Frances Margaret Haroldsen infilò la bicicletta in una rastrelliera davanti al New Cavendish Laboratory per raggiungere subito con andatura da atleta l’ingresso principale. Venticinquenne, laureata in fisica, assistente di laboratorio all’università, era il tipo di ragazza che gli uomini guardano subito una o due volte e poi continuano a guardare.
Il suo ufficio si trovava in uno dei corridoi al pianterreno, un corridoio interno, buio perché di sabato pomeriggio erano accese solo poche luci. Come mai, si domandò, certi edifici, che appaiono perfettamente normali quando sono occupati nei giorni lavorativi, hanno l’aria di essere composti solo di androni e spazi vuoti quando non c’è nessuno durante il week-end. Era un pomeriggio di sabato di fine ottobre, uno di quegli indimenticabili pomeriggi di Cambridge con il cielo terso, nei quali si ha la sensazione che tutta la città sia pervasa dal fumo di legna che brucia. Gli studenti erano pronti ad affrontare il nuovo anno accademico, tutti ragazzi abbastanza giovani per credere di avere a disposizione il mondo intero. Era un pomeriggio nel quale il suono si propagava nell’aria frizzante a distanza tale che si potevano sentire persino al Cavendish Laboratory le sporadiche urla della folla radunata al campo di rugby dell’università nella Grange Road. Frances Margaret non era ancora giunta al proprio ufficio che dal fondo del corridoio venne il rumore di una porta sbattuta con forza. Un giovanotto snello, alto circa un metro e ottanta, uscì a precipizio da uno degli uffici. Nella sagoma che s’intravedeva nel corridoio mal illuminato, Frances Margaret riconobbe Mike Howarth, anche lui un assistente di laboratorio.
«Ciao, Mike, qualcosa non va?» esclamò la ragazza mentre la figura si avvicinava.
«Questa roba qui», rispose Howarth asciutto, tendendo una busta che aveva estratto con rabbia dalla tasca interna del giaccone foderato di pelliccia.
Una volta entrati nell’ufficio di Frances Margaret si vide che sulla busta spiccavano lo stemma e le iniziali del CERC, il grosso consiglio di ricerca gestito dal governo. Mentre la ragazza leggeva la lettera, Howarth deponeva la cartella, che teneva in mano, su una sedia.
«Hanno revocato il mio contratto», esplose Howarth.
«Vedo. Che peccato», commentò Frances Margaret.
«Più che un peccato è un disastro.»
«Direi che è una gran brutta cosa, Mike, tuttavia non la considererei un disastro. Il CERC non ti ha dato una coltellata né una randellata in testa.»
«Ah, no?» esclamò Howarth.
«Dovremo pensare sul da farsi», si offrì Frances Margaret, decisa a essere d’aiuto nei limiti del possibile. «Il guaio è che quelli ti diranno probabilmente che avevi imboccato un sentiero pericoloso.»
«Come avrei potuto ottenere i risultati che ho ottenuto, altrimenti?»
«Proprio per questo non è un disastro totale», continuò Frances Margaret in tono sempre incoraggiante. «Hai ottenuto qualche risultato. Il CERC non può cancellare ciò che hai già scoperto.»
«Ho scoperto abbastanza per convincere me stesso. Abbastanza per convincere te e forse qualcun altro. Ma non abbastanza per renderlo di pubblica ragione. Dovevo captare altri segnali dalla cometa di Halley. Così, la gente si limiterà a prendermi in giro. Non ti pare già di sentire le risate?»
«Possiamo appellarci contro la decisione.»
«Che illusione! Lo sai, no, come vanno a finire queste cose?»
Frances Margaret trasse un sospiro e annuì.
«Sarebbe di grande aiuto se avessimo un titolare della cattedra in grado di imporsi con la sua autorità.»
«Hanno tenuto in ballo la carica per oltre un anno, ormai», brontolò Howarth riprendendo la lettera e infilandosela in tasca.
«Immagina un po’: tenere in ballo la cattedra del Cavendish! Dio sa dove andremo a finire. Ma io sono deciso a battermi. Comunque.»
«Resta da domandarsi «come»?»
«Anche questo lo sa solo Iddio. Il laboratorio è agonizzante. Non ti è mai venuto in mente di piantarlo, Frances Margaret?»
«Continuo a pensarci. Pensavo di trovare un posto al CERN.»
Howarth prese la cartella mentre si accingeva ad andarsene e disse: «Fisica delle particelle. Una materia nella quale tu sei più esperta di me».
Segnali da una cometa, rifletté Frances Margaret mentre la porta dell’ufficio si chiudeva. Un’assurdità. Eppure c’era qualcosa di decisamente strano nei dati raccolti da Mike Howarth, per quanto scarsi potessero essere. Inoltre c’erano uno o due punti davvero curiosi che lei stessa aveva notato. Aveva pensato di parlarne a Mike, ma questi era talmente alle prese con i propri problemi che lei aveva deciso di lasciar passare il week-end. Poi, all’improvviso le parve ingiusto lasciarlo andare senza raccontargli ciò che aveva scoperto. Decisa a richiamarlo, corse fuori dell’ufficio.
Mike Howarth aveva fatto quasi in tempo a raggiungere il portone esterno del laboratorio. Mentre correva lungo il corridoio, la ragazza notò una luce diffusa proveniente da dietro l’angolo che svoltava nell’atrio principale. Pensò che Mike doveva aver acceso le luci e continuò a correre. Ma qualcosa in quella luce non andava: era troppo rossa per provenire dall’illuminazione a fluorescenza usata nel laboratorio. La luce si fece più intensa mentre svoltava l’angolo, ma quando Frances Margaret raggiunse l’atrio principale scomparve, e anche Mike Howarth era scomparso. Un’occhiata le bastò per constatare che l’illuminazione a fluorescenza non era stata accesa.
Frances Margaret riprese la bicicletta e imboccò lentamente il viale che porta dal New Cavendish Laboratory alla Madingley Road. Tentava di persuadersi che la faccenda della luce in realtà non era così sinistra come le era sembrata. Si era imposta di ritornare lungo il corridoio al proprio ufficio. Ma dopo aver preso una cartella di documenti se ne era andata in fretta, se non proprio a gambe levate. In seguito si convinse di aver saputo sin d’allora che cos’era quella luce; infatti l’avrebbe vista ancora.
Due giorni più tardi, lunedì mattina, alle dieci in punto una macchina con targa diplomatica si fermava davanti al cancello principale del CERN, il Consiglio Europeo delle Ricerche Nucleari, alla periferia di Ginevra. Un uomo dall’aspetto estremamente florido e rubizzo mostrò alcuni documenti alla guardia al cancello e questa fece subito un cenno con la mano perché l’automobile proseguisse.
Un’ora prima, due uomini si erano incontrati in uno degli uffici amministrativi del CERN. Entrambi dovevano aver superato da qualche anno la trentina ed entrambi erano studiosi di fisica. Uno proveniva da Amburgo, nella Germania Occidentale, l’altro da Cambridge, in Inghilterra — benché il lieve accento di quest’ultimo e la statura eccezionalmente alta rivelassero che non doveva essere natio dell’Inghilterra orientale bensì del sudovest dell’isola. Lui e il tedesco stavano esaminando immagini riprese in una camera a bolle, sparpagliate su un lungo tavolo.
«Beh, Kurt», osservò infine l’inglese con un’espressione insieme divertita e perplessa, «a vederlo così si direbbe proprio il quark che cerchiamo. Finalmente.»
Il tedesco aveva la fronte spaziosa e un ciuffo di capelli ribelle che era costretto a ravviarsi di quando in quando, come fece anche in quel momento.
««Ja», si «comporta» come il top quark. Pettini vuole pubblicare.»
«Pettini è un italiano. Impetuoso.»
Sulla faccia del fisico tedesco si disegnò lentamente un sorriso.
«Secondo me non bisognerebbe dirglielo in faccia.»
«Sì, ma d’altra parte non sarebbe neppure giusto procedere alla pubblicazione e poi scoprire che ci siamo sbagliati.»
«Il governo italiano sta facendo pressioni.»
«Le pressioni ci sono sempre. Nei tredici anni che mi trovo qui, al CERN, non c’è stato mai un periodo senza pressioni. Io stesso ne subisco in abbondanza. Al governo britannico farebbe un gran piacere risparmiare tutti i milioni che stiamo spendendo sul top quark.»
Ancora una volta il tedesco respinse la ciocca ribelle.
«Non sarebbe bello se gli americani rivendicassero la scoperta prima di noi.»
L’inglese annuì.
«Me ne rendo conto. E se ne rende conto anche Pettini.»
«Allora, Isaac, che cosa facciamo?»
«Consultiamo le nostre coscienze, Kurt.»
«Mi piacerebbe sapere come si fa.»
«Ne sei proprio convinto? Convinto che questo è veramente il top quark? «Realmente» convinto?»
Kurt Waldheim si mise a frugare tra le fotografie. Ne scelse una e la studiò per un attimo. Alla fine scosse la testa con espressione dispiaciuta.
«Penso che lo sia, ma non ne sono certo.»
«Vorresti fare un altro tentativo?»
««Ja», mi piacerebbe fare un altro tentativo. Ma temo che Pettini protesterà ad alta voce.»
«Sarei felice se questa fosse la mia unica preoccupazione, adesso.»
Kurt Waldheim si allontanò dal tavolo, scacciando dalla mente le fotografie.
««Ja», è da un po’ che ti vedo preoccupato, Isaac. Posso sapere di che cosa si tratta?»
«Cambridge mi ha chiesto di accettare la cattedra di Cavendish.»
Kurt Waldheim rifletté per un attimo sulla notizia e poi si strinse nelle spalle.
«Beh, e allora? Sarebbe una carica molto onorifica, e significherebbe il tuo ritorno a casa. Qualche volta è bello tornare a casa.»
«Noi abbiamo sempre in mente il Laboratorio Cavendish com’era ai tempi di Rutherford. Purtroppo, i tempi di Rutherford sono passati.»
«Tu potresti fare molto come titolare della cattedra, Isaac.»
L’inglese scosse perplesso la testa.
«Forse, se i soldi a palate non avessero rovinato tutto. Temo che tu non sappia come vanno le cose nei consigli di ricerca inglesi.»
«So come vanno in Germania.»
«Non credo che la Germania si trovi in acque altrettanto brutte.»
Sulla faccia di Waldheim comparve di nuovo lentamente il sorriso.
«E’ un po’ come la storia della mensa: si crede sempre che in quell’altra si mangi meglio che nella propria.»
«Il problema è un altro. Se dovessi rifiutare la carica, la cosa non favorirebbe certamente il finanziamento inglese al CERN.»
«Capisco che è un bel problema. Ma pensavo che ci fosse qualcos’altro.»
«Qualcos’altro?»
Kurt Waldheim annuì.
«Sì, così mi sembrava.»
Seguì una lunga pausa prima che l’inglese rispondesse: «Noi due ci conosciamo ormai da molto tempo, Kurt. Se dovessi decidermi a parlare con qualcuno a cuore aperto, questo qualcuno saresti tu».
«Posso aiutarti?»
«E’ una faccenda riservata, temo. Ma spero che non si protragga a lungo. Poi potrò concentrarmi di nuovo sul top quark.»
«Il che sarà un bene per il top quark.»
L’inglese ritornò con aria un tantino stanca alla scrivania e disse: «Dillo a Pettini con delicatezza».
Kurt Waldheim lasciò l’ufficio e il fisico inglese si avvicinò a una finestra da cui si vedevano le montagne coperte di neve sulla frontiera franco-svizzera. Era immerso nei propri pensieri quando arrivò una segretaria per dirgli: «La persona che stava aspettando è arrivata, dottor Newton». Pronunciò il nome con l’accento sull’ultima sillaba, alla francese.
L’uomo dall’aspetto florido e rubizzo aveva seguito a ruota la segretaria e si fece avanti con la mano tesa.
«Dottor Newton, sono John Jamesborough del Foreign Office.»
«Ho ricevuto il suo biglietto.»
«Sì, beh, pensavo che avremmo dovuto contattarci.»
«Perché, se mi è lecito chiederlo?»
«Ho ricevuto l’ordine di offrirle qualunque assistenza di cui lei possa avere bisogno.»
A Isaac Newton non piaceva affatto la piega che la conversazione stava per prendere secondo lui.
«Per essere sincero, non ho chiesto assistenza a nessuno. Vede, signor Jamesborough, abito ormai da tredici anni a Ginevra per cui conosco abbastanza bene la città.»
«Non avevamo in mente questo, naturalmente.»
«Sarebbe meglio, forse, se mi dicesse che cosa avevate in mente.»
«La sua relazione, dottor Newton, e il suo inoltro al Primo Ministro.»
«Non è ancora pronta.»
«Quando sarà pronta, dovrebbe essere inoltrata con la valigia diplomatica. Dal momento in cui lei, dottor Newton, metterà le parole sulla carta, queste parole assumeranno ovviamente un carattere riservatissimo.»
Un’espressione scettica attraversò come un lampo il volto di Isaac Newton.
«Ovviamente», fece eco all’altro.
«Molta gente sarà curiosa di sapere che cosa c’è scritto in quella relazione.»
«Compreso il Foreign Office, indubbiamente.»
«Oso esprimere la speranza, dottor Newton, che lei ci farà avere una copia della relazione; a titolo di cortesia, ovviamente.»
Grazie al colorito rubizzo di Jamesborough nessuno avrebbe potuto sapere se fosse arrossito o no quando fece quella richiesta. L’espressione scettica ricomparve sul volto di Isaac Newton, che rispose subito: «A questo proposito posso toglierle ogni dubbio, signor Jamesborough. Il dovere mi impone di riferire direttamente al Primo Ministro. Non tocca a me decidere se il Primo Ministro prenderà o no l’iniziativa di mandare copia della relazione a voi».
«E’ una situazione «molto» irregolare.»
La conversazione palesemente non portava a nulla. Isaac Newton riusciva a dominare sempre più a stento la propria irritazione nel sentirsi chiedere di divulgare ciò che per una questione d’onore non poteva divulgare.
«Il guaio, signor Jamesborough», cominciò con aria vagamente disgustata, «è che anche le testate nucleari sono «molto» irregolari. Mi dispiace se le mie parole suonano poco cortesi, ma nemmeno le testate nucleari sono cortesi. Le promesse fatte al Primo Ministro mi costringono a partecipare alla seduta d’oggi… per redimermi dai miei peccati.»
«C’è in vista qualcosa di speciale?»
«Spero di no. Se qualcosa di speciale dovesse accadere nel corso delle trattative sul disarmo, tutta la gente qui intorno cadrebbe in preda a shock.»
«La sua osservazione è piuttosto cinica, non le pare?» fece Jamesborough, aggrottando le sopracciglia in segno di disapprovazione e cercando nel contempo di registrare un piccolo punto a proprio favore. Senza tenere conto dell’espressione accigliata dell’uomo, Isaac Newton diede un’occhiata al proprio orologio come per far sapere di essere atteso altrove.
«Lei può considerarsi fortunato, signor Jamesborough, per non essere stato costretto ad assistere per settimane e settimane a queste trattative fra le superpotenze come ho dovuto fare io. Altrimenti, la serpe del cinismo si sarebbe insinuata da un pezzo nel suo seno.»
Isaac Newton era stato sul punto di dire «nel suo ampio seno», ma in qualche maniera aveva resistito alla tentazione.
«Posso darle un passaggio fino in città?» chiese Jamesborough.
«Grazie, ma io vado e vengo, come si dice, e preferisco la mia macchina, se non le dispiace.»
Dopo essersi reso conto che non avrebbe cavato un ragno dal buco, Jamesborough si avviò verso la porta tentando un’ultima mossa: «Terrà presente la necessità della massima riservatezza? Sarebbe estremamente imbarazzante se qualcosa dovesse trapelare».
L’espressione scettica ricomparve di nuovo sulla faccia di Isaac Newton.
«Sì», annuì. «Glielo prometto solennemente. Terrò presente la riservatezza. Me ne dimentico di rado.»
Isaac Newton parcheggiò la macchina, una grossa Mercedes, ed entrò nel centro del disarmo di Ginevra — un centro che deteneva un record di risultati negativi fin da prima del 1939 quando c’era la Lega delle Nazioni. Dopo aver mostrato il distintivo e la tessera d’identità, venne accompagnato nella sala delle conferenze da una ragazza di aspetto senz’altro più piacevole del luogo in cui si trovava. Mentre Isaac Newton si calava nella poltroncina nella zona riservata agli osservatori accreditati, i delegati delle superpotenze presero posto fronteggiandosi su varie file, come due eserciti dell’epoca classica, solo che ogni delegato portava appeso al risvolto della giacca un cartoncino con il nome, una cortesia che non si usava tra gli antichi contendenti di cause ormai dimenticate.
Un delegato russo cominciò a parlare, e l’americano s’infilò con gesto formale la cuffia in testa, apparentemente per ascoltare la traduzione simultanea di ciò che stava dicendo il russo, ma in realtà per sognare a occhi aperti. Senza alcun entusiasmo, anche Isaac Newton si mise la cuffia. Aveva il compito di preparare una relazione, tecnica e di altro genere, sulla maniera in cui il deterrente nucleare britannico veniva menzionato nelle trattative. Benché si trattasse di un argomento che i russi sfruttavano per agitare le acque ogni volta che a loro conveniva, esso non era assolutamente all’ordine del giorno, e ciò aveva consentito al Primo Ministro di chiedere una relazione tecnica piuttosto che un rapporto diplomatico. Al Foreign Office questa procedura non piaceva affatto, tanto più che la relazione veniva redatta da un «outsider» come Isaac Newton anziché da un «addetto ai lavori», che avrebbe offerto la garanzia di non disturbare lo «status quo».
Il russo parlava da un’ora e quindici minuti e Isaac Newton decise che ne aveva abbastanza. Poteva sempre leggere la traduzione, una cosa che doveva fare comunque, come del resto facevano gli americani. Ormai conosceva il percorso per uscire dal palazzo come il palmo della propria mano. Sgusciò alla chetichella fuori della sala delle conferenze e stava già per premere il pulsante di un ascensore quando un uomo che gli parve di conoscere entrò nella cabina, dietro di lui. L’uomo non si era servito della cuffia per la traduzione simultanea nella sala delle conferenze per cui apparteneva evidentemente «all’altra parte».
«C’è in vista una conclusione positiva?» chiese Isaac Newton mentre l’ascensore si metteva in moto.
«Una conclusione positiva è sempre in vista», rispose l’uomo.
«Lei dev’essere molto impegnato.»
«In Russia siamo sempre molto impegnati.»
«Immagino che debba essere una vita felice», insistette Newton, facendo del suo meglio per ingraziarsi l’individuo.
«Una vita molto felice», fu la gutturale risposta.
L’ascensore si fermò ed entrambi uscirono. Isaac Newton fece un cenno con la testa, sorrise, e disse: «Bene, sono contento di averla conosciuta. Fa sempre piacere conoscere gente allegra».
Questa piccola conversazione rispecchiava in certo senso la situazione. Quali che fossero le notizie di carattere tecnico che Newton decideva di segnalare al Primo Ministro, era pur sempre convinto che ben poche cose importanti sarebbero accadute sul fronte delle grandi potenze se non ci fosse stato un drastico cambiamento di approccio. Newton sarebbe rimasto sbalordito se avesse immaginato quanto vicino fosse il momento di un simile cambiamento e in quale misura lui stesso sarebbe rimasto coinvolto.
Due mesi più tardi, Isaac Newton prese un volo di primo mattino da Ginevra per Londra. Grazie all’alta statura e alle falcate lunghe riuscì a precedere gli altri passeggeri e fu quindi il primo ad affrontare la dogana di Heathrow. Non aveva bagaglio all’infuori di una cartella che s’era portato sull’aereo, per cui si diresse immediatamente verso l’uscita riservata ai passeggeri che non avevano nulla da dichiarare. Qui, comunque, venne bloccato da uno zelante doganiere il quale nutriva sospetti su tutti i passeggeri che dimostravano di avere fretta.
«Lei risiede in Inghilterra?» gli chiese l’uomo.
«No, in Svizzera.»
«Le dispiace aprire la cartella?»
Isaac Newton aderì alla richiesta e spiegò: «Documenti riguardanti la mia attività».
Il funzionario rovistò con la mano dentro la cartella, evidentemente alla ricerca di stupefacenti, e non si accorse della relazione di Isaac Newton sulla quale il Foreign Office avrebbe messo tanto volentieri le mani. Alla fine, il doganiere si scostò dal banco con un cenno della testa. Mentre si avviava rapidamente al posteggio dei taxi, Isaac Newton non tenne conto del consiglio di Sherlock Holmes, quello di prendere sempre il terzo taxi della fila, e prese invece il primo.
«Dove devo portarla, signore?» chiese l’autista.
«Al numero 10 di Downing Street.»
Quando il taxi s’immerse nell’intenso traffico del centro di Londra, Isaac Newton si mise a osservare le manovre delle macchine che aveva intorno, dapprima senza particolare impegno, poi con una certa attenzione. C’era come al solito un po’ di gente in attesa davanti al numero 10 di Downing Street. Che cosa aspettava? Che crollasse il mondo, presumibilmente. Un uomo con un walkie-talkie si spostò improvvisamente nella Whitehall. Un rappresentante dei mass media? Forse sì, forse no.
L’agente di polizia di servizio davanti al numero 10 era stato avvertito e Isaac Newton venne fatto entrare immediatamente nella residenza del Primo Ministro dove fu accolto da un giovanotto snello dai lisci capelli biondi. «Mi chiamo Pingo Warwick e sono il segretario particolare del Primo Ministro. Il Primo Ministro la attende.»
«Mi dispiace di essere un po’ in ritardo. C’è molto traffico. Immagino che sarei dovuto arrivare a Londra già ieri sera», fece Isaac Newton in tono di scusa, stringendo la mano di Pingo Warwick.
«Non ha importanza. Prima di farla entrare debbo dirle della colazione. Ci sarà una delegazione del Qatar, ma lei è comunque il benvenuto…»
«Vorrei prendere l’aereo del pomeriggio per tornare a Ginevra.»
Pingo Warwick annuì.
«Lo avevo immaginato leggendo il suo messaggio.» Poi salì insieme a lui la scala per raggiungere lo studio privato del Primo Ministro.
«Ha fatto buon viaggio?» chiese il Primo Ministro, come formalità.
«C’era solo un tizio della dogana che a momenti voleva sequestrare la mia cartella.»
«Non gli ha fatto vedere il passaporto diplomatico?»
«No, l’ho tenuto di riserva. Le sono arrivati i documenti?»
«No. Sarebbero dovuti già essere qui?»
«Li ho mandati con la valigia diplomatica.»
«Quando?»
«Due giorni fa. Il che non può considerarsi un gran ritardo, vista la concezione del tempo che hanno a Whitehall.»
L’osservazione fu sul punto di provocare un’esplosione da parte del Primo Ministro.
«Non un gran ritardo, eh?»
Lo disse in tono risentito. Isaac Newton finse di non accorgersene e gli porse un raccoglitore blu contenente pochi fogli.
«Ho preparato un breve riassunto della relazione integrale. Le basteranno pochi minuti per leggerlo. A proposito: qualcuno ha seguito il mio taxi da Heathrow.»
«Ne è certo?» chiese il Primo Ministro inarcando le sopracciglia.
«Durante gli ultimi tre mesi ho preso l’abitudine di stare abbastanza attento. Mi è venuta l’idea che a parecchia gente sarebbe piaciuto impedire che questi documenti arrivassero a lei.»
«Allora farò bene a leggerli subito», disse il Primo Ministro aprendo energicamente il raccoglitore. Il tono era di nuovo risentito.
John Jamesborough non trovava di suo gradimento l’incontro con Sir Arthur, un po’ perché c’era in giro la sensazione che la sua missione fosse stata un fiasco e un po’ perché l’idea di essere rimproverato in presenza di Smithfield lo irritava. In contrasto con il colorito quasi paonazzo di Jamesborough, Smithfield aveva sempre un aspetto esangue come quello delle carni messe in vendita al mercato che portava il suo stesso nome.
Un immaginario osservatore avrebbe notato che il documento racchiuso in un raccoglitore blu posato sulla lucida scrivania di mogano di Sir Arthur era identico a quello che era stato appena consegnato al Primo Ministro. Nella sua qualità di osservatore niente affatto immaginario, John Jamesborough notò con disgusto che la cenere della sigaretta che Smithfield stava fumando era caduta sulla scrivania. Tracce di questa cenere ballavano sulla superficie scura e liscia al ritmo imposto da una corrente d’aria prodotta da un grande ventilatore applicato al soffitto, ventilatore che Sir Arthur, vecchio reduce dell’India, aveva preteso nel suo ufficio in ricordo dei bei tempi passati.
Smithfield diede un’occhiata al documento nel raccoglitore blu, aspirò una boccata dalla sigaretta e disse con il solito tono incolore:
«Intelligente il bastardo, direi. Ha preso il volo della Swissair da Ginevra a Londra e si è fatto prenotare il posto dall’ufficio viaggi del CERN, senza indicazione del nome. A Heathrow non si è servito del passaporto diplomatico ma è stato identificato ugualmente per l’aspetto particolare. E’ stato tra i primi a raggiungere lo sportello dei passeggeri in arrivo e ha superato senza intralci la dogana. Non aveva bagagli, se mi spiego. L’abbiamo raggiunto nei pressi di White City mentre stava dirigendosi verso Downing Street. Ha mandato questa relazione due giorni fa con la valigia diplomatica. Perché lo ha fatto, visto che si proponeva di portarla lui stesso a Londra?»
«Forse ha avuto un ripensamento», suggerì Jamesborough.
«Ripensamento un cavolo! Lo ha fatto per vedere come avremmo reagito. A quest’ora saprà che il documento non è arrivato al Primo Ministro. E il Primo Ministro saprà come stanno le cose. Così, tutto andrà a rotoli. Mi capisce?»
Smithfield tirò un’altra boccata, espirò il fumo ed evitò a malapena di spegnere la sigaretta sulla superficie lucida del tavolo di mogano. Sir Arthur, ricordò, era molto fiero della sua scrivania di mogano. Non che sarebbe rimasto molto di Sir Arthur una volta che tutto fosse andato a rotoli.
«Avrebbe un portacenere?» chiese, un po’ in ritardo.
Sir Arthur prese in mano il raccoglitore blu.
«Beh, non sarà difficile mandare a destinazione questa roba. Dopo averla copiata, naturalmente.»
«Naturalmente», annuì Jamesborough, contento che l’incontro si stesse avviando verso la fine.
«Un ritardo di due giorni! Se il Primo Ministro lo accetterà senza protestare, non posso fare altro che invocare la protezione divina sull’Inghilterra», osservò Smithfield con quel tono di voce che da sempre suonava spiacevole alle orecchie di Jamesborough.
Il Primo Ministro depose il sottile raccoglitore blu sulla scrivania, non disse nulla per qualche istante, osservando poi: «Lei spiega tutto molto chiaramente, senza mezzi termini; proprio quello che volevo».
«Lei mi lusinga un po’ troppo», rispose Isaac Newton, schermendosi.
«Secondo me, lei non tiene abbastanza conto di un problema che i governanti devono sempre affrontare: quello di ottenere informazioni obiettive, senza pregiudizi.»
«Posso rendermene conto.»
«Ecco, vede, è impossibile governare meglio di quanto la qualità delle informazioni che uno riceve lo consenta. Beve uno sherry?»
«Da quanto ho saputo lei deve affrontare una colazione speciale.»
«Qatar. Islam. Niente alcool.»
«In tal caso accetto uno sherry secco, grazie.»
Il Primo Ministro si avvicinò a un armadietto e riempì due bicchieri dicendo: «Quelli possiedono più di un quarto di tutto il metano esistente al mondo».
«Chi? Il Qatar?»
Il Primo Ministro si avvicinò con il bicchiere in mano.
«Una cosa sbalorditiva, eh? Più di un quarto di tutto il metano del mondo riunito in un paese minuscolo come il Qatar.»
«Come pensano di distribuirlo nel resto del mondo?»
«La cosa migliore sarebbe un metanodotto verso il Mediterraneo. Poi, verso l’Europa. Questo consentirebbe alle industrie europee di andare avanti per molto tempo senza interferenze da parte del blocco orientale, il che è perfettamente in accordo con la sua relazione, non è così?»
«Come sarebbe a dire?» chiese Isaac Newton sorseggiando lo sherry.
«Beh, se noi e i francesi dovessimo rinunciare al deterrente nucleare in seguito a una soluzione nella lotta tra le superpotenze, nulla potrà impedire che l’Europa venga ricattata a fondo. Non già dalle superpotenze, in questo caso, bensì da qualsiasi stronzetto con la pretesa di aver accesso alla tecnologia nucleare. Francamente devo dire che detesto gli stronzetti.»
Come sotto l’impulso di un radiocomando, il Primo Ministro si precipitò a un tratto verso l’armadietto, afferrò una bomboletta e cominciò a spruzzarne il contenuto nell’aria con tale abbondanza che Isaac Newton coprì istintivamente con il palmo della mano il proprio bicchiere.
«Ah!» esclamò il Primo Ministro, e fu quasi un grido. «Una mosca. Odio le mosche. Arrivano qui da chissà dove. Dalla piazza d’armi della Guardia Reale a cavallo, immagino. Stava dicendo?»
«Io nulla. Era lei che stava parlando del Qatar.»
«Già, il Qatar», assentì il Primo Ministro, rimettendo la bomboletta dell’insetticida nell’armadietto e ritornando con la caraffa dello sherry. «Ma, tanto per cambiare argomento: credo che lei abbia ricevuto un’offerta da Cambridge.»
«Sì, mi è stata offerta la cattedra di Cavendish», rispose Isaac Newton senza far capire che cosa ne pensava.
«Spero che accetterà.»
«A esser sincero, pensavo di no.»
Il Primo Ministro si fece avanti con la caraffa e riempì il bicchiere di Isaac Newton aggrottando lievemente le sopracciglia. «Che peccato! Visto che lei è così franco, posso dirle altrettanto francamente cosa ne penso?»
«Naturalmente.»
«Mi rendo conto che il CERN le offre le migliori possibilità di affermazione nel suo campo, un campo che richiede tanti soldi…»
«Il top quark costa molto, questo è certo.»
«Il top quark?»
«La particella che in questo momento tutti stanno cercando.»
«Capisco. Beh, il successo da lei conseguito al CERN è quello che tutti speravamo quando, trent’anni fa, l’iniziativa cominciò a prendere forma. Comunque, bisogna sempre ricordare che sono le nazioni contribuenti come la Gran Bretagna quelle che tengono in piedi il CERN.»
Isaac Newton ebbe un sorriso non proprio divertito.
«Lei vuol dire con questo che le persone come me, impegnate nel CERN, dovrebbero offrire qualcosa in cambio? Per esempio: accettare una cattedra quando questa viene offerta?»
«Chi investe un capitale si aspetta sempre un certo profitto.»
Isaac Newton decise di prendere il toro per le corna e indicò con il dito il sottile raccoglitore blu, dicendo con un sorriso: «Potrei fare osservare che questa mia relazione…»
«… costituisce una sorta di profitto? Può farlo osservare e io sarei d’accordo con lei. In privato. Ciò che non posso fare è di prendere atto pubblicamente della sua relazione.»
«Perché no, signor Primo Ministro?»
«Perché tra noi non esiste alcun canale di comunicazione», fu la risposta inattesa del Primo Ministro.
«In tal caso, come dovrebbe ottenere informazioni? Voglio dire, su qualsiasi cosa?» chiese Isaac Newton, mostrando tutta la sua sorpresa.
Il Primo Ministro sorrise senza allegria. «Tramite l’amministrazione dello Stato o con l’aiuto di comitati di ricerca ufficialmente costituiti con l’approvazione del Parlamento.»
«Mi sembra ragionevole, sotto un certo punto di vista.»
«Sì, è una procedura che tiene lontani i ciarlatani e i gabbamondo. Con questo non voglio dire, naturalmente…»
Congratulandosi per aver eluso la questione della cattedra a Cambridge, Isaac Newton si affrettò a dire: «Posso capire anche questo. Ma non esiste così il pericolo che lei venga manipolato? Chiedo scusa se sono così esplicito».
Il Primo Ministro si scosse.
«Lei può essere esplicito finché vuole. Effettivamente «sono soggetto» a manipolazioni. Qualsiasi primo ministro ne è vittima. E’ per questo che i manipolatori si mettono a strillare come dannati quando non seguo lo schema. E’ per questo che il Foreign Office protesta a squarciagola contro la sua relazione. Secondo il ministero degli Esteri si tratta di un documento che esce dal seminato. A proposito: perché lo ha mandato con la valigia diplomatica?»
«Perché non pensassero che sarei venuto a Londra.»
«Gran Dio! Lei è sospettoso quanto me. E la cosa che fa più andare in bestia è il fatto che hanno tutto organizzato in maniera tale da impedire praticamente qualsiasi reazione. Sì, si può dare un colpetto di qua, un colpetto di là, ma non si può fare come il giardiniere che può rimettere a posto le cose con una buona potatura generale. Così io mi sfogo con le mosche. Le mosche non influenzano i sondaggi d’opinione, non ancora, comunque. Ma per ritornare a Cambridge — lei è sgusciato tra le maglie in maniera molto astuta — io ho bisogno di qualcosa per giustificare la posizione al CERN. Di un argomento solido che mi consenta di discutere. Qualcosa come il suo ritorno a Cambridge.»
Isaac Newton capì che era arrivato il momento cruciale, che doveva puntare mani e piedi se non voleva farsi sopraffare.
«Continuo ad avere la sensazione», rispose, «che sarebbe come pagare due volte la stessa merce: la prima volta con la relazione, la seconda con il ritorno a Cambridge.»
«In tal caso, lei sarebbe in credito, non le pare?» rispose rapido il Primo Ministro.
Dopo un attimo di silenzio, Isaac Newton riprese a difendersi come meglio poteva: «Potrò apparirle venale, signor Primo Ministro, ma le dispiacerebbe precisare meglio?»
Questa volta toccò al Primo Ministro concedersi una pausa di riflessione. La conversazione venne interrotta da un lieve bussare alla porta, che offrì al Primo Ministro una facile via d’uscita.
«Ah, dev’essere Pingo. Dio, come passa il tempo! Il Qatar incombe su di noi.»
Si udì di nuovo bussare. Quando nessuno entrò nonostante l’invito del Primo Ministro, Isaac Newton andò alla porta e l’aprì, e il Primo Ministro ebbe la sensazione che egli fosse inciampato in qualcosa.
Fuori c’era davvero Pingo che, afferrando Isaac Newton per il braccio, gli chiese in tono preoccupato: «C’è qualcosa che non va, dottor Newton?»
«No», rispose lui, raddrizzandosi. «Credo di essere inciampato, ecco tutto.»
«C’è un piccolo rialzo sulla soglia», fece la voce del Primo Ministro alle sue spalle. «E’ una bella seccatura, ma non c’è modo di eliminarlo. Il rialzo nel quale tutti inciampano sulla soglia dell’ufficio del Primo Ministro è diventato addirittura una tradizione.»
Pingo Warwick non ne era così sicuro.
«La macchina aspetta. E’ sicuro di sentirsi bene, dottor Newton?»
Ancora una volta, dietro di lui si udì la voce del Primo Ministro: «Certo che si sente bene. Perché non dovrebbe sentirsi bene? Quanto tempo mi rimane per andare a colazione, Pingo?»
«Circa mezz’ora.»
«Accidenti, devo affrettarmi.»
Il Primo Ministro raggiunse Isaac Newton e Pingo Warwick nel corridoio.
Dopo aver stretto la mano del fisico, il Primo Ministro sorrise e disse: «Beh, la ringrazio molto, dottor Newton. Spero di poterla chiamare professor Newton la prossima volta che ci incontreremo. Professor Isaac Newton».
Il Primo Ministro sorrise di nuovo.
«Beh, «bon voyage» e grazie ancora per la relazione. E’ proprio come la volevo.»
Dieci giorni più tardi, Isaac Newton era seduto al sole del tardo pomeriggio sulla veranda dello châlet di Waldheim a Wengen da dove lo sguardo poteva spaziare sull’immensa valle del Lauterbrunnen. Le cime più elevate dell’Oberland spiccavano già bianche sotto la prima neve dell’inverno imminente. Sul tavolo c’erano vari bicchieri e una bottiglia di vino mezza vuota. Rosie, la moglie di Kurt, stava preparando la cena.
Kurt Waldheim prese in mano un bicchiere.
«Il vino si gusta particolarmente al termine della giornata.»
«Sì», convenne Isaac Newton, prendendo a sua volta in mano il bicchiere. «Temo di non essere stato proprio in forma negli ultimi tempi, Kurt.»
«Eri un po’ assente, mi pare.»
Isaac Newton contemplò per un po’ il proprio bicchiere e a un tratto proruppe: «Ho accettato la cattedra a Cambridge».
Kurt Waldheim alzò lo sguardo verso le montagne e disse in tono pacato: «Me lo stavo domandando».
«Il vino minaccia di sciogliermi la lingua. Ecco, vedi, Kurt, all’inizio avevo intenzione di rifiutare. Poi, improvvisamente, ho cambiato idea, come se qualcosa mi avesse indotto a farlo.»
«Come sarebbe a dire che qualcosa ti ha indotto a cambiare idea?»
«Voglio dire che ho cambiato idea senza poter esercitare alcuna influenza sulla decisione. O così mi è sembrato.»
Kurt Waldheim fece una smorfia e raddrizzò il ciuffo di capelli che minacciava, come sempre, di cadergli sulla fronte.
«Non è da te, Isaac. Ho sempre pensato che tu fossi in grado di esercitare il controllo su qualsiasi cosa.»
«Infatti», rispose Isaac Newton bevendo di nuovo un sorso di vino. «Vorrei farti una domanda assurda, Kurt. Provo imbarazzo nel fartela, ma, visto che ho accennato a questa faccenda, è meglio che…»
«E’ meglio che cosa?»
«… che ti chieda se credi nei fantasmi.»
Kurt Waldheim fu colto così alla sprovvista da mordersi le labbra per la sorpresa.
««Geister!»» esclamò.
«Vedo che non credi nei fantasmi. Neppure dopo aver bevuto una bottiglia di vino.»
«Francamente, no.»
«Nemmeno io», convenne Isaac Newton. «Eppure ho visto quel coso enorme. Non era pallido né sfumato come lo raffigurano nei libri, era lucente e sprigionava un bagliore rosso-arancione. Avrei dovuto essere cieco per non vederlo.»
«Senti, Isaac, sei andato dal medico?»
«No.»
«Forse dovresti farti visitare.»
«Non l’ho fatto un po’ perché mi sento imbarazzato.»
«Non preoccupato?»
«Sono più perplesso che preoccupato. Capisci, è stato proprio nel momento in cui ho visto quella cosa che la mia decisione circa il posto di Cambridge ha fatto una specie di salto quantistico.»
Kurt Waldheim aggrottò le sopracciglia.
«Ci dev’essere un’altra spiegazione.»
«Come il «déjà vu»? Provocato da uno stress del momento? Francamente, Kurt, a una spiegazione semplicistica come questa posso arrivare anche da solo.»
«Dev’essere stata una specie di tempesta. Una tempesta, penso, durante la quale hai deciso di fare ciò che realmente volevi.»
Isaac Newton sollevò lo sguardo verso le montagne e scosse la testa dicendo: «Ciò che non capisco è perché il cervello in tempesta abbia prodotto ciò che ho visto, o ciò che penso di aver visto».
«Perché no, Isaac?»
«Era la faccia. Anche con la fantasia spinta oltre ogni limite non credo di aver potuto immaginare una faccia come quella.»
«Com’era questa faccia?»
«In realtà non posso descrivertela. Ma se proprio dovessi definirla in qualche modo direi che quel coso enorme, brillante, rosso-arancione, aveva una faccia simile alla maschera tragica greca.»
Isaac Newton svoltò con la macchina in uno spazio libero nel parcheggio del New Cavendish Laboratory, nella Madingley Road a Cambridge. Per caso, la macchina risultò puntata sul laboratorio per cui lui poté abbracciare con lo sguardo le palazzine attraverso il parabrezza mentre spegneva il motore. Le ricordava dai tempi in cui era ancora studente. Allora, quelle costruzioni gli erano sembrate enormi, ma dopo un decennio trascorso al CERN gli sembravano piuttosto piccole.
Un ritorno di timidezza giovanile lo aveva indotto ad arrivare al laboratorio molto per tempo, in maniera da poter dare un’occhiata in giro prima che la gente venisse al lavoro. Era strano come ricordasse ogni particolare, persino gli armadietti usati dal personale delle pulizie. Non sarebbe stato in grado di descrivere l’ambiente nei dettagli, tuttavia tutto gli appariva familiare, come se i tredici anni al CERN non fossero trascorsi.
Inevitabilmente, il pellegrinaggio lo portò alla raccolta dei vecchi cimeli, usati dai celebri studiosi di fisica nei loro esperimenti all’inizio del secolo, e naturalmente alla scrivania di James Clerk Maxwell, il primo cattedratico di Cavendish, l’uomo che aveva reso possibile l’industria delle telecomunicazioni. Si domandò se mai nel futuro sarebbe accaduto ancora qualcosa di simile. Sarebbero bastate ancora una volta le idee di un unico uomo seduto alla sua scrivania, oppure le ingegnose ma semplici apparecchiature, come quelle esposte nelle vetrine intorno a lui, per trasformare il mondo? O il futuro sarebbe stato interamente determinato da progetti giganteschi e organizzazioni altrettanto gigantesche come il CERN e come le multinazionali ora predominanti nel campo dell’elettronica? Era difficile pensare che le lancette dell’orologio potessero essere spostate indietro. L’ironia della sorte voleva che le organizzazioni enormi, le quali avevano ormai sopraffatto ogni università del mondo, fossero state in realtà create dalle stesse università. Man mano che le necessità aumentavano era sembrato sensato da parte dei governi concentrare le risorse in centri nazionali amministrati però per conto delle università. Questo almeno era stato l’intendimento iniziale. Ma con il progressivo sviluppo del sistema nel corso degli anni, le organizzazioni centrali si erano arrogate fette di potere sempre più ampie, finendo per lasciare le università pressappoco nelle condizioni di un banco di balene finite in secca.
E non era questo il peggio. Le necessità avevano sopraffatto persino la capacità delle singole nazioni, per cui era sembrato ragionevole amalgamare le risorse di parecchi popoli, esattamente com’era stato fatto al CERN, con conseguenze prevedibilmente identiche. Gli organismi internazionali si erano trasformati vieppiù in entità autonome. In teoria, le nazioni coinvolte potevano esercitare un controllo di essi negando o riducendo i contributi finanziari. Effettivamente si udivano a tratti proteste in questo senso, ma senza che accadesse in realtà qualcosa. Nessun governo era disposto ad accettare la disapprovazione degli altri ritirandosi. Anzi, le organizzazioni internazionali erano diventate così potenti da spremere costantemente persino i centri nazionali. Le università erano state addirittura espulse come i noccioli di tante ciliege schiacciate tra il pollice e l’indice.
Isaac Newton si rendeva perfettamente conto — purtroppo con rammarico e in ritardo — che stava facendo la figura di un folle donchisciottesco per essersi messo in una posizione dalla quale era costretto a combattere una simile situazione. Era in effetti ciò che il suo ritorno a Cambridge implicava.
Queste furono le riflessioni di Isaac Newton mentre scendeva gli scalini a fianco dell’aula magna. Improvvisamente, un lontano richiamo interruppe il corso dei suoi pensieri. Il richiamo proveniva dal fondo di uno dei corridoi a raggiera. Isaac Newton riconobbe la sagoma che si stagliava nel corridoio prima di riuscire a distinguere il volto dell’uomo che correva verso di lui.
«Ma guarda chi si vede, il vecchio Scrooge!» (1) esclamò Isaac Newton mentre si stringevano la mano.
«Il giovane Isaac Newton! Sa che non è cambiato per niente? E ora è professore e ordinario! Chi lo avrebbe mai detto, quando arrivò qui! Quanto tempo sarà passato da allora?»
«Diciannove anni, penso.»
«Diciannove anni fanno una bella differenza, non le pare, professore?»
Scrooge era l’assistente che da tempi immemorabili sovrintendeva al magazzino del laboratorio. Godeva da sempre fama di essere estremamente avaro e puntiglioso nella consegna dei materiali — era del resto a questo che doveva il nomignolo — una reputazione che coinvolgeva tutto il personale amministrativo, ivi compreso lo stesso cattedratico. Scrooge era piaciuto a Isaac Newton sin da allora, diciannove anni prima, quando, timido studente, era venuto a Cambridge per sostenere l’esame di prammatica per ottenere la borsa di studio. Nell’esame di fisica sperimentale gli era stato consegnato un galvanometro guasto che Scrooge aveva sostituito senza protestare. Inoltre, Scrooge gli era sempre piaciuto per la maniera in cui usava l’aggettivo «giovane», il «giovane» Isaac Newton, non gli altri aggettivi sprezzanti che il ragazzo aveva dovuto sopportare nei suoi rapporti con l’ambiente. Scrooge era invecchiato. Gli edifici erano gli stessi, ma le rughe sulla faccia dell’assistente fecero capire a Isaac Newton che era passato un bel po’ di tempo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Scrooge disse: «Tra due anni vado in pensione. Ma non si preoccupi, professore. Baderò a lei finché resterò qui».
«Quando è venuto qui?»
«Prima dell’ultima guerra.»
«Ai tempi di Rutherford?»
«Nell’ultimo anno, prima che morisse. Avevo appena lasciato la scuola. E’ stato il mio primo e unico lavoro.»
«Doveva essere un lavoro entusiasmante, a quei tempi.»
«Lo era. Da allora non è stato mai più lo stesso», commentò Scrooge, affrettandosi a soggiungere: «Ma lo sarà di nuovo, ora che lei, professore, è ritornato».
«Faremo del nostro meglio.»
«Beh, professore, noi certo non facciamo del nostro meglio se restiamo qui, a chiacchierare, per tutto il giorno. Io devo fare un po’ di inventario e lei avrà bisogno di vedere il Drago. La troverà nel suo ufficio. Arriva di buon’ora, come me.»
«Drago» era da sempre il nomignolo della segretaria del professore ordinario della cattedra. Isaac Newton aveva già parlato per telefono con il Drago. Era una signora dal fortissimo accento scozzese e lui se l’immaginava piuttosto in carne e sui cinquantacinque anni, una supposizione che si rivelò quasi perfettamente aderente alla realtà. Era appena entrato nel proprio ufficio che il Drago fece la sua comparsa, massiccio, possente, un bloc-notes in mano.
«Ah, signora Gunter, sembra che siamo arrivati entrambi prima dell’orario.»
«Io vengo sempre prima dell’orario, professore, e ne sono orgogliosa», osservò il Drago mentre si stringevano la mano. A questo punto, Isaac Newton si sovvenne che conosceva il nome del Drago, eppure si trattava di una donna che non aveva mai visto. Invece non aveva la minima idea di come Scrooge si chiamasse in realtà. Il fenomeno doveva avere la sua importanza, anche se Isaac Newton non sapeva in che cosa essa potesse consistere. Non che il Drago gli lasciasse del resto molto tempo per riflettere. Agitando vistosamente il grosso bloc-notes, la segretaria disse: «Potremmo occuparci degli appuntamenti e dei comitati, professore, in maniera che lei possa farsi un’idea dello stato delle cose». Il Drago era evidentemente una di quelle segretarie che pretendono di regolare l’attività del loro capo.
«Non ho preso alcun appuntamento, signora Gunter, e non faccio parte di alcun comitato», rispose Isaac Newton, pensando che tanto valesse rimettere le cose subito a posto e ristabilire la scala gerarchica.
«Sì che ne fa parte, professore, se permette. Oggi dopo pranzo c’è una riunione del Consiglio di Facoltà. Lei ne fa parte «ex officio». Poi, mercoledì, c’è una riunione del Comitato McFarlane. Anche di questo comitato lei fa parte di diritto. Il professor Boulton desidera parlare con lei. E’ urgente, dice. Boulton è professore di geostrofica, dall’altra parte della strada. Uno degli assistenti, Michael Howarth, vuol parlare con lei. Anche lui dice che è urgente, il che può essere senz’altro vero dato che è coinvolto in uno scandalo sul quale preferirei che lei venisse informato da altri, non da me. E poiché il signor Clamperdown del CERC viene a farle visita per parlare dello stesso scandalo, verrà a sapere senz’altro i particolari da lui. Dice che gli piacerebbe venire domani pomeriggio, ma vuole che io gli confermi l’appuntamento dopo aver parlato con lei.»
«Grazie, signora Gunter, e ringrazi il signor Clamperdown perché ha la delicatezza di aspettare una conferma del suo appuntamento. Sarebbe in grado di farmi avere un elenco di tutti questi impegni insieme formidabili e sorprendenti?»
L’osservazione indusse il Drago a dire, più tardi, durante il tè delle undici, alla sua amica, segretaria del professore di cristallografia, che il nuovo ordinario della cattedra prometteva di rivelarsi un tipo «un tantino difficile».
Il Drago, comunque, era convinta di potergli tenere testa senza difficoltà.
«Ho già pronto l’elenco», disse, estraendo come un prestigiatore un foglio di carta dal bloc-notes. «C’è un altro argomento importante che non ho incluso nell’elenco, ma che dovrei spiegarle, professore. Da un giorno all’altro aspettiamo una visita del «Geist»» (2).
«Il «che cosa», signora Gunter?»
«Il «Geist». Lo chiamiamo così, professore, perché non sappiamo mai in che giorno o in quale parte della giornata possa farsi vivo.»
«E chi sarebbe, se mi è concesso di chiederlo, questo «Geist»?»
«Preferirei che lei lo scoprisse da solo, professore, quando sarà venuto il momento.»
«Perché lui compaia?»
«Si, professore.»
«E io dovrei restarmene seduto qui, con le mani in mano, aspettando che il fantasma si manifesti?»
«Lei non deve stare con le mani in mano, professore, tuttavia sarebbe bene che lei si trovasse a portata di mano. I capi degli altri istituti lo fanno.»
A corto di argomenti, Isaac Newton si accontentò di rispondere: «Informi il signor Clamperdown che può venire domani per farmi il suo racconto scandalistico. Benché non sappia che cosa accadrebbe se il «Geist» o il Gatto del Cheshire (3) dovessero comparire durante la sua visita. E’ una prospettiva troppo orrenda per essere presa in considerazione».
Il Drago sbuffò in modo ben udibile di fronte a questa mancanza di senso di responsabilità. «Francamente», disse più tardi in tono cupo all’amica segretaria del professore di cristallografia, «non credo che occuperà per molto tempo quel posto.» Un sentimento che Isaac Newton cominciava a condividere.
«Lei scrive sotto dettatura, signora Gunter?»
«Naturalmente, professore.»
«Dovrei dettarle qualche lettera. Diciamo tra un’ora?»
«Benissimo, professore, se non è disposto a farlo ora», rispose il Drago raddrizzandosi. Con questo atteggiamento la segretaria sparò la sua ultima e, sperava, decisiva bordata.
«Posso darle un consiglio, professore?»
«In che cosa consisterebbe questo consiglio, signora Gunter?»
«C’è una signorina nel suo istituto, professore, che lei dovrebbe evitare. Quella non promette che guai.»
«Ecco una notizia molto interessante… voglio dire, «grave», signora Gunter. Chi sarebbe questa signorina?»
«Si chiama Frances Haroldsen. Gode fama di essere attraente, benché molte di noi dubitino che sia veramente così carina come pensano gli uomini.»
«E’ una delle segretarie, la signorina?»
«Ma no!» esclamò il Drago a voce alta. Sembrava offesa. «La signorina Haroldsen è una delle assistenti dimostratrici di laboratorio, benché non me la senta di dire che cosa dimostra.»
«E lei vorrebbe darmi il consiglio di girare al largo di questa giovane donna?»
«Le consiglierei qualcosa di più. Se fossi in lei la accompagnerei al portone e le direi: ’fuori dai piedi!’»
Il Drago batté le mani con un gesto che secondo lei doveva significare disprezzo, e riuscì a farlo senza lasciar cadere il grosso bloc-notes, che rimase in posizione come se fosse calamitato al braccio.
«Altrimenti, «lei stesso» si troverà nei pasticci, professore. Badi a quello che dico.»
L’inizio del quarto movimento della Pastorale di Beethoven risuonò alle orecchie di Isaac Newton mentre il Drago usciva dalla stanza, un inno di ringraziamento dopo la tempesta. Il professore contemplò per un attimo la possibilità di lasciare l’ufficio per fare un’altra chiacchierata con Scrooge, ma poi decise di telefonare a Kurt Waldheim al CERN, servendosi di una carta di credito in maniera che nessuno potesse fargli notare che le telefonate internazionali erano vietate dalle regole del Comitato McFarlane. E per escludere la possibilità che il «Geist» intercettasse la conversazione, parlò in francese concludendo con questa frase: «Conto di ritornare a fine settimana. Qui sono finito in una specie di ricovero per dementi».
Simile a un uccello in volo, un uomo sulla cinquantina irruppe nell’ufficio di Isaac Newton.
«Sono Boulton di Geostrofica», disse. «Scusami se entro direttamente, ma la tua segretaria, la signora Gunter, mi fa venire i brividi. Se fossi in te, me ne libererei.»
«Davvero?» rispose Isaac Newton dopo aver stretto la mano del nuovo venuto.
«Il guaio è che per oltre un anno questo istituto non ha avuto un vero e proprio responsabile. E quando manca il gatto i topi ballano. E’ una bella fortuna che tu sia arrivato così presto. Abbiamo continuato a offrire la cattedra per parecchio tempo prima che facessero l’offerta a te.»
Ricordandosi che Boulton aveva fatto parte del comitato elettorale per l’assegnazione della cattedra, Isaac Newton chiese: «Sarebbe fuori posto se ti ringraziassi per quanto hai fatto per me?»
«Per essere franco, ho pensato che dovevi essere un po’ svitato per aver accettato la carica. Io non l’avrei fatto. Naturalmente, io conosco tutti i problemi che ci sono qui. Inoltre non possiamo contare su organismi internazionali che si occupino delle scienze dedite allo studio della terra. Io me la cavo perché ho un contratto con l’Università della California, per il quadrimestre estivo ogni anno. Tra un paio di settimane sarò li. E’ per questo che sono venuto a trovarti. Saresti disposto a prendere la mia casa?»
«Non ho intenzione di fare acquisti, per essere sincero.»
«Oh, non intendevo vendertela. Voglio dire: solo mentre sono via. E’ un posticino abbastanza carino nella Adams Road. Mi pagheresti un affitto nominale. Ciò che realmente voglio è di avere la casa occupata da qualcuno, altrimenti me la scassinerebbero di sicuro. Vorrei affidarla a qualcuno che non mi rovini l’impianto stereo o altre cose del genere. Dove abiti adesso?»
«Nel College.»
«Per alcuni giorni va bene, ma non ci resisteresti a lungo. Troppo poco spazio. A proposito, se hai intenzione di liberarti di qualche tuo assistente, ce n’è una che non mi dispiacerebbe avere. E’ veramente uno schianto. L’hai già vista?»
«Non ancora.»
«Beh, quando la vedrai capirai perché ti suggerisco la casa. Posso considerarti interessato?»
«Sì, la cosa mi interesserebbe. A quanto ammonterebbe, se mi è concesso chiederlo, l’affitto nominale?»
«Secondo me, trecento al mese sarebbe più o meno la somma giusta. Stavo pensando di comprare franchi svizzeri. Qual è il futuro del franco, secondo te? A breve scadenza, voglio dire.»
«Direi che il franco svizzero ha l’abitudine di essere stabile, per cui è probabile che continui a restarlo.»
«Credo anch’io. Immagino che al CERN ti pagassero in franchi. Se possiedi qualcosa da quelle parti, ti conviene tenerlo. Specialmente se si tratta di un conto in banca.»
«Già che sei qui, ti dispiacerebbe chiarirmi alcuni punti procedurali?» disse Isaac Newton nella speranza di imprimere una svolta alla conversazione.
«Riguardanti il funzionamento dell’Università?»
«Sì.»
«Troverai tutto nell’opuscolo «Statutes and Ordinances», la raccolta delle varie norme. Tutti si attengono a quanto sta scritto lì. A non tenerne conto è facile inguaiarsi.»
«Ci troverò anche il Comitato McFarlane?»
«Oh, no, quello no!»
«Che cos’è il Comitato McFarlane?»
«Una perdita di tempo. Grazie a Dio, non ne faccio parte. Qualcuno ha avuto l’idea di unire le facoltà di fisica e chimica alla facoltà di ingegneria. Lo scopo sarebbe quello di risparmiare soldi evitando i doppioni, ma le discussioni non finiranno mai. In ogni caso c’è in giro la voce che McFarlane, il presidente, sia morto ormai da sei mesi, e che l’Università non se ne sia ancora accorta. Ecco, vedi, il Comitato avrà bisogno della sua firma se mai si dovesse arrivare alla compilazione della relazione. Così, volenti o nolenti, devono tenere pronta la sua salma. Se dovessero compilare una relazione, non esiste la minima probabilità che venga accolta. Quelli di Regent House la stroncheranno, naturalmente, benché io voterei a favore. Qualcuno dovrebbe occuparsi dell’ingegneria e fare qualcosa. La facoltà possiede in città attrezzature capaci di distruggere mezza Trumpington Street se mai dovessero entrare inavvertitamente in azione.»
«Poco fa mi hai detto che cambieresti la mia segretaria se fosse la tua. Che cosa faresti per riuscirci?»
«Che cosa farei? Le darei una spintarella che la riporterebbe dritta dritta nella sala delle segretarie a disposizione.»
«Per mettere poi un’inserzione sul giornale per trovarne una nuova, immagino?»
«No, dovresti prendere una di quelle a disposizione. Quando una è messa a disposizione, viene un’altra a occuparne il posto. Quando una esce da questo «pool», un’altra rientra. E via di questo passo.»
«Quello che mi stai dicendo è che in realtà non posso scegliermi la segretaria? Ma parli sul serio?»
La voce di Isaac Newton raggiunse un tono leggermente stridulo che venne sovrastato dalla voce del professore di geostrofica.
«E’ così che funziona il sistema di Cambridge», disse Boulton con aria indifferente. «Per quanto riguarda la casa, comunque, siamo d’accordo? Volevo invitarti a una festa del College, solo che a quell’epoca sarò già via.»
«Potrei dare un’occhiata alla casa?»
«Ci sono alcune cose alle quali devi stare attento: il gatto, tanto per cominciare. Già, e se dovesse venire un lungo periodo di siccità e tu dovessi sentire degli scricchiolii, non preoccuparti. In quella parte di Cambridge lo spostamento delle fondamenta è abbastanza comune. Andiamo pure a vedere. Potremmo bere un caffè al Ragamuffin, strada facendo.»
«Adesso?»
«Sì, adesso», rispose Boulton muovendosi con molta energia, come se dovesse alzarsi di nuovo in volo.
Isaac Newton schiacciò il pulsante del cicalino. Quando il Drago entrò, disse: «Ah, signora Gunter, sarò «ex officio» per circa un’ora».
Poi consegnò al Drago un foglio di carta sul quale aveva scritto un nome e un numero telefonico di Ginevra.
«Ho già parlato con questo signore circa un’ora fa. Le dispiacerebbe richiamarlo dicendogli che confermo l’ultima parte della nostra conversazione, specialmente l’ultima frase?»
«Che cosa devo dirgli, professore, se dovesse chiedermi dove può telefonarle?»
«Gli dica di cercarmi al Ragamuffin. Capirà perfettamente.»
Entrambi erano alti e snelli; entrambi erano studiosi di fisica. Un osservatore competente avrebbe comunque riscontrato un’enorme differenza dal punto di vista psicologico tra i due uomini. A ventotto anni suonati, Mike Howarth sembrava ancora un giovanotto sotto i vent’anni. I capelli, che portava piuttosto lunghi, gli stavano ritti in testa, facendolo sembrare più alto di quanto fosse in realtà e anche meno equilibrato. Aveva i capelli e gli occhi castano chiaro e, mentre Isaac Newton si era conformato alla tradizione per cui i capi di istituto indossavano abiti formali, Mike Howarth vestiva casual, cioè la camicia e un paio di jeans. A chi gliene avesse chiesto il motivo avrebbe risposto che non poteva permettersi un abbigliamento migliore, non certo con lo stipendio che l’Università, pur piena di gratitudine, gli corrispondeva. Sotto questo punto di vista, per lo meno, i due uomini si sarebbero trovati senz’altro d’accordo, perché lo stipendio di Isaac Newton, decurtato dalle tasse, sarebbe ora ammontato a meno della metà di quanto percepiva al CERN. Gli inglesi sollecitavano in continuazione i loro espatriati a tornare a casa, ma nel contempo coglievano l’occasione per render loro la cosa molto dispendiosa. Parlavano naturalmente di «noblesse oblige», ma questo non serviva certo a pagare il conto del macellaio. Isaac Newton si chiedeva se sarebbe stato ancora in grado di permettersi abiti di buon taglio.
«Secondo te, allora, non mi rimane alcuna possibilità?» chiese Mike Howarth con voce accorata.
«No», rispose Isaac Newton. «Tu hai infranto le norme della pubblica amministrazione, e per questo peccato non esiste perdono, né in cielo né in terra.»
«Potrei rivolgermi all’«Ombudsman», al difensore civico. La faccenda mi fa andare davvero in bestia.»
«La vita dell’«Ombudsman» dev’essere davvero interessante. Ricordo circostanze vissute anni fa che assomigliano alla posizione nella quale ti trovi tu e che mi sono sembrate sempre ingiuste. C’era un tizio soprannominato Brass Jack, direttore di una delle fabbriche di qui. Beh, questo Brass Jack aveva scoperto il sistema di ottenere una produzione maggiore con la stessa quantità di materia prima. Invece di consegnare tutta la produzione, con l’aliquota di aumento, ai proprietari della fabbrica, continuò a fornire la stessa quantità di prima. Nel contempo si mise a vendere per proprio conto la produzione in eccesso. Poi commise il grave errore di mettersi a spendere e spandere in tutto il distretto per cui gli venne appioppato il nomignolo collegato con il rame delle monete. Naturalmente, la magagna venne a galla e al processo il giudice gli inflisse due anni di galera. E’ un po’ il tuo caso, non ti pare? Solo che nel tuo caso si tratta di questa roba qui, non di soldi», concluse Isaac Newton indicando un lungo tavolo sul quale erano sparpagliati nastri di registrazioni, dischi e parecchi fogli di grande formato.
«Con quale imputazione hanno condannato questo Brass Jack?»
«Violazione di contratto. Aveva distorto il senso del contratto stipulato con i proprietari della fabbrica. Il fatto che Brass Jack si fosse rivelato un tipo ingegnoso, come lo sei stato tu, non è servito a nulla. Anzi, credo che la soluzione ingegnosa abbia peggiorato la faccenda. In situazioni del genere, la legge tiene conto solo dei particolari menzionati nel contratto.»
«Ma io non ero sotto contratto!» esclamò Mike Howarth. «Se non per fornire ciò che ho fornito in pieno. Un satellite per telemetria con un rendimento specifico in presenza di un determinato peso. Posso farti vedere. E’ questo che dice il documento, nient’altro. Di ciò che sarebbe accaduto se fossi riuscito a risparmiare un margine di peso non si parla.»
«In questo caso, gli uomini della legge tengono conto di quel che chiamano la ’consuetudine’ vigente nei rapporti tra ’persone ragionevoli’. E’ quello che il CERC sta facendo nel tuo caso.»
«Ma in questo caso non esiste alcuna consuetudine. Oppure si potrebbe dire che la consuetudine nel lavoro con i satelliti consiste nel fatto che ognuno si sforza di rimanere entro i limiti di peso imposti, come i fantini prima di una corsa. Questo era un caso che esorbitava dalla consuetudine.»
«Eppure non la spunterai.»
«Mi sembra che il CERC si attribuisca la funzione del giudice, della giuria e del boia.»
«Proprio così il governo ha concepito il contratto del CERC vent’anni fa, e in vent’anni, giudice e giuria diventano tutt’uno e riescono a ottenere molte esecuzioni capitali. Vuoi che ti dica come la penso?» disse Isaac Newton. «Non otterrai nulla dal CERC a meno che tu non vada a Canossa vestito con un saio e il capo cosparso di cenere. Quando i burocrati vedranno contorcersi davanti a loro uno scienziato, forse rinunceranno a infierire troppo.»
«Non ho la minima intenzione di fare una cosa del genere! Di che cosa dovrei chiedere scusa? Di aver fatto una grande scoperta senza spendere un soldo? «Loro» sì che spendono milioni, e per ottenere che cosa? Roba che non serve a niente!»
A Isaac Newton non piacque l’osservazione di Mike Howarth a proposito di una «grande» scoperta. Solo uno spostato poteva usare un termine simile. Lui stesso non aveva mai definito «grande» la sua scoperta dei «vacuum strings». Si lascia che lo dicano gli altri, e basta. La denigrazione del CERC non gli dispiacque tanto. Il CERC, Isaac Newton lo sapeva, aveva le mani in pasta praticamente in ogni ramo della vita scientifica inglese, una cosa assolutamente disdicevole. Le aveva in pasta persino nelle nomine alle cariche universitarie. Alla chetichella, naturalmente, non apertamente. Si limitava a un cenno di approvazione, a una strizzatina d’occhio. Isaac Newton era sicuro che la sua recente nomina doveva essere stata approvata dal CERC. Le autorità volevano essere sicure che il CERC lo considerasse una persona «a posto», uno in grado di assicurare all’università ampi finanziamenti per le ricerche.
Il disastro di vent’anni prima, quando il CERC era stato istituito da un governo ingenuo, entrato in azione in seguito a raccomandazioni fatte da consiglieri sprovveduti, aveva ridotto le università a una misera folla di mendicanti, una situazione che era stata evitata nel caso del CERN e che doveva essere semplicemente rovesciata in Gran Bretagna se le scienze fisiche dovevano recitare di nuovo una parte degna di nota.
«Tu devi partire sempre dalla situazione di fatto, non da una situazione come la vorresti tu», disse Isaac Newton all’impulsivo Mike Howarth, seduto con aria depressa, a gambe larghe, accanto al tavolo pieno di materiale scientifico.
«Senza poter fare altre osservazioni, non saprei in quale direzione puntare. L’arrivo della cometa di Halley il prossimo anno era una situazione ideale. Ecco, vedi, stavo impostando tutto il mio lavoro su quella cometa. Poi è comparsa la cometa di Boswell per cui mi è sembrato ragionevole utilizzarla per un’indagine sperimentale. Lo devo solo alla sfortuna se qualcuno ha notato per caso che avevo inserito un’ulteriore lunghezza d’onda nella telemetria.»
«Qualcuno del CERC?»
«E’ poco probabile. Credo che sia stato uno dei gruppi universitari a denunciarmi. Qualcuno tra quella gente è capace di tutto per ingraziarsi il CERC.»
«Vogliamo ricapitolare un po’ tutta la faccenda per vedere se l’ho capita bene? La tua attrezzatura illecita, che compensava il peso che avevi risparmiato rispetto al tuo contratto per la telemetria con il CERC, era concepita per ricevere segnali trasmessi con onde tanto lunghe da riuscire a penetrare la ionosfera» (4).
«Esattamente.»
«Dato che tutte le trasmissioni effettuate dalla terra con la tua lunghezza d’onda restano intrappolate sotto la ionosfera esse non possono raggiungere il tuo satellite.»
«Esattamente.»
«Perciò, se i segnali che tu ricevevi erano di origine umana, essi dovevano necessariamente provenire da un altro satellite.»
«Esatto.»
«Beh, perché no? Intorno alla terra circolano dozzine di satelliti, di cui molti sconosciuti a noi, i satelliti militari, per esempio. Non potrebbe darsi che i segnali da te ricevuti provenissero da uno di essi?»
Mike Howarth prese dal tavolo un foglio.
«Puoi vedere tu stesso. I segnali consistono di punti e linee, un po’ come l’alfabeto Morse, solo che non sembra trattarsi di Morse, per quanto sia in grado di stabilire io. Oggigiorno nessuno si serve di questa specie di trasmissioni. Sarebbe uno spreco.»
«Potrebbe darsi che i militari lo facciano. Quelli non si curano degli sprechi.»
«Per trasmettere con una lunghezza d’onda simile occorre un’attrezzatura molto massiccia.»
«Potrebbe esistere una tecnologia nuova che tu non conosci.»
«Durante ogni orbita, il satellite è entrato nell’ombra della Terra.»
«Relativa al Sole o alla cometa?»
«Alla cometa. Tutte le volte che la terra interrompeva il contatto diretto i segnali cessavano. Per cui un satellite militare, ammesso che ci fosse, avrebbe dovuto seguire un’orbita imitante in qualche maniera quella della cometa.»
«Il che non sembra molto verosimile», convenne Isaac Newton, pensieroso, poi soggiunse: «Ma bisogna tenere naturalmente conto del fatto che sulla Terra capitano talvolta fenomeni estremamente inverosimili».
«Se fossi in grado di dare un’occhiata alla cometa di Halley, credo che potrei rispondere a questo punto interrogativo», esclamò Mike Howarth, pieno di entusiasmo.
«Ne dubito», rispose Isaac Newton in tono asciutto, spegnendo sul nascere la fiammella di speranza accesasi in Mike Howarth. «Non esiste alcun mezzo per acquisire l’assoluta certezza in questo genere di discussioni basate su indizi. Ciò che devi fare è stabilire esplicitamente qualcosa, calcolare con precisione qualcosa oppure, naturalmente, decifrare questi punti e queste linee. Hai provato?»
«Ho provato a dare un’occhiata, ma non sono andato molto lontano. Uno dei guai consiste nel fatto che il numero dei dati interpretabili è molto ridotto. Per parecchio tempo, il segnale è rimasto debole. Benché le pulsazioni siano certamente regolari, non è semplice stabilire quali di esse siano punti e quali linee; sembra un messaggio in alfabeto Morse, ma confuso.»
«Mi puoi far vedere qualche registrazione tipica?»
«Sì, devo averne qualcuna.»
Mike Howarth si mise a cercare con gesti nervosi tra le carte sparpagliate, scegliendo finalmente un foglio che consegnò a Isaac Newton insieme a un foglio di dati chiari, dicendo: «Come vedi, c’è una bella differenza».
Invece di accontentarsi di una semplice occhiata ai fogli, Isaac Newton prese una lente di ingrandimento dalla scrivania e si mise a studiare le registrazioni per lungo tempo. Alla fine si appoggiò allo schienale della poltrona e disse in tono deciso: «Questi dati potrebbero essere resi molto più intelligibili applicando una tecnica computerizzata più appropriata. Nei programmi di cui ci serviamo al CERN, il computer comincia con i dati migliori. La macchina legge la lunghezza e la forma. Poi passa ai dati un tantino meno chiari che corregge alla luce delle esperienze raccolte fino a quel momento. Fatto questo passa ai dati meno intelligibili e così via, continuando a imparare e a correggere. Sai di che cosa sto parlando, no? Hai provato?»
«Ci vorrebbe un computer più grosso di quello che abbiamo qui a Cambridge. Se chiedessi un finanziamento per farlo altrove — beh, prima di tutto ci vorrebbe un mucchio di tempo e d’altra parte posso immaginare che cosa risponderebbe il CERC a una mia richiesta di finanziamento. Inoltre dovrei consegnare probabilmente i dati ed è proprio ciò che non farò. Se debbo soffrire a causa loro, me li tengo.»
«Potrei farlo fare al CERN. Saresti disposto a passarmeli?»
Mike Howarth rifletté per un po’ e disse poi in tono estremamente serio: «Sì, penso di sì. Soprattutto perché tu hai fatto qualcosa di importante nel campo della fisica. Tuttavia ti chiederei di non dire a nessuno che cosa significano».
Isaac Newton annuì e chiese: «Hai qui tutti i dischi?»
Quando Mike Howarth annuì a sua volta, Newton continuò: «Devo andare a Ginevra in settimana. Li porterò con me e darò inizio al lavoro. Devo ancora mettere a posto varie cose al CERN per cui dovrò fare più di qualche viaggetto. Mi assicurerò che il lavoro venga portato a termine senza perdite di tempo. Scegli i dischi che ci vogliono, etichettali con cura e io li chiuderò a chiave in questa scrivania».
Isaac Newton aveva comprensione per la riluttanza di Mike Howarth a cedergli i dati, ma non si aspettava la risposta che Howarth gli diede.
«Se non ti dispiace, non lascerei i dischi qui. Li terrò io e te li porterò quando mi avvertirai che stai per partire per la Svizzera.»
«Non ne possiedi delle copie?»
«Sì, ma non è questo il motivo.»
«Temi che qui non sarebbero al sicuro?»
«No, non lo sarebbero. Quest’ufficio è stato usato da ogni sorta di gente negli ultimi diciotto mesi. Non ho la minima idea di quante persone potrebbero avere le chiavi della tua scrivania.»
Incuriosito per quella che considerava una preoccupazione paranoica di Howarth, Isaac Newton si sporse dalla poltrona.
«Ma perché, allora, li tieni nel laboratorio?»
«Non li tengo qui. Non mi sognerei nemmeno. Ho portato il materiale per farlo vedere a te.»
«Non capisco per quale motivo qualcuno dovrebbe rubare il materiale.»
«Ecco!» esclamò Mike Howarth. «Parli così perché pensi che siano tutte balle, perché cerchi di tenermi buono. Ma se tu ammettessi che ho ragione, capiresti perché molta gente vorrebbe rubare i dischi. Qualcuno al CERC, tanto per cominciare. I funzionari dell’amministrazione statale non lasciano mai in giro prove, ti pare? Gli argomenti delicati vengono trattati per telefono, non per iscritto, non è così? Poi, quando accade il disastro, non c’è nulla di scritto, all’infuori, forse, di poche frasi ambigue che dovrebbero avere un certo significato, ma che in realtà non dicono nulla se uno le pondera bene. Sono sicuro che tu conosci meglio l’andazzo di quanto possa spiegartelo io.»
«Immagino che sarebbero nelle peste se dovesse saltare fuori che hai ragione», rispose ridendo Isaac Newton. «Per conto mio spero che questo sia l’esito, ma vedremo. Ciò che non riesco a immaginare è come al CERC potrebbe venire l’idea di scassinare il Cavendish Laboratory.»
«Non lo farebbe. Incaricherebbe una talpa all’interno, naturalmente. Come ho già detto, c’è un mucchio di gente che tenta di ingraziarsi il CERC.»
«Non esiste qui una sola persona di cui ti fidi?»
«Beh, mi fido di te, e poi c’è qualcun altro, naturalmente. Frances Haroldsen, tanto per citarne una.»
Isaac Newton d’improvviso ricordò le conversazioni con Boulton e con il Drago. Si rese conto che l’aspetto tecnico della sua discussione con Howarth aveva placato per un attimo in lui il sospetto che le traversie finanziarie degli ultimi tredici anni avessero spinto in qualche modo l’università verso uno stato di demenza. Deciso a ragionare su basi solide e mettere al bando le bubbole, chiese in tono deciso: «Immagino che tu abbia un conto in banca?»
«Sì, naturalmente.»
«Dove?»
«Alla Barclays.»
«Quale filiale?»
«Nella sede di Bennet Street. Ma perché?»
«Perché adesso andiamo a trovare subito il direttore e tu gli chiederai di mettere nella sua cassaforte questi dischi. Inoltre dirai al direttore che l’unica persona autorizzata a portare via i dischi sono io. Sono stato chiaro? Altrimenti non se ne fa niente.»
Isaac Newton era ritornato da poco dalla visita alla Barclays Bank quando il Drago si affacciò sulla porta per annunciare, come se stesse scagliando una freccia nell’ufficio:
«E’ arrivato il «Geist»!»
Un ometto con gli occhiali e la testa piuttosto grossa entrò dicendo: «Noi non ci conosciamo ancora, professor Newton. Sono John Jocelyn Scuby, segretario delle facoltà».
Per antica tradizione, una grande poltrona di cuoio nero era riservata esclusivamente ai visitatori speciali del professore in carica. Jocelyn Scuby si calò nella poltrona con un sospiro di sollievo. Poi, improvvisamente, si spostò con una mossa impacciata verso l’orlo del sedile, come se la sua soffice comodità lo avesse messo a disagio.
«Devo spiegare», cominciò Scuby a mezza voce, quasi con il fiato corto, «che in tempi più felici il General Board (5) permetteva ai singoli istituti di badare alla propria contabilità senza alcuna interferenza.
«La contabilità veniva naturalmente esaminata dai revisori dell’Università, ma questa era una procedura, a voler essere sinceri e pur evitando ogni critica, che non si è mai rivelata soddisfacente», continuò Scuby.
«So quello che lei vuol dire. Quando un revisore non è un revisore, e roba del genere.»
«Esattamente. Sono contento che lei comprenda ciò che voglio dire senza che io debba spiegarle tante cose. Questa faccenda, una volta arrivata alla fase della discussione, impegnava per molto tempo il General Board.»
«Lo immagino.»
«Beh, è andata a finire che io stesso faccio il giro degli istituti. Prima che la contabilità sia già pronta, per essere precisi. Lo faccio in parte per sincerarmi che tutto è in ordine e in parte perché così ho la possibilità di suggerire qualche piccolo risparmio. Spero che lei comprenda anche questo, professor Newton.»
«A dir il vero, capisco benissimo queste cose», rispose Isaac Newton. «Ecco, vede, signor Scuby, ho fatto la mia prima esperienza amministrativa al CERN — il Consiglio Europeo delle Ricerche Nucleari — quando mi chiamarono a far parte del comitato del laboratorio per le piccole spese, il «Conseil pour quelque chose restreint», come lo chiamavamo. A quell’epoca avevo venticinque anni. Ero appena venuto da Cambridge e quindi ancora da dirozzare. Il nostro compito era quello di evitare sprechi nel laboratorio. E’ stato allora che mi sono reso conto del numero veramente stragrande degli sprechi, tutte cose che altrimenti non avrei notato.»
John Jocelyn Scuby unì ancora più strettamente le mani e si avvicinò ancora di più all’orlo della poltrona.
«Lei mi vuol dire che vi sorvegliavate da soli?» Isaac Newton annuì e Scuby continuò: «Beh, ecco una notizia che non mi sarei aspettato. Non ho mai conosciuto degli scienziati capaci di mostrarsi molto disciplinati. Per essere più preciso: non ho mai trovato un istituto capace di molta autodisciplina».
«E’ un po’ una questione di ordini di grandezza. Quando un’iniziativa assume le proporzioni di un CERN, o si è disciplinati oppure si va in fallimento. Nel nostro caso avevamo molti motivi per rispettare la disciplina. Fino a quando ci mantenevamo entro i limiti del bilancio — cioè entro i limiti delle stime convenute a livello internazionale — eravamo padroni di noi stessi. Nessuna interferenza da fuori. Se invece uscivamo dai limiti del bilancio, le varie burocrazie cominciavano a fare ogni sorta di domande. Ora, chi ha dovuto subire questa specie di intervento è capace di grossi sacrifici per evitare che il fatto si ripeta. Inoltre, questa esperienza con il Comitato per le piccole spese mi è stata molto utile quando, più tardi, io stesso ho cominciato a spendere somme notevoli.»
Jocelyn Scuby era molto compiaciuto per la piega presa dalla conversazione, tuttavia rabbrividì visibilmente quando Isaac Newton si definì uno che spendeva molto.
«Beh, professor Newton, vista la sua esperienza sarà forse bene che le comunichi immediatamente le brutte notizie, per lasciare a dopo quelle buone.»
«Sì, mi piace sentire subito le notizie brutte. Maggiore è il numero delle brutte notizie che vengo a sapere immediatamente e meglio è», rispose Isaac Newton serio serio.
Jocelyn Scuby frenò a stento un sorriso di approvazione. Non stava bene annunciare le brutte notizie con un sorriso. Così disse con la stessa voce sommessa di prima: «Ho quasi paura di dirglielo, professor Newton, ma il suo istituto è scoperto di diecimila sterline».
In risposta, Isaac Newton mise la mano in tasca e ne estrasse una moneta da dieci pence che depose davanti a sé sulla scrivania.
«Tanto per ricordarmelo», disse, evitando di raccontare a Jocelyn Scuby che la scoperta dei «vacuum strings» era costata trenta milioni di sterline e veniva considerata a buon mercato da un’opinione pubblica entusiasta.
«Già», annuì Scuby, «per promemoria, come si fa un nodo al fazzoletto. Un’ottima idea.»
«Potrebbe spiegarmi alcune cose, signor Scuby? Qual è la percentuale delle spese generali che grava sul bilancio complessivo?» chiese Isaac Newton.
«Sono in grado di dirglielo perché è una cosa che tengo sempre a mente. Naturalmente si tratta di un argomento molto complesso a causa della differenza degli istituti e delle facoltà. Naturalmente, le spese generali per le facoltà scientifiche non sono uguali a quelle per gli studi umanistici. Ma se posso esprimermi in termini di larga massima, direi che le spese generali rappresentano circa la metà del nostro bilancio. Riesco a mantenermi entro questi limiti mostrandomi inflessibile e facendo molta attenzione. Non so perché le cose stiano così, ma so che il risultato è sempre pressappoco quello.»
«Paga tasse comunali l’università?»
«Direi! Il comune ci tratta come una mucca da mungere. Che ne dice? Voglio dire, saremmo in grado di cavarcela meglio?»
«Non ho capito ancora bene. Che cosa è compreso nelle vostre spese generali?»
«Beh, le tasse comunali, come lei ha appena detto, l’illuminazione, il riscaldamento, le biblioteche, la manutenzione degli immobili e dei terreni, il telefono.»
«E le attrezzature dei laboratori?»
«Non le attrezzature impiegate nelle ricerche, in linea di massima. Le attrezzature impiegate per scopi didattici, invece, sì.»
«I computer?»
«Sì, anche i computer. Lo sa, professor Newton, che quando si parla di ’spese generali’ con una persona non informata, questa ha l’impressione che si tratti di una serie di dubbie manifestazioni di lusso? In realtà si tratta invece di una serie di necessità essenziali senza le quali l’università non potrebbe funzionare.»
«Direi, signor Scuby, che lei se la cava davvero molto bene. Continui così.»
«E ora», disse Scuby battendo di nuovo delicatamente le mani, «parliamo delle buone notizie. C’è un certo suo collaboratore, una giovane, tale signorina Haroldsen, che sembra possedere il dono di causare guai. Il General Board ha ricevuto varie segnalazioni che raccomandano il suo licenziamento. Come lei certamente sa, questo istituto ha avuto nel suo recente passato vari capi provvisori, li chiamano capi rotanti, e da ognuno di essi il General Board ha ricevuto la stessa raccomandazione.»
«Che la signorina Haroldsen venga licenziata?»
«Esattamente.»
«E’ in pianta stabile? Temo di non aver avuto ancora il tempo per mettermi al corrente della posizione giuridica dei miei assistenti e neppure di fare la loro conoscenza.»
«No, la signorina Haroldsen «non» è in pianta stabile, ma come lei certamente saprà ci sono stati negli ultimi quindici anni molti cambiamenti in materia di licenziamenti. I casi che una volta si concludevano con la revoca dell’incarico provvisorio oggi sono diventati casi di licenziamenti contestati.»
«Il che trasforma il licenziamento in una faccenda sgradevole, direi.»
«Specialmente se si arriva a una contestazione legale» annuì Scuby. La preoccupazione gli disegnò sul viso una tale smorfia che Isaac Newton temette che stesse per piangere.
«In questi casi, gli individui riottosi per natura causano naturalmente i maggiori guai.»
«Proprio così, professor Newton. Le sarà quindi facile immaginare la riluttanza del General Board a lasciarsi coinvolgere nella vicenda della signorina Haroldsen, una donna che gode fama di essere una riottosa di notevoli proporzioni.»
«Proporzioni piuttosto affascinanti, suppongo, signor Scuby?»
«Ah, sì, già. Beh, può darsi, benché io pensi che il vero problema sia la lingua di questa signorina. Credo che sia stato William Congreve a dire: ’Ma sul labbro vermiglio della bella / quali sciocchezze vennero a favella’.
«Le farà piacere sapere, professor Newton, che il General Board, tanto per compiere un gesto di gentilezza nei suoi confronti, ha deciso di dare corso alla raccomandazione. In questo caso le risolveremo il problema senza badare alle conseguenze.»
Isaac Newton sentì il disperato bisogno di scrollarsi come un cane appena emerso da una profonda pozzanghera. Tanto per cominciare, non volevano permettergli di scegliersi la segretaria e ora si davano da fare per licenziare il personale scientifico alle sue dipendenze. Il futuro prometteva interventi ancora più rovinosi come, magari, irruzioni nel laboratorio con un idrante.
«Posso immaginare un solo motivo capace di indurmi a raccomandare il licenziamento di un qualsiasi membro del mio personale scientifico, signor Scuby, e questo motivo sarebbe una grave incompetenza professionale.»
Dopo essersi proposto di sostituire il ridicolo cicalino con un appropriato sistema di comunicazione interna, Isaac Newton schiacciò con forza il pulsante sulla scrivania. Non appena il Drago apparve nel riquadro della porta, esclamò: «Signora Gunter, vuol portarmi per favore la cartella personale della signorina Haroldsen?»
«Mi farà più che piacere, professore», rispose il Drago, e sorrise ricordando le scottanti segnalazioni riguardanti la ragazza Haroldsen che lei aveva avuto la fortuna di battere a macchina e inviare al General Board.
Le segnalazioni scottanti c’erano, nella cartella piuttosto voluminosa, e stavano in testa. Isaac Newton le ignorò ed esaminò rapidamente il resto dei documenti, trovando finalmente ciò che cercava — il «curriculum» accademico di Frances Margaret Haroldsen. Gli bastarono pochi secondi per individuare i documenti importanti. Alzando gli occhi verso John Jocelyn Scuby, disse: «Massimo dei voti con menzione speciale in scienze naturali, parte prima, massimo dei voti in fisica, parte seconda, e dottorato in filosofia qui a Cavendish. Esattamente ciò che ho fatto io, signor Scuby, e ho sempre pensato di essermela cavata benino».
Jocelyn Scuby si sollevò dalla poltrona dicendo: «Beh, naturalmente, se lei è contento della situazione, anche il General Board lo sarà. Volevamo solo aiutarla. E ora penso che sia venuto il momento di andare al lavoro. La sua segretaria può mostrarmi i particolari, ma dovrò ritornare da lei per un’altra conversazione, diciamo tra un’ora e mezzo. E’ d’accordo?»
Poi, indicando la moneta da dieci pence sulla scrivania, Scuby soggiunse: «Dovremo spremerci bene il cervello».
Se Isaac Newton pensava che la prima giornata trascorsa al Cavendish fosse stata agitata, si sarebbe accorto ben presto che il peggio doveva ancora venire. La tempesta minacciò di scatenarsi solo nel pomeriggio del giorno seguente mentre la mattinata era stata calma, come c’era da aspettarsi prima di una tempesta.
In mattinata, Isaac Newton chiamò Boulton per dirgli che avrebbe preso in affitto la casa nella Adams Road. Dopo una giornata frenetica al laboratorio gli sarebbe stato necessario un angolino nel quale rifugiarsi come fa un animale ferito che rientra nella tana. Cenare al College ogni sera, circondato da cento altri professori, sarebbe stato troppo sconvolgente, decise.
Boulton si presentò da lui in ufficio in un batter d’occhio, per farsi pagare l’affitto.
«Vuoi i soldi in contanti o va bene un assegno?» chiese Isaac Newton.
«Va bene l’assegno. Tanto lo cambierò in dollari. Per cui il contante non mi servirebbe. Ho sentito che ieri Scuby è stato da queste parti.»
«Come fai a saperlo?»
«Oh, abbiamo organizzato una specie di servizio di vigilanza chiamato Guardia Scuby. C’è gente che scommette sulla sua comparsa. I suoi spostamenti vengono controllati ogni ora per cui nessuno viene colto alla sprovvista dalle sue visite, benché tu, ci giurerei, abbia avuto una bella sorpresa, ah! ah!»
«Effettivamente «sono» rimasto sorpreso.»
«Beh, posso insegnarti come evitare guai nel futuro.»
«Sarebbe a dire?»
«Avverti la tua segretaria di registrare «tutto», tutte le entrate e tutte le uscite. Inserisci questi dati nel computer dell’Università, compreso il costo dei francobolli. Più particolari vengono registrati e meglio è, perché queste operazioni ingolfano il computer e confondono il quadro d’insieme. Inoltre nessuno ti può incolpare di aver nascosto qualcosa. Poi, quando vengono a rivederti le bucce, non fai altro che sparire dalla circolazione; in aspettativa pagata, se ti è possibile, ma comunque devi andare via, da qualche parte. Tu, per esempio, potresti squagliartela al CERN, restando in contatto con la segretaria. Non possono soffermarsi in eterno sulla tua contabilità. Poi, passato il periodo critico, non fai altro che ritornare.»
«Vuoi che ti paghi mese per mese o preferisci un assegno per tutto il periodo?»
«Per tutto il periodo, se non ti dispiace. Vedi, ho intenzione di entrare come socio in un’impresa di esplorazioni petrolifere.»
«Spero che il pozzo non si riveli asciutto.»
«Oh, nessuno mette le uova in un solo paniere. Uno deve comprare vari panieri. Ti racconterò quando sarò di ritorno.»
«Devo chiederti ancora una cosa a proposito della casa. Vuoi che faccia rinforzare le fondamenta se gli scricchiolii dovessero intensificarsi?»
«Non servirebbe a niente. La colpa è del suolo che si muove. Si gonfia quando piove e si restringe quando il tempo è asciutto. Nel cemento armato si formano crepe. Effettivamente è meglio costruire sulla ghiaia in quella parte di Cambridge. Se la faccenda si fa brutta, consolati pensando di essere a bordo di una nave in mezzo al mare.»
Boulton uscì di scena, come dicono nei copioni cinematografici, ma poi, improvvisamente, si riaffacciò alla porta dicendo: «Oh, se il gatto dovesse darti ai nervi, basta che tu lo porti all’Ospedale dei Piccoli Animali, cioè a Veterinaria. Devi dire che la bestiola soffre gravemente di brividi e loro ne avranno cura.»
Nel pomeriggio, verso le due e un quarto, il Drago scoccò un’altra delle sue frecce.
«Il signor Clamperdown del CERC», annunciò.
Clamperdown si calò nella grande poltrona nera, sprofondando con la disinvoltura dovuta alle visite precedenti e con un’aria di possesso che certamente non sarebbe stata possibile ai tempi di Rutherford. Poi accavallò la gamba destra sulla sinistra, in maniera che il piede destro fosse posato sul ginocchio sinistro.
«Non penso che lei se ne ricordi, ma noi due abbiamo già fatto conoscenza», disse, quasi a insinuare che a suo giudizio Isaac Newton vivesse uno stato di nebbia mentale.
«Certo che ricordo», rispose lesto Isaac Newton. «E’ stato durante la visita di una delegazione governativa al CERN. Ci siamo conosciuti in un ristorante chiamato L’Oiseau de Feu, su una collina sul versante francese della frontiera. Lei ha bevuto «Orangensaft» mentre gli altri, me compreso, hanno bevuto dei cocktail seguendo le tradizioni della casa.»
«Che memoria», fece Clamperdown, calandosi ancora più profondamente nella poltrona. La voce era baritonale, troppo baritonale per essere naturale, come quella di uno studente di dizione che cerchi di attenuare un accento socialmente indesiderabile.
«Beh», continuò Clamperdown, «ho pensato che sarebbe stata una buona idea venirla a trovare appena possibile per discutere sulla situazione dei finanziamenti del CERC al Cavendish Laboratory.»
Ricordando di aver trovato vuota la scatola dei sigari nella scrivania, Isaac Newton alzò il braccio come fanno i vigili che dirigono il traffico.
«Gradisce un sigaro, a proposito? Avrei dovuto chiederglielo prima.»
«Molto gentile da parte sua.»
Isaac Newton tirò fuori la scatola dei sigari e si avvicinò alla poltrona dove aprì la scatola con un gesto affettato sotto il naso di Clamperdown.
«Che mi venga un accidente», esclamò, «sembra che il laboratorio se la stia passando male, non le pare? Stava dicendo a proposito dei finanziamenti del CERC?»
«Sì, già, c’è un contratto particolare sul quale vorrei discutere. Non so se lei ne sia già al corrente. Se non dovesse esserlo, sarà un piacere per me spiegarle tutto.»
«A proposito del contratto?»
«Lei non ne ha sentito ancora parlare, è così?»
«Credo, invece, di averne sentito parlare.»
«Mi riferisco al finanziamento di un sistema di telemetria con satelliti.»
«Immaginavo che lei avesse in mente questo.»
«Un finanziamento concesso a Michael Howarth.»
«Sì?»
Isaac Newton attese che Clamperdown trovasse al collo la posizione giusta entro il colletto, un preludio all’esplosione: «E’ una situazione impossibile».
«Secondo me, non è per niente impossibile. La situazione sarebbe stata un po’ delicata, questo glielo concedo, se i giochetti fatti da Howarth con la telemetria avessero provocato un malfunzionamento del satellite. Ma questo non è avvenuto. Il sistema telemetrico ha funzionato e tutto è perfettamente a posto.»
«Ma se dovessimo continuare con questo andazzo, permettendo a chiunque di applicare modifiche non autorizzate ai satelliti, non ci vorrebbe molto per trovarci coinvolti in un disastro totale, non le pare?»
«Non ci vorrebbe molto, no, immagino. Certo bisogna fare qualcosa per impedire che un inconveniente simile si ripeta.»
«Lei saprà probabilmente che abbiamo preso già le opportune misure per evitare il ripetersi dell’inconveniente.»
«Mike Howarth mi ha raccontato che avete annullato il suo contratto.»
«Non c’era altro da fare.»
«Per quanto mi riguarda mi vengono in mente almeno cinque o sei altri provvedimenti che avrebbero potuto essere presi. Revocare il contratto mi sembra come curare una dermatite della mano tagliando il braccio. Può darsi che Howarth si trovi sulla soglia di una scoperta importante.»
«A quanto pare nessuno lo pensa.»
«Ah, ecco, ci siamo», fece Isaac Newton aggrottando le sopracciglia. «Se tutti avessero pensato che Howarth stesse per fare una grande scoperta, lei sarebbe semplicemente venuto da me per suggerirmi in tono amichevole di tenerlo d’occhio in futuro. In realtà, lei vorrebbe recitare la parte dell’arbitro in una gara scientifica. Non è così, signor Clamperdown?»
«La cosa ci ha dato un sacco di preoccupazioni, professor Newton. Il caso è stato esaminato da tre dei nostri comitati e tutti sono convinti che le idee di Howarth siano prive di senso.»
«Devo confessare che non ho avuto molto tempo per occuparmi della faccenda, signor Clamperdown. Comunque ho cominciato per lo meno a rifletterci seriamente, e secondo me non è una cosa completamente priva di senso.»
«Proprio «lei» sicuramente non può crederci!»
«Non ci credo, ma nel contempo non posso ritenere impossibile l’idea. Posso dirle semplicemente che non so.»
«Ma è pura demenza. Comete vive! Se il Cavendish Laboratory è sceso di livello fino a questo punto, dove andremo a finire, mio Dio?»
Isaac Newton, pur sforzandosi di controllarsi, aveva la sensazione di non farcela.
«Se qualcuno mi chiedesse quante probabilità ha la teoria di Howarth di essere giusta, risponderei: una su cento, ma questo non significa che è «completamente» priva di senso», rispose in tono ancora pacato.
Clamperdown respinse il ramoscello d’ulivo che Isaac Newton gli offriva, e andò avanti come un elefante in un negozio di cristalleria.
«Come CERC non siamo interessati a iniziative con così scarse possibilità di successo», disse in tono asciutto.
«Invece dovreste esserlo», ribatté Isaac Newton, riuscendo ancora a dominarsi. «Quando esiste la possibilità che da una spesa piuttosto modesta venga fuori qualcosa di grosso, dovreste correre il rischio perché una di queste scommesse si rivelerà prima o poi redditizia.»
«Dobbiamo tenere conto del comitato di controllo amministrativo, professor Newton. Quello non la pensa come lei.»
«Proprio per questo, i fondi riservati al finanziamento delle scienze sono un disastro in piena regola», replicò Isaac Newton, schiacciando un po’ l’acceleratore. «Come sarebbe stato un vero disastro se le ricerche petrolifere fossero state finanziate dal governo. Poiché nove pozzi su dieci trivellati non danno petrolio, voialtri evitereste qualsiasi trivellazione.»
«Credo che ben pochi sarebbero d’accordo con lei», disse Clamperdown, in tono ancora più asciutto, sollevandosi dalla poltrona. «Spero che lei non insisterà in proposito.»
«Perché? Il CERC non mi concede il diritto di appello?»
«Naturalmente sì, ma non credo che avrebbe successo, visto il tempo che è già stato sprecato per questa faccenda. Non stavo pensando al CERC ma agli interessi di maggiore portata del suo laboratorio.»
Isaac Newton si mise a picchiettare con la matita sulla scrivania.
«Lei pensa probabilmente al fatto che io ho delle relazioni che vanno al di là dei canali normali. Beh, si tolga di mente ogni preoccupazione in questo senso. Non corro rischi quando ho solo una probabilità su cento di riuscita.»
«In questo lei è molto ragionevole.»
«Ma se le probabilità dovessero aumentare, come potrebbero, il mio punto di vista potrebbe cambiare. E per quanto riguarda il ricatto nei confronti di questo laboratorio, mi lasci dirle a tutte lettere che le future richieste di finanziamento inoltrate da questo laboratorio saranno ben ponderate, ben documentate e debitamente precise per quanto riguarda i costi. Se le domande di finanziamento dovessero essere trattate dal CERC in base a pregiudizi e respinte, non esiterei a servirmi di ogni mezzo a mia disposizione per controbattere il CERC. Ma siccome lei questo lo sa molto bene, signor Clamperdown, l’esame della domanda di finanziamento non sarà basato su alcun pregiudizio. Anzi: è probabile che accada il contrario. E siccome più che la scienza vi preme di sopravvivere, starete certo molto attenti e assumerete un atteggiamento benevolo nei confronti delle richieste di finanziamento inoltrate da questo laboratorio. Questa secondo me è stata la parte utile della nostra discussione. Forse ci incontreremo ancora, signor Clamperdown, in circostanze più felici per bere insieme un bicchiere di «Orangensaft».»
Isaac Newton sentì l’assoluta necessità di respirare una boccata di aria fresca dopo l’incontro con Clamperdown. Gli venne in mente di esplorare le palazzine all’altra estremità della Madingley Road dov’era alloggiato, lui lo sapeva, l’istituto di astronomia. E già che c’era sarebbe stata una buona idea farsi prestare un trattato o due sulle comete. Così si diresse verso la strada e fu sul punto di arrivarci quando sentì qualcuno che lo chiamava.
«Signore! Ci dà una mano?»
Tre giovani stavano spingendo un furgone in salita sulla strada costringendo i veicoli di passaggio a descrivere un’ampia curva. Poiché non gli sembrava bello rifiutare, Isaac Newton si affiancò a uno dei giovani che stava spingendo da dietro, mentre gli altri due erano davanti, ai due lati.
«Dove siete diretti? Saint Neots?» chiese Newton.
«Ma no!» rispose con una risata il giovane al suo fianco. «Si tratta solo di qualche centinaio di metri, ma è già abbastanza. Sono proprio sfinito.»
Mentre Isaac Newton spingeva, appoggiato alla parte posteriore del furgone, udì un orribile rumore proveniente dall’interno del veicolo, un rumore che non riusciva a identificare, un brontolio che da prima gli parve il ringhiare di un grosso cane, ma dopo un po’ si rese conto che non poteva essere questa la fonte. A un certo punto attraversarono la strada per imboccare un viottolo lastricato in cemento sullo stesso lato dove sorgeva il laboratorio. Il ringhiare continuò. Isaac Newton stava giusto pensando di chiedere agli altri una breve sosta per riposare quando dall’interno del furgone si udì un formidabile ruggito, seguito da un violento colpo sullo sportello posteriore sopra la sua testa.
«Susie si sta scocciando», spiegò il giovane che aveva al fianco.
«Chi è Susie?» riuscì a borbottare Isaac Newton.
«La nostra leonessa», spiegò il ragazzo. «Deve farsi curare i denti.»
Poi, Isaac Newton si rese conto che il viottolo portava naturalmente alla facoltà di veterinaria.
A questo punto furono raggiunti da vari altri giovani e ragazze per cui la fatica di colpo si alleggerì, permettendo a Isaac Newton di leggere un cartello sul quale stava scritto: ALL’OSPEDALE DEGLI ANIMALI GROSSI. Davanti alla palazzina della facoltà si radunò una piccola folla, e apparve un uomo che doveva essere evidentemente il capo. Aveva la bocca incurvata in un largo sorriso e occhi di un azzurro intenso. Quando notò Isaac Newton, un po’ defilato, si avvicinò e disse: «Sono Featherstone, professore di scienze veterinarie».
«Io sono Newton. Sono appena arrivato al Cavendish.»
«Già, ho visto la tua fotografia», fece l’uomo dagli occhi azzurri, annuendo. Poi gridò: «E ora tutti indietro, un bel po’ indietro».
Lo sportello posteriore del furgone si aprì. Isaac Newton si aspettava di vederne uscire con un balzo la leonessa, ma l’animale esitò per un attimo, e proprio in quello si udirono vari leggeri sibili. Isaac Newton rimase sorpreso dalla rapidità con cui i tranquillanti fecero effetto. Susie si accasciò e i ragazzi la misero in un baleno su una barella portandola poi all’interno della palazzina.
«Dobbiamo essere molto svelti», spiegò Featherstone, «altrimenti è un casino senza fine.»
«Non sapevo che aveste animali del genere da queste parti.»
«Oh, abbiamo un po’ di tutto. Elefanti, giraffe, lama. Nominane uno e lo abbiamo. E’ un vero giardino zoologico.»
«Un po’ come al Cavendish. A proposito, dove potrei trovare uno di questi tranquillanti? Potrebbe venir comodo.»
«Ti credo senz’altro», rispose ridendo Featherstone, «ma le autorità controllano con occhio di lince i tranquillanti. Son più difficili da ottenere delle armi da fuoco. Ma nel nostro lavoro sono indispensabili.»
«Sarei disposto a darti in cambio due o tre grosse bombe.»
«Sarà meglio che tu mi dia l’elenco dei bersagli da colpire, e vedremo che cosa si può fare», rispose Featherstone con un ghigno. «Magari vengo a trovarti uno di questi giorni.»
Poi si strinsero la mano e un istante dopo tutti, all’infuori di Isaac Newton, scomparvero all’interno della palazzina. Newton, che non desiderava assistere all’incontro di Susie con il dentista degli animali, anche se l’idea in certo modo lo attirava, prese la scorciatoia per ritornare al laboratorio. Quando passò accanto al cartello indicatore, lo guardò per un po’ pensando di farne piazzare da Scrooge uno simile davanti al laboratorio, con la scritta ALL’OSPEDALE DEGLI ANIMALI ANCORA PIU’ GROSSI.
Salì di corsa la scala per tornare in ufficio rendendosi conto di aver dimenticato completamente Clamperdown dal momento in cui aveva cominciato a spingere il furgone. Lo stava aspettando una ragazza, una ragazza con la gradevole figura menzionata da Jocelyn Scuby. Questa non poteva essere che la signorina Haroldsen, pensò immediatamente Isaac Newton. Inoltre accantonò immediatamente la sconcertante questione di come una novella Mata Hari potesse vantare le prodezze accademiche di Frances Haroldsen, perché in lei non c’era proprio niente di torbido.
Frances Haroldsen era l’espressione tipica della ragazza americana come la immaginano al di qua dell’Atlantico, una ragazza sempre pronta a esclamare: «Chi gioca a tennis?» Portava i lunghi capelli lisci spioventi sulle spalle, nello stile «niente mi impressiona». Ma il guaio grosso, Isaac Newton lo vide subito, erano gli occhi di un viola intenso. Sapeva che erano di un viola intenso perché erano un tantino più scuri degli occhi azzurri di Featherstone. Non si poteva fare a meno di guardarli.
«E’ soddisfatto?» chiese Frances Haroldsen con freddezza. «Che cosa ne direbbe se dovesse lavorare in una sartoria femminile e tutte le donne continuassero a guardarla?»
«Chiedo scusa. Prometto che non la guarderò in continuazione.»
«Per essere precisa vengo da lei per tre motivi. Prima di tutto per ringraziarla. In secondo luogo per proporre un affare. In terzo luogo per chiarirle le idee su un paio di argomenti.»
«Sono sempre pronto a farmi schiarire le idee su un paio di argomenti, ma non riesco a immaginare che cosa ho fatto per meritare il suo ringraziamento, signorina Haroldsen.»
«Tutti qui mi chiamano Frances Margaret. Sai che mi piacerebbe mettere le mani su quel tipetto, Scuby? Vorrei strozzarlo», disse lei, ignorando la domanda rivoltale da Isaac Newton.
«Ce ne sono molti che vorrebbero farlo. Ma che te ne importa di Jocelyn Scuby, Frances Margaret?»
«’Un tipo che per dar bella prova di sé parla senza riuscire a conquistarsi l’udienza di alcuno.’ Shakespeare, e Shakespeare era un poeta migliore di Congreve. Ma volevo ringraziarti per quello che hai detto a proposito del mio «curriculum» accademico. Quando la gente lo legge, dice di solito: ’Naturalmente «deve» essere andata a letto con gli esaminatori’.» Frances Margaret sedette sull’angolo della scrivania e soggiunse: «Un’osservazione stupida e malvagia, perché se fosse veramente così facile, ci sarebbero molte più laureate con il massimo dei voti e lode, non ti pare?»
Isaac Newton aprì la bocca, ma poi dimenticò ciò che voleva dire. Improvvisamente chiese, invece, a voce più alta: «Come fai a sapere tutto questo?»
In risposta, Frances Haroldsen estrasse un piccolo e lucido oggetto metallico da una tasca dei pantaloni. All’oggetto era attaccata una cordicella di colore scuro.
«In quest’ufficio c’è un microfono, naturalmente», disse.
«C’è «che cosa»?»
«Un microfono. Così tutti nel laboratorio sanno quello che succede. Io volevo essere informata soprattutto su Clamperdown. Quella faccenda del CERC non mi piace.»
«Senti, Frances Margaret, adesso mi devi consegnare subito il nastro con quella registrazione.»
«Te ne posso dare una copia, naturalmente. Mi è piaciuta la battuta sull’«Orangensaft». Mi ha dimostrato che sai tenere testa.»
Isaac Newton cominciava a capire molto bene perché le attività della signorina Frances Haroldsen avessero provocato le proposte di licenziamento.
Come se gli leggesse nel pensiero, lei, sempre seduta sull’angolo della scrivania, riprese: «Parliamo ora di queste proposte di licenziamento. E’ stato molto carino da parte tua non tenerne conto. Ma tu sei carino, no?»
«Non me n’ero mai accorto», brontolò Isaac Newton.
«Beh, lo sei. Abbastanza. Ma è davvero un po’ tardi. Il fatto che tu sia carino, voglio dire. Vedi, io sono abbastanza stufa di tutta questa storia. E’ per questo che voglio mettermi d’accordo con te. Se sei disposto a raccomandarmi per un trasferimento al CERN, me ne andrò senza tante storie.»
«Non riesco a seguirti, Frances Margaret.»
«E’ un buon affare. Me ne andrò senza protestare. Se dovessi fermarmi qui per tenere testa all’amministrazione, lo scontro sarebbe alquanto duro. Sono piuttosto brava a battermi. Ti prometto di non farti fare brutta figura al CERN. Del resto, le mie qualifiche sono abbastanza buone, lo hai detto tu stesso.»
«Ma io non propongo il tuo licenziamento», tuonò Isaac Newton.
«No, ma lo proporrai. Tutti lo fanno, prima o poi.»
«Allora, perché vuoi ricominciare tutto da capo al CERN?»
«Penso che là tutto andrebbe diversamente. Il CERN, tanto per cominciare, non ha il solito ultratradizionale atteggiamento contrario alle donne. Inoltre si tratta di un’organizzazione più grande di questo laboratorio per cui penso di riuscire a inserirmi con maggiore facilità.»
«Sono certo che ci riusciresti», annuì Isaac Newton, evitando di menzionare l’opinione di Scuby sulla sua figura. «Ma questo patto infame non si farà», continuò. «Non appena avrò avuto l’opportunità di giudicare il tuo lavoro, ti raccomanderò se il tuo rendimento sarà quello che mi aspetto. Se allora vorrai ancora andartene, naturalmente. E adesso, qual era il terzo problema? Si tratta di un consiglio, immagino.»
«Sì, penso che dovrei dirti alcune cose che Mike Howarth non ha detto. Non sono affatto indiscreta perché lui ne parla sempre. Il guaio è che di questi tempi pensa solo al CERC invece di concentrarsi sulle cose veramente importanti. Tu hai detto che ha una probabilità su cento di riuscire. In base a quanto ti ha fatto vedere ieri il giudizio potrebbe sembrare ragionevole, ma se tu sapessi tutto ciò che potrei dirti con questo labbro vermiglio — ha detto proprio labbro vermiglio; no? — vedresti che una probabilità su cento è un po’ poco.»
Frances Haroldsen fece una breve pausa.
«Beh, continua», disse Isaac Newton, impaziente.
«Il fatto è che l’argomento è grosso e che ora comincia a farsi tardi. Se tu volessi portarmi a cena stasera, tutta la faccenda sarebbe un eccellente argomento per un intimo «tête-à-tête». Gradevole e tecnico senza niente di personale, se non ti dispiace.»
Isaac Newton portò la macchina all’autosilo nella Jesus Lane e da lì andò a piedi, superando il Saint John’s College, al Trinity. La Great Square del College, quando vi entrò, gli apparve in tutta la sua ampiezza. Nei tredici anni trascorsi dall’ultima volta, gli era uscita di mente la spaziosa magnificenza di quel piazzale. Era praticamente rimasto immutato dai tempi del grande Isaac Newton il cui alloggio si trovava proprio sulla destra del cancello principale.
Varie persone stavano attraversando il piazzale camminando a zig-zag per evitare le macchie di erba tagliata. Come sempre, gli individui sembravano ridimensionati a formiche dalle proporzioni dell’ambiente. «Plus ça change, plus c’est la même chose».
Isaac Newton aveva cenato al College la sera precedente. Prima del pasto, i Fellows, cioè i cattedratici, si erano radunati nella Combination Room. Portavano tutti la toga nera. C’erano i bicchierini di sherry e la conversazione si svolse esattamente sui binari che Isaac Newton ricordava. Poi erano saliti alla sala da pranzo. In segno di rispetto per il suo incarico, già ricoperto da J. J. Thompson ed Ernest Rutherford, e in vista della sua condizione di figliol prodigo, gli avevano assegnato il posto accanto al Master, rettore del collegio, anziché piazzarlo in fondo alla tavola tra i più giovani professori residenti, come gli era capitato negli anni precedenti. Gli fu facile partecipare alla conversazione di prammatica pensando nel contempo ad altro o porgendo orecchio a ciò che i commensali seduti a qualche posto di distanza stavano dicendo.
«Vedi, mi era venuta l’idea di esaminare la documentazione delle carboniere che sono salpate nel Cinquecento da Newcastle.»
«Schubert? Oh, quei legni tanto, tanto noiosi!»
«Che cravatta è questa?»
«Hanno detto di essere stati a Maiorca, ma io non ci credo. Chi ci crederebbe, del resto?»
L’uomo con la documentazione delle carboniere salpate da Newcastle era un anziano professore di storia che durante tutto il pasto continuò a trasformare in palline la mollica del pane. Non appena finiva un panino, il cameriere gliene portava un altro. Era uno della decina di Fellows che Newton ricordava bene. Mentre osservava i camerieri che andavano su e giù tra la sala e la cucina con pile di piatti sulle braccia, gli parve di riscontrare una rassomiglianza capovolta con la vecchia favola della Bella Addormentata. Una scena movimentata in cui il tempo si ferma improvvisamente e tutto rimane sospeso a mezz’aria, tutto fino all’ultimo particolare. Solo che nella vecchia favola nessuno invecchiava mentre il tempo era fermo. Qui era esattamente il contrario: tutti invecchiavano, ma non succedeva mai nulla. Ai vecchi tempi, nei giorni del grande Isaac Newton, era la vita nel College quella che sembrava scattante e frizzante, in contrasto con il mondo bucolico all’esterno. Ora, invece, era fuori che tutto procedeva a ritmo accelerato, era fuori che succedevano tante cose, come i «vacuum strings» o le comete vive.
Arrivato a questo punto nelle sue riflessioni, Isaac Newton aveva deciso di prendere in affitto la casa nella Adams Road, perché persino un gatto con i brividi era «qualcosa». Come dice Achille nell’«Odissea», quando si trova negli Inferi?
Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.
Vorrei esser bifolco, servire un padrone,
un diseredato, che non avesse ricchezza,
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte.
La cena con Frances Haroldsen sarebbe stata un’altra cosa, senza dubbio, pensò Isaac Newton mentre attraversava il grande piazzale fino agli scalini che portavano alla Hall. Dopo aver superato rapidamente il breve passaggio tra la Hall e la cucina, scese gli scalini verso il chiostro che portava alla Wren Library. In fondo al chiostro raggiunse la scala che conduceva alla vecchia foresteria.
Ancora una volta, la situazione si presentò capovolta. Il suo appartamento a Ginevra era piccolo, ma provvisto delle più moderne ed efficienti attrezzature. Qui, invece, i locali erano, come sempre, spaziosi, ma provvisti di un arredamento che destò la meraviglia di Isaac Newton il quale si domandò come chiunque, in un’epoca qualsiasi, avesse potuto considerarlo una buona idea. Poteva essere un argomento eccellente per la tesi di laurea in filosofia: «Gli impianti igienici a Cambridge» per qualche studente delle facoltà umanistiche. Infatti, se opportunamente imbottita e presentata, quella tesi avrebbe rappresentato un argomento quasi perfetto per assicurarsi un sussidio dalla Fondazione Ford, un’istituzione animata dalla sorprendente tendenza a finanziare le iniziative irrilevanti.
Benché di alta statura, Isaac Newton ebbe la sensazione di essere semiannegato quando emerse dalla vasca da bagno, più che altro simile a una tinozza. In camera da letto c’erano un grande letto a baldacchino e un immenso e pesante guardaroba che avrebbe richiesto un’intera squadra di uomini robusti per essere smosso. Dati i tempi incerti, il College non voleva evidentemente correre rischi con i mobili, un punto di vista per il quale Isaac Newton si propose di congratularsi con l’economo.
Mancava un’altra ora all’incontro con Frances Margaret Haroldsen al cancello principale. Dopo essersi vestito, Isaac Newton trascorse i primi quaranta minuti restando seduto, in preda a una specie di torpore. In che razza di pasticcio si era cacciato? si chiese seriamente. Una faccenda che faceva venire qualche brivido di paura. Il mondo che lo circondava era realmente così strano — volendo usare un eufemismo — come sembrava, o era lui che in certo modo stava proiettando intorno a sé una sorta di follia nata nel suo intimo? Nel ricordare il volto simile a una maschera tragica greca che gli era apparso gli sembrò che le cose stessero proprio così. Dopo aver scacciato dalla mente questi inquietanti pensieri, balzò in piedi e uscì sul pianerottolo della vecchia foresteria scendendo poi a passo svelto la scala fino al chiostro.
Il grande orologio sulla torre di Edoardo Terzo stava battendo le sei e tre quarti mentre Isaac Newton riattraversava la Great Square. Mancavano ancora quindici minuti all’appuntamento. Continuando a camminare arrivò alla cappella del College, subito accanto alla torre di Edoardo Terzo. Non lo interessava l’interno della cappella, ma il grande atrio con il pavimento a lastre di pietra dove si trovava la statua del suo omonimo, il grande Isaac Newton, che aveva superato tutti con il suo genio, come diceva l’iscrizione in latino: «Qui genus humanum ingenio superavit».
C’erano altre statue nell’atrio. Newton sfiorò con lo sguardo quelle dei due grandi dell’epoca vittoriana, Tennyson e Macaulay, uomini dalle facce poco interessanti che simbolizzavano il prossimo declino di una nazione una volta grande, la caduta verso quella situazione, capovolta rispetto alla favola, in cui tutti invecchiavano senza che accadesse mai nulla.
Tra la statua sul piedestallo sopraelevato e le altre correva una distanza astronomica, la stessa che si riscontra tra quella e i ritratti di Newton realizzati in epoca successiva, quand’era Master of the Mint, direttore della Zecca. Davanti a sé aveva un uomo giovane come lui, con la faccia piena di vita e il corpo in movimento mentre camminava per la strada, in campagna o sul grande piazzale. Quella pietra sprigionava con magica urgenza una sensazione di vita. William Wordsworth era stato studente al vicino Saint John, e dalla sua stanza a uno degli ultimi piani, nelle notti di luna, poteva arrivare con lo sguardo all’atrio della cappella del Trinity College, alla statua dell’uomo che aveva superato tutti gli altri con il suo genio. Wordsworth aveva percepito la magia di questa visione quando aveva scritto:
«The marble index of his mind
Voyaging strange seas of thought, alone».
Strani mari del pensiero, la quintessenza della scienza. Non era l’atteggiamento saccente dei piccoli uomini le cui cognizioni in realtà altro non erano che un’isoletta in un ampio oceano della cui esistenza non riuscivano a rendersi conto.
Le sette di sera sono un’ora di ressa al cancello principale di qualsiasi collegio universitario, con gli studenti e i professori che continuano ad andare e venire con l’avvicinarsi dell’ora di cena. Di tutti i college di Cambridge, poi, l’ingresso del Trinity è forse il più affollato.
Mentre usciva, ad Isaac Newton venne in mente che non avrebbe potuto fare di meglio per propalare ai quattro venti la notizia del suo appuntamento con Frances Haroldsen. E non ci voleva un genio per immaginare che sarebbe arrivata all’appuntamento con un’automobile che desse nell’occhio. Era infatti una decappottabile rossa, sportiva, una macchina palesemente stagionata che richiamava l’attenzione non solo per l’aspetto bohémien, ma anche per il gorgogliante borbottio che emetteva mentre si dirigeva a velocità sostenuta dal Saint John verso di lui. Gli uomini di statura elevata hanno di solito difficoltà a infilarsi in una piccola macchina sportiva, né Isaac Newton fece eccezione. E se le sue contorsioni non fossero state sufficienti per segnalare l’avvenimento a parecchi professori anziani del College — tra cui quello delle molliche di pane che per disgrazia arrivò proprio in quel momento — il rombo dello scarico con il quale la macchina investì, sprezzante, la gente intorno mentre riprendeva velocità nella direzione del Caius fu un degno coronamento della situazione. Così parve, per lo meno, a Isaac Newton.
«Dove hai trovato questa stupenda macchina, Frances Margaret?» le chiese mentre si fermavano per un attimo al semaforo della Chesterton Lane.
«L’ho comprata per dieci sterline da uno sfasciacarrozze che a sua volta l’aveva comprata dagli zingari. Gli zingari non sapevano più che cosa farsene perché il monoblocco era pieno di crepe e il cambio scassato. Sai, loro s’intendono meglio di cavalli.»
«Ma come mai è adesso in condizioni così eccellenti?» insistette cupo Newton. «Sembra davvero in ottime condizioni!»
«Ho saldato le crepe del monoblocco e ho rettificato i cilindri. Ho trovato i pistoni e le bielle da un altro sfasciacarrozze. A dir la verità tutto quel che vedi intorno a te proviene da vari sfasciacarrozze», gridò Frances Margaret in risposta, con i capelli svolazzanti al vento. Era molto attraente.
Passando per la Fen Causeway, la Trumpington Road e la Long Road, si diressero, dopo aver superato l’ospedale, verso un’altura chiamata The Gogs. Qui, il motore rallentò sensibilmente l’andatura, inducendo Frances Haroldsen a osservare: «Questa dannata macchina è un autentico impiastro, non ti pare? Lo avevo detto, a Maisie, che non ce l’avrebbe fatta a fare la salita per The Gogs».
«Chi è Maisie?»
«La mia compagna di stanza al King’s College. Per essere sincera, ti ho raccontato una balla. La macchina è di Maisie. Fa l’assistente in meccanica ed è molto esperta nelle saldature e quel genere di cose. Io mi occupo invece delle analisi con la camera a bolle.»
La macchina riuscì a salire finalmente, seppure con molta lentezza, fino alla sommità dell’altura, e Frances Margaret esclamò, mentre cominciavano a scendere a rotta di collo il versante opposto: «Tienti stretto se ti è cara la vita!» Schiacciò a tavoletta l’acceleratore, e un grande sorriso sul suo volto eccitato rivelò una chiostra di denti perfetta.
«Comincia a mancarmi il fiato», brontolò Isaac Newton. «Ti andrebbe di rallentare un po’? Dove stiamo andando, a proposito?»
«Pensavo di cominciare all’Old Mitre, a Babraham.»
Il parcheggio dell’Old Mitre era gremito di grosse automobili lussuose.
«Poveri coltivatori diretti, ridotti in miseria dalla Comunità Europea», disse Frances Margaret, infilando con accorte manovre la vecchia macchina sportiva in uno spazio ristretto, disdegnato dalle auto lussuose arrivate in precedenza. E mentre Isaac Newton scendeva, sempre a furia di contorsioni, dall’automobile, la ragazza soggiunse: «Temo di aver preso una piccola cantonata: immaginavo che si trattasse di un posticino tranquillo, e così ho prenotato un tavolo».
Il rumore proveniente dal bar si diffondeva in ogni angolo del locale, e fu proprio al bar che vennero avvertiti che dovevano aspettare finché il tavolo per loro fosse pronto.
«Hanno avuto tempo tutto il giorno per preparare i tavoli. Sì, grazie, un succo di pomodoro va bene; con parecchia Worcester sauce, tanto per darmi un po’ di grinta», fece Frances Margaret con un’espressione che non prometteva nulla di buono per gli uomini schierati lungo il bancone che si stavano contorcendo sugli alti sgabelli con gli occhi puntati su di lei. Rivolta a Isaac Newton in maniera all’apparenza confidenziale, ma con un tono di voce che si sarebbe potuto sentire dall’altra parte del villaggio, continuò: «Bere durante il «pasto» fa bene alle «coronarie», sai. Ma bere seduti sullo «sgabello del bar è micidiale». Secondo i «medici», la formazione di «emboli nel sangue» si accorda perfettamente con lo stare seduti su uno «sgabello del bar». Questo vale specialmente per gli «uomini», e specialmente se in «eccesso di peso». Gli «emboli» esercitano la loro opera «mortale» in ogni parte del «corpo». Decine di casi vengono registrate «ogni ora». I locali come questo sono tutti provvisti di «barelle», pronte ad «accogliere» questi poveracci quando «cadono» dagli sgabelli come tante mosche…»
Isaac Newton, frastornato, ebbe la sensazione che un cameriere e il barista sollevassero con un unico movimento Frances Margaret e lui per portarli nella sala da pranzo.
«Bene», annui Frances Margaret, «fin qui tutto bene. E scommetto che anche il servizio sarà altrettanto rapido.»
«Era necessario comportarsi così?»
«L’arma migliore, nella vita, è il menefreghismo. Da un pezzo ho scoperto che riesce a comandare chi non si cura minimamente di ciò che pensa la gente», rispose Frances Margaret, sgranocchiando voracemente un panino.
Mentre la sala da pranzo cominciava a riempirsi, le occhiate furtive nella loro direzione diventavano sempre più frequenti, al punto da dare a Isaac Newton la sensazione che stesse per succedere ancora qualcosa.
Riuscendo a conferire un tono stranamente intimo alla propria voce, peraltro udibile quanto prima, Frances Margaret chiese improvvisamente: «Immagina di avere un «uovo». Fuori, nello «spazio cosmico»».
«Un uovo sodo, vuoi dire?» chiese Isaac Newton, cercando di mascherare il proprio stupore.
«No, un «uovo» fresco, appena deposto dalla «gallina». Credi che l’uovo «si raffredderebbe»?»
«E’ presumibile», rispose ancora Isaac Newton, notando che la conversazione intorno a loro era cessata del tutto.
Silenzio o no, Frances Margaret continuò sullo stesso tono: «Diventerebbe «duro» come una «pietra», ti pare?»
«Anche più duro.»
«Esattamente. Questo è «molto» importante. Non potrebbe essere più importante, sai?»
Isaac Newton si rendeva conto ormai che l’affermazione all’apparenza sballata di Frances Haroldsen era in realtà basata su una certa logica e aveva un suo significato. Per tutto il resto della cena continuò a pensarci senza riuscire a capire perché un uovo appena deposto e diventato più duro di una pietra nello spazio fosse importante. Quando arrivarono al caffè si strinse nelle spalle e rinunciò a risolvere l’enigma. Gli sarebbe piaciuto che qualcuno lo avesse proposto al grande Isaac Newton il cui genio lo avrebbe risolto — immaginarsi! — in un baleno.
Ritornati a Cambridge, Frances Haroldsen infilò la macchina nello spazio tra due pilastri di cemento davanti al Trinity College. Dopo che Isaac Newton si fu di nuovo districato dalla macchina, lei alzò rapidamente la capote e chiuse a chiave le portiere della macchina.
«La lasciamo qui», disse Frances Margaret.
«Noi «non» la lasceremo qui. I portieri bloccherebbero le ruote.»
«Che le blocchino», lo sfidò Frances Margaret. «Questo fa parte di un piano studiato con molta cura. Posso assicurartelo. Su, vieni, abbiamo ancora molte cose da discutere, a proposito delle uova nello spazio, di cavoli e merende e perché le uova rimangono bollenti e se le comete hanno le ali.»
«Ma quella dannata macchina richiama l’attenzione di tutti.»
«E’ proprio quello che voglio. Guarda, se tu continui a discutere così, tutti se ne accorgeranno, e allora sì che saremo nelle peste. Su, cerca di ricordare. La macchina è di Maisie, non mia. Lei sarà contenta di discutere con i portieri.»
«Davvero?» chiese Isaac Newton con aria scontrosa mentre attraversavano il piazzale.
«Ma certo, è tutto molto semplice», disse Frances Haroldsen. «Vedi, Maisie ha compagnia al King’s College stasera. Ma con la sua macchina parcheggiata davanti al Trinity College, nessuno sospetterà nulla perché tutti penseranno che lei si trovi qui, al Trinity College, non ti pare?»
«Il guaio di questo semplicistico punto di vista è che tutti assoceranno «me» con la macchina di Maisie.»
«Così, la gente penserà che Maisie si trova in compagnia del nuovo cattedratico di Cavendish, deciso a bruciare le tappe. Ma questo non è vero, e poiché la verità viene a galla prima o poi, come dice la gente, tutti resteranno delusi per aver pensato male senza motivo.»
Ormai erano arrivati al chiostro. «E’ qui che stai, no?» chiese Frances Haroldsen senza rallentare praticamente l’andatura mentre lo precedeva sulla scala verso la vecchia foresteria. Isaac Newton la seguiva come in sogno. Quando ebbero superato la porta interna del salotto, Frances Margaret la chiuse, ma solo dopo aver sbattuto con un formidabile «bang», chiudendola, la porta esterna di quercia. Il tonfo sembrava destinato a essere registrato dai lontani sismografi dell’istituto di geofisica sulla Madingley Rise.
«Questo per impedire che a qualcuno venga l’idea di venirci a chiedere una bustina di tè o una bottiglia di latte o qualcosa del genere», spiegò la ragazza.
Un rapido giro di ricognizione effettuato da Frances Margaret rivelò ben presto la presenza del letto a baldacchino.
«Oh!» esclamò. «Ho sempre sognato di dormire in un letto con il baldacchino.»
Poi si lasciò andare sul materasso, rimbalzando due o tre volte, e soggiunse: «Questo va «proprio» bene, come disse Ranuncolo nella favola quando vide il letto dell’orsacchiotto. Tu non hai niente in contrario, eh? Tu non saresti capace di buttarmi fuori, nel freddo, tra i cumuli di neve, eh? Sarebbe una cosa davvero crudele, che verrebbe condannata da tutti. Naturalmente puoi dormire su quel divano dall’aria scomoda nel salotto, se vuoi».
«Io «non» mi lascio espellere così dal mio letto», ribatté Isaac Newton in tono risentito.
«Posso comprendere i tuoi sentimenti a questo proposito perché neppure a me piacerebbe essere sloggiata se mi trovassi nella tua posizione, con tutti i problemi e tutte le difficoltà connesse. Non avresti per caso uno spazzolino da denti di riserva?»
Isaac Newton afferrò il suo pigiama e si trasferì impettito nel salotto dicendole: «Ne troverai uno nell’armadietto del bagno».
Newton impiegò un po’ di tempo per spogliarsi e infilare il pigiama. Sentiva che la situazione meritava di essere soppesata. Quando ritornò nella stanza da letto, trovò Frances Margaret già coricata nel letto a baldacchino.
«Ho scelto la parte sinistra», spiegò, «perché sono abituata a colpire con il sinistro. Inoltre so sferrare robusti calci con entrambe le gambe, il che può essere molto pericoloso dal punto di vista maschile, cosa di cui tu ti rendi indubbiamente conto. Te lo dico solo per l’eventualità che ti venisse qualche brutta idea.»
«Allora, se mi è permesso di chiedertelo, che cosa hai in mente, ammesso che tu abbia qualcosa in mente?»
«Non c’è alcun bisogno di essere scontrosi, visto che faccio di tutto per aiutarti. Pensavo che qui potessimo parlare.»
«Continua, allora.»
«Sei comodo, adesso? Una volta scomparsi i dolorini e le contrarietà della giornata, sarai meno risentito. Almeno lo spero. Benché non si possa mai dire, visto che tu non sei me. Mi capisci?»
«Sono «perfettamente» a mio agio, grazie. A proposito: esiste poi una persona chiamata Maisie?»
«Oh, sì. Maisie fa parte della realtà, come la sua macchina.»
Isaac Newton si soffermò per un attimo sull’orrore di quella situazione: una decappottabile rossa parcheggiata in sosta vietata fuori del Trinity College, parcheggiata in maniera tale che tutti potessero vederla.
«Immagina di trovarti su un’immensa distesa non illuminata dal sole», fece Frances Margaret con voce strascicata mentre spegneva la luce. «Una distesa priva di sole dove la temperatura non supera di molto lo zero assoluto. Immagina dei cubi di ghiaccio sparpagliati sulla distesa.»
«Hai detto cubi di ghiaccio?»
«Sì, ho detto così, e stai attento quando li tocchi, potresti congelarti. Perché i cubi di ghiaccio sono molto freddi e molto duri. Alcuni hanno le dimensioni dei cubetti che trovi nel frigorifero. Altri sono molto più grandi, un metro per lato. Ce n’è qualcuno persino con lati di dieci metri. Ce n’è anche con lati di cento metri, parecchi… hanno… lati di diecimila…» La voce di Frances Haroldsen si spense in una maniera che ricordava il ghiro di Alice nel Paese delle Meraviglie.
«Questo è impossibile», si costrinse a risponderle Isaac Newton. «Un cubo di ghiaccio con i lati di diecimila metri è impossibile, crollerebbe su se stesso.»
«Per questa osservazione, professore, le spettano tre note di merito. Ora, a quali dimensioni potrebbe arrivare un cubo di ghiaccio senza crollare su se stesso? Questo è il problema, Orazio.»
«Immagino che sarebbe una questione di scorrimento plastico.»
«Togliti subito dalla testa lo scorrimento plastico, Orazio. Niente di questa roba. Prova ad affrontare il problema in questa maniera. Immagina che io abbia un enorme bulldozer, e immagina che il mostro sia munito di enormi artigli. Quali dimensioni può avere un cubo di ghiaccio perché il bulldozer possa sollevarlo? Senza che il cubo perda la base, voglio dire?»
Ciò che lasciava interdetto Isaac Newton non era tanto l’ultima domanda quanto il mistero di dove mai la ragazza volesse arrivare. Dovevano parlare di comete, non di bulldozer con enormi artigli.
«Potrebbe essere provvisto di lati superiori ai dieci metri, penso», rispose.
«Superiori a cento metri?»
«Non saprei, può darsi.»
«Superiori a un chilometro?»
«No, i ghiacciai cominciano a crollare su se stessi quando raggiungono quello spessore. Ma che cosa c’entra tutto questo con le comete?»
«Parecchio, come ti accorgerai, professore, una volta che avrai snebbiato il cervello. Per ora ti meriti solo un voto scadente per questa risposta, anche se bisogna dire che ci sei arrivato stando a letto con l’esaminatrice. In realtà, la risposta giusta è che riusciresti a sollevare appena un cubo di ghiaccio con lati di trecento metri. Qualsiasi cubo di dimensioni maggiori crollerebbe su se stesso.»
Frances Haroldsen fece un grosso sbadiglio, dicendo a bocca spalancata: «L’agitazione della giornata comincia a farsi sentire».
«Come hai fatto a scoprire questi sorprendenti dati sui cubi di ghiaccio, Frances Margaret?»
«Sono le misurazioni», continuò la ragazza, sempre sbadigliando, «effettuate dalla South Manchurian Ice Company… nel 1908… quando la cometa precipitò sulla Siberia.»
«In che cosa consiste il nesso con le comete?»
Non ebbe risposta. Frances Haroldsen si era addormentata. Isaac Newton rimase ad ascoltare il suo respiro regolare. La serata aveva contribuito ben poco a dissipare il sospetto, ormai ben preciso, che le cose a Cambridge non erano più come una volta.
Il chiaro di luna illuminava a giorno l’atrio della cappella del Trinity College, circondando con un delicato alone la statua del grande Isaac Newton, e l’orologio della torre di Edoardo Terzo batté la una. Dall’interno della cappella proveniva il sommesso rumore di gente che si avviava lentamente verso l’uscita; l’incedere era accompagnato da un suono lamentoso simile a quello del vento invernale tra i rami degli alberi. Una figura incappucciata apparve nell’ingresso ad arco che separa la cappella dall’atrio. Il personaggio vi s’inoltrò tenendo in mano una campanella e un libro. Altre figure incappucciate, ognuna con una grossa candela accesa in mano, sbucarono man mano dal portale, cosicché una lenta processione di figure in toga scura, appaiate, prese ad attraversare l’atrio. La figura in testa raggiunse la porta esterna che dà sulla Great Square. Appena posto piede sul piazzale, il capo della processione cominciò a suonare la campanella. Un raggio di luce lunare rivelò per un attimo le sue fattezze celate dal cappuccio. Era il rettore del Trinity.
Le figure seguirono a due a due il rettore all’aria aperta, continuando a cantare con voce monotona la nenia funebre. Era una processione di professori, una processione con tanto di campanello, Bibbie e candele, che seguiva il rettore con passo lento, deciso, inesorabile attraverso i sentieri e i prati del grande piazzale, dirigendosi verso il breve passaggio tra le cucine e la Hall. Sempre accoppiati, gli incappucciati del Trinity College superarono con le candele il passaggio. Il canto funebre si affievolì per un po’ grazie alla brezza che soffiava attraverso il varco, aumentando di nuovo di volume quando la processione raggiunse il chiostro.
Il rettore continuò a scampanellare finché non raggiunse la scala che portava alla vecchia foresteria. Poi, dopo essersi soffermato per permettere all’ultima delle figure incappucciate di arrivare al chiostro, cominciò a salire con passo deciso la scala. Arrivato alla foresteria, sollevò il braccio che reggeva la Bibbia e diede un colpo all’apparenza delicato sul battente di quercia. Un rumore simile al tuono riempì l’aria. Le coppie di figure salite lungo la scala dietro al rettore si divisero per permettere ad altre, che reggevano una grossa trave lunga circa sei metri, di passare tra di loro. La trave colpì il battente di quercia, e il rumor di tuono fu superato da un suono simile agli stridenti cembali di un’orchestra infernale. Questa, per lo meno, fu la sensazione che provò Frances Haroldsen quando si svegliò dall’incubo.
Qualcuno stava effettivamente picchiando con insistenza sul battente di quercia della porta esterna della foresteria. Sopraffatta dall’orrore, Frances Margaret allungò il braccio e afferrò Isaac Newton con tale impeto che il professore si svegliò con un grido.
«Sono qui!» fece la ragazza, e sembrava quasi un urlo.
«Chi è qui?» brontolò Isaac Newton, sperando che Frances Margaret la smettesse di gridare e si riaddormentasse.
«E’ il rettore con la campanella, la Bibbia e la candela. E gli altri professori con la toga e il cappuccio. Stanno picchiando sul battente di quercia con un ariete», fu la disperata risposta della ragazza.
«Una storia molto verosimile», brontolò Isaac Newton. «La tua fertile fantasia non poteva proprio aspettare fino a domattina?»
Il picchiare sulla porta continuava con insistenza.
«Qualcuno è venuto a farsi prestare una bustina di tè o una bottiglia di latte o qualcosa del genere», disse Isaac Newton con aria rassegnata, infilando la vestaglia e dirigendosi verso l’interruttore della luce. Mentre stava per raggiungere la porta del salotto, notò che erano quasi le due meno un quarto. Sbadigliò e aprì la porta esterna.
Ciò che vide era davvero una scena strana, come, del resto, Frances aveva in linea di massima predetto. Ma in luogo dei fantasmi incappucciati del suo incubo c’erano due uomini, uno con il cappello a cilindro e l’altro con la bombetta, e un professore, il decano niente po’ po’ di meno, la cui preoccupazione principale era quella di assicurare la moralità dei membri del College. Nella figura con la bombetta in testa, Isaac Newton riconobbe il portiere di notte, mentre non aveva mai visto prima quello con il cappello a cilindro. Il quarto uomo era un sergente della polizia.
«Chiedo scusa se la disturbo, signore», disse il sergente, «ma si è verificato un fatto molto grave.»
Mentre i visitatori s’inoltravano con una certa decisione nel salotto, Isaac Newton notò un particolare molto imbarazzante. Frances Margaret aveva lasciato la borsetta sul divano, esattamente nel punto dove lui avrebbe dovuto invitare il decano ad accomodarsi.
La porta che dava sul pianerottolo rimase aperta. Arrivò un altro agente di polizia seguito da un uomo dall’aspetto giovanile con il colletto da prete. Isaac Newton si domandò se gli convenisse togliere semplicemente la borsetta, cavarsi d’impiccio con un’osservazione azzeccata come: «Oh, mia zia ha dimenticato la borsetta quando è venuta a trovarmi la scorsa settimana», oppure fingere che la borsetta non esisteva.
Siccome non seppe decidersi, disse: «Dev’essere senz’altro una cosa grave».
Il sergente annuì e annunciò in tono compassato: «Abbiamo per le mani un morto».
Isaac Newton soppresse l’impulso di dire: «E io, che c’entro?» e attese che il sergente si spiegasse.
«Secondo noi potrebbe essere un suo collaboratore, professore.»
Poi, l’uomo con il cappello a cilindro, che Isaac Newton non conosceva, fece: «Io sono il portiere di notte del Saint John, signore. Sembra che il morto sia uno dei nostri professori, anche se rimane un mistero perché si trovi qui, al Trinity College.»
«Chi sarebbe lo sfortunato?» chiese Isaac Newton.
«Il dottor Michael Howarth.»
«Il buffo è, Newton», disse il decano con aria perplessa, «che è stato trovato morto nella «nostra» cappella. Siccome immagino che sia uno dei suoi uomini, ho pensato bene di venire da lei e chiederle aiuto.»
«Per identificare la salma?»
«Beh, sì…»
«Sarebbe più facile domattina, alla luce del giorno.»
«Capisco la sua osservazione», s’intromise il sergente, «ma per essere sincero, professore, vorrei che lei stesso vedesse il cadavere — come testimone — perché è una situazione molto strana.»
Nel frattempo, Frances Margaret si era vestita. Si rendeva conto che il salotto si stava riempendo di gente per cui c’era il pericolo che qualcuno sconfinasse in camera da letto. C’erano due posti dove avrebbe potuto ovviamente nascondersi: sotto il letto o all’interno dell’enorme guardaroba. Dopo aver deciso che nascondersi sotto il letto sarebbe stato davvero il colmo, esaminò il guardaroba. Ma constatò che l’interno del mobile puzzava di muffa, e che pertanto anche in questo caso si ponevano certi limiti. A parte il fatto che farsi scoprire nascosta in un guardaroba avrebbe reso talmente ridicola la storia della supposta «liaison» con Isaac Newton da inserire a piè pari l’episodio tra le leggende di Cambridge, in maniera che il ricordo non si sarebbe mai più spento. Ai turisti americani avrebbero raccontato che se Isaac Newton il vecchio aveva misurato la velocità del suono nel chiostro al pianterreno, Isaac Newton il giovane aveva nascosto la sua amante in un guardaroba al primo piano. Frances Haroldsen era inoltre dotata di un sicuro istinto, che le suggeriva che in qualsiasi situazione la migliore politica consiste nel prendere l’iniziativa, il che significava uscire semplicemente dalla stanza con la massima indifferenza per mettersi al corrente di una faccenda che, a giudicare dai brani di conversazione uditi, sembrava davvero strana.
«E che cosa c’è di tanto strano nella situazione?» chiese quindi Frances Margaret in tono chiaro e deciso uscendo dalla stanza da letto per dominare subito la scena.
Il sergente rimase per un attimo sbalordito dalla sicurezza della ragazza alle prese con una situazione all’apparenza compromettente. Poi, riprendendosi, spiegò: «Beh, il signor Kant, il portiere di notte qui presente, stava facendo i suoi giri quando ha sentito uno strano rumore».
«Un sottile suono lamentoso», intervenne la figura con la bombetta che Isaac Newton aveva riconosciuto. «Proveniva dalla cappella. Così sono entrato e l’ho trovato seduto all’organo.»
«Che ora poteva essere?» chiese Isaac Newton.
«Lo so con precisione, signore, perché l’orologio della torre aveva appena suonato la una.»
«E il suono lamentoso proveniva dall’organo?» domandò Isaac Newton con aria incredula.
«Proprio così, signore», annuì il sergente.
«Il problema, Newton, consiste nel capire come un professore del College si trovasse nella nostra cappella all’una del mattino, morto, con il dito premuto su un tasto dell’organo, e con l’organo in funzione», spiegò in maniera succinta il decano.
«Perché il suono lamentoso non è stato udito prima?»
«C’era un po’ di vento», spiegò il portiere, «e il suono era quello di una nota con la chiave piano, o come meglio la chiamano, signore.»
«Probabilmente è stato il diminuire del rumore del traffico a metterlo in rilievo.»
«Proprio così, professore!» esclamò il portiere, contento che esistesse una spiegazione razionale al perché nessuno avesse udito l’organo prima.
L’organo era ormai spento. «Faceva rizzare i capelli in testa quando era acceso», disse il portiere mentre la comitiva entrava nell’atrio. S’inoltrarono nella penombra sul pavimento a lastre di pietra. Le scarpe dei due poliziotti, provviste di suole di cuoio, producevano un rumore forte e fastidioso. Un terzo agente di polizia era di guardia immediatamente dietro il portale ad arco della cappella, un giovanotto senz’altro contento di rivedere i colleghi, dopo essere rimasto lì per mezz’ora completamente solo.
Frances Haroldsen seguiva la comitiva. Aveva conosciuto Mike Howarth troppo bene per provare il desiderio di vedere il suo corpo scomposto nella morte, per di più in circostanze così atroci e misteriose, per cui rimase nell’atrio mentre gli altri entravano nella cappella. Si voltò e guardò la statua del grande Isaac Newton. La statua, dapprima avvolta dall’ombra, si schiarì quando un raggio di luna ne illuminò il piedestallo. Frances Margaret continuò a guardarla, in preda a una strana premonizione. Come a conferma delle sue aspettative, la statua cominciò a risplendere in maniera innaturale. Improvvisamente splendette di una luce rosso-arancione, alta tre metri, con una faccia da maschera tragica greca. Frances Haroldsen, con un piccolo urlo soffocato, si precipitò verso l’ingresso che dava sulla Great Square e sulla soglia si accasciò.
Nel frattempo, all’interno della cappella, il poliziotto che era rimasto di guardia raccontò al sergente: «Mentre lei era via, il corpo si è rovesciato. Per un attimo ho pensato che stesse ritornando in vita».
Il corpo era adagiato attraverso la console dell’organo.
«Può rimetterlo nella posizione di prima?» chiese Isaac Newton.
«No, signore, non ora. Forse in seguito quando avremo fotografato la salma», rispose il sergente. «E’ proprio lui? Il dottor Howarth, voglio dire?»
«Sembra Howarth, ma non si riesce a vederlo bene. Direi che sarebbe meglio vederlo domattina. E’ già rigido?» chiese Isaac Newton.
«Dev’essere stato rigido sin dall’inizio.»
«Come se fosse morto in preda a una specie di spasmo?»
«Sembra proprio così, professore. L’autopsia ci dirà come stanno realmente le cose.»
«Quando effettueranno l’esame necroscopico?»
«Oggi, molto probabilmente. Lei ha qualche motivo per pensare…?»
«Che si sia suicidato? Aveva buoni motivi per essere preoccupato, ma non fino a quel punto.»
«Beh, forse sarà meglio che rimandiamo le domande riguardanti la motivazione.»
«Ha chiamato il medico?»
«Sì, ma quello comunque è morto, su questo non c’è dubbio», affermò con sicurezza il sergente, fidandosi del suo buonsenso.
Il decano si fece avanti insieme con lo sconosciuto dal colletto da prete.
«Mi scuso per non aver presentato il cappellano del Saint John’s College.»
«Sembra che non possiamo fare molto», disse Isaac Newton mentre scambiava una rapida stretta di mano con il cappellano, «ma penso che toccherebbe a «lei» procedere all’identificazione. Ho parlato una sola volta con Howarth.»
Isaac Newton si accorse nella semioscurità della cappella che il sergente aveva preso nota della sua ultima osservazione.
Frances Margaret era seduta sullo scalino esterno dell’atrio.
«Avevo bisogno d’aria», spiegò brevemente a Isaac Newton. «Mi sono sentita quasi svenire.»
Isaac Newton ritornò dal sergente e disse: «La signorina non si sente troppo bene. Lei ha ancora bisogno di me?»
«Beh, signore, non ora, ma in seguito. Come ho già detto, pensavo che lei stesso avrebbe voluto dare un’occhiata per vedere come stanno le cose. Per essere sincero, non ho mai visto nulla di simile. Quella statua laggiù, professore, ha il suo stesso nome, vero?»
«Sì.»
«E anche questo è molto strano, professore, non le pare? Come se fosse stata la statua ad abbatterlo.»
Di ritorno nella foresteria, Frances Haroldsen decise di non rendersi ridicola parlando di qualcosa che dal punto di vista razionale non poteva aver visto, specialmente con Isaac Newton. Nonostante ciò esplose con voce tesa dall’emozione: «Perché lo ha fatto?»
«Non penserai che la colpa sia mia?»
«Come potrebbe esserlo? Tu ti sei offerto di aiutarlo, di portare le sue registrazioni al CERN, non è così? Inoltre hai fatto ciò che hai potuto per quanto riguarda il suo contratto, al punto quasi da sostenere un alterco con quel tipo del CERC.»
«Ho fatto del mio meglio.»
«Allora, perché lo ha fatto? Proprio sotto il naso del monumento a Isaac Newton. Così resti coinvolto fino al collo.»
«Il sergente ha appena detto come tutto faccia sembrare che sia stata la statua a colpirlo.»
«Sostituisci la statua con «te stesso»; è questo ciò che penserà la gente.»
«Ci sono ancora troppe cose che non conosciamo per esprimere un giudizio ragionevole su questo punto», rispose Isaac Newton con tutta la pacatezza di cui fu capace, e più vicino alla verità di quanto si rendesse conto. «Possono succedere tante cose di ogni genere, ma non ha senso varcare i ponti davanti a noi prima di averli raggiunti. Non dobbiamo perdere di vista le mosse giuste lasciandoci dominare dall’emozione. La polizia metterà presumibilmente le mani su tutto ciò che riguarda Mike Howarth, nei limiti del possibile, il che significa che le sue carte potrebbero essere poste sotto sequestro. Per fortuna possiedo già i dischi con i segnali, i punti e le linee, del satellite. Ma abbiamo bisogno di poter consultare gli altri dati da lui raccolti. Dubito che quel materiale si trovi al laboratorio perché non si fidava di nessuno lì. O almeno, sembra.»
«Credo di sapere dove si potrebbero trovare quei dati.»
A giudicare dal tono della voce, si sarebbe detto che Frances Haroldsen avesse ripreso il dominio di sé.
«Nel Saint John?»
«Molto improbabile. Mike era molto preoccupato di tenere segreti i suoi dati. E i college sono posti di facilissimo accesso, c’è sempre gente che va e che viene. Un ladro ben deciso non troverebbe troppe difficoltà dato che ogni giorno i portieri e le donne che rifanno i letti girano con le chiavi di ogni piano, entrando in ogni stanza.»
«Da quanto ho potuto giudicare, l’idea di depositare il materiale in una banca gli era completamente nuova.»
«Aveva un posto tutto suo in piena campagna, a vari chilometri da qui, un cottage. Gli era stato lasciato in eredità pochi anni fa da uno zio, credo. E’ là che devono trovarsi le sue carte, quelle che gli stavano più a cuore. Ci sono andata un paio di volte, facendo delle gite sulla strada romana. Non è troppo lontano dalla torre piezometrica di Linton. Potremmo andare a Linton domattina.»
«Per quanto mi dispiaccia dirlo, domattina sarà troppo tardi. La polizia potrebbe essere ormai dappertutto. Inoltre non potrei lasciare Cambridge domani. Sarebbe come invocare indagini. Se dobbiamo andarci, andiamoci ora. Saresti capace di trovare il cottage al buio?»
«Potrei tentare. Ma se il sergente o il decano dovessero rifarsi vivi qui?»
«In tal caso sarò via per riaccompagnarti al tuo alloggio.»
Dopo aver lasciato il chiostro, Isaac Newton e Frances Haroldsen superarono in un attimo il Trinity Bridge e s’incamminarono lungo il viale che conduce al cancello posteriore del College, chiuso a chiave. Isaac Newton, grazie alla chiave riservata ai professori di cui era in possesso, non ebbe alcuna difficoltà ad aprirlo. Procedettero ad andatura spedita superando la parte posteriore del Saint John’s College, per sbucare nella Chesterton Lane. Seguendo quella via per circa mezzo chilometro nella direzione di Chesterton, raggiunsero una passerella sulla destra che li condusse sull’altra sponda del Cam. Una breve camminata al limite del Jesus Green li condusse a un autosilo aperto anche durante la notte dove Isaac Newton aveva lasciato nove ore prima la macchina. Per raggiungere quel punto dal Trinity College avevano certo seguito un percorso tortuoso, ma lungo il quale non avrebbero corso il rischio di essere intercettati da qualche poliziotto sospettoso.
La strada per uscire da Cambridge sulla Hills Road, passando accanto all’ospedale, era la stessa che avevano già percorso prima con la macchina di Frances, ma la Mercedes che Isaac Newton aveva portato dalla Svizzera superò l’altura dei Gogs senza diminuire praticamente la velocità. Invece di svoltare verso Babraham, continuarono sulla strada maestra che da Londra porta a Newmarket, raggiungendo Linton.
Dopo aver seguito per dieci minuti una strada naturale attraverso la boscaglia, raggiunsero un tipico cottage dai muri a secco, il cui originale tetto di paglia era stato sostituito con tegole.
«Ecco, ci siamo», annunciò Frances Margaret. «Non c’è altro per chilometri, tutt’intorno. La casetta magica tutta sola nel bosco.»
Dopo aver puntato i fari sul cottage, Isaac Newton tolse la cassetta degli attrezzi dal vano bagagli della macchina dicendo: «Non è granché, tuttavia dovremmo essere in grado di cavarcela. Fammi un po’ di luce anche con la torcia elettrica… puntala sul gancio della finestra, qui».
Cinque minuti più tardi erano riusciti a sbloccare il gancio di una delle finestre a ghigliottina del pianterreno e a sollevarne la parte inferiore scorrevole. Subito dopo si ritrovarono senza fatica all’interno della casetta.
«Non si può certo dire che siamo penetrati ’con scasso’, come dice la polizia. Adesso, dove trovo la luce?» chiese Isaac Newton come se stesse parlando a se stesso.
«Qualcuno potrebbe accorgersi della luce.»
«Gli abitanti dei cottage si alzano qualche volta di notte. Che importanza potrebbe avere un po’ di luce?»
«Non intendevo questo. E’ solo che qualcuno, stando fuori, potrebbe vederci, mentre noi non potremmo vedere lui», ribatté Frances Margaret.
Isaac Newton girò un interruttore e la luce fornita da due lampade con paralume rivelò che erano nel soggiorno della casetta, una stanza piccola, ma confortevolmente arredata, con un caminetto. Accanto al caminetto c’era una piccola catasta di legna e sul focolare la cenere bianca. All’improvviso si udì un sordo colpo immediatamente sopra le loro teste e una voce smorzata esclamò:
«Chi va là?»
«Gran Dio, abbiamo sbagliato cottage», bisbigliò Isaac Newton. Frances Margaret gli afferrò il braccio e rispose bisbigliando: «Sono assolutamente certa che è questo. Lo si vede dai libri di fisica laggiù». La ragazza indicò una piccola libreria.
Al piano di sopra si aprì una porta, e la voce gridò di nuovo, in tono più chiaro: «Ehi, dico! Chi va là?»
La stretta sul braccio di Isaac Newton si fece più forte e a lui si rizzarono i capelli in testa quando riconobbe la voce.
«E’ Mike Howarth», fece Frances Haroldsen quasi con un urlo. «Quel coso nella cappella non era lui!»
Poi, mentre le luci si spegnevano, il ricordo di quell’attimo misterioso nella cappella la assalì e Frances Margaret lanciò un urlo da far accapponare la pelle. Isaac Newton si liberò delle sue dita, che gli serravano il braccio, prese la torcia elettrica e uscì dal soggiorno nella piccola anticamera, dimostrando un coraggio che non sentiva affatto. I passi al primo piano raggiunsero il pianerottolo e cominciarono a scendere una rampa di scala scricchiolante.
Eppure, la torcia rivelò che sulla scala non c’era nessuno. I rumori sembravano riempire il cottage.
Seguendo un impulso, Isaac Newton si avvicinò rapidamente alla scala, e quando cominciò a salirla Frances Margaret gridò: «Torna indietro! Lassù c’è qualcosa di orribile, lo so».
Seguì un’esplosione simile a un colpo di pistola, accompagnata da un grido acuto. Poi calò il silenzio nel quale Frances Haroldsen poté udire un rauco ansimare che, l’istinto glielo diceva, non era umano.
Una luce continuò a tremolare al piano di sopra, e improvvisamente Isaac Newton gridò dall’alto: «E’ tutto a posto. Puoi salire».
Quasi nello stesso istante una civetta gridò, fuori, nel bosco, e il grido risuonò doppiamente forte a causa della finestra aperta. Frances Margaret salì a tentoni la scala ed entrò in una stanza dove il fascio di luce della torcia sciabolava l’aria.
«Che cos’è?» chiese con voce strozzata.
«Un nastro registrato che trasmette il messaggio amplificato dagli altoparlanti sistemati nelle varie parti della casa. E’ un ingegnoso sistema di allarme per proteggere dai ladri la casetta.»
Le luci si riaccesero altrettanto improvvisamente come si erano spente pochi minuti prima.
«Dobbiamo essere inciampati nel dispositivo quando siamo entrati attraverso la finestra o nel soggiorno. Secondo me, per la luce teneva un interruttore automatico a tempo», disse Isaac Newton.
La stanza al primo piano era piena di attrezzature elettroniche sparpagliate un po’ ovunque. Evidentemente non era stata usata come camera da letto. Nella stanza c’era anche un armadietto-schedario, alto circa un metro, con la chiave inserita nella serratura in alto.
«Quanto scommetti che è quello che stiamo cercando?» esclamò Isaac Newton trionfante.
Poi, mentre stendeva la mano verso la chiave, Frances Haroldsen gridò con impeto: «Non toccarla! Quella chiave è un interruttore. Mike Howarth non era tipo da lasciare una chiave nella serratura».
«Avevi ragione, prima. Qui c’è davvero qualcosa che fa orrore.»
«Ci dev’essere un cavo, da qualche parte.»
«Non credo che lo troveremo con tanta facilità», rispose Isaac Newton. «Io, se volessi ammazzare qualcuno con la corrente elettrica, farei arrivare il cavo di alimentazione attraverso le tavole del piancito, immediatamente sotto l’armadietto, in maniera che la vittima non possa vederlo. Inoltre metterei un trasformatore da duemila volt nel cassetto più basso. Mica male, come idea.»
«Faremo bene a interrompere la corrente al raccordo principale.»
«Oppure tagliare all’aperto il cavo principale che porta l’energia alla casetta. Io, volendo essere ancora più cattivo, avrei inserito un cavo di alimentazione che escludesse l’interruttore principale.»
Nella serratura della porta d’ingresso principale trovarono inserita una grossa chiave che Isaac Newton strinse dopo averla coperta con un fazzoletto ripiegato, brontolando: «Non dovrebbe essere necessario, ma non vale la pena correre rischi a questo punto. E poi, così non lasciamo troppe impronte digitali in giro».
Ci fu una pioggia di scintille quando tagliò il cavo elettrico a una certa distanza dal cottage, nel punto in cui scendeva dall’ultimo palo. Dopo aver riposto nella cassetta degli attrezzi la pinza isolante, e cingendo con il braccio la spalla di Frances Margaret, Isaac Newton soggiunse: «Mi dispiace aver dovuto tagliarlo perché la cosa sarà certamente notata. A proposito: grazie per avermi avvertito».
All’improvviso, la ragazza si girò finendo tremante tra le sue braccia e cominciò a baciarlo freneticamente.
«C’è un motel sulla strada per Londra che è aperto tutta la notte. Andiamo là», bisbigliò lei. «Facciamo presto!»
«Dopo una notte simile, la giornata d’oggi ci metterà a dura prova», disse Isaac Newton, tutto assonnato, a Frances Margaret Haroldsen mentre lei gli porgeva una tazza del tè preparato nella stanza del motel dove avevano preso alloggio cinque ore prima.
Sul tavolo, accanto all’inevitabile televisore, c’erano un mucchio di nastri e dischi e una pila di schede alta una trentina di centimetri, tutta roba che proveniva dall’armadietto-schedario di Mike Howarth.
«Cominciamo ad affrontare la prova dando un’occhiata a questi dischi», continuò Isaac Newton, appoggiandosi ai cuscini contro la testiera del letto.
Frances Margaret gli portò i dischi uno alla volta.
Terminato l’esame, Isaac Newton finì di bere il tè e osservò: «Per quanto io possa dedurne, questi dischi sono assolutamente identici a quelli custoditi alla Barclays Bank. Credo che questi siano gli originali».
«Mike Howarth ha tenuto senz’altro gli originali. Questo è certo.»
«Così possiamo permetterci il lusso di lasciare le copie in banca, in maniera da poterle esibire in qualsiasi momento ci farà comodo, tanto per dimostrare alla gente sospettosa che il nostro pensiero è lontano da qualsiasi imbroglio.»
«Mentre in realtà l’imbroglio è proprio quel che abbiamo in mente.»
«Come stiamo per dimostrare. Tanto per cominciare, hai un passaporto in regola, Frances Margaret?»
«Sì, ma perché?»
«Perché «proprio tu» devi portare questi dischi al CERN. Ovviamente, io non posso andarci ora. Così arriverai al CERN molto prima di quanto ti aspettassi. Ironia della sorte, non ti pare?»
«Tu dovevi andarci alla fine della settimana?»
«Sì, ma ora non possiamo prendercela con comodo. Più presto questa roba arriva in Svizzera e meglio sarà; il che significa oggi, senza la minima perdita di tempo.»
«Ma è tutto un gran pasticcio. Non vedo come…»
«Tanto per cominciare, devi mettere in ordine tutti questi dati. Dividerli in due serie: una tecnica, l’altra personale. Effettivamente, la serie tecnica appartiene al laboratorio perché si riferisce quasi tutta a indagini effettuate in base a contratti stipulati a nome del laboratorio.»
«Va bene. Comunque il materiale tecnico in realtà è tuo, in qualità di rappresentante del laboratorio, per cui non si può dire che lo abbiamo rubato.»
«Proprio così. Per quanto il nostro comportamento possa apparire piuttosto strano, e benché noi si sia corso qualche antipatico rischio, il nostro operato è più o meno giustificabile riguardo ai dischi e alla documentazione tecnica. Ma per quanto riguarda il materiale di proprietà personale di Mike Howarth, la situazione è un’altra. Qui ci troviamo davanti a un vero e proprio furto, per cui dobbiamo liberarci di quella roba immediatamente. La cosa più semplice sarebbe di scaraventarla da qualche parte, in una pattumiera, ma sarebbe una mascalzonata, per così dire, perché potrebbe trattarsi di cose importanti — ci potrebbero essere il testamento di Howarth o i titoli di proprietà della casetta. Così, quando avrai riordinato il materiale, devi andare a Newmarket con la macchina, chiudere il materiale in tanti pacchi di dimensioni tali da consentirne la spedizione per posta e indirizzare questi pacchi al cappellano del Saint John’s College. Serviti di un grosso pennarello nero e scrivi l’indirizzo in stampatello a tutte maiuscole, in maniera che…»
«OK. Ho capito. E tu, che cosa farai, se mi è permesso chiedertelo? Resterai a letto, affondato nei cuscini come adesso?»
«Siccome sono esausto, è esattamente quello che farò, usando nel contempo il telefono. Cerca di essere di ritorno da Newmarket prima delle undici.»
«Dove metto i dischi?»
«Dammi i calzoni e la giacca.»
«Non si può dire che sei molto attivo, eh?»
«Nessuno con il cervello a posto si aspetterebbe che lo sia», rispose Isaac Newton, estraendo le chiavi della macchina dalla tasca e un fascio di banconote da un portafoglio. «Compera una di quelle valigie per campionari, una valigetta che tu possa portare con te sull’aereo. Sarà meglio che prendi anche questi franchi svizzeri. E comprami delle lamette da barba.»
Alle undici e venti Frances Margaret ritornò. Con un tocco della sua vecchia spavalderia annunciò, entrando nella stanza: «Beh, ce l’ho fatta. Ma vorrei vedere te fare dei pacchetti postali a Newmarket. Ho dovuto girare tutta la città per trovare le buste abbastanza grandi, le forbici, il nastro adesivo, il pennarello. Basta chiedere una cosa per sentirti rispondere che non ce l’hanno. Ho trovato però una valigetta molto carina per i dischi».
«Allora sistemali con molta attenzione, in maniera da sapere come sono disposti. Se alla dogana svizzera ti dovessero chiedere qualcosa in proposito, non raccontare balle. Di’ che stai portando del materiale scientifico da Cambridge al CERN. Ho già telefonato a Kurt Waldheim a Ginevra — lui era il fisico teorico più importante nel gruppo impegnato nello studio del top quark. Lui o sua moglie verranno a prenderti all’aeroporto. La moglie di Kurt si chiama Rosie. Sono entrambi sulla trentina. Se dovessi avere storie con la dogana, lascia che se la sbrighi Kurt. L’aereo parte da Heathrow alle 6,10 del pomeriggio. Dobbiamo andare a prendere il biglietto a Newmarket — ho preferito servirmi di un’agenzia di viaggio di laggiù — e ho noleggiato una macchina che ti porterà all’aeroporto. Si troverà al White Hart Hotel nella High Street di Newmarket alle due. Tu avrai bisogno di andare prima a Cambridge a prepararti il bagaglio, il più leggero che puoi. Potrai comprare tutto ciò che vorrai mentre i dischi saranno sotto esame. Ho pagato il conto del motel e ho convinto quelli del bureau a lasciarmi usare la loro macchina per scrivere.»
«Sei un organizzatore perfetto, eh?»
«E’ per questo che mi tengono.»
Isaac Newton porse a Frances Margaret un foglio dattiloscritto soggiungendo: «Difendi questo foglio a costo della vita. Sono le istruzioni alla mia banca di Ginevra perché tu possa riscuotere il mio bonifico».
«Non dovresti essere «tu» a pagare per questa roba.»
«No, non dovrei», convenne Isaac Newton, «ma il fine sarà molto più grande del mezzo con il quale sarà ottenuto, lo scommetto.»
Frances Margaret vide che le schede tecniche erano ben sistemate in una scatola.
«Ho avuto anche la scatola dal bureau», spiegò Isaac Newton. «Magari potresti chiuderla nel bagagliaio della macchina mentre mi faccio la barba e la doccia.»
Erano le 12,45 quando, dopo essere andati a ritirare il biglietto dell’aereo, Isaac Newton parcheggiò la Mercedes al White Hart Hotel, osservando, mentre spegneva il motore: «Siamo ancora in tempo per fare colazione. Accidenti, non avrei mai creduto di farcela».
Ci volle ancora un quarto d’ora perché la sala da pranzo dell’albergo si riempisse, per cui non ebbero difficoltà a trovare un tavolo.
Isaac Newton decise: «In barba al pericolo di emboli nel sangue, questa volta non puoi bere vino a tavola. Dobbiamo avere le idee chiare. Ci rimane solo un’ora prima della tua partenza, ma tu non mi hai ancora spiegato l’importanza dei cubi di ghiaccio e delle uova nello spazio. Che ne diresti di continuare nella tua spiegazione, per quanto il pasto te lo permetterà?»
«Beh», cominciò Frances Margaret, «sai che cos’è una cometa raschiasole?»
«Una cometa che raschia il Sole, immagino.»
«Sono poco comuni, con orbite che le portano quasi dentro il Sole, ma non proprio. Osservazioni dirette hanno stabilito che le comete raschiasole si spaccano, parecchio tempo dopo, in due o più pezzi, come se il calore ricevuto dal Sole le avesse indebolite. Dicono che il pezzo più grosso risultante dalla scissione non sia molto più grande degli altri, il che è importante. Gli astronomi riescono a vedere i pezzi mentre si separano. Il fenomeno è lento, il che dimostra che la cometa raschiasole non viene demolita da una violenta esplosione interna.»
«Perché si spacca, allora?»
«Gli astronomi pensano che ciò avvenga in seguito alla rotazione della cometa; questa, per lo meno, è una delle spiegazioni.»
«Non esiste una certa cosa chiamata limite di Roche? Mi sembra di ricordare che abbia qualcosa a che fare con gli effetti di marea dovuti all’interazione gravitazionale.»
Frances Haroldsen scosse violentemente la testa in segno di diniego. «Non in questo caso. Decisamente no. Il limite di Roche vale solo se puoi ignorare la forza interna di un corpo. In un corpo piccolo come una cometa, la forza interna supera di gran lunga gli effetti di marea, di vari ordini di grandezza. Ma affrontiamo il primo grosso problema. Benché gli effetti dovuti alla rotazione siano più importanti degli effetti di marea, tuttavia non sembrano ancora sufficienti.»
«Per che cosa?»
«Per superare la resistenza alla rottura del ghiaccio a temperatura bassissima, la materia di cui si compongono, sembra, le comete. Delle piccole sfere di ghiaccio, si potrebbe dire. Per conto mio non sono riuscita a trovare un’altra spiegazione del dilemma se non quella che non si tratta affatto di sfere di ghiaccio. Sembrano più simili a un «uovo», appena deposto dalla «gallina», solo che l’uovo ruota intorno a se stesso. Se uno di queste uova viene a trovarsi in un’orbita che lo porta molto vicino al Sole, il grande calore spezza il guscio dell’uovo rotante, il quale poi si rompe lentamente in un certo numero di pezzi in seguito alla rotazione. Di solito, le comete sono naturalmente rotonde, non a forma di uovo, benché finiscano per assomigliare molto a un uovo mentre si spaccano.»
«Beh, e che cosa c’è che non va in tutto questo?»
«Perché risolvendo un problema ne sorge un altro. Ecco, vedi, le comete percorrono la massima parte della loro esistenza lontane dal Sole, quasi tutte alla periferia del sistema solare, al di là dei pianeti più lontani, dove si raffredderebbero subito.»
«Capisco… l’uovo nello spazio diventa più duro della pietra.»
«Sì. Se allo stato iniziale una cometa è liquida, come un uovo appena deposto dalla gallina, si solidificherebbe per congelamento in circa diecimila anni. Anche se avesse un guscio con eccellenti qualità isolanti, simile alla polvere lunare.»
«Ma perché la cometa non dovrebbe sciogliersi mentre si avvicina al sole?»
«E’ facile rispondere a questa domanda. Anche se il calore sembra tanto, non basta. Una cometa raschiasole, vedi, resta a stretto contatto con il Sole solo per circa un’ora. E’ facile calcolare che in un’ora solo uno strato superficiale di 50-100 metri di spessore si scioglierebbe ed evaporerebbe. Per una cometa con un diametro di cinque chilometri, questo periodo ovviamente non è sufficiente. Il Sole non può fare altro che rovinare lo strato superficiale, spaccando l’uovo.»
«Qual è la risposta, allora? E’ possibile che il calore di origine radioattiva mantenga caldo l’interno di una cometa?»
«Questa sembrerebbe la logica deduzione, ma il fenomeno richiederebbe una formidabile quantità di materiale radioattivo, e il guaio è che non esistono meteoriti con quantità anche lontanamente simili. Alcune delle meteoriti provengono probabilmente da comete, vedi. Così, anche questa supposizione si rivela sbagliata.»
«Quale sarebbe la quantità che tu chiami formidabile?»
«Beh, se il materiale radioattivo consistesse in uranio, ci vorrebbero almeno cento parti su un milione, cioè una concentrazione di uranio talmente elevata da fare paura.»
«Tenendo conto del decadimento naturale dell’uranio, immagino?»
«Sì, naturalmente.»
«Come hai fatto ad apprendere tutte queste cose, Frances Margaret?»
«Oh, ne discutevo talvolta con Mike Howarth. Poi sono arrivata a controllare i fatti.»
«Prevedo che sarà proprio ciò che farò io nei prossimi pochi giorni.»
«Non lo trovi strano? Mike Howarth diceva che l’unica via di uscita da tutte queste difficoltà era la produzione di calore mediante il metabolismo biologico, il che sembra una bella soluzione finché uno non si rende conto che le comete hanno un’età superiore ai quattromila miliardi di anni. Contare sulla conservazione del calore con mezzi biologici per un tempo così lungo non mi sembrava giusto.»
«Non lo è», disse Isaac Newton, sicuro del fatto suo. «Secondo me è abbastanza giusta la spiegazione radioattiva, ma mediante fissione, non decadimento naturale.»
«Un reattore nucleare!» esclamò Frances Haroldsen. «Ma sicuramente solo un reattore nucleare funzionante in condizioni molto «controllate»?»
«Hai mai sentito parlare del reattore OKLO? Nel Gabon, in Africa Occidentale?»
«Non si tratta di qualcosa accaduto circa duemila milioni di anni fa? Ho sentito dire che doveva trattarsi di un reattore nucleare naturale. Ecco un’idea interessante.»
«Lo è, tanto più che non si trattava di un reattore naturale.»
«Spiegami, capo!»
«Non c’è tempo, Frances Margaret. Temo che la clessidra segni la fine della nostra conversazione. Ma quando arriverai al CERN, chiedi a Kurt Waldheim di mostrarti la documentazione sul reattore OKLO. Resterai sorpresa.»
Quando si alzarono da tavola, mancavano dieci minuti alle due.
Frances Margaret disse: «Spero di essere stata d’aiuto, almeno un po’».
Isaac Newton la cinse con il braccio.
«Non un «po’, molto». A mio avviso, comunque, tu hai trasformato una supposizione con una probabilità su cento di validità in una quasi certezza.»
La macchina con l’autista stava aspettando. Isaac Newton e Frances Haroldsen si baciarono prima che lei prendesse posto sul sedile posteriore. Isaac Newton le passò la valigetta contenente i dischi e i nastri. Poi, mentre la ragazza continuava a guardarlo attraverso il lunotto posteriore, Isaac Newton gridò: «Non dimenticare il passaporto!»
Non appena partita Frances Haroldsen, Isaac Newton telefonò alla signora Gunter per avvertirla che sarebbe arrivato al laboratorio verso le tre. Effettivamente erano le 2,45 quando entrò con la Mercedes nel parcheggio del Cavendish Laboratory. Sceso dalla macchina si mise a cercare prima di tutto il vecchio Scrooge.
«L’hanno cercata ovunque, professore», cominciò Scrooge.
«Chi?»
«Tutti. L’ispettore della polizia, tanto per cominciare.»
«Era un ispettore o un sergente?»
«Sembrava un ispettore. Hanno buttato per aria l’ufficio del giovane Mike Howarth. Da quanto ho sentito è stata una faccenda singolarmente inaspettata. O, forse dovrei dire, inaspettatamente singolare. E’ vero che è stato lei, professore, a trovarlo nella cappella del Trinity?»
«E’ questo che stanno dicendo in giro?»
«Qualcosa del genere, professore.»
«No, è stato il portiere di notte del Trinity che lo ha trovato.»
«Questo mi sembra più logico, non le pare? Non riuscivo a immaginarla a zonzo nella cappella nel bel mezzo della notte benché da giovane ne abbia combinate di tutti i colori. Ci sono parecchie cosette che potrei raccontare, sa?»
«Ma non lo farà. Conto su di lei, Scrooge.»
«Di me può fidarsi, professore, come le ho già detto.»
«La polizia ha portato via qualcosa dall’ufficio di Mike Howarth?»
«Uno dei ragazzi dice di sì, ma io non ho visto nulla. Quando sono usciti dall’ufficio hanno messo dappertutto nastri adesivi e sigilli.»
«Mi piacerebbe dare un’occhiata.»
Scrooge lo guidò nei corridoi finché non vennero a trovarsi davanti a una porta sulla cui targhetta si leggeva DR. M. L. HOWARTH. Gli interstizi in alto e ai lati della porta erano sigillati con nastro adesivo di colore blu.
«Così sapranno se qualcuno è entrato», spiegò Scrooge senza alcuna necessità.
«Ha la chiave?»
«No, non ce l’ho né potrei averla. La signora Gunter ne avrà una, a meno che l’abbiano portata via.»
Isaac Newton si mise a rovistare nella tasca dei pantaloni, tirò fuori le chiavi dell’automobile e disse a Scrooge: «La mia macchina è la Mercedes che troverà nel parcheggio».
«L’ho notata, professore. Scommetto che riesce a dare la birra a tutti con questa; non come quell’auto sportiva che aveva prima.» Scrooge proruppe in una risata al ricordo. «Un orribile vecchio trabiccolo rosso, se non sbaglio?»
«Roba del lontano passato, Scrooge. Nel bagagliaio troverà una scatola piena di scartoffie. Potrebbe metterla in magazzino per mio conto, in un posticino dove nessuno la noterà? Lei deve proteggere quelle carte a rischio della vita. Mi prometta che non farà entrare nel magazzino nemmeno l’arcangelo Gabriele.»
«Lei lo sa che non farei mai una cosa del genere, professore. Ho mai permesso a qualcuno di rovistare nel mio magazzino?»
«E’ questo il ricordo che ho di lei! Lei non è cambiato molto, Scrooge, eh?»
«E probabilmente non cambierò. Pensa che riuscirò a trasportare la scatola da solo?»
«Certamente», rispose Isaac Newton porgendo le chiavi a Scrooge. Poi soggiunse: «Lasci le chiavi nel cassettino del cruscotto dopo aver aperto il bagagliaio».
«OK, lo faccio subito. Bisogna sempre scegliere il momento giusto, professore, non è così?»
«Dov’era andato a finire?» chiese la signora Gunter in tono di rimprovero quando Isaac Newton si affacciò alla segreteria.
«A Londra.»
«Beh, abbiamo avuto la polizia da queste parti», annunciò lei nel suo migliore stile di lanciatrice di frecce.
«Ho visto che sono entrati nell’ufficio di Mike Howarth. Aveva il mandato di perquisizione l’ispettore?»
«Non che io sappia, ma può averlo consegnato a uno degli assistenti.»
«Potrebbe informarsi in proposito, per favore? Poi la prego di telefonare al professor Featherstone alla facoltà di veterinaria. Se lui può, mi piacerebbe incontrarlo questo pomeriggio, diciamo verso le quattro. Inoltre dovrebbe telefonare anche al professor Boulton per chiedergli quando potrò traslocare nella sua magnifica casa, quella con le fondamenta in disfacimento.»
«Dubito che lei possa essere libero per le quattro, professore. Il signor Clamperdown e un altro signore la attendono. Peccato non sapessero che lei era a Londra. Si sarebbero risparmiati il viaggio.»
«Ma signora Gunter, io sono andato a Londra per vedere la Regina, non il signor Clamperdown e quell’altro signore! (8) Può dire al professor Featherstone che sarò da lui alle quattro, se va bene per lui, naturalmente. Inoltre, se il signor Clamperdown dovesse rifarsi mai più vivo in questo laboratorio, gli dica per favore di aspettare al pianterreno, nella hall, «non» nel mio ufficio.»
«Ah, signor Clamperdown!» esclamò Isaac Newton con finta affabilità quando entrò nell’ufficio dove trovò il funzionario seduto come al solito sulla grande poltrona di pelle. «Che cosa si prova ad avere per le mani un suicida?»
Clamperdown balzò in piedi e indicò un uomo di media statura, dai capelli brizzolati e gli occhiali con la montatura d’acciaio.
«Permetta che le presenti il signor Halifax. E’ probabile che non vi conosciate.»
Isaac Newton afferrò la mano di Halifax con tanta forza da provocare quasi un gemito dell’altro, e chiese sorridendo: «Lei è del dipartimento legale del CERC, signor Halifax?»
«Esatto.»
«E’ un brutto lavoro per lei. I giornali se la prenderanno con il povero vecchio Clamperdown qui presente, immagino. Il CERC che impiega il denaro del contribuente in maniera tale da spingere al suicidio uno dei più promettenti scienziati della Gran Bretagna. Questa volta le tocca occuparsi di una faccenda scottante.»
«Non è questo il motivo per il quale siamo venuti a trovarla», riuscì a dire Clamperdown.
«Sono sorpreso che lei trovi il tempo per fare altre cose. Io al posto suo non lo troverei. Sarei preoccupato della possibilità che la giuria del Coroner pronunci un verdetto di omicidio colposo nei confronti del CERC», disse Isaac Newton con l’aria più cupa di cui era capace.
«Per dirla brevemente, si tratta dei documenti e delle cose appartenute a Howarth», insisté Clamperdown.
«Che c’entrano i documenti e le cose appartenute a Howarth?»
«Non credo che lei abbia avuto tempo per leggere nei particolari quanto stabilito dai contratti del CERC, professor Newton, ma quando lo farà, si accorgerà che…»
«I documenti e le cose appartengono al CERC?»
«Sì, effettivamente è così.»
«Non sarebbe più giusto dire che appartengono al contribuente inglese?»
«Su, andiamo, Newton», lo interruppe Clamperdown in tono severo, «lei sa perfettamente che il CERC è un organo amministrativo debitamente abilitato a impiegare il denaro pubblico, mentre il laboratorio non lo è.»
«Non desidero fare dell’ostruzionismo, signori», disse Isaac Newton con finta gentilezza mentre prendeva posto dietro la scrivania, «ma non c’è una certa contraddizione nel suo punto di vista? Sono passate più o meno ventiquattr’ore dal momento in cui lei era seduto proprio su quella poltrona, signor Clamperdown, per dirmi che il CERC e i suoi comitati consideravano il lavoro di Mike Howarth una cosa completamente priva di senso. Perché allora ci tiene tanto a entrare in possesso della sua documentazione? Il CERC sta forse assumendo il ruolo di esperto in cose assolutamente prive di senso?»
«Io non devo esprimere giudizi di natura scientifica, professor Newton. Mi occupo della situazione legale. E’ questo il mio compito», intervenne l’uomo dai capelli brizzolati.
«Beh, per facilitarle un po’ il lavoro, signor Halifax, e per dimostrarle che il laboratorio rispetta la legge — supponendo che sia vero quanto lei mi dice — la soluzione più semplice sarebbe quella di restituire i documenti e le cose di Mike Howarth a lei, dopo aver fotocopiato il tutto.»
«Dal punto di vista legale è evidente che tocca al CERC mettervi a disposizione le copie del materiale, e non viceversa.»
«Quale sarebbe la procedura?»
«Lei dovrebbe scrivere al presidente, e il consiglio prenderebbe in esame la sua domanda», rispose Clamperdown.
«La domanda verrebbe presa in considerazione in senso favorevole?»
«Immagino di sì.»
«Ma come potrei essere certo che il materiale inviatoci sarà «tutto» quello appartenuto a Howarth e non una parte selezionata con cura?»
«Lei dovrebbe fidarsi di noi.»
«Persino lei, Clamperdown, deve rendersi conto dell’assurdità di questa proposta. Mi dispiace, signori, che siate venuti qui per niente. Se volete il materiale di Howarth, dovrete ottenerlo per via legale con la sentenza di un tribunale. Poi sarà interessante vedere come l’opinione pubblica reagirà in tutta questa faccenda, specialmente per quanto riguarda la disdetta del contratto di Howarth.»
«Naturalmente ci rivolgeremo innanzitutto al vice del Lord Cancelliere», disse Clamperdown con l’aria di un giocatore di carte che mette in tavola l’asso decisivo, e sottolineò la dichiarazione picchiando il pugno sulla scrivania.
«Il che vuol dire che altri istituti dell’Università si vedrebbero esposti a misure poco simpatiche a causa della mia intransigenza. Ah, Clamperdown, la sua abilità mi terrorizza. Mi arrendo, signori. Avrete ciò che desiderate.»
Quando la signora Gunter comparve in risposta alla chiamata con il cicalino, Isaac Newton riprese: «Buone notizie, signora Gunter. Il signor Halifax e il signor Clamperdown hanno appena promesso che il CERC accoglierà una nostra richiesta relativa allo stanziamento dei fondi necessari per sostituire il dannato cicalino con un sistema di comunicazione interna. Per ricambiare l’atteggiamento generoso del CERC, consegnerò ai signori qui presenti certi documenti e altro materiale. La prego perciò di ritornare qui con il passe-partout che permette di aprire le porte di tutti gli uffici. Inoltre dovrebbe chiedere a uno degli assistenti di venire all’ufficio di Mike Howarth con una macchina fotografica».
Quando la signora Gunter se ne fu andata, Isaac Newton proseguì: «Comprenderete, signori, che per tranquillizzare la mia coscienza e poter dormire di notte, desidero avere la documentazione fotografica del momento in cui vi consegno i documenti e il materiale».
Scrooge e uno degli assistenti più giovani provvisto di macchina fotografica stavano aspettando davanti all’ufficio di Mike Howarth.
«Potete cominciare fotografando tutti questi nastri adesivi», disse Isaac Newton. «Sarà bene che sulla fotografia si notino anche le nostre persone, in maniera che la documentazione sia evidente. Andiamo, Clamperdown, non faccia il timido. Lei «vuole» quei documenti, no?»
Scattata la fotografia, Isaac Newton chiese a Scrooge di togliere i nastri, ma poi cambiò idea, si fece avanti lui stesso e disse: «No, forse è meglio che lo faccia io».
Aprì con la chiave l’ufficio e, prendendo per il braccio Clamperdown, entrò. L’ufficio era completamente vuoto.
«Facciamo un’altra fotografia. Riprendendo tutto questo vuoto. Andiamo, Clamperdown, resti nell’obiettivo. Avrà bisogno della foto per dimostrare al suo presidente di aver fatto del suo meglio. Purtroppo, qualcuno è entrato qui prima di lei. Lei è sfortunato, amico mio. Il mondo non è un posto soave e ingenuo, se lo ricordi.»
Le quattro del pomeriggio erano passate da pochi minuti quando Isaac Newton arrivò alla facoltà di veterinaria.
«Chiedo scusa se sono un po’ in ritardo. Ho avuto visite», spiegò a Featherstone, i cui occhi azzurri ammiccarono mentre rispondeva:
«Immagino che sarai molto occupato. Mi dispiace per quanto è successo al tuo collaboratore. E’ proprio una sfortuna quando capita una cosa del genere proprio all’inizio, senza darti il tempo di prendere le redini in mano».
«Ti hanno raccontato i particolari?»
«Solo voci, delle quali non mi fido molto.»
«Sono venuto a trovarti perché c’è un punto sul quale vorrei avere un consiglio da te. Ma sarà meglio che cominci a raccontarti ciò che e accaduto, ciò che ho visto io, voglio dire.»
Poi, Isaac Newton raccontò il susseguirsi dei fatti da quando, alle due meno un quarto, era stato costretto ad alzarsi, fino al suo ritorno alla vecchia foresteria circa un’ora più tardi, solo che non menzionò la presenza di una certa signorina Haroldsen.
«A ripensarci», concluse, «ho commesso l’errore di non esaminare più attentamente il corpo di Howarth. Ma la luce era scarsa e la scena era alquanto sinistra.»
Gli angoli della bocca di Featherstone si sollevarono mentre egli annuiva.
«Beh, immagino che fosse davvero un tantino sinistra», disse. «Ma nel suo insieme, in quella faccenda c’è qualcosa che non va.»
«Immagino che nessun corpo si irrigidisca immediatamente dopo la morte, non è così? Quanto tempo ci vuole perché subentri il «rigor mortis»?»
«Beh, non sono un patologo, naturalmente. Ma il «rigor mortis» si manifesta nei mammiferi generalmente a una certa distanza dalla morte che varia da specie a specie. Il fattore principale è costituito dalle dimensioni dell’animale. Nel caso degli esseri umani si parla di ore, non minuti, benché l’intervallo sia notoriamente variabile di caso in caso.»
«Comunque non potrebbe essersi irrigidito subito. Si sarebbe dovuto irrigidire come una tavola di legno per mantenere la pressione sul tasto dell’organo. E’ questa la cosa di cui avrei dovuto rendermi conto allora.»
«Sei sicuro che si trattasse di un solo tasto? Forse si è piegato in avanti, assumendo la posizione che tu stesso hai visto, a premere con la mano o con il braccio la tastiera.»
«Ci sono tre testimoni che hanno manifestato un’opinione diversa. Il portiere di notte ha definito il suono proveniente dall’organo simile a una sommessa nota lamentosa. La mano o il braccio sulla tastiera avrebbero prodotto ovviamente una stridula dissonanza.»
«Può darsi che il portiere avesse perso la testa, terrorizzato com’era.»
«Non potrei dargli torto. Tuttavia non credo che sia un testimone così poco attendibile. In fondo, scoprire lì il corpo non aveva su di lui lo stesso effetto che poteva avere su di noi. Lui è abituato a quell’ambiente.»
«E tu, che cosa ne pensi?»
«Sono perplesso, ovviamente, come del resto la polizia. Il fatto più importante è che un uomo è morto. Il portiere e il cappellano del Saint John’s College hanno detto entrambi che quello era Mike Howarth, e anch’io l’ho pensato. Per cui possiamo attribuire a questa constatazione il valore di un dato di fatto. Ci sono tre ipotesi. Mike Howarth può essere morto di morte naturale, essersi suicidato o essere stato assassinato. Se la morte è stata naturale, perché è avvenuta nella cappella del Trinity, a quell’ora chiusa a chiave e perciò inaccessibile a chi non appartenesse al College? Perché l’organo era acceso? Perché Howarth non è morto in uno dei banchi invece di arrivare fino all’organo? Una risposta a queste domande è talmente difficile da far apparire impossibile una morte per cause naturali. Ho visto Howarth poche ore prima della sua morte e non ho notato niente in lui che denunciasse un qualunque malessere fisico.»
«E mentalmente?»
«Era agitato, molto agitato.»
«Al punto da rendere possibile il suicidio?»
«Un finanziamento concessogli dal Consiglio di Ricerca era stato revocato. Lui era molto arrabbiato. Considerava il provvedimento una sorta di vendetta nei suoi confronti.»
«Era paranoico?»
«Per un certo verso sì. Era convinto di aver fatto una grande scoperta, di aver individuato segnali intelligibili provenienti da una cometa.»
«Questa secondo me è grossa.»
«Solo che non risolve il problema del corpo irrigidito e della pressione su un unico tasto dell’organo.»
Isaac Newton s’interruppe per un attimo mentre un nuovo pensiero gli si affacciava alla mente.
«Si è accesa la lampadina?» chiese infine Featherstone con un sorriso.
«In certo qual modo sì. Se ti chiedi come un unico tasto dell’organo sia stato compresso, il sistema esiste. Premi il tasto e riempi il vuoto risultante con plastilina.»
«In tal caso, la plastilina avrebbe dovuto esserci.»
«Ma se invece della plastilina dovessi servirti di un materiale solido, congelato, che si scioglie progressivamente o — meglio ancora — evapora in circa un’ora? Sono sicuro che in qualsiasi manuale di chimica puoi trovare una sostanza del genere.»
«Questo presupporrebbe una mentalità particolare.»
«Sì, è vero», convenne Isaac Newton. «Ma se ammetti che un uomo di mentalità particolare abbia voluto richiamare l’attenzione del mondo sulla propria morte, come capita talvolta, penso, ai suicidi, sarebbe difficile trovare un sistema migliore. La notizia occuperà le prime pagine dei giornali, non ti pare?»
Featherstone sorrise, un po’ a disagio.
«Penso di sì. Specialmente durante l’inchiesta del Coroner. Per quando è stata fissata? Può darsi che venga a sentirla.»
«Non ho sentito ancora quando la faranno, ma te lo farò sapere.»
«E la possibilità che si tratti di un assassinio? Suppongo che tu possa sapere ben poco in quel senso. Cioè della vita privata di Mike Howarth.»
«Effettivamente, il motivo per un omicidio ci potrebbe essere. Sono venuto da te per parlartene perché ritengo che qualcun altro oltre a me dovrebbe esserne al corrente. Non è che voglia cacciarti in una situazione pericolosa, ma la conoscenza del fatto non dovrebbe rappresentare alcun rischio per te purché non ne parli con nessuno. Il guaio è che io stesso probabilmente non potrò tener segreta al faccenda perché da un momento all’altro esploderà.»
«Qui, da noi, siamo abituati ad avere a che fare con animali pericolosi», rispose Featherstone ammiccando con gli occhi azzurri.
«Le onde dei segnali scoperti da Mike Howarth erano molto lunghe, troppo lunghe per penetrare attraverso la ionosfera. Il che significa che i segnali, se trasmessi da un satellite, non potrebbero essere mai scoperti da una qualunque attrezzatura sulla Terra. Mi sono accorto subito, non appena Howarth mi ha menzionato la lunghezza d’onda, che poteva essere una cosa molto importante dal punto di vista militare. Qualcuno potrebbe mettere in orbita un satellite che dà ordini ad altri satelliti. L’unica maniera in cui il nemico potrebbe venirne a conoscenza sarebbe intercettando i messaggi con un suo satellite in orbita. Ciò che può essere accaduto è che Howarth abbia fatto, per puro caso, un’intercettazione del genere, inciampando in tal modo in un importante segreto militare.»
«Guerra pianificata nello spazio? Non sapevo che esistesse anche una cosa del genere.»
«E’ già in atto da tempo, in segreto. E assume di anno in anno dimensioni sempre maggiori.»
«Ma perché una simile idea sarebbe un segreto? Dovrebbe essere una faccenda piuttosto ovvia per la gente che partecipa al giochetto.»
«E’ difficile produrre onde molto lunghe senza un equipaggiamento pesante, troppo pesante, normalmente, per un satellite. Ma qualcuno potrebbe aver scoperto il sistema di trasmetterle con un’attrezzatura leggera. In tal caso, sarebbe l’esistenza di una simile attrezzatura a costituire il segreto. Questo, naturalmente, perché se tu sai che una cosa è possibile, ti sarà molto più facile scoprirla per tuo conto…»
«… che non nel caso in cui tu ignorassi questa possibilità? Questo lo capisco.»
«Il guaio diventa veramente grosso se tu, per errore, ritieni che qualcosa non sia possibile», annuì Isaac Newton. «Beh, vedi, si può immaginare che la ricezione da parte di Mike Howarth di presunti segnali provenienti da una cometa abbia in realtà messo a nudo un importante segreto militare. Qualcuno potrebbe aver ritenuto opportuno stroncare la faccenda sul nascere, specie dopo che io ho lasciato capire di volerlo aiutare.»
«E tutto sarebbe stato fatto in modo da farlo sembrare un grottesco suicidio? Ma una soluzione del genere non otterrebbe l’effetto opposto, attirando l’attenzione di tutti?»
«Attirando l’attenzione su cosa? Sul meccanismo dell’organo. Sulla nota lamentosa dell’organo. Sulla cappella del Trinity College. Su tante altre cose di nessuna importanza.»
«Anche se le cose stessero così, non sarebbe stato molto meglio e più semplice inscenare un incidente di macchina?»
«Sì, secondo la tua mentalità e la mia. Ma la mentalità dei gruppi operativi delle varie organizzazioni spionistiche del mondo non è identica alla nostra. Ricordi la faccenda dell’ombrello bulgaro con il puntale avvelenato?»
Isaac Newton prese abbastanza sul serio l’ultima parte del la conversazione con Featherstone da sentirsi contento di aver dato retta all’istinto e di aver allontanato Frances Haroldsen da Cambridge, mettendola al riparo da qualsiasi pericolo imprevisto. Inoltre prese abbastanza sul serio i discorsi fatti con Featherstone per trovare disgustosa l’idea di farsi punzecchiare da un ombrello nella Trinity Street, o nella Great Square oppure nella Combination Room.
Ritornato alla sua macchina nel parcheggio del Cavendish Laboratory, Isaac Newton controllò prima di tutto se Scrooge aveva lasciato le chiavi nel cassettino del cruscotto e se aveva portato via dal vano bagagli la scatola dei documenti. Poi, sospettoso come sempre, esaminò per cinque minuti tutta la vettura, per accertarsi che né Clamperdown né nessun altro avesse manomesso qualcosa.
Invece di svoltare a destra nella Madingley Road per dirigersi verso i College, attraversò Coton per raggiungere l’intersezione della M 11 con la Barton Road. Prese l’autostrada nella direzione nord e uscì a est verso Milton, procedendo con la Mercedes a una velocità che normalmente avrebbe considerato poco saggia, solo per avere la sicurezza di non essere seguito. Certo di questo fatto, svoltò a Milton in direzione nord per riprendere la strada che da Stretham porta a Ely. Erano esattamente le sei e un quarto quando parcheggiò la macchina al Lamb Hotel di Ely, dove prese una stanza per la notte.
Cenò a un tavolino in un angolo della sala da pranzo del l’albergo, sperando che Featherstone non fosse rimasto tanto impressionato dalla conversazione quanto lo era rimasto lui stesso. Ma il prepotente desiderio di confidarsi con qualcuno lo aveva indotto a rivolgersi al professore di veterinaria. Un uomo capace di trattare con leoni e tigri armato solo di un fucile carico di pallottole tranquillanti doveva essere sicuramente capace di tenere testa ai bulgari o a chi altro.
Il pensiero di Isaac Newton tornò alla colazione consumata con Frances Haroldsen e all’ultima parte della conversazione, quando aveva menzionato il reattore OKLO nel Gabon. La notizia della scoperta, fatta da fisici nucleari francesi, di grandi concentrazioni di prodotti di fissione in rocce risalenti a duemila milioni di anni fa, era stata accolta con scetticismo dagli studiosi di tutto il mondo, da scienziati esperti come lui stesso e Kurt Waldheim. Questo perché in condizioni naturali ogni sorta di inquinamento neutronico avrebbe impedito il raggiungimento della soglia critica di fissione anche in presenza di ricchi minerali di uranio e persino in presenza di concentrazioni di U-235 risalenti a duemila milioni di anni fa. Eppure, i francesi avevano finito per dimostrare di aver ragione, lasciando insoluto il problema dell’inquinamento neutronico.
La soluzione dell’enigma si ebbe quando un paleontologo americano andò a frugare nel terreno del reattore OKLO. Lo studioso notò che le concentrazioni particolarmente elevate di uranio erano associate a colonie di batteri fossilizzati. Fino a quel momento gli studiosi di fisica nucleare lo ignoravano, ma esistono specie di batteri che fanno precipitare l’uranio disciolto nell’acqua, in maniera da crearsi un guscio di uranio per formare le strutture note con il nome di stromatoliti. I due processi sono simili, solo che quando una colonia di batteri diventa abbastanza grande per formare una sufficiente concentrazione di uranio, l’insieme si trasforma in un reattore nucleare a generazione biologica. Il contenuto in carbonio dei batteri diventa il moderatore del reattore. Un esempio particolarmente impressionante, scoperto dagli americani, fu quello di una colonia alla quale sarebbe bastato mutare forma per raggiungere la soglia critica. La scoperta fece pensare che un reattore batterico controlla la propria stabilità semplicemente modificando la propria forma. Inevitabilmente, quindi, i batteri dovevano avere la capacità di resistere a enormi dosi di radiazioni, una conclusione che fu trionfalmente confermata quando batteri vivi e in buona salute vennero trovati all’interno dei reattori costruiti dall’uomo. Il problema OKLO era così risolto.
Una soluzione del genere — Isaac Newton l’aveva intravista subito, al termine della conversazione con Frances Haroldsen — spiegherebbe anche il problema del riscaldamento all’interno delle comete. Le comete restano calde grazie ai reattori nucleari a batteri, dimostrando in tal modo che deve esistere vita al loro interno. Questa constatazione, si era detto Isaac Newton, era un buon passo verso l’idea che nelle comete potesse esistere persino una forma di vita intelligente. In tal modo, le probabilità positive erano aumentate in maniera drastica, a suo avviso, per quanto riguardava la teoria di Howarth, nonostante il suo iniziale pessimismo.
Prima di crollare esausto sul letto, quella sera Isaac Newton telefonò a Waldheim a Ginevra. Dopo un minuto stava già parlando con Frances Margaret. La testa cominciò a girargli mentre ascoltava l’entusiastico profluvio di parole della ragazza, e il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu quello di chiedersi perché si trovava lì dov’era. Perché non era a Ginevra per sciare durante il week-end senza pensieri per la testa, per sciare con Frances Margaret? Invece si stava esponendo di proposito all’arrivo di una minacciosa valanga che — come qualsiasi persona ragionevole poteva prevedere — sarebbe scesa rombando lungo il fianco della montagna entro poche ore o pochi giorni, per portarlo a un probabile disastro.
Dopo aver fatto una buona dormita al Lamb Hotel, Isaac Newton era sceso in sala da pranzo per la prima colazione solo poco prima delle nove, ed era quindi arrivato in ritardo al laboratorio. Boulton, il professore di geostrofica, lo stava già aspettando. Non appena furono entrati nell’ufficio di Newton, Boulton affrontò subito il punto che gli premeva.
«Credi di poter prendere alloggio nella mia casa sin da oggi?»
«Mi sembrava che mi avessi detto alla fine della settimana.»
«Questo prima di essere avvertito dalle mie spie che Scuby sta puntando nella mia direzione. Naturalmente me ne vado. Stamattina. La mia partenza potrebbe sembrare plausibile se tu fossi alloggiato già da oggi nella mia casa. Sarebbe una valida scusa se qualcuno dovesse farmi domande.»
«Beh, per essere sincero, comincerei volentieri il trasloco. Oggi pomeriggio andrebbe bene?»
«Ho detto alla donna delle pulizie di mandare tutto a lavare. Così la casa sembrerà un po’ vuota finché le lenzuola e gli asciugamani non torneranno dalla lavanderia. Potresti cavartela intanto con della biancheria da letto portata via dal College? Penso che nessuno protesterebbe. A proposito, ho notato che ci sono delle talpe in giro. Ne parlerei all’Università, altrimenti si diffonderanno in tutta la zona.»
«Prenderò nota.»
«Un’altra cosa. Potresti prestarmi i soldi della tua cassa delle piccole spese? Finché Scuby non se ne sarà andato? Ti darò una ricevuta, naturalmente.»
«Che cosa c’è che non va?»
«Beh, tutti gli istituti lo fanno. Facciamo girare i soldi della cassa delle piccole spese in maniera che tutti gli uffici da lui visitati sembrino ben provvisti. Poi, quando se n’è andato, rimettiamo di nuovo a posto i soldi.»
«Non potresti servirti dell’assegno che ti ho dato ieri?»
«L’ho già versato — trasformandolo in marchi tedeschi. Il marco salirà sicuramente nei prossimi tre mesi.»
«Giochi al rialzo?»
«Niente affatto. Se fai una cosa del genere puoi rimetterci l’osso del collo con le oscillazioni. Basta un calo di due o tre Pfennig e sei fritto.»
«Come hai fatto a cambiare il tuo biglietto aereo? Di solito, le concessioni speciali APEX richiedono varie settimane di preavviso, no?»
«Oh, non bisogna mai seguire questa via. Posso indicarti un posto a Londra dove comprano i biglietti a blocchi interi. Non so precisamente come facciano, ma tu vai da loro con i soldi in mano, e un minuto più tardi esci con un biglietto per qualsiasi destinazione. Naturalmente è una scocciatura quella di andare a Londra, ma io mando la mia segretaria che mi aspetta poi all’aeroporto. Bene, adesso vado a prendere i soldi che ci sono nella sua cassa delle piccole spese e poi mi muovo. California, arrivo!»
«Temo che i soldi non siano molti.»
«Non preoccuparti, tutto fa brodo. Posso andare a trovare anche gli astronomi. Sembra che siano sempre pieni di soldi visto che viaggiano tanto, immagino. Oh, sì, c’è una cosa che devo dirti per metterti in guardia. Se qualcuno dell’Ufficio Tasse cominciasse a bighellonare attorno alla casa, dovrai dirgli che sei uno straniero. Altrimenti ti metteranno in catene subito. Hanno l’abitudine di farsi vivi alla domenica, quando pensano di trovarti a casa.»
«L’ispettore Grant e il sergente Forsyth», annunciò la signora Gunter un’ora più tardi. L’ispettore Grant, un uomo massiccio sulla cinquantina, con i capelli grigi, indossava l’uniforme della polizia. Il sergente Forsyth, un tipo smilzo, pressappoco dell’età di Isaac Newton, era in borghese.
«Ispettore Grant», esclamò Isaac Newton, alzandosi dalla scrivania per stringergli la mano, «sergente Forsyth», e, rivolto alla signora Gunter, chiese: «E’ stato trovato il mandato di perquisizione del quale ho chiesto ieri?»
«Non ancora, professore.»
«Forse posso chiarire questa faccenda, professore», disse l’ispettore estraendo un foglio da una grande busta che teneva in una mano, insieme col taccuino. «Ce l’ho qui», soggiunse, «perché possiate inserirlo nei vostri archivi.»
Isaac Newton esaminò il documento con cura, mettendoci un po’ di tempo. Poi disse: «Vuole archiviarlo, signora Gunter? E, tanto per rispettare tutte le formalità, signori, potreste essere così gentili da mostrarmi i vostri documenti di identificazione?»
«Sono d’accordo con lei, professore. Non si è mai abbastanza scrupolosi», annuì Grant tirando fuori un tesserino di identificazione munito di fotografia. Il sergente impiegò più tempo, evidentemente sorpreso dalla richiesta di Isaac Newton.
«Siccome non si è mai abbastanza scrupolosi, vorrebbe fotocopiare, signora Gunter, questi tesserini e unire le fotocopie al mandato? Voi, signori, non avete nulla in contrario, immagino?»
Il sergente fu sul punto di dire qualcosa, ma poi lasciò perdere.
«Siamo venuti da lei, professore, per chiederle se vuol assisterci nelle indagini», cominciò Grant.
«Riguardanti la morte del dottor Howarth?»
«Sì, è su questo che stiamo indagando, naturalmente.»
«Prima di accantonare la faccenda del mandato di perquisizione», disse Isaac Newton in tono ufficiale, «lei, ispettore, potrebbe forse spiegarmi come mai i suoi uomini sono entrati nell’ufficio del dottor Howarth e ne hanno asportato documenti e oggetti senza esibire prima il mandato.»
«Avevamo ricevuto l’ordine di consegnarlo a lei, professore. Ma lei non c’era.»
«Avrebbero potuto consegnarlo a qualche mio collaboratore o alla mia segretaria oppure lasciarlo addirittura sulla mia scrivania. Inoltre mi sembra che la porta dell’ufficio sia stata sigillata di proposito con il nastro adesivo per impedirci di renderci conto che del materiale era stato asportato illegalmente.»
«Noi non facciamo altro che tentare di risolvere una faccenda complessa e difficile, professore», rispose Grant.
«Apprezzo il fatto che «lei» lo faccia con questo spirito, ispettore. Resta da domandarsi se tutti siano spinti da motivazioni simili.»
«Noi speriamo che lei lo sia, professor Newton», intervenne il sergente.
«Innanzitutto devo dirle, professor Newton, che il Coroner ha fissato l’inchiesta per mercoledì prossimo, anche se probabilmente chiederemo un aggiornamento, dato lo stato delle indagini, nelle quali però speriamo di procedere grazie al suo aiuto.»
«Il mio aiuto è limitato dal fatto che mi sono incontrato con Howarth una sola volta e la nostra conversazione riguardò esclusivamente questioni scientifiche; inoltre mi trovo in quest’ufficio da soli quattro giorni.»
«Così, la diga ha ceduto, per così dire, proprio nel momento in cui lei arrivava?»
«Purtroppo è così.»
«Durante la conversazione con lui, ha notato nel comportamento del dottor Howarth qualche indizio che stesse meditando il suicidio?»
«Se lei mi avesse rivolto questa domanda subito dopo la conversazione avuta con lui, le avrei certamente risposto di no.»
«Ma ora ha cambiato idea?»
«In certo qual modo sì.»
«Perché?»
«Beh, se lei, invece di parlare subito di suicidio, dovesse chiedermi informazioni sull’equilibrio mentale del dottor Howarth, direi che era affetto da un fenomeno patologico spesso chiamato mania di persecuzione. Penso che la mia opinione sarà probabilmente confermata da persone che lo conoscevano molto meglio di me. Ma, detto questo, posso affermare che a mio giudizio, intendo il giudizio «scientifico», Howarth era «effettivamente» vittima di qualche persecuzione. Immagino che qualcuno potrebbe non essere d’accordo con me a questo proposito. Il guaio è, ispettore, che di fronte a domande riguardanti un suicidio mi sembra quasi impossibile dare una risposta.»
«Non ho capito bene ciò che vuol dire, professore.»
«Lei mi sta chiedendo un’opinione sullo stato mentale di un’altra persona, e ovviamente mi è impossibile dare un giudizio serio in quanto non sono quella persona. Io so che se un consiglio di ricerche dovesse revocare un contratto stipulato con me, mi metterei a fare qualcosa d’altro, a meno che, naturalmente, non riuscissi a scoprire un mezzo efficace per oppormi alla decisione. Non continuerei a lamentarmi del provvedimento.»
«E’ quello che faceva Howarth?»
«Sembra di sì.»
«Capisco. Ora devo porle qualche domanda riguardante lei stesso, se non le dispiace. Lei è cittadino britannico, professore?»
«Sì. Dal punto di vista legale sono un cittadino britannico residente all’estero.»
«Ma ora risiede qui.»
«Ci vorrà un po’ di tempo perché le autorità ne prendano atto. Non tutti hanno una partenza veloce come la sua, ispettore!»
«Beh, ieri mattina, professore, la mia partenza è stata veloce. Sono arrivato al suo alloggio al Trinity College verso le nove e un quarto, o giù di lì. Poi ho tentato varie volte di telefonarle sia qui in ufficio sia al College. A quanto sembra, lei era irreperibile per tutta la mattinata e l’inizio del pomeriggio. Le dispiacerebbe dirmi che cosa è successo dopo che lei vide per l’ultima volta i miei uomini, verso le due e mezzo del mattino di ieri?»
«Non ho alcuna difficoltà. Intendevo ritornare in Svizzera a fine settimana — ho ancora molte cose in sospeso da quelle parti — ma in vista di ciò che è accaduto qui, ispettore, era ovvio che dovevo rinunciare al mio progetto — o, meglio, che un’altra persona doveva andare in Svizzera al posto mio. Si trattava di questioni scientifiche, vede, per cui era meglio trasmettere il materiale a mano per mezzo di un fisico competente che non affidarlo semplicemente alla posta. Altrimenti, tanto per cominciare, io stesso non avrei preso la decisione di mettermi in viaggio.»
«Chi intende mandare al posto suo?»
«Uno degli assistenti del laboratorio.»
«Chi sarebbe?»
«Non voglio fare dell’ostruzionismo, ispettore, però le sue domande mi sembrano di scarso rilievo. Ma se proprio deve saperlo, si tratta della signorina Frances Haroldsen.»
«La conosce da molto tempo, professore?»
«Più a lungo della pazienza che intendo riservare a lei, ispettore. Pensavo che stesse investigando sulla morte di Howarth, non sulle mie faccende personali.»
«Sarebbe la signorina che si trovava nella sua stanza quando sono arrivati i miei uomini, ieri mattina?»
«Se vuol dire quando siamo stati bruscamente buttati giù dal letto, la risposta è sì.»
«Ma lei non la conosceva da molto tempo?» continuò l’ispettore Grant con la tenacia così necessaria nella sua professione.
«Lei può scrivere nel suo taccuino che si è trattato di un caso di fiducia a prima vista.»
«Che cos’è accaduto dopo che lei e la signorina siete ritornati al suo alloggio, verso le due e mezzo del mattino voglio dire?»
«Decidemmo che non volevamo più farci buttare fuori dal letto. Lei è sposato, ispettore? Mi preme di non mettere in imbarazzo né lei né il sergente Forsyth. A proposito, come si scrive, il suo nome, sergente? Con una ’y’ oppure con una ’i’, come i Forsith del Leicestershire? Spero che comprendiate dove voglio arrivare, signori.»
«Capisco che tutte queste domande possono sembrare un tantino indiscrete, professore, ma noi ci troviamo alle prese con una faccenda di notevole gravità. O, forse, lei non è di quest’opinione, professore?»
«Sarebbe una faccenda di notevole gravità se esistesse la minima possibilità di salvare la vita di Howarth, per esempio con una riconferma del suo contratto con il Consiglio delle Ricerche. Ma temo che sia troppo tardi. In altre parole: la morte in sé è una faccenda molto grave, ma ciò che accade dopo la morte è un «fait accompli».»
L’ispettore Grant non volle lasciarsi dirottare da questa risposta filosofica. «Potrebbe spiegarmi i suoi spostamenti tra le due e trenta e le nove e quindici di ieri mattina, professore? Non è obbligato a rispondere se non vuole, ma una risposta faciliterebbe le cose in seguito.»
«Per facilitare le cose in seguito, le dirò che la signorina e io abbiamo lasciato il Trinity College. Abbiamo passeggiato per un po’ e alla fine abbiamo deciso di raggiungere in macchina un motel. Abbiamo ricuperato la mia auto che era parcheggiata nella Jesus Lane e poi appunto siamo andati al motel.»
«Quale motel, professore?»
«Uno della catena Ladbroke sulla strada tra Londra e Newmarket, in località Six Mile Bottom.»
«Sì, so quale motel lei intende. Ce ne sono altri più vicini a Cambridge, professore. Perché ha scelto proprio quello?»
«Beh, la sera prima avevamo cenato a Babraham e immagino che siamo semplicemente usciti da Cambridge come avevamo fatto prima. Vede, ispettore, la morte di Howarth è stata raccapricciante, e la signorina era abbastanza sconvolta. Così non ci trovavamo nello stato d’animo adatto per calcolare le distanze alle quali si trovano i vari motel. Tanto più che io stesso ne conosco meno della metà.»
«Credo che il dottor Howarth avesse un cottage in quella direzione», fece Grant con aria indifferente.
«Lei è in vantaggio su di me, ispettore. Naturalmente ha potuto sfogliare i documenti.»
La signora Gunter apparve nel riquadro della porta.
«Mi ha chiamata, professore?»
«Sì, ho chiamato. Abbiamo finito la nostra chiacchierata, signora Gunter. Ha con sé i tesserini di questi signori? Ne avranno bisogno, sa?»
«Oh, sì, eccoli qui.»
«Bene. Beh, ispettore, ecco i vostri tesserini di riconoscimento. Spero che questa conversazione sia stata fonte di altrettante informazioni per lei come lo è stata per me.»
«Non abbiamo finito affatto, professore, se non le dispiace.»
«Effettivamente mi dispiace. Lei mi ha chiesto un dito e si è preso un braccio. Stia attento agli scalini mentre scende. Se il sergente Forsyth dovesse cadere e rompersi l’osso del collo, sarebbe una faccenda grave.»
«Ecco due infelici che se ne vanno, signora Gunter», disse Isaac Newton dopo l’espulsione dei due visitatori.
«A me non sembravano infelici.»
«Perché lei non riesce a gettare lo sguardo nell’intimo delle loro anime.»
«No, non ne sono capace e dubito che mi piacerebbe farlo.»
«Quanto ha preso il professor Boulton dalla cassa delle piccole spese?»
«Venti «sterline».»
«Ha lasciato la ricevuta?»
«Sì, una ricevuta, però, che ha il valore di un biglietto ferroviario usato, se vuol saperlo.»
Isaac Newton trasse due banconote da dieci sterline dal portafoglio dicendo: «Farà bene a rimettere a posto la cassa con questi soldi».
«Ma lei non deve ricorrere al suo denaro, professore!» esclamò la signora Gunter con voce scozzese, indignata.
«Comincio ad affezionarmi a lei, signora Gunter. Mi dica: ha notato qualcosa di strano nel sergente?»
«Solo che aveva l’aria di guardare in giro per tutto il tempo. Immagino che lo facesse solo per abitudine professionale», rispose la segretaria.
«Il guaio è che non ho scoperto come scrive il proprio nome, se con la ’i’ o la ’y’, né come lo scrive comunque. Conosce Sherlock Holmes, signora Gunter? Se lo conosce ricorderà il suo consiglio: mai prendere il primo taxi né il secondo. Ma nell’epoca innocente di Holmes-Watson veniva considerato sicuro il terzo taxi.»
«Ricordo qualcosa del genere, professore.»
«Beh, signora Gunter, vorrei darle un piccolo consiglio. Se due uomini si presentano nel suo ufficio, uno imponente e importante, un altro non così importante, uno che parla e l’altro che non parla, tenga d’occhio il tipo più piccolo. Altrimenti, signora Gunter, può aspettarsi una fregatura. Specialmente se i due uomini dicono di essere della polizia, il che potrebbe essere vero, ma anche no. Uno potrebbe essere della polizia e l’altro no. Mi segue, signora Gunter?»
«Aveva ragione, professore», esclamò la signora Gunter l’indomani mattina, «c’era effettivamente qualcosa che non quadrava in quei due uomini.»
«Come è arrivata a questa deduzione, signora Gunter?»
«Perché qualcuno ha rovistato in tutto l’ufficio durante la notte.»
Isaac Newton diede un’occhiata all’ufficio della segretaria e poi al proprio.
«A me sembra a posto», fece con un’alzata di spalle.
«Ma non lo è. Ne sono sicura. Inoltre è sparita la fotocopia del tesserino.»
La signora Gunter sollevò la cartella che stava sulla scrivania.
«Vede, quella dell’ispettore c’è, e c’è anche il mandato di perquisizione. Manca la fotocopia del tesserino del sergente.»
«E’ sicura di averla messa nella cartella?»
«Crede forse che abbia le traveggole?»
«Non oserei mai fare un’affermazione simile, signora Gunter. E’ sparito qualcosa d’altro?»
«Non me ne sono accorta finora. Ma le cartelle e le schede sono state spostate. Guardi qui, professore.»
La signora Gunter si diresse a passo cadenzato verso un armadietto-schedario indicando un cassetto che agli occhi di Isaac Newton sembrava perfettamente a posto.
«Non vedo niente», fece, di nuovo con un’alzata di spalle.
«No, lei non può accorgersene perché non è abituato a servirsi dello schedario. E poi non nota cose come queste. Ma le schede sono in disordine.»
«E tutti i cassetti sono così?»
«No, alcuni sono a posto. Un paio di cose non sono al posto giusto, ma all’infuori di questo cassetto sarebbe difficile accorgersene se non fossi abituata a ricordare tutto.»
«Che cosa sono queste carte?»
«I contratti del CERC.»
«Compreso quello del dottor Howarth?»
«Sì.»
Isaac Newton raggiunse il proprio ufficio e cominciò a controllare il contenuto della scrivania, arrivando alla conclusione che era stato il lavoro di un professionista. Si trattava di piccole modifiche delle quali non si sarebbe normalmente accorto. Due pagine spostate nel bel mezzo di un calcolo, la chiave passe-partout degli uffici e del laboratorio non nella posizione giusta. Infine riuscì a trovare solo una delle due serie di chiavi di riserva della Mercedes.
«Hanno rovistato anche nella mia cassaforte», soggiunse la signora Gunter.
«C’è ancora la cassa con i soldi per le piccole spese?»
«Sì, ma il resto è stato buttato per aria, com’è successo con l’archivio. Tutto è stato spostato. A quanto pare cercavano qualcosa che non hanno trovato. All’infuori della fotocopia del tesserino. Perché hanno preso quella del sergente e non quella dell’ispettore?»
«Perché l’ispettore Grant era veramente della polizia e l’altro no. Il «soi-disant» Forsyth aveva tutte le caratteristiche di un uomo dei servizi segreti. Me ne sono accorto dal momento in cui sono entrati in ufficio», rispose Isaac Newton.
«Vede, signora Gunter, noi avevamo la sua fotografia, e questo non andava affatto bene, le pare? L’idiota si è servito di uno pseudonimo che i servizi segreti usano sempre.»
«Che cosa significa tutto questo, professore?»
«Talpe al loro sporco lavoro, signora Gunter, un lavoro molto sporco. E il bello è, temo, che siamo stati proprio noi a provocarli. Il tipo era talmente convinto che avessi ciò che voleva lui da indurlo a buttare all’aria l’ufficio. Gente brutale, signora Gunter.»
Isaac Newton si astenne dal soggiungere che il materiale cercato dagli importuni visitatori era in parte ben nascosto in qualche angolo remoto del magazzino di Scrooge, in parte custodito in un forziere della Barclays Bank e in parte presso il CERN a Ginevra dove veniva esaminato ed elaborato attraverso il computer.
«E il bello è anche», soggiunse Isaac Newton, «che adesso ho la coscienza pulita. Abbastanza pulita, voglio dire, per smuovere le acque. Senta, signora Gunter, vorrebbe prima di tutto telefonare e fissarmi un appuntamento con il rettore del Trinity College stamattina? Dica che è urgente. Poi dovrebbe telefonare all’ufficio del Primo Ministro. Ecco il numero. Chieda di Pingo Warwick.»
«Ha detto «Pingo»?»
«Esattamente, pi-i-enne-gi-o. Gli chieda un appuntamento, preferibilmente dopo mercoledì prossimo. Vorrei prima vedere come va a finire l’inchiesta del Coroner sulla morte di Mike Howarth.»
«Sì, professore, dopo mercoledì venturo.» La signora Gunter annuì con entusiasmo. «Il rettore del Trinity stamattina e il Primo Ministro dopo mercoledì prossimo.»
«A sentirla si direbbe che sta leggendo un elenco di giustiziandi, signora Gunter.»
L’orologio della torre di Edoardo Terzo stava battendo le dieci e tre quarti mentre Isaac Newton varcava il cancello principale del Trinity College per dirigersi verso l’angolo a nord-est della Great Square, dove si trova l’alloggio del rettore. A differenza dei rettori di quasi tutti gli altri College di Cambridge, il rettore del Trinity non viene eletto dai cattedratici del College, bensì nominato dalla Corona su proposta del Primo Ministro. Una consuetudine che impedisce al corpo insegnante di dividersi in varie fazioni in guerra per l’elezione di un nuovo rettore, cosa che altrove si verifica sin troppo spesso.
Il rettore in carica era un celebre romanziere e commediografo, un uomo robusto di media statura, sulla sessantina, con una zazzera di capelli bianchi e provvisto di una voce profonda, possente, sonora.
«Non me lo dica, non me lo dica, glielo leggo negli occhi. Lei porta brutte notizie. D’ora in poi la chiameremo Newton Brutte Notizie», furono le parole con le quali il rettore accolse Isaac Newton quando questi entrò nella vasta stanza al primo piano.
«Caffè, o riesce a sopportare lo sherry a quest’ora?»
«Caffè, per favore.»
Il rettore si spostò strascicando i piedi, come se camminasse con le pianelle, fino alla credenza sulla quale c’era una piastra elettrica. Stese la mano con aria indifferente per afferrare una caffettiera metallica lucida, finemente cesellata, ed emise un urlo.
«Argento!» tuonò. «A chi può essere venuto in mente di fabbricare una caffettiera d’argento? Il guaio di questo College consiste nel fatto che tutto, assolutamente tutto, è d’argento. Ho già mandato in giro squadre di ricerca per trovare dell’acciaio termoresistente, ma finora sono tornate sempre a mani vuote. Bene, Newton, mi dica il peggio. Si tratta di un omicidio o di un suicidio?»
«Probabilmente suicidio, ma altri penseranno all’omicidio. Per credere a un suicidio si devono investigare gli aspetti più oscuri della personalità umana. Per credere a un omicidio, invece, basta avere tra le mani del materiale da romanzo di spionaggio.»
«Ha detto «spionaggio»?»
«Ho usato quella parola di proposito, rettore. Ed è proprio per questo che vengo da lei.»
«No, gran Dio! Altre «spie» al Trinity College? «Aha», ci sono! Questa spia, Michael Howarth, è del Saint John, il College al di là del muro. E’ venuto al Trinity College cercando di trarre un utile dalla nostra reputazione.»
«Howarth è incappato per caso in un segreto custodito con estrema cura, una scoperta tecnologica nel campo delle trasmissioni radio effettuate con onde molto lunghe.»
«Perché questa scoperta dovrebbe essere così importante?»
«Perché consentirebbe ai satelliti di comunicare a vicenda via radio con onde assolutamente non individuabili da stazioni riceventi sulla Terra. Lei sa, probabilmente, che i militari di entrambe le superpotenze si propongono di arrivare alla guerra con i satelliti. Non occorre esser geni per capire che il dominio dello spazio sta per diventare ciò che era il dominio dell’aria nel passato.»
«Lei vuol dire che se una superpotenza eliminasse i satelliti dell’altra superpotenza, sarebbe come se avesse sterminato l’aviazione dell’avversario?»
«Sì», annuì Isaac Newton, sorseggiando il caffè. «Non occorre molta fantasia per mettere in piedi un’ipotesi, postulando un assassinio, voglio dire», spiegò.
«L’idea non mi piace affatto», rispose il rettore con voce tonante. «Ma continui. Sopporto le emozioni forti.»
«Se guardassimo la faccenda dal punto di vista di un giornalista che voglia sapere come stanno le cose, diciamo?»
«Sono quelli che temo di più.»
«Poco tempo dopo la scoperta fatta da Howarth, il Consiglio delle Ricerche ha revocato il contratto.»
«Come hanno fatto?»
«Per motivi giuridici. Si potrebbe dire che avevano delle frecce al proprio arco, ma la faccenda avrebbe potuto essere sistemata altrimenti.»
«Così, se lei fosse un giornalista arriverebbe alla conclusione che il Consiglio delle Ricerche ha tagliato il finanziamento per impedire a Howarth di immischiarsi ulteriormente in quel campo. Come potevano essere venuti a saperlo?»
«Hanno un mucchio di comitati — comitati che gli escono dalle orecchie — ai quali appartengono come membri ogni sorta di scienziati.»
«Così, qualcuno esperto nel ramo lo viene a sapere e si muove per bloccare l’iniziativa. Pare di vederli all’assalto nei corridoi del potere, non le pare?» brontolò il rettore con le palpebre abbassate come se stesse frugando lui stesso con lo sguardo i corridoi. «Mi par di sentire le loro voci mentre presentano una mozione», soggiunse.
«La fase successiva coinvolge anche me», continuò Isaac Newton. «Devo pregarla di considerare questa faccenda strettamente confidenziale, ma non molto tempo fa sono rimasto coinvolto io stesso in un’indagine per motivi di sicurezza, indagine per conto dell’ufficio del Primo Ministro. La cosa era ben nota al Foreign Office e indubbiamente anche ad altre persone. Così, quando sono ritornato a Cambridge e ho cominciato a discutere i vari aspetti della faccenda con Howarth, e specialmente quando ho preso le sue parti, questa mossa può essere stata considerata alla stregua di un segnale d’attacco. Un giornalista, per lo meno, la vedrebbe così.»
«Capisco. Così Howarth è stato eliminato, e per di più in una maniera che potrebbe metterla in… come vogliamo chiamarla?»
«Una luce particolare, potremmo dire, no?»
«Tutto questo è solo una supposizione o esistono prove concrete?»
«La polizia è in contatto con qualcuno, probabilmente l’M.I. 6, o quale che sia la sigla che lo nasconde di questi tempi. Non so quanto poi la polizia sia contenta di questa situazione.»
«Da che cosa lo deduce?»
«L’ufficio di Howarth è stato buttato per aria e anche il mio è stato perquisito.»
«Per trovare documenti?»
«Documenti, dischi, nastri registrati.»
«Hanno trovato quello che cercavano? Gradisce un altro po’ di caffè?»
«Sì, grazie. No, non hanno trovato niente.»
Il rettore si avvicinò di nuovo alla credenza su cui c’erano la piastra elettrica e la caffettiera d’argento. Lo fece di nuovo distrattamente e di nuovo si udì un urlo.
«Lei dovrebbe portare sempre guanti da forno», gli consigliò Isaac Newton.
«Mi interessa moltissimo», disse il rettore, di ritorno dalla credenza con due tazze di caffè, «ciò che stavamo dicendo del nostro giornalista immaginario. Che cos’altro ha in mente, Newton Brutte Notizie? Cose anche peggiori, immagino.»
«Howarth pensava che i segnali provenissero da una cometa che passava allora.»
«Ed è andato a raccontarlo in giro?»
«Sì, e ad alta voce.»
«Così qualcuno lo ha fatto fuori per impedirgli di continuare ad attirare l’attenzione di tutti su ciò che era in realtà un’operazione militare segretissima. E’ questa l’idea?»
«E’ quel che potrebbe immaginare il nostro giornalista.»
«OK, Brutte Notizie. Così, chi sarebbe allora l’assassino?»
«Un russo, un americano, un bulgaro, il sergente Forsyth dei servizi segreti britannici, un professore del College. A lei la scelta.»
«La pianti! Non sopporto che si menzioni il College. Provi solo a immaginare quello che dirà di noi la stampa!»
«Per me», continuò Isaac Newton, «tutte le organizzazioni spionistiche sono della stessa risma. E’ per questo che i loro agenti passano con tanta facilità all’avversario. La segretezza è il loro denominatore comune, la segretezza applicata non solo all’organizzazione di cui fanno parte, ma anche a quella dell’avversario.»
«Qui non la seguo, Brutte Notizie.»
«Beh, la CIA è capace di tutto per impedire che l’opinione pubblica americana venga a sapere qualcosa sul K.G.B., e il K.G.B. è capace di qualsiasi cosa pur di impedire che l’opinione pubblica russa venga a sapere qualcosa sulla CIA. Fanno tutti parte dello stesso sindacato. Mi creda, rettore, questa faccenda ha tutta l’aria di un’operazione dall’interno.»
«Come se non lo sapessi! Come se non lo sapessi! La stampa ci metterà in croce, con grande gaudio, senza dubbio, di un certo college nostro vicino che ha montato tutta questa faccenda a nostro danno e che pur riesce a conservare incontaminata la propria immagine. In pubblico, comunque, benché Dio solo sa che cosa succede all’interno del Saint John’s College!»
Il rettore del Trinity College cominciò a ringhiare come un animale messo alle strette. Isaac Newton si appoggiò contro lo schienale e continuò ad ascoltarlo per un po’. Poi, formulando un’altra ipotesi sempre sullo stesso argomento, disse:
«Ma come la mettiamo se invece Howarth aveva ragione? Come la mettiamo se i servizi segreti britannici stanno in realtà dando la caccia a un fantasma? Non sarebbe la prima volta, le pare?»
«Non riesco a sopportare questo discorso! Cambi argomento, per favore!»
«Effettivamente, rettore, sembra facile parlare di una scoperta tecnica.»
«Consistente in che cosa? In quei segnali a onde lunghe?»
«Esattamente. I giornali e l’opinione pubblica sono condizionati al punto da mandar giù senza fare troppe domande delle storie di apparecchiature segrete. Ma in realtà capita di rado che i militari vengano fuori con qualcosa di inatteso, ammesso che mai ci riescano. In tutti i casi a me noti si è sempre trattato di perfezionamenti applicati dai militari a un’idea già arcinota nei circoli scientifici, come la bomba atomica che è comparsa nel 1945, ma la cui possibilità di realizzazione era scontata per qualsiasi fisico nucleare già nel 1939. Ora, il solo fatto di produrre onde molto lunghe con attrezzature miniaturizzate e per di più con pochissima energia disponibile mi sembra una impresa assolutamente eccezionale. La produzione di onde molto lunghe richiede un mucchio di energia e attrezzature di notevoli dimensioni. Ci vuole qualcosa di grosso, come una cometa. Questo è il primo punto da tenere presente.»
«Qual è il secondo?»
«Se Howarth si è effettivamente suicidato, esiste una possibilità che ci consentirebbe di dimostrarlo. Avrebbe avuto bisogno di bloccare il tasto dell’organo con qualche sostanza che poi si è sciolta o dispersa nell’aria. Tracce di questa sostanza potrebbero esserci ancora sulla tastiera. Potremmo esaminare la tastiera.»
«Potremmo chiederlo all’organista», soggiunse il rettore, dirigendosi subito verso il telefono all’altro capo del grande soggiorno. Dopo un attimo ritornò da Isaac Newton.
«Il giovane Baker sarà qui tra un paio di minuti. Dice che non può fermarsi a lungo perché tra venti minuti ha una prova del coro. Intanto, però, potremmo fargli qualche domanda.»
Howard Baker, l’organista del College, era alto pressappoco come il rettore, sulla trentina e munito di una grande barba che non permetteva di distinguerne le fattezze neppure da vicino,
«Non credo che voi due vi conosciate. Baker non c’era quando lei era qui, Newton. Beve una tazza di caffè, Howard?»
«Grazie, ho giusto il tempo per ingollarne mezza tazzina.»
Il rettore andò di nuovo alla credenza. Questa volta badò ad afferrare il manico della caffettiera con una spessa presina. Questo per non far pensare ad Isaac Newton che l’urlo di prammatica fosse una messinscena.
«Newton le vorrebbe rivolgere un paio di domande sulla tastiera dell’organo», spiegò il rettore ritornando con il caffè.
«Immagino che la polizia l’abbia esaminata?» chiese Isaac Newton.
«Si sono arrampicati dappertutto, spargendo ovunque la polverina bianca, maledizione!»
«Cercavano impronte digitali?»
«Sembra di sì. Benché non riesca a immaginare a che cosa potesse servire, con tutta la gente che suona quell’organo.»
«Lei stesso lo ha suonato? Voglio dire, da quando è entrata la polizia?»
«Sì, ma quando aveva finito.»
«Ha notato qualcosa di strano nella tastiera? Qualcosa di attaccaticcio, per esempio?»
«E’ difficile dirlo, perché abbiamo dovuto pulire tutto dopo che la polizia aveva finito.»
«Avete tolto la polverina bianca?»
«Sì.»
«Era molto aderente in alcuni punti?»
«In un punto, sì. Ne sono certo. Ho pulito meglio che ho potuto, ma anche dopo ho dovuto chiamare uno del coro per ricominciare da capo.»
«Ricorda che tasto era? Voglio dire, se lei dovesse schiacciarlo, con l’organo acceso, quale sarebbe il risultato?»
«Il risultato sarebbe, ammesso che i registri si trovassero nella stessa posizione che avevano quando è stato scoperto il corpo, una sottile nota lamentosa. Ho notato questo fatto e mi sono meravigliato. Così ho voluto controllare con Kent, il portiere notturno. Mi ha confermato che era lo stesso suono. A momenti sveniva quando gli ho chiesto di venire lì ad ascoltare, poveraccio.»
«Lo ha detto alla polizia?»
«No, non me lo hanno chiesto. Comunque, mi sono meravigliato.»
«Perché?»
«Mi sono chiesto se il tasto non fosse stato incastrato in qualche maniera, ma non ho trovato alcun segno o punto danneggiato. Così non ci ho pensato più. Beh, devo andarmene. Grazie per il caffè, rettore.»
Quando Baker se ne fu andato, il rettore inarcò le sopracciglia e chiese: «Ha notato?»
«Che cosa?»
«Beh, è chiaro, no? Per riconoscere Baker bisogna guardarlo di profilo. Lo sta coltivando per assomigliare a Brahms.»
Il rettore si diresse con passo strascicato verso un tavolo e ritornò da Isaac Newton, portando con sé una cartella contenente ritagli di giornali e un grafico.
«Ho registrato man mano i numeri delle righe sul caso Howarth comparse nella stampa. Come vede, stanno aumentando a ritmo vertiginoso. Tutto è cominciato con venti righe nel «Cambridge Evening News» il giorno in cui è accaduto il fattaccio. Il giorno dopo, ottantanove righe, sempre sul «News». Poi, però, la notizia è stata ripresa dalla stampa nazionale e così siamo arrivati a trecentoquarantadue righe e poi a novecentosettantasette righe, che è la cifra di stamattina. Può immaginare dove arriveremo il giorno in cui ci sarà l’inchiesta del Coroner. Reporter provenienti da Londra si vedono già in giro intorno al Trinity College e alla cappella. Ho ordinato ai portieri di tenerli d’occhio. Come vanno le cose al Cavendish?»
«Francamente non ho notato nulla. Immagino che i cronisti siano venuti anche là per parlare con i colleghi di Howarth. Ma il laboratorio non è così pittoresco né fotogenico come il Trinity College.»
«E’ un grosso guaio, questo», annuì il rettore. «La radice del male, come si potrebbe dire. La nostra croce, la nostra pietra al collo. Tanto per cambiare la metafora: il College è un bersaglio immobile per qualsiasi cecchino, e temo che ce ne siano molti. Il che mi fa ritornare in mente una questione delicata. Il decano mi dice che nella faccenda è coinvolta una certa signorina. Non una giovane donna qualsiasi, Brutte Notizie, ma una signorina tutta speciale chiamata Frances Haroldsen. E’ preceduta dalla sua fama, vede.»
«Mi dispiace di essere stato un motivo d’imbarazzo…» cominciò Isaac Newton.
««Ma non lo è stato affatto», mio caro Brutte Notizie! Ciò che mi stava frullando nel cervello era il fatto che lei potrebbe «mettere in rilievo» all’inchiesta i suoi rapporti con la signorina. Lei sarà chiamato naturalmente come testimone. Potrei convincerla a sottolineare il fatto che lei è stato scoperto a letto con la signorina nella vecchia foresteria? Chiedo scusa se sono un po’ grossolano, ma in fondo si tratta di una faccenda abbastanza grave.»
«Per quale motivo, rettore?» chiese Isaac Newton mentre tentava di capire la logica del suggerimento.
«Siamo alle prese con una commedia destinata a sfondare, come dicono gli americani. Perché questo episodio — mi piacerebbe metterlo in scena e con il suo permesso forse lo farò — della polizia che piomba brutalmente addosso al titolare della cattedra del Cavendish appena entrato in carica, il quale ignora con baldanza tutte le tradizioni più rispettate seguendo quanto ha detto il grande Shakespeare per cui ’membra giovani e lascivia non si posson separare’, è una storia già pronta per i giornali popolari della domenica nonché, con un linguaggio più raffinato, ma sempre sostenuto, per i voluminosi numeri domenicali della stampa seriosa. In parole povere: mi appello al suo buon senso, Newton, anche se non mi metto proprio in ginocchio, perché allontani una volta per sempre questa nube oscura degli scandali spionistici che affliggono il suo College, la sua «Alma Mater», che l’ha nutrito negli anni del bisogno. Mi sono spiegato o devo ripetere l’invocazione?»
«Ma bisogna tenere conto anche dell’opinione della signorina, rettore. Del suo buon nome.»
«La signorina gode fama di essere un osso assai duro, come si usa dire. Ecco un giudizio molto espressivo. La diceria che si è diffusa recentemente a Cambridge su un certo dottor Goatman, presunto borsista del King’s College, è stata attribuita in partenza a lei, credo.»
«Lei mi mette in un conflitto di coscienza, rettore. A proposito: chi è questo dottor Goatman?»
«Lo hanno descritto in vari modi», rispose il rettore con voce sonora, «come un anziano bibliofilo, come un satiro di fama internazionale e come praticamente inesistente.»
«Una possibilità di scelte piuttosto ampia.»
«Effettivamente. Sta di fatto che questa storia di Goatman è un’altra di quelle cose che intendo mettere in scena, ammesso che abbia mai il tempo di farlo. Ma torniamo alla sua storia…»
«Pensavo che si sarebbe risaputa comunque, con tutti quei giornalisti in giro…»
«Ah, ma lei può aggiungere un pizzico di pepe alla faccenda, per cui i rappresentanti della pubblica opinione d’ora in poi vedranno nel Trinity College piuttosto un’istituzione impostata su criteri che corrispondono al Don Giovanni di Mozart che non una filiale del sinistro K.G.B. con i suoi truci sgherri.»
«Lei ha indubbiamente delle solide ragioni, rettore. Ma un senso di elementare giustizia vuole che la signorina venga compensata in qualche modo. Qualsiasi persona ragionevole lo penserebbe.»
«Compenso?»
«Stavo pensando a un suo avanzamento a professore di ruolo del College.»
«Capisco», rispose il rettore congiungendo lentamente le punte delle dita. «Un’assunzione in piena regola, per così dire.»
Poi, dopo aver riflettuto per un po’, soggiunse:
«E’ una faccenda che va manovrata con una certa delicatezza. Quando alcuni dei Fellows anziani saranno assenti, o perché in cura da qualche parte o, disgraziatamente, all’ospedale. Ma con un debito lavoro di preparazione da parte dei miei collaboratori non vedo motivo perché l’elezione non dovrebbe avere esito favorevole. A patto, naturalmente, che lo scandalo faccia saltare per aria le redazioni della Fleet Street».
IL MISTERO DEL TASTO DELL’ORGANO:
OMICIDIO O SUICIDIO?
Con titoloni come questo sui giornali del sabato e della domenica era inevitabile che la corte del Coroner fosse affollatissima durante l’inchiesta, tenuta, come l’ispettore Grant aveva previsto, il mercoledì, otto giorni dopo la morte di Mike Howarth. I cronisti non avevano avuto difficoltà ad apprendere le curiose circostanze verificatesi dopo la scoperta del corpo di Howarth. E poiché Isaac Newton non aveva preso alcuna misura per impedire ai giornalisti di parlare con i colleghi di Howarth al laboratorio, la stampa riportò anche notizie non particolareggiate sul suo lavoro di ricerca e sul fatto che il suo contratto era stato revocato dal CERC. Anche affidata alle mani del giornalista meno esperto e fantasioso, una storia simile non poteva non richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica. E i giornalisti impegnati nei reportage non erano, naturalmente, i membri meno fantasiosi della professione.
Data la pubblicità fatta attorno al caso, la corte del Coroner si riunì nell’aula più grande della Guildhall, il municipio di Cambridge, un locale in cui il motivo dominante era costituito dal legno: sia i pannelli che ricoprivano le pareti, sia le panche erano di legno. Isaac Newton, che era entrato insieme col rettore del Trinity, sentì un funzionario dire a un suo collega con fierezza: «Avremmo potuto riempire anche un locale dieci volte più grande».
Effettivamente la folla traboccava. Isaac Newton e il rettore si fecero largo nella seconda fila, dove erano stati loro riservati i posti, proprio di fronte al Coroner.
«Questo è il momento di gloria per il Coroner, il giorno atteso per tutta la vita», osservò il rettore.
«Che studi ha fatto?»
«Medicina, e anche un po’ di legge, immagino. Vedo che ha preparato per benino il suo piano», rispose il rettore indicando la voluminosa cartella di cuoio che Isaac Newton aveva portato con sé.
«Sarebbe meglio dire che sono più preparato a contrastare i piani altrui che a difendere un mio piano particolare», rispose Isaac Newton, osservando le facce in giro per vedere se ne riconosceva qualcuna. Il decano, il cappellano del Saint John’s College, il portiere di notte signor Kent, il portiere del Saint John, due colleghi che avevano lavorato con Mike Howarth al laboratorio, e Clamperdown. Questi era in animata conversazione con un uomo che aveva l’aria di essere un legale. Poiché altri si univano di tanto in tanto al parlottare dei due Isaac Newton ebbe l’impressione che il Consiglio delle Ricerche fosse ben rappresentato.
Il sergente che aveva buttato così frettolosamente Isaac Newton giù dal letto comparve anche lui, equipaggiato con varie carte e un taccuino. Il sottufficiale sedette tranquillamente dimostrando di essere un professionista abituato a simili situazioni, e rimase immobile. Chi non si vedeva era l’ispettore Grant, dal che Isaac Newton dedusse che la polizia doveva aver deciso di non intervenire per il momento, politica che anche Clamperdown avrebbe fatto meglio ad adottare, pensò Isaac Newton. La stampa e la televisione occupavano evidentemente una buona parte dei posti disponibili, un po’ perché sapevano come farsi largo in quasi ogni situazione e un po’ perché erano arrivate alla Guildhall abbastanza per tempo.
Isaac Newton lasciò divagare la mente mentre arrivava il Coroner con un gruppo di funzionari e venivano scelti i giurati. Durante la settimana appena trascorsa aveva parlato varie volte con Frances Haroldsen servendosi di telefoni di alberghi sparpagliati nei dintorni, nel timore che le linee del laboratorio fossero sorvegliate per ordine di questo o quel ministero. Isaac Newton non gradiva affatto questo sistema, e siccome non lo gradiva, ebbe cura di telefonare e farsi telefonare in località che sfuggivano alla fantasia dei burocrati. In parole povere: Isaac Newton preferiva esagerare nelle cautele anziché esser fatto fesso.
Frances Margaret gli aveva raccontato che la decrittazione dei messaggi a base di punti e linee stava procedendo speditamente, e poi l’aveva fatto quasi impazzire dicendo che Kurt Waldheim aveva fatto una scoperta che gli avrebbe permesso di interpretare i segnali stessi. Alla sua insistente richiesta di essere messo al corrente della natura della scoperta, Frances aveva risposto dolcemente che doveva avere pazienza perché si trattava di cose troppo complicate per essere spiegate per telefono. Inoltre, senza vedere i dati, qualsiasi tentativo di spiegarli sarebbe stato privo di senso, aveva soggiunto Frances Margaret. Isaac Newton dovette ammettere, seppure riluttante, che questo era probabilmente vero.
Così, durante i quattro giorni precedenti aveva fatto lavorare furiosamente il cervello per immaginare che cosa Waldheim avesse scoperto, un lavorio mentale frustrante che non gli aveva migliorato l’umore. Tanto per non andare troppo per il sottile, era arrivato all’inchiesta piuttosto incavolato, pronto a tirar fuori dalla manica, o meglio dalla cartella, qualche trucchetto non certo concepito sui campi di gioco di Eton.
Il primo testimone a essere chiamato fu il signor Kent che descrisse la macabra scoperta del cadavere nella cappella con una disinvoltura che non aveva provato sul momento. Isaac Newton, notando l’avidità con la quale le prime parole del signor Kent venivano registrate da tutti quelli che lo circondavano, ebbe la sensazione di rilassarsi un po’ troppo. Poi, l’occhio gli cadde su una faccia che gli era familiare: Featherstone, il professore di veterinaria.
Il signor Kent si era recato immediatamente dopo la scoperta del cadavere alla portineria dell’ingresso principale, da dove aveva telefonato al decano. Questi, poiché risiedeva al College, era arrivato poco dopo in portineria. A questo punto toccò al decano raccontare il seguito della storia. Aveva immediatamente telefonato alla polizia e a un medico che conosceva. Il signor Kent e lui erano poi ritornati alla cappella, ma per non lasciare incustodita la portineria avevano chiesto al portiere di notte del Saint John’s College — distante solo pochi metri — di venire lì, in modo da far entrare la polizia al suo arrivo.
Il primo a comparire era stato un agente di polizia. Dando prova di perspicacia, gli ci era voluto poco a capire che la situazione era talmente insolita da richiedere la presenza di un maggior numero di rappresentanti del corpo. Così aveva avvertito con la ricetrasmittente il suo diretto superiore, sergente Atkinson. Al che era arrivato il sergente Atkinson con un altro agente di polizia.
A un certo punto, il portiere di notte del Saint John non era stato più capace di frenare la propria curiosità. Aveva raggiunto anche lui la cappella e riconosciuto — o pensato di aver riconosciuto — nel defunto un professore residente nel suo College, il dottor Howarth. Così era stato chiamato il cappellano del Saint John. Il cappellano aveva confermato l’identificazione effettuata dal portiere di notte e detto, in risposta a una domanda rivoltagli dal sergente Atkinson, che il morto era un professore di fisica impiegato al Cavendish Laboratory. Subito dopo, il decano si era premurato di informare il sergente che il nuovo responsabile del Cavendish risiedeva lì nel College, a pochi passi. Il sergente Atkinson aveva buttato fuori dal letto Isaac Newton e anche questi si era aggiunto alla comitiva nella cappella. Questa fu la storia che venne fuori man mano.
Ripensando a ciò che era accaduto — tutte cose che sul momento gli erano parse abbastanza logiche — , e riesaminando la faccenda alla luce del sole, Isaac Newton trovò piuttosto esagerato tutto quell’andirivieni. Di fronte a una situazione all’apparenza inesplicabile, la reazione era stata quella di aggiungere alla comitiva una persona dopo l’altra, presumibilmente nella speranza che l’inspiegabile diventasse spiegabile all’arrivo di ogni nuovo individuo. Quando il sergente Atkinson salì al banco dei testimoni per descrivere la comparsa di Isaac Newton nella cappella, il Coroner stesso raggiunse il punto di saturazione. Alzando gli occhi dal blocchetto sul quale stava prendendo appunti, chiese:
«Sergente Atkinson, vogliamo stabilire una cosa? Finora abbiamo sentito il signor Kent, il decano del Trinity College, il cappellano del Saint John’s College, il portiere di notte del Saint John, l’agente Green, l’agente Reddaway, lei stesso e anche il professor Newton. Esatto? Ci sono «tutti»?»
Il sergente Atkinson esitò per un lungo momento, alzando e abbassando lo sguardo come se fosse preda di un grave imbarazzo.
«Non proprio tutti, signore», fini per rispondere. «C’era anche una signorina.»
Tutti, all’infuori di Isaac Newton e del rettore del Trinity, reagirono a questa notizia in due soli modi: coloro che stavano scrivendo alzarono immediatamente lo sguardo; e coloro che non stavano scrivendo si fecero di colpo molto attenti. Benché ognuno facesse solo un rumore quasi impercettibile, la somma dei rumori ebbe l’effetto di generare una specie di piccolo boato, che poté essere udito nell’aula.
«Non ci è voluto molto perché la storia venisse fuori. Come pensavo io», bisbigliò il rettore del Trinity. Ci erano voluti un’ora e cinque minuti, rifletté Isaac Newton guardando l’orologio alla parete.
«Potrebbe dirmi il nome della signorina? Per completare il mio elenco», chiese il Coroner.
«Non l’ho preso, signore», rispose il sergente Atkinson, rivelando la causa del suo imbarazzo. «Vede, è uscita improvvisamente dalla stanza da letto proprio mentre stavamo per ritornare dall’alloggio del professor Newton alla cappella.»
«Centro al primo colpo», bisbigliò di nuovo il rettore.
Gli occhi di Isaac Newton incontrarono quelli di Featherstone. Questi alzò lievemente le spalle e Isaac Newton rispose inarcando le sopracciglia. Bisognava fingere la massima indifferenza. Così si rimane padroni della situazione, gli aveva assicurato la giovane donna ora in ballo.
Inghiottito questo bocconcino, la corte rivolse la propria attenzione alle prove medico-legali. Il medico che aveva esaminato per primo il cadavere spiegò che era trascorsa circa mezz’ora dal momento in cui aveva ricevuto la telefonata del decano al suo arrivo alla cappella. Aveva trovato l’uomo morto, bocconi sulla tastiera dell’organo. Non c’era alcun segno visibile che indicasse la causa del decesso, da quanto aveva potuto constatare data la scarsa luminosità dell’ambiente e le altre circostanze in atto. Era stata scattata un’istantanea alla luce del flash. Poi, poco prima che facesse giorno, il corpo era stato rimosso su insistente richiesta del decano per essere sottoposto all’esame necroscopico.
Il sergente Atkinson era rimasto sul posto per occuparsi degli altri aspetti della situazione, soprattutto dell’esame dell’organo, perché si era ritenuto che il rilevamento delle impronte digitali sulla tastiera potesse essere effettuato con garanzie di maggior precisione alla luce del giorno.
Il medico, primo del suo ramo a essere sentito, cedette il posto a questo punto al medico legale della polizia. Così ebbe inizio una discussione tecnica tra il medico della polizia e il Coroner. A Isaac Newton premevano a questo punto più le conclusioni che non i particolari. Si era riscontrato che Howarth non soffriva di alcuna alterazione organica. Nel corpo non erano state trovate tracce di stupefacenti o medicinali, ma il sangue presentava un contenuto eccezionalmente elevato di adrenalina. Nei limiti entro i quali fu possibile stabilire il momento del decesso, il medico della polizia espresse l’opinione che non poteva essere avvenuto prima delle ventitré e trenta e non dopo la una, forse un’ora prima della scoperta della salma da parte del signor Kent.
«Mezz’ora sarebbe più giusto», bisbigliò Isaac Newton al rettore.
«Che cosa glielo fa pensare?» chiese questi di rimando.
La risposta di Isaac Newton venne sopraffatta da un’interruzione dell’uomo che sembrava un avvocato a fianco di Clamperdown.
«Potrei rivolgere una domanda al testimone, signore?»
«Naturalmente, signor Sherbourne», rispose il Coroner.
«Sembra che quei due si conoscano. Tutto in famiglia», bisbigliò il rettore.
«Può il testimone dirci se ha trovato qualche indizio preciso in base a cui la morte potrebbe essere attribuita a suicidio?»
«No, nulla di preciso.»
«Grazie.»
Isaac Newton rimase sorpreso quando udì la propria voce risuonare nell’aula.
«Poiché il dottor Howarth, signor Coroner, era un mio collaboratore, posso chiedere il permesso alla corte di fare una domanda?»
«Il professor Newton?»
«Sì.»
«La cosa sarebbe un po’ irregolare, visto che lei deve ancora giurare, professor Newton. Ma le concedo di fare la domanda.»
«Può il testimone dirci se ha trovato qualche indizio che indichi una particolare causa della morte?»
«No, nulla di preciso.»
«Ma il dottor Howarth è morto, vuoi per suicidio o per altra causa?»
«Sì, naturalmente.»
«Grazie.»
«Una dichiarazione di guerra, semmai ne ho sentita una», borbottò il rettore con un ringhio soddisfatto.
L’udienza mattutina ebbe termine. All’uscita dell’aula, Featherstone era in attesa con un sorriso che sembrava volesse chiedere scusa.
«E’ stato molto interessante, tutta la parte medica, voglio dire», disse.
Quando Isaac Newton presentò il rettore del Trinity, Featherstone annuì.
«Lei non si ricorderà di me, rettore, ma sono stato alla vostra festa al termine del trimestre autunnale, lo scorso anno.»
«Propongo di andare al mio alloggio per una fetta di pane e prosciutto e una bottiglia di birra o due, se siete d’accordo», rispose il rettore. «Senta, Featherstone, cosa c’era di tanto interessante? A me son sembrate tutte balle. La prosopopea con la quale questi medici parlano mi incoraggia a tenermi lontano dalle loro grinfie.»
Quando i tre uomini furono saliti all’alloggio del rettore, si videro offrire ognuno un panino con prosciutto e un boccale d’argento pieno di birra.
«Beh, tanto per dirne una: non si è parlato molto della rigidità cadaverica. Hanno scansato l’argomento con molta astuzia», cominciò Featherstone. «Ho la sensazione che l’udienza pomeridiana sarà un po’ più divertente. Senti, Newton, mi par già di vedere quell’avvocato, Sherbourne, che si alza per farti qualche domanda imbarazzante una volta che ti sarai seduto al banco dei testimoni. Farai meglio a prepararti.»
«Mi sono preparato», rispose Isaac Newton in tono sommesso.
La conversazione languiva e il rettore, al quale il silenzio non andava a genio, finì per romperlo dicendo: «Non serve a niente che lei esamini tutta quest’argenteria, Featherstone. Anche se nel College ce n’è a sufficienza per rimpinguare una miniera, la teniamo sotto chiave. Altrimenti non potremmo averne tanta, naturalmente».
«Non stavo pensando all’argenteria, rettore. Pensavo all’adrenalina.»
«E che cosa stava pensando a proposito dell’adrenalina?»
«A Veterinaria siamo un po’ svantaggiati rispetto a Medicina. Tanto per cominciare, loro dispongono di mezzi finanziari per le ricerche molto più cospicui dei nostri. Poi, noi dobbiamo studiare tante specie di animali, loro, invece, una sola. Così, in linea di massima, noi sappiamo molto meno degli animali di quanto loro sappiano degli esseri umani. Ma ci sono alcune cose che noi conosciamo e loro forse no, più che altro perché possiamo studiare gli animali che vivono allo stato selvaggio, non solo quelli domestici.»
«E che cosa c’entra tutto questo con l’adrenalina?»
«Beh», rispose Featherstone lentamente, posando il boccale. «Se un animale morisse con una concentrazione di adrenalina eccezionalmente elevata nel sangue, ma per il resto senza alcuna lesione, sa che cosa direi? Direi che è morto di paura!»
Benché la natura stessa del caso lo avesse elevato al ruolo di divo, la rivelazione fatta al mattino dal sergente Atkinson circa una giovane donna nella sua camera da letto fece sì che si sarebbe sentita volare una mosca nell’aula delle udienze quando Isaac Newton salì al banco dei testimoni e prestò giuramento. Il Coroner, ignorando di proposito il suggerimento biblico per cui il vino migliore va bevuto per primo, cominciò a fare un sacco di domande banali. Da quanto tempo Isaac Newton si trovava in patria?
«Da circa due settimane.»
«Lei è ritornato a Cambridge dall’estero?»
«Sì, dalla Svizzera.»
«Così, non conosceva bene il defunto?»
«Praticamente non lo conoscevo affatto. Ho parlato con lui una sola volta, nel pomeriggio del mio primo giorno al laboratorio. Disse che aveva un’estrema urgenza di vedermi.»
«A che proposito?»
«A proposito dei suoi interessi scientifici, che erano stati gravemente danneggiati dalla rescissione del contratto con uno dei consigli di ricerca. Era sconvolto.»
«Che scopo aveva la discussione con lei?»
«Sperava che avrei tentato di persuadere il Consiglio delle Ricerche a revocare la propria decisione.»
«E lei, si era offerto di farlo?»
«No, affatto. Gli dissi che un capovolgimento della posizione assunta dal Consiglio delle Ricerche era secondo me inverosimile, e i fatti mi hanno dato ragione. Effettivamente ho discusso la faccenda il giorno dopo con un rappresentante del Consiglio. Il mio intervento a favore del dottor Howarth si rivelò, come del resto mi aspettavo, inutile.»
«Quale fu allora la conclusione della discussione con il dottor Howarth?»
«Lo incoraggiai a studiare il materiale scientifico che possedeva già invece di preoccuparsi tanto dell’acquisizione di altro materiale. Il desiderio di accumulare sempre più materiale è fortissimo in molti giovani scienziati. In un certo senso, la bramosia di acquisire dati sostituisce il lavoro più faticoso di interpretarli. Pensai che Howarth soffrisse di questa sindrome.»
«Lei ha detto che era sconvolto.»
«Sì, decisamente.»
«Non ha sospettato che potesse tentare di uccidersi?»
«No, non mi è venuto in mente, forse perché giudicavo la situazione da un punto di vista che si potrebbe definire quotidiano, cioè che si presenta molto spesso. Mi dispiace di non aver intuito questa possibilità.»
«Potrebbe spiegare alla corte, nei termini più semplici possibili, di quali argomenti scientifici si trattava?»
«Howarth riteneva di aver scoperto segnali intermittenti con l’attrezzatura installata su un satellite, segnali provenienti da una cometa di passaggio. La cometa di Boswell.»
«Ha trovato strana questa ipotesi?»
«Molto strana. Quando ho fatto un certo numero di obiezioni, il dottor Howarth ha risposto in maniera coerente alle mie critiche, il che del resto è abbastanza normale. Gli autori di teorie strane di solito sono sempre in grado di rispondere alle obiezioni più ovvie e immediate. Altrimenti nessuno li ascolterebbe.»
«Che obiezioni ha mosso lei?»
«Gli ho fatto rilevare che i segnali potevano provenire da un altro satellite.»
«E lui, che cosa ha risposto?»
A questo punto, Sherbourne, l’avvocato, interruppe l’interrogatorio: «So che lei mi comprenderà, signore, se rivolgo una richiesta alla corte riguardante la piega presa dall’interrogatorio».
«Dica, signor Sherbourne.»
«L’indagine sta esorbitando in un campo che potrebbe essere definito delicato dal punto di vista della sicurezza nazionale. Se l’interrogatorio dovesse continuare su quest’argomento chiederei che il procedimento proseguisse a porte chiuse.»
Un po’ per l’inatteso intervento di Sherbourne e un po’ a causa dell’intenso mormorio che si udiva in aula e che costrinse un funzionario a esclamare: «Silenzio! Silenzio, «per favore»!», il Coroner rimase per un attimo interdetto. Approfittando del momento in cui il mormorio si stava spegnendo, Isaac Newton levò in alto una cartella.
«Ho qui il testo della mia conversazione con il dottor Howarth e con un funzionario del Consiglio delle Ricerche. Posso suggerire che questa trascrizione venga messa agli atti anziché proseguire nell’interrogatorio?»
«Il testo riproduce parola per parola ciò che è stato detto?»
«Sì. Inoltre ho qui i nastri dai quali è stato tratto, e su cui si possono sentire le voci.»
Isaac Newton sollevò, perché tutti potessero vedere, due delle cassette sulle quali Frances Haroldsen aveva riportato le registrazioni illecite nel suo ufficio.
Sherbourne si sottrasse in fretta alla trappola nella quale era caduto dicendo: «La proposta del professor Newton si adegua benissimo alla situazione, purché questo materiale venga considerato strettamente confidenziale».
«Naturalmente, signor Sherbourne. Professor Newton, lei ha niente in contrario?»
«Non ho nulla in contrario che il materiale venga consultato con certe misure restrittive», rispose Isaac Newton consegnando a un funzionario della corte la trascrizione e le cassette. «Tuttavia sarebbe difficile garantire che le varie altre copie esistenti possano essere tutte raccolte e confiscate. Sempre che questo rientri nei poteri discrezionali della corte.»
«Evidentemente «non» rientra», rispose il Coroner. «Questa corte si prefigge di determinare la causa della morte del dottor Howarth, non di occuparsi di problemi di sicurezza. Va da sé che la corte prenderà tutte le misure ragionevoli e prudenti entro i limiti della propria giurisdizione. Comunque non posso certo ordinare a lei, professor Newton, di distruggere le sue carte personali, o di confiscarle. Si tratta evidentemente di una faccenda di cui devono occuparsi altri organi.»
«Se ne occuperanno», intervenne Sherbourne in tono asciutto.
Isaac Newton fu sul punto di gridargli: ««Ma sta’ zitto! Non vedi che stai impiccandoti con le tue mani?»» Nessuno poteva impedire ora alla stampa di entrare in possesso di copie della conversazione avuta da lui con Mike Howarth o Clamperdown.
Interrotto dall’intervento di Sherbourne, il Coroner tornò a occuparsi della scoperta del cadavere di Howarth e della visita di Isaac Newton alla cappella in compagnia del sergente Atkinson e degli altri.
«Mi manca il nome della signorina che si trovava in sua compagnia, professor Newton», disse il Coroner con l’aria di chi debba affrontare un argomento fastidioso.
«Se lei ritiene che la conoscenza del nome sia rilevante ai fini della corte, glielo dirò», rispose Isaac Newton.
Dopo aver riflettuto per un po’, il Coroner sorrise e annuì. «Forse stavo solo cedendo agli impulsi di una volgare curiosità. Così eviterò la domanda soprattutto perché la sua tardiva comparsa in scena nella cappella conferisce alla sua testimonianza un carattere sussidiario rispetto a quella dei testimoni precedenti. Ciò che invece devo chiederle, visto che è uno scienziato ricco di esperienza, è se ha notato qualcosa che non era balzato all’occhio degli altri.»
«Mi duole di dover ammettere che la mia esperienza scientifica non si è rivelata all’altezza di quelle strane circostanze. Ho fatto l’errore di guardare troppo il corpo di Howarth e troppo poco la tastiera dell’organo.»
«Perché avrebbe dovuto farlo?»
«Per scoprire come era stato premuto il tasto che provocò il suono lamentoso udito dal signor Kent.»
«Ha delle opinioni in proposito?»
«Sì, ma è troppo tardi, temo.»
«Nonostante ciò, la corte gradirebbe conoscere la sua opinione, professor Newton.»
«Secondo me è impossibile che il tasto sia stato premuto dal cadavere, una cosa che pensavamo tutti in quel frangente.»
«E allora?»
«Così il tasto dev’essere stato premuto, a mio avviso, e poi bloccato.»
«Secondo il sergente Atkinson non è stato trovato alcun oggetto atto a bloccare il tasto.»
«Per cui il materiale bloccante dev’essersi sciolto, come il comune ghiaccio, o essere evaporato nell’atmosfera, come il ghiaccio secco. Avrei dovuto esaminare la tastiera per trovare eventuali tracce di una sostanza simile.»
«E in tal caso la sostanza sia stata impiegata di proposito?»
«Sì.»
«Ha un’idea di chi potrebbe essere stato?»
«O il dottor Howarth oppure un’altra persona, sconosciuta.»
«Perché il dottor Howarth avrebbe dovuto fare una cosa simile?»
«Per rendere ancor più clamorose le circostanze della sua morte.»
Il Coroner rifletté per un po’, come del resto quasi tutti i presenti nell’aula sulla quale scese un greve silenzio.
«Per dirle quante cose mi sono sfuggite allora», riprese Isaac Newton, «anche se ci ho ripensato parecchio nella scorsa settimana, voglio far rilevare una circostanza forse significativa che mi è venuta in mente solo stamattina, ascoltando le testimonianze.»
«Che cos’era?» chiese il Coroner, stringendo le labbra.
«Quando sono entrato nella cappella ho sentito qualcuno dire che l’organo acceso ’faceva rizzare i capelli in testa’, credo che fosse questa l’espressione. Ma nessuno dei testimoni sentiti questa mattina ha detto di aver spento l’organo, per cui mi sono chiesto se qualcuno lo abbia mai spento.»
Seguì un attimo di trepida attesa mentre il Coroner esaminava i propri appunti, per dire poi: «Lei ha ragione, professor Newton, nessuno ha menzionato questo fatto. Per evitar di richiamare tutti i testimoni già sentiti, posso chiedere alla persona che ha spento l’organo di presentarsi qui per un attimo».
Nessuno si presentò.
«A quanto sembra abbiamo un altro mistero per le mani», ammise il Coroner con aria perplessa. «Sì, sergente Atkinson, ha ancora qualcosa da dirci?»
Il sergente Atkinson, che aveva fatto un cenno con la mano, si alzò in piedi. «Beh, solo che ho esaminato la tastiera un po’ più tardi e ho riscontrato che l’organo era spento.»
«Ha qualche suggerimento in proposito, professor Newton?»
«Secondo me, la nota lamentosa udita dal signor Kent si spense perché la sostanza che bloccava il tasto era evaporata come il ghiaccio secco; l’organo, invece, si spense più tardi perché regolato da un interruttore a tempo.
«Ecco, vede», continuò Isaac Newton, «l’organo viene spesso suonato di sera da musicisti residenti nel College. L’impiego di un interruttore a tempo sarebbe senz’altro una misura razionale perché altrimenti qualcuno potrebbe dimenticarsi e lasciare lo strumento acceso per tutta la notte.»
La speranza di Isaac Newton di creare una grande cortina fumogena stava per svanire, si accorse, perché l’irrefrenabile Sherbourne era di nuovo in piedi.
«Pur ammettendo che queste riflessioni sul tasto dell’organo sono indubbiamente molto interessanti, vorrei chiedere alla corte il permesso di rivolgere una o due domande al testimone.»
«Va bene, signor Sherbourne.»
«Vorrei riportare l’attenzione sulla signorina che uscì dalla stanza da letto del professor Newton. La signorina fa parte del personale del Cavendish Laboratory?»
«Sì, ne fa parte.»
«Una collega del dottor Howarth, allora?»
«Sì.»
«Da vari anni?»
«Non so da quanto tempo si conoscessero.»
«Ma comunque più a lungo dei due giorni da cui durava la sua conoscenza con la signorina?»
«Sì, molto più a lungo.»
«Signor Sherbourne, se lei ha da fare una domanda pertinente, la faccia, per favore», intervenne il Coroner.
«Vorrei prospettare alla corte la possibilità che il dotto professore, una volta arrivato a Cambridge, abbia rapidamente sostituito il defunto nell’affetto della signorina, e che la disperazione causata sia da mettere in relazione con la sua sfortunata morte. Perciò, l’identità della signorina è indissolubilmente legata al caso.»
«Che cosa ha da dire in proposito, professor Newton?»
«Che le trascrizioni e le registrazioni ora in possesso della corte dimostreranno come nessun argomento del genere sia entrato nella mia conversazione con il dottor Howarth.»
«Posso fare un’altra domanda?» insisté Sherbourne tentando di sfruttare il lievissimo vantaggio che credeva essersi assicurato. «Professor Newton, la morte del dottor Howarth è avvenuta a brevissima distanza dal suo ritorno a Cambridge. Le è mai venuto in mente che potrebbe esserci un nesso tra i due eventi?»
«La simultaneità è senza dubbio evidente», rispose Isaac Newton, «ma non riesco a immaginare perché i due eventi non debbano considerarsi una semplice coincidenza.»
«Insisto a prospettare l’ipotesi che l’identità della signorina sia indissolubilmente legata al caso», insisté Sherbourne.
«Devo dichiararmi d’accordo con lei, signor Sherbourne, seppur con estrema riluttanza», disse il Coroner con enfasi, «in quanto le sue argomentazioni fanno solo pensare a un ’lancio dell’amo’. Se questo fosse un caso normale, non esiterei a respingerle. Ma poiché è sin troppo evidente che si tratta di un caso inconsueto, trovo giusto prenderne in considerazione ogni aspetto. La cosa migliore sarà perciò, professor Newton, non quella di farle ulteriori domande, ma di citare come testimone la signorina in persona. Può dire alla corte dove si trova?»
«In questo momento si trova al laboratorio del CERN a Ginevra dov’ero impiegato prima anch’io», rispose Isaac Newton, rendendosi conto di essere finito improvvisamente su un terreno molto delicato. «Intendevo ritornare a Ginevra lo scorso fine-settimana per una serie di progetti in elaborazione, ma in vista delle responsabilità dalle quali sono stato investito improvvisamente e in maniera del tutto inattesa qui a Cambridge, ho considerato più opportuno restare qui. Poiché la signorina mi aveva confidato di essere interessata a un posto di lavoro al CERN, e poiché vari calcoli e disegni miei dovevano essere trasmessi a un mio collega in quella sede, ho chiesto alla signorina — a proposito: si chiama Frances Haroldsen — di mettersi in viaggio al posto mio. Sarebbe perciò necessario rinviare l’inchiesta se dovesse essere chiamata a rispondere a delle domande solo per via di un lancio d’amo del signor Sherbourne.»
«Sì, signor Sherbourne?» chiese il Coroner in risposta a un’esclamazione dell’avvocato.
«Mi domando se sarebbe possibile informare la corte di quando, precisamente, la signorina Frances Haroldsen ha lasciato l’Inghilterra.»
«Una settimana fa.»
«Cioè lo scorso mercoledì?»
«Sì.»
«Quindi un giorno dopo la morte del dottor Howarth. Un’altra coincidenza, professor Newton! Se lei stesso non trova sorprendente questa coincidenza, sono sicuro che la corte ne prenderà nota.»
«Non è frutto di coincidenza. Ho mandato la signorina Haroldsen subito, il più presto possibile, per avere la mente libera di occuparmi delle gravi questioni che sapevo sarebbero nate dalla morte del dottor Howarth e che hanno impegnato l’attenzione della corte oggi. Inoltre mi permetta, la prego, di aggiungere che se la mia posizione presentasse il minimo lato dubbio, l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di allontanare la persona che poteva fornirmi un alibi perfetto per la serata e la notte in cui morì Howarth. Spero che la corte ne prenderà nota.»
«Una precisazione senz’altro efficace, professor Newton», riconobbe il Coroner. «Ha da dire altro, signor Sherbourne?»
«Solo questo, signore. Dal testimone abbiamo appreso l’esistenza di segnali radio captati dal defunto, e anche la notizia di alterchi con il Consiglio delle Ricerche come fonte di stress e forse persino motivo di suicidio. Eppure questo materiale scientifico non è stato ancora presentato. Due funzionari del Consiglio delle Ricerche sono andati a trovare il professor Newton mercoledì scorso, lo stesso giorno, questo vorrei sottolinearlo, in cui la signorina Frances Haroldsen è scomparsa in maniera così opportuna per recarsi in Svizzera. E’ stato fatto rilevare al professor Newton che il materiale acquisito mediante i finanziamenti del Consiglio delle Ricerche, benché normalmente lasciato a disposizione degli scienziati o degli organi di ricerca per scopi di studio, apparteneva per legge al Consiglio delle Ricerche stesso. Dopo aver spiegato questo fatto al professor Newton, i due funzionari hanno chiesto che il materiale del dottor Howarth venisse consegnato, in maniera che il consiglio potesse valutarlo, ammesso che avesse valore. Il professor Newton si è rifiutato di aderire a questa richiesta, mettendosi in tal modo dalla parte del torto, dal punto di vista giuridico. Ciò che desidero chiedere ora è che il professor Newton venga sollecitato a esibire questo materiale. Egli è stato prontissimo, come tutti i presenti in quest’aula hanno potuto constatare, a tirar fuori trascrizioni e nastri di conversazioni, ma non lo è stato affatto nel presentare il supposto movente di questa tragedia. Io chiedo, signore, che la corte ordini al professor Newton di aderire immediatamente a questa richiesta.»
«E lei, che cosa ha da dire, professor Newton?» chiese il Coroner.
«Che i segnali radio in questione consistono in una sequenza di punti e linee e che una buona parte della registrazione è confusa… Mettere una simile registrazione a disposizione della corte non risolverebbe questo caso più di una sequenza tipica di punti e linee trasmessa da una nave in alto mare. In secondo luogo, non mi sono consultato ancora a proposito della mia posizione giuridica nei confronti del Consiglio delle Ricerche né il Consiglio delle Ricerche ha preso altre misure all’infuori di quella di mandarci due suoi funzionari a parlarci. In terzo luogo non ero certo che il materiale, se consegnato, sarebbe sfuggito a un’eventuale distruzione.»
«Ma è al sicuro ora?» chiese il Coroner.
«Sissignore.»
Il Coroner soppesò per un po’ la faccenda e poi espresse la propria decisione a proposito della richiesta di Sherbourne: «Accetto la sua assicurazione, professor Newton, secondo la quale il possesso del materiale da parte della corte aiuterebbe ben poco a prendere una decisione in questo caso. Nonostante ciò, l’esistenza stessa del materiale è pertinente al caso. Il signor Sherbourne è arrivato quasi al punto di affermare che il materiale potrebbe anche non esistere. Questa secondo me è una faccenda sulla quale la corte dev’essere esplicitamente rassicurata. Di norma avrei accettato la sua parola, professor Newton, considerandola una garanzia sufficiente, ma qui ci troviamo in presenza di un caso che lascia molto perplessi, il caso più misterioso della mia lunga carriera. Perciò, e con una certa riluttanza, come lei comprenderà, devo chiederle di esibire il materiale perché la corte lo esamini».
«Potrei chiedere che il materiale venga poi restituito a me?» chiese Isaac Newton.
«Il materiale sarà restituito, spero, al suo proprietario legittimo», interloquì Sherbourne.
«Le trascrizioni dimostreranno come il dottor Howarth fosse assolutamente contrario a un accesso del Consiglio delle Ricerche ai risultati, risultati dovuti agli sforzi compiuti da lui, non dal Consiglio», disse Isaac Newton con fermezza. «Sento che sotto questo punto di vista è mio preciso dovere rispettare la volontà del dottor Howarth, nei limiti del possibile.»
«Rispetto il suo punto di vista, professor Newton, ma devo chiederle tuttavia di esibire il materiale. Ne è in possesso?»
«No, non ne sono in possesso.»
«E’ mai esistito? O si trova ora in Svizzera?» esclamò Sherbourne.
«Penso che dovrei chiarire alla corte a che cosa mirino tutte queste domande cui mi ha sottoposto il signor Sherbourne, domande che ho sopportato con una pazienza senz’altro superiore a quella che realmente provavo. L’intento del signor Sherbourne e di coloro che egli rappresenta è quello di impadronirsi del materiale del dottor Howarth per scopi noti soltanto a loro, e, comunque, ben lontani dall’intento fondamentale di questa corte. Signor Coroner, lei mi ha chiesto se ero in possesso del materiale e io ho risposto di no, il che è la verità. Poiché mi rendevo conto che il suo possesso sarebbe stato fonte di dispute, l’ho depositato presso terze persone di valida reputazione. Si tratta del direttore della Barclays Bank, all’angolo, circa cento metri da qui.»
«Beh, chi ha vinto l’omerica battaglia?» chiese il rettore del Trinity mentre assieme a Isaac Newton attraversava il grande piazzale.
«L’ha vinta Sherbourne. Voleva i dati di Howarth. O, per lo meno, li volevano i suoi datori di lavoro, a tutti i costi.»
Fu a questo punto che Isaac Newton, distratto dal risentimento nei confronti di Sherbourne, si lasciò scappare l’occasione di risolvere tutto il mistero. Gli sarebbe bastato dirigersi verso la cappella per ispezionare il dispositivo che spegneva l’organo. Tra qualche ora sarebbe stato troppo tardi per ottenere le prove che gli occorrevano.
L’uomo di guardia al cancello era stato evidentemente preavvertito dell’arrivo di Isaac Newton.
«Quando vedrà dinanzi a sé la casa, svolti a sinistra e imboccherà la strada per il parcheggio», disse la guardia.
«Vi aspettate molto traffico per il fine settimana?» chiese Isaac Newton.
«Domani, sabato, arriva una bella folla. Ma questa sera ci sono solo lei e il Cancelliere.»
La residenza di campagna del Primo Ministro biancheggiava tra gli alberi mentre Isaac Newton s’inoltrava con la macchina sul viale fiancheggiato da cespugli verso la parte posteriore della dimora, scegliendo infine il punto meno in vista per parcheggiare. La residenza era una tipica costruzione in stile Tudor che ricordava per un certo verso la familiare corte interna del Queen’s College a Cambridge.
Dopo aver lasciato la macchina, con in mano cartella e valigia, Isaac Newton entrò attraverso una cancellata nel cortile, per dirigersi poi verso quello che sembrava l’ingresso principale della casa. Un uomo vicino alla trentina che indossava un abito a code rispose alla scampanellata.
«Oh, il professor Newton, immagino? Da questa parte, professore.»
Come succede sempre quando si segue un domestico, Isaac Newton perse rapidamente l’orientamento mentre salivano scalinate e attraversavano corridoi senza soffermarsi davanti ai locali più spaziosi che davano sui corridoi stessi.
«Devo disfare il bagaglio?» chiese il domestico quando arrivarono a destinazione, una stanza moderatamente spaziosa, arredata con mobili Ottocento, a eccezione dei due letti a una piazza, di fattura moderna.
«Il bagno è a sinistra, signore», soggiunse il domestico.
Non appena Isaac Newton ebbe finito di esplorare le comodità della stanza da bagno, arrivò una giovane donna con una teiera.
«La legna per il fuoco è già pronta nel caminetto, basta accenderla», osservò l’uomo che aveva vuotato la valigia in brevissimo tempo. «Se desidera qualcosa, signore, non ha che da suonare il campanello.»
Poi, entrambi i domestici se ne andarono, lasciando che Isaac Newton si bevesse una tazza di tè in santa pace, come si suol dire, o si preparasse al suo piano come altri direbbero. Sperava che il raccoglitore, da lui indirizzato ai Chequers (9) due giorni prima, fosse arrivato al Primo Ministro. Questi era, Isaac Newton lo sapeva, un lettore vorace. Del resto, qualsiasi cosa riguardante la sinistra vicenda di Cambridge doveva essere motivo di curiosità anche per chi lettore vorace non era. In breve: Isaac Newton sperava che il Primo Ministro fosse già al corrente della situazione.
Dopo aver finito il tè, cedette all’impulso di esplorare la casa. A differenza dei College di Cambridge dove nulla era stato trascurato per conservare all’interno degli edifici i riferimenti allo stile Tudor, qui le cose non stavano così. Isaac Newton non avrebbe saputo come definire l’interno della dimora — un misto di primo Ottocento e gotico, pensò, con una sala da pranzo che gli parve «Cime Tempestose» rivisitato da Charles Dickens, con un grande ritratto di Cromwell intento a lanciare sguardi corrucciati ai visitatori.
Un busto in bronzo del musicista Gustav Mahler destò la sua attenzione. Per due motivi: era un’opera di Auguste Rodin ed era sistemato appena fuori delle toelette accanto alla sala da pranzo; un efficace commento, pensò Isaac Newton, al declino della musica viennese da Beethoven a Mahler e oltre. Era strano come la declinante influenza politica dell’Austria si rifletteva nella sua musica. Si chiese se lo stesso destino sarebbe toccato alla scienza inglese.
C’era una grande biblioteca e una biblioteca più piccola.
«Ah, è arrivato!» esclamò il Primo Ministro mentre Isaac Newton stava esaminando senza molto impegno gli scaffali. Quindi lo condusse nella biblioteca più piccola, arredata con due grandi poltrone, un grande divano di pelle, un impianto stereo e un bar sistemato in un angolo.
«Immagino che lei non conosca Godfrey, professor Newton», fece il Primo Ministro.
L’uomo di mezza età che si alzò da una delle poltrone era snello, di media statura e aveva i capelli grigi: Godfrey Wendover, il Cancelliere dello Scacchiere.
Mentre Isaac Newton stringeva la mano al Cancelliere, il Primo Ministro prese una manciata di noccioline da un piatto sul banco del bar consegnando al Cancelliere il raccoglitore che Isaac Newton gli aveva mandato due giorni prima, poi disse: «Fantastico! Comete vive. Le comete sono vive perché — vediamo se ho capito bene — perché si dividono se si avvicinano al Sole, il che significa che devono essere liquide all’interno. Ma non possono essere liquide a meno che non siano provviste di una fonte di calore interna, il che sembra ragionevole. E l’unica fonte di calore all’apparenza ragionevole è qualcosa come il reattore OKLO, originato da batteri duemila milioni di anni fa. Ho recitato senza sbagli il catechismo, professor Newton?»
«In maniera eccellente, Primo Ministro, ma ha dimenticato i segnali.»
«Ah, sì, naturalmente. Hanno scoperto dei segnali composti da punti e linee, provenienti da una cometa. Solo che non sanno che cosa significano questi segnali.»
«Le dispiace se do un’occhiata?» chiese il Cancelliere.
«La prego», rispose Isaac Newton.
Il Cancelliere aprì il raccoglitore e cominciò a leggere.
Il Primo Ministro prese un’altra manciata di noccioline e disse: «Non so resistere alle noccioline. Sa che sarebbe una gran cosa per il nostro paese se fosse possibile decifrare quei segnali?»
«Me ne rendo conto», annuì Isaac Newton in tono asciutto, «ed è per questo, Primo Ministro, che volevo chiedere un suo intervento.»
«Intervento attivo! Bevete qualcosa? Godfrey?»
«Scotch e soda», rispose il Cancelliere, senza sollevare gli occhi da ciò che stava leggendo.
«Anche per me», disse Isaac Newton.
«Sarà meglio che prendiate un po’ di noccioline. Una volta che comincio a mangiarle non riesco più a fermarmi. Un istinto primordiale che risale al tempo in cui abitavamo nelle foreste, immagino. Quale intervento ha in mente?»
«Bisogna che i pezzi grossi la smettano di romperci le scatole. Altrimenti potrebbero causare degli inconvenienti e anche peggio; Qualcuno ha esercitato fortissime pressioni sia sul Consiglio delle Ricerche sia sulla polizia. Mi sono trovato alle prese con avvocati che sventolavano documenti. Hanno tentato di impadronirsi dei nastri e dei dischi sui quali sono registrati i segnali. Il mio ufficio è stato perquisito in ogni angolo per conto di qualche organo ufficiale, qualche organo che in definitiva dipende da lei, Primo Ministro.»
«Perché i servizi segreti dovrebbero interessarsi di comete?»
«Perché non dovrebbero? Basta che capiti qualcosa di insolito ed ecco che compaiono i servizi segreti», osservò il Cancelliere, senza peraltro prendersi la briga di alzare gli occhi.
«Se lei fosse uno dei servizi e le saltasse in mente che i segnali provengono da un satellite anziché dalla cometa, a quali conclusioni arriverebbe, Primo Ministro?» cominciò Isaac Newton. «Se lei è americano, penserà che i russi abbiano fatto una scoperta, per cui vorrà conoscerla. Se lei è russo, penserà che gli americani abbiano fatto una scoperta e vorrà conoscerla. Se lei è inglese, penserà che qualcuno abbia fatto una scoperta, e anche lei vorrà conoscerla. E’ un po’ come un vaso di miele per le api, o per gli orsi o qualsiasi altro animale che adora il miele. Prendo molto sul serio questa faccenda, al punto che negli ultimi quindici giorni non ho mai dormito più di due volte nello stesso posto. I miei movimenti hanno seguito uno schema assolutamente imprevedibile perché so che agli agenti dei servizi segreti questo non piace. Ho fatto un po’ come il tordo che scantona all’improvviso per non farsi piombare addosso lo sparviero. Lo sparviero, d’altra parte, non si getta in picchiata perché mancherebbe il bersaglio e si fracasserebbe al suolo. E’ una buona tattica, ma dopo un po’ stanca.»
«Così, lei vuole che io faccia un po’ di pressione su quella gente?»
«Sì, se vogliamo avere qualche possibilità di decifrare i segnali.»
«Per conto mio, puoi chiudere tutti i pezzi grossi in un sacco della spazzatura e scaraventarli in mare», osservò il Cancelliere, sempre senza alzare gli occhi dall’incartamento.
«Parlando di conti, sei tu quello che ha i soldi, Godfrey», ribatté immediatamente il Primo Ministro.
«Può darsi che per il momento io abbia i soldi, ma non li avrò a lungo se mani rapaci continueranno a infilarsi nella cassa.»
«Stiamo discutendo il bilancio», spiegò il Primo Ministro prendendo un’altra manciata di noccioline. «I grandi spendaccioni arriveranno tutti domattina. Organizzeremo per loro domani sera una festa con tanto di cena. Lei si trattiene?»
«Mi piacerebbe partire domenica mattina e vorrei chiederle una macchina che mi porti a Heathrow. Se possibile vorrei lasciare qui la mia, così sarebbe più difficile sabotarla.»
«Parla sul serio?»
«Sì, sul serio.»
«Mi lasci una settimana di tempo e li sistemerò tutti quanti, dal Consiglio delle Ricerche in su», disse il Primo Ministro in tono risoluto, soggiungendo: «Come va la lettura, Godfrey?»
«E’ affascinante. Potrei avere ancora da bere, per favore? Ci vuole una medicina robusta per leggere la sua roba, professor Newton.»
La mattina seguente, il Cancelliere propose a Isaac Newton una passeggiata, il «giro di Aldbury», come lo chiamava lui. Insieme attraversarono in macchina la cittadina.
«La sua famiglia viene da qui?» chiese Isaac Newton.
«Sì, stava qui nell’undicesimo secolo. Adesso, naturalmente, è molto sparpagliata. E lei?»
«Oh, io sono una creatura della geologia», rispose Isaac Newton.
«Mi sembra una risposta molto misteriosa.»
«In realtà non lo è. Ecco, vede: circa quattrocento milioni di anni fa, quando quasi tutte le Isole Britanniche erano sommerse dal mare e l’Europa Occidentale si trovava da qualche parte nelle vicinanze dell’Equatore, le sedimentazioni nel mare avevano un intenso colore rosso. I sedimenti si solidificarono dando luogo alla formazione di una roccia arenaria di colore intenso, chiamata dai geologi arenaria devoniana.»
«Capisco. Dunque, per tagliar corto, lei viene dal Devonshire. Mi era parso di sentire, ascoltandola, un leggero accento di quelle parti.»
«Poi, circa trecento milioni di anni fa, una punta di rocce di granito affiorò dall’arenaria rossa, ed è il posto che oggi chiamiamo Dartmoor. Beh, se lei scende lungo il lato sud-occidentale e presta attenzione ai primi chilometri dopo aver raggiunto le rocce rosse, vedrà il posto dal quale provengo: la campagna intorno a Tavistock. La mia famiglia ha coltivato lì la terra per molto tempo, per secoli, immagino.»
«E la sua famiglia, che cosa dice? Del fatto, voglio dire, che lei è uno scienziato?»
«Dicono che è una follia, e che non ne verrà fuori nulla di buono.»
«Le capita mai di tornare da quelle parti?»
«Qualche volta. Sono ancora abbastanza attaccato al Devon per prendermela con chiunque non voglia ammettere che il Devon è la migliore contea dell’Inghilterra. E quando sono sul posto me la prendo con chiunque non voglia ammettere che Tavistock è la migliore città del Devon.»
Parcheggiarono a Aldbury.
Il Cancelliere disse: «Potremo prendere una birra e un panino al pub locale quando torneremo dalla passeggiata. Sono circa sei chilometri. A proposito, può darsi che lei mi faccia risparmiare un bel mucchio di soldi».
«Come sarebbe a dire?» chiese Isaac Newton.
Mentre affrontavano una leggera salita attraverso il bosco, il Cancelliere continuò: «La sua relazione su quei segnali dalla cometa mi ha fatto riflettere. Cominciamo a supporre che lei si sbagli. Supponga che i segnali non provenissero dalla cometa. Supponga che provenissero da un satellite militare. In tal caso ci troviamo all’inizio di una nuova epoca, quella delle guerre spaziali, un campo nel quale la Gran Bretagna non può competere. Beh, se non possiamo competere, tanto vale risparmiare un po’ di soldi, mi sembra. Perché continuare a spendere soldi per armi che diventano sempre più antiquate?»
«C’è sempre di mezzo l’argomento del deterrente.»
«Che diventa sempre meno importante man mano che restiamo indietro nella gara. Potremmo benissimo restare tranquilli e lasciare che le superpotenze si riducano sul lastrico. I russi ci sono quasi arrivati, e se guardo all’ammontare del debito pubblico degli Stati Uniti, non vedo molte speranze nemmeno da quella parte.»
«E’ in grado di isolarsi da una crisi debitoria negli Stati Uniti?»
«Si potrebbe pensare di no, ma sembra che gli svizzeri riescano sempre a isolarsi da chiunque, più o meno. La cosa notevole nella scena finanziaria internazionale consiste nel fatto che il margine tra solvenza e insolvenza è quasi identico all’ammontare della somma spesa per gli armamenti. Ovunque, in tutti i paesi, all’infuori di pochi come Svizzera e Giappone.»
«Così, se tutti gli armamenti fossero ridotti allo stato di ferraglia, il mondo diventerebbe improvvisamente prospero. E’ questo che vuol dire?»
«Qualcosa del genere», annuì il Cancelliere mentre raggiungevano una strada maestra. «Qui dobbiamo seguire un percorso un po’ tortuoso.»
«Credo di non essere tanto d’accordo con lei», cominciò Isaac Newton quando ebbero ripreso a camminare nella direzione di prima su un largo tratturo che attraversava il bosco. «Secondo me, tutte le comunità consumano la loro intera produzione. Voglio dire: la gente la spende per se stessa, sia privatamente sia attraverso l’assistenza pubblica, e per assistenza non intendo solo i sussidi elargiti ai poveri. Non dobbiamo dimenticare che i professori d’università e persino i Cancellieri dello Scacchiere sono pagati con soldi provenienti dai fondi pubblici. Così accade che avendo speso tutto per i propri bisogni alla comunità non rimanga nulla per provvedere alla difesa. Quindi se la cava prendendo soldi in prestito, prestito garantito dalla produttività di domani. Un domani che, naturalmente, non arriva mai.»
«Credo che in questo modo lei abbia dimostrato l’esattezza della mia teoria», osservò il Cancelliere, avanzando a lunghi passi sul tratturo. «Se tutto comincia a quadrare senza gli armamenti, la loro riduzione rimetterebbe le cose a posto, immagino.»
«Ne dubito. La frenesia di spendere più di quanto si guadagni continuerebbe a esistere. L’assistenza pubblica aumenterebbe in un baleno per cui lei si ritroverebbe al punto di partenza.»
«Qual è il rimedio, allora?»
«L’inflazione. Il governo deve inflazionare la moneta in misura tale da compensare il ritmo di crescita del debito pubblico. La si potrebbe chiamare la prima legge di Newton.»
«Non sarebbe un rimedio molto ben accetto.»
«No, perché l’inflazione confisca i risparmi. La gente che presta soldi al governo semplicemente li perde.»
«Eppure, proprio in questo momento il mondo intero si precipita a comprare buoni del tesoro degli Stati Uniti.»
«Perché il governo degli Stati Uniti afferma di poter contare sulla riduzione dell’inflazione a zero in presenza di un debito pubblico in continuo aumento; qualsiasi contadino svizzero sa che è una cosa priva di senso. Morale della favola: investite i vostri soldi in franchi svizzeri. A Cambridge abbiamo un professore che s’intende di queste cose. Un tipo chiamato Boulton. Lui, la situazione la vede con occhiali molto affumicati», concluse Isaac Newton quando uscirono dal bosco e si ritrovarono su uno spiazzo davanti a un vasto edificio con torri merlate.
«Enrico Ottavo teneva qui le sue figlie, Maria ed Elisabetta. Il castello è stato ammodernato nel Settecento dal duca di Bridgewater che divenne ricco grazie ai canali», spiegò il Cancelliere. «A quel tempo era l’ultimo grido in fatto di tecnologia. Poi arrivarono le ferrovie e fu un disastro per i canali. Le azioni delle ferrovie erano considerate equivalenti ai titoli di Stato. Indi comparvero l’automobile e l’aereo, ed è stato un disastro per le ferrovie. Spesso mi domando che cosa succederà ancora.»
Mentre si mettevano sulla via del ritorno al pub di Aldbury, il Cancelliere dello Scacchiere cominciò un monologo. «Ho una preparazione storica grazie agli studi fatti a Oxford, dove sarei potuto rimanere, se proprio avessi voluto. Il guaio consisteva nel periodo cui avevo scelto di dedicarmi: il tardo medioevo. Più imparavo la storia e più questa mi deprimeva. Ero in presenza di un mondo in pieno declino sotto ogni punto di vista. Alla luce della mentalità moderna, persino il Trecento era già abbastanza terribile. Ma nel Trecento esistevano ancora regole di comportamento universalmente rispettate, codici d’onore ai quali chiunque si conformava. Il tutto era già scomparso nel Quattrocento. Le condizioni in cui viveva la società erano deteriorate a tal punto da essere un vero disastro; per quanto riguarda l’Inghilterra con le Guerre delle Rose, naturalmente. François Villon, il migliore poeta dell’epoca, era un delinquente e un vagabondo. Per forza. Non poteva essere niente di meglio. Eppure circa un secolo più tardi, il più grande poeta di quell’epoca, Shakespeare, frequentava notoriamente le case dell’aristocrazia. Le condizioni di vita avevano subito un drastico cambiamento per cui Shakespeare fu in grado di mettere insieme un considerevole patrimonio.»
Il Cancelliere riprese dopo una breve pausa: «Di solito, questo cambiamento viene spiegato con la scoperta dell’America. Non solo la scoperta in sé, ma il fatto che allargò gli orizzonti mentali degli europei, stimolandone la fantasia. Ma poi viene da domandarsi per quale strana coincidenza l’America venne scoperta proprio mentre l’Europa si stava avvicinando a un disastro totale».
«Pensavo che i vichinghi avessero scoperto l’America molto prima del Quattrocento», riuscì a interloquire Isaac Newton.
«Si trattò solo di uno o due viaggi isolati, forse — anche gli irlandesi affermano di esserci andati una o due volte ma mai si è stabilito un contatto duraturo tra l’Europa e l’America. Tutta la differenza sta qui. E sa perché è andata a finire così?»
«No, temo di non saperlo.»
«Beh, le cose finirono così non grazie a Colombo o a Vasco da Gama o a Drake o agli altri navigatori celebri, ma grazie a quei costruttori di navi che nessun poeta ha cantato e nessuno ricorda. Va da sé che le navi avevano subito costanti perfezionamenti sin dal tempo dei romani», continuò il Cancelliere, prendendo gusto al soggetto, «e nel quindicesimo secolo, un galeone a tre alberi comparve sulla costa atlantica tra Lisbona e Brest. Ma furono i costruttori navali della regione di Bayonne che per primi raggiunsero il livello tecnologico necessario — un fatto cruciale quanto i vostri reattori nucleari. Le loro navi riuscivano a superare indenni le più grosse tempeste nell’Atlantico.
«Beh», concluse il Cancelliere, «tanto per farla breve, visto che sto parlando da un pezzo, ho provato una strana sensazione leggendo la sua breve relazione. Ho riflettuto su quei costruttori navali della vecchia Bayonne. Quelli non avrebbero mai potuto prevedere gli sviluppi dei perfezionamenti che stavano introducendo. Mi domando se lei, Newton, si sia già reso conto delle conseguenze che questi segnali potrebbero avere. Potrebbero dare uno scossone alla società moderna in disfacimento, altrettanto in disfacimento quanto quella del Quattrocento, per farne venire fuori qualcosa di ben diverso.»
Le teorie dei giornali della domenica sull’«Affare di Cambridge» superavano per numero i giorni della settimana, e aumentarono ancora dopo che nella giornata di venerdì la corte del Coroner ebbe pronunciato un verdetto contro ignoti, facendo sì che ogni supposizione appena plausibile andasse ad alimentare le macine della Fleet Street.
Dopo aver lasciato la residenza del Primo Ministro nelle prime ore del mattino di domenica, Isaac Newton era stato accompagnato con una macchina speciale all’aeroporto di Heathrow. Qui comprò un intero pacco di giornali, cercando di immaginarsi che cosa vi avrebbe trovato. Aveva frenato la propria curiosità fin dopo l’imbarco su un aereo della British Airways per Ginevra. Poi, sistematosi, cominciò una veloce lettura della serie di articoli sull’«Affare» scritti dal gruppo di giornalisti del «Sunday Times».
Il desiderio del rettore del Trinity College che la stampa «facesse saltare tutto in aria» era stato esaudito, ma rimaneva da chiedersi se il rettore fosse veramente contento del modo in cui lo era stato. Invece di cancellare l’immagine di una Cambridge popolata di spie, tutto quel chiasso l’avrebbe messa in rilievo. Gli inviati avevano scoperto la storia della grande lunghezza d’onda della trasmissione intercettata da Mike Howarth, e anche la possibile importanza di questo fatto dal punto di vista militare, cioè che simili lunghezze d’onda non potevano essere né disturbate né intercettate da terra, per cui le onde molto lunghe erano l’ideale per le comunicazioni segrete tra satellite e satellite. Questo aspetto venne messo in rilievo, e i giornalisti fecero ai lettori il favore di spiegare la situazione tecnica in un articolo speciale sull’effetto riflettente esercitato dalla ionosfera terrestre.
La possibilità che i segnali provenissero da una cometa, la cometa di Boswell, venne menzionata, ma subito scartata come un mezzo per depistare i creduloni. Data la grande differenza esistente tra lo sviluppo della tecnologia elettronica degli Stati Uniti e quella russa, era molto più probabile che una scoperta nel campo delle comunicazioni tra i satelliti fosse stata realizzata dagli americani che non dai russi, così si diceva, almeno, e la cosa era fino a un certo punto credibile. Come emergeva da tutto questo la figura di Mike Howarth, l’uomo che aveva intercettato e analizzato i segnali? Come un simpatizzante della sinistra impegnato nel passare informazioni ai russi. Dal punto di vista del rettore del Trinity, la cosa non aveva poi grande importanza. La spia proveniva stavolta dal College al di là del muro, il Saint John.
La rescissione del contratto di Mike Howarth da parte del Consiglio delle Ricerche si inseriva perfettamente nello scenario. Il Consiglio, dopo aver appreso che si faceva dello spionaggio addirittura sotto il suo naso, aveva bloccato naturalmente tutto il programma. Questa era una storia che doveva essere stata messa insieme da qualcuno più intelligente di Clamperdown, si disse divertito Isaac Newton. Il Consiglio faceva così una bellissima figura, così bella da far capire senza ombra di dubbio dove gli inviati avessero ottenuto molte delle informazioni. Il Consiglio doveva aver spalancato la bocca e «cantato» almeno qualche brano della storia.
Ora toccava al nuovo titolare della cattedra del Cavendish. Con grande sorpresa di Isaac Newton, i giornali erano a conoscenza dei suoi impegni nel campo della sicurezza nazionale col governo persino «ad altissimo livello», come i giornalisti raccontarono ai lettori. Isaac Newton si domandò se l’informazione fosse filtrata dal Foreign Office.
Date queste circostanze era più che naturale che il nuovo titolare del Cavendish fosse stato chiamato a riferire immediatamente sugli aspetti del lavoro del dottor Howarth alla sicurezza nazionale. Il nuovo cattedratico del Cavendish aveva forse presentato una relazione sfavorevole? chiedevano i giornalisti a milioni di lettori. E i servizi segreti, dopo aver ricevuto la relazione sfavorevole del nuovo titolare del Cavendish, non avevano magari fatto intervenire una loro squadra? Era una questione importante che tutti i cittadini avevano il diritto di conoscere. Il governo doveva vuotare il sacco o essere costretto a vuotarlo. In caso contrario, in che cosà si distingueva la Gran Bretagna dai regimi dell’Europa Orientale ai quali il governo affermava di opporsi così strenuamente?
Isaac Newton si era atteso che il suo legame con Frances Haroldsen venisse strombazzato dalla stampa, e lo fu, ma non nel modo che si era aspettato. Da quando aveva conosciuto la ragazza, non aveva mai pensato gran che alla famiglia di lei; supponeva solo vagamente che dovesse far parte dell’ambiente militare. In questo si era avvicinato al bersaglio, ma senza fare centro. Ora apprendeva dai giornali che suo padre, contrammiraglio Sir James Haroldsen, in pensione solo da poco, aveva fatto parte del Servizio Informazioni della Marina. I giornali avvertirono i lettori che la presenza della figlia dell’ammiraglio nell’alloggio del nuovo titolare del Cavendish la sera della morte di Howarth non doveva essere trascurata dal punto di vista della sicurezza nazionale: «touché».
Era giornalismo di buona qualità. Fatti ragionevolmente precisi erano stati inseriti in una trama plausibile almeno quanto quella di un romanzo di James Bond. La plausibilità, naturalmente, era stata raggiunta lasciando accuratamente fuori i pezzi che non si inserivano nel mosaico, come ad esempio il duello sostenuto da Isaac Newton davanti al Coroner contro l’avvocato Sherbourne.
Ad Isaac Newton non piaceva affatto l’idea di essere inserito nel novero dei personaggi come quello che firma sentenze di morte. Ma non era questo il motivo che lo indusse a rimandare indietro, senza averla toccata, la prima colazione che un’assistente di volo gli aveva portato. Era sconvolto perché aveva effettivamente firmato una sentenza di morte. Quando molti giornali si occupano dello stesso fatto di cronaca, ogni giornalista cerca di scoprire qualche nuovo aspetto sfuggito agli altri. Non era sorprendente, quindi, che i giornalisti avessero scoperto il cottage di Mike Howarth nei pressi del serbatoio di Linton, né che fossero riusciti a entrarvi. Qualcuno aveva riparato il cavo dell’energia elettrica all’esterno, ma anche questo non destava sorpresa. Il guaio era che un’altra persona, un giornalista, era rimasto fulminato nel toccare l’armadietto degli schedari. Il modo in cui il poveretto aveva perso la vita era per i giornali un’ulteriore conferma della parte che Mike Howarth aveva presumibilmente recitato, visto che collimava molto bene con l’idea che l’opinione pubblica si fa dei metodi di un agente di spionaggio. Per quanto lo riguardava, Isaac Newton maledisse la propria trascuratezza. Dopo aver tagliato il cavo dell’energia all’ingresso del cottage e aperto poi l’armadietto degli schedari, avrebbe dovuto — rifletté amaramente — strappare i contatti con il trasformatore ad alta tensione che aveva trovato nel cassetto di fondo dell’armadietto.
I lettori avrebbero evidentemente continuato a credere nello scenario da romanzo giallo imbastito dai giornali, a meno che fossero emerse delle convincenti prove in contrario. E le prove convincenti erano difficili da trovare, anche se Isaac Newton aveva il sospetto che potessero esistere. Ci voleva tempo. Isaac Newton si costrinse a riflettere su quel che Kurt Waldheim poteva aver scoperto e che Frances Haroldsen si era rifiutata di spiegargli per telefono. Dopo aver estratto da una borsa di pelle delle carte, esaminò vari fogli pieni di formule. Poi cominciò a fare dei calcoli in base alle formule e a tracciare una serie di diagrammi tra i quali c’era lo schizzo di una curva a forma di U.
Nulla di quanto era avvenuto fino a quel momento aveva preparato Isaac Newton alla scena che accadde non appena ebbe superato la dogana dell’aeroporto di Ginevra. Mentre Frances Haroldsen si avvicinava di corsa e lo abbracciava con slancio, parecchi flash di macchine fotografiche scattarono tutt’intorno.
«Questi tipi mi stanno dietro da giorni», mormorò lei, dirigendosi subito verso Rosie Waldheim, che reggeva una borsa colma di grandi pesche mature. E afferrando una pesca, Frances Margaret la scagliò contro uno dei fotografi con l’energia e l’abilità di un giocatore di baseball. Seguirono altre pesche. Poi arrivò un poliziotto che gridava ad alta voce delle frasi in tedesco anziché in francese, il che già era strano per Ginevra.
Kurt Waldheim era un uomo ben piantato, di alta statura, con la fronte ampia sormontata da un ciuffo ribelle di capelli biondi, in contrasto con la moglie che aveva una corta zazzera di capelli neri. Fu lui che riuscì a tradurre le osservazioni del poliziotto, buttando tutto sul ridere, come sempre faceva.
«Non è per i fotografi che si preoccupa, ma per le pesche schiacciate a terra. Vuol sapere chi pulirà.»
«Beh, penso io a pulire», rispose Frances Margaret immediatamente.
Seguì un ulteriore alterco in tedesco che Kurt Waldheim pensò a tradurre anche stavolta con la sua voce pacata e ferma.
«Dice che non si aspetta da te un lavoro ben fatto. Così devi pagare per la pulizia. Ogni pesca che hai lanciato ti costerà cinque franchi. Vuol sapere quante pesche hai gettato.»
«Sette, penso.»
Frances Margaret tirò fuori i trentacinque franchi svizzeri, osservando: «Nessuna meraviglia che la loro valuta sia così solida».
Nel frattempo, il poliziotto redasse con molta serietà la ricevuta che poi consegnò con un cenno della testa in cambio dei soldi.
Stavano dirigendosi verso l’uscita dell’aeroporto quando si rifece vivo il poliziotto, che, correndo, si avvicinò a loro. Dopo una breve conversazione con Kurt Waldheim, l’uomo scomparve, questa volta definitivamente. Quando furono in macchina, con Rosie al volante, Kurt si girò sorridendo verso i sedili posteriori e riferì a Frances Margaret e a Isaac Newton: «Il poliziotto è ritornato per chiedere se la signorina era una diva del cinema. Gli ho risposto di no, non che io sapessi, e lui allontanandosi ha commentato: ’Beh, credo che lo sarà presto!’»
Quattro ore più tardi, Isaac Newton e Kurt Waldheim erano seduti sul terrazzo dello châlet di Waldheim sopra Wengen; davanti a loro era lo scenario in cui Rosie aveva conseguito i suoi più grandi trionfi quando era campionessa di sci.
Le due donne erano scese in paese per fare la spesa, lasciando i due uomini spaparanzati sulla veranda dello châlet, con lo sguardo perso nella contemplazione della parete della Jungfrau, come avevano già fatto vari mesi prima. Isaac Newton rimase colpito dalla riflessione che, di tutte le più imponenti montagne del mondo, le Alpi erano le uniche accoglienti per l’uomo. I ghiacciai dell’ultimo milione di anni erano venuti e passati, scavando ampie vallate anziché stretti precipizi impercorribili che sarebbero stati altrimenti scavati per erosione dai torrenti e dai fiumi. Poi, le ampie vallate si erano coperte di sedimenti che permisero all’erba, ai raccolti e ai fiori di crescere in profusione al caldo sole estivo. E persino nelle estati più calde non veniva mai a mancare l’acqua, perché con il progressivo aumento del calore si scioglieva una sempre maggiore quantità di neve e ghiaccio sulle cime. Tutto funzionava in modo troppo perfetto per poter essere attribuito a un semplice caso.
«La tua giovane amica è dotata di altre abilità oltre a quella di saper lanciare pesche. A volte è un po’ impulsiva, mi pare.»
«Suo padre è un ammiraglio e la sua, credo, è una reazione all’ambiente familiare.»
«Ah sì, la temuta disciplina della Marina», annuì Kurt Waldheim. «Quando ero in California mi hanno raccontato di un’esercitazione della Marina americana al largo della Punta di Monterey. C’erano molte navi che seguivano la stessa rotta, in fila l’una dietro l’altra; sfortunatamente, quella di testa per un errore di rotta andò a incagliarsi contro gli scogli della costa. La disciplina nella Marina era allora tanto ferrea che, fin quando non giunse l’ordine di cambiare rotta, le altre navi proseguirono implacabilmente, incagliandosi a loro volta sugli scogli una dopo l’altra. Il risultato fu che al ricevimento del nuovo ordine già si contavano undici navi tra affondate o in avaria. Credo si debba a questo incidente l’origine del famoso detto: ’La Marina degli Stati Uniti non commette mai errori «banali»’.»
«Che cosa ha combinato allora Frances Haroldsen, oltre a lanciare pesche?»
«Beh, una volta riordinati i dati da lei portati al CERN ha notato che in realtà c’erano quattro tipi di impulsi, non solo due. Al che ne ha misurato la lunghezza e ha scoperto che erano suddivisi in proporzioni strettamente geometriche. Facciamo che quello più breve sia un punto: il successivo un po’ più lungo ha due volte la durata di un punto, il successivo ancora un po’ più lungo ha la durata di quattro punti e l’impulso più lungo dura otto volte di più del punto. Proseguendo l’analisi scoprì che questa progressione diveniva sempre più precisa. Così le è venuta l’idea di invertire la situazione. Supponendo che la lunghezza degli impulsi progredisse con un rapporto di uno a due, era possibile rendere ancora più comprensibile la registrazione. Ciò che all’inizio era sembrato più che altro un rumore alla fine è diventato abbastanza intelligibile. E’ stato allora che anch’io ho cominciato a interessarmi ai segnali della cometa.»
«Allora sei convinto che vengano dalla cometa?» chiese Isaac Newton, un tantino sorpreso.
«Sì, per motivi che ti spiegherò. Anche se in partenza non ero di quest’idea, ovviamente.»
«Continua, m’interessa», lo sollecitò Isaac Newton quando Kurt Waldheim s’interruppe con una lunga pausa a effetto.
«Lo immaginavo. Beh, Isaac, il motivo per cui gli impulsi più lunghi e quelli successivi ancor più lunghi non saltarono all’occhio che al momento in cui la registrazione era stata ’ripulita’ consiste nel fatto che vengono usati con molta parsimonia. Circa un impulso su trenta è del tipo più lungo e circa uno su dieci appartiene alla successiva specie meno lunga. D’altra parte, gli impulsi più brevi e quelli appena meno brevi sono pressappoco ugualmente frequenti, solo che quelli appena meno brevi lo sono in misura che supera di qualche punto in percentuale quelli più brevi. Capisci che cosa deve significare questo?»
Isaac Newton rifletté per un po’ e rispose: «Quasi sicuramente vengono trasmessi dei numeri, e la più universale maniera per esprimere un numero è quella di esprimerlo in forma binaria, così come i numeri vengono espressi in un computer. Beh, se tu scrivessi molti numeri in forma binaria, i numeri zero e uno sarebbero quasi uguali. Solo che i numeri uno soverchierebbero di pochissimo gli zero. Questo perché ogni numero deve cominciare con uno se viene espresso in forma binaria. Così ne deduco che gli impulsi più brevi sono degli zeri e quelli appena meno brevi dei numeri uno».
«Sì, e puoi anche dedurre che quasi tutti i numeri devono essere piuttosto lunghi, con molte cifre, altrimenti i numeri uno sarebbero presenti ancor più di quanto siano. Beh, arrivato a questo punto», continuò Kurt Waldheim, «ho provato a dare un’occhiata agli impulsi più lunghi e ho scoperto che erano seguiti invariabilmente da un numero uno, mai da uno zero. Il che mi ha rivelato che gli impulsi più lunghi dovevano segnare l’inizio dei numeri.»
«E gli impulsi appena meno lunghi?» chiese Isaac Newton.
Kurt Waldheim alzò la mano e parlando lentamente, scandendo le parole e sempre con un’aria un tantino divertita, rispose: «E’ a questo punto, Isaac, che cominciano le sottigliezze. Che cosa farei, mi son chiesto, per esprimere il punto decimale in un numero oppure, in questo caso, il punto binario? Se dovessi comunicarlo a un altro essere umano, metterei semplicemente un punto, così come si fa in una lettera o in un’annotazione scientifica in quanto supporrei che il mio corrispondente ne comprenderebbe il significato, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Ma se stessi trasmettendo i numeri a un’intelligenza sconosciuta, non potrei mettere semplicemente un punto perché non sarei sicuro che il mio corrispondente capirebbe la convenzione di cui ci serviamo noi, esseri umani, nell’uso del punto decimale o di un punto binario».
Kurt Waldheim fece una pausa per prender fiato e vedere se Isaac Newton lo avesse seguito. Quando questi assentì con un cenno del capo, continuò: «Così mi sono chiesto: che cosa intendiamo con un punto decimale? Dicendo, per esempio, che il cambio è di 2.85 marchi per un dollaro? Beh, ci serviamo del punto decimale per separare la parte frazionale di un numero. Se ti digito le prime tre cifre del numero 3.14, ciò che vogliamo dire è 3 più 1 diviso per 10 più 4 diviso per 100. Da ciò vedi che, servendoci di un punto decimale, facciamo a meno di specificare due operazioni, l’addizione e la divisione. Così, se dobbiamo fare a meno del punto decimale, dovremo introdurre simboli indicanti l’addizione e la divisione, simboli che indichiamo abitualmente con il segno più e il segno diviso».
«Non mi è difficile seguirti, Kurt», lo interruppe Isaac Newton.
«Così sono arrivato alla conclusione che nei segnali dovevano esserci simboli simili. Beh, tanto per farla breve, ho trovato che un singolo impulso dei quasi più lunghi indica il ’più’ e tre impulsi dei quasi più lunghi il segno ’diviso’. Dal che presumo che due di questi impulsi insieme indichino il segno ’meno’, e quattro il segno ’moltiplicato’. E a questo punto sono giunto alla conclusione che i segnali dovevano provenire dalla cometa, non da una fonte creata dall’uomo.»
«Perché?»
«Perché una fonte creata dall’uomo avrebbe sicuramente usato il convenzionale punto decimale. Nessun essere umano si sognerebbe di indicare a una a una le addizioni e divisioni nella maniera in cui sono indicate in questi segnali. Ma c’erano anche altre indicazioni.»
«Come, per esempio?»
«Se guardi i numeri dopo aver effettuato con il computer una conversione dal sistema binario a quello decimale per renderne più facile la lettura, è ovvio che formino una lunghissima sequenza di coppie del tipo (x,y). Tra i numeri x e y di ogni coppia c’è una grande differenza: ma se passi da una coppia a quella successiva, il numero x varia in maniera regolare, e anche il numero y varia in maniera regolare da una coppia a quella successiva.»
«Mentre, se avessimo a che fare con una trasmissione militare molto segreta…» tentò di interloquire Isaac Newton.
«… la sequenza dei numeri sarebbe certamente alterata, in maniera da sembrare dovuta al caso», concluse Kurt Waldheim in tono trionfale.
«Questo sembra tagliare la testa al toro, Kurt, benché io non sappia se farebbe subito tanta impressione al Consiglio delle Ricerche o alla stampa», osservò Isaac Newton in tono asciutto. «Ora, il grande problema è quello di trovare il significato di queste coppie di (x,y). A che punto siete?»
«Niente ancora», rispose Kurt Waldheim con un largo sorriso, «perché sarebbe stato molto indelicato nei tuoi confronti, non ti pare? Questi segnali, Isaac, contengono dati che appartengono a te, semmai appartengono a qualcuno. Non sarebbe stato molto corretto da parte mia mettermi al lavoro per decifrarli senza il tuo permesso. Anche se ho fatto una certa fatica a trattenermi, naturalmente. Ho fatto solo qualche riflessione.»
«E quali conclusioni hai tratto da queste riflessioni?»
Invece di rispondere immediatamente, Kurt Waldheim prese una bottiglia e due bicchieri e disse: «Il vino dovrebbe essere adesso alla temperatura giusta».
Poi, riempiendo i bicchieri, proseguì: «Continuo a chiedermi quali potrebbero essere i numeri aventi lo stesso significato per qualsiasi servizio informazioni, ovunque nell’universo».
«Pi-greco oppure «e»» (10), disse Isaac Newton bevendo un primo sorso di vino.
«Sì, ma due espressioni non particolarmente informative. Potresti scegliere anche la radice quadrata di due. Questi sono tutti numeri «matematici». Io pensavo ai numeri «fisici», ai valori invariabili esistenti nel mondo, alle costanti di equilibrio. Non avresti nulla in contrario se mi avventurassi in quel campo? Questo perché prevedo che tu stesso tenterai di seguire una strada differente.»
«Può darsi», sorrise Isaac Newton. «No, non ho nulla in contrario purché tu mi dia una copia di queste coppie (x,y).»
«Te ne ho preparata una copia», rispose Kurt Waldheim, prendendo un grosso fascio di stampati del computer e consegnandolo a Isaac Newton. «Credo che le signore stiano ritornando», soggiunse.
Quella sera, a letto, Frances Margaret osservò: «Ho visto i giornali della domenica prima del tuo arrivo, li fanno arrivare in aereo da Londra dalla sera alla mattina. Quello che scrivono è orribile e falso, almeno quasi tutto».
«Non potevi aspettarti altro.»
«Spero che non ritornerai a Cambridge.»
«Preferiresti che restassi qui?»
«Sì. Su dalle nostre parti c’è una specie di sotterranea malvagità. Finora tutto ciò forse non era evidente per te, ma io mi sono trovata alle prese con questo genere di cose durante tutta la carriera. E ancora adesso», disse Frances.
«Sarei d’accordo con te se si trattasse di una questione strettamente personale. Ma supponi per un attimo che questi segnali siano stati trasmessi veramente dalla cometa. Supponi che possiamo dimostrarlo, dimostrarlo senza ombra di dubbio, voglio dire così che tutti dovranno crederci. In tal caso non potremmo farne nulla se restassimo qui perché il CERN non può occuparsi della faccenda dei satelliti. Semplicemente non lo fa. Così noi non faremmo altro che consegnare una grande scoperta a quelli che sono in grado di approfittarne, la NASA in America, il Consiglio delle Ricerche in Gran Bretagna. Ben presto Clamperdown cambierebbe linguaggio, si gonfierebbe come un rospo… è questo che vuoi?»
«No, davvero. Stavo pensando piuttosto alla pubblicità.»
«Se riusciamo a dimostrare che i segnali provengono dalla cometa, questa pubblicità avrà l’effetto di un boomerang. Ma voglio fare un’altra domanda: Kurt mi ha parlato di questi numeri accoppiati (x,y). Che cosa succede se li esprimi sotto forma di grafico? Che specie di curva si ottiene?»
Frances Margaret rifletté un po’ e poi rispose: «Suppongo che dovrebbe essere una curva a forma di U».
Una settimana più tardi, Isaac Newton e Frances Haroldsen erano ritornati in Inghilterra, Frances da principio con una certa riluttanza. Poi, quando rimase affascinata dalla decifrazione dei segnali della cometa, si mise al lavoro di buzzo buono. Era al Cavendish Laboratory e stava aiutando Scrooge a caricare un micro-computer sulla Mercedes di Isaac Newton.
Quando l’apparecchio fu ben sistemato, Scrooge osservò: «Beh, non era troppo pesante. Adesso c’è da caricare solo un’altra cosa».
«Che cosa, Scrooge?»
«Uno scatolone pieno di carte. L’ho tenuto in magazzino per il professore. Vuol sapere una cosa, Frances Margaret?»
«Che cosa?»
«Persone di ogni genere sono venute a cercare quelle carte.»
«Chi, per esempio?»
Scrooge s’impettì in atteggiamento caratteristico e rispose con fare malizioso: «La polizia. Gente venuta da Londra. Ogni tipo di gente, come ho già detto. E per tutto questo tempo le carte si trovavano nel mio magazzino».
Scrooge, che trovava umoristica la situazione, proruppe in una rauca risatina e si allontanò per andare a prendere le cartelle con i dati che Isaac Newton e Frances Margaret avevano tolto dallo schedario di Mike Howarth nel cottage.
Nel frattempo, Isaac Newton si trovava a tu per tu con il rettore nell’alloggio di quest’ultimo, situato nell’angolo nordest della Great Square del Trinity College. Aveva descritto rapidamente e per sommi capi le scoperte di Kurt Waldheim perché riteneva giusto che oltre a lui e a Frances Margaret una terza persona a Cambridge fosse al corrente della situazione, ma il rettore non ne era rimasto eccessivamente colpito.
«I punti decimali sono stati sempre un fitto e sinistro mistero per me», ammise.
Poi, Isaac Newton gli fece vedere come le coppie di numeri (x,y) potevano essere espresse con un grafico.
«I grafici non mi sono mai piaciuti», brontolò il rettore che non riusciva ancora a entusiasmarsi.
Neppure una curva a U disegnata da Isaac Newton su un foglio di carta riuscì a destare l’attenzione del rettore.
«Non molto interessante», grugnì di nuovo.
Isaac Newton ridacchiò e tratteggiò rapidamente un mostro simile a un rospo accanto alla curva a forma di U.
«Immagino che sarebbe più interessato, rettore, se il grafico fosse venuto fuori così.»
«Francamente, sì.»
«Francamente, io no, perché allora sarebbe chiaro che qualcuno ci sta prendendo in giro. Ma questa specie di curva a forma di U potrebbe essere una cosa ben diversa, se dovesse saltar fuori che è la «giusta» forma a U.»
«Che cos’è una curva con la «giusta» forma a U?»
«Una curva collegata alla cometa, rettore.»
«Come può scoprirlo?»
«Mi bastano pochi giorni di calcoli. Per questo le ho telefonato per chiederle se poteva farmi avere un cottage.»
«Sono riuscito a ottenerlo da Howard Baker che possiede un cottage sulla costa del Norfolk, da qualche parte. Ricorda Howard, l’organista?»
«Naturalmente.»
«Il giovanotto dovrebbe essere già arrivato, ma ha l’abitudine di essere in ritardo», osservò il rettore, lanciando un’occhiata a un orologio d’argento, di quelli una volta usati nelle carrozze. «Non riesco però a capire a che cosa le serva un cottage fuori mano.»
«Ho bisogno di un posto dove possa lavorare tranquillo.»
«Perché, non potrebbe forse cacciare a pedate dal suo ufficio tutti quanti? Io lo faccio. Io li spedisco a chilometri di distanza quando devo mettermi a lavorare sul serio.»
Isaac Newton rifletté per un po’ prima di rispondere: «E’ per la faccenda delle spie, rettore».
Come se Isaac Newton avesse premuto un interruttore, il rettore tuonò: «Niente spie! Non riesco a sopportare l’idea delle spie!»
«Ho chiesto persino al Primo Ministro di far cessare lo spionaggio spicciolo. All’apparenza è cessato, ma solo all’apparenza.»
«Si spieghi.»
«Mi seguono dappertutto come quegli animali selvaggi cui si applica una piccola radiotrasmittente per sapere dove si trovano. Per questo devo rintanarmi in qualche posto tranquillo dove nessuno riesca a trovarmi.»
«Come la seguono quando va in giro?»
«La mia macchina trasmette segnali radio.»
«Ne è sicuro?»
«Sicurissimo. Hanno fissato al telaio della macchina una trasmittente. Un lavoro da professionisti. Chi ha fatto il lavoro ha avuto persino la sfacciataggine di alimentare l’apparecchio con la batteria della macchina. Funziona solo quando il motore è acceso, in maniera che la batteria non si scarichi.»
«Chi c’è dietro?»
«E’ impossibile dirlo. Fino a quando la gente continuerà a pensare che c’entrano i satelliti militari…»
«No! Non riesco a sopportarlo! Roba che si legge di solito solo nei romanzi. Ha tolto dalla macchina quella porcheria di trasmittente?»
Isaac Newton scosse la testa.
«Lo farò a tempo debito. Fino a quando non ha importanza dove vado, non ha importanza se qualcuno sa dove vado. Chiaro, no?»
L’orologio della torre di Edoardo Terzo stava battendo il mezzodì quando Howard Baker uscì dall’ormai famoso atrio della cappella sulla Great Square e si avviò all’alloggio del rettore.
Questi si alzò all’istante dall’ampia poltrona nella quale era adagiato.
«Ah, Howard, è arrivato! Quindici minuti di ritardo, come al solito.»
«Chiedo scusa, rettore, ma ho avuto noie con i miei pedali.»
«Pedali?»
«Sì, le armonie non sono a posto. Non lo sono più state da quando la polizia è venuta a frugare dappertutto. Spero solo che non sarà necessario smontare le grandi canne.»
«Oh, no, Dio mio! Verrebbe a costare un patrimonio. Beve un bicchiere di vino bianco ghiacciato?»
Il rettore si avvicinò a un tavolo sul quale c’erano tre bicchieri e una bottiglia di vino in un grande secchiello d’argento per il ghiaccio. Baker annuì con un’espressione di gioia negli occhi.
«Non mi dispiacerebbe. Grazie, rettore.»
Mentre versava il vino, il rettore disse: «Ha portato al professor Newton qui presente le indicazioni per trovare il suo cottage?»
In risposta, Howard Baker trasse da una tasca interna una carta stradale e un foglio di carta. «Effettivamente, è abbastanza difficile trovarlo, così ho messo per iscritto le istruzioni necessarie.»
«E’ molto gentile da parte sua prestarmelo», disse Isaac Newton prendendo la cartina e il foglio che Howard Baker gli stava porgendo.
«Sono contento di poter essere utile», fece Baker con quello che sembrava un sorriso, benché fosse difficile esserne certi a causa della barba. «Sono contento di avere qualcuno che badi al cottage. E’ completamente isolato sulla costa, capisce, non molto lontano da Blakeney. Ho trascorso lì vari weekend e non ho visto anima viva, al di fuori del postino. Lo sa, rettore, che ho scritto proprio lì una notevole parte del mio libro?»
«Sul canto gregoriano, se ben ricordo. Gradisce altro vino?» chiese il rettore.
«Grazie. Sì, sul canto gregoriano.»
Mentre il rettore riempiva i bicchieri, Howard Baker tirò fuori un piccolo binocolo che consegnò a Isaac Newton.
«Questo le potrà essere utile. Ci sono molti uccelli interessanti che raggiungono la costa del Norfolk in questa stagione, pivieri, tortolini, albastrelli rossi, oche e anatre selvatiche, tra gli altri. Troverà un libro sugli uccelli al cottage.»
Howard Baker vuotò d’un fiato il secondo bicchiere di vino e balzò in piedi, dicendo in tono energico: «Beh, rettore, devo andare. Spero che il posto le piacerà, Newton. Grazie per il vino».
Quando Howard Baker se ne fu andato, il rettore accennò alla carta topografica che l’organista aveva portato.
«E’ fatto così, il giovane Baker! Sempre in movimento. Non rimane mai fermo a lungo. E’ difficile capire come possa avere un cottage così fuori mano come quello.»
Isaac Newton si era alzato.
«Devo proprio andare.»
«Non tenterò di fermarla. Aspetto da un momento all’altro Whitherspoon. Vuol buttare per aria il giardino del College.»
«Per quale motivo?» chiese Isaac Newton, sbalordito.
«Sta cercando rovine romane.»
«Ma non può scavare dappertutto per trovare rovine romane.»
Il rettore annuì vigorosamente.
«Non può, ma gli piacerebbe farlo. E’ tipico di Whitherspoon.»
Quando il rettore si mosse per accompagnarlo, Isaac Newton gli strinse la mano.
«Non si disturbi a scendere, rettore. Conosco la strada.»
Isaac Newton scese la scala ed era sul punto di uscire sulla Great Square quando il professore di storia mangiatore di pane entrò.
«Buongiorno, Newton», disse Whitherspoon mentre i grandi baffoni bianchi da tricheco si spalancavano in un largo sorriso, come se qualche ricordo del recente passato lo divertisse ancora.
«Buongiorno, Whitherspoon», rispose Isaac Newton pensando che, sprovvisto com’era di un paio di baffoni da tricheco, non poteva tenere testa a quel tipo.
Lasciò il grande piazzale attraverso l’uscita nell’angolo nordovest. Un attimo più tardi, dopo aver svoltato a destra, raggiunse il Trinity Bridge dove Frances Haroldsen stava aspettando con la macchina. Isaac Newton s’infilò nel sedile anteriore riservato al passeggero.
«Non vuoi guidare?» chiese la ragazza.
«No. Ho bevuto vino bianco ghiacciato.»
«Disgustoso! A quest’ora del giorno!»
Frances Margaret superò il Trinity Bridge e proseguì sul viale fino alla Queen’s Road.
«Dove stiamo andando?»
«Meta ultima: la costa settentrionale del Norfolk.»
«Allora dobbiamo prendere la Ely Road.»
«Preferirei andarci passando per Norwich. Ti spiegherò poi.»
Una delle virtù di Frances Margaret era quella, rifletté Isaac Newton, di non pretendere immediatamente una spiegazione.
La ragazza disse semplicemente: «Scrooge ha messo lo scatolone con i dati di Mike Howarth nel portabagagli».
«Sarà meglio controllare per vedere se abbiamo tutto. Il computer?»
«C’è.»
«La stampante?»
«C’è.»
«Il nastro con i dati venuto dal CERN?»
«E’ nella tua cartella.»
«E la mia cartella?»
«E’ dietro, mi sono assicurata.»
«Abbiamo bisogno degli elementi orbitali della cometa di Boswell.»
«Ho la circolare dell’Unione Astronomica Internazionale con il più recente aggiornamento degli elementi.»
«Roba da mangiare?»
«Una riserva sufficiente, capo.»
«Da bere?»
«Dopo aver bevuto tutto quel vino bianco? Mi disgusti.»
Frances Haroldsen seguì la A 45 in direzione est fino al bivio della A 11, sei chilometri dopo Newmarket, proseguendo lungo l’A 11 attraverso il Breckland fino a Therford e Wymondham. Altri dodici chilometri, poi svoltò a sinistra nella deviazione di Norwich.
«Una volta superata l’università, fermati lungo la sponda erbosa», disse Isaac Newton.
Alla fine, Frances Margaret fermò la macchina sul ciglio abbastanza ampio e spense il motore.
«Adesso forse mi spiegherai il mistero, professore.»
In risposta, Isaac Newton scese dalla macchina e dopo aver rovistato nel vano portabagagli ne trasse una radioricevente portatile che consegnò a Frances Margaret.
«E’ regolata sulle onde ultracorte», disse. «Allontanati per una ventina di metri e poi accendila.»
Mentre Frances Haroldsen si allontanava, Isaac Newton scivolò nel sedile di guida e, quando vide la ragazza accendere la radio, accese il motore e poi la raggiunse, lasciando il motore in moto. Dall’altoparlante della radiolina provenivano segnali regolari a intervalli di tre secondi.
«Sono cominciati quando hai messo in moto», disse la ragazza. «Che cosa succede?»
«E’ una trasmittente applicata alla macchina», rispose Isaac Newton alzando lo sguardo verso il cielo. «Qualcuno ci sta seguendo, probabilmente in volo. Ho tenuto d’occhio la strada ma non ho notato alcuna vettura che ci seguisse.»
Frances Margaret tornò alla Mercedes e, piegata sulle ginocchia, guardò sotto il telaio.
«Dov’è?»
Isaac Newton si avvicinò, si inginocchiò a sua volta e indicò con il dito. «E’ fissata sul telaio ed è alimentata dalla batteria.»
«Attraverso l’antenna?»
«Sì», rispose Isaac Newton mentre entrambi si rialzavano.
«Perché non l’hai staccata prima di partire?»
«Perché l’A 11 è una strada ad andamento rettilineo. Sarebbe stato facile intercettarci e seguirci.»
«E adesso?»
Isaac Newton indicò la deviazione.
«Da questo punto partono molte strade, simili alle razze di una ruota, e tra qui e la costa esiste una fitta rete di strade più piccole.»
Bastarono pochi istanti per spezzare i fili che collegavano la trasmittente all’antenna della macchina, molto meno di quanto ci sarebbe voluto per trovare la trasmittente. Poi, Isaac Newton estrasse dalla tasca la cartina e il foglio con le istruzioni di Howard Baker, consegnando il tutto a Frances Margaret e dicendole: «Adesso guido io. Siamo diretti a un punto lì indicato nei pressi di Blakeney. Dovrai stare abbastanza attenta».
Seguendo le istruzioni di Frances Margaret, Isaac Newton superò un autentico labirinto di stradine fino a raggiungere una strada abbastanza larga. Dopo vari chilometri, Newton scorse un cartello indicante la strada per Blakeney e dopo alcuni chilometri ancora di strada venne quasi colto da shock.
«Ci sta seguendo una macchina della polizia», mormorò.
All’annuncio, Frances Margaret alzò gli occhi dalla cartina e si voltò per guardare attraverso il lunotto posteriore. Dopo un attimo disse: «Effettivamente è così».
«Ma non può avercela con noi. Non ho fatto nulla», continuò Isaac Newton, come per ribadire a viva voce i suoi diritti di cittadino.
«Ma in che mondo vivi, capo?» ribatté Frances Margaret. «Per principio, se hai una macchina della polizia dietro di te, quelli ce l’hanno sempre con te. Spero che il vino bianco del rettore sia scomparso a quest’ora dal tuo sangue.»
«Lo spero anch’io. Eppure continuo a non capire…»
Ciò che Isaac Newton avrebbe voluto dire venne interrotto dalla macchina della polizia che si affiancò con la luce blu lampeggiante sul tetto. Rassegnato, Isaac Newton accostò la macchina al ciglio della strada e aprì il finestrino. Un giovane agente si avvicinò e appoggiò la mano sul finestrino.
«Professor Newton?»
«Sì?»
«Abbiamo un messaggio della sua segretaria per lei, professore. Ha detto che era importante, e sembra esserlo. Abbiamo avuto parecchie difficoltà per rintracciarla.»
L’agente consegnò ad Isaac Newton un foglio di carta. Il professore lo lesse rapidamente, per dire poi con un sorriso: «La ringrazio tanto, agente. Mi dispiace che abbia avuto difficoltà a trovarmi».
Il poliziotto agitò la mano in segno di saluto mentre ritornava alla sua auto. Frances Margaret contenne la propria impazienza fino a quando la polizia non se ne fu andata. Alla fine chiese: «Di che cosa diavolo si tratta?»
«Un messaggio dall’ufficio del Primo Ministro. Siamo attesi per sabato ai Chequers.»
«Tra due giorni. Perché?»
«Non lo so. Per curiosità, immagino.»
«Curiosità per che cosa?»
«Per quello che sta succedendo.»
«Ma quelli non possono essere al corrente della storia dei segnali.»
«Proprio al corrente, no. Ma uno non diventa un personaggio politico di primo piano se non possiede un fiuto speciale per gli avvenimenti importanti. Sono al corrente del mio viaggio in Svizzera e forse persino della mia precipitosa partenza da Cambridge questo pomeriggio. Non occorre essere dei geni per fare certe congetture, se si è interessati a qualcosa, e secondo me, quelli sono interessati.»
«Questo potrebbe spiegare la trasmittente applicata alla tua macchina.»
«E perché la polizia ha dovuto sudare sette camicie per localizzarci, una volta staccato il filo», convenne Isaac Newton.
«E se tentassimo ora di seminarli per davvero?» disse Frances Margaret con espressione birichina.
«D’accordo», annuì Isaac Newton. «Ora so quando la trasmittente è stata montata sulla macchina.»
«Quando?»
«L’ultima volta che sono stato ai Chequers. Non è Shakespeare che ha detto…»
«… di non por fede nei principi», finì la frase Frances Margaret. «E d’ora in poi, credo, sarà meglio diffidare di tutti», concluse a mezza voce.
Il cottage di Howard Baker si trovava al termine di un vialetto. La piccola costruzione era nascosta al riparo di una duna tra tanti cespugli di ginestra, non lontano dal mare. Dopo aver scaricato dalla macchina le apparecchiature elettroniche, i viveri, le lenzuola e gli asciugamani e il resto dei bagagli, Frances Margaret e Isaac Newton superarono la duna sbucando sulla spiaggia ghiaiosa investita dalle onde.
«Purtroppo, le previsioni del tempo non sono buone», osservò la ragazza.
Poi ritornarono al cottage dove Isaac Newton accese il fuoco di legna mentre Frances Margaret si accingeva a preparare il pasto. Dopo che ebbero mangiato e lavato le stoviglie, si accosciarono vicino al fuoco.
«Adesso che fuori fa buio sembra un posto abbastanza isolato», osservò Frances Margaret mentre bloccava la porta con una robusta sbarra di legno.
«Sì, il giovane Baker — è l’organista del College — dice che si può restare qui settimane senza vedere anima viva all’infuori del postino», raccontò Isaac Newton.
«Gli credo. Il posto ha l’aria di essere di solito disabitato. Sarà meglio tenere alto il fuoco.»
Così, Isaac e Frances concentrarono per un po’ i loro sforzi sul fuoco che cominciò a sprigionare un intenso calore.
Seduta a godersi il caldo, Frances Margaret disse: «Ho registrato sul nastro le coppie di numeri, pronte a essere inserite nel computer. A proposito: ecco il grafico. E’ piuttosto preciso».
Isaac Newton sorrise mentre studiava la curva a forma di U che la ragazza gli passò.
«Il rettore non è rimasto molto impressionato quando gliene ho parlato. Gli sarebbe piaciuto di più se i numeri espressi graficamente avessero messo in evidenza un mostro dagli occhi sporgenti.»
«Kurt Waldheim pensa che debba trattarsi di un elemento assolutamente fondamentale. In questo momento è impegnato nelle proiezioni SO (10).»
Isaac Newton ridacchiò di nuovo e mise altra legna sul fuoco.
«Davvero? Francamente non penso che si tratti di una cosa del genere, tutt’altro.»
«Di che cosa si tratta, secondo te?»
«Di qualcosa di molto intelligente, ma anche molto semplice.»
«Come, per esempio?» chiese Frances Margaret.
«Kurt pensa a quel tipo di messaggio sublime sui valori immutabili del mondo che potremmo essere tentati di mandare a qualcuno all’altra estremità dell’universo, solo per dimostrare quali progressi intellettuali ha compiuto la razza umana. Ma qui siamo alle prese con una cometa che passa vicinissima alla Terra, non dall’altra parte dell’universo. Può darsi che la cometa abbia captato qualcuno dei nostri segnali radio, per cui conosce la nostra esistenza. In tal caso, penso, la cometa potrebbe semplicemente desiderare di presentarsi.»
«Presentarsi?»
«Sì, per annunciare la propria presenza. Come se volesse dire: ’Ehi, sono io. Mi chiamo Boswell’.»
«Se fossi in te, mi guarderei bene dal manifestare a qualcuno quest’idea.»
«E’ la frase che Boulton, il professore di geostrofica, usa sempre: se fossi in te. Non preoccuparti, Frances Margaret. Non ho la minima intenzione di propalare le mie opinioni ai quattro venti finché non sarò in possesso di prove concrete.»
«E come possiamo ottenerle?»
«Da principio pensavo che sarebbe stato impossibile ottenere prove concrete. Poi mi sono accorto che potrebbe essere possibile, e in seguito, che potrebbe essere facile. Però mi devi dire una cosa prima che proseguiamo con il ragionamento. La cometa di Boswell è stata mai vista prima? Voglio dire, era una cometa conosciuta come quella di Halley?»
«In un primo tempo mi sono confusa pensando a una cometa di Bowell, ma poi ho controllato e constatato che non sono la stessa cosa, anche se hanno nomi quasi uguali. No, sembra che la cometa di Boswell sia arrivata da poco. Ogni anno ci sono un paio di comete nuove in arrivo.»
«Così non esisteva alcuna possibilità che l’orbita della cometa di Boswell fosse già nota?»
«Assolutamente no. Ma perché dovrebbe essere importante tutto questo?»
«Perché esclude la remota possibilità che i segnali siano stati lanciati di proposito da un satellite costruito dall’uomo. Sarebbe stato impossibile quando nessuno poteva sapere come farlo. Per lo meno, se ho ragione è così che andrà a finire. Ho cominciato col chiedermi quali potessero essere le più probabili quantità che una cometa è in grado di misurare. Ogni essere vivente, persino un topo, deve avere nel proprio organismo un qualche orologio biologico. Così, una delle possibilità di misura sarebbe quella offerta dal tempo. Supponi che nelle tue coppie (x,y) x rappresenti il tempo misurato dalla cometa. Poi vediamo che cosa potrebbe significare y. La cometa non dovrebbe essere così poco sofisticata da non riuscire a misurare il flusso della luce del Sole sulla propria superficie. Poiché il flusso di luce solare è inversamente proporzionale al quadrato della distanza della cometa dal Sole, ciò equivarrebbe a una misurazione della distanza dal Sole. Immagina ora che una misurazione del genere sia rappresentata dal numero y. Poi, dato che una cometa si avvicina al passaggio del perielio e poi si allontana di nuovo dal Sole, y diminuirebbe fino a un minimo per poi riprendere la propria crescita. Così, se tu volessi rappresentare con un grafico le coppie (x,y)…»
«… avrei una curva a forma di U!» esclamò Frances Margaret.
«Finora tutto fila a meraviglia», annuì Isaac Newton. «Ma la curva a forma di U da noi tracciata è quella giusta? Ecco il grande problema. Vedi, ogni valore indicante l’ellitticità dell’orbita della cometa dà luogo a differenti valori invariabili lungo la curva, come direbbe Kurt Waldheim. Così resta da domandarsi se la curva delle tue coppie (x,y) offra valori invariabili che corrispondono alla nota ellitticità della cometa di Boswell.»
«Il che non dovrebbe essere troppo difficile da scoprire», disse Frances Haroldsen in un impeto di fiducia.
«Non troppo difficile, ma un tantino complicato. Dobbiamo tenere conto di tre fattori di disturbo. Non conosciamo il punto zero dell’orologio biologico della cometa, e così non conosciamo neppure le unità delle quali la cometa si serve per misurare la distanza e il tempo.»
«Possiamo regolare i nostri orologi uno sull’altro dal momento in cui la cometa passa in perielio», suggerì Frances Margaret immediatamente, «sottraendo da ogni x quella x particolare quando y è al minimo. Ma come fare a proposito delle unità?»
«Beh», proseguì Isaac Newton, «immagina di dividere ogni valore di y per il valore minimo di y. In tal caso l’unità sarà rappresentata dalle distanze espresse in termini della distanza dal perielio. Quando avremo fatto entrambe queste cose, chiama le risultanti coppie della cometa (X,Y). Poi proseguiamo nel calcolo delle coppie per conto nostro in questo modo: per ogni distanza eliocentrica da una coppia (X,Y) a quella successiva ci serviamo dell’orbita nota della cometa per determinare il cambiamento della longitudine eliocentrica. Poi ci serviamo della legge delle aree di Keplero per calcolare le corrispondenti fasi nel tempo che chiamiamo T. Così arriviamo mediante i calcoli a una sequenza di coppie (T,Y), dove i valori di Y sono identici a quelli espressi nelle coppie (X,Y) della cometa.»
«Inoltre sorge la domanda se i nostri valori T sono identici ai valori X della cometa», concluse Frances Margaret con un rapido sorriso per dire che aveva compreso.
«Identici, fatta eccezione per un fattore di scala, dovuto alle differenti unità dell’orologio. E se sono realmente identici, tutti gli scettici dell’universo non potranno negare che questi segnali vengono dalla cometa di Boswell. OK?» fece Isaac Newton.
«OK!» convenne Frances Margaret. «Ma perché non abbiamo sistemato questa faccenda a Ginevra? Sarebbe stato facile.»
«Un po’ non volevo che la notizia si risapesse e un po’ perché, quando hai una bottiglia di vino buono, non la bevi tutta d’un fiato. Inoltre continuo ad avere una strana sensazione.»
«Quale?»
«C’è qualcosa di estremamente curioso che non abbiamo ancora visto.»
L’indomani mattina Frances Haroldsen e Isaac Newton stavano terminando di lavare i piatti della prima colazione e un forte vento martellava la porta del cottage.
«Beh», esclamò Frances Haroldsen quando ebbero finito, «oggi abbiamo parecchio da fare. Perciò, al lavoro! Mi domando solo se dobbiamo uscire prima di metterci all’opera? La radio annuncia un’autentica tempesta per il pomeriggio e la serata.»
«Possiamo lavorare durante la tempesta. Non ci farà male una passeggiatina di mezz’ora sulla spiaggia, per schiarirci le idee», decise Isaac Newton.
S’imbacuccarono ben bene e, superata la duna tra il cottage e il mare, s’inoltrarono controvento fino a pochi metri dalla battigia. Ovunque lungo la spiaggia le ondate si susseguivano infrangendosi con un improvviso schianto, e ogni schianto era seguito dal rumore insolitamente inquietante dei ciottoli smossi. Proseguirono per quasi un chilometro e mezzo prima di ritornare verso il cottage. C’erano pochi uccelli in giro e quei pochi sembravano avere molta fretta di raggiungere un rifugio. La pioggerella fine si trasformò in pioggia vera.
Una figura scura era apparsa tra loro e il cottage.
Guardando in direzione della figura, Frances Margaret puntò il dito e disse: «Mi viene in mente quel personaggio con il piede caprino nel «Peer Gynt» di Ibsen».
«In tal caso bisogna dargli un’occhiata», grugnì Isaac Newton.
Quando si avvicinarono alla figura videro che era un uomo con in testa un colbacco di astrakan. L’osservazione di Frances Margaret a proposito del piede caprino indusse Isaac Newton a dare un’occhiata alle estremità dello sconosciuto. Questi, strano a dirsi, portava scarpe eleganti e indossava un abito da città semicoperto da un sottile impermeabile di plastica. Dall’angolo della bocca gli pendeva una sigaretta fumata a metà, bagnata dalla pioggia.
«Avete visto il peschereccio affondato?» chiese l’uomo guardando il mare mentre il professore e la ragazza si avvicinavano.
«Francamente, no», rispose Frances Margaret.
«Abbiamo avuto una segnalazione che è affondato con tutto l’equipaggio.»
««Chi» ha avuto una segnalazione?» s’impose di chiedere Isaac Newton. In risposta, l’uomo affondò la mano nella giacca attraverso lo scollo dell’impermeabile, facendo pensare a Isaac Newton che stesse per estrarre una pistola tenuta sotto l’ascella. Ma la mano emerse con un cartoncino bianco lungo circa cinque centimetri e largo due e mezzo, un biglietto da visita.
«Sono Tommy Taylor dell’«Observer». Sono stato mandato a indagare a proposito di questo peschereccio. Telefonatemi se doveste vederlo o sentirne parlare. Tutti conoscono Tom Taylor dell’«Observer».»
Poi, il tipo si allontanò lungo la spiaggia, sempre con lo sguardo rivolto al mare.
«Piede caprino!» gridò Isaac Newton mentre lui e Frances Margaret si toglievano gli abiti fradici per indossare dei capi di grossa lana. La ragazza si contorceva dalle risate.
«Penso che le scarpe fossero di Gucci!» riuscì a dire tra uno scoppio di risa e l’altro.
«Effettivamente sarebbe proprio la giornata adatta per contrabbandare un po’ di droga, a ripensarci. E in tal caso ci vorrebbe un peschereccio.»
«Che sia uno dei servizi segreti?»
«Se lo è, l’ufficio per il quale lavora merita di avere successo.»
Dopo questa divertente osservazione di Isaac Newton, badarono a bloccare la porta del cottage con la sbarra di legno, col pretesto di tenere a bada la tempesta.
Un’ora più tardi erano immersi nel problema della curva a U.
«Adesso ho tutte le equazioni», disse finalmente Isaac Newton.
«Perché allora non ti metti a preparare la colazione mentre io comincio a programmare?» propose Frances Margaret, soggiungendo: «Mi è venuta fame dopo tutto quel vento sulla spiaggia, e per colpa del peschereccio affondato, naturalmente».
Isaac Newton finì di lavare i piatti dopo il pasto. Poi aggiunse altra legna al fuoco.
«Incomincio a capire perché il lavoro della donna non finisce mai. Come vanno le cose?»
«Niente male», rispose Frances Margaret, seduta davanti al computer. «Sono quasi pronta a cominciare.»
Ci volle qualcosa come dieci minuti perché il computer si mettesse a calcolare sul serio. La stampante era attivata. Dapprima uscì una tabella di numeri. Poi venne fuori una curva a forma di U.
«Beh, per lo meno siamo riusciti a ottenere una curva a U», osservò Frances Margaret. «Ma d’altra parte il risultato era scontato supponendo che le tue equazioni fossero giuste e supponendo anche che il mio programma fosse giusto.»
«Che ne diresti di occuparti un po’ della cucina, tanto per cambiare, mentre io controllo a mano un paio di questi numeri?»
«Metti in dubbio il mio programma, professore?»
«Metto in dubbio i programmi di chiunque. Che ne diresti di fare un caffè?»
Isaac Newton, seduto accanto al fuoco, si mise a esaminare i fogli usciti dalla stampante e a far calcoli con l’aiuto di una piccola calcolatrice a mano. La tempesta sembrava aumentare di violenza, e quando Frances Margaret portò la cuccuma del caffè accanto al caminetto, qualcuno bussò con forza alla porta del cottage.
Isaac Newton balzò immediatamente in piedi, domandando con finta calma: «Chi potrà essere?»
«Non avevi detto che qui nessuno si faceva vivo per settimane?» chiese Frances Margaret mentre Isaac Newton cominciava a togliere la sbarra dalla porta.
«All’infuori del postino.»
«Forse è il postino.»
«O forse non lo è.»
Isaac Newton aprì la porta e si trovò davanti, fermo sulla soglia, un uomo robusto dai capelli grigi, sulla cinquantina, che indossava una giacca imbottita di colore chiaro e aveva in testa un berretto di maglia blu col pompon. Dal collo gli pendeva un binocolo, infilato in parte sotto la giacca. Lo sconosciuto entrò nel cottage con passo deciso, come se ne fosse il proprietario.
«Oh, pensavo che Howard Baker fosse qui. Ho visto il fumo alzarsi dal camino. Noi due andiamo spesso a osservare insieme gli uccelli.»
Isaac Newton si affrettò a sbarrare la porta, quasi per istinto, e poi ritenne che una spiegazione fosse necessaria: «Questo vento potrebbe portarsi via persino il cottage». Quindi proseguì: «Howard Baker ci ha ceduto la casa per pochi giorni. Sono un suo collega di Cambridge».
«Non avevo l’intenzione di disturbare», fece l’uomo, come per scusarsi, mentre estraeva il binocolo dalla giacca.
«Non si preoccupi», intervenne Frances Margaret. «Gradisce una tazza di caffè?»
«Beh, le sarò molto grato. Il vento è un po’ prepotente. Vedo che vi occupate di computer», soggiunse l’ospite, accennando con la testa al materiale che copriva il tavolo del cottage.
«Sì, in realtà. Più che di uccelli», convenne Isaac Newton.
«Dev’essere molto interessante. Se si conosce la materia. Per quanto tempo vi fermate?»
«Fino all’inizio della prossima settimana, se non mi richiamano a Cambridge. Quando avremo finito il lavoro che stiamo facendo, potremo dedicare un po’ di tempo agli uccelli. Baker mi ha detto di fare la posta a un paio di specie molto rare che vengono qui in questa stagione. Specialmente lo smergo rosso.»
Aggiustandosi il berretto di lana, l’uomo dai capelli grigi finì il caffè con un ultimo rapido sorso.
«Per vedere gli smerghi lei deve allontanarsi per un paio di chilometri dalla costa verso i canali interni di acqua dolce. Mi farà piacere indicarvi il punto. Vi andrebbe bene più avanti, durante la settimana? Beh, grazie per il caffè. Sarà meglio che vada. E’ probabile che la tempesta, prima di calmarsi, peggiori.»
Non appena l’uomo dai capelli grigi se ne fu andato, Isaac Newton sbarrò di nuovo la porta. Poi si mise a chiudere le imposte delle finestre, dicendo: «Quel tizio aveva ragione. E’ probabile che la tempesta, prima di calmarsi, peggiori. Howard Baker ha detto che c’era qui un libro sugli uccelli. Pensi di poterlo trovare?»
Nel tempo impiegato da Isaac Newton per chiudere le imposte, Frances Margaret era riuscita a scovare il libro sugli uccelli.
«Questi libri», disse la ragazza indicando una piccola libreria, «sono pieni di muffa. Vediamo un po’ l’indice.» Poi, scorrendo con il dito le voci di una pagina dell’indice, proseguì: «Smergo bianco o pesciaiola, smergo maggiore, smergo minore o segatore; ma niente smergo rosso. E tu avevi detto smergo rosso, vero?»
«Proprio così. Ricordavo che Baker mi aveva detto di cercare l’albastrello rosso, così ho cambiato un po’ le denominazioni.»
«Il che significa che il tizio era un imbroglione. Il che significa che cosa, capo? Che siamo intrappolati in un cottage con la porta sbarrata e le finestre bloccate dalle imposte. Ma comunque in trappola.»
«Al termine di uno stretto viottolo da dove non possiamo andare in nessun posto se non al mare», ammise Isaac Newton. «E quel nostro amico che stava…»
«… cercando il peschereccio affondato. Hai detto che il suo ufficio meritava di avere successo, non è così?»
«E’ stato un errore, lo ammetto.»
«E il cottage in capo al mondo non ha telefono, naturalmente.»
«E’ proprio qui che hai torto, mia cara Frances Margaret.»
Isaac Newton rovistò in una delle scatole che Scrooge aveva caricato sulla macchina e finalmente tirò fuori un aggeggio elettronico.
«Una trasmittente. Possiamo chiamare la polizia quando vogliamo. Ed è a batteria. Così, anche se ci tagliano la corrente…»
Frances Margaret non attese la fine della frase, ma circondò di slancio con le braccia il collo di Isaac Newton. Dopo averlo baciato si ritrasse di un passo e lo guardò con il suo tipico sorriso birichino dicendo: «Ma guarda un po’ come siamo intelligenti!»
«E’ sorprendente, no?» rispose Isaac Newton con un largo sorriso. «Ecco, vedi, quando abbiamo staccato la trasmittente montata sulla macchina, mi sono reso conto che potevamo perdere il collegamento con i nostri amici. Per cui ho pensato che ci volesse qualcosa per scongiurare questo pericolo.»
«Se quelli che ci stavano seguendo erano tuoi amici, perché hai staccato l’apparecchio?»
«Perché non mi piace che qualcuno mi segua. Neppure i miei amici.»
«E adesso, che cosa facciamo?»
«Nessuno si muoverà finché dura la tempesta. Per cui ritorniamo a fare ciò che facevamo prima.»
La tempesta stava effettivamente infuriando con estrema violenza. Un autentico uragano investì il cottage facendo traballare le imposte attraverso le quali la pioggia giunse a sferzare i vetri.
«Allora, che cosa avevi trovato prima dell’interruzione?» chiese Frances Margaret.
«Beh, i calcoli da noi fatti sembrano giusti. Così cominceremo a confrontare la nostra curva a U con quella proveniente dalla cometa.» Isaac Newton porse vari fogli alla ragazza, soggiungendo: «Ho tracciato un programma schematico per estrapolare le unità e procedere alle rettifiche della scala».
Due ore più tardi, Frances Margaret, sempre ferma davanti al computer, lanciò un’occhiata maliziosa in direzione di Isaac Newton che aveva appena finito di accatastare ceppi di legna sul fuoco. La ragazza arricciò il naso e disse: «Se Dio vuole, questo è l’ultimo inghippo nel tuo programma, capo. Proviamo».
Frances Margaret premette il pulsante di accensione del computer e rimase a guardare per un po’. Poi, con aria soddisfatta — visto che il computer continuava a funzionare — la ragazza si allontanò dal tavolo e arrotolò le maniche del pullover.
«Almeno funziona stavolta. Adesso non dovrebbe metterci molto.»
La stampante cominciò a operare. Isaac e Frances stettero a guardare i numeri che uscivano. La ragazza si trovava in una posizione migliore per confrontare le coppie (T,Y) elaborate da loro con le coppie (X,Y) trasmesse dalla cometa.
«Dio mio, sono identici! I nostri numeri e i numeri della cometa. Fino a questo momento, non ne ero del tutto convinta. Ma sono «esattamente» identici», bisbigliò Frances Margaret. Quando la stampante ebbe finito di vomitare numeri, lei staccò parecchi fogli che porse a Isaac Newton.
Isaac Newton allungò la mano per prendere i fogli, ma chi si trovava davanti a lui e gli stava consegnando i fogli non era Frances Margaret. Era qualcosa di molto alto che brillava con un colore arancione acceso e che aveva una faccia grottesca come la maschera tragica greca. Quasi immediatamente l’immagine svanì e Isaac Newton poté vedere di nuovo Frances Margaret, non senza aver prima avvertito una fitta di calore lancinante. Il volto di Frances Margaret era contorto in una smorfia di terrore.
«L’ho vista «di nuovo». Eri tu», gridò la ragazza.
All’improvvisa vampata di calore seguì una sensazione di freddo gelido. Entrambi tremavano violentemente mentre raggiungevano la camera da letto al piano di sopra. Dopo essersi liberati delle scarpe, si coprirono con le coperte, aggrappati l’uno all’altra mentre la tempesta si scatenava in una furia senza precedenti. Torrenti di pioggia colpivano le finestre e il tetto del cottage come se le creste delle onde del mare stessero piombando loro addosso.
Un’ora prima, l’uomo dai capelli grigi con la giacca imbottita chiara e il berretto di lana con il pompon aveva raggiunto in macchina il vicino villaggio di Blakeney e aveva parcheggiato accanto a una cabina telefonica alla periferia del paese. Un osservatore occasionale avrebbe visto l’uomo con il berretto di maglia col pompon andare — una figura confusa a causa della scarsa illuminazione stradale — dalla macchina alla cabina telefonica. Un osservatore occasionale non avrebbe invece notato l’espressione soddisfatta dell’uomo mentre componeva il numero. Ma sempre l’osservatore in questione, ammesso che ci fosse stato nella strada deserta del villaggio, non avrebbe potuto fare a meno di vedere un’intensa macchia luminosa circondare improvvisamente l’uomo, la cabina telefonica e tutto il resto, fino a divenire una gigantesca apparizione di colore arancione.
Effettivamente c’erano «due» osservatori, ma non nella strada del villaggio bensì a meno di mezzo chilometro di distanza, seduti in un’auto della polizia. Uno dei due agenti era lo stesso poliziotto che il giorno prima aveva fermato la macchina di Isaac Newton.
«Chissà che cos’era quella roba?» chiese, rivolto al collega.
«Sarà meglio che andiamo a dare un’occhiata», rispose questi senza scomporsi.
La macchina della polizia attraversò lentamente il villaggio raggiungendo la periferia. Dopo aver superato la cabina telefonica, di nuovo immersa nella penombra a causa della scarsa illuminazione stradale, il primo agente borbottò: «Là c’è qualcosa di strano. Nella cabina telefonica».
«Allora faremo bene a tornare indietro e dare un’occhiata», suggerì il collega, sempre senza scomporsi.
I due si avvicinarono insieme alla cabina. All’interno si distingueva una sagoma oscura piegata in un’angolazione anormale. Uno degli agenti aprì la porta della cabina e lo scossone che ne derivò fece compiere uno sconcertante mezzo giro alla figura che si trovava all’interno. Il berretto di lana con il pompon, intatto, era posato su ciò che una volta era stata una testa; la giacca era anch’essa intatta, ma ciò che una volta era stato il volto dell’uomo dai capelli grigi con il binocolo era adesso privo di qualsiasi tratto umano. Aveva un colore marrone scuro ed era bruciacchiato come un giornale tenuto troppo vicino al fuoco.
Una calma inquietante regnava l’indomani mattina quando Isaac Newton e Frances Margaret si alzarono dal letto verso le sette. Durante la notte avevano montato a turno la guardia con la ricetrasmittente a pile sempre accesa e sintonizzata sulla lunghezza d’onda della polizia, ascoltando istruzioni e risposte tra i vari centri e le macchine delle pattuglie sparpagliate in tutta la regione fino a Norwich. L’idea che bastasse un attimo per inserirsi in questa rete con un S.O.S. lanciato dal cottage li aveva confortati.
Dopo aver fatto rapidamente i bagagli, Isaac Newton si mise ad aprire con cautela le imposte delle finestre al primo piano una dopo l’altra. Non appena si convinse che nessuno era in agguato nelle immediate vicinanze del cottage, tolse la sbarra dalla porta e uscì all’aperto. Sapendo che Frances Margaret avrebbe immediatamente rimesso a posto la sbarra sulla porta dietro di lui in maniera da poter fare indisturbata, in caso di necessità, una trasmissione radio, Isaac Newton si rese finalmente conto del sinistro silenzio della mattinata. Tutto era ancora coperto di acqua. Quando provò ad assaggiarne qualche goccia, la trovò salata. Così, la tempesta della notte aveva effettivamente strappato le creste alle onde a qualche centinaio di metri di distanza.
La Mercedes sembrava essere stata parcheggiata sotto una cascata. Benché non si vedesse nessuno nel tratto di circa cinquanta metri di terreno scoperto che separava il cottage dai fitti cespugli di ginestra, mezzo esercito poteva esservi nascosto dietro. Ma il punto critico era la Mercedes: poteva essere stata sabotata o peggio. Isaac Newton guardò prima sotto il telaio. Poi, dopo aver fatto scattare il gancio di sicurezza del cofano, esaminò il motore, specialmente i cavi elettrici. Finalmente convinto che tutto era a posto, chiuse con un tonfo il portello del cofano, prese posto sul sedile di guida, inserì la chiavetta della messa in moto e la girò. Il motore partì subito, il che gli parve quasi strano dopo tanta tensione. Guidò la macchina accanto alla porta del cottage e tenne per qualche secondo la mano posata sul clacson.
Frances Margaret uscì con uno scatolone nel quale erano stati raccolti le più importanti schede con i dati, la documentazione e i fogli stampati dal computer e salì con un balzo sulla vettura, sistemandosi accanto ad Isaac Newton. Mentre questi si allontanava subito con una brusca accelerata, la ragazza disse: «Ce la siamo cavata in un attimo. Il resto dell’attrezzatura potremo venirla a prendere in seguito».
Lo stretto viottolo di accesso al cottage si snodava tra i cespugli di ginestra, procurando qualche altro momento di ansia ad Isaac Newton. Finalmente, il viottolo sfociò in una stretta strada a fondo artificiale che dopo un po’ sboccava in una strada più grande.
«Sembra che i nostri amici di ieri siano scomparsi. Mi domando perché», si chiese Isaac Newton con aria sorpresa.
Frances Margaret non ebbe modo di rispondergli perché, mentre entravano nel villaggio di Blakeney, trovarono la strada sbarrata da una macchina della polizia. Accanto alla macchina si trovava un agente, lo stesso che li aveva fermati due giorni prima. Isaac Newton agitò la mano in segno di saluto e l’agente rispose indicando con un gesto della mano che la Mercedes doveva fermarsi. Poi si avvicinò e posò il braccio sul finestrino aperto dalla parte di Isaac Newton, esattamente come aveva fatto la volta precedente.
«Spero che non le dispiaccia se l’ho fermata, professor Newton?»
«Lo dice a tutti? Un nuovo sistema di relazioni pubbliche?» chiese di rimando Isaac Newton.
L’agente non si accorse del leggero sfottò, o finse di non accorgersene, e proseguì: «E’ solo perché lei è uno scienziato».
Al primo agente si aggiunse subito lo stesso collega disinvolto della sera precedente, il quale entrò subito in conversazione.
«Abbiamo trovato un uomo colpito da un fulmine, professore.»
«Una brutta disgrazia», rispose Isaac Newton.
«E per di più un incidente decisamente strano», soggiunse il secondo agente.
«Perché strano?»
«Si trovava nella cabina telefonica quando è stato colpito», intervenne il primo agente.
«Ma nient’altro è stato toccato dal fulmine», soggiunse il secondo. «Il resto della cabina è rimasto intatto. Non doveva essere passato attraverso le pareti, il fulmine? Come succede con la gente in macchina?»
«O in un aereo», incalzò il primo agente.
Isaac Newton rifletté per un po’, rispondendo poi: «Se il fulmine avesse colpito la cabina, sarebbe dovuto passare attraverso le pareti metalliche. Ma se fosse arrivato tramite uno dei cavi telefonici?»
«Non avrebbe fuso il cavo?» obiettò il secondo agente.
«Un colpo in pieno avrebbe sicuramente fuso il filo, questo sì. Tuttavia immagino che la sola corrente indotta basterebbe per folgorare un uomo.»
«Mi dispiace parlare di queste cose in presenza della signorina», continuò il primo agente, affrontando finalmente la vera fonte della sua preoccupazione, «ma vede, professor Newton, non era il solito effetto che si riscontra quando una persona viene fulminata dalla corrente elettrica in casa. Il tizio è rimasto incenerito. Ma nient’altro è stato danneggiato. Neppure i suoi vestiti.»
«Persino il berretto che aveva in testa era OK», osservò il secondo agente con aria sbalordita.
«Che genere di berretto?» chiese immediatamente Frances Margaret, chinandosi verso Isaac Newton per guardare più da vicino i due agenti.
«Un berretto di lana.»
«Blu», annuì il primo agente, «con un grande pompon in cima.»
«Beh, ora sappiamo come stanno le cose, non ti pare?» osservò Frances Margaret dopo che, lasciati i poliziotti, ebbero percorso un paio di chilometri sulla strada.
«Che cosa sappiamo, Frances Margaret?»
«Perché non si è fatto vedere.»
«Un colpo di fulmine?»
«C’è da restare realmente perplessi, non è vero?» disse la ragazza in tono sommesso. «Il guaio è che non posso esprimerlo a parole. Non in maniera tale che abbia senso.»
«Anche a me capita di riflettere su certe cose. Certe riesco a tradurle in parole, altre no.»
«Che cosa riesci a tradurre in parole?»
«Beh, mi domando come Howard Baker sia riuscito a scrivere una buona parte del suo libro sul canto gregoriano in quel cottage.»
Dopo aver riflettuto sull’enigmatica osservazione senza riuscire a capirla, Frances Margaret resistette alla tentazione di chiedere una spiegazione e domandò semplicemente: «Dove dobbiamo andare?»
«A Princes Risborough.»
Dopo aver consultato la carta stradale per un po’, Frances Margaret disse finalmente con ritrovata fermezza nella voce: «Vuoi sapere una cosa? Se ti venisse in mente di concepire un sistema stradale con l’intenzione di rendere difficile l’accesso a Princes Risborough, non potresti immaginare di peggio. Questo è il motivo, immagino, per cui i Primi Ministri abitano lì».
«Sembra che abbiate compiuto sorprendenti ed entusiasmanti progressi da quando ci siamo visti l’ultima volta», disse il Primo Ministro quando Isaac Newton e Frances Haroldsen ebbero concluso un breve resoconto delle scoperte appena fatte. «Ho notato che c’era un articolo su voi due nell’«Observer». Tutto ingarbugliato, come al solito», soggiunse.
Con la sola differenza che ora Frances Margaret stava prendendo appunti, il luogo e le persone erano gli stessi della volta precedente: la biblioteca con il bar d’angolo nella residenza di campagna del Primo Ministro.
«Mi domando con sgomento che cosa ci aspetta ancora», intervenne il Cancelliere dello Scacchiere. «La cosa deve avere un seguito, immagino. Nella scienza sembra esserci sempre un seguito.»
«Quando il seguito manca, vuol dire che tutto rimane atrofizzato», annuì Isaac Newton.
«Che cosa propone di fare allora?» chiese il Primo Ministro.
«Dobbiamo rispondere alla trasmissione. Usando la stessa lunghezza d’onda, con lo stesso sistema di pulsazioni e con un messaggio simile. Coppie di numeri in cifra, indicanti il tempo e la distanza aggiornata della cometa dal Sole — con le nostre «misure».»
«Il che sarebbe la prova palese che abbiamo ricevuto e capito i segnali lanciati dalla cometa», annuì il Cancelliere. «Quali sono gli intoppi, se posso chiederlo?»
«Che la cometa di Boswell continua ad allontanarsi. Può darsi che la distanza sia diventata ormai eccessiva quando saremo riusciti a mettere un satellite in posizione per effettuare la trasmissione. In tal caso dovremmo dirigere la trasmissione verso la cometa di Halley che ora si sta avvicinando a noi.»
«La cometa di Halley andrebbe molto meglio dal punto di vista delle pubbliche relazioni», disse il Primo Ministro con entusiasmo. «Anzi: la cometa di Halley avrebbe una formidabile influenza dal punto di vista delle pubbliche relazioni. Non che queste debbano essere naturalmente la nostra preoccupazione principale, immagino.»
«Ma lo è», disse il Cancelliere, «lo è sempre. E lei spererebbe in una risposta?» chiese ad Isaac Newton.
«Sì, ma dobbiamo procedere come in una partita a scacchi, una mossa dopo l’altra. Se supponiamo che i primi segnali abbiano uno scopo preciso, possiamo aspettarci una risposta. Quando vedremo di che cosa si tratta…»
«… faremo a nostra volta un’altra mossa», annuì il Cancelliere.
«Sai, Godfrey, se riusciamo a provocare una reazione della cometa di Halley…» cominciò il Primo Ministro.
«Ti vedi già circondato da un alone di gloria?» chiese ridendo il Cancelliere.
«Qualcosa del genere», ammise il Primo Ministro.
«Sempre che facciamo in tempo a mettere in orbita un satellite. Ecco il problema logistico», interloquì Isaac Newton.
«In fondo, tutto il programma dei satelliti inglesi rientra nella competenza del CERC. E’ anche questo un problema?»
«Se questa iniziativa dovesse essere posta alle dipendenze del CERC, Primo Ministro, si trasformerebbe in un problema insolubile.»
«A prescindere dal fatto che lei, a quanto pare, non riesce ad andare d’accordo con il Consiglio delle Ricerche, può indicarmi qualche altro motivo?»
«Il CERC ha detto chiaro e tondo che il Consiglio non crede in segnali provenienti da comete.»
«Dopo gli ultimi risultati ottenuti da lei, sarebbe certamente costretto a crederci.»
«Con riluttanza, forse. Tuttavia non ritengo che il Consiglio delle Ricerche, costretto a cedere suo malgrado, si darebbe molto da fare. Inoltre, dato il poco tempo disponibile, avrebbe la scusa per mandare a monte tutto. Inoltre, non molto tempo fa lei mi ha chiesto di ritornare da Ginevra per una questione di principio — ricorda, no? — per aiutare le università. Ma se tutte le volte che un’università fa una scoperta, il governo poi gliela porta via, il principio si svuota un tantino, non le pare? Questo progetto è cominciato con Cambridge e dovrebbe restare affidato a Cambridge.»
«Quanto costerà? Dieci milioni, o di più?»
«Penso di sì. Tuttavia dovremmo informarci bene in partenza sui prezzi prima di essere in grado di fare un preventivo attendibile.»
«Senti, Godfrey, come si potrebbero mettere a disposizione di Cambridge dieci milioni?»
«Un finanziamento specifico per la ricerca può essere predisposto in linea di principio tramite il comitato per i finanziamenti alle università», rispose il Cancelliere. «Ma un finanziamento di queste dimensioni provocherebbe un mucchio di discussioni per cui dubito che si riuscirebbe a portare la cosa a termine in tempo.»
«Non sarebbe possibile», convenne Isaac Newton. «L’Università di Cambridge perderebbe mesi per discutere le clausole anche meno importanti prima ancora di accettare un finanziamento di quelle dimensioni. L’esperienza m’insegna che sarebbe sbagliato servirsi di un organo come il comitato per i finanziamenti alle università che deve occuparsi di compiti ben più ampi di questo progetto particolare. Noi abbiamo bisogno di un’organizzazione collegata direttamente con il progetto, e con nient’altro.»
«Secondo me non esiste il mezzo», disse il Cancelliere con riluttanza, «che consenta alla Tesoreria di concedere un finanziamento direttamente al Cavendish Laboratory. I soldi devono passare dalla Tesoreria a un funzionario amministrativo accreditato dal governo. Il comitato per i finanziamenti alle università ha la qualifica di funzionario amministrativo accreditato, mentre le singole università non ce l’hanno, e tanto meno i singoli istituti nell’ambito di un’università.»
«E’ questo il motivo per cui abbiamo il sistema dei consigli di ricerca, con i consigli in funzione di organi amministrativi», spiegò il Primo Ministro.
Frances Haroldsen sollevò improvvisamente lo sguardo dagli appunti. «Posso fare una domanda? Chi era l’organo amministrativo, responsabile dei soldi che mantenevano in vita il «think-tank» (11) del Primo Ministro? Voglio dire, nei giorni in cui esisteva quest’organo…»
«La Tesoreria mise a disposizione del Primo Ministro un piccolo fondo.»
«Perché la Tesoreria non può mettere a disposizione dell’ufficio del Primo Ministro un fondo più consistente?»
«Darebbe troppo nell’occhio», rispose ancora il Cancelliere.
«Il progetto in esame darà effettivamente molto nell’occhio, comunque lo si realizzi. Se verrà realizzato. E in tal caso, il fatto che darà un tantino più nell’occhio non importerà gran che. E’ preferibile conseguire un successo che dà nell’occhio mediante l’intervento dell’ufficio del Primo Ministro anziché trovarsi alle prese con un’iniziativa fallita del Consiglio delle Ricerche», concluse Frances Margaret Haroldsen con voce ferma.
«Mentre prendiamo in esame questa faccenda, sarà bene che mi diciate che cosa volete bere», disse il Primo Ministro, dirigendosi dal tavolo verso il bar. «Godfrey?»
«Gin and tonic, per favore.»
«Professor Newton?»
«Sherry secco, per favore.»
«La signorina segretaria?»
«Un bicchierone di succo di pomodoro con salsa Worcester, per favore. Ma lasci che me ne occupi io, Primo Ministro.»
Quando ripresero a parlare, Isaac Newton bevve un sorso di sherry e cominciò: «Vorrei sviluppare un tantino quell’idea. Immaginiamo che l’ufficio del Primo Ministro nomini un comitato direttivo, una specie di consiglio d’amministrazione del progetto, con tre consiglieri forniti da voi e tre dall’ambiente scientifico. Il comitato affida al Cavendish Laboratory il compito di coordinare il progetto».
«E con i contratti, come la mettiamo? Voglio dire, come dovranno essere concepiti?» chiese immediatamente il Cancelliere.
«Il laboratorio presenterebbe raccomandazioni di natura tecnica al comitato, ma la responsabilità di stipulare i contratti toccherebbe al comitato stesso.»
«E il laboratorio, come dovrà essere finanziato?»
«In base al sistema ’rimborso costi più addizionale’.»
«Controllati dal comitato?»
«Sì, naturalmente.»
«E come dovrà essere nominato questo comitato?» chiese il Primo Ministro, ormai interessato.
«Proviamo a immaginarlo a titolo sperimentale», rispose Isaac Newton. «Nominiamo un comitato provvisorio in attesa della consacrazione ufficiale. La presidenza tocca naturalmente al Primo Ministro. Questi nomina ovviamente un altro membro del comitato, e altrettanto fa il Cancelliere dello Scacchiere. Ora, poiché il Cancelliere non nominerebbe mai se stesso, il Primo Ministro nomina il Cancelliere, e il Cancelliere nomina un funzionario della Tesoreria, un funzionario che ha il compito di gestire l’amministrazione del comitato, in perfetto ordine, fino ai minimi particolari.»
«Grazie per aver preso tutte queste decisioni, professor Newton. Quando avrà scelto anche i membri della parte scientifica, potrà dire di aver in tasca tutt’e sei i membri del comitato. Chi, a parte lei, dovrà rappresentare la scienza?» chiese il Primo Ministro.
«Qualcuno con il quale ho lavorato per molti anni al CERN. E’ tedesco, ma non vedo che importanza dovrebbe avere, tanto più che, se vorremo avere a disposizione un satellite nel tempo che ci rimane, dovremo probabilmente collaborare con altre nazioni europee, magari con gli stessi tedeschi. Come sesto membro sceglierei qualcuno in rappresentanza dell’Università. Il rettore del mio College deve diventare, ritengo, Vicecancelliere il prossimo anno. E’ a lui che chiederei di far parte del comitato.»
Seguì un lungo silenzio, al termine del quale il Primo Ministro si rivolse al Cancelliere: «Beh, Godfrey, mi hai detto che secondo te questa faccenda potrebbe diventare molto importante. Che cosa hai da dire ora?»
«Secondo me, il comitato di controllo proposto offrirebbe le più ampie garanzie per la realizzazione del progetto, benché non sia del tutto sicuro di poter contribuire molto per quanto riguarda la mia persona.»
«Lei è troppo modesto», disse Isaac Newton, come se volesse stabilire un dato di fatto.
«Sarebbe un’iniziativa che farebbe molto chiasso», continuò il Cancelliere, «in parte a causa della natura spettacolare del progetto stesso e in parte perché ci allontaneremmo in maniera drastica dalla procedura normale, per cui la faccenda potrebbe avere significativi aspetti politici. Detto questo, dovremmo gettarci nell’impresa, sempre che il gioco valga la candela. Questa sarebbe la mia opinione, Primo Ministro.»
«Sì, beh», annuì il Primo Ministro, «sarebbe certamente qualcosa di diverso dalla normale routine di governo, non ti pare?»
Seguì un’altra lunga pausa di silenzio, interrotta anche questa volta da Isaac Newton: «Non so se in questo momento siamo in numero legale, ma c’è una decisione che dev’essere presa immediatamente. E’ il caso di divulgare gli sviluppi registrati fino a questo punto? O dobbiamo riservarci di parlarne in seguito?»
«Per quale motivo dovremmo aspettare?»
«Certi scienziati amano essere in possesso di risultati sin dall’inizio di un nuovo progetto, in maniera da avere già qualcosa in mano nell’eventualità di un fallimento del progetto stesso.»
«Perché deve fallire questo progetto?»
«Non possiamo escludere la possibilità.»
«Secondo me, sarebbe sbagliato cominciare con l’idea che l’iniziativa possa fallire Così propenderei per la pubblicazione, Godfrey. Che ne dici?»
«Sono d’accordo. Inoltre, i risultati ottenuti fino a questo momento metterebbero la gente in condizione di capire meglio ciò che stiamo facendo. L’aspetto delle pubbliche relazioni non può essere ignorato.»
«Quanto tempo ci vorrà perché tutto possa essere realizzato?» chiese il Primo Ministro.
«Circa quindici mesi.»
«In politica non ci si preoccupa «mai» di cose distanti quindici mesi», concluse il Primo Ministro.
Sulla via di ritorno verso Cambridge, Frances Haroldsen disse ad Isaac Newton: «Mi pare che ce la siamo cavata abbastanza bene».
Mentre alla residenza del Primo Ministro questi diceva al Cancelliere: «Credo, Godfrey, che ci siamo lasciati attirare in un’impresa molto intelligente. Ma se non dovesse andare a segno… chissà che conseguenze potrebbe avere?»
Il dottor Alan Bristow, direttore del settimanale scientifico «Nature», era seduto nella grande poltrona nera dell’ufficio di Isaac Newton al Cavendish Laboratory. Estratta una cartelletta dalla borsa portacarte, l’aprì e annunciò: «Come già immaginerà, professor Newton, sono venuto per discutere l’articolo «Sulla ricezione di segnali dalla cometa di Boswell» di M. I. Howarth, F. M. Haroldsen, lei stesso e K. Waldheim. Poiché stanno affiorando questioni piuttosto delicate, ho pensato di venire qui e discuterle a tu per tu anziché per telefono».
«Molto avveduto da parte sua, dottor Bristow.»
«Sì, beh, spero che conservi quest’opinione. Ma veniamo subito al sodo. La rivista «Nature» è disposta a pubblicare immediatamente, senza altre consultazioni, l’articolo, proprio come lei ci ha chiesto, ma a condizione che il titolo venga cambiato e che venga tolto qualsiasi accenno a segnali provenienti dalla cometa.»
Isaac Newton rimase a bocca spalancata. Poi, ripresosi dallo sbalordimento, riuscì a rispondere con calma: «Non sarebbe un po’ come presentare l’Amleto senza il principe di Danimarca?»
«Può darsi, ma lei non può pretendere che pubblichiamo un’ipotesi palesemente inaccettabile.»
«Vuol dire con questo che i calcoli sono sbagliati?»
Alan Bristow scosse vigorosamente la testa. «Nient’affatto. Anche se non li abbiamo controllati, siamo dispostissimi a considerare come privi di errori i calcoli.»
«O che Waldheim abbia decrittato in maniera sbagliata le registrazioni?»
«No, no. Accettiamo tutto come scontato.»
«Che cosa c’è, allora, che non va? A proposito, che cos’è un’ipotesi inaccettabile?»
«Un’ipotesi inaccettabile è un’ipotesi considerata inferiore a qualsiasi altra ipotesi capace di spiegare i fatti. Nell’ordine delle preferenze si trova all’ultimo posto.»
«Considerata inferiore da chi?»
«Dall’ambiente scientifico. La rivista «Nature» deve tenere buoni rapporti con l’ambiente scientifico. La nostra esistenza è condizionata dagli abbonati, di cui oltre la metà si trova negli Stati Uniti, per essere precisi. Ciò che voglio dire in realtà è che se la rivista dovesse affrontare tempi difficili, il Cavendish Laboratory certo non metterebbe mano al portafoglio per precipitarsi in nostro soccorso.»
«Anche se lo facessimo, il nostro portafoglio non arriverebbe molto lontano», ammise Isaac Newton. «Ciò che mi lascia perplesso», soggiunse, «è l’idea che qualsiasi altra ipotesi possa spiegare i fatti.»
«Ma sì! Howarth avrebbe potuto simulare i segnali per farli risultare come voi li avete trovati.»
«Ma il Consiglio delle Ricerche ha rescisso il contratto a causa dei segnali. Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere se i segnali non esistessero?»
«Oh, i segnali veri ci sono stati. Ma non erano quelli che Howarth ha fatto vedere a voi.»
«Che cosa dovremmo fare, allora, secondo lei?»
«Descrivere esattamente ciò che avete fatto. Né più né meno. Voi avete ricevuto da Howarth i supposti segnali provenienti dalla cometa. Li avete analizzati ottenendo coppie di numeri che poi avete scoperto in perfetto accordo con coppie di numeri calcolate osservando l’orbita della cometa. Ma niente illazioni o conclusioni: solo «fatti». Vede, professor Newton, se questo è un falso, non sarebbe la prima volta. Casi come questo vengono alla luce al ritmo di circa uno al mese, e potrebbe trattarsi solo della minuscola punta di un grande iceberg. Devo ammettere che capita quasi sempre nelle scienze biologiche, ma l’abitudine si sta diffondendo.»
«Devo confessare che questa possibilità non si è mai affacciata alla mia mente.»
«Perché lei appartiene a un settore della fisica dove il fenomeno è praticamente sconosciuto.»
Isaac Newton cominciava a vederci più chiaro. Picchiò il lapis sulla scrivania e disse: «Deve esistere un metodo per controllare ciò che lei dice. Il Consiglio delle Ricerche ha rescisso il contratto di Howarth perché avevano la prova che lui aveva ricevuto segnali senza averne l’autorizzazione. Howarth mi ha raccontato che qualche altro gruppo di ricerca dev’essersi rivolto a sua insaputa al Consiglio delle Ricerche presentando i segnali non autorizzati. Così, il Consiglio delle Ricerche dev’essere in possesso di quel materiale originale o, per lo meno, di una parte di esso. Un confronto con il nostro materiale rivelerebbe subito qualsiasi falsificazione».
Bristow annuì e disse: «Lei si sta avvicinando ora al punto realmente delicato. Può darsi che il Consiglio delle Ricerche possieda del materiale capace di demolire tutto il suo apparato. Non solo il suo articolo, ma anche tutte le leve ad alto livello politico che lei ha messo in moto».
«Perché possano essere messe in moto bisogna aspettare la pubblicazione dell’articolo, immagino», osservò Isaac Newton, un tantino a disagio.
«Ovviamente», annuì Bristow di nuovo. «In vista delle sue relazioni un po’ tese con il Consiglio le conviene indubbiamente riflettere sulla posizione che ha assunto.»
Isaac Newton sorrise amaramente e disse: «Beh, pensavo che avremmo finito col litigare, lei e io. Invece, vorrei ringraziarla, dottor Bristow. Che ne direbbe se la invitassi a fermarsi a cena stasera qui al Trinity?»
«Grazie, sì. Ma poiché intendo tornare in città stasera, sarebbe molto ineducato da parte mia se me ne andassi già alle otto e mezzo o alle nove?»
«Nient’affatto. Lei potrebbe andarsene al termine della cena vera e propria, prima che i Fellows salgano per bersi il bicchiere di porto.»
«Sempre la vecchia vita di Cambridge, eh?»
«Proprio così. Io sono rimasto lontano per tredici anni, ma non ho notato alcuna differenza.»
«Forse è un bene che certi luoghi non cambino mai. Le dispiacerebbe se passassi ad altro argomento?» chiese Bristow. «Corre voce che abbiate difficoltà ad acquistare spazio per i satelliti.»
«Voce di volgo o voce vigorosa, come dice Shakespeare?»
«Voce vigorosa, credo.»
«Le trattative proseguono.»
«Trattative difficili?»
«Ovviamente.»
Ma riuscirete a ottenere lo spazio?»
«Non ne dubito.»
«In che cosa consiste allora il problema?»
«Lo ha menzionato lei stesso, quando ha detto che siamo alle prese con un’ipotesi inaccettabile.»
«A proposito», lo interruppe Bristow, «considero confidenziale tutto ciò che lei mi sta raccontando. Ma quando queste cose compariranno sulla stampa, la rivista «Nature» sarà costretta a fare i suoi commenti. E quando lo faremo, sarà meglio per tutti avere commenti basati su informazioni esatte anziché su speculazioni e idee campate in aria. Con un comitato formato sotto la presidenza del Primo Ministro i commenti sono inevitabili.»
«Lo so benissimo. Anzi, sembra che io stesso non abbia fatto altro che provocare commenti sin dal giorno in cui sono venuto qui, di ritorno dal CERN. Ovviamente, chiunque in possesso di spazio in eccesso per i satelliti nel prossimo anno sa che siamo disposti a comprare. E altrettanto ovviamente le relazioni politiche ad alto livello del Comitato per il Progetto Halley implicano che saremo disposti a pagare bene per acquistare lo spazio.»
«Non occorre essere geni per capirlo. Così, in realtà siete nelle peste?» fece Bristow.
«Sì e no. Lei non mi crederà, ma non siamo con l’acqua alla gola per i soldi. Anzi: i soldi non sono un problema per noi. Si tratta di somme non abbastanza rilevanti per assumere un’importanza politica. Quando i governi spendono miliardi, le differenze tra dieci e venti milioni non sono importanti. Non lo sono neppure per il CERN.»
«In tal caso continuo a non capire dove sta il problema.»
«Il problema consiste nell’inaccettabilità dell’ipotesi. Data la stessa natura di un’ipotesi inaccettabile, le sue conseguenze hanno un effetto dirompente se l’ipotesi si rivela giusta. Così, chiunque sia in grado di venderci dello spazio per satelliti ne vorrebbe approfittare per entrar a far parte del progetto, sempre che, naturalmente, l’ipotesi si riveli giusta. D’altra parte, chi vende questo spazio vorrebbe essere lontano mille miglia da noi se l’ipotesi dovesse rivelarsi sbagliata. Che i poveri vecchi inglesi se la vedano un po’ loro, se l’ipotesi è sbagliata. Ma se è giusta, mettiamoci con loro. Proteggersi le spalle con una doppia scommessa, come del resto sta facendo lei stesso con la pubblicazione del nostro articolo.»
«Concludendo un contratto con opzione, immagino?» annuì Bristow, ignorando l’osservazione sfottente di Isaac Newton.
«Con l’opzione di entrare a far parte del progetto in un secondo tempo, sì.»
«Se la data della decisione precede il lancio del satellite, tutto va bene, no?»
Isaac Newton scoppiò a ridere. «Nessuno potrebbe avere la faccia tosta di chiedere un’opzione «posticipata» rispetto al lancio del satellite», disse. «Ciò che lei chiede è una data per l’opzione riferita ai suoi problemi di bilancio interni. Lei afferma di non sapere ancora se sarà in grado di trovare i soldi per partecipare all’impresa, anche se, naturalmente, le piacerebbe tanto partecipare. Questa è la versione alla quale rimane aggrappato.»
«Con i problemi di bilancio che si risolvono da soli dopo il lancio del satellite, immagino?»
«Questo è il trucco. Che si risolvono a corsa finita.»
«Meno male che dobbiamo occuparci solo di squallidi problemi commerciali», fece Bristow. «Buona fortuna!»
Dopo aver dato un’occhiata all’orologio, Isaac Newton osservò: «A proposito, ho promesso al rettore del Trinity di andare da lui prima di cena. Non vedo perché lei non dovrebbe venire, anche se dovrò chiederle scusa un attimo nel caso il rettore volesse parlarmi in privato».
«Questo si capisce, naturalmente», annuì Bristow.
Il rettore del Trinity College avanzò con passo strascicato quando Isaac Newton introdusse Alan Bristow nel soggiorno del suo alloggio. «Posso presentarle il mio ospite, rettore? Il dottor Alan Bristow, direttore di «Nature». E’ venuto nel pomeriggio per discutere la pubblicazione del nostro articolo.»
««Nature», il temuto settimanale!» esclamò il rettore. «In realtà volevo vederla proprio a proposito del suo articolo, Newton. Ho tentato di leggerlo come deve fare un coscienzioso membro del comitato. Così può stare ad ascoltare, dottor Bristow, se lo desidera. Oppure può versarsi da bere dalla credenza in fondo alla stanza, se la sua vista arriva fino a lì. Oppure può esaminare l’argenteria. Ne abbiamo un mucchio nel College. Oppure può fare tutt’e tre le cose insieme», disse il rettore con la sua voce sonora. «Quelli che mi preoccupano sono i suoi segnali a punti e linee, Newton. Lei continua a sottolineare il fatto che le onde dei segnali sono molto lunghe, troppo lunghe per raggiungere la terra attraverso questa ionosfera, come la chiama lei.»
«Esattamente, rettore.»
«Allora, come sono stati ricevuti questi segnali, a terra? O il satellite è stato fatto rientrare in qualche maniera?»
«No, il satellite non è stato fatto rientrare. E’ accaduto invece che lo schema di punti e linee è stato ricevuto dal satellite mediante una ricevente a onde lunghe. La trasmissione è stata registrata e poi ritrasmessa a terra con onde più corte che sono riuscite a penetrare facilmente attraverso la ionosfera. Questa è l’essenza della telemetria coi satelliti. Il satellite accumula dati acquisiti con vari strumenti nella maniera più adatta agli strumenti stessi, e poi ritrasmette i dati nel modo più opportuno perché raggiungano la terra. E’ un processo a due fasi.»
««Aha»! Sapevo che doveva esserci una spiegazione. C’è sempre quando si ha a che fare con voialtri scienziati. Così, questo dottor Howarth era uno stregone della telemetria, un esperto che se la intendeva di punti e linee. Benché non riesca a capire come sia finito dopo mezzanotte seduto al nostro organo, morto. Sto pensando di farne un pezzo teatrale. Sono ancora alla ricerca dei personaggi. Ecco perché sono contento di aver conosciuto lei, dottor Bristow.»
Erano quasi le nove di sera quando Isaac Newton entrò con la macchina nel viale di accesso della casa di Boulton nella Adams Road. Frances Haroldsen era via, ancora intenta a esercitare il suo fascino a Washington. Kurt Waldheim era occupato in maniera simile in Germania. Così, Isaac Newton era rimasto solo a risentire gli effetti della tempesta che la visita di Alan Bristow aveva scatenato a ciel sereno.
Isaac Newton era più che abituato ad aver a che fare con scienziati che attribuivano ai risultati del loro lavoro sperimentale significato o precisione maggiori di quelli effettivamente conseguiti. Era abituato alla rivendicazione di risultati illusori, dovuti semplicemente a effetti strumentali. Ciò che non aveva mai immaginato prima era il falso premeditato su vasta scala. Durante le tre ore appena trascorse una parte del suo cervello aveva tentato di respingere quest’idea. I calcoli effettuati da lui e Frances Margaret al cottage di Howard Baker combaciavano meglio con i risultati dichiarati se si usavano gli elementi più recenti dell’orbita della cometa di Boswell anziché gli elementi precedenti. Così Howarth avrebbe dovuto non solo produrre falsi, ma anche attribuire ai suoi falsi dati aggiornati. Ma perché no? Una volta che si cominciavano a nutrire simili sospetti, non c’era più limite.
Per due lunghe ore, fin dopo le undici, Isaac Newton rimase seduto a meditare sul disastro che poteva verificarsi. Il comitato ad alto livello, nato in seguito al suo intervento, sarebbe stato reso ridicolo, con ovvie conseguenze di natura politica. Lo slancio di cui era adesso permeato il Cavendish Laboratory sarebbe cessato, peggio che cessato. Era una situazione simile a quella succeduta allo scandalo del cranio di Piltdown, solo su scala più grande e più grottesca.
Isaac Newton era fortemente tentato di respingere simili pensieri, di continuare nella sua iniziativa. Ma, d’altra parte, se la situazione era veramente sbagliata, questo stato di cose non poteva che peggiorare, e con ritmo accelerato. Fino a quel momento non erano state spese ancora somme cospicue né erano stati firmati contratti di notevole impegno. Era ancora in tempo per tirarsi indietro ed evitare il disastro totale, anche se con la faccia coperta da uova marce. Il pensiero continuò a tornargli al Consiglio delle Ricerche con la prova del falso — o qualche altra prova — nascosta nei suoi archivi. Nella casa di Boulton cominciava a farsi sentire lo scricchiolio, come sempre a quest’ora della giornata. Il fenomeno interruppe le riflessioni di Isaac Newton. Mentre saliva lentamente al piano di sopra si rese conto che doveva rimangiarsi tutto, coprirsi il capo di cenere. Non c’era altro da fare. Doveva andare a parlare con il presidente del Consiglio delle Ricerche.
Da Cambridge a Swindon, dove aveva la sede il Consiglio delle Ricerche, trasferitosi lì dal centro di Londra alcuni anni prima, la strada seguiva un percorso piuttosto tortuoso attraverso la campagna. Ma le difficoltà dovute al percorso si rivelarono tuttavia nulla al confronto della difficoltà che Isaac Newton ebbe a trovare a Swindon la North Star Avenue. Qualcuno gli disse di dirigersi verso un posto che aveva l’affascinante nome di Oasis, ma le istruzioni che ricevette ebbero come risultato di portarlo sul versante sbagliato della ferrovia per cui, pur essendo a poche centinaia di metri dalla destinazione, non riuscì a trovare il sistema per varcare la linea ferroviaria. Alquanto irritato riuscì a parcheggiare la macchina e ad attraversare i binari su un ponte pedonale, per ritrovarsi in mezzo a un agglomerato di palazzoni costruiti in uno stile che rammentava l’antica Mesopotamia. Tra i palazzoni c’era anche quello del Consiglio delle Ricerche. Mentre Isaac Newton entrava impettito nel grande edificio, ebbe la sensazione che nulla di quanto aveva provato durante le tre ore dopo la partenza da Cambridge facesse presagire un gradevole incontro con il presidente del CERC. La signora Gunter aveva fissato l’appuntamento per le tre del pomeriggio precise, motivo per cui Isaac Newton era stato costretto a partire senza fare colazione, il che non aveva certo contribuito a renderlo di buon umore.
«Ho per le tre del pomeriggio precise un appuntamento con Sir Anthony Marshall», disse al portiere in uniforme.
«In tal caso lei è puntualissimo, signore», disse l’uomo. Dopo aver telefonato soggiunse: «Mandano qualcuno a prenderla. S’accomodi, intanto…»
Una segretaria gli fece strada fino all’ascensore e poi, lungo vari corridoi, fino a un’anticamera con il pavimento coperto da una pesante moquette, occupata da varie altre segretarie e circondata da molti pannelli di vetro. Anthony Marshall era un uomo di mezza età e di media altezza con una testa tonda, piuttosto piccina, e grandi occhiali cerchiati di tartaruga. Era stato capo dell’istituto di chimica di un’università nelle Midlands, da dove, passando per la presidenza di un consiglio di ricerca, aveva imboccato la strada ormai ben nota per diventare vicepresidente onorario.
«Non credo che ci conosciamo», disse Marshall mentre si dirigeva verso Isaac Newton per stringergli la mano.
«No. Manco dal paese da parecchi anni.»
«La sua segretaria ha semplicemente detto alla mia che lei voleva vedermi, ma non ha detto perché.»
«Si tratta del caso Howarth, come lei del resto deve avere immaginato, presumo.»
«Le dispiace se faccio assistere al colloquio un paio dei miei collaboratori?»
«Preferirei di no. Per lo meno non subito. Forse in seguito, qualora dovesse essercene motivo.»
«Benissimo. Ma lei non può essere sicuro che io conosca tutti i particolari. Non sono stato io a occuparmi di quella faccenda.»
«Allora siamo in due. Neppure io me ne sono occupato. Quando sono arrivato a Cambridge, mi sono trovato di fronte a un fatto compiuto. Ho tentato di salvare il salvabile, ma non ci sono riuscito.»
«Mi è stato detto che non esisteva alcuna possibilità in questo senso, date le norme del regolamento. Siamo stati consigliati sia da entrambi i nostri comitati sia dall’ufficio legale.»
«Sì, me ne sono reso conto.»
«Francamente devo dire che sono un po’ perplesso. Pensavo che tutto stesse procedendo per il meglio, nel senso da lei desiderato, per il momento. E allora, in che cosa le possiamo essere utili? Howarth è morto, purtroppo, e questo taglia la testa al toro. O non è così?»
«Il Consiglio non si sente in qualche modo responsabile della sua morte?»
«No, naturalmente.»
«No, neppure io accetterei questa responsabilità, penso, se mi trovassi al vostro posto», convenne Isaac Newton, «anche se avrei trattato la faccenda in maniera un tantino diversa, come del resto ho detto al suo uomo, Clamperdown, prima della tragedia.»
«A Cambridge avreste potuto prendervi certe libertà che noi non possiamo prenderci.»
«Può darsi. Ma c’è un punto a proposito del contratto rescisso che devo chiarire con lei, visto che lei rappresenta il Consiglio e io il Cavendish Laboratory. Fatto questo, tutto potrà considerarsi finito una volta per sempre. Quali erano i motivi tecnici che vi hanno indotto a rescindere il contratto?»
«L’impiego non autorizzato di risorse, naturalmente.»
«Come facevate a sapere che le risorse erano state impiegate in maniera non autorizzata?»
«Per quanto mi ricordi, abbiamo ricevuto una segnalazione da uno degli altri gruppi impegnati nel progetto.»
«Le prove devono essere state davvero molto convincenti se il Consiglio ha preso un provvedimento così drastico.»
«Immagino che lo fossero. Ma qui entriamo in un campo minato. Il Consiglio non vuol provocare una faida tra gruppi appartenenti a università diverse. E’ già un bel guaio trovarci alle prese con una specie di controversia tra Cambridge e il Consiglio stesso.»
Dopo questo scontro esplorativo, Isaac Newton fu quasi sicuro che Marshall non si stesse comportando come uno che abbia l’asso nella manica. Entrò una segretaria con tazze di tè e un piatto di biscotti. Isaac Newton accettò il tè e si servì di biscotti entro i limiti dettati dal comune senso del pudore per reintegrare il pasto saltato. Nel contempo si chiese se non gli convenisse porre fine alla discussione con una mossa plausibile e ragionevolmente gentile. Poi giunse alla conclusione che doveva mettere qualche carta in tavola nell’interesse di tutti quelli impegnati nel progetto Halley, specialmente le autorità politiche e il rettore del suo College. Anche se Marshall avesse interpretato queste mosse come contrarie agli interessi del Consiglio.
«Per quel che posso vedere», disse, «il Consiglio non avrebbe mai preso un provvedimento così drastico se non fosse stato in possesso di prove assolutamente irrefutabili. L’altro gruppo universitario deve perciò aver presentato prove concrete, sotto forma dei segnali che Howarth ha ottenuto grazie all’impiego illecito delle risorse. Immagino che queste prove siano state inviate al Consiglio?»
«Certamente. Per lo meno da quanto ne ho capito io.»
«E lei le ha ancora tra la sua documentazione?»
«Direi.»
«Potrebbe accertarsene?»
«Certo che potrei. Ma perché?»
«Glielo spiegherò volentieri se lei avrà prima la bontà di controllare che questi segnali si trovano tra la sua documentazione. In caso contrario, la rescissione del contratto di Howarth sarebbe stata in realtà uno sbaglio, non le pare? Una mossa molto arbitraria, per non dire di peggio.»
«Certamente non vorrà mettere in dubbio la nostra buona fede?»
«No, non lo faccio, Sir Anthony. Ciò che sto dicendo è che non possiamo seppellire l’ascia di guerra finché non vedremo le prove concrete sul tavolo. Dopo tutto abbiamo un morto per le mani.»
Anthony Marshall si allontanò dalla scrivania camminando silenziosamente sulla moquette e si affacciò alla porta che dava accesso all’ufficio delle segretarie. Apertala, esclamò: «Signorina Brownlee, potrebbe portarmi la documentazione sul dottor Michael Howarth e sui nostri contratti con il Cavendish Laboratory?»
Poi Marshall si rivolse ad Isaac Newton dicendo con l’aria di chi stia affrontando l’ignoto: «Sono un tantino sorpreso che non ci abbiate chiesto se abbiamo dello spazio per satelliti disponibile».
«Perché voi dovete comprare questo spazio proprio come dobbiamo comprarlo noi. Immaginavo che non potevate avere effettuato acquisti eccedenti i vostri bisogni, non con le ristrettezze finanziarie che stiamo attraversando», rispose Isaac Newton. «Pensavo che sul mercato ci fossero solo quelli in possesso di rampe di lancio. Certo il vostro spazio per satelliti è già assegnato per anni e anni, no?»
«Sulla carta, sì. Ma quando si ha una «pipeline» in funzione, è sempre possibile estendere nel tempo alcuni programmi.»
«Non mi piacerebbe affatto farmi largo a spintoni tra gli altri; non diventerei molto simpatico alla gente.»
«Ecco un sentimento che non ho sentito esprimere spesso in quest’ufficio», rispose Marshall con un amaro sorriso. «Un qualsiasi pretesto — e lo fanno sembrare sempre molto plausibile — ha di solito lo scopo di giustificare la sopraffazione degli altri.»
La signora Brownlee sembrava un tantino più anziana delle altre segretarie che Isaac Newton aveva visto fino a quel momento. Entrò con una pila di cartelle sul braccio, che depose con cura sulla scrivania di Marshall.
«Non sono interessato agli argomenti personali o riservati», spiegò Isaac Newton per rassicurare Marshall, «m’interessano solo i segnali, le prove concrete, ammesso che le abbiate e non ve le siate immaginate.»
Dopo aver esaminato per alcuni minuti il contenuto delle cartelle, Marshall esclamò: «C’è un mucchio di roba tecnica, qui. Naturalmente, sapevo che c’era».
Isaac Newton si alzò dalla sedia, più calmo all’apparenza di quanto lo fosse in realtà. Marshall posò la cartella aperta sulla scrivania ed entrambi la guardarono. Isaac Newton vide che si trattava di una registrazione di segnali. Si mise a sfogliare, come per caso, le pagine finché non arrivò a una registrazione di buona qualità, al che disse: «Lei aveva in mente qualcosa di più importante. Aveva l’aria di volermi fare una proposta».
«Ha già pensato che cosa farete se il vostro satellite dovesse esplodere durante il lancio?»
«Ovviamente avremo bisogno di un altro satellite. Ma avremo bisogno comunque di un altro satellite, anche se il primo lancio dovesse essere realizzato senza intoppi. Inevitabilmente ne avremo bisogno un altro e poi di un altro e di un altro ancora. Perché non mettiamo le carte in tavola, allora? Che cosa volete in cambio?»
Anthony Marshall si appoggiò allo schienale della poltrona girevole. Soppesò Isaac Newton per un lungo momento con lo sguardo, dicendo poi: «Un membro del Consiglio delle Ricerche nel Comitato Halley».
«Lo immaginavo», annuì Isaac Newton. «Mi dia qualche minuto per rifletterci sopra. Intanto, lei potrebbe far fotocopiare quel foglio con i segnali.»
«E’ per questo che è venuto qui?»
«Sì, non mi aspettavo di restare coinvolto nella faccenda ben più importante che lei ha messo sul tappeto. C’era una lacuna nella registrazione di Howarth, vede, e noi abbiamo bisogno di questo pezzo mancante per assicurare la continuità nel tempo delle registrazioni.»
Anthony Marshall prese il foglio e lo portò nell’ufficio delle segretarie, lasciando Isaac Newton dapprima a rimproverarsi per essere diventato un simile bugiardo e poi a immergersi nelle proprie elucubrazioni al punto di non accorgersi del suo ritorno. Si domandò come la notizia dell’articolo scritto da Mike Howarth, Frances Haroldsen, Kurt Waldheim e lui fosse andata a finire d’incanto dalla redazione di «Nature» al Consiglio delle Ricerche a Swindon. Proprio a quell’articolo doveva essere dovuta l’ansia di Marshall di far parte del Comitato per il Progetto. Credeva all’assicurazione data da Alan Bristow secondo il quale l’articolo non era stato mandato in esame ad alcun consulente. Ma qualcuno che lo aveva visto ne aveva parlato con un’altra persona. E così, la notizia si era sparsa con una specie di tam-tam. Nella scienza esisteva un solo modo per conservare un segreto: non parlarne con nessuno. Ad alta voce, Isaac Newton disse: «Devo confessare una cosa. Tra i doni che posso fare non c’è il posto nel Comitato Halley».
«Questo lo capisco. Ma credo che possa ottenerlo, se è deciso a ottenerlo.»
«Posso «provare».»
«E io «posso» provare a provvedere un satellite di riserva.»
«Se mi mandasse le specifiche? Prenderemo le decisioni definitive riguardanti il progetto abbastanza presto.»
La signora Brownlee entrò con un certo numero di fotocopie riunite in una cartella che consegnò ad Isaac Newton. Questi, senza far capire che quei fogli erano per lui più preziosi dell’oro, osservò: «Sono sorpreso che lei non abbia paura di coinvolgere il Consiglio delle Ricerche in un’impresa che potrebbe finire male».
Marshall lanciò una lunga occhiata ad Isaac Newton e rispose: «Sarei preoccupato se dovessimo andarci noi di mezzo. Ma quello è un privilegio vostro, non le pare?»
La stessa segretaria accompagnò Isaac Newton attraverso il labirinto di corridoi e ascensori fino all’ingresso del palazzo. Mentre attraversava il ponte pedonale sopra la ferrovia, egli rifletté che questa era la prima volta in vita sua in cui aveva vinto ogni battaglia, ma era riuscito a perdere la guerra. Il risultato migliore che poteva ottenere era quello di placare l’orrendo dubbio provocato in lui da Alan Bristow, mentre la cosa migliore che il Consiglio delle Ricerche poteva ottenere era quella di insinuarsi nel Progetto. Poi, però, giunse alla conclusione che non avrebbe potuto agire diversamente senza venir meno a quelli che lo appoggiavano.
Mezz’ora dopo aver raggiunto la macchina correva già sulla M 4 verso Londra. Era ampiamente in tempo per prendere il volo notturno per Ginevra. Sarebbe bastata una mattinata per digitare i fogli fotocopiati. Poi ci sarebbero voluti solo pochi minuti per scoprire se la parte autentica della registrazione dei segnali era omologa alla parte della registrazione di Mike Howarth. Se lo era, il minaccioso fantasma poteva considerarsi allontanato per sempre e lui sarebbe potuto ritornare a Cambridge l’indomani sera. Se non fosse stata omologa, avrebbe fatto meglio a restare a Ginevra… per sempre.
Un elicottero volava basso seguendo i Sussex Downs in direzione sudovest verso Midhurst. Due uomini stavano camminando lungo un sentiero che si snodava sul terreno scoperto con qualche macchia di cespugli. Uno degli uomini si volse e alzò lo sguardo.
«E’ la terza volta che ci sorvola», commentò Isaac Newton.
«Devo confessare che non bado gran che a questo genere di cose. Abbiamo, sì, organi di sicurezza di una qualche specie che ci proteggono, ma personalmente preferisco ignorarli. Mi sento più tranquillo», rispose il Cancelliere dello Scacchiere. «Così dovremo prendere più di qualche decisione difficile», disse, come se stesse proseguendo un discorso già iniziato, «benché io debba ancora scoprire quando mai nella vita non ci si trovi alle prese con decisioni difficili.»
«Ora, però, dobbiamo sbrigarci.»
«Quale occasione migliore di questo pomeriggio?»
«Senza gli altri del Comitato?»
«Ho scoperto», disse il Cancelliere, «che quando due membri di un piccolo comitato hanno difficoltà a prendere una decisione e finiscono per trovare una razionale concordanza di idee, essi riescono di solito a persuadere anche gli altri membri. Così, affrontiamo queste difficoltà. A che punto ci troviamo?»
«Ci sono due alternative razionali: i tedeschi e gli americani. Entrambi vorrebbero partecipare al progetto nella misura di un quarto. In maniera discretamente celata — con noi esposti alle luci della ribalta — a causa della natura inaccettabile del progetto.»
«Inaccettabile! E perché inaccettabile?»
«Questa parola l’ha usata Alan Bristow, il direttore di «Nature». Significa una cosa alla quale tutti fingono di non credere, per quanto suggestive possano essere le prove.»
«Strano a dirsi», osservò il Cancelliere, «ma non sarei minimamente interessato al progetto se non fosse inaccettabile in quel senso. E neppure lei, sospetto.»
«Probabilmente ha ragione. Anzi: questa cosa capita un po’ a tutti. Tutti vogliono partecipare al festino…»
«… fingendo che il festino non esiste, immagino.»
«Ho avuto l’altro giorno un’offerta da Anthony Marshall, presidente del Consiglio delle Ricerche. Vuole scambiare satelliti con un seggio nel Comitato.»
«Come ha reagito lei?»
«In modo ambiguo. Ma ho promesso di parlarne al Comitato.»
«Faciliterebbe le cose dal punto di vista politico e indurrebbe a più miti consigli i nostri critici. Avremo in realtà bisogno di altri satelliti?»
«Sì, molto probabilmente. Ma se l’impresa riesce, i problemi politici scompariranno. Il problema rappresentato dall’ammissione nel Comitato di un membro proveniente dal Consiglio delle Ricerche potrebbe d’altra parte restare tale, perché significherebbe un’infiltrazione. Molto lenta da principio, ma sempre più penetrante con l’andare del tempo.»
«Vuol sapere una cosa?» disse il Cancelliere, punzecchiando con la punta del bastone il ciglio del sentiero. «Lei avrebbe ragione se si trattasse di un progetto stabile, destinato a perpetuarsi. Una delle principali occupazioni dei funzionari di governo è quella di infiltrarsi. E’ il loro modo di vivere. Ma il nostro non è un progetto stabile. E’ destinato o a morire, e speriamo che non accada, oppure a esplodere. Se dovesse morire, lei sarebbe contento di dividere la pena con il Consiglio delle Ricerche, al quale toccherebbe una parte delle critiche. Se dovesse esplodere, il progetto ben presto assumerebbe dimensioni tali da farci scomparire tutti.»
«Che cosa proporrebbe lei?»
«Che lei ne parli al Comitato senza riserve mentali, come del resto ha promesso. Ma ritorniamo ai tedeschi e agli americani. Per essere più precisi: qual è la nostra situazione?»
«Ci troviamo un po’ nella situazione dell’asino che muore di fame tra due mucchi di fieno perché non sa decidere quale dei due mangiare per primo. Siccome gli americani sono più esperti nel lancio dei satelliti, correremmo meno rischi di un cattivo funzionamento. C’è qualche neo nella storia del programma missilistico europeo, anche se adesso si sta perfezionando. Questo va a favore degli americani. Gli americani, d’altra parte, potrebbero avanzare delle riserve sul lato attivo del nostro programma.»
«Non riesco a seguirla.»
«Beh, per ottenere trasmissioni perfette con queste onde lunghe di cui parlo sempre, è indispensabile mettere in funzione una lunga antenna. Così, il nostro ’programma’ non può essere passivo. Deve interagire in maniera decisiva col controllo del satellite. La cosa in sé non presenta alcuna particolare difficoltà, naturalmente, ma quando il tempo disponibile è così breve, la questione diventa delicata.»
«Lei crede che i negoziati sarebbero più facili…?»
«… con i tedeschi. Sì. Sono stato coinvolto nei progetti europei al CERN, per cui pendo naturalmente un tantino da quella parte. Ciò in cui non credo di essere deviato da alcun pregiudizio è nella previsione di ciò che accadrà se il progetto avrà successo. Gli sviluppi che gli americani realizzerebbero sarebbero inevitabilmente di più vasta portata di quelli che noi potremmo mai sognarci di realizzare. Dopo un primo successo ci troveremmo relegati in un posto di second’ordine. La storia sarebbe abbastanza simile a quella accaduta con la fisica, finché il CERN non si è messo al passo.»
«Per quanto riguarda la politica», soggiunse il Cancelliere, «siamo vincolati senza scampo alla politica agricola comunitaria. I tedeschi sono i nostri alleati naturali nel sollecitare riforme. Il Progetto Halley è ancora troppo piccolo per avere importanza nel contesto comunitario, ma se dovessimo riuscire, potrebbe diventare un elemento significativo in quel gioco. Ora questa non è una ragione decisiva. Ma se lei mi dice che i pro e i contro scientifici sono abbastanza equilibrati, potrei considerarlo importante.»
«Se dovessimo optare per una politica europea», ammise Isaac Newton, «la NASA si sentirebbe subito spinta a gettarsi nel gioco. In tal modo potremmo aspettarci a breve scadenza la sua concorrenza.»
«Se ne preoccupa?»
«Non per il momento. Ma se il nostro primo tentativo dovesse fallire sulla rampa di lancio e il secondo registrare qualche cattivo funzionamento dell’attrezzatura, non avremmo mai più l’occasione di compiere altri tentativi.»
«Com’è pessimista! Non sembra lei!»
«Perché sono un po’ nervoso, immagino. I progetti ai quali sono abituato io erano di mole maggiore e più difficilmente realizzabili dal punto di vista tecnico di questo, ma se c’era qualcosa che non andava, come succedeva di solito, avevamo sul terreno, sotto il naso, tutta l’attrezzatura. Si potevano sempre esaminare i singoli pezzi e rimettere le cose a posto. Ciò che mi disturba è l’idea di impegnarsi senza scampo in anticipo.»
«Neppure in politica possiamo concederci sempre il lusso di andare in giro aggiustando le cose. Qualche volta si è obbligati a muoversi e, una volta mossi, a non ritornare più sulle proprie decisioni. Personalmente non mi causa alcuna tensione farlo», disse il Cancelliere, «altrimenti avrei scelto una professione diversa.»
«Che cos’è per lei, allora, fonte di tensione?»
«In politica, la realtà è rappresentata da ciò che la gente crede, non da ciò che è vero. Per quanto mi riguarda, sono particolarmente soggetto a tensioni quando mi vedo costretto a prendere sul serio cose che so non essere vere», rispose il Cancelliere. «Ma, secondo lei, riusciremo a tenere testa, a meno di non essere proprio scalognati?»
«Io penso che l’inaccettabilità della nostra posizione sia per un certo verso un possente mezzo di difesa. Dopo la pubblicazione dell’articolo su «Nature», la NASA comincerà inevitabilmente a investigare, ma all’inizio solo con il preciso scopo di smentirci. Se, poi, le cose dovessero andare per il nostro verso, si daranno da fare per ridurre la nostra posizione attuale al livello di una congettura.»
«Com’è possibile ridurla a una congettura?»
«L’articolo di «Nature» contiene un elemento che punta in questa direzione.»
«Ma non è stato lei a mettercelo.»
«Sarebbe difficile stabilire come sono andate veramente le cose. Come Bristow ha messo in rilievo chiaramente, «Nature» deve pensare agli abbonati.»
«Non avevo idea che la scienza fosse impostata su simili criteri di spregiudicata venalità.»
«In tal caso avrà delle belle sorprese assistendo allo sviluppo del progetto. Ma, parlando seriamente, penso comunque che ci troviamo su posizioni piuttosto favorevoli. Nessuno tenterà di tradurre in atto comunicazioni in entrambi i sensi, non subito, perché sono tutti ancora in preda alla sindrome dell’inaccettabilità.»
I due uomini raggiunsero un viottolo che scendeva dalla cresta dei Downs in direzione nord, dove si trovava la tenuta del Cancelliere. Isaac Newton era suo ospite per la fine della settimana. Il viottolo era fiancheggiato da una fitta siepe di rovi. Circa a metà via, nella direzione della strada asfaltata che portava al villaggio di Bepton, incontrarono una piccola comitiva in salita. Un membro della comitiva calzava scarpe di Gucci e portava un colbacco di astrakan. Tutti gli appartenenti alla comitiva portavano un binocolo al collo.
«Amanti dell’ornitologia», commentò il Cancelliere in tono asciutto.
«Ha visto il tipo con le scarpe di Gucci e il copricapo di astrakan?»
«Ho visto il colbacco d’astrakan, naturalmente, ma non ho fatto caso alle scarpe. Perché?»
«E’ un reporter dell’«Observer». O per lo meno dice di esserlo.»
«Perché è così sospettoso?» chiese il Cancelliere. «Non vanno forse perfettamente d’accordo le scarpe di Gucci, l’intelletto, l’«Observer» e i punti di vista tendenziosi in politica?»
Gli undici membri del Politburo e gli otto membri candidati erano tutti uomini massicci, una definizione che in russo non implicava un eccesso di peso — benché l’eccesso di peso come tale non fosse proibito — ma uomini forti, gente che non si poteva mettere nel sacco con qualsiasi vecchio trucco in uso nel Partito. La facilità con cui la gente comune veniva ingannata dalla statua di cera di Lenin nel mausoleo della Piazza Rossa era oggetto di sarcastici commenti tra i membri del Politburo, generando in loro un sovrano disprezzo per il popolo.
Ognuno dei diciannove membri era sbarbato contropelo, come del resto tutte le persone nell’Unione Sovietica che nutrissero l’ambizione di essere qualcuno. Ciò era dovuto a Karl Marx. Marx — ironia della sorte — era una dolorosa spina nel fianco dell’orso russo. Gli esperti di cose russe in Occidente, che avrebbero dovuto essere più avveduti, parlavano del marxismo come se questo fosse diventato la filosofia politica ed economica dell’Unione Sovietica. Ma se c’era una cosa di cui l’Unione Sovietica ambiva liberarsi a tutti i costi, questa cosa era Karl Marx e la sua barba selvaggia.
Il guaio consisteva nella profezia marxista per cui l’Occidente sarebbe crollato in seguito alle supposte contraddizioni del capitalismo, mentre in realtà le economie delle nazioni occidentali continuavano a progredire a ritmo accelerato come un’intera squadra di automobili di formula uno. Ben difficilmente l’Unione Sovietica avrebbe potuto essere tratta maggiormente in inganno se Karl Marx fosse stato un agente della CIA intento a diffondere una perniciosa disinformazione a est della Cortina di Ferro.
In questo frangente, la grossa difficoltà dei sovietici consisteva nel fatto che, avendo introdotto per errore Karl Marx nel loro sistema, non riuscivano più a liberarsene. E ciò perché nessuno nell’Unione Sovietica, dal personaggio più elevato a quello più umile, poteva ammettere di aver commesso un errore, per cui qualsiasi tarlo come Karl Marx che riusciva a penetrare nel legno sovietico non poteva più esserne allontanato. Il verme marxista continuava a mangiare e mangiare e tutto finiva per marcire. L’unica cosa che un russo fiero di essere tale poteva fare per esprimere una silenziosa protesta era di farsi il contropelo.
Tutti i membri del Politburo si servivano dello stesso tipo di rasoio, un rasoio bianco da gettare dopo l’uso, fabbricato in Francia dalla società Bic. I rasoi Bic erano accessibili a livelli della «nomenklatura» ben inferiori a quello del Politburo. Potevano essere acquistati da chiunque fosse in possesso di una scorta di rubli legittimi. Quel giorno, tutti i membri del Politburo si fecero con soddisfazione la barba usando rasoi Bic. Tutti all’infuori del Numero Dieci, il quale, dopo essersi praticato un brutto taglio immediatamente sotto l’angolo destro del labbro, era caduto preda del malumore.
Il sistema di indicare i membri del Politburo con un numero era cominciato, molto semplicemente, per stabilire una graduatoria in base alla più o meno lunga appartenenza all’organo. Poiché una graduatoria in base all’anzianità pura e semplice è sempre fino a un certo punto una graduatoria risultante dalla competizione, il sistema aveva finito per evolversi in una graduatoria stabilita apertamente dalla competizione, tenendo conto non già dell’anzianità bensì di altri fattori, per cui era facile vedere chi stava facendo progressi e chi stava retrocedendo.
Andava così a finire che l’approvazione, da parte del Politburo, di cinque o sei proposte avanzate da qualcuno bastava di solito perché il tale salisse di un gradino; raccontare una decina di barzellette, che tutti trovavano più o meno divertenti, rendeva stabile la posizione di chi le raccontava. Essere invece presi di mira anche solo due o tre volte da una barzelletta raccontata da qualcun altro significava retrocedere di un gradino nella graduatoria. Importante era anche, naturalmente, non votare per la parte perdente nel contesto di una diatriba, benché questo rischio potesse essere evitato ascoltando i punti di vista espressi dai membri dal Numero Uno al Numero Cinque.
Le poderose berline nere, tirate a lucido, con le targhe speciali recanti la sigla MOC, con le quali i membri del Politburo si spostavano a Mosca e nei dintorni, avevano percorso a tutta birra quella mattina le strade e i viali della città. Non vi era stato nulla di furtivo nel passaggio di queste macchine. Un visitatore proveniente dallo spazio al quale fosse capitato di atterrare per caso a Mosca, per esempio nella Via Granovskij, le avrebbe sicuramente individuate subito, al primo colpo d’occhio. Le berline del Politburo procedevano a un’andatura più veloce degli altri mezzi, e sempre al centro della strada. Siccome c’era il disgelo, le ruote di questi veicoli sollevavano ondate di neve semisciolta e fanghiglia che investivano in pieno i malaccorti pedoni. Questo era lo stato di cose raggiunto dal «secolo dell’uomo comune» nel paese che proclamava di volerlo migliorare.
Le lucidissime berline nere erano confluite nella Piazza Rossa quasi contemporaneamente, per cui persino il visitatore venuto dallo spazio avrebbe arguito che qualcosa stava bollendo in pentola, come, per esempio, lo schieramento dei missili S.S.-21 in Cecoslovacchia che la Conferenza per il Disarmo a Ginevra avrebbe dovuto abolire. Chiunque avrebbe sospettato una riunione del Politburo, ed effettivamente si trattava di una riunione del Politburo, stabilita per le nove e mezzo del mattino. Le macchine svoltarono nel recinto del Cremlino verso le nove. L’intervallo di tempo avrebbe permesso ai membri di liberarsi dei bei cappotti con pelliccia, di fare un salto in segreteria, di accertarsi che le carte in loro possesso fossero in ordine e di rivolgersi reciprocamente, a denti stretti, una grande smorfia equivalente a un sorriso.
Le prime voci dell’ordine del giorno contemplavano argomenti come la provocazione di disordini nell’America Centrale, il finanziamento del movimento antinucleare europeo con soldi opportunamente mimetizzati, e la diffusione in tutta l’Europa di notizie destinate a favorire la disinformazione e il caos. Per essere sinceri, si trattava di argomenti che facevano oramai scendere il latte alle ginocchia. Tutti, invece, stavano aspettando la settima voce dell’ordine del giorno, ma molte tazze di caffè vennero bevute prima che si arrivasse a quel punto. Tutti si davano da fare, come al solito, per piazzare per primi le proprie barzellette, e il Numero Dodici, in ascesa, notò con soddisfazione come il Numero Undici fosse lento a capire tutte le volte che gli altri membri scoppiavano a ridere. Rideva a scoppio ritardato. Il Numero Undici riusciva, questo era vero, a mascherare la propria scarsa presenza di spirito per prorompere, seppure in ritardo, in formidabili risate che si diffondevano in tutta l’aula, ma il Numero Dodici, in ascesa, sapeva come stavano veramente le cose. Altrimenti non sarebbe stato in ascesa, naturalmente. Il Numero Dodici intuì la verità: il Numero Undici stava diventando sordo.
Il settimo punto dell’ordine del giorno conteneva la notizia più inattendibile finora emersa nel corso degli anni. Dall’Inghilterra veniva segnalato un messaggio intelligente proveniente da una cometa… una cometa! A chi se non agli inglesi, fermi ancora agli archi e alle frecce, poteva essere venuta una simile idea? E questo nell’era delle rampe di lancio e dei veicoli spaziali. Con l’idea di ottenere un vantaggio sul Numero Dodici che stava incalzando, il Numero Undici esplose in una risata che sembrava l’abbaiare di un cane e che riecheggiò dalle pareti dell’aula quando venne introdotto il punto sette dell’ordine del giorno.
Il Numero Tre intervenne nella discussione nella solita maniera subdola e malvagia. Era privo di senso dell’umorismo come tutti quelli del K.G.B. Cominciò a spiegare in maniera piuttosto diffusa che da agenti operanti in Inghilterra sotto le spoglie di una ditta di traslochi erano arrivate informazioni particolareggiate. Fraintendendolo, e deciso a essere una volta tanto il primo, il Numero Undici sbuffò sonoramente nello stile di un cavallo che sta nitrendo.
Il Numero Tre continuò con una malvagità ancora maggiore, mettendo in rilievo che molti sforzi venivano compiuti nel campo delle ricerche riguardanti le comete sia negli Stati Uniti sia in Germania. I giapponesi, dei quali si sapeva che già stavano elaborando un ambizioso programma in questo campo, erano in procinto di potenziare i loro sforzi, secondo le segnalazioni ricevute. Tutto questo era accaduto subito dopo gli avvenimenti in Gran Bretagna, il che, secondo l’opinione dell’AOK (Disinformazione Extraterrestre), stava a dimostrare che gli avvenimenti in parola venivano presi sul serio. Fatte queste osservazioni, il Numero Tre aspirò con il naso in segno di disprezzo. Fu solo un rumore debole, ma ai membri del Politburo sembrò sonoro quanto la risata del Numero Undici.
Il Numero Due volle sapere a questo punto che cosa desse al Numero Tre la certezza di non trovarsi alle prese con un caso di disinformazione, un trucco per dirottare gli sforzi sovietici nel campo dell’alta tecnologia verso attività futili. «Ricordatevi», disse, rivolto a tutti i membri, «che i greci dicono la verità una sola volta all’anno.»
Il vecchio proverbio russo produsse un turbinio nella mente del Numero Dodici. Qui bisogna spiegare al lettore che mentre quasi tutte le società hanno inventato quattro o cinque classi per suddividere la gente, i russi ne hanno inventato un centinaio. Lo stesso Politburo era diviso in classi. I membri dal Numero Uno al Numero Undici venivano considerati «membri di pieno diritto», quelli dal Numero Dodici al Numero Diciannove si trovavano invece nella posizione inferiore di «candidati». Così, il Numero Dodici si trovava alla vigilia di un vero e proprio salto quantistico. Da ciò il lavorio mentale che provocò la sua immediata risposta al Numero Due, per cui il Numero Tre non ebbe il tempo materiale di rispondere — e in certo senso fu un sollievo.
«Mi viene in mente», disse il Numero Dodici, «che possiamo ridere quando vogliamo se ci facciamo il solletico.»
Al che, il Numero Undici esplose nella risata più sonora di quella mattina. Ma siccome nessuno si associò a lui, il Numero Undici seppe di aver fatto un altro sbaglio, per cui lo scroscio di risa morì in un singhiozzo, come se gli fosse improvvisamente venuto meno il fiato.
«Ciò che avevo in mente», continuò il Numero Dodici senza scomporsi, «è che possiamo volgere questa faccenda a nostro vantaggio senza rimetterci gran che.»
Qui si fermò. Il Numero Uno annuì e chiese: «Che cosa ha in mente?»
Il Numero Dodici cominciò a parlare lentamente, scegliendo con cura le parole: «Penso che se segnali intelligenti stanno arrivando sulla Terra dallo spazio, sarebbe una buona idea mandare qualche segnale da parte nostra. Sarebbe facile predisporre un veicolo che trasmetta un messaggio in forma intelligibile, un messaggio che «noi» possiamo decifrare, ma gli altri no».
«E in che cosa consisterebbe il vantaggio per noi?» volle sapere il Numero Tre.
«Il messaggio potrebbe contenere importanti implicazioni sociologiche.»
«Che sarebbero evidenti per la nostra gente che si troverebbe nella condizione di trarne vantaggio, anche se gli altri non dovessero farlo», convenne il Numero Uno.
Così, il Politburo riunito decise di lanciare una stazione spaziale con il compito di trasmettere alla Terra un’interpretazione marxista-leninista della società, della vita in genere, e dell’intero universo. Il Numero Dieci, che aveva avuto la disgrazia di tagliarsi quella mattina con il rasoio fabbricato in Francia, urtò inavvertitamente il puntolino di sangue rappreso per cui la ferita si rimise a sanguinare. Non ci sarebbe voluto molto, pensò mentre si tamponava la ferita, perché il Numero Dodici gli fosse alle calcagna, visto che il povero vecchio Numero Undici stava per essere estromesso. Il Numero Dieci fece ogni sforzo per richiamare alla memoria qualche proverbio che potesse stare alla pari con quello citato dal Numero Due, ma gliene venne in mente uno solo: «Nello stagno delle bugie nuotano solo i pesci morti».
«Non è ammissibile che dei civili siano coinvolti in una qualche forma di attività extraterrestre relativa a segnali intelligibili», disse il generale a cinque stelle al capo dell’amministrazione della NASA.
«Ma se non siamo ancora sicuri di aver a che fare con segnali intelligibili», ribatté con calma il capo della NASA, sperando che il vecchio adagio per cui le parole suadenti riescono a frenare gli impeti selvaggi si rivelasse rispondente a verità.
«Si tratti di comete o di qualsiasi altra cosa», insisté il generale a cinque stelle continuando con impegno a trarre sbuffi dal sigaro.
«Significherebbe interrompere un programma promettente», obiettò il capo della NASA, «nel quale gli inglesi e i tedeschi sono comunque già impegnati.»
«La capacità inglese equivale a zero e i tedeschi non si trovano in acque molto migliori. Così non ho preoccupazioni in quel campo», rispose il generale con voce sonora, fumando il sigaro pressappoco come il presidente della Federal Reserve, al cui tesoro il generale aspirava per finanziare il Pentagono, imitando in questo i suoi omologhi nell’Unione Sovietica.
«Secondo me, tanto varrebbe stabilire delle regole che definiscano esattamente la nostra posizione», continuò il capo della NASA con un tono conciliante che non corrispondeva ai suoi reali sentimenti.
Per il capo della NASA, il problema non era tanto quello di stabilire quale fosse la posizione della NASA nei confronti del Pentagono quanto di sapere che cosa ne pensasse la Casa Bianca. Il capo della NASA sospettava — ed ecco il motivo del suo ritegno e del fatto che era venuto al Pentagono con il cappello in mano su richiesta del generale, invece di dire al generale di venire lui alla sede della NASA se aveva da dirgli qualcosa — che la Casa Bianca doveva aver già preso una decisione a lui sfavorevole. Con le relazioni internazionali tese com’erano in quel momento, questo era più che probabile.
Dalla fine degli anni ’60 in avanti, l’unica vera ragione per consentire la sopravvivenza della NASA era rappresentata dalle indagini nel campo della scienza pura, benché, naturalmente, l’ente avesse compiuto ogni sforzo per inventare ogni sorta di attività pretestuosa. Ma né la scienza pura né le attività pretestuose si erano rivelate un valido baluardo contro l’invasione dello spazio da parte dei militari. I satelliti spia, con tutti i perfezionamenti che la definizione implicava, si erano rivelati così importanti nella lotta tra le superpotenze da far oscillare a favore del Pentagono l’ago della bilancia dello spazio prima pendente a favore della NASA. Come era accaduto già così spesso nel passato, un’attività iniziata per motivi in prevalenza di natura civile aveva finito per cadere vieppiù sotto il controllo dei militari, una situazione che si sarebbe sicuramente protratta per tutta la durata del confronto tra le superpotenze. Questa riflessione indusse il capo della NASA a domandarsi se una continuazione della lotta tra le superpotenze non fosse alle volte nell’interesse dei militari, sia negli Stati Uniti sia nell’Unione Sovietica.
«Mettiamo in chiaro una cosa», ribatté il generale, spazzando con il braccio l’ampia superficie liscia della scrivania, in maniera da far finire la cenere sul tappeto, «noi dobbiamo stabilire una netta separazione tra la «scienza», che io definisco come una sterile attività investigativa, e le comunicazioni intelligibili. Voi limitatevi alle indagini sterili e noi ci limitiamo alle comunicazioni. Tra noi non ci possono essere contrasti perché entrambi sappiamo qual è la nostra posizione. Va bene così?»
«Che ne sarà, allora, del programma in atto?»
«Voglio che venga congelato, finché non avremo avuto occasione di esaminare uno per uno i particolari», rispose il generale, e per sottolineare le sue affermazioni si mise a tamburellare con l’indice destro sul piano della scrivania. «E voglio che venga stabilito un cordone isolante attorno al personale e al materiale.»
Il capo della NASA parlò prima di rendersi conto di ciò che stava dicendo: «Ma noi abbiamo degli studiosi di nazionalità straniera che collaborano al progetto».
«Esattamente», annuì il generale, fissando con lo sguardo un mucchietto di cenere cadutogli dal sigaro. «R’ per questo che il cordone isolante dev’essere stabilito immediatamente, senza soluzione di continuità, dall’A alla Z. Darò un’occhiata all’elenco del suo personale non appena sarà in grado di trasmettermelo.»
La rabbia del capo della NASA esplose quando, tornato in sede, mise piede nel suo ufficio, per cui gli assistenti e le segretarie cominciarono subito a darsi freneticamente da fare per radunare cartelle e materiale di documentazione scientifica, fare telefonate che si moltiplicavano man mano che penetravano nella rete telefonica delle istituzioni della NASA disseminate negli Stati Uniti. Un collegamento venne stabilito quasi immediatamente tra la sede della NASA a Washington e il Goddard Space Flight Center, distante solo una ventina di chilometri, a Greenbelt, vicino al tratto nord-est della principale circonvallazione di Washington.
Dave Eckstein era un giovane barbuto sulla trentina, in possesso del raro dono naturale di fiutare subito che cosa c’è nell’aria. Accadde così che fu il primo ad apprendere la notizia. Si precipitò in un corridoio al quinto piano del palazzo Goddard e irruppe infuriato in un ufficio. «I militari prendono il comando.»
Frances Haroldsen sollevò lo sguardo dalla scrivania e disse: «E’ una voce o la notizia è vera?»
«E’ una notizia vera. Ne parlano tutti, nella sede. Lo sanno persino le segretarie. Sembra che ci sia una direttiva dalla Casa Bianca. Il che non mi sorprende, visto come vanno le cose. I militari si fregano ogni dollaro disponibile nel bilancio di quest’anno.»
«Che cosa faranno per prendere il comando?»
«Stabiliscono una specie di «cordon sanitaire» che terrà isolato tutto, compresa la gente. A te non succederà nulla, naturalmente, ma noialtri saremo imbavagliati, sembra.»
«Se dovessi avere l’occasione di pubblicare l’idea sull’interferometro, devo metterci ugualmente il tuo nome o no?» chiese Frances Haroldsen cominciando ad aprire con la chiave i cassetti di una piccola scrivania.
«Non vedo come possano fermarti, né come io possa essere rimproverato per quello che farai tu. Così direi di fare ciò che ti sembra più opportuno. A sentire loro, non siamo altro che una massa di spie e spazzatura del genere.»
Frances Margaret Haroldsen non stette a spiegargli che lei stava proprio facendo la spia. Era venuta negli Stati Uniti sei mesi prima per presentare l’articolo pubblicato dalla rivista «Nature», scritto da Mike Howarth, Kurt Waldheim, Isaac Newton e lei stessa, a una conferenza sulle scienze spaziali, tenuta a Houston nel Texas. Da qui era riuscita a ottenere a furia di moine un incarico temporaneo al Goddard Space Flight Center, dove aveva potuto seguire lo sviluppo del programma ideato dalla NASA per lo studio delle comete, con particolare riferimento alla cometa di Halley. Anche se questo l’aveva allontanata dal Progetto Halley in Inghilterra, le importantissime informazioni che era riuscita ad accumulare, soprattutto nelle ultime poche settimane, giustificavano ampiamente ciò che stava facendo. Oltre a ciò era riuscita a fare della disinformazione riguardo al progetto britannico. Secondo queste notizie fasulle, il progetto britannico rappresentava solo un tentativo di verifica dei risultati già conseguiti, non un esplicito tentativo di ritrasmettere informazioni dalla Terra alla cometa di Halley, un progetto che agli occhi dei militari sarebbe apparso ben più significativo e anche minaccioso che non il semplice ricevimento di segnali. Una cometa era, dopo tutto, un enorme missile, molto più grande di tutte le armi esistenti negli arsenali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Se una cometa fosse riuscita ad agganciarsi a una trasmissione radio proveniente dalla Terra, i danni che essa poteva arrecare al contatto con la Terra erano quasi inconcepibili. Sarebbe stata una superarma, dato il suo ordine di grandezza.
Frances Margaret guardò l’orologio al polso. «Senti, Dave», disse, «alle quattro ho un appuntamento con il dentista. Potresti essere tanto cortese da farti cambiare in spiccioli da qualcuno questo biglietto da cinque dollari? Devo fare un paio di telefonate. Dopo quanto mi hai detto, preferisco telefonare da fuori. E, tanto per essere sincera, ti consiglio di non esprimere le tue opinioni per telefono. Capisci ciò che voglio dire, vero?»
«La faccenda mi puzza, e mi puzza ancora di più se me lo dici così.»
«Puoi farmi cambiare i cinque dollari, per favore?»
Non appena ebbe allontanato Dave dall’ufficio, Frances Haroldsen vuotò il contenuto della borsetta in un cassetto, trattenendo solo il borsellino, le carte di credito, un piccolo taccuino, il passaporto e una penna. Nello spazio così resosi disponibile infilò tre nastri registratori le cui bobine avevano ognuna un diametro di circa 20 centimetri. Avrebbe voluto portarsi via una maggiore quantità di «materiale», come lo chiamava il generale a cinque stelle, ma la mole e la necessità di muoversi con rapidità escludevano qualsiasi oggetto più grande dei tre rulli. In famiglia aveva imparato che bisogna essere pronti ad agire in qualsiasi momento, in qualunque circostanza, e ora quest’abitudine dava i suoi frutti, pensò, mentre chiudeva a chiave la porta dell’ufficio e usciva nel corridoio.
Dave Eckstein la stava aspettando con una manciata di monetine che lei fece scivolare nel borsellino.
«Potresti accompagnarmi fino alla macchina, Dave?» disse poi. Quando l’ebbero raggiunta, Frances Margaret gli tese la mano: «Noi due non ci vedremo più per un pezzo, Dave. Così capirai che prendo la faccenda abbastanza sul serio. Del resto, dovresti prenderla sul serio anche tu, e anche tua moglie. Non manifestare a nessuno le tue opinioni. Se ti chiedono come mai sono scomparsa con tale rapidità, rispondi semplicemente che la notizia si era diffusa ormai in tutto il centro, che sarei stata davvero tonta se mi fosse sfuggita. Non preoccuparti troppo se tenteranno di ricattarti minacciando di farti perdere il lavoro. Tu puoi trovare lavoro ovunque — in Germania, in Inghilterra, in Francia o dove vuoi tu — perché l’idea dell’interferometro è davvero eccellente. La gente, una volta saputa la notizia della sua esistenza, non la dimenticherà. E lo sapranno tutti».
Poi lasciò in velocità il parcheggio con la sua General Motor Cutlass, una vettura alquanto più moderna delle auto d’epoca che i giovani ricercatori potevano di solito permettersi. Si lasciò alle spalle un giovane barbuto impensierito, un uomo che — guarda caso — non avrebbe potuto raggiungere il telefono del proprio ufficio prima che lei avesse già superato il controllo della polizia al cancello principale del centro. Certo Dave Eckstein, con le sue idee liberali e antimilitariste, non si sarebbe precipitato a propalare ai quattro venti l’affrettata partenza di Frances Margaret. Ma, sempre grazie a quanto aveva imparato in famiglia, Frances Haroldsen non correva rischi in faccende del genere.
Alla periferia della città di Greenbelt nel Maryland parcheggiò la macchina nel piazzale di un grande supermercato per monopolizzare poi per una ventina di minuti una cabina del telefono pubblico. Ritornò alla macchina solo dopo aver dato certe istruzioni molto esplicite — e che ricontrollò facendosele ripetere varie volte — a un contatto presso l’ambasciata. Poi, come colta da un ripensamento, entrò nel supermercato e acquistò un sacchetto pieno di cibi pronti.
Pochi minuti dopo aver lasciato il centro commerciale, Frances Margaret stava puntando con la macchina verso ponente sulla circonvallazione di Washington, lungo la quale proseguì fino alla sezione più occidentale, che lasciò in corrispondenza della strada nazionale n. 29. Dopo essersi diretta verso est e aver raggiunto Falls Church, entrò in un motel della catena Best Western, dove prese una stanza sotto il nome di Joanne B. L. Johnson, pagando in contanti. Parcheggiando nello spazio davanti alla propria stanza, notò poco più in là una vecchia automobile un tantino mal ridotta. Poiché sarebbe trascorso parecchio tempo prima di potersi godere un pasto cucinato a dovere, colse l’occasione per cenare alla svelta nel ristorante annesso al motel.
Erano circa le sette di sera — faceva buio da circa due ore — quando qualcuno bussò alla porta della sua stanza. Nel riquadro c’era un giovane dell’età di Frances Haroldsen. Poiché il giovane doveva essere arrivato con la grande berlina con targa diplomatica ferma fuori, si trattava evidentemente del contatto che lei aveva fatto venire dall’ambasciata telefonando dal supermercato nei pressi di Greenbelt. Nonostante ciò, Frances Margaret prese la precauzione di controllare i documenti di identità del giovanotto.
«Mi chiamo Tim Bassett», spiegò questi, benché la precisazione fosse superflua. «Abbiamo preso i biglietti», soggiunse. «Lei dovrà prendere il volo delle ventuno e cinquanta dal National Airport fino a Miami, dove si unirà a una comitiva in volo charter, di ritorno a Londra.»
Frances Haroldsen estrasse uno dei tre nastri dalla borsetta e gli disse: «E’ importante che questo rullo prosegua con la valigia diplomatica. Lei dovrà portarlo direttamente all’ambasciata non appena se ne andrà da qui».
«Dobbiamo andarcene insieme, in maniera che io possa portarla all’aeroporto. Qualcuno verrà a prendere la sua macchina domattina.»
Frances Margaret si diresse allora verso il telefono e compose rapidamente un numero, dal che Tim Bassett dedusse che stava chiamando un’altra stanza del motel. L’attimo dopo qualcuno bussava alla porta. Tim Bassett balzò in piedi per aprirla e si vide davanti una ragazza dai capelli biondi molto simile a Frances Margaret.
«Le presento Maisie Cooke», fece Frances Margaret. «Come può constatare, è una mia sosia.»
«Che cosa ha in mente?» chiese Bassett alquanto perplesso quando la porta fu di nuovo chiusa.
«Per una combinazione del destino, Maisie lavora qui a Washington per qualche mese. Mi sostituirà. Voglio dire che andrà a Miami e che si unirà alla comitiva del volo charter al mio posto. Non mi consideri troppo cinica, ma…»
«Crede che ci sia qualche infiltrazione?» chiese Bassett, incredulo.
«Sarà in grado di scoprirlo, non le pare? Penso che tutto andrà bene, ma non voglio correre rischi. Lei e Maisie dovrete andare all’ambasciata con il nastro. Poi potrete andare direttamente al National Airport. Okay?»
«Peccato non poter aspettare qui. Così avremmo potuto goderci un paio di orette a letto, non ti pare, ragazzo mio?» fece Maisie lanciando un’occhiata lasciva a Tim Bassett. «Ammettendo che tutto vada per il verso giusto e che non finirò in galera, voglio il ritorno in prima classe.»
«Ma la rintracceranno. Attraverso la macchina, la targa!» fece Bassett quasi gridando, rivolto a Frances Haroldsen.
«Non lo faranno perché l’ho cambiata. Su, andiamo, ragazzo», disse Maisie, cingendo con il braccio il giovanotto, «se facciamo presto potremo restare per qualche minuto stretti stretti in macchina all’aeroporto.»
Frances Haroldsen partì con la Cutlass dopo essersi assicurata che Maisie avesse fissato bene la targa tolta dalla macchina malridotta. Procedeva a velocità moderata perché non aveva fretta. Ritornata alla circonvallazione, proseguì fino all’angolo nord-ovest, per prendere poi la nazionale 270 in direzione ovest. La 270 confluì dopo circa un’ora nella nazionale 70. Dopo altri centosessanta chilometri, Frances Haroldsen svoltò direttamente a nord per prendere la nazionale 219. Era quasi mezzanotte quando arrivò ad un paese chiamato Du Bois dove s’infilò di nuovo in un motel. Invece di prendere una stanza, parcheggiò la macchina nel posto più buio che riuscì a trovare e si sistemò sul sedile posteriore, con le porte chiuse a chiave, per dormire come poteva.
Si rimise in viaggio prima dell’alba, puntando sempre a nord sulla nazionale 219. Procedeva lentamente, mangiando il cibo che aveva comprato il pomeriggio del giorno prima. Erano le nove e mezzo del mattino quando parcheggiò la macchina nel cortile di un alto palazzo al centro della città di Buffalo. Dopo aver prelevato dei soldi, di cui cominciava a essere a corto, con una carta di credito dell’American Express, chiamò un taxi e disse all’autista che intendeva fare una gita per visitare il versante canadese delle Cascate del Niagara. Mezz’ora più tardi era già nel Canada senza aver incontrato la minima difficoltà. Si trattava di un’escursione che centinaia di persone facevano ogni giorno, persino senza passaporto. Era molto probabile che fosse riuscita a farla in barba al mondo ufficiale, ma d’altra parte c’erano ragioni a bizzeffe per non correre rischi con i nastri. Quello che aveva consegnato a Tim Bassett non era inciso.
John Jocelyn Scuby si calò nella grande poltrona nera dell’ufficio di Isaac Newton e disse: «Sono preoccupato, professor Newton».
«Pensavo piuttosto che fosse felice grazie alla nostra recente prosperità», ribatté Isaac Newton.
«No, no. Quando i tempi sono brutti, uno ha ragione di preoccuparsi. Ma quando tutto va bene, è il momento di essere molto preoccupati.»
«Come sarebbe a dire?»
«Perché è quando si ha il vento in poppa che nascono le speranze. L’esperienza insegna che maggiori sono le speranze e maggiori sono le delusioni che vengono dopo.»
«Così sono i nostri costi e contributi addizionali che stanno all’origine delle sue gravi preoccupazioni, signor Scuby?»
«Non i costi. I costi sono una voce che non fa sorgere dubbi e il General Board non troverà da ridire, spero. Benché non si può mai sapere quali obiezioni un membro o l’altro del consiglio potrà avanzare, come ho imparato negli anni passati. No, il problema sono le addizionali.»
«Non intravedo per il momento alcun problema.»
«Si tratta di stabilire come intende impiegare le somme messe a disposizione.»
«Spendere i soldi nel rinnovo delle attrezzature e nella creazione di una riserva speciale, direi. Per essere sincero, finora non mi sono occupato a fondo della questione.»
«Spero che non contempli un aumento del personale.»
«Io «contemplo» un aumento del personale, signor Scuby. Ma un incremento che «non» dev’essere finanziato da qualcosa che si potrebbe definire un colpo di fortuna. Nella contabilità del povero quale sono io, i colpi di fortuna non devono essere utilizzati per prendere impegni per il futuro», osservò Isaac Newton.
Sulla faccia di Jocelyn Scuby comparve l’accenno di un sorriso. «Ah! Allora siamo d’accordo sul primo punto preso in esame. Lei sarebbe sorpreso se le raccontassi quanti problemi per l’Università sono sorti in seguito a incarichi conferiti in base a finanziamenti di durata limitata.»
«Sarebbe un po’ come prestare a lunga scadenza prendendo a prestito a breve scadenza?»
«Esattamente», annuì Scuby, «ma lei sarebbe altrettanto sorpreso se le raccontassi quanta gente cade in questa trappola.»
«C’è un’altra cosa di cui voleva parlarmi?»
«Si tratta di una questione un tantino delicata.»
«Spero che non mi farà arrossire.»
«Beh, questa faccenda delle entrate addizionali mi lascia sempre più perplesso.»
«Sì?» chiese Isaac Newton in tono asciutto, con l’aria di chi sa già che cosa aspettarsi.
Scuby, imbarazzato, si spostò da un lato all’altro della poltrona e proseguì: «Si potrebbe sostenere che una frazione dei vostri profitti venga devoluta all’Università. Ecco, vede, molti nostri istituti che non godono dello stesso peso, della stessa forza del suo si rivolgono a noi. Lei non se la prende se sollevo la questione, spero?»
Isaac Newton rifletté qualche attimo, e disse poi: «Il fatto che lei sollevi la questione è in fondo giustificato da buone ragioni. Il laboratorio non potrebbe esistere da solo, ma vive in quanto appartiene all’Università. Non mi ha detto una volta che le spese generali dell’Università ammontano a qualcosa come il cento per cento?»
«Sì, credo di averglielo detto.»
«Beh, che ne direbbe se facessimo a metà?»
Un’espressione sbalordita si diffuse sulla faccia di Jocelyn Scuby che, alzando la mano, esclamò: «Ma io stavo pensando ad un settantacinque/venticinque».
«Il settantacinque per cento all’Università?»
«No, no, il venticinque per cento.»
«Non riesco a capire bene», disse Isaac Newton picchiando la matita sulla scrivania come faceva spesso per sottolineare ciò che stava per dire. «Se la proporzione è di uno a uno nelle spese generali, dovrebbe essere di uno a uno anche nei profitti. Il principio, penso, è più importante dei soldi.»
Il sorriso sulla faccia di Scuby si allargò nonostante il poderoso sforzo che stava facendo per sopprimerlo. Tutto confuso, si alzò dalla poltrona.
«Ha un’idea di quanto potrà durare?»
«Di sicuro c’è solo la breve scadenza. Ma le ultime notizie venute dagli Stati Uniti sembrano piuttosto favorevoli, sono contento di poterglielo dire.»
«Beh, me ne vado», annuì Scuby, «e grazie per… avermi detto la sua opinione.»
Un’ora più tardi, Isaac Newton alzò gli occhi dal foglio con i particolari dello schema della trasmittente, che stava controllando augurandosi che fosse l’ultima volta.
«Buon Dio, sei tornato!» esclamò mentre Boulton, il titolare di Geostrofica, irrompeva nella stanza, evitando come sempre il percorso normale attraverso l’ufficio della signora Gunter.
«Ah, sono contento di averti trovato», cominciò Boulton. «Ero preoccupato per la casa.»
«E’ ancora in piedi.»
«Mi stavo domandando per quanto tempo ti sarebbe ancora servita. Proprio in questo momento stanno succedendo tante cose, lo scandalo che avete avuto qui e le perforazioni nel Mare d’Irlanda. Ho assistito all’inizio della trivellazione. Sei deciso, adesso, a comprare le azioni? Io vendo le mie.»
«Com’è andata in California?» chiese Isaac Newton.
«Si parla molto delle comete. Sembra che la NASA non le abbia trovate molto comunicative.»
«Quando hai sentito questa novità?»
«Proprio al momento di partire. C’è stato un grosso seminario su questa faccenda, al quale ha partecipato un mucchio di gente. Qualcuno era appeso addirittura ai candelabri. A proposito, come sta il gatto?»
«Va e viene.»
«Non credi che dovresti pagarmi un supplemento per la casa?»
«Per quale motivo?»
«Per via della brutta fama. Immagino che gli abitanti della Adams Road si siano abbastanza agitati con tutto quello che hanno continuato a scrivere i giornali. Sarà un po’ imbarazzante per me. A proposito: quando pensi di andartene?»
«Quando scade il contratto.»
«Temevo già in partenza che avresti voluto rimanere. Non trovi che le fondamenta diano un po’ fastidio?»
«Da principio me lo davano, ma ora aspetto addirittura con impazienza i fenomeni notturni.»
«Dimmi che ripenserai alla faccenda del supplemento. Voglio dire, ci vorrà un po’ di tempo per rimettersi sui binari, ritornare alla normalità.»
«Sì, prenderò volentieri in considerazione l’idea del supplemento.»
«Se fossi in te terrei d’occhio quella gente della NASA. Sono nel ramo da molto tempo. Potresti trovarti un bel posticino, da loro. Non il tipo di posto che piacerebbe a me, con quella gente che ti è amica quando tutto va bene. A quanto potrebbe ammontare secondo te un ragionevole supplemento? Non vorrei fare il prepotente.»
«Venti sterline sarebbe una cifra abbastanza giusta, la somma che ti sei fatto prestare dalla nostra cassa per le piccole spese e che non hai restituito», disse Isaac Newton. «A proposito», soggiunse, «mi sono preso la briga di dare un’occhiata al tuo problema delle fondamenta. Se fossi in te me ne occuperei subito. Altrimenti non può che peggiorare.»
Mentre Boulton se ne andava entrò la signora Gunter.
«Che cosa succede stamattina, professore? Il signor Scuby è uscito che sembrava in trance, e adesso il professor Boulton se ne va come se lei gli avesse appena sfilato il portafoglio dalla tasca.»
«Spero di non aver arrecato a Scuby un danno irreparabile offrendogli più soldi di quanti si aspettava. E anche per avergli dato speranze per il futuro. Il professor Boulton, invece, deve fare iniezioni di cemento. D’urgenza.»
«Che cosa deve fare, professore?»
«Pompare del cemento nelle fondamenta della sua casa.»
«Quello ha bisogno di pompare cemento nelle proprie fondamenta, se vuol saperlo», concluse la signora Gunter.
«Ahi!» gridò il rettore del Trinity College. «Dannata caffettiera d’argento! Mi scotto tutte le volte», disse al Cancelliere mentre ritornava con passi strascicati dalla credenza dove si trovava la piastra elettrica. Questo accadeva nel soggiorno dell’alloggio del rettore mentre il padrone di casa stava servendo due tazze di caffè come si devono bere nella tarda mattinata.
«Il che mi fa venire in mente che devo proporle un complotto», soggiunse il rettore. «Sono arrivato alla conclusione che lei e io siamo gli uomini giusti per monopolizzare la produzione mondiale dell’argento.»
Si udì bussare alla porta e il rettore balzò di nuovo in piedi. «Ah!» fece con voce tonante. «Ecco Newton Brutte Notizie. Che cos’è andato storto oggi, se mi è concesso di chiederlo?»
«Nulla, per quanto io sappia, rettore. Ah, buongiorno, Cancelliere», salutò Isaac Newton.
«Ho pensato di fare colazione con voi due. Noi tre da soli e basta», spiegò il rettore, «perché il Cancelliere ha certe preoccupazioni di cui vorrebbe parlare. Vogliamo lasciare il caffè e passare allo sherry?»
«Secco per me, rettore», precisò Isaac Newton. «Di quali preoccupazioni si tratta, se posso chiederlo?»
«Oh, niente! Solo che trovo seccante questo crescendo di smentite proveniente dagli Stati Uniti», disse il Cancelliere.
«Di che cosa si tratta?» chiese il rettore immediatamente.
«C’è una specie di campagna orchestrata secondo la quale la NASA non ha trovato nulla, nessun segnale proveniente dalle comete. Ne parla la rivista «Nature» di questa settimana nella rubrica ’Notizie e Opinioni’ — naturalmente senza firma. Inoltre, sembra, c’è gente che organizza seminari in giro negli Stati Uniti», spiegò Isaac Newton.
«Ma io credevo che lei mi avesse detto…» cominciò il rettore.
«… che la NASA aveva scoperto circa un mese fa segnali provenienti dalla cometa di Halley? Li ha effettivamente scoperti. Noi conosciamo la lunghezza d’onda dei segnali della cometa di Halley che loro hanno captato e anche il sistema delle pulsazioni. Entrambi sono un tantino diversi da quelli che abbiamo scoperto nel caso della cometa di Boswell. Comunque, la notizia ci ha fatto molto piacere.»
«Non l’avete fraintesa, per caso?» chiese, sempre cauto, il Cancelliere.
«Non c’è la minima possibilità. Secondo Kurt Waldheim esiste la prova convincente che i segnali provenivano effettivamente dalla cometa di Halley. Inoltre, l’informazione è stata da noi ottenuta direttamente dal centro dell’organizzazione NASA», rispose Isaac Newton con sicurezza.
«Ma perché dovrebbero fingere ora che le cose sono andate diversamente?» domandò il rettore.
«Perché recentemente la NASA ha dovuto cedere il programma ai militari. I militari devono aver pensato che bisognava anzitutto bloccare ogni cosa, e devo dire che non hanno perso tempo.»
«Potrebbe spiegarmi come hanno fatto a muovere tante pedine?» chiese il Cancelliere.
«Se interrompessimo per un attimo la discussione?» interloquì il rettore. «Ho ricevuto il segnale che la colazione è pronta. Perché non andiamo in sala da pranzo a scoprire che cosa hanno combinato in cucina?»
A un’estremità della lunga tavola nella sala da pranzo erano stati preparati tre posti con molte posate e tre tipi di bicchieri per vino, tanto per essere in sintonia con la reputazione del rettore considerato un «bon viveur». Un cameriere servì il primo dei tre vini mentre gli ospiti cominciavano a mangiare la prima portata, un piatto di bianchetti.
«Ho chiesto alla mia segretaria di raccogliere le segnalazioni riguardanti la faccenda», continuò Isaac Newton rispondendo al Cancelliere. «Per prima cosa ho notato che non c’è stata alcuna dichiarazione ufficiale della NASA. Tutto consiste in allusioni, quasi tutte prive di firma, oppure in notiziole passate ai giornalisti. In linea di massima, qualsiasi organizzazione provvista di fondi illimitati riesce a smuovere molte pedine.»
«Perché mai degli scienziati si prestano a fare cose del genere?» chiese il rettore, deponendo il bicchiere e facendo segno a un cameriere di riempirlo.
«Perché mettono troppa carne al fuoco. Le università incoraggiano la propria gente ad assicurarsi finanziamenti per le ricerche e contratti. Poi vengono formati i gruppi di ricerca con segretarie e tecnici, molti con moglie e famiglia. Quando la pressione aumenta, il capo di un simile gruppo non è in grado di resistere.»
«Qual è la soluzione?» volle sapere il rettore.
«Restare poveri, ma onesti. Nella scienza sperimentale, il guaio consiste nel fatto che i poveri hanno tutte le probabilità di restare sconosciuti.»
«Sapevo che lei era piuttosto critico nei confronti del finanziamento della scienza», annuì il Cancelliere, «e ora comincio a capire perché. La lingua batte dove il dente duole… Se le venisse chiesto di smentire tutte queste segnalazioni, sarebbe in grado di farlo?»
«Certo, con facilità. Ecco, vede, noi siamo in possesso non solo di informazioni provenienti dalla NASA, ma anche delle registrazioni dei segnali che la NASA ha ricevuto, o almeno di una parte di essi.»
«Come…» cominciò il rettore.
«Non mi chieda come abbiamo fatto, rettore», rispose Isaac Newton, scuotendo la testa.
«Fra tre settimane avremo una riunione al vertice. Sono certo che al Primo Ministro farebbero comodo le sue smentite. Non per servirsene, ma per esserne in possesso», continuò il Cancelliere.
«Sì, e fra sei settimane avverrà il nostro lancio.»
«Anche così ne varrebbe la pena», annuì il Cancelliere.
«Sono un po’ seccato con la rivista «Nature» per avere pubblicato simili sciocchezze, ma, come ha detto Alan Bristow, una metà dei loro abbonati si trova negli Stati Uniti. E il bello è che parlava dei perniciosi effetti delle voci. Le chiamava ’voci vigorose’», osservò Isaac Newton.
«’Aprite le orecchie’», tuonò il rettore, «’poiché chi di voi chiuderà le vie dell’udito quando son voci vigorose che parlano? Io, facendo del vento il mio messaggero, comincio a dispiegare da oriente a occidente le gesta compiute su questa sfera terrena; la mia lingua continua a pronunciare calunnie che esprimo in ogni idioma, colmando di false notizie le orecchie degli uomini.’ Ma perché voci vigorose dovrebbero esprimersi in quel senso? Ammettiamo pure che esista una certa tensione tra la NASA e i militari degli Stati Uniti, ma ai militari che cosa importa di questa faccenda?»
Isaac Newton rifletté per un attimo e poi rispose, parlando più lentamente del solito: «Beh, immagino che in ogni professione si reagisca istintivamente. Il suo istinto, rettore, la induce a citare Shakespeare. Il mio mi spinge a chiedere fatti sperimentali. Quello del Cancelliere è di domandarsi quale sarà l’effetto sulla gente. I militari riflettono per istinto in termini di capacità distruttive. E la capacità distruttiva del solo frammento di una cometa, se dovesse colpire la Terra, supererebbe quella delle bombe H da un milione di megaton. In un’evenienza del genere sarebbe molto importante, per i militari americani, che l’impatto si verificasse nell’Unione Sovietica, mentre per i militari sovietici sarebbe altrettanto importante che esso avvenisse negli Stati Uniti».
Gli uomini del servizio di sicurezza, dislocati nei punti strategici lungo la strada da Saint Moritz fino al Passo del Maloja e poi attraverso la Val Bregaglia fino a Chiavenna, e da qui fino alla stretta rotabile tra le montagne e il Lago di Como, sarebbero saltati all’occhio di qualche osservatore esperto, ma non della gente di passaggio. Né la gente di passaggio aveva motivo di preoccuparsi di cose simili, visto che avrebbe potuto apprendere dai mass media tutto ciò che stava bollendo in pentola. La riunione al vertice aveva luogo in una villa situata in una splendida posizione sulla sponda orientale del Lago di Como, nei pressi di Varenna. La riunione presentava un aspetto un tantino insolito riguardo alla sua composizione. Non era una riunione ufficiale della NATO perché da un convegno della NATO sarebbe rimasta esclusa la Francia, ma non era nemmeno una riunione ufficiale della Comunità Europea perché in tal caso ne sarebbero rimasti esclusi gli Stati Uniti.
Ogni ministero degli esteri europeo, come pure le massicce torme di dipendenti del governo a Washington, si era opposto strenuamente all’organizzazione del vertice in un posto simile. Le motivazioni da tutti addotte, messe per iscritto, avrebbero riempito lo scaffale di una biblioteca. C’era comunque un motivo più importante di ogni altro che obbligava qualunque burocrate con il cervello a posto a opporsi a questa riunione con un urlo degno di un allarme aereo: lo spazio tra le montagne e il Lago di Como è così ridotto che i paesi sono piccoli e privi delle ampie strutture alberghiere necessarie per alloggiare le varie migliaia di funzionari che normalmente partecipano a questi convegni. Peggiore ancora, dal punto di vista dei funzionari, era il sospetto, o addirittura la certezza, che quella località era stata scelta di proposito dagli uomini politici per ridurre il numero dei burocrati che avrebbero potuto partecipare al vertice, consentendo in tal modo che almeno qualche lavoretto venisse portato a termine.
Poiché la Svizzera è un paese ordinato, tutti i leader politici raggiunsero in volo l’aeroporto di Zurigo da dove vennero trasferiti in macchina, passando per Saint Moritz, al confine italiano nei pressi di Chiavenna e da qui al Lago di Como. Gli esperti di misure di sicurezza avevano considerato meno pericoloso questo percorso che non quello passante per Milano. Le misure di sicurezza possono essere infatti rese molto più efficaci in presenza di un percorso stretto e facile da sorvegliare che non in una regione vasta con una grande rete stradale.
Isaac Newton e Frances Haroldsen passarono comunque per Ginevra. Lo scopo della loro presenza al vertice era quello di rassicurare il Primo Ministro britannico per quanto riguardava la realtà dei segnali provenienti dalle comete. Tutto ciò in vista delle osservazioni denigratorie indirizzate pubblicamente o privatamente al Primo Ministro, e provenienti da fonti americane in seguito ai cambiamenti avvenuti nella politica spaziale degli Stati Uniti — il trasferimento della responsabilità per il Programma Cometa Halley dalla NASA al Pentagono.
Il professore e la ragazza vennero accolti all’aeroporto di Ginevra da Kurt e Rosie Waldheim e portati in macchina allo châlet dei Waldheim a Wengen, nella valle del Lauterbrunnen. Siccome c’era ancora neve sulle montagne, la comitiva si servì degli ski-lift per trascorrere una giornata sugli sci prima di occuparsi dei particolari delle più recenti scoperte di Kurt Waldheim, scoperte emerse dai nastri fatti uscire di contrabbando dagli Stati Uniti a opera di Frances Haroldsen.
Quella sera, dopo cena, davanti al camino acceso, Kurt Waldheim disse: «Beh, è interessante che la cometa di Halley non si serva di punti decimali, perché ha un’unità di tempo molto minore e anche un’unità di distanza più piccola dell’altra cometa. Così, tutto è arrotondato a numeri interi».
Isaac Newton sapeva per lunga esperienza che non bisognava sollecitare Kurt Waldheim ad affrontare l’argomento principale. Così si accontentò di chiedere: «Vorrei sapere se l’unità di tempo si trova in qualche rapporto con il periodo di rivoluzione della cometa di Halley intorno al Sole, che è di circa settantasei anni, se non sbaglio».
«Combinando le unità al quadrato e aggiungendo pi-greco potresti sempre ritrovarlo, immagino.»
«Oppure, l’unità di tempo potrebbe essere messa in relazione con la rotazione della cometa di Halley», interloquì Frances Margaret.
«Ma la cosa buona è il calcolo di interferenza inventato dalla qui presente Frances Margaret e dal suo collega americano Eckstein, il quale a quest’ora è stato probabilmente già spedito in Alaska o in qualche altro posto del genere», continuò Kurt Waldheim, leggermente canzonatorio come d’abitudine.
«Non ero sicuro della purezza del segnale riflesso dalla ionosfera», osservò Isaac Newton.
«E’ un problema meravigliosamente complesso», annuì Kurt Waldheim.
«Che farebbe venire il mal di testa a qualsiasi persona ragionevole», soggiunse Frances Margaret.
«Ci troviamo infatti in presenza di tre processi distinti che provocano un cambiamento nello schema di interferenza tra il segnale diretto proveniente dalla cometa e il segnale riflesso dalla ionosfera», continuò Kurt Waldheim.
«Ne sono perfettamente convinto», annuì Isaac Newton con un sorriso che parve quasi una smorfia.
«La variazione più rapida deriva dal moto del satellite stesso. Poi c’è un cambiamento nel segnale riflesso in relazione all’ora della giornata. E oltre a tutto questo c’è una lenta variazione risultante dal moto della cometa. Il problema è…»
«… di mettere un po’ di ordine in questi fenomeni, renderli comprensibili.»
«Tu anticipi sempre le mie conclusioni, Isaac», esclamò Kurt Waldheim, scuotendo la testa in segno di disapprovazione. «Il calcolo sarebbe elementare e non molto interessante», proseguì, «se venisse effettuato direttamente. Per fortuna, tutto può essere fatto a ritroso. Invece di cominciare con la cometa di Halley e puntare sui segnali attesi, va benissimo cominciare con i segnali osservati per trovare poi la posizione e il movimento della loro fonte. Un bellissimo calcolo, sottile e laborioso.»
«Posso immaginarlo. Così hai trovato che la fonte dev’essere la cometa di Halley?»
«Non ho appena detto che mi anticipi sempre! Perché non sei un po’ più paziente, Isaac?»
«Perché i miei benefattori politici non mi danno tregua. Gli americani, vedi, hanno ingranato la retromarcia in tutta questa faccenda.»
«Perché?»
«Per illudere i contribuenti, immagino; per il bene dei cittadini, come direbbero.»
«Continuo a non capire il perché», ripeté Kurt Waldheim. «Il mondo è fatto com’è fatto e nulla di quanto i governi facciano può cambiarlo.»
«Questo è il vero problema», rispose Isaac Newton in tono serio. «In politica, il mondo è fatto come la gente lo immagina. Anche nella scienza, il mondo è fatto come la gente immagina, in ogni caso a breve scadenza, per quanto riguarda i finanziamenti delle ricerche e le pubblicazioni accettabili nella letteratura scientifica. In realtà pochissima gente si rende conto dell’esistenza di un’autentica verità nel mondo, una verità indipendente dalle opinioni ed emozioni umane.»
«Io non la penso così», ribatté Kurt Waldheim, di nuovo con una nota di disapprovazione nella voce.
«In realtà», interloquì Frances Haroldsen, «quello che non si ammette è che un gruppetto di scienziati possa avere un ruolo determinante in un’impresa che potrebbe rivelarsi più che spettacolare. Questo era il problema di Mike Howarth. Non contava abbastanza per spuntarla neppure in Inghilterra. Quando noi abbiamo cominciato a occuparci della faccenda la posta è stata alzata tanto da mettere in moto il processo su scala ridotta sotto forma di un progetto anglo-tedesco, ma non sotto forma di un progetto da superpotenza. Ora, con i militari al comando in entrambe le superpotenze lo scopo è di screditarci, di cancellarci dalla faccia della terra, in maniera che le cose possano progredire, se progrediscono, dirette da mani secondo loro più affidabili.»
«Un discorso solenne, il tuo, Frances Margaret», brontolò Kurt Waldheim. «Qual è, allora, la nostra posizione?»
«La nostra posizione può considerarsi forte o debole — dipende dal punto di vista — quanto quella di due uomini politici inglesi di primo piano, che in questo momento sono sotto tiro per aver aderito a un progetto che viene considerato una follia», rispose Isaac Newton.
«Ma noi abbiamo le prove! Prove irrefutabili!» lo interruppe Kurt Waldheim quasi gridando. «L’analisi particolareggiata degli schemi di interferenza ci fa conoscere l’orbita della fonte all’origine dei segnali captati dalla NASA, quelli portati dagli Stati Uniti da Frances Margaret. La posizione della fonte e la sua orbita corrispondono alla posizione e all’orbita della cometa di Halley. Non ci può essere il minimo dubbio in proposito.»
Isaac Newton si alzò dalla sedia. Con la schiena rivolta verso il fuoco nel caminetto, annuì e disse: «Il che ci dà il tempo per respirare. Avremo modo di occuparci della cometa di Halley anche noi, senza dubbio; magari a più riprese. Ma a un certo punto saremo costretti a fornire una specie di dimostrazione pratica. Possiamo far su un po’ la gente con argomentazioni e calcoli, ma solo un po’. Ciò, però, di cui abbiamo bisogno è qualcosa che sbalordisca e convinca definitivamente, qualcosa che metta l’opposizione con le spalle al muro».
«Non vedo come si possa farlo», osservò Kurt Waldheim, scuotendo la testa per sottolineare i suoi dubbi.
«Anch’io temo, purtroppo, di non vedere una soluzione», ammise Isaac Newton. «Speriamo che il mio pessimismo sia eccessivo.»
Da Wengen raggiunsero in macchina Andermatt e da qui, passando per il Gottardo, Bellinzona e Lugano. Da Lugano imboccarono la strada diretta a sud, attraversando la frontiera italiana a nord di Como. Dopo un’altra ora di macchina arrivarono nella località dove doveva aver luogo il vertice.
Il problema della sicurezza era una questione della massima importanza per il vertice, sia dal punto di vista personale per i partecipanti sia a livello internazionale. Si trattava infatti di un incontro che l’Unione Sovietica avrebbe avuto tutto l’interesse di impedire poiché l’argomento principale in discussione doveva essere una proposta sovietica per la «finlandizzazione» della Germania, epiteto nient’affatto lusinghiero né per la Finlandia né per la Germania. Era una questione che affiorava a tratti da oltre un decennio. I sovietici dovevano offrire la riunificazione delle due Germanie in cambio della smilitarizzazione della Germania così riunificata. Nell’Occidente c’era parecchia gente che vedeva nella creazione di un cuscinetto smilitarizzato tra le due superpotenze e i loro alleati una buona cosa. Altri però — ed erano tanti — vedevano nella proposta un trucco che doveva consentire all’Armata Rossa di raggiungere con un’unica mossa la frontiera occidentale della Germania riunificata, e di farlo senza colpo ferire.
Fu verso la fine di una infuocata seduta mattutina, una seduta consistita nella sobria descrizione della situazione strategica da parte del comandante in capo della NATO, che il Presidente americano fece una dichiarazione. Presiedeva alla riunione il capo di stato francese.
Il Presidente americano disse: «Se mi permette, signor Presidente, vorrei fare un piccolo annuncio. Si tratta di una questione di scarsissima importanza che secondo me potrebbe essere gradita dopo le difficoltà emerse durante la riunione di stamattina. Come tutti sanno, un celeberrimo corpo celeste, la cometa di Halley, si sta avvicinando alla Terra. Ciò che ho da dire è che segnali radio di un tipo organizzato, provenienti dalla cometa di Halley, sono stati scoperti dal personale scientifico del Goddard Space Flight Center sotto la direzione della professoressa Helen Salome Johnson».
«Dev’essere senz’altro una «femme fatale»», interloquì all’istante il Primo Ministro britannico a voce alta e chiara. Quando le risate si furono spente, egli continuò: «Segnali radio di un tipo organizzato sono stati scoperti vari mesi fa in Gran Bretagna. Provenivano non dalla cometa di Halley bensì dalla cometa di Boswell. Come tutti sanno, naturalmente, Boswell viene prima di Johnson».
Quel giorno, dopo la seconda colazione, il Cancelliere tedesco stava passeggiando nel parco della villa con il Presidente francese.
«Perché il Primo Ministro britannico è sempre tanto polemico?» chiese il Presidente francese.
«Forse dipende dal tempo. Ho conosciuto una volta un inglese il quale era dell’opinione che l’Inghilterra avesse il clima migliore del mondo», rispose il Cancelliere tedesco in tono cupo.
«Ecco il peggiore voltafaccia al quale mi sia mai capitato di assistere. E lo chiama un piccolo annuncio!» fece il Primo Ministro britannico con aria disgustata.
«Il che significa che siamo in testa solo di poco. Ed è un vero peccato», rispose Isaac Newton.
«Perché hanno voltato gabbana in questo modo?»
«Una volta risolta la controversia tra la NASA e il Pentagono, si devono essere accorti che non aveva senso congelare la situazione, tanto più che sanno che noi continuiamo per la nostra strada senza guardare in faccia a nessuno. Così, la soluzione migliore è stata quella di cambiare atteggiamento, per fregarci poi una volta arrivati al traguardo.»
«Quale traguardo ha in mente lei?»
«Magari avessi le idee chiare per rispondere a questa domanda, Primo Ministro. La meta ovvia è quella di indirizzare la prima trasmissione alla cometa di Halley. Quello che accadrà poi è un’altra questione. Se non otteniamo una qualche risposta, tutta l’iniziativa apparirà un po’ priva di senso.»
«Che risposta potrebbe esserci?»
«Non riesco a immaginarla. Tuttavia continuo a ripetere a me stesso che i segnali, tanto per cominciare, non sarebbero mai arrivati se quelli lassù non avessero l’intenzione di stabilire una specie di dialogo.»
«Secondo lei, tutta questa faccenda è razionale», osservò il Primo Ministro.
«Suppongo che sia la mia fede nella scienza.»
«E quanto dovremo aspettare?»
«Ventitré giorni fino al conteggio alla rovescia, supponendo che tutto vada bene.»
Dopo tutti i minuziosi preparativi per sventare un attacco dalla direzione opposta, Frances Haroldsen era ancora più seccata dal voltafaccia americano che non il Primo Ministro britannico. Senza curarsi della piccola folla che stava intorno al Presidente americano e senza aspettare una pausa nella conversazione, la ragazza partì all’attacco con il tono di voce più alto di cui fu capace: «Il suo annuncio è molto coraggioso, signor Presidente. Specialmente visto che quest’anno ci sono le elezioni».
Il richiamo alle elezioni destò l’attenzione del Presidente. «Perché un anno di elezioni dovrebbe essere importante?» chiese aggrottando le sopracciglia.
I numerosi presenti erano sbalorditi dalla facilità con cui la spavalda ragazza aveva troncato di netto, come un coltello che taglia il burro, i maldestri tentativi degli altri per intavolare una conversazione con il Presidente.
«Beh, non «vorrà» certo che i media vengano a saperlo, le pare?» continuò Frances Margaret. «Voglio dire, lei non vorrà certo che la «Casa Bianca» venga «frequentata» da UFO e «comete». Non con tutti i «cartoons» nei mass media. Quelli con i «fumetti» che le escono dalla «bocca» e dicono ogni sorta di cose «grottesche» sull’«astrologia rampante» alla Casa Bianca.»
«Penso che ci sia qualcosa di vero in quello che lei dice, signora. Devo mettere al lavoro il mio staff per esaminare questa faccenda.»
«Non hanno bisogno di «mettersi al lavoro», signor Presidente. Basta che dicano a quelli della NASA di piantarla con la loro astrologia. Che l’«astrologia» non riuscirà a ingannare «tutti» per «sempre». Il che è la cosa «veramente» importante in un anno «di elezioni».»
«Sì, ah…» balbettò il Presidente, ovviamente perplesso, volgendo lo sguardo in giro per chiedere aiuto. Frances Margaret vide avvicinarsi rapidamente vari assistenti e si affrettò a soggiungere: «Penso che lei dovrebbe «riposarsi» un pochino, signor Presidente, dopo quella dichiarazione così «coraggiosa». Porga i miei complimenti a Helen «Salome» Johnson…»
La campagna intorno all’area di lancio dell’Organizzazione Spaziale Europea nei pressi della città di Kourou sulla costa della Guiana Francese era coperta da lussureggianti foreste tropicali e piena di scimmie e stormi di pappagalli di tutti i colori. Il conto alla rovescia per il lancio dell’«Ariane» era stato interrotto due volte a causa di problemi tecnici e i nervi di Isaac Newton erano sul punto di spezzarsi.
Non vi era alcun motivo tecnico che lo obbligasse ad assistere al lancio, visto che tra Cambridge e il Progetto Halley esisteva un collegamento diretto via radio a onde corte. Sarebbe bastata perciò la minuscola frazione di un secondo per diffondere alla distanza di ottomila chilometri e più la notizia del trionfale successo o dell’abietto fallimento del lancio. Effettivamente, tutto era stato predisposto per il controllo a distanza dell’esperimento da Cambridge. Prima, però, era necessario che il lancio spingesse il satellite nell’orbita assegnatagli, che il satellite non finisse miseramente nell’oceano, o che uno o l’altro dei vari stadi del razzo propellente non esplodesse negli strati superiori dell’atmosfera: il disastro nella sua forma più spettacolare.
Le prime due giornate erano trascorse in un’atmosfera relativamente riposante. L’abbondanza delle attrezzature tecniche, il razzo stesso, le enormi gru, i serbatoi di combustibile, le tubazioni, le incastellature e le rampe erano perfettamente in sintonia con l’esperienza vissuta da Isaac Newton nell’assemblaggio degli acceleratori ad alta energia, di dimensioni così enormi. Il tutto era molto diverso dai minuti particolari del satellite in sé, minuzie nelle quali lui era stato immerso durante l’anno precedente.
Ciò che lo aveva indotto ad assistere al lancio era più che altro la convinzione che dal lancio dipendeva molto di più di quanto avrebbe potuto esprimere con le parole. A pensarci bene, un fallimento avrebbe semplicemente significato un rinvio, un rinvio forse di sole poche settimane. Perché sembrava allora così importante che il primo tentativo andasse a buon fine? Che differenza avrebbe fatto se il nuovo asse NASA-Pentagono si fosse sostituito all’attuale organizzazione dopo il primo tentativo fallito, prescindendo dall’affronto subito dall’ego di Isaac Newton? Nessuna, a pensarci bene. Eppure, Isaac Newton aveva la convinzione, diventata quasi una nevrosi, che il lancio aveva importanza. Era una convinzione che non riusciva a spiegarsi. Sarebbe stato più facile spiegare la sua presenza al lancio con motivi psicologici. Se il disastro si fosse verificato, lui per lo meno avrebbe fatto la figura di aver compiuto quanto era in suo potere per evitarlo. Un po’ come il medico di cui tutti lodano gli sforzi compiuti al letto di morte del paziente.
Si disse che il primo dei rinvii era stato imposto da un difetto nei circuiti elettrici. Il secondo rimase circondato da un’aura di mistero. Ad Isaac Newton vennero chieste bruscamente le credenziali. Dovette sottostare a un interrogatorio nel quale gli chiesero di spiegare il motivo della sua presenza al lancio. I suoi documenti personali vennero esaminati. Poi glieli portarono via, a quanto parve per verificarne l’autenticità. Quando l’ispettore del personale preposto alla sicurezza gli restituì con un breve cenno del capo i documenti, gli consegnarono anche uno speciale lasciapassare di color giallo. In questa faccenda lo avevano trattato all’apparenza meglio degli altri visitatori, salvo due o tre, visto che gli estranei, all’inizio molto numerosi, erano scomparsi quando giunse il momento del terzo tentativo di conto alla rovescia. Per chissà qual motivo, erano stati cacciati via senza tante storie. Secondo lui, tutto era dovuto al fatto che aveva insistito personalmente su un potenziamento delle misure di sicurezza.
Il lasciapassare giallo consentì ad Isaac Newton di entrare addirittura nel centro controllo.
Il centro non aveva affatto le dimensioni che gli spettatori delle trasmissioni spettacolari della NASA, come quella, per esempio, degli sbarchi sulla Luna, avrebbero immaginato. La saletta poteva accogliere qualcosa come venticinque persone sedute. Il direttore di lancio e i suoi più stretti collaboratori occupavano la prima fila delle sedie e avevano davanti a sé una batteria di monitor.
Il tempo trascorreva suddiviso in unità secondo Isaac Newton troppo lunghe, di circa un quarto d’ora. Il personale operativo era impegnato continuamente o nella conversazione o nel passare istruzioni al personale tecnico fuori sala, il quale provvedeva ad apportare le correzioni necessarie o registrare le segnalazioni comparse sui vari schermi e ritrasmesse sui monitor all’interno della saletta. La durata delle unità di tempo diminuì gradualmente finché Isaac Newton non cominciò a misurare il loro trascorrere sul proprio orologio in fasi di cinque minuti. Fuori doveva essere l’alba, ormai. Il lancio doveva avvenire due ore dopo l’alba.
Le unità di tempo si contrassero vieppiù, diventando minuti e poi secondi… meno dieci… nove… otto… sette… sei… cinque… quattro… tre… due… uno… zero. Benché sapesse con precisione che cosa doveva aspettarsi, gli occhi di Isaac Newton erano incollati, senza potersene staccare, allo schermo particolare sul quale compariva il razzo. Delle fiamme apparvero alla base del razzo. Poi, per un periodo che sembrò un’eternità, non accadde nulla. Alla fine, lo snello cilindro cominciò ad alzarsi, da principio con esasperante lentezza. La velocità dell’ascesa aumentò e improvvisamente — sembrò in un attimo — il veicolo cominciò a salire con una velocità alla quale le telecamere a momenti non riuscivano a stare dietro. Tutto ciò che si poteva vedere sullo schermo del monitor era una gran fiammata proveniente dallo scarico del razzo.
Isaac Newton si appoggiò contro lo schienale. Improvvisamente sentì di aver la bocca completamente secca. Il primo dei tanti ostacoli era superato. Tanto per cominciare, il vettore a razzo non era esploso sulla rampa. Isaac Newton cominciava a desiderare di tornare a un’attività onesta, per bene, senza tanti inghippi, come le indagini nel campo della fisica delle alte energie. La fisica delle alte energie assomigliava un po’ alle arrampicate in alta montagna, rifletté. L’alpinista può decidere in anticipo il percorso che seguirà, scegliere per l’arrampicata il tempo che va bene per lui ed esaminare i rischi al punto tale che un fallimento può essere attribuito solo a un errore di valutazione o alla mancanza di tecnica. Questa faccenda dei razzi, invece, era come superare in canoa le rapide di un fiume impetuoso tra le pareti di un canyon. Una volta staccata la barca dalla riva, ti trovi alla mercé della corrente e delle rocce che spuntano dal fondo del fiume. La differenza tra il successo e il disastro dipende in questo caso solo in minima misura dai ragionamenti fatti e dalla tecnica.
Si mise a contare prima i secondi e poi i minuti dopo il lancio, cercando con ansia eventuali indizi di una crisi nella conversazione e nel comportamento del personale. Nulla accadde, e Isaac Newton aveva cominciato a rilassarsi quando il direttore di lancio si rivolse a lui, dicendogli: «Monsieur Newton, presto toccherà a lei. Vorremmo far uscire il filo della sua antenna al prossimo passaggio del satellite — circa tre quarti d’ora a cominciare da adesso».
Così, Isaac Newton raggiunse la prima fila di sedie dove si mise a controllare ancora una volta sui monitor il suo nastro telemetrico. Fase per fase, con l’aiuto dei dispositivi di controllo sistemati su una piccola console davanti a lui, ripassò per l’ultima volta le istruzioni per azionare il satellite. Finalmente si rivolse al direttore e annuì col capo: secondo lui, l’ultima fase critica del lancio poteva cominciare.
Ancora una volta seguì un’esasperante attesa finché il satellite non venne a trovarsi nella posizione ottimale per questa delicatissima fase del lancio: l’espulsione del lungo filo srotolantesi da una bobina come la lenza del pescatore, l’antenna necessaria per rendere possibili le trasmissioni radio a onde lunghe. L’espulsione del filo doveva aver luogo con molta delicatezza per impedire che il filo stesso si aggrovigliasse come una matassa di lana. Il problema era stato risolto chiudendo l’antenna in un sottile tubo di materia plastica attraverso il quale veniva soffiato un gas, per cui il tubo e l’antenna in esso racchiusa si drizzavano alla maniera di quel giocattolo noto come lingua di Menelik.
Era stato inoltre necessario servirsi di una lega metallica rigida, in maniera che il filo, una volta raddrizzato, rimanesse dritto, solo che la lega doveva essere un ottimo conduttore elettrico in modo da evitare inutili sprechi di energia proveniente dalle celle solari del satellite. Tutti questi problemi erano stati risolti in laboratorio ben in anticipo sul lancio, al punto che era ragionevole aspettarsi la riuscita dell’impresa. Nonostante ciò, Isaac Newton dovette sopportare una mezz’ora colma di ansia finché l’operazione non venne portata a termine. Se qualcosa si fosse guastato d’ora in poi non avrebbe potuto incolpare altri che se stesso, ma fino a quel punto l’insuccesso sarebbe stato imputato a coloro che avevano costruito e lanciato il razzo vettore del suo satellite.
Improvvisamente, gli addetti al lancio cominciarono a gridare, a darsi pacche sulle spalle e stringersi la mano, come sempre succede quando tale operazione è coronata dal successo. C’erano delle bottiglie di vino nel vicino refettorio che vennero scolate in occasione della prima colazione ritardata. Tutti si comportarono come se quel lancio fosse stato la cosa più abituale di questo mondo, il che in realtà non era mai. Alla fine, Isaac Newton salutò tutti per imbarcarsi su un volo charter in coincidenza con un volo commerciale da Caracas nel Venezuela, destinato a raggiungere Heathrow il pomeriggio del giorno dopo. Strinse ancora una volta le mani tutt’intorno, quelle del direttore e del suo personale nonché quelle dei tecnici responsabili dei lavori eseguiti nelle varie fasi di costruzione del razzo. Non appena il piccolo aereo charter si fu staccato dal suolo, Isaac Newton rifletté con soddisfazione che nessuno all’infuori del Cavendish Laboratory poteva fare qualcosa al satellite se non abbatterlo a suon di missili. Questo perché l’ordigno avrebbe reagito solo ai segnali in codice, ai quali gli era stato insegnato a obbedire, un codice che solo Isaac Newton e altre tre persone del laboratorio conoscevano. Nulla poteva impedire ora la trasmissione di un primo messaggio alla cometa di Halley.
All’aeroporto di Heathrow venne accolto da Frances Haroldsen.
«Avevi completamente dimenticato, immagino, la festa del College», fece lei non appena la Mercedes pilotata da Isaac Newton si lanciò a tutta birra nelle strade pressoché intransitabili intorno a Londra.
«E allora?»
«Il rettore ha invitato tutti i membri del Comitato. Hanno persino invitato un piccolo verme come me. Il Cancelliere dello Scacchiere è in arrivo e parlerà.»
«Sembra interessante.»
«Lo sarà. Sin da quando il rettore ha saputo che il lancio è riuscito, sta facendo fuoco e fiamme per trasformarlo in un vero e proprio trionfo. Aspettati di vedere garrire al vento tutte le bandiere e di sentire il clangore di tutte le trombe.»
«Oh, no, Dio mio! Il successo è ancora molto lontano.»
«Oh, sì, Dio mio! Se il rettore parla di un trionfo, lo sarà sicuramente. Quello è capace di chiamare alla festa anche la radio e la televisione», disse Frances Margaret, palesemente entusiasta all’idea.
Poiché Boulton aveva ripreso possesso della sua casa nella Adams Road, Isaac alloggiava di nuovo nella foresteria, e Frances Margaret era ritornata — per lo meno agli occhi di tutti — ad abitare dirimpetto, nel King’s College. In abito da sera, entrambi scesero dalla foresteria fino all’alloggio del rettore. Il ricevimento doveva aver inizio dalle sette e mezzo alle otto e i due arrivarono giusto in tempo.
Non appena comparvero sulla porta, il rettore, in frac e farfallino bianco, si diresse verso di loro esclamando con voce stentorea: «Ah! Ecco Brutte Notizie in persona! Solo che una volta tanto le notizie non sono brutte».
Il Cancelliere li salutò con una cordiale stretta di mano. «Beh, sembra che abbiamo superato il primo ostacolo. Ed era un ostacolo grosso, immagino», disse.
Poiché Isaac Newton aveva appena compiuto un viaggio di oltre ottomila chilometri, tutto gli appariva un tantino irreale, avvolto quasi in un’atmosfera da fiaba, un’atmosfera che si protrasse anche durante la cena. Tutti i membri del Comitato per il Progetto Halley, con la sola eccezione del Primo Ministro, erano seduti al tavolo immediatamente sotto il ritratto di Enrico Ottavo dipinto da Holbein. Lo stesso fatto che il passato si trovasse in questo modo unito al presente era già una fiaba. Le comete e i satelliti e i telescopi e la telemetria erano tutte cose ben lontane da Holbein ed Enrico Ottavo, separate nella mente da un abisso.
Dopo aver bevuto alla salute della Regina, il rettore si alzò per tenere quello che doveva essere, stando a quanto era stato dato a comprendere ai Fellows, un discorso davvero eccezionale. Questo, per lo meno, sembrava essere il parere dei giovani cattedratici e dei loro amici, maschi e femmine, seduti ai tavoli più lontani, che sottolinearono le singole frasi con acclamazioni e battendo il pugno sui tavoli. Il rettore si alzò per presentare il Cancelliere dello Scacchiere.
«Carissimi ospiti, ho il grande piacere di chiedervi di levare un brindisi al governo di Sua Maestà, rappresentato qui stasera da Sir Godfrey Wendover, un uomo di molte iniziative, molti talenti e molti dipartimenti. [grandi risate] Ecco dunque il mio brindisi: al governo di Sua Maestà, che possa sopravvivere a lungo!»
L’idea di brindare alla sopravvivenza del governo, di qualsiasi governo, non andò troppo a genio al gruppo più giovane, barbuto e anarcoide dei cattedratici che si mise a picchiare ferocemente mentre il Cancelliere si alzava per rispondere.
«Rettore, signore e signori», cominciò con un tono di voce suadente, «è con umiltà, sorpresa e un senso di anticipazione che vi parlo stasera. Umiltà perché nella mia qualità di occasionale studioso di storia ho ben presenti i molti celebri personaggi che hanno parlato in questo luogo prima di me nella lunga e gloriosa storia di questa nobilissima fondazione. [lieve picchiettio sui tavoli]
«Sorpresa perché nella mia qualità di laureato di un’altra università devo ammettere [lieve picchiettio] che non cesso mai di meravigliarmi per le dimensioni dei vostri College, qui a Cambridge, dimensioni che più che altrove si rivelano nella meravigliosa Great Square.
«Anticipazione perché, come forse saprete, ho collaborato nell’anno appena trascorso a un progetto che ha la sua base qui a Cambridge, un progetto nel quale io in particolare e il governo in generale riponiamo grandi speranze. [intenso bussare sui tavoli] Perché poi io, il meno scientifico dei non-scienziati, debba essere rimasto coinvolto in un progetto come questo, rimane una specie di mistero ancora oggi.
«Comunque, l’esperienza mi è piaciuta. E’ stata un’esperienza, potrei soggiungere, non priva di momenti pieni di ansia. Tra breve, poiché io stesso intendo essere breve, apprenderete dal rettore i particolari del recentissimo lancio riuscito di un satellite, concepito e diretto, voglio sottolinearlo, da un titolare di cattedra di questo College, il professor Isaac Newton. [altro picchiettio]
«Esiste una certa analogia tra il lancio dei satelliti e le ricerche petrolifere, considerate dagli uomini d’affari, come certo saprete, piuttosto rischiose. Lanciare un satellite senza ottenere il risultato desiderato è un po’ come perforare un pozzo che si rivela asciutto, solo che il fallito lancio di un satellite comporta una perdita di denaro un milione di volte più rapida che non una perforazione alla ricerca del petrolio. Infatti, come ho potuto scoprire nel periodo trascorso come Cancelliere dello Scacchiere, non ho visto ancora una maniera più rapida per perdere il denaro di quella di lanciare dei satelliti. Dire in questo caso che si tratta di soldi «bruciati» è solo un eufemismo. [risate]
«Ma basta con questi discorsi sterili. La nostra impresa è riuscita, «non» fallita. Non sono bruciati i soldi e il pozzo «non» è asciutto. [applauso generale]»
Ora toccava al rettore.
«Ho stasera il piacere di brindare a un nome che è rimasto associato nella mente di tutta la gente del mondo a questo College», cominciò. «Mi riferisco naturalmente al nome di Isaac Newton. Non ad Isaac Newton «senior», colui che calcolò le orbite dei pianeti, bensì ad Isaac Newton «junior», colui che ha lanciato con successo il satellite. [applausi e altro picchiare sui tavoli]
«Lasciatemi dire innanzi tutto che non sono uno scienziato. [altri rumorosi applausi] Ho preso contatto con la scienza un anno fa pensando che fosse un caso di testa o croce. Per dirlo in maniera più poetica, all’inizio pensavo riguardo agli scienziati, che:
Se sbaglia, è solo colpa di Natura;
Se indovina, sua gloria imperitura.
«Poi, quando ho cominciato a essere investito personalmente di qualche piccola responsabilità, mi sono sentito piuttosto come il maresciallo Joffre cui venne attribuita da certuni, ma non da tutti, la vittoria nella prima battaglia della Marna del settembre 1914. Chiestogli se avesse veramente vinto la battaglia, Joffre rispose: ’Non saprei dirlo. Posso dire invece che se la battaglia fosse stata persa, la colpa sarebbe stata mia’. Così sarebbe andata a finire con Isaac Newton se questo lancio si fosse rivelato la più veloce perdita di denaro nella storia della Tesoreria britannica. [colpi sui tavoli]
«Confesso che resterei senza parole, cosa insolita per me, [risate] se doveste chiedermi che cosa intendiamo fare esattamente da questo momento in poi. Sarà qualcosa, «penso», che avrà a che fare con la cometa di Halley. [altre risate] Edmund Halley, nato nel 1656, divenne, mi dispiace doverlo dire, uno studente in quell’altra università alla quale il nostro ospite si è già riferito, uno studente del Queen’s College di Oxford. [gemiti] E’ noto soprattutto non già per la cometa che porta il suo nome bensì per il suo saggio atteggiamento nell’incoraggiare la pubblicazione dell’opera «Philosophiae Naturalis Principia Mathematica», scritta naturalmente da Isaac Newton senior. Una fortunata coincidenza vuole, comunque, che Edmund Halley abbia avuto rapporti personali con Isaac Newton senior e che li abbia ora, tramite la cometa che porta il suo nome, con Isaac Newton junior. [applausi]
«Parrei inopportuno se vi raccontassi una storia che parla di statue? [pausa seguita da grandi risate] La voglio raccontare ugualmente. [altre risate] Catone, notando che venivano erette statue in onore di molti altri personaggi, osservò: ’Preferirei che la gente si chiedesse perché «non» esiste una statua di Catone anziché perché ne esiste una’. Da questa storiella si deduce che il College sarebbe nel torto se non aggiungesse una seconda statua in marmo intitolata ad Isaac Newton. [applausi e risate, con colpi sui tavoli]
«Dicono che dal successo nascano altri successi. Sovrapporre il Pelio all’Ossa come vuole la mitologia, è stato un espediente con il quale i figli di Poseidone tentarono di arrampicarsi fino all’Olimpo, tentativo che ancor oggi tutti noi perseguiamo, [applausi e poi risate] primo tra tutti Isaac Newton junior, in onore del quale vi chiedo di alzarvi e brindare: per l’Universo e San Giorgio!»
Nella Hall esplose il pandemonio mentre Isaac Newton si alzava in piedi. Provava nel suo intimo un terribile vuoto da cui affiorava misteriosamente un aneddoto. Immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, un entomologo era stato persuaso dal Foreign Office a fare un giro nella Germania occupata per tenere alle truppe conferenze istruttive sugli insetti. Arrivato un bel giorno in una base americana, venne presentato dal comandante con le seguenti parole: «Lui è il Bob Hope inglese. Vi lascerà secchi, ragazzi!»
Il che corrispondeva esattamente a ciò che Isaac Newton provava in quel momento, mentre osservava la prima tavolata e poi gli altri tavoli nella Hall. L’unica cosa che gli balzò all’occhio fu che i baffoni del professore di storia mangiatore di pane erano effettivamente molto simili a quelli di un tricheco. Con grande sbalordimento di Isaac Newton, il mangiatore di pane si ficcò in bocca l’indice e il pollice della mano sinistra, per emettere poi uno stridulo fischio. Compiuta la prodezza, volse lo sguardo raggiante a destra e a sinistra per ripetere il gesto. Al che, uno dei Fellows più anziani si mise a soffiare tra le mani congiunte a coppa per ululare come un gufo.
«Rettore, signore e signori», cominciò Isaac Newton. «Nel rispondere al brindisi che avete gentilmente levato al mio indirizzo non potrei fare nulla di meglio se non raccontarvi qual è l’attuale situazione di quello che viene chiamato ora il Progetto Halley. [picchiettii sui tavoli] Il progetto trova la sua origine in un messaggio intelligibile ricevuto da una cometa avvistata in precedenza, la cometa di Boswell. Sulla intelligibilità di quel primo messaggio non ci sono stati mai molti dubbi, e i pochi che potevano esserci scomparvero quando la NASA intercettò un messaggio alquanto simile, proveniente dalla cometa di Halley.
«Il nostro progetto si proponeva di lanciare un messaggio di risposta in direzione della cometa di Halley, usando la stessa forma per la trasmissione radio e la cifratura. Il messaggio di risposta era concepito in maniera da inviare lo stesso tipo di informazioni usato nei messaggi ricevuti due volte dalle due comete. In questo modo non dovrebbe sorgere alcun problema riguardante l’interpretazione se la nostra trasmissione dovesse avere successo ed essere ricevuta.
«Ed ecco qual è la situazione in questo momento: il satellite dal quale dovrà essere effettuata questa trasmissione è stato lanciato con successo, come avete già appreso dai signori che hanno parlato prima di me. Le fonti d’energia del satellite lo alimentano e la sua antenna si trova nella posizione corretta. Rimane da mettere alla prova solo il sistema dei circuiti elettronici, una cosa che, spero, sarà fatta domani dal Cavendish Laboratory. [applausi] Dopo di che, forse già domani sera, verrà effettuata la prima trasmissione. Con quale risultato, mi chiederete naturalmente.
«Se conoscessimo già la risposta, il progetto non avrebbe avuto senso. Non posso fare altro per soddisfare la vostra curiosità che ricordare una conversazione avuta all’inizio con il Cancelliere dello Scacchiere. Egli disse che la situazione attuale gli richiamava alla mente quella dell’Europa nel Quattrocento, un’Europa chiusa in se stessa, senza alcuna prospettiva. E fu la scoperta dell’America quella che segnò il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. L’idea era che le nostre iniziative attuali possano similmente sfociare in un’epoca piena di nuove speranze. E non è lontano il giorno in cui metteremo alla prova quest’idea.»
Il mondo è pieno di ricorrenze solenni, al punto che ormai la gente ci ha fatto il callo. Tanto più che i mass media non possono aspettare che la ricorrenza compaia sul calendario, ma devono sempre mungerla come una mucca con notevole anticipo.
Così era accaduto con la cometa di Halley che si rivelò comunque una specie di fallimento dal punto di vista delle pubbliche relazioni. Questo perché la posizione della Terra rispetto all’orbita della cometa non si prestava altrettanto bene a una spettacolare esibizione come era accaduto nel 1910. Poi c’era di mezzo l’accresciuta intensità dell’illuminazione pubblica, verificatasi dal 1910 in poi, per cui il cielo era stavolta rischiarato artificialmente proprio nei luoghi popolati dalla maggioranza dell’umanità. La luminosità proveniente dalla testa e dalla coda della cometa era perciò molto meno impressionante di quanto lo fosse stata nel passato a ogni ricomparsa di quel corpo celeste. In queste circostanze, l’esistenza di segnali intelligibili — ammesso che esistessero, perché una buona parte dell’opinione scientifica considerata attendibile negava questa possibilità — si era rivelata una manna per i mass media, specialmente quando la clamorosa morte di Mike Howarth consentì ai giornalisti di impadronirsi dell’argomento in una maniera che mai si sarebbero sognati nel passato. Tutte le vicende del Comitato Halley erano state attentamente seguite sia in Inghilterra sia all’estero soprattutto a causa della posizione elevata dei suoi membri attivi in politica.
Il lancio riuscito del satellite consentì quindi ai giornali di pubblicare articoloni con titoli giganteschi. Così pure, come bisognava aspettarsi, i discorsi tenuti in occasione della festa al Trinity College di Cambridge erano di dominio pubblico e venivano ampiamente riferiti dai media, con il risultato che da un giorno all’altro si creò nell’animo di tutti una sensazione di trepida attesa in vista di eventi spettacolari nel prossimo futuro.
Quando Isaac Newton si presentò al Cavendish Laboratory l’indomani mattina alle nove e un quarto, trovò vari dei suoi assistenti in attesa nel suo ufficio, tutti animati da sentimenti di aperta rivolta.
«I giornalisti imperversano dappertutto. Abbiamo dovuto chiudere a chiave il materiale riservato per cui non possiamo più lavorare», fece McClelland, un giovanotto dalla faccia di ragazzino che poteva avere qualcosa come venticinque anni.
«In tal caso voglio che vi consideriate come tanti attori chiamati a recitare una commedia», rispose Isaac Newton. «Tra adesso e mezzogiorno convinceteli che ormai han visto tutto. Inscenate una specie di spettacolo, senza raccontare troppe balle perché quelli non sono cretini. Magari non s’intendono di circuiti elettronici, ma sono perfettamente in grado di fiutare una presa in giro.»
«E poi, che cosa accadrà?» chiese qualcuno.
«Dopo mezzogiorno sarete lasciati in pace per due o tre ore, in modo da poter effettuare i controlli.»
«Come faremo a cavarcela?»
«Non preoccupatevi. Sorridete e continuate a sorridere. Sarò con voi tra mezz’ora.»
Quando il gruppo di giovani assistenti ebbe lasciato l’ufficio, Isaac Newton chiamò la signora Gunter e disse: «Mi può chiamare al telefono il rettore del Trinity, per cortesia?»
«Brutte Notizie! Dio mio, lei è proprio la personificazione delle novità grame», gemette il rettore dall’altro capo del filo. «Mi sembra di avere la testa ridotta a un pallone.»
«Volevo chiederle di organizzare una sontuosa colazione, con tre o quattro qualità di vini.»
«Devo proprio raccontarle che mi sento la bocca ridotta come il fondo di una gabbia di pappagalli?» fu la cupa risposta.
«E’ tutto quel porto che beve, rettore, le bevande ad alto contenuto alcoolico. I reni non riescono a filtrarle.»
«La pianti! La pianti! L’idea di una colazione è come il nodo scorsoio per un criminale condannato.»
«Un vero peccato, rettore. Perché si tratta della stampa.»
«Della stampa, ha detto?»
«Proprio così; e se non riusciamo a tenere a bada questa gente, possiamo rinunciare stasera a ogni trasmissione diretta alla cometa. Inoltre c’è un cronista dell’«Observer». Porta scarpe di Gucci e un colbacco di astrakan. Lo tiene in testa anche qui, nel laboratorio; mi piacerebbe proprio sapere se l’ha attaccato al cranio con degli spilli.»
«Dio mio, Brutte Notizie, a me sembra di avere degli spilli attaccati al «mio» cranio.»
«Pensavo di spedirli lì poco prima di mezzogiorno.»
«Lei non spedirà nessuno. Li porterà qui di persona. Non sono disposto a farlo da solo. E niente discussioni!»
«Ma io devo controllare i circuiti.»
«E io devo cercar di controllare il mio mal di testa. Tre o quattro qualità di vini, ha detto, non è così?»
«E sigari.»
«Oh, no, i sigari no! Non li sopporterei. Non sopporterei tutte quelle facce con il sorriso vacuo dovuto al troppo vino bevuto. Oh, no, non riuscirei a sopportare proprio nulla!» gemette di nuovo il rettore.
Si udì un clic. Fine della conversazione. Al che, Isaac Newton entrò nell’ufficio della segretaria dicendo: «Signora Gunter, sia così gentile da avvertire tutti quei giornalisti e reporter, rivolgendosi a ognuno personalmente, che sono invitati a una colazione speciale dal rettore del Trinity, per mezzogiorno. Lo dica in tono confidenziale. Quando avrà compilato l’elenco degli invitati, telefoni il numero alla segretaria del rettore. Aggiunga due o tre posti, semmai qualcuno dovesse arrivare in ritardo e poi faccia arrivare dei taxi a mezzogiorno in punto. Li pagheremo servendoci della cassa delle piccole spese, ammesso che il professor Boulton non si sia portato via tutti i soldi».
«Benissimo, professore. Devo preparare un elenco separato di quelli che non volessero partecipare alla colazione?»
«Un’idea eccellente. Dobbiamo conoscere i nomi di tutti. Detesto l’idea di mettere guardie all’ingresso del laboratorio e altre misure del genere, ma se questa storia dovesse continuare non so che altro potremmo fare.»
Con un largo sorriso finto sulla bocca si unì poi al gruppo dei giornalisti. Ben presto, la continua vista delle attrezzature nei vari laboratori fece scemare l’interesse. Così, Isaac Newton riempì il tempo facendo servire caffè e panini alla mensa. Successivamente venne diffusa notizia che una conferenza stampa si sarebbe tenuta nell’aula magna.
Isaac Newton diede inizio alla conferenza ripetendo più o meno ciò che aveva detto alla festa la sera precedente, per concludere: «Il progetto aveva lo scopo di rispondere alla cometa di Halley con una trasmissione a onde molto lunghe, usando lo stesso codice e incorporando un tipo di messaggio come quello ricevuto da noi».
«Potrei farle una domanda a questo proposito, professore?» disse una giornalista nella seconda fila.
«Sì?»
«Da quanto ho capito, il vostro messaggio consiste in coppie di numeri, uno dei quali rappresenta il tempo e l’altro la distanza della cometa dal Sole.»
«Esattamente», convenne Isaac Newton, contento che la domanda dimostrasse la comprensione dell’argomento da parte della cronista e notando che il reporter dell’«Observer» aveva ancora in testa il colbacco di astrakan, il che faceva supporre che l’uomo, presentatosi come Tom Taylor, avesse una radiotrasmittente celata sotto il copricapo.
«La vostra trasmissione avviene in tempo reale?» fu la domanda successiva.
«Sì, esattamente.»
«Misurando il tempo con quale sistema?»
«Unità atomiche graduate da un moltiplicatore decimale. Lo stesso vale per l’unità della distanza.»
«Come riesce a stabilire la distanza della cometa dal Sole? Mediante misurazioni oppure calcolandola?» chiese un altro cronista.
«In realtà con entrambi i sistemi», rispose Isaac Newton. «L’orbita della cometa è stata già ottenuta con le misurazioni. Poi, conoscendo l’orbita, determiniamo con dei calcoli la distanza del nucleo della cometa dal Sole, la distanza in quel momento, voglio dire. Se chi riceve la trasmissione è una mente intelligente», proseguì, «potrebbe arrivare a un notevole numero di interessanti conclusioni. Prima di tutto che abbiamo compreso il messaggio della cometa. Secondo, che comprendiamo la fisica atomica. In terzo luogo, che i nostri numeri sono disposti in serie scalari di dieci.»
«Da cosa lo dedurrebbe?»
«Dai moltiplicatori decimali usati per scalare le unità. Dal punto di vista matematico, contare a decine è un’assurdità. Così si potrebbe concludere che il motivo di un simile modo di procedere dev’essere in partenza fisico, non intellettuale. Le dita…»
«Starrattson del «Daily Record»», disse una voce dalla quale si capiva all’istante come tutti questi particolari pignoleschi non potessero riguardare chiunque avesse i piedi solidamente posati a terra.
«Sì, signor Starrattson, troverà qualche poster con le «pin-up» nel laboratorio, «pin-up» che potrebbero forse interessare il suo giornale», ribatté Isaac Newton in tono tranquillo, ma pentendosi subito per aver lasciato trasparire così inopinatamente la propria irritazione.
Quando le risate cessarono, Starrattson insisté: «Ciò che mi interessa, professor Newton, è di sapere che cosa c’entra tutto questo con l’uomo comune».
«Suppongo che tutto ciò, se riferito correttamente, sarebbe di notevole interesse per l’uomo comune.»
«Dubito che i lettori del «Record» sarebbero di quest’opinione.»
«Può darsi di no. Ma poi bisogna domandarsi, signor Starrattson, se i suoi lettori possono essere definiti comuni. Non sarebbe più giusto definirli straordinari?»
«Ecco che comincia a darsi arie di un uomo della classe superiore. Ciò che molta gente rimprovera a questa Università è di darsi arie a tutto spiano. Schernendo i contribuenti che pagano i conti.»
«Quest’Università viene trattata esattamente come le altre università, signor Starrattson. Ciò che quest’Università propugna senza scendere a compromessi è una forma mentis intellettuale, mentre lei propugna palesemente una forma mentis antiintellettuale che poi confonde con la forma mentis della gente comune. La gente comune non è antiintellettuale se le si spiegano le cose nella maniera giusta. Non è questo il compito dei mass media? Il mio compito è quello di spiegare le cose a lei, il che era esattamente ciò che stavo tentando di fare prima che lei sostituisse la scienza con la sociologia.»
«Nonostante ciò, l’osservazione del signor Starrattson è valida sotto un certo punto di vista», intervenne un’altra voce. «Questo progetto è stato in realtà finanziato con i soldi dei contribuenti…»
«Non tramite l’Università. Così non dobbiamo tirare in ballo l’Università», lo interruppe Isaac Newton.
«Benissimo, non tramite l’Università, per cui evitiamo di tirare in ballo l’Università. Ma che cosa riceverà il contribuente in cambio dei soldi che ha pagato? Questa è certamente una domanda valida, no?»
«Lo è, e io le darò una risposta valida. Se avremo successo, e dico: ’se’, il contribuente ne ricaverà enormi benefici.»
Poiché questa risposta provocò un attimo di silenzio, Isaac Newton riprese: «Nella mitologia romana, Giano era il dio delle porte, delle aperture, degli accessi a nuove prospettive, a nuovi sentieri, ma senza cartelli indicanti la meta cui i sentieri sarebbero arrivati. Senza accessi al futuro, la società ben presto ristagnerebbe, ed è per questo che i romani attribuirono le qualità di un dio a chi schiudeva loro le porte dell’avvenire».
«Ecco una cosa per la quale l’uomo «comune» non darebbe neppure un soldo. Glielo posso assicurare, professore», osservò Starrattson in tono sarcastico.
«E’ una cosa per cui la gente comune darebbe qualcosa di più di un soldo», rispose Isaac Newton con tutto il ritegno di cui fu capace, «perché la gente comune ha dato il suo appoggio a imprese insolite da tempi immemorabili, si trattasse di Stonehenge o della costruzione dei templi dell’antica Grecia oppure di moderni laboratori scientifici. Il suo guaio, signor Starrattson, consiste nel fatto — come le ho già spiegato — che lei continua a confondere la gente comune con la gente antiintellettuale, oggi esistente in misura notevole, glielo concedo, ma che non rappresenta la maggioranza, sono felice di poterlo dire.»
«Secondo me, ciò che preoccupa forse qualcuno qui presente è il fatto che il Progetto Halley non è stato finanziato nella maniera solita», intervenne Alan Bristow, direttore della rivista «Nature», che Isaac Newton vide seduto in fondo all’aula.
«A che cosa sarebbe dovuta questa preoccupazione, dottor Bristow?» chiese Isaac Newton.
«Al fatto che si è tenuto molto conto di certi privilegi, per esempio nella composizione del vostro comitato.»
«Dove vede un privilegio in un progetto sponsorizzato dai rappresentanti più alti, democraticamente eletti, dalla gente comune? Saprebbe indicarmi un sistema che si avvicini di più alla democrazia, dottor Bristow?»
«Immagino di no», ammise Bristow, «ma rimane comunque il fatto che tutti considerano la situazione insolita. Qualcuno potrebbe scorgervi persino tracce di un comportamento arbitrario. Ecco, vede, se tutto venisse fatto in questo modo, ogni cosa finirebbe per tramutarsi in privilegi per le persone, come del resto lei stesso, che per caso riescono a farsi ascoltare da uomini politici influenti.»
«Ma non tutto viene fatto in questo modo. A prescindere dal Progetto Halley, «nulla» viene fatto in questa maniera.»
«Potrebbe diventare una prassi normale, se lei avrà successo. In tal caso vedremmo trasformarsi la democrazia in una specie di aristocrazia.»
«Mi dica se i capolavori dell’arte e della musica e della scienza esistenti nel mondo sono stati realizzati in altra maniera?»
«Lei sa sfruttare la logica, professor Newton. Ciò che le manca è il principio, che molti di noi considerano importante di questi tempi.»
«Il principio della massima decadenza, immagino. Sì, quello mi manca», convenne Isaac Newton.
«Beh, lasciamo perdere questa discussione», continuò Bristow con sorprendente calma. «Ciò che m’interessa veramente è di sapere che cosa farà se non accadrà nulla dopo la vostra trasmissione indirizzata alla cometa di Halley.»
«Tenteremo di nuovo, ripetutamente.»
«E se non accadrà nulla?»
«Vorrà dire che il tentativo è fallito.»
«Non la preoccupa la possibilità che possa fallire?»
«Certo che mi preoccupa, come scienziato. Ma personalmente non molto.»
«Non pensa che dovrebbe preoccuparsene?»
«No, non lo penso.»
«Dov’è il suo senso di responsabilità?» gridò Starrattson.
«Il mio senso di responsabilità è consistito nel fatto di ponderare il progetto con ogni attenzione possibile prima che cominciasse la sua realizzazione. Una volta avviato il progetto, un’eventuale preoccupazione personale da parte mia avrebbe solo pregiudicato la possibilità di un suo successo, esattamente come gli alpinisti alla vigilia di un’arrampicata in montagna, che devono fare del loro meglio per non lasciarsi spaventare dalle difficoltà della scalata. Se mi preoccupassi personalmente ciò significherebbe in realtà che temo per la mia pelle, il che, secondo me, signor Starrattson, non sarebbe né un vantaggio per l’impresa né un sentimento ammirevole.»
A questo punto, la signora Gunter comparve in fondo all’aula e Isaac Newton alzò immediatamente il braccio per dire a mo’ di conclusione: «La mia segretaria mi fa segno che sono arrivati i mezzi che vi porteranno a colazione. A coloro che si preoccupano molto per i soldi dei contribuenti dirò che la colazione al Trinity College sarà finanziata privatamente. Godetevela perciò senza lasciare che il rimorso turbi la vostra digestione».
Mentre la stampa lasciava l’aula magna, Isaac Newton si congratulò con se stesso per aver tenuto a freno la lingua, anche se solo relativamente. Altrimenti avrebbe potuto far rilevare che quell’incursione da parte dei mass media nel laboratorio aveva ostacolato per un’intera mattinata l’utilizzo del denaro dei contribuenti. Il giornalista con il colbacco di astrakan destò un’altra volta la sua attenzione. Quel colbacco di sicuro non nascondeva una radiotrasmittente bensì uno di quei registratori a nastro miniaturizzati di fabbricazione giapponese. Forse l’intero colbacco non era altro che un registratore camuffato.
I circuiti erano stati controllati durante la colazione al Trinity College. Cinque ore erano ormai trascorse dal ritorno di Isaac Newton al Cavendish Laboratory. Aveva ritardato la prima trasmissione indirizzata alla cometa di Halley nella speranza — vana, come si vide — che il numero delle persone a zonzo nel laboratorio diminuisse. Invece al calare dell’oscurità cominciarono ad arrivare i curiosi il cui numero aumentò costantemente con il passare delle ore, come se la gente presagisse misteriosamente gli eventi. Alla fine si radunò una tale folla che fu necessario chiamare la polizia, in parte per regolare il traffico e il parcheggio delle macchine e in parte per fare la guardia alla speciale saletta operativa da cui doveva essere diretta la trasmissione alla cometa di Halley.
In conformità alle migliori tradizioni della fisica sperimentale, Isaac Newton volle che fossero i membri più giovani impegnati nel progetto a curare i particolari della trasmissione. In tal modo, i giovani acquistano esperienza e senso di responsabilità, esattamente come Isaac Newton aveva fatto dieci anni prima. In fondo alla saletta operativa c’erano tutti i membri del comitato direttivo, con la sola eccezione del Primo Ministro che doveva tenere quella sera a Londra un discorso al banchetto offerto dal Lord Mayor, il sindaco della capitale.
Isaac Newton sedeva da solo dietro ai giovani in prima fila e con i membri del comitato alle spalle. Per una sorta di paradosso era preoccupato perché non si sentiva preoccupato. Leggeva le tracce della preoccupazione sui volti degli altri: il Cancelliere rimasto a Cambridge per tutta la giornata; Frances Haroldsen tra i giovani, intenta ad azionare commutatori e a visionare schermi televisivi; anche Kurt Waldheim appariva preoccupato, seppure la sua reputazione non corresse alcun rischio. Persino il rettore del Trinity taceva, rendendosi improvvisamente conto delle conseguenze di un eventuale fallimento. Se mai un consesso aveva fatto di tutto per diventare il bersaglio dell’opinione pubblica, questo era il Comitato per il Progetto Halley. Il presidente del CERC, che si era unito recentemente al comitato dando così corpo all’accordo ufficioso concluso con Isaac Newton, aveva la sensazione di aver commesso un orribile sbaglio. In ballo erano non tanto i soldi spesi, perché il CERC aveva speso per il Progetto Halley meno di quanto spendesse per altre imprese prive di effetti visibili, quanto la natura inaccettabile del progetto stesso.
«Effettueremo la trasmissione alle nove precise», disse Isaac Newton al gruppo dei giovani davanti a lui. «La cometa sarà nella posizione migliore.»
Benché non ci fosse di mezzo alcun lancio e benché il momento preciso della trasmissione non fosse particolarmente importante, tutti convennero che sarebbe stato opportuno adottare la procedura del conto alla rovescia. L’operazione venne trasmessa mediante altoparlanti a tutto il laboratorio. Nell’aula magna c’era inoltre un televisore collegato con la saletta operativa. La trasmissione stessa venne trasformata per di più in uno spettacolo sonoro, un’impressionante sequenza a tiro rapido di punti e linee ritrasmessa nell’aula magna dove erano radunati la stampa e il pubblico. Per aumentare l’effetto spettacolare della trasmissione, un’immagine della cometa di Halley veniva proiettata su uno schermo. L’immagine era stata ottenuta in tempo reale da congegni elettronici applicati a uno dei telescopi dell’Osservatorio, sul lato settentrionale della Madingley Road.
Nella saletta, tutti erano adesso impegnati in operazioni di controllo per assicurarsi che la trasmittente a onde lunghe a bordo del satellite stesse funzionando correttamente. Ci vollero alcuni istanti perché tutti ne fossero convinti. Si udì squillare un telefono. Il giovanotto chiamato McClelland, che si trovava nell’ufficio di Isaac Newton quella mattina, rispose. Poi disse, rivolto ad Isaac Newton: «E’ l’Osservatorio. Vogliono parlare con lei, Prof».
Gli occhi di tutti erano rivolti al telefono mentre Isaac Newton prendeva in mano il ricevitore. Dopo aver ascoltato per un attimo, disse soltanto: «Dio mio!»
Gli occhi di tutti fissavano ancora Isaac Newton mentre deponeva il ricevitore.
«Hanno scoperto un’improvvisa macchia luminosa al centro della cometa di Halley. Il fatto sorprendente è che la macchia è comparsa non appena la nostra trasmissione ha raggiunto la cometa.»
«Ora riesco a vedere qualcosa sul monitor!» gridò Frances Haroldsen.
«Abbassate le luci!» esclamò un’altra voce.
Effettivamente si scorgeva un brillante punto luminoso sulla superficie nebbiosa della testa della cometa. Mentre tutti erano ancora intenti a guardare, il punto luminoso divenne notevolmente più intenso.
«All’Osservatorio hanno detto che la luminosità aumenta continuamente», soggiunse Isaac Newton.
«Sarà meglio che lei vada adesso ad affrontare il suo pubblico», consigliò il rettore.
Così, Isaac Newton, il rettore e Kurt Waldheim lasciarono gli altri nella saletta operativa e si diressero verso l’affollata aula magna. Il vociare che udivano mentre si avvicinavano dimostrava che il punto luminoso era stato già notato.
Il rettore si rivolse alla gente.
«Voglio raccontarvi in termini comprensibili ciò che è appena accaduto. Alle nove precise di questa sera è stata effettuata una trasmissione indirizzata alla cometa di Halley. Tenendo conto del tempo che ci è voluto perché i nostri segnali raggiungessero la cometa, la cometa di Halley ha mandato immediatamente la risposta che potete vedere su questo schermo. Ognuno dei presenti in quest’aula assiste ora a una scena che segnerà probabilmente una svolta nella storia dell’umanità. Per quanto riguarda il suo significato, ve lo lascerò spiegare dai due maghi che mi stanno accanto.»
Mentre il rettore parlava, Kurt Waldheim si diresse verso la grande lavagna e, preso in mano il gessetto, cominciò a fare dei calcoli.
Isaac Newton intanto, con tutta la calma di cui fu capace quando il rettore ebbe finito chiese: «Ci sono domande?»
Gli risposero immediatamente numerose voci sovrapposte le une alle altre che indussero il rettore ad alzare la mano e a esclamare con la sua voce sonora: «Silenzio! Silenzio! Non vorremmo dover convenire con John Milton che scrisse:
«Chaos umpire sits
And by decision more embroils the fray
By which he reigns: and next him high arbiter
Chance governs all».
[ «Arbitro siede il Caos,
e più aggroviglia con le sue sentenze la mischia
che lo fa dominatore: accanto a lui, giudice supremo,
tutto governa il Caso». (N.d.T.)]
«Uno alla volta, per favore!»
«E’ esplosa la cometa?»
«Io direi di no», rispose Isaac Newton in tono equilibrato, tipico dell’uomo di scienza.
«Parrebbe piuttosto un’improvvisa emissione di molte particelle piccolissime che stiano raccogliendo la luce del Sole», soggiunse Kurt Waldheim, volgendo la schiena alla lavagna per guardare gli ascoltatori.
«Di quanto aumenterà la luminosità?»
«Dipenderà dalla quantità delle particelle. Ho tentato di fare dei calcoli sulla lavagna», proseguì Kurt Waldheim. «Da quanto abbiamo visto finora penso che la quantità debba aggirarsi almeno intorno a un migliaio di tonnellate», soggiunse.
«Di particelle piccolissime?»
««Ja», il che significa che le particelle sono tante.»
«Queste particelle brillano come granelli di polvere investiti da un fascio di luce solare?» chiese un altro.
«Esattamente. E la nube diventa più luminosa perché si sta espandendo dalla cometa verso l’esterno», rispose Isaac Newton.
««Ja», e la nube espandendosi diventa più luminosa perché la parte esterna di essa non copre la sua parte interna.»
«Quando smetterà di diventare più luminosa?» chiese il rettore.
«Smetterà di accrescere la sua luminosità quando le particelle saranno disperse a un punto tale da assottigliare, come si dice in ottica, la nube, il che significa semplicemente che le particelle non si proteggono più reciprocamente dalla luce solare», rispose Isaac Newton.
A questo punto un certo numero di persone lasciò a precipizio l’aula magna.
«Non si preoccupi», tuonò il rettore quando vide l’espressione perplessa sulla faccia di Isaac Newton. «I giornali stanno per andare in macchina. Caschi il cielo, il che sembra stia accadendo, ma quando i giornali devono andare in macchina non si discute.»
Un uomo biondo, tutto agitato, arrivò dall’Osservatorio raccontando che il punto luminoso brillava ora con l’intensità di una stella di prima grandezza, che diventava sempre più brillante, e che ora lo si poteva vedere a occhio nudo. Udito questo, il resto dei presenti lasciò in fretta l’aula dirigendosi di corsa verso l’Osservatorio dove c’era un telescopio a disposizione del pubblico.
Quando uscì a sua volta dal laboratorio, Isaac Newton notò la presenza di Featherstone, l’ordinario di Veterinaria, armato di binocolo. Poi comparve Frances Haroldsen insieme al rettore e al Cancelliere, dicendo: «Pensavamo di andare in macchina da qualche parte a sud dei Gogs, in maniera da essere ben lontani dalle luci della città».
«Sono incerto se lasciare il laboratorio», rispose Isaac Newton con aria perplessa.
«Non vedo perché. La gente se n’è andata e la polizia è in giro dappertutto», obiettò il rettore in tono suadente. «E con quel drago della sua segretaria scatenato…» soggiunse.
Si ammucchiarono nella grossa automobile di Isaac Newton: il Cancelliere, Featherstone e Frances Margaret dietro, il rettore davanti, sul sedile del passeggero.
«Dov’è Kurt Waldheim?» chiese qualcuno.
«Sono qua», rispose Waldheim affacciato al finestrino del guidatore. «Vi seguirò con la mia macchina.»
«Verrò con te», disse immediatamente Frances Margaret, scendendo dalla Mercedes di Isaac Newton e soggiungendo, attraverso il finestrino: «Incontriamoci sulla vecchia strada romana all’incrocio con la rotabile da Hildersham a Balsham».
Isaac Newton uscì da Cambridge passando di nuovo per la Hills Road e i Gogs, come lui e Frances Margaret avevano fatto la sera dell’incursione nel cottage del povero Mike Howarth. Prima di arrivare a Linton lasciarono la strada maestra per svoltare nel villaggio di Hildersham e arrampicarsi sulla collina retrostante.
Durante il tempo del viaggio, la cometa era diventata persino più brillante del pianeta Venere. Le particelle espulse dal corpo celeste formavano ora un disco perfettamente visibile a occhio nudo, grande e luminoso come la luna piena, se lo si guardava attraverso il binocolo di Featherstone.
«Salute! Qualcosa che fa veramente paura», annunciò il rettore. «Nessuno scalzacane di critico potrà più negare il fenomeno.»
Il Cancelliere fissò a lungo il cielo e Isaac Newton gli disse, parlando nel buio: «Che sia un cartello indicatore che ci segnala l’uscita dal ventesimo secolo?»
«Sembrerebbe di sì, ma per portarci dove?»
«Molto lontano, come del resto lei stesso immaginava.»
«Ha un’idea di che cosa possa trattarsi in realtà?»
«Posso solo fare congetture», rispose Isaac Newton.
«Allora, le faccia, queste congetture, maledizione!» esplose il rettore, anche lui dal buio.
«Immaginatevi», cominciò Isaac Newton, «di ruotare indifesi nello spazio, disorientati, privi di tutto eccezion fatta per impressioni confuse di ciò che è il mondo che vi circonda. Immaginatevi di trovarvi in queste angustie in numero identico a quello degli uomini esistenti sulla Terra, una grande popolazione di individui, ciascuno dei quali in possesso di un enorme potenziale per raggiungere tante mete, ma ciascuno incapace di raggiungerle, queste mete.
«Dell’ambiente che vi circonda non vedete nulla all’infuori di una brillante macchia di luce, il Sole, che significherebbe per voi la morte nel fuoco se doveste avvicinarvi troppo, una morte nel fuoco altrettanto sicura e dolorosa quanto quella che un essere umano potrebbe soffrire su un rogo. Eppure, alcuni di voi devono sacrificarsi in perpetuo avvicinandosi molto al Sole, come tante falene attirate da una candela. Lo devono fare tenendo conto di una possibilità seppure infinitesimale che piccole creature come noi si siano sviluppate su uno dei corpi interni del sistema solare. Creature piccole, ma provviste dell’intelligenza necessaria per fornirvi gli occhi e le orecchie che a voi mancano, in maniera che possiate orientarvi e scoprire per la prima volta il significato della vostra vita e del vostro posto nell’universo.
«Le morti nel fuoco sono continuate, poche ogni anno, non per secoli o millenni bensì per miliardi di anni. Le epoche si sono susseguite una dopo l’altra e il contatto non si è mai stabilito. Fino a stasera. Poco dopo le nove. Era la fine di una lunga strada, una strada di più di quattromila milioni di anni per voi e i vostri simili», disse Isaac Newton con gli occhi rivolti al cielo. «Ed è questo il motivo per cui ora siete in festa. Siete in festa perché ciò che vi sembrava impossibile è accaduto. La cometa di Halley sta festeggiando la fine di un lungo cammino.»
«Che è l’inizio di un lungo cammino per noi», soggiunse il Cancelliere.
«Io non posso dire che amen», concluse il rettore.