andato a dormire. Era più grande e aveva il soffitto più alto, e la luce diffusa che penetrava attraverso le spesse tende era quella del giorno. L’appartamento in cui lo avevano portato, all’aeroporto, dava sull’interno, pertanto era privo di una finestra così luminosa.

Con pochi e rapidi passi si avvicinò alle tende; le scostò leggermente e vide davanti a sé una distesa di campi. Nessuna traccia di aeroporto. Un’occhiata di lato gli rivelò che si trovava in una grande casa di campagna costruita in solida pietra gialla. Eppure il letto era quello della sera precedente, e lui indossava gli stessi pantaloni del pigiama assurdamente corti.

La stanza era grande e ci vollero alcuni attimi ad Isaac Newton per esaminarla attentamente insieme al contenuto di vari armadi e guardaroba. Trovò una vestaglia spessa e calda, ma il suo vestito era sparito. I pantaloni del pigiama e la vestaglia non erano certo l’abbigliamento più adatto a un tentativo di fuga. Poi prese mentalmente nota di non fidarsi mai più in vita sua delle ragazze attraenti, specialmente quando recavano doni. La seconda portata di pillole, quelle che non era obbligato a prendere se nutriva ancora sospetti, dovevano contenere un potente sonnifero.

Era facile capire che cosa era successo. Una volta ben drogato avevano semplicemente portato via il letto dall’appartamento nell’aeroporto — di quale aeroporto si trattasse era un mistero. Poi dovevano aver infilato il letto, con lui ancora sopra, in un furgone per portarlo qui, in aperta campagna. Dove? Anche questo rimaneva un mistero.

Si udì bussare alla porta e una ragazza dai capelli scuri entrò con un vassoio. Sul vassoio c’erano una grande teiera, un servizio da tè e un piatto di dolci.

«Ah, è sveglio», disse la ragazza, soggiungendo: «Così va bene. Sembrava che non volesse svegliarsi più».

Dopo aver deposto il vassoio su un tavolino basso vicino alla finestra, la ragazza si accostò alle tende e le aprì con un gesto esperto.

«Dov’è il mio abito, la mia roba?» chiese Isaac Newton.

«La stanno pulendo.»

«Dove ci troviamo? Voglio dire, dove si trova questa casa?» chiese ancora Isaac Newton.

«Temo, signore, che non mi sia permesso dirlo.»

«Ma siamo in Svezia?»

«Naturalmente, ma non posso dirle altro. C’è un signore che aspetta di parlarle e che risponderà alle sue domande.»

Isaac Newton notò che sul vassoio c’erano due tazze e che la teiera era grande.

«E’ da molto che aspetta questo signore?»

«Da varie ore.»

«In tal caso non può essere un personaggio molto importante.»

«Io penso invece che lo sia. Gli dirò che lei è sveglio.»

Quando la ragazza se ne fu andata, Isaac Newton ispezionò rapidamente la stanza per trovare il microfono, ma non lo trovò, anche se era certo che doveva esserci. Altrimenti non si sarebbero accorti così presto che era sveglio per far venire il tè con tanta rapidità.

Si mise a sedere e, poiché aveva la bocca completamente secca, versò il tè senza aspettare l’arrivo del visitatore. Inoltre aveva fame — era digiuno dalla colazione del giorno precedente — per cui addentò una pasta. Ma smise improvvisamente di masticare. Non era possibile che si trovasse in Russia, vicino a Leningrado, come aveva sospettato per un istante. Non era possibile perché in nessun posto dell’Unione Sovietica, per quanto grande fosse, avevano tazze della qualità di quelle che aveva davanti a sé; e così pure non avevano né quel tè né «quelle» paste.

Qualcuno bussò alla porta e un uomo alto come Isaac Newton, con i capelli biondi tagliati corti, entrò.

«Eriksson. Gustav Eriksson», disse in tono energico, stendendo la mano.

«Le stringerò la mano, signor Eriksson, se la telefonata che ieri sera ho chiesto venisse fatta è stata effettivamente fatta», rispose Isaac Newton.

«Per essere sincero, no», rispose Eriksson, ritirando la mano.

«Non è piuttosto strano, questo?»

«Sì, lo è. Come tante altre cose in questo caso. Posso prendere un po’ di tè?»

«Ma certo. Tanto più che è il vostro tè. Chi devo ringraziare per tanta cortesia, signor Eriksson?

«L’Esercito svedese.»

«In tal caso, non dovrei chiamarla con il suo grado?»

«Colonnello. Colonnello Eriksson, se proprio ci tiene alle formalità.»

«Mi sembra, colonnello Eriksson, che lei debba darmi parecchie spiegazioni.»

Eriksson esplose in una sonora risata e prese una sedia, accomodandosi dall’altro lato del tavolino, di fronte a Isaac Newton. Ora il vassoio con il tè, quasi a simboleggiare un campo di battaglia, li divideva.

««Io» avrei molte cose da spiegare? Apprezzo il suo senso dell’umorismo, professor Newton. Tuttavia voglio dirle che il suo trasferimento dalla polizia aeroportuale all’Esercito ha costituito la buona occasione perché la telefonata venisse dimenticata. Naturalmente ho informato l’ambasciata britannica a Stoccolma. L’ho fatto stamattina alle cinque e trenta. Il che dimostra che ho cominciato a occuparmi del suo caso per tempo.»

«Sarebbe stato più semplice telefonare a Londra.»

«Sarebbe stata un’idiozia», rispose Eriksson, scuotendo la testa. «Ho scoperto che il numero era quello dell’ufficio del suo Primo Ministro. Una telefonata lì avrebbe provocato una immediata reazione, probabilmente del suo Primo Ministro in persona. In tal caso avrei perso la mia buona occasione.»

«Buona occasione per che cosa?»

«Di scoprire che cos’era successo a bordo dell’aereo che l’ha portata qui, naturalmente.»

«Ma lei ha detto all’ambasciata che ero qui?»

«Sì, molto di buon’ora, come ho appena detto. Se lei arriva con molto anticipo a un aeroporto per imbarcarsi e deposita subito il suo bagaglio, che cosa succede, professor Newton?»

«Che cosa succede?»

«Che quando lei arriva finalmente a destinazione, il suo bagaglio esce sempre per ultimo per chissà quale misteriosa ragione dovuta all’operazione di carico. Non ci ha mai fatto caso?» disse Eriksson sorseggiando il tè.

«Capisco. Lei ha fatto in modo che l’informazione giacesse lì da alcune ore quando gli alti funzionari dell’ambasciata avrebbero preso servizio.»

«Così probabilmente sarebbe rimasta lì un po’ più a lungo. A parte questo, professor Newton, il Foreign Office gode fama di essere un tantino lento quando si tratta di informare altri ministeri del suo governo. Così ho sperato in un altro ritardo. Tuttavia confesso di aver temuto che lei avrebbe continuato a dormire per tutto il tempo, il tempo da me guadagnato con tanta cura.»

«Guadagnato per che cosa, colonnello Eriksson?»

«Lei sa quale doveva essere il piano di volo del suo aereo? Voglio dire: dov’era diretto l’aereo?»

«Mi dissero molto lontano a nord, verso il Polo. Il che doveva essere vero», rispose Isaac Newton. «C’è una cosa che devo riferirle subito, colonnello Eriksson. Durante il volo, un uomo è stato ucciso. Era un mio collega di Cambridge.»

«La notizia non mi lascia eccessivamente sorpreso. Com’è successo?»

«L’hanno buttato fuori dall’aereo.»

«Gente poco raccomandabile, temo. E neppure una situazione simpatica. Abbiamo visto ciò che si trovava dietro la tenda. Spero che non abbia avuto modo di trovarsi là.»

Isaac Newton per un attimo non rispose, ma poi annuì dicendo in tono brusco: «Non voglio parlarne. Scoprirà che avevano una telecamera per videoregistrazioni. Hanno ripreso su nastro la caduta dell’uomo nell’aria. Si chiamava Boulton ed era professore di geostrofica nonché capo dell’istituto di meteorologia di Cambridge. Questo anche per dirle che troverà riprese del terreno sottostante all’aereo. Un terreno artico e montagnoso».

«L’apparecchio è entrato da nord nello spazio aereo svedese, professor Newton.»

«Il che conferma la mia impressione.»

«Quello che non combaciava affatto era l’eco del radar sui nostri schermi.»

«In che senso?»

«La potenza dell’eco era enorme. Lei deve sapere che è proprio questo il ramo di cui mi occupo. Noi conosciamo la potenza esatta degli echi radar prodotti da aerei di varie dimensioni. L’eco riflesso dal suo aereo era troppo forte. Dieci volte più potente del solito, penso. Come si è potuto verificare questo fenomeno, secondo lei?»

«Non mi ha appena detto che lavora con i radar?»

«Su, andiamo, professor Newton, lei è uno studioso di fisica di fama internazionale. Com’è stato possibile produrre un’eco così forte?»

«Aumentando la capacità dell’aereo di riflettere gli impulsi radar, immagino.»

«Mediante una specie di schermo esteso intorno all’aereo», annuì Eriksson.

«Uno schermo di gas ionizzato, magari», annuì Isaac Newton a sua volta, versandosi un’altra tazza di tè.

«Esattamente il contrario dei bombardieri antiradar americani, la cui capacità di riflettere gli impulsi radar è ridotta. Sa, professor Newton, era quasi come se l’aereo tentasse di attirare di proposito l’attenzione su di sé.»

«E questa riflessione la conduce…?»

«All’atterraggio dell’aereo.»

«Siete in possesso delle apparecchiature per l’atterraggio strumentale?» chiese Isaac Newton.

«Certo.»

«Allora, dove sta il problema?»

«Il problema», spiegò Eriksson, «consiste nel fatto che l’aereo si è sicuramente servito delle nostre apparecchiature per l’atterraggio guidato, solo che non aveva a bordo alcuno strumento che gli consentisse di farlo.»

«Mi sembra un po’ una contraddizione.»

«E’ una contraddizione anche il fatto che otto uomini a bordo di un aereo siano stati ridotti in cenere…»

«Come carta da giornale bruciacchiata.»

«… mentre il nono uomo è rimasto indenne», continuò Eriksson senza lasciarsi distogliere dalla carta di giornale bruciacchiata.

«I fulmini causano strani fenomeni.»

«Un fulmine avrebbe attraversato l’involucro metallico esterno del velivolo. Anche in questo campo possiedo qualche esperienza. E se anche una scarica elettrica si fosse riversata al l’interno dell’aereo, non avrebbe incenerito soltanto gli otto uomini, ma avrebbe fuso anche cose inanimate. Eppure, a quanto pare, non un solo oggetto è stato minimamente danneggiato. Tutto questo è molto strano, professor Newton. Speravo che lei mi avrebbe aiutato a capire.»

«Non è forse un po’ «troppo» strano?»

«In che senso?»

«Perché io possa aiutarla a capire il fenomeno.»

«Lei ne sa più di me sulle comete, specialmente quella di Halley.»

«I vostri astronomi…»

«I nostri astronomi non sanno nulla del cifrario per comunicare con la cometa di Halley, professor Newton. Era il cifrario che gli otto uomini volevano, non è così?» insistette Eriksson.

Qualcosa che era rimasto annidato in fondo alla mente di Isaac Newton esplose improvvisamente. Il cifrario! Ma sì, naturalmente! Lui stava mettendo su carta il cifrario, per lanciare poi i fogli a uno a uno a Kaufman St John. Quei fogli erano stati ridotti in cenere assieme all’uomo? A giudicare da ciò che Eriksson aveva appena detto a proposito degli oggetti rimasti indenni, tutti i fogli potevano essere rimasti intatti ed esser finiti nelle mani della polizia dell’aeroporto.

«Dovreste aver ricuperato il bloc-notes sul quale stavo scrivendo quando il fulmine è entrato in azione», disse Isaac Newton, esponendosi il meno possibile.

Eriksson addentò una pasta. «Sì», annuì dopo un po’. «La scrittura era la sua, professor Newton, almeno credo.»

«Senza dubbio ha letto con interesse quella roba.»

«Fino a un certo punto. Naturalmente bisognerà studiarla a fondo.»

«Che cosa se ne farebbe del cifrario, colonnello Eriksson? Se riuscisse a decifrarlo? Lo consegnerebbe agli americani?»

«No, Dio buono! La Svezia è un paese neutrale.»

«O ai russi?»

«Ciò che sta dicendo è ridicolo, professor Newton.»

«A che cosa vi servirebbe, allora?»

«La gloria, professor Newton. Sarebbe un passaporto per arrivare alla gloria.»

«Un concetto piuttosto insolito, colonnello Eriksson.»

«Perché, professor Newton? Non riesco a immaginare qualcosa di più importante. Forse perché lei discende da una razza bastarda per cui non capisce il nostro popolo, gli svedesi.»

«Pare di no.»

Eriksson depose la tazza e poi, con gli occhi azzurri scintillanti, si avvicinò alla finestra e si girò per dire: «Io sono una specie di studioso della storia e preistoria. Diecimila anni fa, quelli che oggi chiamiamo popoli germanici dovevano essere un gruppo piuttosto ristretto con una lingua che li distingueva dagli altri popoli. Vivevano in condizioni penose, al limite della sopravvivenza, vicinissimi alle propaggini dei ghiacciai nordici superstiti dell’ultima glaciazione. Quando la glaciazione ebbe termine e i ghiacciai si ritirarono, questo gruppo etnico subì un’espansione dovuta alle più facili condizioni di vita, occupando territori sempre più estesi. Sono stato chiaro, professor Newton?»

«Perfettamente chiaro.»

«Mi avverta quando il discorso diventerà noioso, per favore. Beh, la tribù germanica si è estesa come si sono estese le altre tribù dell’era glaciale. La consistenza numerica crebbe e la lingua si frantumò in tante lingue diverse. Gli elementi più deboli, non stanziali, vennero spinti verso le montagne della Norvegia o a sud, nelle pianure tedesche. Accadde così che gli individui più robusti rimasero al centro e verso il nord, in quella che era stata la loro dimora per molte migliaia di anni. Questo è ciò che capitò agli svedesi.

«Questa piccola esposizione, professor Newton, spiega perché noi svedesi ci consideriamo ancora gli aristocratici dei popoli germanici, nonostante una strana inversione. L’inversione si verificò perché gli elementi che si erano spostati verso sud ebbero la fortuna di trovare terre più ampie e più fertili per cui il loro incremento demografico fu di gran lunga superiore al nostro, gli individui rimasti nella terra originaria. Così è stato con voialtri inglesi e con la vostra fondazione delle colonie americane. Tanto per cominciare, furono i più deboli, quelli senza una dimora, i ribelli, che emigrarono. Ma poiché il Nordamerica era un continente per natura grande e ricco, il numero degli emigranti aumentò, finché ai giorni nostri siamo arrivati al punto in cui coloro che non hanno avuto successo menano per il naso chi lo ha avuto.»

«Un modo di pensare che difficilmente si potrebbe definire populista, colonnello Eriksson. Sono sorpreso che non si preoccupi minimamente del microfono in questa stanza», riuscì a interloquire Isaac Newton.

«Ah, il microfono. Lo ha trovato?»

«No.»

Eriksson si avvicinò al letto dicendo: «Mi scusi».

Dopo aver rovistato per un po’ vicino alla base del letto, tornò da Isaac Newton con un microfono e una trasmittente a batteria portatile, di dimensioni molto ridotte.

«Lei l’ha cercato nella stanza perché la stanza è qualcosa di permanente, mentre il letto, naturalmente, si trova qui solo per caso. Comunque è stato un errore piuttosto elementare», disse Eriksson in tono di disapprovazione. Poi andò alla porta e disse qualcosa in svedese.

Qualche istante più tardi, comparve la stessa ragazza dai capelli scuri con una bottiglia di grappa e due bicchieri. Eriksson versò il liquore nei bicchieri, ma Isaac Newton alzò la mano e disse in tono deciso: «Non per me. Non mangio da ieri. Inoltre non ho il suo aristocratico fisico svedese».

«Già, naturalmente», annuì Eriksson avvicinandosi di nuovo alla porta. Di ritorno quasi subito prese in mano il suo bicchiere.

«Sono proprio uno sbadato. Tra poco le porteranno da mangiare come si deve. Tè!» soggiunse con una smorfia, per esclamare poi: ««Skol!»» e tracannare il liquore nel modo tipico degli svedesi. Restò ad aspettare mentre la grappa faceva il suo effetto. La ragazza entrò di nuovo reggendo un altro vassoio sul quale c’era un piatto che sprigionava un profumo di spezzatino. Isaac Newton rifletté che nessun profumo è più delizioso di quello dello spezzatino quando si ha veramente fame, ma Eriksson si ritrasse di colpo con una smorfia di disgusto.

«Terribile. Le chiedo scusa per la nostra cucina, professor Newton. Naturalmente troverà un po’ strano il mio punto di vista. Per un inglese come lei dev’essere quasi impossibile comprendere il mio punto di vista.»

Eriksson attese che la ragazza se ne andasse per versarsi altra grappa nel bicchiere.

«La ragazza è calvinista, sa, per cui devo stare un po’ attento. Lei mi perdonerà, spero, ma ora devo parlare con lei di cose sulle quali non potrei discutere se non avessi bevuto.»

«Quali cose?» chiese Isaac Newton mangiando un boccone di spezzatino che continuava a trovare squisito.

Invece di bere la grappa, Eriksson fissò Isaac Newton al di sopra del tavolino. Gli occhi azzurri avevano un’espressione molto intensa.

«Non esiste il modo di ridurre in cenere otto uomini, lasciando il nono indenne se non per scelta deliberata, professor Newton. Proprio nessun modo. Non esiste alcun modo per far atterrare felicemente un aereo privo di pilota senza un intervento deliberato e intelligente. Proprio nessun modo. Non mi contraddica, professor Newton. Perché posso diventare violento quando mi contraddicono. Lo sanno tutti. Ed è per questo che la ragazza mi disapprova.»

«Non la stavo contraddicendo, colonnello Eriksson», disse Isaac Newton in tono affabile, addentando un altro boccone di spezzatino.

Eriksson annuì per manifestare la sua approvazione. «Dal che deduco», proclamò poi, alzando la mano con un gesto teatrale, «che non viviamo più in un mondo diviso dal confronto tra due superpotenze ma in un mondo con tre superpotenze.»

«Sempre nell’intento di evitare che diventi violento, continuo a non contraddirla», disse Newton, assaporando un altro boccone.

Eriksson fissò a lungo lo spezzatino, e chiese: «Non lo trova schifoso?»

«Per niente. Ha un sapore delizioso. Stava parlandomi delle sue deduzioni.»

«Sono arrivato alla conclusione che per la Svezia può essere arrivato il momento di rinunciare alla propria neutralità.»

«Come mai?»

«Perché mi sembra estremamente probabile, professor Newton, che le due superpotenze prenderanno una formidabile scarica di botte, venendo a trovarsi all’estremità del «knut», come dicono i russi.»

«Non posso discutere la sua logica, colonnello», annuì Isaac Newton. Aveva ancora la bocca piena.

«Certo che non può, professor Newton, perché quello che sto dicendo è vero. E le dirò anche qualcosa di più, a proposito della verità.» Eriksson s’interruppe per un attimo, per continuare poi con una frase enigmatica: «Secondo me, lei dev’essere un personaggio molto importante».

«Per quale motivo?»

«Perché questa terza superpotenza doveva sapere che lei si trovava su quell’aereo. Come ha fatto la terza superpotenza a sapere che lei si trovava sull’aereo?»

«Vorrei conoscere quanto lei la risposta a questa domanda.»

«Perché lei sta emettendo un segnale. Un qualche «bip». Non c’è altro modo. In che consiste questo segnale, professor Newton?»

«Vuol servirsene pure lei?»

«Lei non ha risposto alla mia domanda.»

«Sinceramente, vorrei poterle rispondere, ma non posso.»

«No? Mi permetta allora di darle qualche consiglio. Tre consigli. Il mio primo consiglio è una questione di forma. Mai più lasciarsi rapire nel bel mezzo di un aeroporto affollato. E’ stato di pessimo gusto. Una cosa inammissibile in una persona di classe. Secondo: quando cerca il microfono, guardi sempre nel letto. Terzo: non abbandonare carte di vitale importanza scendendo da un aereo.»

Eriksson estrasse una busta dalla tasca interna della giacca e la depose sul tavolino, spingendola verso Isaac Newton. A questi fu sufficiente un’occhiata per vedere che si trattava dei fogli sui quali aveva scritto le istruzioni necessarie per decifrare il codice di comunicazione con la cometa di Halley. Astenendosi dal dire che Eriksson poteva aver fotocopiato i fogli, Isaac Newton chiese: «Allora, lei passa alla terza superpotenza?»

«Sembra di sì», convenne Eriksson, spingendo lontano il bicchiere ancora pieno di grappa quando si udì bussare di nuovo alla porta.

«Quella dannata ragazza si crede una riformatrice evangelica», spiegò ad Isaac Newton.

Ma la ragazza che irruppe nella stanza era Frances Margaret che si precipitò verso Isaac Newton e lo abbracciò. Eriksson contemplava sbalordito la scena. Quando Isaac Newton finalmente si voltò per presentare Frances Margaret, Eriksson scosse la testa.

«Sembra quasi incredibile. Potrei portarla in alcuni villaggi per mostrarle venti ragazze esattamente identiche a questa. Tanto identiche che a dieci metri di distanza non saprebbe distinguerle. Che cosa significa questo, mi domando. Significa che un migliaio di anni fa una barca piena di giovani si è staccata dalle coste della Svezia per non ritornare mai più, ma per restare pur sempre la stessa gente. E’ infinitamente triste», disse a Frances Margaret, «che lei debba ritornare dopo un migliaio di anni senza riconoscere casa sua.»

Scuotendo la testa per commentare la supposta tragedia, Eriksson uscì lentamente dalla stanza.

«E’ sbronzo?» chiese Frances Margaret notando la bottiglia di grappa.

«Sì, ma delle proprie idee, non di alcool. E’ un grand’uomo, in potenza.»

«In potenza?»

«Se riuscisse a trovare una causa per cui battersi. Può darsi che l’abbia trovata», disse Isaac Newton prendendo la busta e facendola scivolare in tasca.

60

«Salute!» esclamò il rettore, quando una formidabile scarica di pioggia investì le finestre della grande stanza al primo piano nell’alloggio riservatogli al Trinity College. Quello era l’inizio di un rovescio primaverile destinato a depositare uno strato di cinque centimetri d’acqua sulla Great Square.

«Per fortuna, il nuovo trimestre non è ancora cominciato, altrimenti questo diluvio si sarebbe portato via la metà dei nostri studenti», disse il rettore rivolto al Cancelliere dello Scacchiere.

Stava per iniziare una riunione del Comitato Halley, e sul lungo tavolo normalmente usato per le cene private c’erano ora carte e matite in luogo della moltitudine di bicchieri di vino sparpagliati tra la brillante argenteria tanto amata dal rettore. Il Comitato aveva preso l’abitudine di sedere al tavolo secondo un ordine particolare: il Primo Ministro a un’estremità, il rettore all’altra, con Isaac Newton alla destra del Primo Ministro e Sir Harry Julian, il funzionario della Tesoreria, alla sinistra, con il Cancelliere alla destra del rettore e Kurt Waldheim alla sinistra. Frances Haroldsen, che prendeva nota di tutto e che provvedeva da sola a battere a macchina e a fotocopiare i documenti, evitando in tal modo ogni possibilità di fuga di notizie, aveva un suo tavolo più piccolo, collocato alle spalle del rettore un po’ sulla sinistra. Per la prima volta dalla costituzione del Comitato, Isaac Newton non assistette all’inizio della riunione.

L’orologio sulla torre di Edoardo Terzo stava battendo le dieci quando il Primo Ministro annunciò: «Ho ritenuto opportuno chiedere al professor Newton di non partecipare oggi alla seduta mattutina. Altrimenti sarebbe stato difficile discutere vari documenti che abbiamo davanti a noi senza provare un senso di imbarazzo. Mi riferisco naturalmente alla relazione del professor Newton sulle sue esperienze recenti, alla comunicazione del governo svedese e a quanto riferisce il colonnello Eriksson dell’Esercito svedese. A meno che non si scosti molto dalla verità, il che non penso, la situazione esorbita notevolmente dalla mia esperienza».

«Direi che esorbita dall’esperienza di tutti noi, Primo Ministro», soggiunse il rettore.

«A eccezione, forse, del dottor Waldheim. Potrebbe dare l’avvio alla discussione, dottor Waldheim, dicendoci ciò che pensa? Esaminiamo anzitutto ciò che riferisce il colonnello Eriksson, sulle condizioni in cui si trovava l’aereo quando atterrò all’aeroporto di Stoccolma. Com’è stato possibile che otto individui siano stati ridotti a tanti cilindri di carbone? Il colonnello Eriksson ne indica le dimensioni con macabra precisione e ci fornisce uno schizzo con le posizioni nelle quali vennero trovati nonché quella del professor Newton quando fu ritrovato a sua volta privo di sensi. Com’è stato possibile tutto questo?»

Kurt Waldheim ravviò con la mano il ciuffo di capelli ribelle, scosse la testa in segno di rammarico e disse: «Lei non si riferisce agli scopi cui miravano queste persone?»

«No, no, mi riferisco a ciò che è successo.»

«E al perché è successo», soggiunse il rettore, vivamente interessato.

«Dev’essere stata una specie di scarica, per me è naturale presumere che si sia trattato di una scarica elettrica che ha disidratato i corpi», suggerì Kurt Waldheim, molto sicuro del fatto suo. «Per fortuna Isaac non è qui, altrimenti non avrei osato esprimere quest’opinione: lo avrebbe fatto ridere a crepapelle, penso.»

«Devo confessare che l’idea della disidratazione non mi era proprio venuta in mente», intervenne il Primo Ministro, guardando in direzione di Sir Harry Julian sprofondato in una poltrona più grande delle altre che il rettore aveva gentilmente procurato. Sir Harry Julian a tratti dormicchiava e a tratti posava lo sguardo sul tavolo con il pince-nez ben assestato sul naso.

«Le persone fortemente disidratate sembrano invecchiate d’un sol colpo. Ricordo di aver visto la fotografia di uno scalatore, sopravvissuto per parecchi giorni senza una goccia di acqua a una quota molto elevata sull’Himalaia», disse Kurt Waldheim con il suo solito modo pacato. «Aveva meno di trent’anni, ma quando arrivò all’accampamento, disidratato com’era, sembrava che ne avesse ottanta. Le foto lo dimostrano. Ora», continuò Kurt Waldheim, alzando la mano destra, «generalmente l’acqua sottratta a un corpo per effetto della disidratazione è solo acqua d’impregnamento. Ma c’è anche l’acqua di costituzione, e se è quella a venire sottratta si altera la struttura molecolare dei tessuti, cosicché la persona rimane come carbonizzata. Del resto è proprio questo il processo che presiede alla formazione del carbone.»

«E’ quello che succede se si accosta al fuoco un foglio di giornale? Voglio dire se la carta si scalda troppo?» chiese il Cancelliere.

«Precisamente», annuì Kurt Waldheim. «L’ho fatto molte volte. Se la carta viene a contatto con la fiamma, brucia, naturalmente, ma se viene soltanto avvicinata, si carbonizza perché l’acqua combinata con la carta se ne va.»

«Anch’io l’ho fatto molte volte», annuì il rettore, «e il processo di carbonizzazione comincia sempre con una macchia bruna che si estende. Ma perché crede che nell’aereo sia accaduto proprio questo?»

«Gli oggetti metallici non contengono acqua, e il colonnello svedese dice che gli oggetti presenti nell’aereo non sono stati toccati. In un velivolo, moltissimi oggetti sono metallici. Così sembrava logica pensare che tutta la faccenda avesse a che fare con l’acqua.»

«Così, qualcosa ha agito come un fuoco che carbonizzava, ma non bruciava», annuì il Primo Ministro. «Ma come potrebbe essere possibile un fenomeno di questo genere?»

«Non posso sapere tutto», ribatté Kurt Waldheim, con il suo lento sorriso.

«Che sia stato un fulmine?»

«Forse, ma l’energia elettrica di un colpo di fulmine avrebbe dovuto fondere gli oggetti metallici. Secondo diversi pareri, il fulmine può causare stranissimi fenomeni, ma nessuno di essi ha retto alle prove in laboratorio. Isaac ne sa probabilmente più di me in proposito. Il più grosso mistero per me è capire come mai il fulmine abbia colpito con tanta precisione solo ciò che voleva colpire. Perché ha evitato Isaac e colpito gli altri?»

«Il colonnello Eriksson dice che è stata un’azione deliberata», ricordò il Primo Ministro al Comitato.

«Il colonnello Eriksson ha probabilmente ragione», annuì il rettore, soggiungendo: «Benché tutto mi sembri un po’ pazzesco».

«Sì, ma il fatto di affermare che è stata un’azione deliberata non risolve nulla», continuò Kurt Waldheim. «Com’è stato prodotto il fenomeno, ammesso che fosse deliberato? questo che continuo a chiedermi.»

«La cometa», brontolò il rettore. «E’ sempre la cometa, no? L’ho saputo dal momento in cui l’ho vista risplendere nel cielo, più luminosa di Venere. Sapevo che cosa ci sarebbe toccato.»

«Che cosa, rettore?» chiese il Primo Ministro.

«Sorprese. Guai.»

«Avrei creduto piuttosto che saremmo stati nei guai senza questi fenomeni», ribatté il Primo Ministro. «Che cosa trova tanto difficile da capire, dottor Waldheim?»

«La precisione della mira, della direzione imposta alla scarica, naturalmente. Queste cose soggiacciono a varie leggi inderogabili — ciò che in fisica chiamiamo il controllo delle fasi. Il controllo da lunga distanza richiede attrezzature molto grandi. In questo caso abbiamo avuto un’azione di controllo all’interno dell’aereo a una distanza di circa un metro. Per influenzare di proposito un’azione da una distanza come quella alla quale si trova la cometa di Halley, e colpire l’obiettivo con la precisione di un solo metro, sarebbe necessaria un’attrezzatura con le dimensioni almeno dell’intera cometa. Significherebbe che l’intera superficie della cometa era stata coinvolta per generare una qualche specie di radiazione mirata.»

«In parole povere, un raggio della morte», disse sottovoce il rettore. «Ma come può esserne tanto sicuro? Ci possono essere cose che lei non conosce affatto, le pare, dottor Waldheim?»

«Sì, ma le cose delle quali non so nulla non possono essere in contraddizione con ciò che so già essere vero. Altrimenti, il mondo stesso si troverebbe in una condizione di continua autocontraddizione.»

«E’ assolutamente certo della validità di quanto ha affermato?» intervenne il Cancelliere.

«Pur essendo una persona cauta, direi di sì. Le leggi in questo caso sono di natura assolutamente fondamentale. Posso credere nei miracoli di una tecnica della quale non so assolutamente nulla, ma non posso credere che le leggi fondamentali possano essere cambiate. Sono già perplesso se chiamo in causa l’intera superficie della cometa, anche se colloco questa specie di raggio della morte nella lontana estremità dei raggi ultravioletti. Così, vede, le leggi fondamentali mi portano a una strana conclusione, una conclusione che mi mette a disagio.»

A questo punto, quando l’attenzione di tutti era tesa al massimo, arrivò il maggiordomo del College con il caffè del mattino. Era un uomo alto, snello, coi capelli grigi, e di modi così austeri che il Primo Ministro non riuscì a impedirgli di dominare, seppure per poco, la scena, mentre serviva il caffè intorno al tavolo con un repertorio all’apparenza inesauribile di gesti da «haut monde». Sir Harry Julian, ormai perfettamente sveglio, osservava la liturgia del caffè e tutto ciò che lo circondava, persino i guanti che, il Cancelliere lo sapeva, avevano un significato più che simbolico, visto che il maggiordomo maneggiava la gigantesca caffettiera con la massima confidenza. Quei guanti, rifletté il Cancelliere, dovevano essere stati confezionati, probabilmente in seguito a un’ordinazione speciale del rettore, con un materiale particolarmente resistente al calore. Poi si mise a osservare Sir Harry che si stava aggiustando il pince-nez per seguire, come si dice, lo sviluppo della situazione, evidentemente proponendosi di introdurre tale servizio negli uffici del Tesoro al posto della solita dispensatrice di caffè mattutino preceduta dal suo volgare carrello. «Ma non la spunterà mai», disse il Cancelliere a se stesso con un po’ di rammarico.

Quando il maggiordomo si fu ritirato, il Primo Ministro disse subito: «Lei stava per fare un’osservazione molto profonda, dottor Waldheim».

«Spero che sia un’osservazione dettata dal buon senso», annuì Waldheim, passandosi di nuovo la mano nei capelli. «Un’azione effettuata di proposito non è necessario che venga direttamente dalla cometa. Ecco che cosa pensavo.»

«Non riesco a seguire il suo ragionamento, Waldheim. Potrebbe essere più chiaro?» chiese il rettore.

«E’ meglio che faccia un esempio. Le società televisive non trasmettono necessariamente i loro programmi direttamente dalla stazione trasmittente allo spettatore. Li trasmettono spesso a una stazione amplificatrice locale, ed è da questa che gli spettatori ricevono i programmi.»

«Com’è possibile che sull’aereo ci fosse un amplificatore?» chiese il Cancelliere.

«Sarebbe stato naturalmente necessario creare un amplificatore. Ma la precisione necessaria per appostare nell’aereo un qualche agente capace di azioni deliberate sarebbe stata di… quanto? Dieci, venti metri, forse. Non sarebbe stato difficile come arrivare alla precisione di un metro. Oppure, l’agente capace di azioni deliberate poteva essere stato appostato persino all’esterno dell’aereo, purché si spostasse nell’aria alla stessa velocità. Naturalmente sarebbe poi dovuto entrare in qualche maniera nell’aereo.»

Siccome sapeva di essere propensa a chiacchierare, Frances Margaret si era imposta di farsi vedere, ma non sentire, durante le riunioni del Comitato Halley. Questa volta, tuttavia, non riuscì a trattenersi, ed esplose: «L’apparizione, naturalmente. L’apparizione nel cottage!»

Dopo di che fu necessario raccontare ciò che era accaduto il giorno della tempesta sulla costa del Norfolk e quali deduzioni se ne potevano trarre. Frances Haroldsen pose termine al suo intervento, dicendo: «Fino a questo momento non avevamo la minima idea di che cosa potesse essersi trattato».

«Dio buono, finalmente si comincia a intravedere un barlume!» esclamò il rettore.

«Sembra tutto molto strano», annuì Kurt Waldheim, «ma se dobbiamo comprendere i fatti, dev’essere stato così. Altrimenti ci troveremmo alle prese con varie contraddizioni.»

«Che non le piacciono?» brontolò il rettore.

«Che sono impossibili», ribatté Kurt Waldheim in tono deciso.

«A questo punto, il Comitato deve affrontare una domanda di suprema importanza che sinora non ci eravamo posti», disse il Primo Ministro, riprendendo il controllo della riunione.

«Che sarebbe?» chiese il rettore.

«Va bene quello che stiamo facendo? Stiamo procedendo nella direzione giusta? O stiamo facendo troppo poco? Dovremmo fare di più? Possiamo fare di più? Sir Harry, se dicessi che dobbiamo raddoppiare il programma o triplicarlo o quadruplicarlo, quando mi direbbe di fermarmi? Per ragioni economiche, voglio dire», continuò il Primo Ministro con enfasi.

Sir Harry Julian si sollevò con un certo sforzo per alcuni centimetri dalla sua poltrona speciale per ricadere subito a sedere con un tonfo. Poi si aggiustò il pince-nez e, dopo aver rivolto un’occhiata severa a tutti i presenti, disse: «Il sistema migliore per rispondere alla sua domanda, Primo Ministro, sarebbe quello di persuadere il Cancelliere a spiegare al Comitato che cosa sono quelli che noi del Tesoro chiamiamo i seminari per la polvere negli occhi».

«Seminari per la polvere negli occhi?»

«I nostri seminari per la polvere negli occhi, Primo Ministro», cominciò il Cancelliere Godfrey Wendover con un sorriso, «riguardano discussioni per così dire ’in famiglia’, e che preferiremmo restassero in famiglia.»

«Questo lo posso capire, Godfrey, ma perché ’polvere negli occhi’?»

«Perché i seminari sono basati sull’idea che tutte le abituali teorie economiche sono tanta polvere negli occhi», rispose il Cancelliere, sempre con il sorriso sulla bocca.

«Allora sarebbe più giusto chiamarli seminari per il buon senso», brontolò il rettore piuttosto depresso, domandandosi se il nubifragio che stava ancora imperversando volesse portarsi via le fondamenta del College. In tal caso, la fontana al centro della Great Square diventerebbe superflua, rifletté.

«Sì, beh, ci sono due maniere in cui si può concepire l’economia, rettore. Lei può partire dalla situazione in atto e tentare di decidere quale perfezionamento potrebbe migliorarla o impedire che peggiori un tantino. Questa microeconomia, come si potrebbe chiamarla, è la maniera in cui procediamo sempre ufficialmente: un colpetto all’economia di qua perché migliori nella misura dell’uno per cento, un colpetto di là per impedire che peggiori nella misura dell’uno per cento. Più o meno è così.»

«Ma», continuò il Cancelliere, «esiste un altro metodo. Un metodo selvaggio. Lei può ignorare completamente la situazione in atto, non tenerne conto, e provare a pianificare un sistema economico completamente diverso, un sistema economico che secondo le sue speranze sarebbe molto migliore di quello attuale»

«Utopia», brontolò il rettore, tutt’altro che impressionato, domandandosi se le fondamenta dei College in riva al fiume, specialmente il Queen e il Saint John, avrebbero effettivamente resistito.

«Mi sembra una risposta piuttosto lunga per una domanda così breve», osservò il Primo Ministro.

«Per continuare nella risposta, Primo Ministro», proseguì il Cancelliere, imperturbabile, «tutto sta a dimostrare che la gente in cerca dell’utopia non la trova mai.»

«Perché allora prendersela tanto?»

«Non ce la prendiamo affatto. Abbiamo, invece, tentato di affrontare il problema in maniera più modesta, cioè di capire i principi di larga massima capaci di assicurare un sistema economico coronato dal successo.»

«E quali sono?»

«Sì, quali sono?» gli fece eco il rettore.

«Ovviamente bisogna coltivare e produrre tutte le cose necessarie alla vita.»

«Ovviamente», ripeté il Primo Ministro, in tono caustico.

«La sorpresa consiste nel fatto che il numero delle persone che lavorano in questa categoria essenziale è in realtà molto piccolo. Se lei prova a separare le cose che sono veramente necessarie da quelle che pretendiamo essere necessarie, lei troverà che solo un terzo della manodopera è impegnato. Che cosa succede con gli altri due terzi?» chiese il Cancelliere con un tono un tantino retorico.

«Se ne stanno seduti a parlare come stiamo facendo noi, e vengono pagati meglio della gente che produce o coltiva generi di prima necessità», rispose il rettore.

«O cucinano i pasti nei ristoranti quando la gente potrebbe cucinarseli in casa», annuì il Cancelliere.

«Oppure mettono in piedi un’industria per la fabbricazione di personal computer», intervenne Sir Harry Julian con il cipiglio più severo di cui fu capace.

Rivolgendo uno sguardo corrucciato a tutti i presenti e sistemando meglio il pince-nez, Sir Harry Julian continuò: «Una grande industria per la fabbricazione di computer, con azioni molto quotate in borsa. Per ottenere che cosa? Per i videogiochi. Per giocare con le illusioni».

«E questa le sembra una riflessione molto profonda, Sir Harry?» chiese il Primo Ministro, evidentemente in preda a qualche dubbio.

«Non faccio una riflessione profonda, Primo Ministro, quando affermo che buona parte di ciò che chiamiamo economia è basata su illusioni. Illusioni sulle cose che crediamo importanti», replicò Sir Harry Julian, ripetendo il giochetto di alzarsi per qualche centimetro dalla poltrona e lasciarvisi poi ricadere di colpo. «Il ragionamento diventa profondo», continuò, togliendosi il pince-nez e tormentando la cordicella nera che lo reggeva, «il ragionamento diventa profondo quando uno si rende conto che le illusioni non sono aspirazioni futili, ma vere e proprie «necessità», che sono le illusioni coronate da successo quelle che creano un’economia fiorente.»

«Ho già sentito cose più assurde di queste», commentò il rettore.

«A me sembra un po’ un ragionamento keynesiano. Sarebbe come scavare pozzi e poi riempirli di nuovo. Queste teorie non sono piuttosto disapprovate di questi tempi, Sir Harry?» fu il commento del Primo Ministro.

«Quella di scavare pozzi e poi riempirli di nuovo è stata sempre una cattiva idea, Primo Ministro», rispose Sir Harry, continuando a giocherellare con i suoi occhialetti. «E’ stata una cattiva idea non perché era un’illusione, ma perché si trattava di un’illusione che sicuramente non sarebbe stata coronata da alcun successo.»

«Come si può avere un’illusione coronata da successo, Sir Harry?»

«Un’illusione coronata da successo è un’illusione che continua a sussistere, Primo Ministro. Quella di scavare e riempire pozzi non è un’operazione che può continuare. La gente la troverebbe ben presto ridicola. Il fatto «è»», sottolineò Sir Harry con una smorfia, «il fatto «è» che l’economia fiorisce quando un’illusione ci entusiasma, mentre l’economia ristagna quando abbandoniamo un’illusione. Tutto scorre, niente sta fermo, saggia massima, davvero», affermò Sir Harry, volgendo il consueto sguardo corrucciato tutt’attorno per tornare poi a rannicchiarsi sulla poltrona.

«Allora dovrei arrivare alla conclusione che abbiamo bisogno di un’illusione sostenibile a tempo indeterminato per godere una prosperità duratura?»

«Esattamente, Primo Ministro», convenne Sir Harry. Mentre prima sembrava occupare una posizione molto più elevata degli altri al tavolo, ora il funzionario appariva più basso. «Un’illusione che continui a lungo, come la costruzione dei telescopi che avete in mente. L’illusione è interessante, molto interessante», soggiunse, sprofondando ancor di più nella poltrona e fissando il soffitto. «Darà lavoro a ogni sorta di gente. Lavoratori dell’edilizia, dell’acciaio e dei metalli, dell’elettronica, il personale necessario per farli funzionare e per curarne la manutenzione, segretarie, un piccolo ristorante nei pressi di ogni telescopio, posti disponibili persino per la burocrazia governativa. Non posso menzionarne più che tanti. E quel che è più importante ancora: sembra un’illusione che persisterà. Perciò vi dico», Sir Harry si raddrizzò improvvisamente guardando di nuovo tutti con fiero cipiglio, «che, tenuto conto delle limitazioni e degli sprechi naturali, noi dovremmo estendere le nostre attività senza un limite ben definito. Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo.»

Isaac Newton si unì agli altri del Comitato Halley per consumare una colazione di lavoro, come la volle chiamare il rettore, una colazione di quattro portate e altrettanti vini diversi. Quasi inevitabilmente, perciò, l’orologio sulla torre di Edoardo Terzo segnava le due e mezzo quando il Comitato si riunì di nuovo per la sessione pomeridiana. Il Primo Ministro era deciso a procedere a tutta velocità per potersi trovare al Parlamento all’inizio della serata.

La seduta era appena cominciata quando il Primo Ministro venne chiamato al telefono. Il rettore, che aveva a fianco il Cancelliere, era affacciato alla finestra e contemplava la Great Square trasformata in un lago fangoso e illuminata da un improvviso sole primaverile, che aveva fatto seguito alla tempesta.

Il Primo Ministro ritornò. Era così pallido e aveva un aspetto tanto disfatto da far esclamare a Godfrey Wendover: «Qualcosa non va, Primo Ministro?»

Il Primo Ministro fece tre o quattro passi strascicando i piedi per dire poi con un’espressione sconvolta sul viso: «Sì, Godfrey, qualcosa non va, ed è molto grave. I russi hanno lanciato un attacco a sorpresa».

«Non ci potrebbe essere uno sbaglio…?»

«No. Ho parlato proprio adesso con il presidente americano. Mi ha detto che stava sprecando quaranta preziosi secondi per avvertirmi dell’imminente lancio dei Cruise.»

Isaac Newton, che ora presenziava alla riunione, si trovò a parlare suo malgrado. «Fermateli!» disse in tono autoritario.

«Non so come posso…»

«Allora tenti. Metta in movimento tutte le forze armate necessarie», continuò Isaac Newton con lo stesso tono.

«Ma i russi…»

«I russi non ne ricaveranno alcun vantaggio perché il «fall-out» dei loro ordigni soffierà loro direttamente in faccia, i venti soffiano da occidente verso levante. Inoltre ci sono sommergibili in navigazione, più che in grado di rispondere per le rime. Le armi nucleari non sono destinate a essere usate. Esistono solo per non essere usate. E dica ai tedeschi di impedire che vengano lanciati i loro Pershing. Non dobbiamo fare «niente» di più, qualunque cosa sia successa.»

«Newton ha ragione, Primo Ministro», disse a questo punto il Cancelliere in tono pacato, facendosi avanti e prendendo per il braccio il Primo Ministro. «Proviamo, almeno.»

Quando il Primo Ministro e il Cancelliere si allontanarono per telefonare, Isaac Newton raggiunse il rettore intento a guardare la pozzanghera fangosa cui era ridotta la Great Square.

Lanciando un’occhiata in direzione della torre di Edoardo Terzo, dell’orologio che per tanti secoli aveva continuato a scandire le ore, le mezz’ore e i quarti d’ora, il rettore chiese: «Quanto tempo ci rimane?»

«Arriveranno prima che lei possa sentire di nuovo l’orologio», rispose Isaac Newton. «Ammesso che l’orologio suoni mai più.»

61

Per uno strano caso, le persone riunite nella Stanza Ovale erano le stesse che si erano riunite ll poche settimane prima. E, per un altro strano caso, adesso era il Segretario di Stato che aveva un potente raffreddore e non il Segretario per il Commercio; stavolta la signora sprizzava salute da tutti i pori. Era pettinata con una sofisticata acconciatura per l’occasione, e nelle guance spiccavano le fossette, fossette che le donavano particolarmente in televisione, per cui il Presidente avrebbe avuto difficoltà a licenziarla indipendentemente da ciò che usciva dalla sua bocca. Ed era probabile che dicesse cose terribili al generale a cinque stelle che se ne stava seduto lì soffiando nubi di fumo in direzione del Segretario di Stato, palesemente sconvolto.

Il direttore della CIA si stava domandando quanto, delle cose che conosceva in via segreta, poteva raccontare ai presenti senza infrangere i limiti della sicurezza, e quanto era saggio raccontare allo stesso Presidente. Tutti intorno al tavolo erano naturalmente a conoscenza della minacciosa mobilitazione dell’Armata Rossa, ma nessuno sapeva — si disse il direttore della CIA con una certa soddisfazione — della strana malattia che aveva recentemente colpito, con una sola eccezione finora nota, tutte le massime cariche del governo sovietico. Si trattava di un bocconcino che non andava distribuito alla leggera ai presenti, decise il direttore della CIA, nonostante fosse più che evidente che il Segretario di Stato aveva bisogno di essere confortato in qualche maniera.

La riunione ebbe inizio alle nove precise, corrispondenti alle quattordici dell’ora di Londra o alle sedici, ora di Mosca. Era effettivamente strano — considerato l’immenso numero di svitati sparpagliati in tutto il mondo — che nessuno avesse finora richiamato l’attenzione sul fatto che il confronto tra le superpotenze era alimentato in realtà dalle differenze tra i fusi orari. Poiché gli americani e i sovietici mangiavano, dormivano e lavoravano in ore così diverse della giornata, era fin troppo naturale che si considerassero appartenenti a una differente sottospecie dell’umanità. In una giornata qualsiasi esisteva ben difficilmente un momento nel quale il capo di stato americano potesse comunicare con quello sovietico senza che o l’uno o l’altro dei due fosse semiaddormentato, o senza che i loro rispettivi processi fisiologici si trovassero in fasi completamente diverse del ciclo quotidiano: uno con lo stomaco pieno, l’altro con lo stomaco vuoto. Così, per esempio, nel momento cui ci stiamo riferendo, il Presidente americano — trattandosi di un anno di elezioni — aveva dovuto accontentarsi di una prima colazione composta di una misera ciotola di cereali e latte scremato, mentre il Presidente sovietico, non fosse stato per il folle prurito, sarebbe stato intento a fare la siesta come un orso in piena ibernazione dopo un gargantuesco pranzo consumato sul tardi.

Ma la riunione nell’ufficio del Presidente era stata convocata senza alcun riferimento ad argomenti del genere. Il punto dolente era il minaccioso deficit del bilancio, una questione che poteva avere conseguenze piuttosto gravi e durature in un anno di elezioni. Il generale con cinque stelle stava all’erta per difendere i numerosi grossi finanziamenti concepiti dal Pentagono e dai suoi astuti consiglieri. In luogo del Segretario di Stato, avrebbe dovuto presenziare alla riunione il Segretario per il Tesoro, ma poiché aveva la febbre del fieno aveva chiesto al Segretario di Stato di sostituirlo, dato che questi era l’unico uomo a Washington di cui si fidasse, più o meno. Entrambi dirigevano ministeri tradizionali che avevano reso buoni servigi al governo della Repubblica per oltre il quarto di millennio della sua esistenza. E proprio per queste prestazioni fornite, i due dipartimenti venivano continuamente attaccati da comitati di recente formazione, da assistenti del Presidente e, tanto per essere precisi, da ogni «parvenu» politico che il prolifico sistema riusciva a generare. Per questo motivo era naturale che i responsabili dei due dipartimenti fossero alleati in funzione di custodi dell’America di una volta. Il direttore della CIA, invece, era presente perché gli piaceva sempre assistere quando c’era in ballo qualcosa.

«Le sarà gradito apprendere, signor Presidente, che il crac — non quello prodotto dai cereali quando vengono masticati — è distante, volendo essere cauti, almeno tanti anni quanto durerà in carica il prossimo Presidente», affermò il Segretario di Stato tirando su con il naso.

«Che cosa intende dire?» brontolò il generale a cinque stelle mentre emetteva dalla bocca una nube di fumo che saliva, trasformatasi in un anello, verso il soffitto.

«Intendo la bancarotta», replicò il Segretario di Stato in tono asciutto osservando l’anello di fumo in ascesa. Si chiese che cosa avrebbe detto il Presidente se lui si fosse difeso in futuro portando con sé una macchina per la produzione di fumo artificiale, capace di consumare chili di tabacco, che sprigionasse pestilenziali nubi di fumo in qualsiasi direzione grazie a un congegno di scarico azionato da un servomeccanismo.

«Siamo arrivati al venti per cento, a questo punto», osservò il Segretario per il Commercio con un luminoso sorriso, e le fossette ben in mostra perché aveva allargato la bocca proprio per ottenere quest’effetto.

«Venti per cento di che cosa?» chiese il Presidente.

«Venti per cento del bilancio, naturalmente. Assorbito dagli interessi del debito pubblico che arriva ora a uno virgola quattro trilioni di dollari, come ricorderà, signor Presidente. Tenendo conto del continuo aumento degli interessi, e calcolando il prossimo deficit in duecento miliardi, necessari solo per coprire le spese assolutamente essenziali del generale, i presenti scopriranno che gli interessi dovuti per il debito pubblico finiranno per consumare tra circa sette anni l’intero bilancio, a meno che il direttore della CIA riesca a far sospendere in qualche maniera le caratteristiche delle funzioni esponenziali», continuò il Segretario per il Commercio, sempre radiosa in volto.

«Escludendo a priori qualsiasi aumento delle imposte», aggiunse il Segretario di Stato, starnutendo.

Il Presidente scosse la testa vigorosamente quando sentì parlare di aumento delle imposte, e disse: «Sette anni sono tanti».

«In tal caso, generale», osservò il Segretario per il Commercio, mettendo sempre in mostra le fossette, «le consiglierei di impadronirsi in anticipo del maggior numero di dollari che le spetta e di cambiarli immediatamente in franchi svizzeri.»

In quel momento risuonarono in tutta la Casa Bianca i cicalini d’allarme. I cicalini emettevano un ronzio che il Segretario per il Commercio non aveva mai udito. Si stava domandando che cosa potesse significare questo segnale quando il generale a cinque stelle gridò: «Al rifugio! E’ l’allarme rosso!»

Il Presidente trasse di tasca una piccola ricevente a cifra. La spia applicata all’apparecchio emetteva una luce rossa. «Lei ha ragione, generale», confermò. «Non sarebbe meglio far uscire la gente?»

«Non c’è tempo, signor Presidente. Adesso conta ogni secondo. Al rifugio!»

Il generale e il Presidente lasciarono per primi l’ufficio con energico slancio, seguiti a ruota dal direttore della CIA e infine, a una certa distanza, dal Segretario di Stato e dal Segretario per il Commercio. Anzi, i due ultimi membri della comitiva si sarebbero persi se non fosse stato per il fatto che il Presidente non riusciva a trovare la chiave che dava accesso a un ascensore speciale, una chiave che avrebbe dovuto portare addosso. Il generale conosceva, comunque, l’esistenza di un piccolo cassetto nascosto nella parete, che aprì, rivelando la presenza di una chiave appesa sul fondo. Dopo aver avvolto la mano nella giacca, il generale gridò: «State indietro!» e subito dopo colpì, con il pugno protetto dal panno della giacca, la lastra di vetro che proteggeva il cassetto. Il generale prese la chiave e aprì la porta dell’ascensore speciale, e il gruppetto si stipò nella piccola cabina.

Mentre la porta si stava chiudendo, il Presidente chiese: «Non avrebbero potuto computerizzare tutta questa roba?»

La cabina dell’ascensore precipitò come un sasso, come se fosse stata priva di un cavo che la sostenesse. Siccome ci vollero quaranta secondi perché rallentasse la corsa fino a fermarsi, oscillando per un bel po’, il Segretario di Stato calcolò che dovevano essere scesi abbastanza in fondo.

Quando lasciarono l’ascensore, il generale gridò di nuovo: «Dentro nel tubo!»

Il «tubo» iniziava con un varco coperto da un materiale rigido con un’apertura in corrispondenza del suo diametro. Il generale e il Presidente s’infilarono in quest’apertura a turno, seguiti con una certa alacrità dal direttore della CIA. Come prima, li seguirono il Segretario di Stato e il Segretario per il Commercio, sempre ultima.

Quando toccò alla signora, questa prese a scendere scivolando dolcemente lungo un tubo — più precisamente uno scivolo a inclinazione semi-orizzontale — che ben presto si restrinse al diametro di un metro. L’andamento orizzontale del condotto lasciava desumere che ormai la comitiva doveva trovarsi ben oltre il perimetro della Casa Bianca e persino fuori del perimetro del terreno che la cinge. Il Segretario per il Commercio continuò a scivolare come gli altri nel condotto sotterraneo, svoltando intorno ad angoli e raggiungendo tre diversi livelli. Il movimento era dolce e frenato dalla frizione che bilanciava sempre la forza di gravità. Alla fine, lo scivolo finì per sboccare in una grande caverna sotterranea illuminata a giorno. Il Segretario per il Commercio si alzò in piedi, controllando automaticamente che gli orecchini con gli zaffiri, che le piacevano tanto, non fossero andati persi in quella specie di giochetto infantile concepito dal Pentagono. Mentre si dirigeva verso il centro della caverna, o bunker come quei bambinoni amavano chiamarla, si domandò se non fosse venuta per lei l’ora di consumare qualche nuovo amico, tanto per essere coerente con la descrizione che la rivista «Time» aveva fatto di lei, chiamandola «il membro più attivo del governo».

Il sistema d’allarme difensivo degli Stati Uniti era coerente, per quanto riguardava la sua complessità, con l’importanza di una superpotenza. Il primo allarme veniva dato da vari sistemi esistenti a bordo dei satelliti con impulsi radar e radiazioni infrarosse. Poi veniva l’avvistamento ionosferico in profondità oltre l’orizzonte delle scie dei missili nemici in avvicinamento. Infine entrava in funzione il solito radar che arrivava fino all’orizzonte. Ognuna di queste tre fasi trasmetteva costantemente, nella misura di ogni secondo per ogni giorno, dati ai computer che li analizzavano per scoprire le prove di eventuali missili in avvicinamento, specialmente per quanto riguardava le direzioni e le velocità degli echi sospetti. L’intero processo veniva «concentrato» per essere controllato al quartier generale dell’Aviazione presso Omaha, nel Nebraska, da dove informazioni identiche venivano trasmesse all’istante al bunker presidenziale di Washington.

Benché il gruppetto avesse reagito con la massima velocità possibile all’allarme, molto tempo era già stato perso. Eppure è difficile immaginare come una reazione qualsiasi avrebbe potuto verificarsi entro il periodo di volo dei missili provenienti dall’Unione Sovietica se il Presidente fosse stato occupato in una conferenza stampa o se si fosse trovato a una riunione elettorale, trasmessa dalla televisione, sotto gli auspici della Lega delle Donne Elettrici. Oppure se il Presidente, o la sua controparte sovietica in un’analoga situazione, fossero stati occupati nel soddisfacimento delle naturali necessità fisiologiche delle quali normalmente non si parla. La situazione sarebbe stata la stessa.

In vista dell’indispensabilità di una reazione urgente da parte del capo di stato, dovuta al sistema delle doppie chiavi usato nel controllo delle armi nucleari, il fatto che questioni così semplici non fossero state studiate più che a fondo sfidava qualsiasi logica. D’accordo: come tutti i personaggi importanti sapevano benissimo, la chiave nucleare del Presidente si trovava addosso al Presidente stesso, in una apposita tasca sigillata. Questa chiave sarebbe potuta entrare in azione rapidamente in risposta a una telefonata, senza che il Presidente dovesse nemmeno alzarsi dalla scrivania nel suo ufficio. Ma egli si sarebbe trovato in tal caso nella posizione di ricevere istruzioni riguardanti le funzioni di maggiore responsabilità che la sua carica forse comportava, istruzioni impartitegli dalla persona all’altro capo del telefono. Il Presidente poteva valutare in maniera del tutto indipendente la gravità della situazione, suo compito principale, solo vedendo di persona le prove. Ma come avrebbe potuto farlo senza scendere nel rifugio? Tutto questo stava a dimostrare quanto instabile fosse diventato l’intero sistema, visto sia dall’Occidente, sia dall’Est. Il che voleva dire che prima o poi tutto sarebbe andato inevitabilmente a catafascio.

Il Segretario per il Commercio rimase affascinata a guardare mentre due ufficiali delle Forze Armate tagliavano una tasca interna della giacca del Presidente per estrarne un astuccio. La signora pensò che stessero davvero esagerando con il loro giochetto. I due ufficiali si avvicinarono rapidamente a una console dall’aria importante e inserirono l’astuccio in uno spazio predisposto. Poi cominciarono a battere velocemente con le dita sui tasti di una grande scacchiera, al che il generale a cinque stelle gridò: «E adesso possiamo dargli dentro! Stiamo arrivando, cari sovietici!»

Nell’udire quest’esclamazione, il Segretario per il Commercio ebbe finalmente il sospetto che tutto il casino non fosse un’esercitazione, ma la realtà. Nauseata dall’idea si avvicinò a una grande carta geografica variopinta, che occupava un’intera parete, per studiarla. Era un enorme mappamondo sul quale strisce di luce rossa convergevano sulle maggiori città degli Stati Uniti, mentre gli oceani superati dalle strisce di luce rossa brillavano di un azzurro pallido. A giudicare dai frammenti di conversazione intorno alla console, le strisce rosse erano le scie dei missili.

Poi, dopo aver studiato per un po’ il mappamondo con crescente orrore, il Segretario per il Commercio si rese conto con immenso sollievo che tutte quelle segnalazioni non potevano corrispondere alla realtà.

«C’è la scia di un missile proveniente dall’Antartide», disse al Presidente e al generale a cinque stelle che stavano accanto a lei, intenti a studiare il mappamondo.

«L’ho sempre detto che quegli scienziati sovietici laggiù nell’Antartide erano un branco di bastardi che non la contavano giusta», rispose il generale.

D’accordo: c’era un grosso fascio di scie provenienti dal Canada settentrionale che avevano l’aria di provenire in realtà dalla Siberia. Ma ve n’erano altre che sembravano strane agli occhi del Segretario per il Commercio. La signora seguiva ora con molta attenzione l’andamento delle scie colorate in rosso.

«Guardate», disse, «ce n’è una che viene dal Sahara.»

«Sono quei bastardi di libici nel Ciad.»

«E un’altra dall’Africa occidentale.»

«I cubani», tuonò il generale. «Dio mio, come siamo stati fregati», soggiunse, disgustato.

«E un’altra dall’Oceano Indiano.»

«Sottomarini!» dichiarò immediatamente il generale. «Questa è una cospirazione estesa in tutto il mondo. Mi piacerebbe sapere perché non siamo stati messi in guardia!» disse, rivolto al direttore della CIA, in tono bellicoso.

Fu a questo punto che il Presidente telefonò al Primo Ministro britannico per informarlo che i missili Cruise stavano per essere lanciati da basi britanniche. Poi, dopo un intervallo di quaranta secondi, telefonò al Cancelliere tedesco per informarlo che i Pershing 2 stavano per essere lanciati dalle basi tedesche. In seguito, il Presidente fu in grado di vantarsi che nonostante la situazione estremamente tesa, nella quale contava ogni singolo secondo, aveva speso quasi un minuto e mezzo per mettere i suoi alleati al corrente della piega disperata presa dagli eventi.

«Ce n’è una che viene dritta dall’Himalaia», squittì il Segretario per il Commercio.

«Adesso sappiamo perché i sovietici hanno invaso l’Afghanistan, maledizione!» tuonò in risposta il generale a cinque stelle.

«E un’altra dall’Australia», squittì di nuovo la signora.

«Non viene dall’Australia, ma da un sottomarino in acque australiane», precisò uno degli ufficiali, affinché il generale a cinque stelle non fosse costretto a rispondere.

«Risposta esatta», annuì il generale.

«Non sarebbe stato più ragionevole, da parte dei sovietici, avere dei sottomarini nelle acque della California?» insistette il Segretario per il Commercio, che non voleva darsi per vinta.

«Sarebbe molto più ragionevole se lei se ne stesse zitta, signorina», disse un altro ufficiale con voce tagliente.

«Risposta «maledettamente» esatta», convenne il generale.

Tutti gli occhi si appuntarono improvvisamente su un’altra grande carta geografica sulla quale si erano appena accese delle luci. Su questa mappa si vedevano gli Stati Uniti invasi da una moltitudine di larghe scie rosse. Era lo stesso spettacolo di prima, solo su scala molto maggiore, al punto che la corsa delle scie verso le città americane poteva essere seguita da un secondo all’altro. La scia diretta a Washington precedeva le altre.

«Dio mio. Ci sta venendo addosso», osservò il Presidente mentre la distanza tra la testa della scia e la capitale americana diminuiva rapidamente fino a scendere a zero.

Tutti i presenti nel bunker si rannicchiarono involontariamente quando la scia raggiunse Washington. Il Segretario per il Commercio in un primo tempo rimase sorpresa di non aver sentito alcuna esplosione, ma poi si rese conto che nessuna esplosione di missile poteva essere udita alla profondità in cui si trovavano. Il rifugio era stato naturalmente progettato in vista di un simile evento. Eppure sembrava un po’ strano che nel bunker non si notasse alcuna ripercussione dell’esplosione.

«La luce funziona ancora», disse al direttore della CIA.

«Abbiamo i generatori autonomi. Altrimenti, che senso avrebbe tutto questo?» egli rispose.

«Qual è il senso di tutto questo?»

«Il senso di tutto questo», disse il generale a cinque stelle, che stava accanto al direttore della CIA, a voce talmente alta che rimbombò in tutto il bunker, «sta nel fatto che ora dobbiamo cominciare a progettare la quarta guerra mondiale, una volta che saremo riusciti a far funzionare i nostri silos con i missili. Per fortuna sono perfettamente corazzati», soggiunse il generale, rivolto al Presidente.

«Sì, beh, come vanno le cose, generale?» chiese il capo di stato guardando ora una ora l’altra carta geografica.

«New York se ne sta andando», qualcuno cantilenò come se volesse rispondere al Presidente. E in effetti, una delle varie scie inesorabilmente dirette verso New York raggiunse la metropoli proprio in quell’istante.

Una dozzina di punti dalla luce ambrata, quasi tutti dislocati negli Stati montagnosi in prossimità delle Montagne Rocciose, stavano ora ammiccando sulla mappa degli Stati Uniti.

«Silos pronti a entrare in azione», spiegò il generale.

«Pensavo che ne avessimo molti di più», osservò il Presidente perplesso.

«Gli altri hanno dei problemi, signor Presidente», spiegò un ufficiale.

«Spero che non ci siano problemi con i Pershing e i Cruise», disse in tono interrogativo il Presidente, in preda all’ansia.

«Alcuni sono già pronti a entrare in azione, signor Presidente», lo informò un altro ufficiale alla console.

«Los Angeles se ne va», risuonò una voce.

«E’ la fine del museo Getty, temo», si disse il Segretario di Stato, sternutendo violentemente senza prendersi la briga di portare al naso il fazzoletto, che del resto era ormai bagnato fradicio.

«Ce n’è una diretta a Boston che viene dritta dal centro della cappa di ghiaccio della Groenlandia», osservò il Segretario per il Commercio con voce tremante.

«Fate uscire questa donna», ordinò il generale. La sua pazienza era esaurita. Tanto, rifletté con soddisfazione, mentre due piantoni trascinavano via il Segretario per il Commercio, non ci sarebbe stato più commercio per molto tempo.

La signora venne spinta fuori da quella zona del bunker, attraverso corridoi e triple porte, a un passo tale che solo la vista familiare di un ascensore riuscì a farla ragionare di nuovo e a ridarle la voce per chiedere: «Che cos’è questo?»

«Un ascensore, signorina», fu la risposta poco informativa.

«E dove porta?»

«In superficie, signorina.»

«Perché, allora, la gente non scende?»

«Ha tre livelli, signorina», disse l’altro piantone.

«E in superficie non ci sarà corrente», soggiunse il primo piantone.

«Anche se è così, lo prendo», disse il Segretario per il Commercio, allargando la bocca per mettere in mostra le fossette e soggiungendo: «Volete un passaggio, ragazzi?»

«Ma non ha capito, signorina? La città, lassù, è in condizioni orribili», disse uno dei giovanotti.

«E’ distrutta completamente», disse l’altro.

«Come pensate allora di sopravvivere quaggiù?»

«Abbiamo cibo e benzina per mesi. Sopravvivremo finché non sarà organizzata la Quarta Armata.»

«Vedo», annuì il Segretario per il Commercio, «ma non credo che sarò della partita.»

Quando si avvicinò all’ascensore, i due piantoni tentarono di trattenerla, ma la donna estrasse i documenti che la qualificavano come membro del governo, il che non lasciò ai due giovanotti altra scelta se non quella di scostarsi e lasciare che si gettasse nella folle avventura.

«Tornerà presto», disse uno dei piantoni all’altro mentre la porta dell’ascensore si chiudeva alle spalle della donna.

«Niente male», fece il secondo piantone. «Peccato che resterà contaminata.»

L’ascensore continuò a salire a lungo prima di fermarsi. La porta si aprì e il Segretario per il Commercio uscì per ritrovarsi in una zona spaziosa, uno dei livelli menzionati dal piantone. La porta si richiuse e la spia luminosa indicò che la cabina stava di nuovo scendendo. Colta dalla paura di essersi messa nei guai da sola, il Segretario per il Commercio schiacciò il pulsante di un secondo ascensore che portava evidentemente verso la superficie. Dopo alcuni momenti di apprensione e dopo aver ripetutamente schiacciato il pulsante, udì un debole rumore dall’interno del pozzo dell’ascensore. Il Segretario per il Commercio ne dedusse, ringraziando la buona sorte, che i cavi funzionavano nella seconda tappa del suo viaggio.

Il secondo ascensore la depositò su un altro pianerottolo. A questo punto, la situazione si fece improvvisamente molto più critica. Schiacciò il pulsante di un terzo ascensore, quello che avrebbe dovuto portarla in superficie, ma il meccanismo non rispose, proprio come aveva predetto il piantone. Eppure ci dovevano essere delle scale, da qualche parte. Alla fine, al lato opposto di una porta metallica, trovò una scala molto ripida, come quelle usate sulle navi. In cima, un’altra porta metallica la riportò verso il pozzo superiore dell’ascensore, una porta che si chiuse da sola, sollecitata da una potente molla, con un rumoroso clic. Per di più, dalla parte dell’ascensore la porta era bloccata, come poté constatare. Si ritrovava così vicinissima alla superficie, ma senza la minima possibilità di ridiscendere nel bunker. C’era naturalmente un pulsante dell’ascensore, in cima al terzo livello, e lo premette, ma, come prima, non c’era l’energia elettrica.

Dalle due rampe superiori della scala, molto più brevi e meno ripide di quelle di prima, filtrava debolmente una luce. Il Segretario per il Commercio salì lentamente, tendendo l’orecchio per captare eventuali rumori del mondo esterno. Invano. Fuori regnava un gran silenzio. Sarebbe stato così silenzioso se le fiamme stessero divorando i resti della città? si chiese.

In cima alla scala c’era una strana specie di uscita che le ricordò l’ingresso nello scivolo che aveva portato la comitiva presidenziale nel bunker. Quella volta, lo scivolo era coperto all’ingresso da un materiale rigido con un’apertura lungo il suo diametro. Qui, l’uscita era simile, ma provvista di vari strati di materiale rigido. La donna s’infilò nelle aperture, l’una dopo l’altra, e uscì come una talpa in superficie, trovando un campo erboso. Effettivamente, il Segretario per il Commercio sbucò su un ampio spazio coperto dall’erba. Dopo un primo momento di sbalordimento si rese conto di essere vicinissima al centro della grande piazza chiamata Ellipse. Adesso sapeva qual era stato lo scopo di tutti i lavori di costruzione che per mesi erano continuati in segreto nell’Ellipse, senza che qualcuno potesse avvicinarsi. Davanti agli occhi ebbe una scena incredibile. Non si vedeva anima viva. Nessun rumore di traffico. Eppure, gli edifici, tutti, erano intatti. Rifletté che qualcosa di estremamente strano doveva essere successo, come le diceva l’istinto, e si mise ad attraversare il terreno erboso verso l’angolo sud-est del piazzale. In mancanza di un’idea migliore decise poi di incamminarsi sulla Constitution Avenue fino al palazzo che ospitava il suo ministero, per raggiungere il proprio ufficio dove poteva sempre farsi un caffè.

Era arrivata all’incrocio della Constitution Avenue con la 14esima Strada quando udì alle spalle un grido soffocato. Voltandosi, il Segretario per il Commercio urlò. Due figure dall’aspetto impossibile si stavano avvicinando a lei con passi malfermi. Gesticolavano. Avevano in testa grandi elmetti metallici avvolti nella garza e portavano gigantesche maschere antigas piene di tubi e tubicini. Il camminare impacciato era causato dai pesanti stivali anticontaminazione pieni di piombo, simili agli scarponi rigidi degli sciatori. La donna notò anche che indossavano una specie di tuta dalla quale pendevano vari strumenti e altri oggetti. E la figura in testa, per una qualche ragione che forse solo lei conosceva, stava agitando qualcosa che assomigliava al manganello usato dalla polizia francese. Poiché la curiosità non era sufficiente per indurla a indagare sulla situazione — e qui pensò che si trattasse più probabilmente di qualcosa della difesa civile che non di uno sbarco da un disco volante — il Segretario per il Commercio scappò a gambe levate, attraversò sempre correndo Constitution Avenue vuota e si diresse rapidamente verso il Mall che porta ai piedi del Campidoglio.

Ormai quasi senza fiato, raggiunse una panchina di legno vicino allo Smithsonian Institute. Seduta sulla panchina poté esaminare con comodo gli edifici governativi che sorgevano a nord e a sud del Mall. Sembravano tutti in perfetto ordine. La scia rossa che aveva colpito Washington poteva aver fatto ciò che voleva, ma certo non aveva danneggiato gli edifici. Il Segretario per il Commercio cercava di spiegarsi in qualche modo questo fatto quando una voce rauca esclamò: «Pentitevi! La fine del mondo è vicina!»

La voce rauca apparteneva a una figura in stracci che sedette accanto a lei.

«C’è stata una grande esplosione?» chiese lei.

«Noi siamo le due uniche persone rimaste vive in tutto il mondo. Dio ha colpito con mano pesante Sodoma e Gomorra», fu la poco confortante risposta.

«L’ha visto succedere?»

«Il mondo è una breve illusione. Preparatevi al regno dei santi.»

«E’ vicino?»

«La domanda parve sconcertare il vagabondo in stracci che disse ora in tono perplesso:

«Gli empi sono appassiti come tanti allori verdi».

«Perché sono appassiti gli empi?»

«Perché il Signore viene per liberare il mondo da coloro che peccano contro di Lui.»

Il Segretario per il Commercio, vedendo che la conversazione non aveva sbocco, estrasse un biglietto da dieci dollari da un borsellino che portava sempre addosso. Poi si alzò consegnando il denaro all’uomo in stracci. Mentre si allontanava, la voce rauca ripeté: «Pentitevi! La fine del mondo è vicina!»

Al Segretario per il Commercio vennero improvvisamente in mente le luci ammiccanti dei silos corazzati, e anche i missili Cruise e Pershing che erano stati lanciati. Fatta questa terrificante riflessione, arrivò alla conclusione che l’uomo in stracci era stato molto probabilmente profetico.

62

Isaac Newton si era sbagliato. Le lancette dell’orologio sulla torre di Edoardo Terzo si spostarono lentamente, con infinita lentezza, verso le tre. Quando l’orologio batté di nuovo l’ora, il rettore brontolò: «Per fortuna, lei qualche volta sbaglia. Speriamo di arrivare alle tre e un quarto».

Così di quarto d’ora in quarto d’ora, tutti rimasero in attesa nella lunga sala al primo piano del Trinity Lodge. Poi, il Cancelliere ritornò con notizie brutte.

«Vari Cruise sono stati lanciati. Arriviamo troppo tardi per fermarli tutti», disse, rivolto a Isaac Newton.

«Se prima qualcosa si poteva ancora salvare; adesso direi proprio di no», fece il rettore, rassegnato.

Come per difendersi dall’improvvisa sensazione di gelo che si era diffusa, il rettore condusse la comitiva nella sua «tana» personale dove la legna era già preparata nel caminetto. Quando gli altri si mossero per aiutarlo mentre si piegava sulle ginocchia per accendere il fuoco, il rettore fece cenno di allontanarsi, annuendo lentamente, come se stesse parlando tra sé: «No, faccio da solo. Da ragazzo andavo a pescare le trote e poi le cucinavo su un fuocherello all’aperto. Questa potrebbe essere l’ultima volta che ne accendo uno. Peccato che non ci siano trote».

Quando il fuoco cominciò a crepitare — la legna era secca — Sir Harry Julian, invitato dal rettore, prese posto su una grande poltrona e poi, tra lo sbalordimento generale, si addormentò.

«E’ con questo spirito che è stato costruito l’Impero Britannico, quello di una volta. I giovani, naturalmente, non lo ricorderanno», disse il rettore in tono beffardo. «Il guaio di questi tempi consiste nel fatto che esistono solo le discoteche, sempre aperte, in orario e fuori orario. Nessuno riposa. Nessuno sta tranquillo. Nessuno russa», continuò quando il respiro di Sir Harry cominciò a farsi sentire. ««Fin-de-siècle. Fin» di tutto.»

«Non ne sono tanto sicura», ribatté Frances Haroldsen.

«Perché non ne è tanto sicura?»

«Perché ho la sensazione che in tutto questo c’entri la cometa.»

«Come sarebbe possibile, Frances Margaret?» intervenne Kurt Waldheim, spezzando un lungo silenzio durante il quale aveva pensato alla moglie Rosie a Ginevra.

«Stavo pensando ai tuoi agenti attivi.»

«Quali agenti attivi?» chiese Isaac Newton.

Kurt Waldheim scosse imbarazzato la testa e tentò di evitare la domanda.

«Era solo una riflessione.»

«La riflessione riguardava il fatto che la cometa di Halley è in grado di creare agenti attivi», cominciò Frances Margaret, «capaci di fare tante cose davvero notevoli. Altrimenti non potremmo capire che cos’è successo nell’aereo che ti ha sbarcato a Stoccolma. Non potrebbe essere una cosa del genere? Apparizioni nell’aria?»

«Se non succede nulla entro un’ora, deve trattarsi di qualcosa del genere», convenne Isaac Newton.

Così attesero, un minuto dopo l’altro, finché a un certo punto non furono raggiunti dal Primo Ministro con altre notizie deprimenti.

«Sono stati lanciati i Pershing 2. Ho provato a parlare con Washington e Mosca. Sembra che le linee non siano interrotte per cui ho continuato a tentare. Ma non riesco ad avere una risposta ragionevole. Né dall’Est né dall’Occidente. Abbiamo bloccato i Cruise, ma non credo che servirà a qualcosa.»

«Ha fatto quello che ha potuto», annuì il Cancelliere. «C’è tuttavia una supposizione che offre una certa speranza.»

«Quale?»

«Che possa trattarsi di un giochetto della cometa per farci prendere lucciole per lanterne.»

«Voglia il Cielo che sia così!»

Il rettore si fece avanti strascicando i piedi.

«Volete saperne una? Io voglio credere che sia la cometa. Con questo non faccio del male a nessuno, no?»

«Immagino di no», convenne il Primo Ministro.

«In tal caso ho intenzione di festeggiare l’avvenimento. Possiedo qualche bottiglia di ottimo champagne.»

«Non sarei capace di bere.»

«Non la capisco, Primo Ministro. Se dobbiamo saltare in aria tutti, non vedo perché non dovremmo raggiungere l’aldilà con bicchieri di champagne in mano», brontolò il rettore uscendo dalla tana.

«Che cosa dice il Foreign Office?» chiese il Cancelliere.

«Dicono di non aver scoperto alcun cambiamento per quanto riguarda Mosca. C’era il blocco di tutte le notizie prima, e il blocco c’è anche adesso.»

«Non è una risposta che dica molto.»

«Volete saperne una?» continuò il Primo Ministro. «Circa una settimana fa ho ricevuto la visita di un divertente ometto del Foreign Office. Una specie di dissidente in quel ministero. Mi ha raccontato una storia abbastanza ridicola riguardo al motivo che ha determinato il blocco di tutte le notizie. Mi ha detto che il Politburo non è in grado di funzionare.»

«Come sarebbe a dire?» chiese Isaac Newton, improvvisamente interessato.

«Non è in grado di funzionare perché colpito da una nuova malattia che a Mosca chiamano prurito folle.»

«E’ importante questa notizia, Isaac?» esclamò Kurt Waldheim con aria sorpresa, notando l’espressione del viso di Isaac Newton.

«Quanto avrei voluto saperlo prima.»

«Perché?» chiese il Primo Ministro.

«Perché rende comprensibili alcuni messaggi cifrati, ricevuti di recente.»

«Dalla cometa di Halley?»

«Sì.»

«Potrebbe spiegarcelo in parole povere?»

«’Meglio di tutto è l’acqua’», brontolò, in greco, Sir Harry, aprendo un occhio che fissò la comitiva.

«E che cosa significherebbe questa sua citazione greca, Sir Harry?»

«Significa che l’acqua è meglio di tutto, Primo Ministro.»

«Anche se le cose stanno così, andrò ad aiutare il rettore con lo champagne.»

«In parole povere, Primo Ministro, ora sono quasi certo che abbiamo assistito a un trucco.»

«I missili, i Cruise e i Pershing, non erano un trucco. Erano autentici. E sono stati effettivamente lanciati.»

«In tal caso sembra che siano scomparsi», concluse Isaac Newton.

63

Isaac Newton ascoltava. Era sbalordito.

«Pensavamo», disse il Cancelliere, «che per lei sarebbe meglio ritrasferirsi a Cambridge.»

La riunione nell’ufficio di Isaac Newton al CERC a Swindon era stata convocata all’improvviso dal Cancelliere il quale era appena arrivato da Londra in macchina.

«Come mai questo improvviso ripensamento?» chiese Isaac Newton. «Non sono affatto sicuro che la poltrona del Cavendish sia ancora disposta ad accogliermi.»

«Lo è. Il Primo Ministro è stato in contatto. Ed ecco il motivo: finché ci trovavamo in una fase statica, voglio dire occupandoci soprattutto della costruzione dei telescopi, era ragionevole che lei stesse qui dove poteva influenzare maggiormente il programma di costruzione. Ma ora…»

«Ma ora…?» ripeté Isaac Newton in tono ironico.

«Ora, la cometa è diventata attiva, come possono vedere tutti, e la situazione è cambiata. Il programma di costruzione si è trasformato in un programma a lunga scadenza ed è diventato perciò un tantino controverso. Le cose veramente importanti sono ora il problema delle comunicazioni, il cifrario e così via. E naturalmente è meglio che le comunicazioni cifrate partano da Cambridge. Non ha detto l’altro giorno che le era sfuggito qualcosa?»

«Una cosa in realtà abbastanza importante, immagino.»

«Non vorrà per caso mettersi a litigare?»

«No. Ammesso che questo sia l’ultimo voltafaccia», rispose Isaac Newton. «E’ strano come mi capiti tutte le volte di odiare l’inizio di un lavoro», proseguì. «Poi imparo a conoscere la gente e rimpiango di doverla lasciare.»

«A me è successo sempre quando ho dovuto cambiare ministero. Ma ora voglio parlarle di una questione che più urgente di così non potrebbe essere», continuò il Cancelliere con una voce che esprimeva ansia.

«Sembra che stiamo passando da una crisi all’altra. Di che cosa si tratta questa volta?»

«Siamo nelle peste, Newton. Riesce a immaginare la reazione del Pentagono? Con il loro dispositivo di difesa e le loro idee su quello che viene chiamato, penso, ’lancio sotto attacco’ andati a carte quarantotto?»

«Non posso dire di essere molto sorpreso», replicò Isaac Newton senza provare l’emozione manifestata dal Cancelliere. «Ecco, vede, l’esperienza insegna che i sistemi, quando diventano troppo complessi, finiscono quasi sempre in questa maniera. Specialmente quando un sistema troppo complesso deve entrare in azione in una situazione che non permette di ritornare sui passi fatti.»

«Non sto discutendo gli aspetti tecnici», proseguì il Cancelliere, scuotendo la testa. «Dico solo che era una situazione pressappoco ideale per mettere in imbarazzo tutti a Washington. E dico anche che, essendo la natura umana quella che è, le persone messe in imbarazzo, quando occupano alte cariche, si mettono a cercare inevitabilmente capri espiatori.»

«Posso ammettere senza difficoltà che quanto lei dice è vero», annuì Isaac Newton con molta calma.

«E lei può ammettere anche, immagino, che la cometa di Halley è il capro espiatorio designato?»

«Non sarebbe un po’ come incolpar la luna?»

«Solo che nel caso della cometa di Halley non è difficile trovare un surrogato del capro espiatorio.»

«Dio buono! Che cos’«è» un surrogato di capro espiatorio? Un capro espiatorio al posto di un capro espiatorio?» chiese Isaac Newton, incominciando a manifestare interesse.

«In questo caso, il surrogato del capro espiatorio siamo «noi».»

«Perché «noi»?»

«Perché noi siamo, perché «lei è», il tramite delle comunicazioni intelligibili con la cometa di Halley.»

«A Washington tentano forse di dire che siamo stati noi a sobillare la cometa?»

«Per essere precisi, sì.»

«Ma è ridicolo.»

«Davvero? Come possono sapere che non abbiamo fatto una cosa del genere? E già che ci siamo: come faccio a sapere «io» che non lo ha fatto «lei»?»

«Per bene o male che vada, non siamo ancora progrediti fino a questo punto.»

«Fino a quale punto è progredito lei, effettivamente?»

«Ho fatto buoni progressi nel campo numerico e scientifico. Qualche progresso nella semantica. Nessun progresso in politica.»

«Allora, perché è successo tutto questo? Provi a ripensarci, Newton! Che caos! Tutto come se fosse stato vero. I satelliti che scoprono i missili con i raggi infrarossi, gli impulsi radar riflessi come se si fosse trattato di autentici missili. E questo ha fatto scattare l’intero sistema d’allarme degli Stati Uniti, quello civile e quello militare. L’allarme era stato dato in ogni paese e città d’America. La popolazione si è precipitata nei rifugi per sfuggire ai raggi gamma. La televisione e la radio l’avevano avvertita che sarebbero arrivati in pochi minuti o secondi. La gente sulle autostrade ha sentito queste notizie e ha finito per tamponarsi a vicenda formando giganteschi grovigli di macchine oppure ha abbandonato le automobili intasando tutta la rete stradale. Nelle città provviste di metropolitana, come Washington, la gente si è precipitata nelle stazioni in tale numero da costringere le autorità a togliere la corrente elettrica per impedire che migliaia di persone restassero fulminate toccando la terza rotaia sotto tensione. Le sirene destinate a mettere in allarme i civili hanno continuato a ululare ancora per molto tempo quando i missili avrebbero dovuto già essere andati a segno. Ci sono volute ore e ore per porre fine al caos.»

«Noi abbiamo subito un identico stress, Cancelliere.»

«Sì, ma gli americani sono convinti più di noi di avere l’inalienabile diritto di essere risarciti per lo stress.»

«Come sarebbe a dire?»

«Provi a ragionarci sopra, sul risarcimento per lo stress, voglio dire. Calcoli che lo stress sofferto per aver trascorso varie ore nella convinzione di trovarsi esposto a un attacco nucleare valga mille dollari, una cifra che quasi tutti troverebbero ridicola. Eppure, mille dollari per ogni uomo, donna e bambino d’America farebbero salire la richiesta di risarcimento totale a duecentocinquanta miliardi di dollari. Per pagare un risarcimento simile ci vuole un capro espiatorio abbastanza ben provvisto. Inoltre, secondo la nostra ambasciata a Washington, i lanci e gli scoppi non furono solo un’illusione elettronica. Chiunque si sia trovato nelle vicinanze della superficie è stato colpito da una forma di temporanea alienazione mentale. Ho ricevuto una relazione da uno degli addetti alla nostra ambasciata a Washington, un giovanotto chiamato Tim Bassett. Le leggerò il punto più significativo», rispose il Cancelliere estraendo dalla borsa portacarte una sottile cartella.

«’Ero di servizio’», lesse il Cancelliere, «’quando è risuonato l’allarme che preannunciava un attacco imminente. Ho tentato subito di stracciare certi documenti invece di scendere in cantina dove si trova il rifugio dell’ambasciata. E’ stato mentre ero impegnato in questa bisogna che uno stato mentale strano e finora mai provato si è impadronito di me. In un attimo ho avuto la sensazione di essere diventato un animale in ibernazione e che il mio dovere era quello di sistemarmi per una lunga dormita invece di stracciare documenti.’»

Il Cancelliere richiuse di scatto la cartella.

«Basta così. Può sembrare roba da pazzi, ma collima con fatti che si sono indubbiamente verificati.»

«Quali fatti?»

«Che Washington si è fatta completamente deserta. All’inizio, le sirene dell’allarme aereo hanno fatto scendere la maggioranza della popolazione nei sotterranei. Poi il fenomeno, qualunque esso fosse, che ha colpito la città ha svuotato le strade delle poche persone rimaste.»

«Tutto questo può essere molto interessante, Cancelliere, ma non riesco a vedere dove c’entriamo noi.»

«Noi subiamo pressioni, grosse pressioni, da tutte e due le parti. Al punto», concluse il Cancelliere, «che potremmo essere costretti a ripiegare.»

«Ripiegare?»

«Abbandonare tutto il programma.»

«Vuol sapere una cosa, Cancelliere?» disse Isaac Newton con aria perplessa. «Leggo dappertutto articoli e saggi e notizie che parlano di pressione. La Comunità Economica Europea che esercita pressioni sul Marocco, gli Stati Uniti che esercitano pressioni sul Brasile, l’Unione Sovietica che esercita pressioni sulla Siria. I commentatori non parlano d’altro. Ma, a meno che un esercito ostile non si trovi ai confini o che qualcuno sia in grado di togliervi il pane dalla bocca, secondo me non è altro che un’illusione, come quella di credersi un animale in ibernazione.»

«I leader politici formano una specie di club», cominciò il Cancelliere per spiegarsi.

«Questo lo posso credere.»

«Per cui abbiamo una specie di codice, un regolamento, al quale non veniamo meno. Neppure i russi lo fanno in maniera troppo vistosa. Voglio dire, noi non abbiamo l’abitudine di interferire negli equilibri politici all’interno delle altre nazioni. Per essere sincero, riesco a distinguere a malapena i partiti gli uni dagli altri o i loro programmi, persino trattandosi di nazioni così vicine a noi come la Germania. Io mi limito semplicemente a trattare con chi si trova a governare, in seguito a elezioni o in qualsiasi altra maniera.»

«Io pensavo che la CIA non facesse altro che interferire nelle elezioni ovunque, in tutto il mondo.»

«Avrei dovuto dire interferenze tra i paesi sviluppati. La CIA viene meno a queste regole nei paesi sottosviluppati, questo lo voglio ammettere. Ma questo è in fondo il motivo per cui la CIA si trova sempre alle prese con il Congresso degli Stati Uniti.»

«Sta tentando di dirmi, Cancelliere, che teme interferenze esterne nella politica britannica? Che gli altri soci del club stiano per infrangere le regole del codice e sconvolgere i piani di Washington?»

«Esattamente, Newton. Vede, ci sono mille maniere in cui le nazioni molto potenti possono interferire in modo tale da appoggiare il partito all’opposizione. Servendosi di pretesti economici, per esempio.»

«Ma voi avete una consistente maggioranza nel Parlamento, Cancelliere. Ottenuta in parte, dovrei forse dire, grazie alla nostra prima comunicazione con la cometa di Halley. Così non riesco a capire che cosa possa fare qualsiasi paese straniero per danneggiarvi.»

Il Cancelliere cominciò a misurare l’ufficio a passo cadenzato senza produrre alcun rumore sulla spessa moquette, una cosa di cui si rese improvvisamente conto. Si fermò e lisciò la moquette con il piede.

«Vuol sapere una cosa?» esclamò. «Non mi dispiacerebbe avere una moquette come questa nel mio ufficio.»

Poi riprese a marciare su e giù per esplodere finalmente con una voce molto irata: «Lei ha dimenticato la rivolta nei nostri ranghi parlamentari. Immagino che avrà letto i giornali. Non le sembra una faccenda piuttosto minacciosa?»

«Ho visto che l’opposizione sta per chiedere il voto di fiducia. Ma non è la prima volta. Non mi verrà a dire che il suo partito appoggerà l’opposizione?»

«Guardi, una volta che la gente comincia a disertare, il fenomeno diventa ben presto grave. Ogni astensione significa un voto di meno per la maggioranza. Ogni deputato che passa all’opposizione toglie due voti alla maggioranza. Così non occorrono molte diserzioni perché una maggioranza anche consistente scompaia completamente.»

«Con quale scopo? Significherebbe nuove elezioni. I vostri disertori potrebbero perdere i loro seggi.»

«Non quando si tratta di seggi sicuri.»

«Ma il vostro partito potrebbe perdere potere.»

«Offrendo così alle altre fazioni l’occasione di acquistare influenza nel partito. E’ in questo che consiste tutto il gioco. Lei deve rendersi conto, Newton, che gli americani stanno per comunicarci la fine della relazione speciale, il che produrrà necessariamente un grosso effetto, a parte l’effetto esercitato dalla cometa che in tal caso potrà essere fatta passare per una grave minaccia per la pace mondiale. Persino qualche persona «ragionevole» potrebbe pensare che un simile atteggiamento sia almeno in parte giustificato. Perché i Cruise e i Pershing sono stati effettivamente lanciati. Sa che non riesco ancora a capire che cosa è successo di questi missili?»

«I sistemi di guida interni diventano sensibili in certi momenti alle radiazioni esterne, Cancelliere. Annullare la capacità operativa di un missile nemico è ormai una parte importante della strategia, per cui penso che non sarebbe stato tanto difficile per la cometa.»

«Con la continua gazzarra che c’è in Parlamento non è facile spiegare cose come queste ai deputati.»

«Beh, Cancelliere, suppongo che potrò sempre insegnare fisica in qualche scuoletta del verde Devon», disse Isaac Newton con cupa rassegnazione. «Ma non per molto», soggiunse. «Né lei può sperare, temo, di fare molti altri raccolti nel suo podere.»

«Non capisco. Perché?»

«Semplicemente perché non possiamo ritornare alla situazione esistente prima della cometa. Non ce lo permetterebbero, vede. Immagini per un attimo di vedere le cose dal punto di vista della cometa. Un’importante comunicazione con la Terra è stata finalmente realizzata dopo miliardi di anni. Ma si tratta di un sistema di comunicazioni molto fragile. La cometa deve aver capito che la comunicazione è estremamente fragile, altrimenti risponderebbe liberamente a chiunque anziché solo a noi tramite messaggi cifrati. Può darsi che la cometa abbia capito qualcosa del confronto tra le superpotenze captando le trasmissioni militari che continuano a diffondersi nello spazio. I recenti avvenimenti lo fanno pensare. E la cometa potrebbe aver capito benissimo che tutto qui sulla Terra è molto precario. Se la situazione dovesse peggiorare, e se dovesse scomparire l’unico legame con l’umanità di cui la cometa si fida, la reazione sarebbe molto probabilmente violenta.»

«Che cosa vuol dire con questo?»

«La cometa ci ha già dimostrato a iosa che non le sarebbe affatto difficile cancellare la specie umana dalla faccia della terra, non è così? Trasformandoci tutti quanti in tanti cilindri di carbone, magari? Ricorda Eriksson? Eriksson ha detto che era entrata in azione una terza superpotenza.»

«Perché non dovrebbe semplicemente lasciarci in pace?»

«Potrebbe benissimo sterminarci per offrire a un’altra specie la possibilità di affermarsi. Tra cinque milioni di anni, o dieci milioni di anni, ci sarebbe così un’altra specie dominante. Un periodo che potrebbe sembrare lungo a noi, ma non a creature che hanno già atteso miliardi di anni. Se ci pensa, quella di cancellare la specie umana dalla faccia della terra non sarebbe forse un’idea abbastanza ragionevole?»

Isaac Newton si diresse verso la grande finestra dalla quale si poteva godere il panorama di Swindon in direzione sud e continuò: «Quando ero ragazzo ho spesso osservato degli animali che tentavano di sopravvivere al freddo dell’inverno. Ho visto delle lepri al chiaro di luna mordicchiare qualche germoglio che spuntava dalla neve nell’umile tentativo di sopravvivere durante le poche settimane fino alla primavera, non rapacemente impegnate ad accumulare capitali in banca né intente a spendere innumerevoli miliardi di dollari per accumulare sistemi missilistici destinati a devastare tutta la Terra. Vuol proprio saperlo, Cancelliere? Se fossi la cometa e vedessi il perpetuarsi di questa situazione priva di senso, potrei benissimo pensare che tanto varrebbe sbarazzarsi di una creatura arrogante, rapace e generalmente antipatica come lo è l’uomo».

Il Cancelliere ricadde di schianto sulla poltrona, come se volesse imitare il collega Sir Harry Julian. Poi si passò con un gesto stanco la mano sulla fronte.

«Anch’io ho fatto riflessioni del genere, naturalmente. Ed è per questo che sono venuto qui in preda a una specie di panico. Che cosa consiglierebbe lei, Newton?»

«Sarebbe un grande aiuto se la stampa appoggiasse in pieno il governo? Magari il mattino del giorno in cui viene votata la fiducia?»

«Naturalmente. Sarebbe un intervento decisivo. Ma la stampa è assolutamente «contraria» al governo.»

«Potrebbe fare in modo che il Primo Ministro convochi una conferenza stampa? La conferenza potrebbe aver luogo al numero 10 di Downing Street? Il giorno «prima» del voto di fiducia?»

«Chi dovrebbe tenerla? Il Comitato Halley?»

«Per essere sincero, Cancelliere, vorrei che alla conferenza partecipasse il minor numero possibile di noi. Ecco, vede, dovrò entrare in azione senza mezzi termini», disse Isaac Newton con voce decisa. «E faccia in modo che nessuno lo sappia all’infuori del Primo Ministro.»

«Secondo me, dovreste partecipare lei e il Primo Ministro. Sarebbe la cosa migliore. Francamente, non do il meglio in situazioni del genere», concluse il Cancelliere.

64

Il Primo Ministro aveva deciso di appoggiare al massimo l’idea di Isaac Newton di tenere una conferenza stampa nella Sala del Gabinetto al numero 10 di Downing Street. Isaac Newton fece scorrere lo sguardo lungo l’ampio tavolo alla ricerca di facce familiari mentre il Primo Ministro e lui sedevano sulle due poltroncine rimaste, collocate a metà del tavolo e rivolte verso Downing Street. Non che l’espressione «facce familiari» equivalesse a «facce benevole», rifletté Isaac Newton mentre ricordava un incontro un tantino disastroso con la stampa, avuto in un’occasione precedente. Riconobbe Alan Bristow, direttore di «Nature». Così pure riconobbe Tom Taylor dell’«Observer». O, più precisamente, riconobbe il colbacco di astrakan che Taylor insisteva a tenere in testa persino nella sala dove si riuniva il governo britannico. Anche il Primo Ministro notò lo strano copricapo e cominciò: «Il signore con il cappello in testa è pregato di toglierselo. O di togliersi di mezzo».

Isaac Newton pensò che questa non fosse la maniera più gentile per dare il via a un incontro estremamente critico. Il silenzio di tomba che scese all’istante sui presenti confermò questa riflessione. Dopo circa venti secondi di assoluto silenzio, Taylor si alzò in piedi e uscì a passi malfermi dalla stanza, sempre con il colbacco di astrakan in testa.

«Sin dai tempi di Disraeli nessuno ha tenuto il cappello in testa in questa stanza», osservò il Primo Ministro in tono energico, soggiungendo: «Detesto particolarmente i colbacchi di astrakan come pure le mosche e la cenere delle sigarette sul tappeto. E ora, il professor Newton farà una comunicazione».

«Due anni fa, il Primo Ministro mi ha chiesto di commentare i colloqui sul disarmo che si svolgevano a Ginevra», cominciò Isaac Newton. «Avevo l’incarico di prendere in esame la situazione del deterrente nucleare britannico, assieme ad argomenti riferentisi a missili a media gettata, precisamente gli S.S.20 ed S.S.21 sul versante sovietico, e i missili Cruise e Pershing 2 sul fronte della NATO.»

«Fenwick del «Mirror». E’ vero che missili Cruise e Pershing 2 sono stati effettivamente lanciati?»

«Discuteremo poi questo argomento, signor Fenwick», rispose il Primo Ministro con molta calma.

Riflettendo che il Primo Ministro era abituato alle continue interruzioni in Parlamento, Isaac Newton continuò, riprendendo il filo del discorso appena cominciato: «Le mie riflessioni sul deterrente britannico e sulla NATO non mi fecero capire molto bene, temo, i problemi più grossi del confronto tra le superpotenze. I tremendi mutamenti strategici che si sono verificati sin dal 1970 sono diventati comprensibili solo gradualmente negli ultimi due anni. Comprensibili a me, voglio dire», ammise Isaac Newton in tono pacato.

«Hardy del «Mail». Potrebbe spiegarsi meglio, per favore? Dicendo con precisione che cosa intende per «tremendi»?»

«Se ritorna agli anni ’60, signor Hardy, molti si cullavano nella confortante persuasione che una guerra nucleare sarebbe stata un tale disastro per chiunque che nessun governo, di qualsiasi colore politico fosse, poteva contemplarla. Questa confortevole persuasione era condivisa dai governi, dalle opinioni pubbliche e anche dai pianificatori militari.»

«E lei dice che la situazione è cambiata?» chiese un’altra voce.

«Sì, purtroppo. Ha subito un decisivo cambiamento con l’invenzione delle testate multiple. Anche se, all’inizio degli anni ’70, quando questo accadde, quasi nessuno di noi se ne rese conto», intervenne il Primo Ministro.

«Mi piacerebbe conoscere la sua opinione in proposito, professor Newton. Come lei probabilmente sa, noi di «Nature» abbiamo opinioni tutte nostre. E da più di due anni», osservò Alan Bristow.

«Le testate multiple», rispose Isaac Newton, «rendono possibile un attacco nucleare a sorpresa così potente da essere in grado di mettere fuori uso le armi strategiche dell’avversario. Da principio si trattava solo di un concetto. Ora, si potrebbe dire, il concetto è diventato realtà. Un attacco nucleare a sorpresa dell’Unione Sovietica sarebbe molto probabilmente in grado di togliere agli Stati Uniti la capacità di lanciare i suoi missili Minuteman.»

«Ma non stanno corazzando i loro silos per sventare questo tipo di minaccia? Alan Cross del «Times».»

«Tutto sta a indicare, signor Cross, che la protezione degli impianti rappresenta solo la parte minore del problema. Il vero punto debole è la struttura di comando. Le sequenze dei tempi imposte alla potenza sotto attacco sono talmente ridotte da rendere quasi impossibile una reazione», esclamò Isaac Newton.

«Al punto da togliere il tempo per le consultazioni politiche», interloquì di nuovo il Primo Ministro.

«E da ridurre ancora di più il tempo per eventuali misure di sicurezza in caso di fallimento», soggiunse Isaac Newton.

«Io pensavo che fosse solo questo il motivo per avere una grande flotta di sottomarini. Anche se l’attacco nucleare a sorpresa venisse lanciato, l’avversario avrebbe pur sempre tutto il tempo per rispondere con un potente attacco di rappresaglia lanciato dai sottomarini», disse Hardy del «Daily Mail».

«Perché la dislocazione dei sottomarini non è nota, naturalmente», soggiunse Alan Cross del «Times».

«I guai sono cominciati con i progressi tecnologici e la crescente precisione dei lanci. Senta, signor Cross, immagini che io distrugga le sue principali armi di primo colpo con una tale precisione da non danneggiare le sue più importanti città. D’accordo: lei potrebbe piombarmi addosso a sua volta con i suoi sottomarini. Ma lo farebbe? Sapendo che le sue città resterebbero alla mercé delle mie più potenti armi di primo colpo? Probabilmente non lo farebbe. Per salvare le sue città lei cederebbe. E’ questo il problema che ora assilla i pianificatori militari», mise in rilievo Isaac Newton.

«Sono d’accordo con Newton su questo, se non su tutto», annuì Alan Bristow. «Vede», proseguì, «la tentazione di scatenare un attacco nucleare a sorpresa cresce continuamente. Se non lo faccio io, lo farà l’altro. I vantaggi del colpo a sorpresa…»

«… aumentano», annuì a sua volta Hardy del «Daily Mail».

«E noi, in che situazione veniamo a trovarci?» chiese Fenwick del «Daily Mirror».

«Pritchard del «Guardian»», disse una voce nuova. «Nella situazione di chi vede continuamente diminuire il proprio margine di sicurezza. La domanda che vorrei farle, professor Newton, è questa: quanto tempo rimane ancora al mondo, a suo giudizio, prima che una guerra nucleare diventi inevitabile?»

«Fino alla fine del secolo. Se siamo fortunati», rispose Isaac Newton.

«Se non fosse stato per la cometa», intervenne il Primo Ministro, decidendo che era venuto il momento di discutere gli eventi recenti.

«Sì, Primo Ministro, è proprio questo che vogliamo sapere tutti. Come è successo, tanto per venire al sodo?» chiese Alan Bristow.

«Se fossimo in grado di rispondere, dottor Bristow, saremmo la terza superpotenza, non le pare?» replicò il Primo Ministro evitando d’istinto la domanda.

«Comprendo in pieno il suo pensiero, Primo Ministro. Ma lei deve pur conoscere la situazione meglio di noi», insistette Bristow.

«Quello che è successo», fece con energia Isaac Newton, riprendendo il filo del discorso, «è stata un’esercitazione tipo «wargames», maledettamente seria nei suoi intenti, ma tradotta in realtà in una maniera un tantino ridicola, forse per farci vedere quant’era assurdo tutto questo. Prima di tutto sono stati immobilizzati i capi russi, presumibilmente per rendere più semplice una situazione che stava diventando fin troppo complessa con l’andar del tempo. Poi è stato simulato un attacco a sorpresa contro gli Stati Uniti. L’attacco è stato simulato con una precisione che francamente definirei sbalorditiva.»

«E qual è stato il risultato, secondo lei?» chiese Hardy del «Daily Mail».

«Che una rete militare estremamente complessa ha rivelato la sua vulnerabilità.»

«In Occidente, lei intende dire? Axeford del «Morning Star».»

«Implicitamente anche all’Est, penso, signor Axeford. Inoltre è implicito, e anche ovvio, che delle «tre» superpotenze la «terza» è la più potente», rispose Isaac Newton.

«Motivo per cui siamo stati per tutto il tempo alleati con la terza superpotenza», intervenne il Primo Ministro, approfittando all’istante dell’occasione.

«Il che ci conduce a un punto piuttosto delicato, Primo Ministro», disse Alan Bristow sporgendosi in avanti e facendo con la sinistra un gesto nell’aria.

«Quale sarebbe?»

«Il Comitato Halley c’entra in qualche modo negli avvenimenti recenti?»

«Che cosa preferisce che le risponda, dottor Bristow, sì o no?»

«Come preferisce «lei», Primo Ministro.»

«Passo la domanda al professor Newton perché francamente non conosco la risposta migliore.»

«La risposta è sì e no, contemporaneamente», disse Isaac Newton, conscio di essere sul punto di fare una dichiarazione che avrebbe trovato una poderosa eco nei giornali. «Sì, nel senso che abbiamo quasi certamente fornito alla cometa informazioni che l’hanno messa nelle condizioni di comprendere la situazione nella quale si trovava l’umanità. No, nel senso che non abbiamo avuto nulla a che fare con la pianificazione dell’operazione.»

«E’ deluso, dottor Bristow?» chiese il Primo Ministro.

«Francamente, non saprei. Ma possiamo ora parlare dei lanci dei missili Cruise? Sembra che si sia trattato di una faccenda doppiamente grave per il fatto che questi missili sono stati non solo lanciati, ma resi anche inoffensivi. Che ne è stato?»

«Sono stati neutralizzati assieme ai Pershing 2 e ai Minuteman 1. Non è troppo difficile neutralizzare i missili. Bastano i raggi X», rispose Isaac Newton.

«Se si sa come si deve fare», convenne Bristow. «L’altra faccenda grave consiste nel fatto che dopo i primi lanci altri ne sono stati interrotti, per suo ordine, credo, Primo Ministro. Non è che con questo disapprovi la sua decisione…»

«Grazie.»

«Mi sto domandando che significato avrà tutto questo», insistette Bristow, «per il nostro paese. Qual è esattamente la nostra posizione?»

«Sembra che più per caso che volutamente siamo diventati alleati della «terza» superpotenza. Ci piaccia o no, questa sembra essere la situazione», rispose il Primo Ministro, consapevole di essere arrivato al punto critico.

«Secondo me, i vantaggi o no della nostra posizione dipendono da una continuazione dell’alleanza. Esiste il pericolo che si sfasci? Che veniamo piantati in asso?» chiese Alan Cross del «Times».

«Alcuni di voi hanno tenuto attentamente d’occhio il Progetto Halley sin dal suo inizio», cominciò a rispondere Isaac Newton volgendo lo sguardo verso il direttore di «Nature», «e penso che sarete d’accordo con me quando dirò che le intenzioni erano all’inizio ben diverse. Siamo rimasti coinvolti sempre di più senza aspettarcelo, questo lo ammetto. Ma ora è chiaro che il potenziale della Terra come centro di una rete di informazioni del sistema solare è quasi illimitato. Ciò che ci impedisce ovviamente di realizzare questo potenziale…»

«… è il confronto tra le superpotenze. I recenti avvenimenti non diventano forse in buona parte comprensibili alla luce di quest’affermazione?» concluse il Primo Ministro.

«Sono ancora Pritchard del «Guardian». Sembra che l’attacco contro le città americane non sia stato assolutamente innocuo. Abbiamo ricevuto una segnalazione dal nostro corrispondente di New York. Secondo lui, nel momento esatto dell’attacco, chiunque si trovasse nei pressi della superficie fu colpito da uno strano miasma. Ha da dire qualcosa in proposito, professor Newton?»

«Beh, so che nelle esercitazioni militari le persone ritenute colpite devono ritirarsi dall’azione. Immagino che questo suo miasma, signor Pritchard, abbia avuto questo effetto. Ha un’idea sotto quale forma si è manifestato?» fece Isaac Newton.

«Il nostro corrispondente dice di aver provato un intenso desiderio di entrare in ibernazione per l’inverno come un orso. Personalmente trovo un po’ difficile crederlo. Quello è un tipo tosto.»

«Capisco, uno di quelli che non finiscono subito sotto il tavolo», fece il Primo Ministro con un sorriso, intuendo che era arrivato il momento buono per porre fine alla riunione. «Se i signori vorranno venire di sopra, vedremo se i «nostri» rinfreschi possono trasformarvi tutti per miracolo in tanti orsi ibernati come Circe nell’«Odissea».»

Mentre salivano al piano di sopra, il Primo Ministro bisbigliò all’orecchio di Isaac Newton: «Pensavo già di mandare a chiamare Harry Julian e il suo greco. Ma è andata bene. In queste cose, l’istinto mi dice molto».

Dieci minuti più tardi, mentre un nugolo di camerieri serviva rinfreschi, Isaac Newton venne circondato da vari giornalisti che gli rivolsero tutti la stessa domanda:

«E ora, che cosa succede, professore?»

Notando che il Primo Ministro era improvvisamente scomparso, Isaac Newton decise di abbandonare ogni cautela.

«L’ovvio passo successivo è quello di assicurarsi l’appoggio delle nazioni europee.»

Quando Isaac Newton ebbe esposto per altri dieci minuti, facendo del suo meglio, la sua teoria, il Primo Ministro ritornò sventolando qualcosa che sembrava un telegramma. La confusione delle voci cessò. Seguì un silenzio nel quale, pensò Isaac Newton, si sarebbe potuto sentire un topolino rosicchiare una crosta di formaggio.

«Sentite qua», esclamò il Primo Ministro. «E’ un telegramma del Presidente francese. Dice: ’Garantiamo pieno appoggio’.»

Dopo un’altra distribuzione di bevande, i giornalisti scesero rumorosamente la scala e uscirono in Downing Street.

Mentre passava accanto ad Isaac Newton, Alan Bristow chiese: «Quale appoggio, esattamente, garantisce la Francia?»

«Non ne ho la minima idea», rispose Isaac Newton. Poi, quando gli altri se ne furono andati, chiese al Primo Ministro: «Quale appoggio, esattamente, garantiscono i francesi?»

«Non ne ho la minima idea», rispose il Primo Ministro, «ma i francesi sono maestri nel mandare messaggi di incoraggiamento come questo, non pensa?»

65

La conferenza stampa svoltasi il giorno precedente al numero 10 di Downing Street non provocò nella stampa del mattino una reazione così positiva come Isaac Newton sperava o si aspettava. I giornali mettevano troppo in dubbio, per i suoi gusti, la saggezza di aver stabilito un contatto con la cometa di Halley, facendo trasparire un’eccessiva paura dei fenomeni sconosciuti. Frances Margaret arrivò da Cambridge, e nel tardo pomeriggio lei e Isaac Newton raggiunsero il Parlamento sapendo che l’imminente voto di fiducia avrebbe deciso il futuro. Dopo aver spiegato a un agente di polizia al cancello ciò che volevano, furono fatti entrare nella sala d’ingresso della Camera dei Comuni dove venne detto loro di aspettare.

Dopo un po’ comparve un giovanotto smilzo, biondo, con i capelli lisci, di mezza testa più basso di Isaac Newton.

«Sono Pingo Warwick, ricorda, il segretario privato del Primo Ministro», disse tendendo la mano. «Ci sono alcune cose che il Primo Ministro vorrebbe controllare con lei», proseguì Warwick, «e abbiamo tutto il tempo necessario prima che si arrivi al dunque. Vi faccio strada.»

Pingo Warwick partì a passo spedito attraversando corridoi con molte svolte mentre i tacchi delle scarpe di Frances Margaret battevano sonoramente sul pavimento nei tratti privi di tappeti. Prima ancora di arrivare all’ufficio del Primo Ministro, il professore e la ragazza erano completamente disorientati.

Il Primo Ministro era seduto a una scrivania piena di carte e portava un paio di occhiali che Isaac Newton non ricordava di avergli mai visto.

«Prima di queste sedute spettacolari mi piace immaginare le domande peggiori che mi potrebbero essere rivolte. Poi scrivo le risposte e faccio del mio meglio per impararle a memoria», spiegò il Primo Ministro indicando i fogli sparpagliati sulla scrivania. «Trovo che prepararsi in tempo è vantaggioso.»

«C’era qualcosa…?» cominciò Isaac Newton.

«Solo questioni riguardanti i tempi. Che ora era secondo lei quando sono stato chiamato e ho dovuto lasciare la riunione del Comitato Halley? Per rispondere alla telefonata del Presidente sul lancio dei Cruise, voglio dire?»

Isaac Newton pensò per un attimo e poi rispose: «Beh, il rettore è andato alla finestra per contemplare la Great Square e io mi sono avvicinato a mia volta a lui. Si vedeva benissimo il quadrante dell’orologio sulla torre di Edoardo Terzo. Erano circa le due e quarantasei, direi».

«E a che ora sono ritornato? Non dopo aver parlato col Presidente, ma dopo che lei mi aveva mandato a telefonare per impedire che i Cruise venissero lanciati?»

Isaac Newton si mise a pensare di nuovo, stavolta più a lungo, per dire infine, scuotendo la testa: «Non posso essere sicuro dell’ora. Eravamo tutti abbastanza sconvolti. Ma il rettore ha continuato a tenere d’occhio l’orologio e io sono rimasto per quasi tutto il tempo con lui. Così direi che dovevano essere le tre e venti o giù di lì».

«Grazie. Mi dispiace scocciarla con simili particolari, tanto più che probabilmente non avranno alcuna importanza. Ma è straordinario quanto spesso i ministri si caccino nei guai sbagliando qualche particolare che sembra poco importante sul momento, ma che poi viene ingrandito ad arte. Adesso, se permette, vorrei dare un’ultima occhiata a tutta questa roba. Il guaio è che devo prepararmi a rispondere a tutte le domande che mi potrebbero essere rivolte, il che è un bel lavoro. Pingo si occuperà di voi due.»

Pingo Warwick disse, mentre li accompagnava nei corridoi: «Il Primo Ministro ha delle intenzioni bellicose».

«Ho visto. Che ne dice dei giornali del mattino?» chiese Isaac Newton.

«Scritti su ordinazione.»

«Per conto mio sono rimasto un po’ deluso. Speravo che avremmo ottenuto di più…»

Pingo Warwick agitò la mano nell’aria mentre salivano una breve rampa di scale e disse: «Può darsi che qualche giornalista ci abbia ripensato. I direttori dei giornali possono aver minimizzato certi aspetti e averne messi in rilievo altri. Ogni giornale ha una sua particolare categoria di lettori ai quali deve adattare il materiale che pubblica. Abbiamo comunque ottenuto un buon risultato: un consenso tra il cinquanta e il sessanta percento. Quando si parte con una buona maggioranza non è proprio necessario raggiungere più di un buon cinquanta percento, vede. Solo quando tutto va storto, quando i guai incalzano, la situazione diventa preoccupante».

La camminata ebbe termine nella Visitor’s Gallery della Camera dei Comuni, un luogo molto decorato e costellato, il che sembrava un poco incongruo, di molti microfoni. La galleria era già quasi piena. Tre posti erano stati comunque riservati per loro. Un inserviente li accompagnò.

«Sto pregustando qualche bello scambio con tanto di invettive. Fa salire la temperatura», osservò aggiustando la punta del fazzoletto nel taschino della giacca.

Il presidente della Camera annunciò che il Primo Ministro avrebbe letto una comunicazione alla Camera, e il Primo Ministro cominciò subito.

«Signor presidente, onorevoli deputati, desidero riferire alla Camera le circostanze che hanno accompagnato gli avvenimenti del giorno 11 aprile di quest’anno. Alle due e quarantasei del pomeriggio di quel giorno ho ricevuto una telefonata personale dal Presidente degli Stati Uniti in cui questi mi informava di aver ordinato il lancio di missili Cruise in risposta a un attacco a sorpresa sovietico.»

Gli rispose un brontolio non ben definito dei deputati.

«Nessun atteggiamento preciso, per ora», bisbigliò Pingo.

«Come gli onorevoli deputati sapranno già, i segnali ricevuti dai sistemi di allarme americani si rivelarono una finzione, una finzione estremamente verosimile prodotta, questo governo ritiene, da interferenze elettroniche provenienti dalla cometa di Halley. Il governo, questo pure sarà noto agli onorevoli deputati, ha tenuto per qualche tempo contatti elettronici con la cometa. In base alle esperienze da noi acquisite sotto questo punto di vista ci fu già chiaro, alquanto prima che ad altri, che il supposto attacco a sorpresa sovietico era solo una finta. Avendo capito questo, divenne estremamente importante revocare l’ordine di lanciare i missili Cruise. Ciò venne fatto verso le tre e venti circa in seguito a consultazioni tra i comandanti dell’Esercito britannico e il comandante americano sul posto.»

A questo punto il Primo Ministro si rimise a sedere, accompagnato da un brusio non ben definito, e il presidente diede la parola al leader dell’opposizione.

«E’ stata solo una messinscena per stuzzicare l’opposizione», spiegò Pingo.

«Con la tendenza a travisare i fatti che la Camera ormai si aspetta dal Primo Ministro…» Il capo dell’opposizione cominciò, per fermarsi quando alle spalle si fecero udire gli applausi dell’opposizione.

«Con la tendenza a travisare i fatti, la tendenza a travisare i fatti, dico…» Il capo dell’opposizione s’interruppe di nuovo quando dai banchi del governo si alzarono grida di «tutte balle!» per cui al presidente non rimase altro da fare che gridare: «Ordine! Ordine!»

«… con la tendenza «a travisare i fatti» che la Camera ormai si aspetta dal Primo Ministro», insistette il leader dell’opposizione come una nave da guerra che fende i marosi in tempesta, «abbiamo sentito una comunicazione piena di mezze verità. E’ una mezza verità quella di affermare che il lancio dei missili Cruise è stato bloccato da «consultazioni». Che cosa è successo dei missili «effettivamente» lanciati prima della supposta ’consultazione’? La Camera ha diritto a una risposta esauriente, e il popolo britannico ha diritto a una risposta esauriente. Si deciderà il Primo Ministro a rivelare tutta la verità, a rivelare che un folle sistema militare è stato messo in moto da qualcosa che poi si è rivelato una semplice «finzione»? Una «fin-zio-ne». Pensateci sopra. Una «finzione» ha fatto partire dei missili che avrebbero potuto porre termine alla vita di centinaia di milioni di persone!»

Grida si alzarono da tutta la Camera. Pingo Warwick dovette ora compiere uno sforzo per limitarsi a commentare: «Tutta aria fritta».

Isaac Newton si astenne dall’obiettare che le parole del capo dell’opposizione rivelavano secondo lui un certo buon senso.

«E’ disposto il Primo Ministro a prendere in considerazione l’urgente necessità, alla luce di questi infelici avvenimenti, di riprendere in esame tutti i criteri sui quali era basata la sicurezza della Gran Bretagna?» chiese il leader dell’opposizione.

Il Primo Ministro si alzò in piedi e disse semplicemente: «Sissignore», al che i membri di entrambi i partiti alla Camera balzarono in piedi per affrontarsi, visto che era più facile gridare stando in piedi.

«Penso che andrò giù anch’io per far un po’ di cagnara. Vi prego di scusarmi», disse Pingo Warwick, spiacente di rinunciare all’incarico di accompagnatore, non riuscendo a resistere al desiderio di gettarsi nella mischia. Gridare dalla Visitor’s Gallery, infatti, era severamente proibito. Non che le urla degli ospiti potessero contribuire gran che alla buriana, rifletté Isaac Newton.

Il Primo Ministro era ancora in piedi. Dopo aver atteso che la tempesta si placasse, soggiunse: «Il governo tiene «sempre» sotto esame la sicurezza della nazione, e l’occasione attuale non si sottrae a questa regola fondamentale». Poi, il Primo Ministro sedette con un sorriso, come per dire: «Questa volta vi ho fregato».

Il presidente diede allora la parola a un deputato seduto nell’ultima fila del partito al governo.

«E’ disposto il Primo Ministro a chiarire la natura delle consultazioni che hanno avuto luogo tra noi e gli Stati Uniti, consultazioni politiche e militari?» chiese il deputato della maggioranza.

«Questa qui è più imbarazzante», bisbigliò Frances Margaret.

Il Primo Ministro rispose comunque con aria imperturbabile: «Le consultazioni a livello politico sono consistite nella telefonata che ho appena portato a conoscenza della Camera. A livello militare sono consistite in una richiesta avanzata dal comandante di zona britannico perché il lancio dei Cruise venisse interrotto. Ciò è accaduto, e devo sottolineare il fatto, quando ci siamo convinti che la situazione era dovuta in realtà ad una finta della quale ci siamo resi conto, com’è già stato detto alla Camera, un poco prima degli altri».

«E’ disposto il Primo Ministro ad assicurare la Camera che le relazioni con il governo degli Stati Uniti non sono state pregiudicate da questi avvenimenti?» continuò il deputato dell’ultima fila. Era chiaro che era pronto a fare un’altra domanda.

«Per quanto ci riguarda non vi è stato alcun motivo per un qualsiasi cambiamento nelle nostre relazioni con il governo degli Stati Uniti», rispose il Primo Ministro, sempre imperturbabile.

«E invece avrebbe dovuto esserci», gridò qualcuno dai banchi dell’opposizione. All’interruzione si aggiunsero grida di «risponda alla domanda!»

«Adesso si trova tra Scilla e Cariddi», disse Frances Margaret.

«Ha perfettamente ragione. Tra l’incudine e il martello», convenne una voce accanto a loro. «Ferguson del «Telegraph»», disse l’uomo tendendo la mano per presentarsi.

Il Primo Ministro replicò a sua volta: «Sono stati momenti difficili per tutti, e specialmente per il governo degli Stati Uniti. Una volta ristabilita la situazione spero ci si renda conto che tutto è stato fatto da noi per promuovere la causa della pace, e che non sarebbe stato un vantaggio per nessuno se altri missili fossero stati lanciati dal territorio britannico».

«Risponda alla domanda!» continuarono a urlare dai banchi dell’opposizione, cosa che provocò insulti ancora più clamorosi dai banchi del governo. Al che il Primo Ministro sedette immediatamente con l’aria di uno che dica: «Missione compiuta».

A questo punto, il presidente diede la parola all’eminenza grigia della Camera, un deputato con un’anzianità parlamentare infinitamente superiore a quella dei colleghi, che era riuscito a crearsi un ruolo tutto suo di indipendente, e la cui specialità consisteva nel rendersi inviso a molta gente col dire la verità in situazioni in cui nessuno voleva ammetterla.

«Non è disposto il Primo Ministro ad ammettere ciò che da un pezzo è evidente per qualsiasi persona ragionevole, cioè che gli allineamenti strategici britannici hanno perso negli ultimi giorni qualsiasi motivazione logica o anche solo opportunistica? Questa finta, prodotta a quanto sembra dalla cometa di Halley, non fa forse parte di un imbroglio privo di senso, una farsa alla quale il popolo britannico dovrebbe essere sottratto, e subito? «Atque omne ignotum pro magnifico: sed nunc terminus Britanniae patet».»

«Rieccolo con il suo latino! Mi domando che cosa significano quelle parole» bisbigliò Ferguson.

«Se non sbaglio significano: Le congetture aumentano quando viene meno la scienza, e ora i limiti della Britannia sono evidenti», bisbigliò Frances Margaret in risposta.

«Approfitterei di questa traduzione se lei non ha nulla in contrario. Io ho la rubrica umoristica sull’ultima pagina del «Telegraph»», annuì Ferguson.

«L’onorevole deputato si rende certamente conto», rispose il Primo Ministro in tono soave, «che il governo è stato all’avanguardia sia nelle ricerche sia nelle comunicazioni riguardanti la cometa di Halley. Un programma più esteso sarà presentato tra poco al Parlamento. Per ora voglio dirvi semplicemente che abbiamo intenzione di ampliare al massimo questo programma in misura coerente con i nostri impegni in altri campi.»

«La conclusione sembra scontata», disse il ciarliero Ferguson, soggiungendo: «Io speravo in una gara più testa a testa».

La parola venne concessa a un giovane deputato dell’ultima fila di banchi del partito al governo. «Un contestatore», spiegò Ferguson. «Vediamo un po’ che cosa è capace di fare.»

«Alla Camera è stato detto che sono stati lanciati dei missili Cruise. E’ disposto il Primo Ministro a spiegare le circostanze nelle quali questi missili sono stati resi inoffensivi?» chiese il contestatore.

«Sono stati resi inoffensivi quando si è saputo che ci trovavamo in una situazione dovuta a una finta. Questa esperienza ha dimostrato che i procedimenti di controllo protettivo hanno funzionato in maniera soddisfacente durante il lancio, e che le procedure di controllo negative hanno funzionato in maniera soddisfacente quando si è trattato di rendere inoffensivi i missili. Come l’onorevole deputato capirà, il governo è molto soddisfatto di questa combinazione delle procedure», rispose il Primo Ministro, applaudito in buona misura dai banchi del governo mentre i deputati dell’opposizione gridavano senza molto entusiasmo: «Dimissioni!»

«Cani bastonati», disse Ferguson in tono sprezzante. «Ma se il Primo Ministro avesse messo un piede in fallo, la situazione sarebbe stata ben diversa», soggiunse. «Restereste sorpresi nel vedere che cosa può combinare una risposta incauta. Sarebbe scoppiato un inferno. Per un certo verso dispiace quasi. La vita diventa tanto monotona.»

Isaac Newton e Frances Margaret furono contenti di andarsene quando venne finalmente votata la fiducia. Uno degli uscieri indicò loro l’uscita.

«In realtà avrebbero dovuto accompagnarvi fuori. Vogliate presentarvi all’agente alla porta, in caso di accertamenti.»

Dopo aver spiegato a un poliziotto alla porta che la loro guida, il segretario personale del Primo Ministro, era in giro nei corridoi della Camera, Isaac Newton e Frances Margaret uscirono sulla piazza del Parlamento e chiamarono un taxi.

«Al numero 11 di Downing Street», disse Isaac Newton all’autista.

«Quella è la residenza meno conosciuta di Londra», osservò l’autista. «Solo una o due volte all’anno mi capita di portare qualcuno a quell’indirizzo.»

Con loro sorpresa, il Cancelliere era già ritornato quando il taxi arrivò al numero 11 di Downing Street.

«Primo a entrare e primo a uscire, e il mio autista conosce ormai la strada per portarmi a casa», spiegò, per proseguire: «Ho pensato che sarà meglio per voi due trascorrere la notte qui piuttosto che accanto. Dopo queste sedute il Primo Ministro può diventare un tantino violento».

«Eppure pensavo che tutto fosse andato bene», osservò Frances Margaret.

«Partecipare a un dibattito è come fare l’equilibrista, specialmente se c’è di mezzo un voto di fiducia. Tutto va bene finché stai su, ma quando sei cascato, addio. Non si torna indietro», fece il Cancelliere con un sorriso. «Il trucco consiste nel non rivelare mai nulla, assolutamente nulla. Io stesso non sono tanto bravo in questo gioco, ma entro in lizza solo due o tre volte all’anno, e anche allora tutto è già prestabilito. Nei dibattiti sul bilancio l’esperienza ti fa capire già in anticipo come andrà a finire. Il Primo Ministro, invece, è sempre sotto attacco, e da tutte le direzioni. Io, se dovessi fare quel mestiere, avrei voglia di spaccare tutto. Ma del resto non potrei farlo, quel mestiere», proseguì il Cancelliere, offrendo da bere e soggiungendo: «Tra poco sarà pronta la cena e poi potrete dormire fino a mezzogiorno. A proposito: mi devo scusare con lei, Newton, per essere stato un po’ esagitato l’altro giorno».

«Tutto è bene ciò che finisce bene. Alla salute!» rispose Isaac Newton.

«Sì, la conferenza stampa ha avuto ottimi risultati.

«Sono contento che lei la pensi così.»

«Ricorda per caso la passeggiata che abbiamo fatto quasi due anni fa? Il giro di Aldbury? Da allora abbiamo percorso molta strada. In un primo tempo piuttosto alla chetichella, poi più scopertamente, ma pur sempre un po’ sottobanco. Ora tutti ne parlano e abbiamo alle spalle un grosso voto di fiducia», dichiarò il Cancelliere in tono espansivo.

«Della cometa di Halley non si è parlato molto, stasera.»

«No, ma tutti sapevano che cosa c’era dietro. Ora sanno che esiste la terza superpotenza, anche se la cosa non è stata presentata in questo modo. Vuol sapere una cosa, Newton, mi vengono di nuovo in mente quei costruttori di navi nella vecchia Bayonne — nel Quattrocento, ricorda? Quelli hanno costruito un galeone capace di cavarsela nelle grosse tempeste dell’Atlantico. Li costruirono solo per la navigazione costiera, in un primo tempo, ma resero possibile l’attraversamento dell’Atlantico e la scoperta dell’America. Questa è la situazione nella quale ci troviamo pressappoco ora», concluse il Cancelliere quando un inserviente venne ad avvertire che la cena era pronta. «Abbiamo costruito il nostro galeone e ora ci rimane solo di salpare per fare scoperte.»

66

Ciò che la combinazione rappresentata dal prurito della pelle e dalla più tirannica burocrazia del mondo riuscì a ottenere nell’Unione Sovietica è assolutamente sbalorditivo. Inoltre, nessuna mente umana sarebbe stata capace di predevere l’esito di questa situazione.

Con la sola eccezione del Numero Undici, di recente retrocesso al Numero Quattordici previo passaggio per il Numero Dodici, il prurito folle aveva ormai messo fuori combattimento l’intiero Politburo. In un paese democratico un’eventualità simile avrebbe avuto immediatamente ampie ripercussioni. Nell’Unione Sovietica, invece, l’eventualità contava quasi nulla agli occhi dell’opinione pubblica, poiché la burocrazia continuò a lavorare come il solito. Ma se la strana malattia avesse colpito gli alberi invece delle massime autorità politiche, la situazione sarebbe stata ben diversa. L’intero ordinamento politico ed economico sarebbe infatti crollato in una confusione senza precedenti se la distruzione delle foreste sovietiche avesse interrotto il rifornimento di carta alla burocrazia, anche perché un ricorso all’antico sistema dei banditori non avrebbe raggiunto lo scopo in un paese così vasto come il moderno stato sovietico.

L’ordinamento politico ed economico esigeva che la macchina della burocrazia venisse non solo alimentata con carta opportunamente trattata, ma che anche continuasse a vomitarla. Se si pensa bene, la macchina era in effetti un enorme amplificatore di carta capace di moltiplicare nei luoghi di cruciale importanza una quantità relativamente modesta di documenti per produrre un’enorme quantità di riproduzioni grazie alla carta carbone. In parole povere: nella macchina venivano introdotti documenti scritti, come bisognava aspettarsi, dagli stessi burocrati, e muniti successivamente delle firme dei pezzi grossi. L’aspetto sorprendente di tutto questo consisteva nel fatto che senza quei pochi tratti di firma riprodotti su carta carbone, il complesso meccanismo dell’Unione Sovietica non sarebbe stato più in grado di funzionare. Per cui una persona qualsiasi priva di pregiudizi e con un briciolo di buon senso sarebbe stata in grado di immaginare che la macchina avrebbe finito per subire un collasso sotto il peso della propria assurdità, così come ora minacciava di subire un collasso perché era diventato assolutamente impossibile ottenere le firme dei personaggi più importanti del Politburo.

Come mai, ci si potrebbe domandare, il popolo russo aveva finito per lasciarsi affliggere da un simile sistema? La risposta stava nel fatto che la burocrazia era l’unico aspetto della vita sovietica che assicurasse la continuità con il passato, soprattutto perché era un grande conglomerato di tante imprese familiari esistenti da quel dì. Nessun altro aspetto della vita sovietica rendeva così facile l’esistenza del nepotismo, e senza nepotismo qualsiasi continuità è impossibile. Che il figlio seguisse il padre in una posizione politica elevata era inconcepibile né il nepotismo poteva funzionare nelle arti e nelle scienze. Ma il figlio seguiva al genitore nella burocrazia senza difficoltà, continuando a lavorare come aveva fatto il padre, con totale devozione al sistema. Finché non comparve il prurito folle. Il prurito folle separò le pecore burocratiche dalle capre burocratiche creando un ambiente che premiava abbondantemente la subdola accortezza.

Nonostante le continue e attente cure dei massimi calibri della professione medica, i pazienti afflitti dal prurito folle finirono per perdere la capacità di leggere o firmare documenti. A un certo punto divenne difficile persino parlare con loro. Nonostante ciò, il più subdolo dei burocrati scoprì un bellissimo trucco. Venne notato che se si rivolgeva a un membro del Politburo ammalato una domanda in forma negativa, come, per esempio: «Noi non dovremmo permettere agli operai delle panetterie di Celiabinsk di portare berretti confezionati nello stile dei dissidenti, vero?» la risposta era invariabilmente un «No!» urlato a pieni polmoni e seguito all’istante dalla rabbiosa esclamazione «Fuori dai piedi!» Se, invece, la domanda veniva rivolta nella forma positiva come, per esempio: «Dovremmo chiudere il mausoleo nella Piazza Rossa per un mese, in maniera da ritoccare la statua di cera di Lenin, non le pare?» la risposta era invariabilmente un «Sì!» di nuovo seguito da un rabbioso «Fuori dai piedi!»

Alla prova dei fatti si constatò che la strana situazione offriva l’occasione per applicare un metodo che parve ideale alla mentalità burocratica per governare il paese. Rivolgendo le domande semplicemente in forma positiva o negativa, come faceva loro comodo, i burocrati potevano ottenere le risposte che volevano a proposito di qualsiasi decisione in ballo. Purtroppo, però, senza le firme, quei pochi tratti su carta carbone su cui era basato tutto il sistema. Nonostante ciò, usando dei registratori a nastro per ottenere la prova permanente e irrefutabile di tanti «Sì!» oppure «No!» dai membri del Politburo, la situazione era stata adattata in maniera ingegnosa alle esigenze del momento. Oltre a ciò, il Numero Quattordici, sano come un pesce, poteva essere indotto a fornire la propria firma purché gli venissero fornite copie delle registrazioni su nastro per dargli la sicurezza di uniformarsi all’opinione della maggioranza. Effettivamente, il Numero Quattordici trascorreva una buona parte del tempo a firmare documenti e classificare le registrazioni che aumentavano a vista d’occhio.

Poiché in base alla Costituzione avevano il diritto di firmare solo i membri effettivi del Politburo, il loro numero venne aumentato a quattordici, un particolare molto commentato dai cremlinologi in Occidente i quali peraltro non riuscirono a capire il motivo di questo improvviso cambiamento che aveva fatto risalire il Numero Quattordici dalla temuta categoria dei candidati.

Restava solo un problema che esigeva un’urgente soluzione: le scarse comparse in pubblico dei membri più importanti del Politburo. Per quel che riguardava le riunioni al Cremlino, alle quali i membri effettivi si recavano a bordo di grandi berline nere sfreccianti attraverso le strade e i viali di Mosca, il rimedio fu subito trovato: bastava mettere a bordo delle macchine dei manichini. Con molto dispiacere, comunque, la burocrazia giunse alla conclusione che i manichini non potevano assolutamente sostituire i membri del Politburo in pubblico, durante la tradizionale sfilata del Primo Maggio nella Piazza Rossa. Nonostante le complicate misure che si resero necessarie, venne deciso che sarebbe stato indispensabile servirsi di sosia per la sfilata del Primo Maggio.

L’occhio umano è uno strumento così perfetto che qualsiasi individuo riesce a distinguere qualsiasi altro individuo tra innumerevoli persone, a meno che non si tratti di gemelli assolutamente identici. Per cui è impossibile trovare un sosia assolutamente perfetto di qualsiasi individuo. Così, i burocrati dovettero scendere a compromessi. Se si fosse trattato di primi piani sullo schermo televisivo, le cose più importanti sarebbero state i tratti del volto piuttosto che non le proporzioni fisiche dei sosia. Nella sfilata del Primo Maggio, invece, quelle che contavano veramente erano le proporzioni fisiche, specialmente la maniera di camminare, dei sosia. Purché i movimenti fossero quelli giusti, era sempre possibile celare certe altre differenze imbottendo i vestiti, facendo portare degli occhiali ai sosia o mettendo loro in testa strani copricapi.

Ma la preoccupazione più grossa era, naturalmente, rappresentata dal problema della sicurezza. Il tipico cittadino sovietico obbligato a fungere da sosia avrebbe quasi inevitabilmente cominciato a raccontare cosette riguardanti il personaggio rappresentato. Queste notiziole si sarebbero diffuse con sorprendente velocità tra la popolazione in base al principio che ogni persona a conoscenza di un segreto lo racconta a due altre persone, per cui qualsiasi fuga anche minima di una notizia si trasforma ben presto in un impetuoso torrente che nessuno riesce a fermare. Il sosia racconta in assoluta confidenza tutto solo alla moglie, la moglie racconta tutto, naturalmente in strettissima confidenza, solo alle amiche più intime e più care. Da una confidenza si passa a due, da due a quattro, da quattro a otto, e così via. Così bastano ventisette passaggi perché tutti, anche la gente più innocente, venga a conoscenza della terribile verità, anche se la notizia è stata diffusa nelle ventisette fasi solo in strettissima confidenza.

Dopo aver discusso a lungo il problema, i burocrati decisero di cercare i sosia non già tra i comuni cittadini bensì tra le numerose persone detenute nelle prigioni e nei campi di lavoro. Sotto la minaccia di vedersi triplicare il periodo di detenzione qualora si fosse verificata qualche fuga di notizie, i sosia provenienti dalle prigioni e dai campi di lavoro avevano un potente incentivo per osservare il massimo silenzio, un incentivo molto superiore a quello dei comuni cittadini. I burocrati decisero di risolvere in questo modo il problema.

Tutti convennero che era una tattica piuttosto rischiosa, ma comunque funzionò. Così come le singole persone della grande folla che riempiva la Piazza Rossa per la sfilata del Primo Maggio, felici della vacanza e anche di un segno «più» sull’elenco della «nomenklatura», non si rendevano conto che il mausoleo di Lenin conteneva in realtà una statua di cera, le stesse persone non si accorsero che i capi politici del paese, in piedi sulla tribuna espressamente costruita, erano in realtà dei criminali condannati. L’eccezione era rappresentata naturalmente dal Numero Quattordici il quale, per la prima volta in molti mesi, si divertiva come una pasqua mentre, circondato dai galeotti, rispondeva al saluto delle future glorie della madrepatria. Il Numero Quattordici notò con particolare piacere che il sosia dell’intraprendente Numero Undici era stato munito di un cappello troppo grande, per cui il copricapo finiva per coprirgli le orecchie, dimostrando in tal modo, se ve ne fosse stato bisogno, che l’inefficienza del sistema continuava imperterrita nonostante i piani più meticolosamente studiati.

67

I servizi segreti avevano fatto bene il loro lavoro. Le dimensioni del programma britannico proposto per la costruzione dei telescopi nonché le quantità di stazioni spaziali e mezzi sussidiari di ogni genere che i francesi e i tedeschi volevano aggiungere, in base alle decisioni prese durante le ultime discussioni, erano note ai partecipanti alla riunione che ebbe luogo verso la fine di agosto nell’ufficio del Presidente.

«E’ impossibile che un programma di quell’ordine di grandezza possa essere finanziato dall’Europa sola», disse il Segretario per il Tesoro, un uomo robusto di media altezza e di mezza età, vestito con un abito di lino e con una pipa dal bocchino sottile tra i denti.

«I nostri soldi non li avranno mai, a meno che non si tratti di un attacco contro questo mostro di cometa», dichiarò il generale a cinque stelle, picchiando con una certa intima riluttanza il sigaro sul portacenere, in maniera da far cadere la cenere. Il generale aveva la sensazione di trascorrere negli ultimi tempi troppe ore in riunioni nella Stanza Ovale, ma la sua presenza — per impedire che si spendessero soldi per progetti balordi come questo — era considerata indispensabile dai colleghi del Pentagono.

«Gli europei considerano il loro programma come una valanga che prende slancio mentre si muove», disse il Segretario per il Commercio.

«Comunque ridarebbe sicuramente vigore alla loro economia», convenne il capo dei consiglieri economici.

«Sarebbe meglio fare la festa a quel mostro di cometa, fare la festa a tutti i mostri di comete», brontolò il generale, allargando il torace e provocando così la fuoruscita di un’ampia cortina fumogena.

«Ciò che non vogliamo», continuò il capo dei consiglieri economici, una ben nota figura simile a uno gnomo, dall’età indefinibile, «è che gli europei si mettano a girare per le strade di Washington con una ciotola per le elemosine.»

«Sì, beh, hanno convocato un incontro al vertice fra tre settimane», osservò il Presidente.

«Sì, i francesi hanno offerto il castello di Versailles per l’incontro», disse il Segretario di Stato, contento di sedere stavolta all’altro capo del tavolo, lontano dal generale fumogeno.

«Mi pare di vedermi come cortigiana nel castello del Re Sole», osservò il Segretario per il Commercio con un ampio sorriso, com’era abituata a fare per mettere in mostra le fossette. «Accetteremo la proposta dei francesi, signor Presidente?»

«Fra tre settimane saremo in settembre. Dopo altri due mesi arriva novembre, e in novembre dovremo vedercela con una faccenda di non poca importanza, le elezioni», rispose il Presidente.

«Con tanto di tattiche computerizzate dell’opposizione da studiare, con tante prove alla televisione, con tanti impegni, e chi più ne ha più ne metta», osservò un assistente.

«Poi bisognerà rispondere ai critici, specialmente al «New York Times»», soggiunse un altro assistente.

«Più che giusto», convenne il Presidente. «Prenda nota. Dobbiamo combinare qualche scherzo di cattivo genere a quel giornale.»

«Il che porta alla conclusione che non possiamo restare lontani da qui per partecipare a un vertice in qualche buco dell’Europa», tentò di decidere l’assistente che aveva parlato per primo.

«Il problema, signor Presidente, consiste nel fatto che anche i sovietici sono stati invitati. Se quelli ci vanno, possiamo permetterci il lusso di non andarci noi?» obiettò il Segretario di Stato.

«Ma ci andranno veramente?» chiese il secondo assistente.

«Ci andranno. Specialmente se non ci andiamo noi», rispose il Segretario di Stato in tono deciso.

«Ci andranno», convenne il direttore della CIA.

«Una situazione che potrebbe sfuggirci di mano», ammise il Presidente.

«Se la situazione minaccia di sfuggire di mano, signor Presidente, la cosa migliore è di tenerle dietro», propose il capo dell’ufficio stampa.

«Che cosa intende dire?»

«Voglio dire che una situazione del genere può presentare aspetti che ci possono fare comodo.»

«In quale misura è in grado di gonfiarla?»

«Possiamo gonfiarla molto, su questo non c’è dubbio. Gli incontri al vertice vanno sempre bene per due o tre giorni di tempo della stampa, che succeda qualcosa o no. Inoltre abbiamo sempre a disposizione i sovietici e la cometa per combinare una montatura gigante.»

«Un grosso panico come l’ultima volta», annuì il Segretario per il Commercio, ripetendo il sorriso disarmante e soggiungendo: «Ventiquattr’ore nel bunker. O sono state trentasei, generale?»

«A mio avviso dobbiamo prendere proprio misure come si deve contro quel mostro di cometa», ripeté il generale, cocciuto.

«Se ci vanno i sovietici, noi non ne possiamo fare a meno», osservò il Segretario di Stato in tono deciso, bevendo un sorso di acqua disinfettata.

«Sono d’accordo», disse subito il Segretario per il Commercio, alzando la destra come se stesse votando.

«D’accordo, non possiamo farne a meno», annuì il direttore della CIA.

«Forse potremmo preparare i discorsi durante il viaggio. Forse potremmo trasferire i computer e tutti i nastri sull’aereo presidenziale», suggerì il primo assistente.

«E’ preferibile dal punto di vista della sicurezza, signor Presidente», soggiunse immediatamente il secondo assistente, cercando di non essere da meno. «Voglio dire, l’aereo presidenziale non è Watergate.»

«Ecco una buona idea. Possiamo trasformare l’aereo presidenziale in uno studio televisivo. Perché nessuno ci ha mai pensato?» convenne il Presidente.

«Ma non andate a spendermi «soldi»», gemette il Segretario per il Tesoro. «E’ quello che vogliono gli europei. Soldi, non baci.»

«Questo è proprio vero, maledizione», annuì il generale.

«Quanto sono scemi», riuscì a osservare il Segretario per il Commercio.

«Pensavo che ci fosse rimasto ancora un grosso deficit», intervenne il Presidente.

«Se non fosse stato per i capitali internazionali arrivati in tempo, saremmo in fallimento, signor Presidente, in fallimento per quanto riguarda certe voci molto importanti.» Il Segretario per il Tesoro mordicchiò il bocchino della pipa, lanciando occhiate risentite al generale a cinque stelle.

«Come dice il Presidente, c’è ancora tutto il deficit che vogliamo», ribatté il generale, appoggiandosi sullo schienale della poltrona e facendo salire verso il soffitto il più grande anello di fumo che mai avesse prodotto. L’anello di fumo rimase sospeso sopra il tavolo come un uccello predatore.

Il Segretario per il Tesoro strinse i denti a tal punto da schiacciare il sottile bocchino della pipa che si spezzò con un «crac».

«Ecco», disse, «s’è rotto!»

A questo punto, i cicalini si misero a ronzare in tutta la Casa Bianca, dando ai presenti la sensazione di un «déjà-vu». Il generale, comunque, gridò automaticamente: «E’ un allarme rosso, al bunker!»

«Questo sarà il quarto attacco sovietico lanciato in altrettanti mesi, per rivelarsi poi una finta», osservò il Segretario per il Commercio con voce tranquilla. «Le suggerisco, signor Presidente, di telefonare a Mosca con la Linea Rossa.»

Il Presidente aveva estratto dalla tasca la speciale radiolina d’allarme, la cui spia rossa brillava effettivamente. Poi, afferrando il ricevitore di un telefono provvisto di uno speciale contrassegno, disse, annuendo: «Male non ci può fare. Che cosa devo chiedere?»

«Chieda se hanno lanciato dei missili.»

«E’ un trucco. Quelli si servono delle finte per nascondere qualcosa!» esplose il generale.

«Beh, adesso vedremo, non le pare?» fece in tempo a dire il Presidente prima di cominciare a parlare al telefono. I presenti alla riunione ebbero difficoltà a interpretare i monosillabi che seguirono le sue domande, specialmente quando il generale lasciò improvvisamente l’ufficio gridando: «Al lupo! Al lupo!»

Il direttore della CIA lo seguì a ruota dicendo: «Vado anch’io. Tanto per essere sicuro».

«Mi domando dove arriveranno stavolta nella preparazione della quarta guerra mondiale…» cominciò il Segretario per il Commercio, ma il Presidente le fece segno di tacere.

Infine, il Presidente depose il ricevitore.

«Sembra che ci sia un gran casino, a Mosca. Non ho potuto rintracciare il Numero Uno sovietico. Ma uno dei tipi del Politburo dice che non è stato lanciato alcun missile, né adesso né prima. Un tipo buffo. Sembra che stia inghiottendo in continuazione. Continuava a dirmi che, per quanto riguardava lui, un letto di legno era meglio di una bara d’oro. Ha detto anche che la responsabilità cominciava a pesargli e che soffriva di solitudine. Un modo di parlare sballato, come nei vecchi romanzi russi.»

«Senta, signor Presidente, mi è venuta una buona idea», lo interruppe il primo assistente.

La buona idea si tradusse in realtà tre ore più tardi quando il Presidente comparve sui teleschermi degli Stati Uniti per un comunicato speciale.

«Immagino che tutti voi sarete lieti di venire a conoscenza di una piccola esperienza fatta questo pomeriggio», cominciò il Presidente. «Verso le quattordici e quindici circa abbiamo avuto un altro di quei finti lanci di missili che hanno destato tante apprensioni e anche causato inconvenienti a tutti noi negli ultimi mesi, specialmente ai cittadini anziani e ai bambini. Vi farà piacere sapere che questa volta siamo riusciti a identificare la finta per quella che era, per cui non è stato necessario mettere in allarme la gente che si trovava a casa propria oppure intenta a tornare in macchina dal lavoro. Ci siamo serviti del telefono speciale che ci collega con Mosca e che funziona sempre, giorno e notte. Così abbiamo scoperto che i sovietici hanno avuto le stesse noie con le finte come noi. In tal modo abbiamo potuto assicurare Mosca che nessun missile era stato lanciato dagli Stati Uniti, e loro hanno potuto assicurarci che nessun missile sovietico era stato lanciato. Beh, pensavo che vi avrebbe fatto piacere saperlo, conoscere questo progresso nella causa della pace…»

Il Segretario per il Commercio, occupato nel suo appartamento a preparare da mangiare, spense a questo punto il televisore. Negli ultimi mesi aveva cominciato a rimpiangere con crescente nostalgia i giorni in cui insegnava al Mount Holyoke College. Era proprio il caso di ripresentarsi per un secondo mandato? si domandò, battendo vigorosamente due bistecche in attesa della visita del più recente amico in carica.

68

Il governo francese aveva comunicato che le sedute plenarie del vertice avrebbero avuto luogo nel teatro del castello di Versailles. Poiché ad Isaac Newton era stato chiesto dagli organizzatori del vertice di fare un discorso di «presentazione» alla seduta inaugurale, lui e Frances Haroldsen partirono due giorni prima dell’inizio dei lavori da Londra per atterrare all’aeroporto di Orly dove presero a nolo una macchina. Un giro di ricognizione a sud-ovest di Parigi permise ai due di trovare alloggio in una simpatica vecchia locanda nella cittadina di Dampierre da dove era facile arrivare a Versailles. Il giorno prima del vertice esplorarono il castello per controllare se tutto fosse in ordine. Per quanto riguardava i posti a sedere, non ebbero da ridire, tanto più che scoprirono di essere stati collocati a soli cinque passi sulla destra del punto in cui la Regina Vittoria era seduta la sera del 25 agosto 1855 in occasione di una cena offerta in suo onore da Napoleone Terzo. Per quanto riguardava tutto il resto, vi erano ampi motivi per esprimere critiche, se non altro per l’importantissima ragione che il teatro del castello di Versailles era pressappoco il posto meno adatto per tenere una riunione al vertice di proporzioni moderne. Questa circostanza era più che dimostrata dall’esercito di tecnici alle prese con i problemi acustici del luogo. Dappertutto erano stesi cavi elettrici sul pavimento, e tra i cavi si aggiravano senza uno scopo comprensibile tanti uomini con le sigarette pendenti dalle labbra.

Scene simili si avevano in tutto il mondo grazie alla cosiddetta era tecnologica. Scene che ricordavano l’«Apprendista Stregone», solo che lo spettacolo che si vedeva ora era molto peggio di quanto Isaac Newton avesse mai visto, soprattutto perché i tecnici, essendo francesi e perciò uomini onesti, avevano saputo sin dall’inizio di essere alle prese con un caso disperato. Potevano mettere i microfoni e gli altoparlanti dove volevano, ma ciò che si diffondeva nell’aria erano solo guaiti e ruggiti su uno sfondo sibilante.

«Tanto varrebbe gargarizzarsi anziché parlare in questo coso», osservò Isaac Newton dopo aver esaminato il microfono sul podio dell’oratore.

«Gargarizzandoti potrebbe entrarti del liquido nella trachea.

meglio canticchiare», gli consigliò Frances Margaret.

«Come, in nome del demonio, potrei convincere la gente parlando con quel coso? E’ questo che mi piacerebbe sapere.»

«Non certo parlando e discutendo. Pensa solo ad abbaiare e canticchiare. O sibilare, se preferisci. L’importante è mantenerti entro certi limiti, specialmente per quanto riguarda i gesti…»

Frances Margaret venne interrotta dallo strillo di uno dei tecnici. Poi, qualcuno gridò ««Frelon»!» Gli altri ripeterono il grido e dopo pochi secondi selvagge grida di ««Frelon»!» risuonavano ovunque nel teatro del castello.

«Credo che la parola significhi calabrone», disse Frances Margaret.

««Significa» calabrone. Attenta!» gridò Isaac Newton stesso fendendo con un colpo vigoroso l’aria come facevano ovunque i tecnici presenti nel teatro. «Sono dappertutto! Ci dev’essere un nido. Andiamo via da qui. Alla svelta!»

«Non un nido», fece Frances Margaret, senza fiato, quando furono usciti all’aperto, «ma una botte per vino vuota. Una botte con ancora un delizioso bouquet, ma piena di calabroni.»

Poi, mentre attraversavano in macchina la foresta di Fontainebleau, Isaac Newton disse in tono conciso: «Tutta scena».

«Che cosa c’è che non va nella scena?» volle sapere Frances Margaret che stava guidando.

«E’ un’espressione sintomatica che caratterizza tutta la situazione. Abbiamo popoli e governi che s’interessano, ma non con sufficiente serietà.»

«Eppure pensavo che stessimo andando piuttosto benino. Un programma veramente esteso che sta per essere finanziato su base internazionale.»

«Sì e no.»

«Che cosa vuoi dire con questo sì e no?»

«Mi viene in mente la marea montante.»

«Perché?»

«Per un po’ sembra che la marea montante debba continuare a montare, portandosi via tutto. Ma poi finisce per cambiare e comincia a calare.»

«La marea non è ancora cambiata.»

«No, la marea non è ancora cambiata. Ma ho fin troppa paura che cambierà. Perché i governi pensano solo a brevi scadenze, solo a quello che sarà fino alle successive elezioni. E’ molto faticoso condurre un programma importante a lunga scadenza in presenza di una psicologia che ragiona in termini di brevi scadenze. La scoperta che le loro armi tanto costose non servivano a niente certo ha dato loro un bello scossone, ma il guaio è che, una volta abituati allo scossone…»

«… ricadranno nella vecchia abitudine», concluse Frances Margaret, evitando con perizia un blocco del traffico sulla strada.

«Proprio così, ricadranno nella vecchia abitudine. La cosa di cui hanno bisogno è una specie di shock che non possano dimenticare.»

«Non dovresti parlare così!» esclamò la ragazza in tono severo.

«Perché?»

«Perché ciò che tu pensi sembra avere l’abitudine di succedere. Sono tutti quei «bip» che secondo te stai trasmettendo. Credo che tu abbia in corpo qualcosa che emette raggi, raggi che vengono captati», soggiunse Frances Margaret, superando altre difficoltà del traffico.

«Sciocchezze.»

«Beh, non cominciare a trasmettere dei «bip» propalando ai quattro venti che la situazione sembra priva di speranze. Mi innervosisce.»

«Ti rende superstiziosa, dovresti dire.»

«Sensibile, sarebbe più giusto dire.»

«E va bene, vada per ’sensibile’. Credo che dovremo lasciare ben presto questa strada», disse Isaac Newton che stava esaminando la carta stradale.

69

Il teatro del castello era una specie di teatro dell’Opera. Sotto questo punto di vista, per lo meno, si prestava molto bene all’occasione, rifletté Isaac Newton quando lui e Frances Margaret arrivarono sul posto la mattina dopo per la seduta d’apertura del vertice. C’era una platea dove nei tempi passati prendevano posto i mortali di rango inferiore, circondata da due semicerchi aventi ognuno una decina di palchi disposti lungo la parete esterna. L’ordine superiore dei palchi era sistemato tra grosse colonne verticali a imitazione dei templi greci.

I delegati ufficiali delle varie nazioni occupavano i due ordini di palchi. Al loro seguito e alla stampa erano stati assegnati tavoli e sedie in platea. La delegazione britannica occupava il palco immediatamente a destra del palco centrale che più di un secolo prima era stato sgomberato per fare posto alla tavola della Regina Vittoria. Stavolta, il palco centrale era occupato dai francesi nella loro qualità di padroni di casa. I tedeschi occupavano il palco sulla destra di quello britannico e gli americani avevano il palco sulla sinistra dei francesi. I russi disponevano delle prime tre file del piano sottostante, sopraelevate rispetto alla platea, come una tribuna destinata a ricordare loro la tribuna delle sfilate del Primo Maggio. Alcuni russi indossavano uniformi coperte di medaglie, altri abiti scuri, camicie bianche con cravatta e scarpe alte che riflettevano le luci dei riflettori mentre salivano gli scalini per raggiungere i loro posti.

Isaac Newton e Frances Margaret erano arrivati presto per assicurarsi che il loro discorso di presentazione sarebbe stato trasmesso in inglese tramite uno dei canali destinati ad alimentare le cuffie di cui era munito ogni posto in teatro. Questo per evitare i latrati e i sibili degli altoparlanti. Rassicurati finalmente su questo punto, entrambi sedettero e si misero a osservare l’arrivo delle delegazioni. Dopo aver esaminato i russi per un bel po’, Isaac Newton affermò: «Il capo dei russi sembra ammalato. Non riesce a respirare».

«A me sembrano piuttosto singhiozzi. Ha mangiato troppo per prima colazione, penso, alla loro ambasciata che non disdegna il lusso. Il guaio è che i singhiozzi continui possono essere pericolosi quando raggiungono il ritmo di tre al minuto, continuando per ore e ore. I singhiozzi sono una delle malattie nelle quali sono specializzata, devi sapere», rispose Frances Margaret. Se già non fosse stata animata da spiriti aggressivi, una donna nel palco americano che la stava fissando l’avrebbe certamente spinta ad aprire le ostilità. La donna aveva capelli scuri, un bel sorriso e fossette sulle guance, come ebbe modo di notare Frances Margaret osservandola da una distanza di quindici metri.

«Secondo quanto ci hanno detto quando ci hanno dato le istruzioni, il capo della delegazione russa è il Numero Undici del Politburo», proseguì Isaac Newton con persistenza.

«Quanto lei dice non è perfettamente esatto, professor Newton», fece una voce accanto a loro. Un uomo con una faccia che una persona screanzata avrebbe definito simile a un pomodoro maturo, stava in piedi accanto a loro.

«Jamesborough. John Jamesborough. Del Foreign Office. Mi ricorda dai vecchi tempi di Ginevra?» chiese a mo’ di presentazione.

«Naturalmente», annuì Isaac Newton. «Che cosa non è perfettamente esatto?»

«Quello che ha detto del russo. E’ stato retrocesso al Numero Quattordici.»

«In tal caso sembra che i russi non prendano molto sul serio la faccenda», concluse Isaac Newton.

«E’ in questo che lei potrebbe avere torto, professore», intervenne una nuova voce. La voce apparteneva a un uomo dall’aspetto macilento con una sigaretta pendente dall’angolo della bocca, che Isaac Newton aveva preso in un primo tempo per un tecnico disperatamente alle prese con l’impianto acustico.

«Smithfield», disse l’uomo, alzando le spalle in maniera da far spuntare le mani dalle maniche troppo lunghe del cappotto. «Lei deve tenere d’occhio in realtà i militari sulla destra, quelli impegnati nell’incetta delle armi. Tra i russi sono loro che detengono veramente il potere. Si direbbe che nell’insieme sarà un bello spettacolo, non le pare? Stia attento alle sorprese, professore. I francesi hanno qualcosa che bolle in pentola. L’ho saputo da un amico del Quai d’Orsay. «Le nez de Cléopâtre, s’il eût été plus court, toute la face de la terre aurait changé», come dicono da quelle parti», concluse Smithfield annuendo con la testa e tirando una boccata di fumo.

La delegazione britannica arrivò — in Rolls Royce dal cuore di Parigi — in gruppo con il Primo Ministro al centro. Il palco nel quale Isaac Newton e Frances Margaret erano stati quasi soli fu a un tratto pieno da scoppiare. E così erano pieni anche gli altri palchi di ogni ordine del teatro.

La seduta venne dichiarata aperta dal Primo Ministro francese il quale percosse il tavolo con un massiccio martello pesante due chili, provocando negli altoparlanti disposti ovunque una specie di tuono come se una tempesta fosse scoppiata nell’ambiente. Poi, il Primo Ministro francese tenne un discorso di benvenuto, espresso con un linguaggio mellifluo e molto ricercato. Vari schermi televisivi erano stati piazzati nei punti strategici del teatro per cui la faccia, la testa e le spalle del Primo Ministro francese furono visibili in primo piano. Poiché le telecamere erano mobili, Isaac Newton si rese conto che, una volta venuto il suo turno, non gli sarebbe stato necessario aprirsi un varco fino alla piattaforma degli oratori. Poteva pronunciare il suo discorso rimanendo seduto dove si trovava.

In quello gli venne passato un biglietto. Isaac Newton scrisse la risposta e lo rispedì, sempre a mano. Frances Margaret osservò il biglietto durante il suo percorso finché non raggiunse il Primo Ministro il quale lo spiegò e lo lesse. Questo fatto, assieme all’osservazione di Smithfield a proposito dei francesi in possesso di qualcosa che bolliva in pentola, le fece venire un’idea. Scrisse un biglietto per proprio conto e lo ripiegò. Le sarebbe piaciuto mandarlo alla donna nel palco americano, la donna con il sorriso dall’aria pericolosa, ma siccome non ne conosceva il nome, lo indirizzò al Presidente americano. Poi il suo sguardo incrociò quello della donna e la ragazza sollevò il foglio ripiegato per indicare il punto dal quale era partito. Dopo aver spedito il biglietto, Frances Margaret ne seguì affascinata il cammino, da una mano all’altra, prima attraverso il palco inglese, poi attraverso l’adiacente palco francese e così fino al palco americano. Finalmente, il biglietto raggiunse il Presidente il quale lo aprì immediatamente e lesse:

A TUTTI I COLONI

Gli inglesi hanno una botte per vino piena di calabroni che intendono mettere in libertà in un momento strategico. Consiglio di iniziare un’azione evasiva. LAFAYETTE

Mentre il momento del suo discorso di presentazione si avvicinava inesorabilmente, Isaac Newton si rese conto della stanchezza che aveva accumulato nei mesi appena passati. Rammentò cupamente un consiglio che Frances Margaret gli aveva dato quella mattina durante la prima colazione.

«L’ultima cosa della quale devi preoccuparti è ciò che effettivamente «dirai»», gli aveva detto. «Ciò che «dirai» verrà smorzato all’istante dall’aria, dalla viscosità, dal tappeto, dagli abiti della gente e dai capelli, specialmente dalle donne con i capelli lunghi. Ciò che rimane sono le idee che sei riuscito a instillare in testa alla gente, ed è a questo punto che la truce realtà alza la sua brutta testa. Date le circostanze, infatti, tutto ciò che puoi sperare di trasmettere è un’immagine, non un argomento. E per produrre un’immagine non conta ciò che «dici»», aveva ripetuto Frances Margaret, «bensì «come» lo dici. Se ti fai venire un tic al labbro, tutti lo ricorderanno. Ancora anni più tardi diranno, tutte le volte che sentiranno pronunciare il tuo nome: ’Ah, sì! L’uomo con il tic al labbro. L’ho sentito una volta in un discorso sulla riforma del latifondo in Africa Centrale’. Effettivamente», aveva concluso Frances Margaret, «non vorrei raccomandarti un tic al labbro, ma qualche schiocco sonoro con la lingua non sarebbe una cattiva idea.»

In realtà, conscio di doversi impegnare in uno sforzo supremo, Isaac Newton consumò i primi quindici minuti del tempo assegnatogli per spiegare come si era scoperto che le comete erano esseri viventi. Poi proseguì descrivendo com’erano state stabilite le comunicazioni con la cometa di Halley e come i telescopi erano stati adattati per servire da occhi e orecchie dalla stessa cometa. C’erano migliaia di altre comete entro la portata dei telescopi per le quali bisognava fare la stessa cosa. Alla fine, con il passare degli anni, ve ne sarebbero state milioni se non miliardi, a distanze ancora maggiori dal Sole. Era un progetto di stupefacente grandezza, il progetto più avventuroso e con gli obiettivi più lontani che la specie umana avesse mai intrapreso.

Il premio sarebbe consistito in un improvviso accesso a una tecnologia che, nel corso normale degli eventi, forse non sarebbe stata scoperta in mille anni. Era un premio che sarebbe arrivato proprio nel momento in cui la specie umana si trovava al bivio — un disperato bivio — di un confronto tra le nazioni sviluppate e di un fenomeno di povertà e sovrappopolazione nelle nazioni sottosviluppate. Erano problemi per i quali non erano in vista altre soluzioni. Erano problemi che altrimenti, concluse Isaac Newton, non promettevano un futuro favorevole al mondo.

Quando gli applausi si furono spenti cominciarono ad arrivare le domande scritte. Queste vennero prima lette ad alta voce dal Primo Ministro francese per ricevere poi, nei limiti del possibile, una risposta breve e incisiva di Isaac Newton. All’inevitabile domanda riguardante il costo di un simile progetto, Isaac Newton rispose senza reticenza. Il costo sarebbe stato paragonabile agli attuali bilanci militari delle nazioni sviluppate. A questa risposta seguì un gran silenzio nel teatro del castello, un silenzio reso memorabile nelle menti di tutti i presenti dalla maniera in cui esso fu spezzato. Il silenzio venne spezzato da un acuto grido di un giornalista del «New York Times». Quasi immediatamente ci furono altre grida, altri strilli finché il confuso vocio non si trasformò in una specie di pandemonio ripreso dai microfoni e ampliato fino a proporzioni mostruose attraverso gli altoparlanti dislocati ovunque nel teatro.

«I calabroni», disse Frances Margaret con un sorriso soddisfatto. «Sapevo che non li avrebbero mai raggiunti tutti. Non senza fumigare l’intiero castello.»

70

Terminata così, senza tante cerimonie, la seduta del mattino, i partecipanti sciamarono all’aperto, negli spaziosi terreni intorno al castello dove, poiché era una bella giornata calda, venne servito un rinfresco all’aperto.

«Mi domando dove le trovano in questa stagione», esclamò Frances Margaret, prendendo una coppa piena di fragole e panna da un vassoio che un cameriere di passaggio reggeva in mano.

«Immagino che vengano dalla Scozia. Capisci ora che cosa intendevo ieri?» rispose Isaac Newton prendendo anche lui una coppa di fragole.

«Pensavo che tutto fosse andato bene nella misura che ci potevamo aspettare.»

«E’ proprio questo il punto importante, non ti pare? Nella misura che ci potevamo aspettare.»

«Allora è venuto il momento di tirare le somme», decise Frances Margaret, addentando un fragolone particolarmente grande e molto rosso.

«Il risultato è chiaro. Dopo aver discusso un bel po’ finiremo per dare il via a una specie di progetto internazionale dello stesso ordine di grandezza che abbiamo già in Inghilterra. Solo con molta più burocrazia e spreco di carta», obiettò Isaac Newton, scocciato.

«Non ho potuto fare a meno di sentire ciò che ha detto», disse una voce conosciuta. Era Alan Bristow, il direttore di «Nature». «Solo che un progetto internazionale è più stabile. Una volta avviato non può più essere fermato. Voglio dire: in seguito al cambiamento di qualche governo», proseguì.

«Questo è vero, naturalmente», ammise Isaac Newton, sempre incavolato.

«Ma perché vuol far andare avanti le cose a rotta di collo? E’ questo che non riesco a capire nel suo punto di vista, Newton. Lei ama affermare che una situazione di stallo protrattasi per miliardi di anni è stata ora spezzata. Per quale motivo, visto che lei parla di miliardi di anni, pochi anni in più o in meno dovrebbero avere tanta importanza? Perché non lasciare che gli eventi seguano il loro corso?»

«Perché in realtà stiamo scegliendo delle alternative.»

«Che sarebbero?»

«I bilanci militari, tanto per citarne una, oppure un grosso programma del genere da me menzionato stamattina.»

«Perché la scelta di una dovrebbe escludere l’altra?»

«Perché, se continuiamo con i bilanci militari, saremo annientati probabilmente ancora prima della fine del secolo. Per essere sincero, voglio che la seconda alternativa s’imponga con tanta forza e rapidità che nulla rimanga a disposizione della gente perché questa si faccia reciprocamente a pezzi. La scelta in realtà è perfettamente chiara. Né esiste una conveniente via di mezzo.»

«E lei crede che tutti qui, intendo i governi, stiano cercando una conveniente via di mezzo?»

«Naturalmente. Lei forse non lo fa? Per ritornare poi all’abituale tran-tran quotidiano.»

«Beh, le auguro buona fortuna. Ne avrà bisogno», disse Bristow proprio nel momento in cui si avvicinava il Primo Ministro per ammonirli:

«Su, andiamo, piantatela. Siamo qui per parlare alla gente. Permettetemi di presentarvi al Presidente americano».

Frances Margaret preferì allontanarsi pensando che il suo messaggio a proposito dei calabroni avrebbe potuto introdurre una nota stonata nella conversazione con il Presidente. Nell’istante in cui vide scomparire Isaac Newton, fu colpita da uno shock, uno shock così ovvio e percettibile da farle venire il dubbio di essere in preda a un attacco cardiaco. Constatato che il cuore era perfettamente a posto, si domandò se l’improvviso tratto d’ombra, simile a quello prodotto da una nube di passaggio che nasconde il sole, non fosse dovuto magari a qualche veleno nelle fragole. Qualunque fosse il motivo, Frances Margaret era convintissima dell’esistenza di qualcosa di eccezionalmente strano, una convinzione che trasformò il suo precedente stato d’animo esuberante in una specie di sensazione onirica, come se tutta la scena intorno a lei fosse diventata del tutto irreale.

Di fronte a lei stava ora la donna americana con i capelli scuri, la donna dall’aspetto pericoloso con le fossette, che diceva: «Stavo osservando i russi. E’ tutto molto strano».

«Perché assomigliano al mazzo di carte in «Alice nel Paese delle Meraviglie»?» rispose Frances Margaret.

«E’ buffo che lei dica questo», annuì il Segretario per il Commercio degli Stati Uniti.

«Perché è buffo?»

«Beh, cerchi di richiamare alla mente le figure dei calciatori, dei pattinatori e dei musicisti russi. Che cosa vede? Gente normale con facce normali e corpi normali. Questi politici e generali, invece, sono molto diversi. Sono tutti tozzi e quadrati e pesanti e non c’è soluzione di continuità tra le loro sopracciglia. Mi domando come mai.»

«Perché sono effettivamente un mazzo di carte», rispose Frances Margaret, pensando che fosse ovviamente futile questa conferma dell’opinione già espressa da lei.

«Continuavo a chiedermi se non fossero alle volte una specie di personaggi da fumetti. Sa, quei personaggi con tre dita invece di cinque.»

«Glielo ha chiesto?»

«No, naturalmente», rispose ridendo il Segretario per il Commercio.

«Allora andiamo a chiederglielo», disse Frances Margaret in tono deciso dirigendosi verso il gruppo dei russi. Tra di sé stabilì che la donna con le fossette aveva perfettamente ragione. Tutti i russi del gruppo, dal primo all’ultimo, erano pesanti e tozzi. Anche se non tutti avevano sopracciglia cespugliose, alcuni le avevano sicuramente.

Vi era una tale risolutezza nel modo in cui Frances Margaret, seguita dal Segretario per il Commercio americano, si avvicinava al gruppo da richiamare l’immediata attenzione degli interpreti russi.

«Lo vuol fare davvero?» chiese ridacchiando la sua accompagnatrice.

«Certo che lo voglio fare», rispose Frances Margaret senza l’ombra di un sorriso, soggiungendo: «Non mi lascio intimorire da un mazzo di carte».

Gli interpreti russi mossero loro incontro con tanti sorrisi concilianti sulla faccia, e anche gli appartenenti al gruppo alle loro spalle, che si erano accorti dell’arrivo delle due bellissime donne, fecero anch’essi un paio di passi in avanti, trascinando i piedi. La voce di Frances Margaret era forte e limpida. Quando l’occasione lo esigeva, riusciva sempre ad avere la voce forte e limpida.

«Noi due vorremmo sapere», chiese, «se voi tutti avete tre dita come i personaggi dei fumetti oppure cinque dita come la gente normale.»

Per descrivere con precisione la maniera in cui il gruppo intorno a Frances Margaret si dissolse, sarebbe stato necessario studiare un filmato della situazione con la stessa attenzione che una squadra di calcio ci mette nello studiare, seguendo la partita con la moviola, la tattica di una squadra rivale. Era un fenomeno al quale aveva assistito già molte volte, quello di persone che se ne andavano in ogni direzione in seguito a qualcosa che lei aveva detto. Anzi, era già un’eccezione il fatto che la donna dai capelli scuri con le fossette fosse ancora lì, scossa da violente risate.

«Non avrei mai pensato che l’avrebbe fatto», gorgogliò il Segretario per il Commercio. «Io non ce l’avrei fatta, e sì che ho una certa grinta.»

«Non è stato affatto difficile. Non le avevo detto che erano solo un mazzo di carte?»

La risposta provocò un nuovo scoppio di risate da parte del Segretario per il Commercio. «Basta, non ne posso più», esclamò, con il fiato corto. «Come si chiama lei, se posso chiederglielo?»

«Frances Margaret.»

«Il nome può andare anche bene. Il guaio sembra essere nel cervello. E’ stata lei quella che ha mandato il biglietto sui calabroni?»

«Naturalmente.»

«Come ha fatto a sapere che c’erano?»

«Non le capita qualche volta, sognando, di sapere ciò che accadrà?» rispose Frances Margaret congratulandosi per la sottigliezza della risposta.

Perché era questa, naturalmente, la cosa in ballo. Non le carte, ma un sogno, un sogno cominciato proprio all’inizio, dal momento in cui Isaac Newton era arrivato al Cavendish Laboratory. Perché, naturalmente, non esisteva alcun Isaac Newton. Come poteva esserci con un nome come quello? Quando si fosse svegliata, Si sarebbe trovata indosso i jeans e una vecchia camicia, non l’abito da cerimonia e le scarpe. Non sarebbe stata Cenerentola al ballo, ma una Cenerentola intenta ad accendere il fuoco in una fredda mattinata invernale, con Mike Howarth gemente in un angolo, alle prese con le sue folli idee. Frances Margaret si congratulò di nuovo per la squisita sottigliezza di essere capace di ragionare così bene persino in un sogno così balordo come questo.

Frances Margaret fece un’altra riflessione: nei sogni capita sempre che i personaggi vengano e se ne vadano misteriosamente. Se ne vanno all’improvviso dicendo che torneranno subito. Ma non ritornano. Al che ti metti a cercarli, ma non riesci più a ritrovarli per quanti sforzi tu faccia. Così sarebbe andato a finire con Isaac Newton. Frances Margaret aveva occhi perfetti e riusciva a distinguere molto bene in lontananza il Presidente americano. Di Isaac Newton non c’era traccia. Con una certa attenzione si mise a osservare tutta l’assemblea: Isaac Newton non c’era. Frances Margaret tentò di reprimere un senso di disperazione dicendosi che poteva sempre mettere fine al sogno per svegliarsi e ritrovarsi indosso i jeans e la vecchia camicia, con Mike Howarth intento a gemere in un angolo per via delle sue comete.

«Perché è tanto agitata? Lei deve trovarsi in uno stato d’animo buffo», disse la donna con le fossette.

«E per lei dev’essere sicuramente buffo essere solo un personaggio del mio sogno», rispose Frances Margaret, facendo di nuovo ridere a crepapelle la donna. «Lo straordinario è», continuò, «che io sia riuscita a concepire lei. Chissà come avrò fatto?»

La donna barcollava ormai a tal punto che Frances Margaret l’afferrò per il braccio.

«Ehi, che forza! Non stringa tanto, mi fa male», esclamò il Segretario per il Commercio.

«Non creda di potermi fare lo scherzetto di dissolversi», ribatté Frances Margaret, provocando un altro sussulto di risate nella donna.

«Ah! Non l’ho già vista da qualche parte, signora?» chiese il Presidente americano quando l’incerta rotta seguita da Frances Margaret e dal Segretario per il Commercio finì per portare le due donne nella sua direzione.

«Varenna», rispose immediatamente Frances Margaret, di nuovo contenta di essere in grado di ricordarsi i più piccoli particolari di un sogno.

«Esattamente, Varenna! Ma ora, signora, mi stavo facendo delle domande su quei suoi calabroni.»

«Quello è il passato, signor Presidente. E ciò che è passato è un prologo.»

«Come mai?»

«Me lo sono spesso chiesto anch’io, signor Presidente», rispose Frances Margaret notando che la donna con le fossette era sgusciata via. Come capita sempre, pensò. Tu giureresti che qualcuno non si dissolverà, ma quelli si dissolvono sempre, spesso nel modo più ingegnoso. Ora giurò a se stessa che il Presidente non si sarebbe dissolto, succedesse quello che doveva succedere.

«Ha notato, signor Presidente, come tutti scompaiono?»

«Effettivamente l’ho notato, signora. Sembra che si sia verificata una situazione d’emergenza.»

«Lo scommetto. Va sempre a finire così», annuì Frances Margaret domandandosi perché si stava prendendo la briga di ingraziarsi un personaggio nel suo sogno. «Si ricordi una cosa, signor Presidente», proseguì. «Se resterà attaccato a me, sopravvivrà.»

«Questo mi fa piacere», rispose il Presidente. «Dovremmo ritornare al teatro. La gente sta davvero scomparendo.»

«Nel nulla», convenne Frances Margaret.

Finalmente arrivarono a un bivio del sentiero. Frances Margaret sapeva benissimo quale strada aveva seguito per venire. Così, quando il Presidente prese l’altro sentiero, lei disse: «Se fossi in lei, non seguirei quel sentiero».

«Perché non dovrei seguirlo? E’ da qui che sono venuto», fece il Presidente, un tantino sorpreso. Nella realtà, naturalmente, ci potevano essere molti percorsi per ritornare al teatro, ma in quell’occasione Frances Haroldsen sapeva che qualsiasi deviazione da quel sentiero avrebbe potuto portare quasi ovunque, nel bel mezzo di Londra o Cambridge o New York, ovunque, insomma. Decisa a non lasciarsi ingannare un’altra volta, seguì il sentiero sul quale aveva camminato con l’immaginario Isaac Newton, per esclamare, rivolta al Presidente: «Segua comunque la sua strada, signor Presidente. Ma quando avrà svoltato intorno al prossimo angolo, per lei sarà finita».

Fermamente decisa, Frances Margaret rimase sul sentiero che ricordava, aspettandosi che la facesse finire a Timbuctù — ma non per colpa sua. Adesso non c’era più in giro nessuno. Di tutta la folla di poco prima… nessuno, come capitava sempre nei sogni. I tacchi alti delle scarpe picchiavano sulle lastre di pietra del sentiero, il che per lo meno era un fenomeno reale e logico. Tentò di immaginare dove stava andando, per anticipare in certo qual modo la prossima grossa sorpresa, ma si accorse, molto delusa, mentre svoltava intorno a un angolo, di avere davanti ciò che sembrava essere effettivamente il castello di Versailles.

Poi, la spiegazione ovvia le venne in mente. Non era che stesse camminando per raggiungere qualche altro posto come Timbuctù o la vetta dell’Everest. Stava camminando in un’altra epoca, probabilmente nel Seicento, quando migliaia di persone si affollavano nel castello. Scene pulsanti, camere da letto pulsanti, cucine pulsanti. A pensarci bene, perché il tempo attuale dovrebbe essere più reale del Seicento? Non le venne in mente alcun motivo che andasse d’accordo con le leggi della fisica. Così doveva trattarsi del Seicento, decise. Si era domandata come tante faccende illecite avessero potuto verificarsi in continuazione a Versailles, dato che la maniera in cui il castello era costruito non sembrava favorire la vita intima. Forse, nel Seicento non ci tenevano tanto alla vita privata. Forse se ne andavano semplicemente in giro a guardare ciò che facevano gli altri.

Poi comparve alla vista il teatro del castello. Frances Margaret si rese subito conto che il sogno l’aveva di nuovo ingannata, solo che, grazie al Cielo, lei era più intelligente del sogno. Il sogno teneva in serbo qualcosa di grosso, una cosa orribile. Una volta entrata nel teatro del castello, che cosa vi avrebbe trovato? Ragnatele. Solo ragnatele, nient’altro.

La porta del teatro era presidiata da vari inservienti, messi lì indubbiamente per controllare i biglietti dei visitatori comuni. Gli inservienti riconobbero senza commenti la validità del cartellino che lei portava appuntato al petto, e nell’attimo successivo Frances Margaret si ritrovò all’interno del teatro. In quell’istante provò la stessa strana scossa che aveva sentito un’ora prima. E con la scossa scomparve lo strano stato d’animo e lei poté constatare che il teatro era in realtà pieno di gente, non di ragnatele. Riuscì anche a distinguere Isaac Newton tra i delegati nel palco britannico. Era ritornata di colpo alla normalità. Almeno così sembrava. Eppure, il suo ingresso nel teatro coincise esattamente, come se qualcuno avesse azionato un interruttore, con una catastrofica interruzione dei lavori.

L’interruzione era dovuta al Presidente francese il cui volto apparve improvvisamente in primo piano sui teleschermi della sala, sostituendosi al personaggio che parlava dalla tribuna degli oratori. La voce del capo di stato, malamente amplificata dagli altoparlanti, investì come un tuono l’assemblea:

«Chiedo scusa per l’interruzione, ma devo comunicarvi una notizia sgradevole. Abbiamo ricevuto una segnalazione dall’Osservatorio di Meudon con la quale il governo francese viene avvertito che un oggetto del diametro di quasi due chilometri colpirà la Terra domattina tra le due e le quattro, tempo medio di Greenwich. Purtroppo, il fenomeno causerà danni molto estesi. Il punto dell’impatto dell’oggetto non è ancora certo, per cui non si sa ancora quali luoghi saranno sicuri e quali no. E’ evidente che molte persone vorranno fare immediatamente ritorno nei loro paesi e voglio assicurarvi che il governo francese prenderà tutte le misure per facilitare questo esodo».

71

Frances Haroldsen si fece strada a spintoni tra la folla in preda allo sgomento per dirigersi verso il palco britannico. Mentre si avvicinava, Isaac Newton disse: «Mi stavo domandando dov’eri andata a finire. Hai le chiavi della macchina? Sì, bene. Allora ti raggiungo alla macchina tra pochi minuti. Voglio solo domandare in giro se sanno qualcosa del messaggio da Meudon».

Erano passati più di pochi minuti, forse una ventina, prima che Isaac Newton comparisse alla macchina dove trovò Frances Margaret sul sedile del passeggero.

«Vuoi guidare tu?» le chiese.

«Preferirei di no. Non mi sono sentita bene.»

Mentre Isaac Newton usciva con una serie di manovre dal parcheggio per imboccare il lungo viale che porta verso la città di Versailles, Frances Margaret descrisse le strane allucinazioni di cui era rimasta vittima.

«Così, dopo tutto, non sei sfuggita», osservò Isaac Newton.

«Sfuggita a che cosa?»

«Ricordi il cottage sulla costa del Norfolk? Quella notte c’era qualcosa, là.»

«Non ho visto nulla.»

«Vuoi dire che non ricordi di aver visto qualcosa, il che non è lo stesso. Neppure io ricordo di aver visto molto, ma ormai ho avuto già due volte allucinazioni del genere. Tu sei stata fortunata perché eri ancora in grado di camminare. Io sono stato messo completamente fuori combattimento.»

«Che cosa significa questo?»

«Beh, visto che la cosa si è verificata prima di quest’annuncio venuto da Meudon, essa ha ovviamente un suo significato. Come se anche tu stessi trasmettendo dei «bip».»

«Non riesco a capire perché questo oggetto, o quel che sia», disse Frances Margaret con un’espressione perplessa, «non era conosciuto prima. Gli astronomi avrebbero dovuto vedere facilmente un oggetto così grande come dicono che sia.»

«Lo hanno visto. L’oggetto è noto da ormai un anno.»

«Perché, allora, ci hanno informato a sorpresa solo adesso?»

«Perché l’oggetto ha cambiato improvvisamente rotta. Altrimenti sarebbe passato al largo della Terra a una distanza perfettamente sicura, come usano fare i piccoli asteroidi.»

«Si è comportato allora come un missile, correggendo a metà strada la rotta? Per colpire un bersaglio, intendo dire?» chiese Frances Margaret in tono ponderato.

«Sembra di sì.»

«Come può essere stato ottenuto quest’effetto?»

«Naturalmente nessuno lo sa, in realtà. Probabilmente si è trattato di un processo di improvvisa evaporazione, come un razzo che viene sparato da un jet.»

«Dev’essere stata un’azione deliberata, no?»

«Deliberata, sì, come la tua allucinazione e come la sensazione che ho continuato ad avere per tutta la mattina. Specialmente dopo aver finito il mio discorso.»

«Che genere di sensazione?»

«Di aver assolto il mio incarico. Che ne avevo abbastanza di tentar di persuadere la gente. Questo andrebbe d’accordo con la tua balorda impressione di rivolgere la parola a un mazzo di carte. Si potrebbe dire che la mia sensazione fosse realmente identica.»

Isaac Newton parcheggiò la macchina in uno spazio libero nei pressi del centro della città di Versailles, dicendo mentre spegneva il motore: «Voglio vedere se riesco a comprare un paio di cose speciali». Poi, consegnando la cartella a Frances Margaret, disse: «Perché non ti leggi i dati arrivati da Meudon? Io non li ho chiesti né ho pregato per averli. Li ho rubati spudoratamente sotto il loro naso pensando che il governo francese potrà ottenerne un’altra copia e noi no, invece».

Un po’ più tardi, Isaac Newton ritornò con due pacchi. Dopo averli spinti sul sedile posteriore della macchina si raddrizzò sul sedile del guidatore e spiegò: «Sacchi a pelo e un thermos. Se la notte è bella ci potrebbe venire la voglia di uscire all’aperto e trovare un posto da dove osservare il cielo. Potremmo cercare il punto adatto durante il ritorno alla locanda».

«Ma che cosa fanno tutti quanti?» chiese Frances Margaret.

«Là regna un caos feroce. Noi siamo rimasti fuori.»

«Caos? Pensavo che il Presidente francese avesse detto che avrebbero preso tutte le misure per facilitare l’esodo.»

«Che avrebbero preso tutte le misure se fossero «stati in grado» di prenderle, il che è un po’ diverso.»

«Sei riuscito a scoprire come stanno veramente le cose?»

«I francesi stanno tentando di persuadere i capi di governo a riunirsi in qualche castello nei pressi di Fontainebleau, non lontano dalla zona da noi visitata ieri. Ma la gente ha chiesto più che altro di precipitarsi a casa. Gli americani riusciranno probabilmente a spuntarla a bordo dell’aereo presidenziale, ma i russi non ce la faranno, per cui farebbero meglio a fermarsi dove si trovano. I francesi dicono che faranno intervenire gli elicotteri militari per traghettare la gente sulle distanze più brevi. Il Primo Ministro voleva che andassimo anche noi, ma sembrava una cosa piuttosto futile perché non potevamo fare nulla. Secondo me saremmo stati costretti a girare di qua e di là con le mani in mano.»

«Ma mancano ancora dodici ore perché quella roba piombi sulla Terra. Sono tante, dodici ore.»

«Non quando gli aeroporti sono congestionati, quando i mezzi di trasporto sono paralizzati. E non voglio pensare a un eventuale panico mentre la notizia si diffonde.»

«A cosa stai pensando, allora?»

«Sto pensando agli impulsi irresistibili di un enorme numero di persone.»

«Impulsi a fare che cosa?»

«A muoversi, semplicemente a muoversi. Sarà una specie di vigilia di Natale moltiplicata per cento. Vuoi sapere una cosa? Quando il Presidente francese ha letto il suo comunicato, ho pensato immediatamente di ritornare di corsa nel Devon, a casa mia, qualcosa che da anni non ho più fatto cedendo a un impulso. Poi ho pensato di precipitarmi a Cambridge. Ho pensato anche a Kurt e Rosie Waldheim, al loro châlet a Wengen e che quello sarebbe stato il posto ideale per trascorrere le prossime dodici ore. Potevamo dormire all’aperto, sul balcone, ho pensato, guardando verso le montagne e verso il cielo — l’oggetto sarà molto luminoso quando arriverà. Poi mi sono reso conto che non ce l’avremmo fatta a raggiungere Wengen. Saremmo finiti nel bel mezzo di un’enorme folla sbandata in qualche schifoso aeroporto. Così sono giunto alla conclusione che la cosa più semplice e migliore per noi era quella di fermarci dove ci troviamo.»

«Beh, grazie per aver preso la decisione anche per me. Come facevi a sapere che non volevo tornare a casa?» chiese Frances Margaret.

«Per essere sincero, consideravo scontato il tuo desiderio di non tornare a casa. Ne hai sempre parlato come se casa tua fosse «off-limits». A proposito: dove si trova casa tua?»

«A nord della baia di Morecambe dove le valli come il Duddon si arrampicano verso le alture in fondo. Ci sono rocce calcaree vicine alla costa, con della buona erba per il bestiame, e un fantastico paesaggio siluriano prima di arrivare alla montagna. La mia gente è arrivata da quelle parti un migliaio di anni fa — esattamente come ha detto Eriksson, il pazzo svedese — navigando intorno alla costa della Scozia a bordo di imbarcazioni simili alle navi vichinghe. Dopo un viaggio pieno di incredibili avventure, devono aver pensato di aver scoperto il paradiso. La mia famiglia, per lo meno, è rimasta rintanata nella sua piccola valle per un migliaio di anni. Il patrimonio toccava al figlio maggiore, e i figli più giovani finivano nell’Esercito o nella Marina. O a fare i pirati, immagino, nei bei tempi di una volta.»

«Allora, tu discendi da una linea di primogeniti? Fino a questa generazione, l’ultima?»

«Precisamente. Venti o trenta generazioni, tutte scomparse. Ombre che si allontanano a passo cadenzato nel passato.»

«Perché non me l’hai mai detto?»

«Oh, per una famiglia come la nostra è un motivo d’imbarazzo. Avere un figlio, o, peggio ancora, una figlia, che risolve equazioni di secondo grado è un po’ come se il figlio fosse nato con un occhio solo o dodici dita ai piedi. Così, te ne vai nel mondo e ti unisci ad altra gente con dodici dita ai piedi.»

«Trovo che le mie dodici dita sono molto utili. Sei riuscita a dare un’occhiata a quei dati?» chiese Isaac Newton.

«Non sono incoraggianti, ti pare? La sola velocità dell’oggetto è tanto elevata. Come quello che ha colpito il fiume Tunguska nel 1908.»

«Il meteorite siberiano?» chiese Isaac Newton svoltando con la macchina in una strada più stretta che portava alla cittadina di Dampierre dov’erano alloggiati.

«Sì, e benché il meteorite del Tunguska fosse molto più piccolo di questo, distrusse pur sempre gli alberi nel raggio di un centinaio di chilometri. L’onda d’urto dell’esplosione sarà assolutamente terribile.»

«Ho provato a riflettere su questa faccenda dal punto di vista fisico a cominciare dalla velocità, cinquantuno chilometri al secondo, gli astronomi affermano di averla misurata», cominciò Isaac Newton. «E’ una velocità che supera di gran lunga la velocità del suono in qualsiasi solido o liquido. Il che deve dare luogo inevitabilmente a un fenomeno di gassificazione su scala enorme. L’oggetto si trasformerà in un’immensa bolla di gas rovente che esploderà in tutte le direzioni.»

«Facendo scomparire, sollevandola, l’atmosfera», convenne Frances Margaret in tono cupo. «Al di sopra della zona d’impatto, voglio dire. Poi l’aria tutt’intorno tenterà di precipitarsi sul posto per riempire il vuoto. Il che darà il via al più terribile ciclone registrato in un milione d’anni.»

«Quali dimensioni avrà la zona devastata dall’onda d’urto?» chiese Isaac Newton.

«Per essere sincera, non ho pensato praticamente ad altro dopo l’annuncio fatto in teatro», rispose Frances Margaret sempre in tono cupo.

«E a quali conclusioni sei arrivata?»

«Beh, se dirai che avremo delle macchie nere grosse come quelle sulla Luna, non sarai lontano dalla verità.»

«Del diametro di un migliaio di chilometri?»

«Sì, circa un migliaio di chilometri.»

«Di che percentuale potrà trattarsi rispetto all’intera superficie della Terra, secondo te?»

«Dell’uno percento, o giù di lì. Non saranno, per fortuna, macchie veramente catastrofiche. C’è solo un fatto che dà da pensare: secondo i dati dell’osservatorio l’oggetto atterrerà presumibilmente sull’emisfero settentrionale, dove vive la maggioranza della popolazione mondiale.»

«Metti che la popolazione sia sparpagliata un po’ a casaccio sull’emisfero settentrionale. Questo significa che almeno ottanta milioni di persone moriranno. E’ come una guerra mondiale; peggio delle due che abbiamo avuto.»

«E tutto in una sola notte», annuì Frances Margaret come un automa. «A parte il fatto», continuò, «che le nostre probabilità di sopravvivere sono due volte inferiori alla media.»

«Perché?» chiese ancora una volta Isaac Newton.

«Perché l’oggetto si muove nella direzione del Sole, il che significa che deve colpire necessariamente la Terra sul lato immerso nel buio. E poiché noi ci troveremo sulla superficie notturna quando arriverà l’oggetto, tra le due e le quattro del mattino, le nostre possibilità di sopravvivenza risultano due volte ridotte rispetto alla media.»

Lasciarono la strada maestra varie volte nei pressi di Dampierre, esplorando piste laterali finché non raggiunsero un tratto di terreno scoperto, ricoperto d’erba, che permetteva di osservare il cielo in tutte le direzioni. Poi continuarono, raggiungendo la locanda verso le quattro. La locanda era situata accanto a un torrente che in passato aveva azionato un mulino. Il proprietario della locanda era in piedi dietro il banco quando Isaac Newton chiese la chiave. Consegnando la chiave, l’uomo disse:

«Ha sentito la novità, Monsieur?»

Isaac Newton rispose che l’aveva sentita e il proprietario continuò: «Io ho combattuto nella seconda guerra mondiale, Monsieur, e mio padre nella prima. La gente dice che questa volta tutto sarà altrettanto brutto».

Poi, l’uomo si limitò ad alzare le spalle, con il volto privo di una qualsiasi espressione. Isaac Newton si meravigliò, mentre lui e Frances Margaret salivano nella loro stanza, della capacità infallibile della gente comune quando si trattava di scoprire la verità di una situazione.

Istintivamente, Isaac Newton chiuse a chiave la porta della stanza. Pochi secondi più tardi, così sembrò, erano già a letto e Isaac Newton sentì Frances Margaret bisbigliargli all’orecchio con voce rauca: «Potrebbe essere l’ultima volta».

72

«Per fortuna, abbiamo portato i cuscini», disse Frances Haroldsen sforzandosi di intavolare una conversazione banale mentre s’infilava in uno dei sacchi a pelo che Isaac Newton aveva comprato a Versailles quel pomeriggio. Erano le undici e tre quarti.

Il proprietario della locanda si era rifiutato con una certa fierezza di lasciarsi dirottare anche per un solo centimetro dalla routine normale. La cena era stata servita esattamente all’ora solita. Isaac Newton e Frances Margaret si soffermarono, senza aver nulla da fare, alla locanda fin dopo le dieci. Un’occhiata fuori aveva rivelato che il cielo era semicoperto, ma che alcune stelle più luminose s’intravedevano attraverso gli intervalli tra le nubi. Basandosi su questo fatto, decisero di raggiungere in macchina il punto scelto nel pomeriggio. Avevano ottenuto la chiave del portone della locanda dicendo di voler uscire «per un po’». Nessuno dei due aveva parlato di quanto stava per accadere, per non turbare il sangue freddo del proprietario. Avevano disposto con cura i sacchi a pelo in direzione nord, puntandoli sulla stella polare.

«A quest’ora dev’essere ancora lontano come la Luna», osservò Frances Margaret. «Se riflette la luce del Sole come la Luna, sarà circa tre milioni di volte meno luminoso, circa di quarta grandezza.»

«Bisognerebbe essere degli astronomi dilettanti per accorgersi di un intruso così poco luminoso. Scommetto che i professionisti non sarebbero in grado. Inoltre, il cielo è troppo annuvolato», brontolò Isaac Newton.

«Sta puntando dritto sul Sole e a mezzanotte, cioè pressappoco adesso, deve viaggiare praticamente lungo il meridiano settentrionale, con un’elevazione di circa cinquanta gradi — lassù, nella costellazione del Cigno, non lontano da Deneb. Quella à la stella più luminosa, quella che puoi vedere sul vertice di una specie di croce. Immagino che la croce sia stata interpretata in tempi antichi come un cigno in volo. Devi sapere che ho frequentato una volta un corso di astronomia. Quando andavo a scuola. Ti sto raccontando tutte queste cose perché tu sappia dove guardare», continuò Frances Margaret, chiacchierando senza posa come faceva talvolta. «E’ sbalorditivo, se ci pensi.»

«Che cos’è sbalorditivo?» brontolò Isaac Newton.

«Che l’oggetto riesca a superare una distanza uguale a quella che ci separa dalla Luna in sole due o tre ore.»

«Se arriverà qui alle tre del mattino, l’ora più probabile secondo me, dev’essere ancora una volta e mezzo più distante della Luna.»

«Immagino di sì. Il che fa scendere la sua luminosità di una grandezza rispetto a quella indicata da me. Una stella di quinta grandezza, e questo è pressappoco il limite della visibilità con un cielo come questo. Bisogna trovarsi in un deserto o avere una notte molto fredda per riuscire a vedere stelle ancora meno luminose. E’ buffo che la distruzione debba piombarci addosso dal Cigno — dal Lago dei Cigni. Ma Ciajkovskij faceva solo finta. E’ strano come la gente riesca a scrivere della musica tanto penetrante quando fa solo finta. Immagino che debba autoconvincersi in qualche maniera che tutto è proprio vero, strano come…»

Frances Margaret continuò come una bambina finché non si rese conto che Isaac Newton, a furia di starla a sentire, s’era addormentato. Allora smise di parlare e cominciò a esaminare con più attenzione le stelle, aguzzando gli occhi mentre i tratti di sereno tra le nubi si allargavano per rivelare tutto il cielo.


Isaac Newton si svegliò improvvisamente. Del resto non avrebbe potuto fare altro con Frances Margaret che gli urlava nell’orecchio: «Credo di averlo individuato».

«Che ore sono?»

«Le due e venti circa.»

«Dio buono, ho dormito tutto questo tempo?»

«Non badarci adesso. Parti dal vertice del Cigno, Deneb. Risali per circa un grado da Deneb e spostati poi per quattro o cinque gradi a est. E’ la stella più luminosa in quella zona.»

«E’ davvero molto luminosa. Sei sicura?»

«Sì, l’ho osservata per un pezzo. Non ho voluto svegliarti finché non ho avuto la certezza che si stava muovendo.»

«Vuoi dire rispetto alle altre stelle?»

«Sì. Ed è una bella cosa, non ti pare?» rispose Frances Margaret cercando di dominare l’eccitazione nella voce. «Voglio dire, se stesse per piombarci addosso, il movimento rispetto alle altre stelle non lo vedremmo affatto, non ti pare?»

«No, non lo vedremmo. Come chiamano gli astronomi questo tipo di cambiamento di posizione?»

«Il parallasse. Il parallasse cambia mentre l’oggetto si avvicina alla Terra. Per cui dà l’impressione di muoversi rispetto alle stelle vere.»

«Lasciami vedere se riesco a scoprire qualche spostamento.» Isaac Newton rimase a osservare per un po’ e poi disse: «Sai che sta diventando effettivamente più luminoso? E penso che stia scendendo verso est. In maniera pressappoco costante, direi».

«Esattamente. Il che significa che siamo al sicuro, non ti pare? Voglio dire che ci dev’essere uno spostamento laterale, il che significa che non può colpire noi.»

I capelli di Frances Margaret ricoprirono improvvisamente gli occhi, e Isaac Newton si rese conto che lei stava piangendo silenziosamente. Uscendo dal sacco a pelo, affondò le mani nei suoi capelli e disse: «E’ una vera fortuna che tu sia capace di risolvere quelle equazioni di secondo grado».

Dopo che si fu ripresa Frances si soffiò il naso e disse: «Devi avere i nervi d’acciaio». Poi, entrambi si sdraiarono sulla schiena, con le teste una accanto all’altra sullo stesso cuscino, per continuare l’osservazione.

«Dove credi che atterrerà?» chiese Frances Margaret.

«Le mie nozioni di geometria non sono all’altezza della situazione, tuttavia direi che scenderà a nord rispetto a noi, da qualche parte. Se fosse risalito, ci sarebbe passato sopra la testa, penso, per atterrare verso sud.»

«L’Inghilterra è a nord.»

«Quasi direttamente a nord. Ma l’oggetto viaggia ancora con un angolo di circa trenta gradi a ovest del meridiano.»

«Sì, ma si sta avvicinando continuamente al meridiano.»

«Non possiamo ancora dirlo», disse Isaac Newton tentando di parlare con la massima calma possibile, consapevole che il missile in arrivo ora brillava in modo sempre più allarmante. «Ciò che possiamo dire», continuò, «è che scenderà sotto l’orizzonte da qualche parte verso nord. Secondo me, se attraverserà il meridiano prima che tramonti, l’impatto avverrà nella Scandinavia settentrionale.»

«Povero Eriksson, lo svedese pazzo», bisbigliò Frances Margaret, «e se dovesse tramontare verso Occidente, atterrerà in Islanda o nella Groenlandia o in un posto simile.»

«Proprio così. Noi non possiamo fare altro che guardare e aspettare.»

L’attesa non durò a lungo. Dopo il lento aumento della luminosità, protrattosi quasi impercettibilmente con il passare delle ore, delle mezz’ore e dei quarti d’ora, i cambiamenti si verificavano ora di minuto in minuto. Il missile in arrivo divenne rapidamente altrettanto luminoso quanto la stella Sirio. Dopo venti secondi la sua luminosità uguagliava quella del pianeta Venere. Eppure, il brillante punto di luce bianca aveva cambiato posizione solo di pochi gradi.

«Dio mio, dove andrà a finire?» esclamò Frances Margaret. Sempre più paurosamente luminoso, il missile in arrivo cominciò a brillare ben presto come mille stelle di prima grandezza. Poi, simile a Lucifero in caduta libera, scese dolcemente, senza cambiare direzione, quasi languidamente, per scomparire dietro l’orizzonte a nord.

«E’ caduto «esattamente» in corrispondenza del nord!» gridò Frances Margaret, per mettersi subito dopo a singhiozzare senza freni. Isaac Newton la prese tra le braccia e disse con la voce più ferma e più sonora di cui fu capace: «Questo non significa necessariamente che sia stata colpita la Gran Bretagna; potrebbe essere sceso ovunque, tra la Gran Bretagna e le regioni artiche. Tra un paio di minuti lo sapremo».

«Come?» chiese Frances Margaret tra i singulti.

«Se è stata colpita veramente l’Inghilterra, l’onda d’urto arriverà qui tra un paio di minuti al massimo. Se è sceso più lontano a nord, l’onda d’urto ci metterà più tempo per arrivare qui. A questo punto ci conviene salire in macchina per essere protetti. Non ha senso restare qui fuori, esposti in pieno.»

Dapprima lentamente e poi con fretta sempre maggiore, si liberarono dei sacchi a pelo e si avvicinarono rapidamente alla macchina. Quando furono sistemati all’interno, Isaac Newton disse: «Avrei dovuto pensarci prima, ma se l’impatto fosse avvenuto in un punto così vicino come la Gran Bretagna avremmo sicuramente intravisto un lampo di luce generato dall’urto; tramite la dispersione atmosferica, voglio dire».

Attesero in silenzio, contando i secondi e i minuti del silenzio, pensando che il passar dei secondi allontanava vieppiù verso nord la zona dell’impatto.

Passati quindici minuti, Frances Margaret disse: «Che abbia mancato il colpo, dopo tutto? Forse gli astronomi avevano sbagliato i loro calcoli».

«Oppure l’oggetto potrebbe aver cambiato rotta ancora una volta.»

«Forse è stato fatto di proposito, per darci un avvertimento.»

«Penserei di sì», convenne Isaac Newton.

Questa riflessione allentò la tensione che si era impadronita di entrambi fino a diventare un fenomeno isterico. L’euforia si protrasse per vari minuti finché Frances Margaret non disse: «Il cielo si sta coprendo».

Scesero di nuovo dalla macchina e guardarono verso nord dove un’ampia striscia orizzontale aveva cancellato le stelle. Mentre stavano ancora guardando, la striscia diventò ancora più ampia, sempre più ampia fino ad essere non più una striscia bensì un intero emisfero. Tutto il cielo a nord rispetto a loro era piombato nel buio mentre a sud le stelle brillavano ancora.

«Buon Dio, i detriti dell’esplosione. Devono essere molto alti.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché non si sente alcun rumore. Qualsiasi fenomeno del genere registratosi nella bassa atmosfera avrebbe provocato un terribile uragano.»

Continuarono a guardare, ora in preda a una specie di timore reverenziale, mentre il buio si estendeva inesorabilmente al cielo meridionale finché le ultime stelle visibili si ridussero a una striscia a sud, una striscia che diventava sempre più stretta con il passare dei secondi. Quando l’ultimo lembo di cielo si coprì, il buio totale calò su di loro. La loro macchina distava solo una decina di metri, ma quando si misero a cercarla alla cieca, mossi dall’istinto, non riuscirono assolutamente a trovarla. Poi venne loro l’idea di battere le mani. Servendosi di questa specie di sonar primitivo, finalmente incespicarono contro il veicolo.

Mentre tornavano in macchina a Dampierre cominciò a sentirsi una sorta di continuo rombare, come se tanti cannoni stessero sparando in lontananza. Non ebbero bisogno di sgusciare furtivamente attraverso il portone della locanda perché tutta la cittadina era in piedi e riempiva le strade illuminate, ascoltando il rombo proveniente da nord che continuò ancora per molto dopo che Isaac Newton e Frances Margaret ebbero di nuovo raggiunto la loro stanza.

73

L’indomani mattina non ci fu alba. Fu solo quando gli orologi avvertirono che erano passate tre ore dal momento in cui sarebbero dovute spuntare le prime luci del giorno, che un debole chiarore sinistro riuscì a penetrare attraverso la coltre atmosferica fino a terra. E a metà pomeriggio, persino questo debole chiarore se n’era di nuovo andato, per cui, se non fosse stato per l’illuminazione artificiale, le popolose regioni dell’Europa, del Nordamerica e dell’Unione Sovietica sarebbero piombate alle tre e mezzo del pomeriggio in un buio totale, una situazione simile, dal punto di vista pratico, all’inverno artico.

Quasi tutta la gente iniziò la nuova fase della sua vita con la convinzione che la stessa cometa di Halley avesse investito la Terra. Ripetuti comunicati indicanti il contrario, trasmessi dalla televisione e dalla radio, finirono per correggere questa presunzione sbagliata, permettendo in tal modo che si facesse strada un concetto più plausibile, cioè che il missile che aveva colpito la Terra era stato guidato dalla cometa di Halley. Isaac Newton si rifiutò di esprimersi a questo proposito, anche se ripetutamente gli vennero rivolte domande. Diceva semplicemente che la gente doveva trarre da sola le proprie conclusioni. In effetti non era particolarmente difficile trarre conclusioni se si teneva conto del punto nel quale il missile era atterrato. Il bacino artico ha la forma di un enorme cratere. Il principale canale che si diparte da esso è situato tra la Groenlandia e la Norvegia, l’altro più piccolo nello Stretto di Bering tra la Siberia e l’Alaska. Come succede spesso con i crateri, il bacino artico si era riempito d’acqua che era gelata fino a una profondità di circa cento metri diventando non una superficie liscia e piana di ghiaccio come un lago gelato, ma un’abominevole accozzaglia di iceberg che s’incollavano l’uno all’altro d’inverno e si staccavano d’estate, una regione nella quale non riusciva a vivere neppure il più resistente eschimese. Il missile in arrivo era proprio finito in quest’inferno di ghiaccio. Quando le registrazioni dei sismografi di tutto il mondo vennero analizzate il giorno dopo in via preliminare, si vide subito che il missile doveva aver colpito un punto vicinissimo al Polo Nord. Poi, quando le registrazioni vennero analizzate con maggiore cura e precisione, emerse il fatto sorprendente che il missile aveva colpito esattamente il Polo Nord. Una mira incredibile, come disse la gente.

Questa fantastica precisione sarebbe bastata da sola a dimostrare in maniera impressionante la forza di quella che veniva ormai chiamata la terza superpotenza. Eppure bisognò tenere inoltre conto di un altro fatto notevole, che, cioè, il missile aveva colpito la Terra in un punto dove l’impatto non provocò la morte di un solo individuo. Nessuno dei poco frequenti esploratori si trovava a quell’epoca nelle distese ghiacciate del Polo né vi erano stati sottomarini militari in navigazione nell’acqua libera sotto il ghiaccio. Per lo meno non lo si venne mai a sapere, anche se c’erano stati.

Da tempi immemorabili, le nazioni avevano sempre cercato di offrire la prova della propria potenza uccidendo gente. L’ironia della situazione stava nel fatto che il mondo si lasciò impressionare molto di più da qualcosa agli antipodi — dalla terza superpotenza che era riuscita a inscenare una così notevole dimostrazione di forza senza ammazzare nessuno. Questo faceva molto più impressione di quanta ne avrebbe fatta l’uccisione dei preventivati ottanta milioni di vittime. Era come se un campione di scacchi fosse riuscito a infliggere uno scacco matto concepito con estrema sottigliezza invece di fagocitare qualsiasi pezzo esistente sulla scacchiera. Grandi quantità d’acqua erano state sparpagliate in tutte le direzioni dall’intera superficie dell’Oceano Artico, specialmente dalle zone vicine al Polo Nord. Questo non possedeva un momento angolare, come dissero gli scienziati, per cui l’acqua, sparpagliandosi nell’atmosfera a quote superiori ai cento chilometri, non andava soggetta a quella che gli scienziati chiamano la forza di Coriolis. In parole povere, ciò significava che l’acqua, che si condensò ben presto dallo stato di vapore in cristalli di ghiaccio, venne scagliata lontano dal Polo lungo direttrici corrispondenti ai meridiani, un po’ come i raggi sprigionati da alcuni ben noti crateri sulla Luna. Era stato questo processo, al quale avevano assistito Isaac Newton e Frances Haroldsen, che aveva cancellato le stelle. E sempre lo stesso processo era la causa per cui la luce del sole riusciva ad arrivare solo in piccolissima parte sulla superficie della Terra.

Un altro aspetto fortunato caratterizzava la situazione. A differenza delle ceneri vulcaniche che non evaporano e che qualche volta possono metterci degli anni per scomparire dall’atmosfera alta, i cristalli di ghiaccio erano in grado di evaporare. Infatti, ricadendo sugli alti strati della stratosfera nei giorni successivi, i cristalli di ghiaccio evaporarono in misura sufficiente da consentire a una parte della luce solare di arrivare fino alla superficie della Terra, in maniera che la gente potesse in linea di massima muoversi, benché nell’inverno successivo la luce del giorno avrebbe raggiunto al massimo un debole chiarore. Solo nella tarda primavera dell’anno successivo, la gente abitante alle latitudini settentrionali avrebbe rivisto il Sole.

L’energia dispersa in un solo istante nell’Oceano Artico fu enorme secondo i criteri umani e superava la quantità di energia consumata dalla specie umana in tutta la sua storia. Essa fu sul punto di sciogliere il ghiaccio dell’oceano, il mostruoso conglomerato di iceberg esteso su due milioni e mezzo di chilometri quadrati. Non lo sciolse, comunque; le circostanze vollero che entrasse in ballo un altro fenomeno oltre alla fusione diretta del ghiaccio. L’energia fu più che sufficiente per dare origine a immense correnti in entrata nell’Oceano Artico e in uscita da esso, correnti che trascinarono il conglomerato degli iceberg verso sud, soprattutto attraverso il canale tra la Groenlandia e la Scandinavia. Un fenomeno del genere si verifica normalmente nel Nord durante l’estate, ma su scala relativamente molto ridotta. Questa volta, invece, si manifestò su scala enorme. Iceberg con una superficie complessiva di due milioni e mezzo di chilometri quadrati defluirono verso sud nell’Oceano Atlantico dove incontrarono acque che erano state appena riscaldate al massimo durante l’estate al nord. Tutti questi iceberg in movimento verso sud erano condannati a sciogliersi gradualmente. I più grossi sarebbero sopravvissuti durante il successivo inverno nell’emisfero settentrionale e penetrati in gran numero a sud della Gran Bretagna, minacciando la navigazione fino alle regioni tropicali. Nonostante ciò era solo una questione di tempo — di mesi, in realtà — perché ogni iceberg si sciogliesse centimetro per centimetro, finché non ne fosse rimasto solo acqua.

Con lo strato superficiale di ghiaccio così «scremato» dall’Oceano Artico, così come una persona potrebbe «scremare» uno strato di alghe dalla superficie di uno stagno immobile, l’acqua sarebbe risalita dalla profondità e una trasformazione enorme con effetti di lunghissima durata e grande significato per tutta la Terra si sarebbe raggiunta. Secondo gli scienziati, l’Oceano Artico si era congelato oltre un milione e mezzo di anni fa. Questo fenomeno che bloccava il movimento libero dell’acqua in superficie si ripercosse sul clima di tutto l’emisfero settentrionale e, fino a un certo punto, di tutto il mondo.

Con il ghiaccio di superficie ora in processo di scomparire, il clima mediterraneo della Francia meridionale si sarebbe spostato nel corso di pochi anni a nord fino all’Inghilterra meridionale. I campi di grano del Canada si sarebbero estesi molto di più a nord e la Siberia avrebbe finalmente offerto buone prospettive agricole.

Nel corso di qualche secolo, la grande cappa di ghiaccio della Groenlandia si sarebbe sciolta un po’ alla volta, mettendo a nudo un nuovo continente di forma simile a una scodella, con montagne alte alla periferia e una depressione abitabile all’interno. Si sarebbe verificata anche una parziale fusione degli ancora più ampi campi di ghiaccio e ghiacciai dell’Antartico, un fenomeno che assieme alla fusione dei ghiacci della Groenlandia avrebbe innalzato di circa trenta metri il livello dei mari ovunque. L’ulteriore processo di fusione avrebbe costretto la gente a trasferire molte delle più grandi città del mondo su terreni più elevati e a costruire dighe per proteggerle. Tutto questo sarebbe accaduto naturalmente nel corso di vari secoli, non in un momento. Tirando le somme, nessuna generazione dei secoli futuri avrebbe potuto evitare di rendersi conto di quanto era avvenuto durante l’avvicinamento della cometa di Halley nel 1986, perché le conseguenze della sua comparsa sarebbero state evidenti. In realtà, i particolari di ciò che era accaduto durante l’avvicinamento della cometa di Halley sarebbero stati ricordati anche quando la parola superpotenza avrebbe cessato di avere un significato. Questo doveva essere il risultato storico a lunga scadenza di tutti questi avvenimenti.

74

Al momento in cui la presero sembrò una decisione semplice e di scarsa portata. D’altra parte avrebbero potuto ben difficilmente prevedere gli eventi che il futuro teneva in serbo. Per rispettare le tradizioni della famiglia, Frances Margaret e Isaac Newton stabilirono di sposarsi nella chiesa di Outerthwaite, la cittadina più vicina alla valletta dove la famiglia della sposa risiedeva da tanto tempo, vicino alla più nota valle del Duddon. Non si sposarono subito, ma aspettarono che il sole splendesse di nuovo in tutto il suo fulgore. Kurt Waldheim, che doveva fare il compare d’anello, si riservò il compito di determinare la data precisa dello sposalizio mediante complessi e difficili calcoli con il computer, calcoli riguardanti il tempo che sarebbe stato necessario perché la coltre di cristalli di ghiaccio nell’atmosfera superiore evaporasse via. Poi vennero aggiunte tre settimane per permettere ai narcisi selvatici dal gambo corto, che crescono in gran profusione in tutto il distretto di Broughton, di sbucare trionfalmente tra la neve residua di un inverno buio e duro. Così la data delle nozze venne spostata verso la fine di maggio e debitamente fissata.

Le prime mosse per movimentare quella che doveva essere una riunione di famiglia vennero compiute dai due fratelli di Frances Margaret, entrambi ufficiali nella Royal Navy. Essi decisero di solennizzare l’avvenimento con la presenza di un gruppo di colleghi, il che venne considerato ufficialmente come una cosa senz’altro appropriata in vista dell’alta posizione occupata a suo tempo nella Marina da Guerra dal padre, viceammiraglio Sir James Haroldsen. Erano attesi anche alcuni, pochi, personaggi politici di primo piano, ma in forma strettamente privata, in maniera da sfuggire all’attenzione della stampa. Ma tutto fu inutile perché i russi comunicarono improvvisamente a metà gennaio che avrebbero mandato una delegazione. All’avvenimento veniva attribuita una grande importanza nell’Unione Sovietica dove i membri del Politburo erano guariti in maniera all’apparenza miracolosa dal prurito folle. Qualcuno aveva notato che la guarigione era coincisa con il discorso di presentazione tenuto da Isaac Newton all’assemblea internazionale a Versailles.

L’intervento dei russi mise immediatamente l’evento in una luce completamente diversa. Se, infatti, interveniva una rappresentanza sovietica, dovevano intervenire anche rappresentanze di altre nazioni, specie dell’Europa e dell’America del Nord. Effettivamente, gli avvenimenti riguardanti la cometa di Halley stavano già assumendo le qualità di una leggenda. Da quel modesto avvenimento familiare che erano, le nozze si stavano così trasformando in un affare di stato. Al punto che la semplice presenza di un gruppo di colleghi dei fratelli schierati all’uscita della chiesa si mutò in una rigida cerimonia formale nella quale erano coinvolti anche vari ufficiali di grado elevato. Il giorno delle nozze ebbe inizio con un’aria mite e qualche nebbiolina qua e là e arcobaleni all’apparenza sparsi un po’ dappertutto. Quando Isaac Newton e il suo compare d’anello arrivarono in anticipo alla chiesa, scoprirono che questa era stata decorata con rami di betulla e, naturalmente, grandi mazzi di narcisi dal gambo corto.

A Kurt Waldheim venne in mente il suo matrimonio, avvenuto in tempi non tanto lontani. La chiesa di Outerthwaite non aveva mai cambiato aspetto nei lunghi anni della sua esistenza. Generazioni su generazioni di gente del posto erano state battezzate qui, si erano sposate ed erano morte, accompagnate da cerimonie di ogni specie, diverse le une dalle altre. Una generazione dopo l’altra risaliva nel tempo ai giorni in cui la sua gente era emigrata dalla pianura germanica e dai suoi confini settentrionali. Tenendo conto della maniera in cui i media prendevano in considerazione il passare del tempo — fino all’ultimo minuto e ultimo secondo — si trattava di avvenimenti risalenti ai primordi. Ma se si faceva un confronto tra gli anni trascorsi, calcolati in base ai giri compiuti dalla Terra intorno al Sole, ci si accorgeva che tutto questo era molto recente.

Isaac Newton aveva in mente i propri genitori, seduti immediatamente dietro a lui nella prima fila della congregazione riunita. Per loro, questo era un mondo diverso, questa valle verde della Regione dei Laghi che saliva dai pascoli fino alle alture rocciose, coperte di neve. Eppure, per loro non sarebbe stato tanto difficile abbandonare la terra rossa coltivata del Devon per trasferirsi sulle colline coperte d’erba degli allevatori di bestiame, quanto prendere stabile dimora in una città. Ormai erano logori dal lavoro come lo sono tutti i coltivatori quando arrivano alla sessantina, solo che si godevano il tranquillo trionfo sulla vita come tutte le persone abituate a vivere a stretto contatto con il pianeta Terra. Isaac Newton si era spesso domandato perché i suoi genitori avessero scelto per lui quel nome di battesimo. Probabilmente c’entrava qualcosa che avevano visto o letto. In realtà non stava bene chiamare un bambino con il nome Isaac Newton così come non stava bene chiamarlo William Shakespeare.

La sposa arrivò al braccio del padre. Mentre avanzavano lungo la corsia centrale, Frances Margaret si domandò come mai la cerimonia avesse finito per assumere importanza ai suoi occhi quando, tanto per essere sinceri, viveva da ormai due anni come una donna sposata. Doveva entrarci in qualche maniera il fatto di essere nata con dodici dita ai piedi, decise, di essere stata capace di risolvere equazioni di secondo grado o di fare cose del genere all’età di dieci o undici anni. Le persone nate con dodici dita ai piedi erano costrette ad andare raminghe per il mondo per unirsi ad altre persone nate con dodici dita. Queste persone formavano una comunità che sconfiggeva i pregiudizi locali, che non si curava di razze e religioni, una potente comunità che aveva finito per accumulare un numero sufficiente di cognizioni per lanciare i suoi messaggi dalla Terra stessa e unirsi a un universo ancora più vasto. Eppure non era una comunità veramente autosufficiente. Non si riproduceva di generazione in generazione. Senza le sue radici nelle valli verdi e nel suolo rosso sarebbe presto andata in disfacimento e scomparsa. Era a causa di queste radici che la cerimonia era importante.

La cerimonia stessa fu breve. Frances Margaret e Isaac Newton si accorsero veramente della presenza della congregazione solo mentre superavano la breve distanza dall’altare alla porta della chiesa. Oltre alle rispettive famiglie erano presenti il Comitato per il Progetto Halley e vari appartenenti al personale del Cavendish Laboratory. Ma c’erano anche altre persone che gli sposi non si aspettavano. Frances Margaret intravide la donna americana dai capelli scuri e con le fossette sulle guance che non poteva fare a meno di ridere tutte le volte che vedeva Frances Margaret. C’erano Dave Eckstein, che aveva recitato una parte significativa in un momento critico, e sua moglie. C’era anche lo stesso russo che aveva capeggiato la delegazione sovietica al castello di Versailles, un uomo dalle risate grasse che era risalito nei ranghi del Politburo, a quanto sembrava, al Numero Sette.

Isaac Newton intravide John Jocelyn Scuby. Un’altra sorpresa fu la presenza di Alan Bristow della rivista «Nature». C’era pure Eriksson. Del resto sarebbe stato difficile non vederlo a causa della sua alta statura, una cosa che invece avrebbe potuto accadere con John Jocelyn Scuby. Isaac Newton scambiò un’occhiata con Eriksson mentre gli passava accanto nella corsia e così gli ritornò alla mente il ricordo di quando gli aveva restituito il cifrario.

Quando uscirono dalla chiesa, trovarono un distaccamento della Marina in perfetta ordinanza fino all’ultimo particolare. Isaac Newton ricordò il momento in cui vi era stato grande bisogno di una guardia al laboratorio, solo che la guardia era stata fornita in quell’occasione dall’Esercito, non dalla Marina. In fondo era la stessa cosa, decise, fino a quando esisteva uno spirito di corpo.

Mentre poco prima il tempo non sembrava passare mai, ora gli avvenimenti incalzavano. Improvvisamente, Isaac Newton si accorse che stava tenendo il discorsetto di prammatica al termine del rinfresco nuziale. Era un’incombenza che aveva più o mena temuto, ma che riuscì ad assolvere quasi senza sforzo. Il Primo Ministro rispose a nome degli ospiti. Come al solito, non una sola parola del suo discorsetto fu fuori posto.

Un grande fienile era stato sgombrato per il ballo della sera. Eriksson aveva portato dalla Svezia una piccola comitiva. Le ragazze assomigliavano molto nell’aspetto a Frances Margaret, proprio come aveva detto Eriksson. La comitiva era composta da esperti in danze campestri, gente che arrivava su fino alle travi. Questo fu lo spunto per i danzatori russi di «trepak» che erano stati mandati per fare sfoggio della loro forza di gambe, piegandosi però sulle ginocchia invece di volare verso il soffitto. E così pure la burocrazia russa trovò lo spunto per dare una prova della sua cronica incapacità di far funzionare qualsiasi cosa come si deve. Nella preparazione dei documenti di viaggio erano stati trascurati inavvertitamente i musicisti che dovevano accompagnare le esibizioni dei danzatori di «trepak». In questa impasse, nessuno si meravigliò che intervenisse il rettore del Trinity College con la sua fisarmonica, in qualità di esperto. Era una delle tante piccole cose utili che aveva imparato nei tempi passati quando faceva teatro, raccontò alla folla quando i danzatori di «trepak» furono completamente esausti. A differenza dei soliti musicisti afflitti da modestia che rimangono sullo sfondo, infatti, il rettore del Trinity si era piazzato davanti ai danzatori, sbaragliandoli con il suo vocione. In realtà furono sbaragliati tutti quanti, una cosa nella quale la Reale Marina Britannica si rivelò insuperabile.

75

Quando l’aereo decollò dall’aeroporto di Manchester per puntare a sud in direzione della Grecia, Frances Margaret e Isaac Newton si adagiarono sui sedili con gli occhi chiusi, sulle prime contenti che tutto fosse finito. Nella mente avevano ancora le facce di coloro che li avevano salutati alla partenza con un grande agitare di braccia — i Waldheim, la signora Gunter di Cambridge, il rettore, il Cancelliere, i personaggi stranieri di alto rango, le rispettive famiglie. Dopo essersi ridotto a un fascio di nervi durante gli ultimi giorni, giorni nei quali aveva finito per contare le ore che lo separavano dal momento in cui sarebbe stato finalmente libero, Isaac Newton fu colto improvvisamente da una profonda tristezza. Ora che tutto era davvero passato, si rese troppo tardi conto che nulla al mondo avrebbe potuto far ritornare quelle giornate. Benché gli avvenimenti fossero ancora vicinissimi e perciò più che ben impressi nella memoria, questa sarebbe diventata sempre più indistinta con l’andar del tempo. Alla fine sarebbe rimasto solo il ricordo di poche persone anziane, una vernice grigia su ciò che era stato così vivo e vibrante nel breve corso dell’esistenza.

Similmente, gli avvenimenti degli ultimi due anni sarebbero stati inghiottiti dal tempo, per diventare infine una favola mentre la Terra sarebbe emersa dall’oscurità per diventare il centro di comunicazioni del sistema solare. Dopo gli avvenimenti particolarmente drammatici seguiti al discorso di presentazione di Isaac Newton a Versailles, non potevano esserci più dubbi. La sua idea di un’ampia rete di comunicazioni con le comete avrebbe finito per prevalere. Non che ciò avrebbe posto fine alle rivalità umane. Ci sarebbero state rivalità riguardanti i sistemi elettronici, la dislocazione delle attrezzature, i contratti per la costruzione delle apparecchiature. Tutti avrebbero continuato a spingere senza fine come nel passato, solo in un’altra direzione.

«Quando ero ragazzo», disse Isaac Newton a Frances Margaret, «andavo in vacanza in un posto in Cornovaglia. C’è un punto dove puoi scendere lungo gli scogli fino a una distanza di circa quindici metri dal mare. Se arrivi quando la marea è al livello giusto, troverai una coppia di beccacce di mare sempre appollaiata sullo stesso scoglio, perché quando la marea si trova a quel livello c’è sempre una pozzanghera tra gli scogli dove i crostacei, o ciò che mangiano, finiscono in secca. Osservandole ho potuto fare molte interessanti deduzioni.»

«Come, per esempio?»

«Beh, poiché le mie osservazioni abbracciano un intervallo molto più lungo della vita di un singolo uccello, conclusi che quel particolare punto su quel particolare scoglio dovesse essere trasmesso da una generazione all’altra. Così come gli affari umani vengono trasmessi dal padre al figlio.»

«Questo è sicuramente molto interessante.»

«Forse è stato un lontano avo dell’attuale generazione di beccacce di mare che ha trovato per primo quel posto. Un commercio davvero antico, come si potrebbe dire.»

«Come si potrebbe dire», gli fece eco Frances Margaret.

«Beh, mentre osservavo le pozzanghere in ebollizione tra gli scogli, mi è venuto di pensare quanto simile fosse tutto questo alla vita umana — tanto correre avanti e indietro, tanta frenetica attività, con ogni spruzzo d’acqua tra gli scogli intento a richiamare la tua attenzione. Ma tutto questo non portava ad alcuna conclusione, eccezion fatta naturalmente per le beccacce di mare. Ogni tanto arrivava rombando un’onda particolarmente alta. Al che mi dicevo: ’Eccone una che porterà via tutto’. Ma l’ondata si schiantava semplicemente sugli scogli, scomparendo. Una grande cascata d’acqua per pochi secondi, e nell’attimo successivo non c’era più niente. Senza lasciare alcuna traccia, come accade nel mondo degli uomini. Come Alessandro Magno. Come Napoleone.»

Fu a questo punto del viaggio verso sud che l’aereo venne illuminato in pieno dal sole. Isaac Newton e Frances Margaret si resero conto che il sole sopra la Baia di Morecambe era ancora parzialmente oscurato da nubi alte nella stratosfera. Era solo un simulacro del vero Sole, che apparve infine mentre attraversavano i Carpazi.

«Davvero, abbiamo avuto una fortuna fantastica per aver fatto qualcosa che non sarà dimenticata, anche se poi diventerà una leggenda e infine un mito.»

«Dovremmo essere piuttosto contenti», convenne Frances Margaret.

«Di far parte di una specie che ce l’ha fatta», continuò Isaac Newton con la stessa voce pacata. «Vuoi sapere una cosa? Non credo che ci fosse rimasto molto tempo. La ’finestra’ era molto stretta. Un secolo fa, la nostra tecnologia non sarebbe stata neppure in grado di rendersi conto della buona occasione che le veniva offerta. Tra un secolo, invece, non ci sarebbe stato più nulla da fare. Se non avessimo approfittato dell’occasione ci saremmo avviati all’autodistruzione. Era quasi come se fossimo stati programmati per riuscire presto nel nostro intento o per autodistruggerci. L’alba non ci deve mettere molto tempo a spuntare. Sembra una legge della natura.»


NOTE.


(1). Scrooge: nome del protagonista del «Cantico di Natale» di Dickens, estremamente avaro, che in inglese è diventato sinonimo di «taccagno». (N.d.T.)

(2). «Geist», in tedesco: fantasma. (N.d.T.)

(3). Il gatto che appare e scompare in «Alice nel Paese delle Meraviglie». (N.d.R.)

(4). La ionosfera, eccezion fatta per la banda ottica, è trasparente alle radiazioni solo nella banda radio, cioè a lunghezze d’onda comprese fra circa 3 millimetri e 30 metri. A lunghezze d’onda inferiori o superiori la ionosfera è completamente opaca. Il potere riflettente della ionosfera è infatti utilizzato nelle trasmissioni radio a grandi distanze (onde di lunghezza compresa fra 30 e 600 metri). (N.d.C.)

(5). Il «general board», letteralmente «consiglio generale», corrisponde al nostro consiglio d’amministrazione. (N.d.T.)

(6). Canto XI, 488–491, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Mondadori, Milano, 1968.

(7). In traduzione libera: «L’espressione marmorea della sua mente / intenta a navigare strani mari del pensiero, sola». (N.d.T.)

(8). Il motto di spirito fa riferimento a una celebre filastrocca infantile inglese: «Pussycat, pussycat, where have you been? / I’ve been to London to see the Queen..» (Micio, micio, dove sei stato? / Sono andato a Londra a vedere la regina…) (N.d.T.)

(9). Chequers: la residenza di campagna del Primo Ministro britannico. (N.d.T.)

(10). Pi-greco è un numero trascendente che rappresenta il rapporto tra la lunghezza della circonferenza e il relativo diametro; «e» è un numero irrazionale (e = 2,718281…). (N.d.C.)

(11). Il «think-tank» (riserva di pensieri) era un organo consultivo, composto da persone di altissimo ingegno, a disposizione del Primo Ministro britannico. (N.d.T.)

(12). «One-time pad»: accorgimento a livello di computer che rende assolutamente indecifrabile qualsiasi messaggio cifrato, espresso in numeri. Per una sola volta naturalmente, per sfuggire alla decifrazione per analogia. (N.d.T.)

(13). Catullo, «Carmi», traduzione di Enzo Mazza, Guanda, Parma, 1962.

Загрузка...