Elena aveva ragione: l’Egitto era la civiltà. Persino Lukka rimase impressionato.
— Le città non hanno mura intorno — si meravigliò. Avevamo attraversato il roccioso deserto del Sinai, aprendoci la strada attraverso passi di montagna e sabbie roventi sotto il sole inesorabile. Le tribù nomadi del Sinai erano diffidenti nei confronti degli stranieri, ma le leggi di ospitalità erano più forti delle loro paure. Non eravamo esattamente i benvenuti tra i pastori che incontravamo, ma eravamo tollerati, nutriti, dissetati e ricevevamo un augurio sincero di buon viaggio, quando lasciavamo le loro tende.
Io ricambiavo sempre con qualche piccolo dono preso dai nostri tesori: un cammeo d’ambra di Troia, una coppa di pietra sottile come una foglia di Gerico. I nomadi accettavano quei gingilli con solennità; ne conoscevano il valore, ma soprattutto apprezzavano il fatto che noi capissimo gli obblighi dell’ospitalità.
Comunque, il caldo e l’aridità di quella terra perduta ci fecero pagare un caro prezzo. I buoi che tiravano i carri cedettero l’uno dopo l’altro, come anche molti dei nostri cavalli. Li rimpiazzammo con piccoli, testardi somari e cammelli infidi e maleodoranti, comprati dai nomadi in cambio di gioielli e buone armi. Lasciammo i carri ingombranti alle nostre spalle e ammucchiammo le nostre cose sulle nuove cavalcature.
Elena sopportava la fatica meglio della maggior parte degli uomini. Adesso viaggiava su un cammello ricalcitrante, a malapena addomesticato, in un’ondeggiante portantina di sete che la riparava dal sole. Diventammo tutti magri sino all’osso, prosciugati del grasso e dei liquidi dal sole impietoso. Eppure Elena conservava la sua bellezza, pur senza trucco e belle vesti. Non si lamentava mai della durezza del deserto; meglio di tutti noi, si rendeva conto che ogni passo che facevamo ci avvicinava all’Egitto.
Nemmeno io mi lamentavo. Non sarebbe servito a niente. E l’Egitto era anche la mia meta, con la grande piramide dove ancora una volta avrei incontrato il Radioso e avrei fatto in modo che mi restituisse la mia amata.
Arrivò infine il mattino in cui la nostra minuscola carovana vide una palma ondeggiare all’orizzonte. A me sembrò che ci stesse chiamando, dicendoci che il nostro viaggio era quasi finito. Incitammo i cammelli e i cavalli alla massima velocità, mentre gli asini ci seguivano imperturbabili e presto vedemmo la terra farsi verde davanti ai nostri occhi.
Alberi e campi coltivati ci davano il benvenuto. Uomini e donne mezzi nudi tra le messi, che lavoravano in una rete intricata di stretti canali di irrigazione. In lontananza, vidi scorrere un fiume.
— Il Nilo — disse Elena, dal cammello su cui si trovava. Lo guidava uno degli Ittiti e lei glielo aveva fatto portare vicino a me.
Io mi voltai sulla sella improvvisata, nient’altro che qualche coperta ripiegata sotto di me, e la guardai. — Uno dei suoi rami, almeno. Questa dev’essere la zona del delta, dove il fiume si divide in vari bracci.
I contadini non ci notarono affatto. Eravamo un gruppetto di soldati, pochi per significare qualcosa per loro, troppi per fare domande. Trovammo abbastanza in fretta una strada che portava alla città di Talphanes, nel cuore del delta.
Lukka era sorpreso per l’assenza di mura difensive: io ero sorpreso di quanto la città fosse grande. Mentre Troia e Gerico si stringevano fittamente su pochi acri, Talphanes si allargava per quasi un chilometro di diametro. Dubitavo che avesse una popolazione molto più numerosa di Gerico, ma la gente viveva in case spaziose e ariose, lungo viali larghi e diritti.
Trovammo una locanda ai margini della città, un gruppo di basse costruzioni di mattoni sistemate intorno a un cortile centrale, con palme e salici imponenti che offrivano riparo dal sole continuo. C’era anche un pergolato che stendeva i suoi viticci su una parte del cortile. Un orto, vicino alla locanda, dava sul fiume; le stalle erano dalla parte opposta. A seconda di come soffiava il vento, l’aria poteva odorare di limoni e melograni oppure di sterco di cavallo, con il noioso ronzare delle mosche.
Il locandiere fu felicissimo di ricevere quel manipolo di ospiti distrutti dal viaggio. Era un ometto basso, rotondo, calvo e gioviale, di mezza età, che teneva le mani sempre intrecciate sulla grande pancia. La sua pelle era scura come il mantello di Lukka, gli occhi due sfavillanti pezzi di carbone, specialmente quando era intento alla sua occupazione preferita: calcolare quanto avrebbe potuto far pagare per i suoi servizi.
Il personale era costituito dalla famiglia del locandiere, una moglie scura e rotonda come lui e persino più grassa, e una dozzina di figli dalla pelle bruna che andavano dai sei ai vent’anni. E gatti. Ne contai dieci solo nel cortile, che ci osservavano con gli occhi a fessura, camminando con passo felpato sulla ringhiera del balcone o sul terreno polveroso. I figli del locandiere corsero rapidamente ad aiutarci a scaricare le nostre cose, a badare agli animali, a mostrarci le nostre stanze. Non avevano addosso nemmeno un grammo di grasso.
Scoprii che riuscivo a parlare la lingua dell’Egitto facilmente come qualunque altra. Se Lukka era stupito del mio dono, non lo diede a vedere. Elena lo dava per scontato, anche se conosceva solo la sua lingua achea e il dialetto di Troia.
Dopo che ci fummo sistemati comodamente nelle nostre stanze, trovai il locandiere in una cucina all’aperto, che gridava ordini a due ragazzine che stavano cuocendo due pagnotte piatte e rotonde in un forno a forma di alveare. Indossavano solo un perizoma, contro il caldo del forno; i loro giovani seni nudi erano sodi, i loro corpi flessuosi e scuri, coperti di un velo di sudore.
Se il locandiere non gradiva che io vedessi le sue figlie seminude non ne diede segno. Mi sorrise e fece un cenno della testa verso di loro quando mi notò all’ingresso della cucina.
— Mia moglie insiste che devono imparare a cucinare come si deve — disse. — È necessario, se vogliono trovare marito, dice lei. Io credo che siano necessarie altre qualità, eh? — Rise complice e confidenziale.
Apparentemente, non aveva nulla in contrario a offrire le sue figlie agli ospiti, un fatto che Lukka avrebbe apprezzato. Io ignorai le sue insinuazioni, e dissi: — Ho portato questi uomini nella tua terra per offrire i loro servizi al re.
— Il potente Merenptah? Risiede a Wast, più in là, sul fiume.
— I miei uomini sono soldati professionisti della terra degli Ittiti. Cercano servizio presso il tuo re.
Il sorriso del locandiere svanì. — Ittiti? Sono stati nostri nemici…
— L’impero ittita non esiste più. Sono soldati senza più esercito. C’è un rappresentante del re in questa città? Qualche funzionario o capo militare con cui possa parlare?
Mosse la testa a scatti, abbastanza vigorosamente da far dondolare le guance. — Il sovrintendente del re. È qui, nel cortile. Aspetta di vederti.
Io non commentai e lasciai che l’uomo mi conducesse nel cortile. Il sovrintendente del re era già lì, alla locanda, per esaminarci. Il nostro ospite doveva avergli mandato in tutta fretta uno dei suoi figli nel momento stesso in cui eravamo arrivati alla sua porta.
Numerosi gatti schizzarono via dalla nostra strada mentre il locandiere mi precedeva lungo un corridoio circondato da colonne e poi nel cortile, da un’entrata laterale. Seduto all’ombra del pergolato c’era un uomo dai capelli grigi, con un viso piccolo e le guance incavate, completamente rasato, come tutti gli Egiziani. Si alzò in piedi quando mi avvicinai a lui. Non era più alto del locandiere, e i suoi capelli grigi mi arrivavano a malapena alla spalla. La sua pelle, però, era di una sfumatura più chiara, e il naso sottile come la lama di una spada. Dal suo viso serio, gli occhi mi studiavano attentamente mentre mi avvicinavo. Indossava un fresco caftano così leggero che riuscivo a vedere in trasparenza il corto gonnellino che portava sotto. Non aveva nessun’arma visibile. Il solo emblema del suo ufficio era un medaglione d’oro appeso a una catena intorno al collo.
Improvvisamente, mi sentii decisamente sporco. Indossavo ancora il gonnellino di pelle e l’armatura che portavo da molti mesi, sotto una veste leggera. Per lunga abitudine avevo ancora un pugnale legato alla coscia, sotto il gonnellino. I miei indumenti erano logori e sciupati dal viaggio. Avevo bisogno di un bagno e di radermi, e pensai seriamente di mettermi sottovento rispetto a quell’uomo così lindo e civile.
— Sono Nefertu, servo del Re Merenptah, sovrano delle Due Terre — disse, senza sollevare le braccia che teneva lungo i fianchi.
— Io sono Orion — risposi.
C’erano due panche di legno sotto i rami contorti del pergolato. Nefertu m’invitò a sedere. “È educato” pensai “o forse si sente semplicemente a disagio a dover allungare il collo per guardarmi.” La mia testa sfiorava i tralci di vite.
Il nostro geniale ospite uscì tempestivamente dalla zona della cucina portando un vassoio con una caraffa imperlata di goccioline, due belle coppe di porcellana e una ciotola colma di grinzose olive nere. Lo depose su un tavolo di legno a portata di mano di Nefertu, poi si inchinò e tornò sorridendo verso la cucina. L’Egiziano versò il vino e me ne offrì una coppa. Bevemmo insieme. Il vino era mediocre, leggero e acido; ma era freddo, e tanto bastava.
— Non sei un Ittita — disse con calma, mettendo giù la coppa. La sua voce era bassa e controllata, come di chi è abituato a parlare con gente al di sotto quanto al di sopra del proprio rango.
— No — ammisi. — Vengo da molto lontano.
Ascoltò pazientemente la mia storia su Troia, su Gerico, su Lukka e i suoi uomini che cercavano servizio presso il suo re. Non mostrò nessuna sorpresa alla caduta dell’impero ittita. Ma quando parlai degli Israeliti a Gerico, i suoi occhi si spalancarono leggermente.
— Sono gli schiavi che il nostro re Merenptah ha cacciato al di là del Mar Rosso?
— Gli stessi — risposi — anche se loro dicono di essere fuggiti dall’Egitto e che il vostro re ha cercato di ricatturarli senza riuscirci.
L’ombra di un sorriso vibrò sulle labbra di Nefertu. Lui la cancellò immediatamente e chiese con una certa sollecitudine: — E quella stessa gente ha conquistato Gerico?
— Sì. Credono che il loro dio abbia assegnato loro l’intera terra di Canaan, e che il loro destino sia di governarla tutta.
Nefertu sorrise di nuovo, leggermente, come chi apprezza una situazione ironica. — Possono formare un utile paraurti tra il nostro confine e le tribù dell’Asia — rifletté. — Queste notizie devono essere passate al Faraone.
Parlammo per ore, in quell’angolo ombroso del cortile. Seppi che la parola Faraone, come diceva Nefertu, più che il sovrano designava essenzialmente il governo, la casa del re, la sua amministrazione. Erano anni che l’Egitto veniva attaccato da quelli che lui chiamava i Popoli del Mare, guerrieri non meglio identificati del continente europeo e delle isole egee che sporadicamente razziavano le città del delta e della costa. Considerava Agamennone e i suoi Achei alla stregua dei Popoli del Mare: barbari. Vedeva la caduta di Troia come un colpo inferto alla civiltà, e io ero d’accordo con lui, anche se non gli dissi come avevo sfidato il Radioso per dare il mio contributo a quella distruzione. Come non gli dissi che la donna che viaggiava con me era la regina Elena di Sparta, né che il suo legittimo marito, Menelao, la stava cercando. Parlai solo delle guerre che avevo visto, e del desiderio che la mia banda entrasse al servizio del suo re.
— L’esercito ha sempre bisogno di uomini — disse Nefertu. Il vino era finito da tempo, delle olive non era rimasto altro che un mucchio di semi e il tramonto del sole disegnava lunghe ombre nel cortile. Il vento era cambiato: mosche provenienti dalle stalle ronzavano intorno a noi fastidiosamente. Ma Nefertu non chiamò nessuno schiavo a sventolare un ventaglio per scacciarle.
— Gli stranieri sono accettati nell’esercito? — chiesi.
Il suo piccolo sorriso ironico tornò. — L’esercito è composto quasi solo da stranieri. La maggior parte dei figli delle Due Terre ha perso la sete di glorie militari molto tempo fa.
— Allora gli Ittiti sarebbero accettati?
— Accettati? Sarebbero i benvenuti, soprattutto se hanno le conoscenze di ingegneria di cui parli.
Mi disse di aspettare alla locanda finché non fosse riuscito a mettersi in contatto con Wast, la capitale, molto più a sud. Mi aspettavo di rimanere a Talphanes per molte settimane, invece il giorno dopo Nefertu tornò alla locanda e mi disse che il generale del re voleva vedere gli uomini dell’esercito ittita.
— È qui a Talphanes? — chiesi.
— No, è nella capitale, alla grande corte di Merenptah. A Wast.
Sbattei gli occhi per la sorpresa. — Allora, come hai fatto a mandare un messaggio.
Nefertu rise, un sorriso gentile, davvero divertito. — Orion, più di tutti gli altri dèi noi veneriamo Amon, lo stesso sole glorioso. Lui rende rapidi messaggi per tutta la lunghezza e la larghezza della nostra terra, su specchi che catturano la sua luce.
Un telegrafo solare. Risi anch’io. Che cosa ovvia, scontata. I messaggi potevano andare su e giù per il Nilo quasi alla velocità della luce.
— Devi portare i tuoi uomini a Wast — disse Nefertu. — E io vi accompagnerò. Sarà la mia prima visita alla capitale dopo molti anni. Devo ringraziarti per questa opportunità, Orion.
Io accettai i suoi ringraziamenti inchinando leggermente la testa.
Elena era felicissima di andare nella capitale.
— Non abbiamo nessuna garanzia di vedere il re — l’avvisai. Mi zittì con un vago gesto della mano. — Quando si renderà conto che la regina di Sparta e principessa di Troia è nella sua città, certo pretenderà di vedermi.
Io ribattei: — Quando si renderà conto che Menelao può fare razzie sulle sue coste nel tentativo di trovarti, potrà anche pretendere che tu sia restituita a Sparta.
Lei tacque, accigliata.
Quella notte però, mentre stavamo sdraiati sul morbido letto di piume della locanda, Elena si voltò verso di me e chiese: — Cosa succederà quando mi consegnerai al re egiziano?
Io le sorrisi nelle ombre della luna e le accarezzai i capelli dorati. — Senza dubbio, s’innamorerà follemente di te. O, quanto meno, ti darà in sposa a uno dei suoi figli.
Ma lei non era in vena di scherzare.
— Non pensi seriamente che mi manderebbe di nuovo da Menelao, vero?
Anche se pensavo che fosse possibile, risposi: — No, certo che non lo farebbe. Come potrebbe? Tu vai da lui per avere la sua protezione. Non può dire di no a una regina. Per questa gente gli Achei sono potenziali nemici: non ti obbligheranno a tornare a Sparta.
Elena si appoggiò al cuscino. Fissando il soffitto, chiese: — E tu, Orion, rimarrai con me?
Speravo quasi di potere. — No — dissi dolcemente, così piano che riuscii a malapena a sentire la mia stessa voce. — Non posso.
— Dove andrai?
— A trovare la mia dea — sussurrai.
— Mi hai detto che è morta.
— Cercherò di resuscitarla, di riportarla alla vita.
— Andrai nell’Ade per cercarla? — la voce di Elena suonava allarmata, spaventata. Si voltò dalla mia parte e mi strinse le spalle nude. — Orion, non devi correre un rischio simile! Orfeo stesso…
La feci tacere posandole un dito sulle labbra. — Non aver paura. Sono già morto molte volte, e tornato nel mondo dei vivi. Se esiste davvero un Ade, devo ancora vederlo.
Lei mi fissò come se vedesse un fantasma o, peggio, un bestemmiatore.
— Elena — dissi — il tuo destino è qui, in Egitto. Il mio è altrove, in un regno dove vivono quelli che tu chiami dèi. Non sono dèi, non nel senso che credi tu. Sono molto potenti, ma non sono né immortali né molto interessati a noi umani. Uno di loro ha ucciso la donna che amo. Io cercherò di riportarla alla vita. Cercherò di vendicarmi del suo assassino. Questo è il mio destino.
— Allora ami lei, e non me?
Questo mi sorprese. Per un momento, non riuscii a rispondere. Infine le presi il mento con la mano e dissi: — Solo una dea può trattenermi dall’amarti, Elena.
— Ma io ti amo, Orion. Sei il solo uomo a cui mi sia data volontariamente. Io ti amo! Non voglio perderti!
Un’onda di tristezza si diffuse dentro di me, e pensai a quanto piacevolmente avrei potuto vivere in quella terra senza tempo con quella donna incomparabilmente bella.
Ma dissi: — I nostri destini prendono direzioni diverse, Elena. Mi piacerebbe che fosse altrimenti, ma nessuno può andare contro il suo fato.
Non piangeva. Eppure la sua voce era colma di lacrime mentre diceva: — Il destino di Elena è di essere desiderata da tutti gli uomini tranne che dall’unico che lei ama.
Chiusi gli occhi e mi sforzai di cancellare quelle parole. Perché non potevo amare quella donna così bella? Perché non potevo essere un uomo comune, e vivere i miei anni in una sola vita, amando ed essendo amato, invece di dover combattere contro le forze del continuum? Sapevo la risposta. Non ero libero: quantunque lottassi, ero sempre la creatura del Radioso, il suo Cacciatore, mandato lì per compiere il suo lavoro. Potevo ribellarmi a lui, ma anche in quel modo la mia vita era legata al suo capriccio.
E poi vidi la donna dagli occhi grigi che amavo davvero, e mi resi conto che nemmeno Elena poteva sfidarla. Ricordai i nostri brevi momenti insieme, e la mia mente si riempì di angoscia e di dolore. Il mio destino era legato per sempre al suo, attraverso tutti gli universi, attraverso tutti i tempi. Se non poteva essermi restituita, allora la vita non significava niente per me, e non volevo altro che una morte definitiva.
Il mattino seguente, ci mettemmo in viaggio sul fiume diretti a Wast, la capitale. Io mi sentivo svuotato, psicologicamente e fisicamente. La lunga marcia attraverso il Sinai aveva chiesto il suo prezzo al mio corpo, ed ora gli occhi tristi di Elena e i fantasmi della depressione stavano assalendo il mio spirito.
Ma quando la nostra larga nave si staccò dalla banchina e la sua vela si fu riempita di vento, ci trovammo tra i suoni, i colori e gli odori di una terra nuova e affascinante che ci stregò la mente. Se Lukka era sorpreso di tutte quelle città senza mura, noi eravamo costantemente stupiti e deliziati di quello che vedevamo dell’Egitto dalla nostra imbarcazione sul Nilo.
Nefertu era il nostro ospite, il nostro guardiano e la nostra guida. La nave che aveva requisito aveva quaranta rematori e cabine chiuse per Elena, per me e per lui. Una singola vela latina ci faceva risalire la forte corrente del fiume per la maggior parte del tempo, sostenuta da un vento dal nord quasi continuo. I rematori servivano raramente. Non erano schiavi, notai, ma soldati che prendevano ordini non dal capitano della nave ma dallo stesso Nefertu.
Io sorrisi tra me. Quell’uomo veramente civile si era fatto scortare da quaranta uomini armati, per assicurarsi che arrivassimo dov’eravamo diretti, senza fallo. Era una sottile dimostrazione di forza, intesa ad assicurarsi che nulla andasse storto durante il viaggio, senza allarmarci o farci sentire sotto controllo.
Ma se Nefertu era capace di sottigliezza, la terra che vedevamo dal ponte era una meraviglia. L’Egitto era vasto, grandioso, imponente, e ispirava reverenza.
Il Nilo era la sua linfa vitale, con la sua corsa di migliaia di miglia da nord a sud. Lontano, molto oltre le rive del fiume, potevamo vedere nudi dirupi di calcare e granito, e più in là il deserto. Ma lungo il sottile nastro d’acqua generatrice di vita c’erano campi fiorenti, alberi ondeggianti e poderose città.
Ci volle un intero giorno per oltrepassare una tipica città egiziana, adagiata sulla riva. Vedemmo banchine e magazzini che fervevano d’attività, granai dove lunghe file di carri scaricavano i raccolti dorati della terra, e proprio ai bordi dell’acqua templi imponenti, con le scale che arrivavano ai moli di pietra dove molte navi portavano fedeli e pellegrini.
— Questo è niente — disse Nefertu un pomeriggio, mentre scivolavamo al di là di un’ennesima città. — Aspetta che arriviamo a Menefer.
Stavamo consumando una cena leggera a base di datteri, fichi e fettine sottili di melone dolce. Nefertu trovava piacevole mangiare in compagnia di Elena; parlava la lingua achea molto bene e si tratteneva dall’usare la propria quando Elena era presente.
Lei chiese: — Cosa sono le piccole costruzioni dall’altra parte del fiume?
Anch’io avevo notato che le città sorgevano invariabilmente sulla riva orientale, ma che in corrispondenza di ognuna, sulla riva opposta, si vedevano piccole strutture scavate nella parete di roccia o disseminate tra i dirupi che fiancheggiavano la valle.
— Sono templi? — chiese ancora Elena prima che Nefertu potesse rispondere alla sua prima domanda.
— In un certo senso, mia signora — rispose. — Sono tombe. I morti vengono imbalsamati e messi nelle tombe in attesa della vita futura, circondati dai cibi e dagli oggetti di cui avranno bisogno quando ritorneranno a vivere.
Il bel viso di Elena tradiva lo scetticismo, nonostante quello che le avevo detto di me stesso. — Credete che la gente viva più di una vita?
Io continuai a restare in silenzio. Avevo vissuto molte vite, ero passato attraverso la morte molte volte, per trovarmi poi in epoche strane e distanti dalla mia. Non tutti gli uomini vivevano più di una volta, mi era stato detto. Mi resi conto d’invidiare quelli che potevano chiudere gli occhi e farla finita definitivamente.
Nefertu sorrise educatamente. — L’Egitto è una terra antica, mia signora. La nostra storia è cominciata migliaia d’anni fa, al tempo in cui gli dèi crearono la Terra e fecero dono della Madre Nilo ai nostri antenati. Alcune delle tombe che vedi hanno mille anni; alcune sono anche più vecchie. Troverai che il nostro popolo è più interessato alla morte e a ciò che viene dopo la vita che non alla vita stessa.
Elena, dando di nuovo uno sguardo alle ricche costruzioni circondate di colonne, disse: — Ad Argo solo i re hanno tombe così splendide.
Il sorriso dell’egiziano si allargò. — Non hai visto ancora niente di veramente splendido. Aspetta sino a Menefer.
I giorni passavano in fretta. Il vento del nord gonfiava le nostre vele quasi costantemente. Di notte attraccavamo a qualche molo, ma dormivamo sulla nave. A Lukka e ai suoi uomini era permesso di visitare le città dove ci fermavamo per la notte, e le guardie di Nefertu li iniziarono ai due piaceri più antichi dell’Egitto: la birra e le prostitute. Gli uomini stavano facendo amicizia con i nuovi compagni, bevevano e frequentavano i bordelli insieme, almeno finché non avessero ricevuto l’ordine di affrontarsi con le armi in pugno.
Elena adottò il gatto della nave, un animale completamente bianco che andava a zonzo sul ponte con un’aria signorile e permetteva agli uomini che gli piacevano particolarmente di offrirgli il cibo. Gli Egiziani consideravano i gatti come mini-dèi; Elena era deliziata dal fatto che le permettesse di coccolarlo, ogni tanto.
Poi, una mattina, mi svegliai proprio al sorgere del sole. In lontananza vidi un bagliore, però a occidente, e per un istante il mio cuore si fermò. Aspettai che il bagliore si diffondesse e mi inghiottisse, per portarmi faccia a faccia con il Radioso ancora una volta.
Ma non accadde. Rimase semplicemente all’orizzonte come un faro lontano. Quale fosse il suo significato, non seppi dirlo. Non ero stato convocato dai Creatori sin da quando avevamo lasciato le rovine di Gerico. Non avevo più visto il loro mondo. Sapevo solo che li avrei incontrati di nuovo in Egitto e che avrei distrutto il Radioso, o lui avrebbe distrutto me. Mi bastava aspettare finché quel momento non fosse arrivato.
Ma cos’era quel fulgore all’orizzonte?
— Lo vedi.
Mi voltai, e Nefertu era in piedi vicino a me.
— Cos’è? — chiesi.
Scosse la testa lentamente. — Le parole non possono spiegarlo. Dovrai vederlo da te.
Nelle prime ore del mattino, la nostra barca veleggiò in direzione di quella luce. Arrivammo alla città di Menefer, una distesa di poderose costruzioni di pietra che torreggiavano sulla riva orientale del Nilo: templi e obelischi che si slanciavano nel cielo senza nubi, banchine che facevano sembrare piccola qualunque cosa avessimo visto prima, lunghi viali di colonne fiancheggiati da palme ed eucalipti, palazzi con incredibili giardini e persino boschetti sui tetti.
Ma tutto questo lo notammo a malapena. Poco alla volta, tutti gli occhi della nave si volsero a occidente e all’indescrivibile visione.
— La grande piramide di Khufu — disse Nefertu in un sussurro. Anche lui ne era intimorito. — È lì da più di mille anni. Ci resterà sino alla fine dei tempi.
Era un’enorme piramide di un bianco abbagliante, così enorme e massiccia da essere indescrivibile. C’erano altre piramidi lì vicino, e una grande pietra intagliata a forma di sfinge da un lato, come a guardia della via d’accesso. Templi circondati di colonne fiancheggiavano la strada che portava alla grande piramide; sembravano case di bambola vicino a quella poderosa immensità.
La piramide era interamente rivestita di luccicante pietra bianca, lucidata così perfettamente che potevo quasi vedervi riflessa la sfinge. La cima era grande abbastanza da contenere il palazzo di Priamo, ma era la parte terminale di quella maestosa struttura che risplendeva alla luce del sole. Era di elettro, una lega d’oro e argento, mi disse Nefertu. Era stata quella a catturare la luce del sole appena sorto.
Era lì che dovevo incontrare il Radioso. Era lì che dovevo riportare Atena alla vita. Ma la nostra nave non si fermò.
Mentre guardavo, la candida luccicante superficie della piramide cominciò a cambiare lentamente. Apparve un grande occhio, nero contro la pietra bianca, e guardò direttamente verso di noi. Dalla nave si levò un gemito. Molti Ittiti caddero in ginocchio. Io sentii rizzarsi i peli delle braccia.
Nefertu mi toccò la spalla: era la prima volta che mi metteva una mano addosso.
— Non spaventarti — disse. — È un effetto ottico causato dal sole e da certe piccole pietre sistemate lungo la facciata della piramide per creare un effetto d’ombra quando il sole è nella giusta angolatura. È come una meridiana, solo che mostra l’Occhio di Amon.
Io distolsi lo sguardo e fissai Nefertu. Il suo viso era serio, quasi solenne. Non rideva del timore, della paura dei suoi barbari visitatori.
— Come già ti ho detto — continuò scusandosi — non ci sono parole che possano spiegare la grande piramide, quando la si vede per la prima volta.
Io annuii gravemente. Mi era difficile parlare.
Il grande Occhio di Amon scomparve rapidamente come si era aperto, verso mezzogiorno. Al suo posto comparve la figura di un falco. Passammo l’intera giornata a guardare la piramide; nessuno di noi riusciva a staccarne gli occhi.
— È la tomba di Khufu, uno dei nostri re più grandi, vissuto più di mille anni fa — spiegò Nefertu. Contiene la camera mortuaria del re, e altre stanze per i suoi tesori e servitori. In passato, quando il re moriva i servi della sua Casa venivano murati nella piramide insieme con il suo corpo imbalsamato, in modo da poterlo servire adeguatamente quando fosse risorto.
— I servi venivano rinchiusi vivi? — domandai.
Lui confermò. — Vivi. Lo facevano volontariamente, ci hanno detto, spinti dal grande amore per il loro sovrano, e sapendo che sarebbero stati con lui nella vita ultraterrena.
L’espressione del suo viso magro era difficile da decifrare. Credeva a quelle storie o stava solo riportando la versione ufficiale?
— Mi piacerebbe vedere la grande piramide — dissi.
— L’hai appena vista.
— Voglio dire da vicino. Forse è possibile entrare…
— No! — Era la parola più brusca che Nefertu mi avesse mai detto. — La piramide è una tomba consacrata. Le guardie la proteggono giorno e notte da quelli che vogliono profanarla. Nessuno può entrare nella tomba senza un permesso speciale del re in persona.
Io chinai la testa in segno di tacita accettazione, ma dentro di me pensavo: “Non aspetterò il permesso del re. Entrerò nella tomba e troverò il Radioso che mi aspetta lì. E lo farò stanotte”.
Finalmente la nostra nave attraccò a un massiccio molo di pietra in periferia. Come al solito, Lukka e i suoi uomini andarono in città con gli uomini di Nefertu. Ma notai che c’erano molte guardie sul molo che certamente avrebbero bloccato il passaggio finché Nefertu o qualche altro funzionario non l’avessero permesso.
Elena, Nefertu ed io cenammo insieme a bordo della nave: pesce, agnello e buon vino, il tutto fatto arrivare dalla città.
Nefertu ci raccontò molte cose sulla grande piramide e su Menefer, che un tempo era stata la capitale dell’Egitto e alla quale lui si riferiva sempre come al Regno delle Due Terre. Originariamente chiamata Città del Muro Bianco, quando era diventata la capitale del regno, la città aveva assunto il nome di Ankhtawy, che significa “quella che tiene unite le Due Terre”. Da quando la capitale era stata trasferita a sud, a Wast, il suo nome era stato nuovamente cambiato in Menefer, che significava “Bellezza Armoniosa”.
Per Elena, che parlava l’acheo, il nome della città era Memfi.
Io ascoltavo impaziente la loro conversazione durante la lunga cena. Finalmente terminammo, e Nefertu ci augurò la buona notte. Elena ed io passammo quasi un’altra ora a riempirci gli occhi della città e della grande piramide al di là del fiume.
La massiccia tomba di Khufu sembrava brillare di luce propria anche molto tempo dopo che il sole era calato. Era come se una misteriosa forma di energia venisse generata all’interno di quelle pietre titaniche e irradiasse all’esterno, nella notte.
— Deve essere stata costruita dagli dèi — disse Elena, sussurrando nella notte tiepida premendo il suo corpo contro il mio. — Esseri mortali non avrebbero mai potuto costruire qualcosa di così enorme.
Le misi un braccio intorno alla vita. — Nefertu dice che l’hanno costruita gli uomini. Migliaia di uomini, che lavoravano come formiche.
— Solo gli dèi o i titani potrebbero costruire una cosa simile, insistette Elena.
Pensai ai Troiani e agli Achei che credevano che le mura di Troia fossero state costruite da Apollo e Poseidone. Quel ricordo, e l’ostinata insistenza di Elena, mi misero un po’ d’amaro in bocca. — “Perché la gente vuole credere di non essere capace di grandi azioni? Perché deve attribuire la propria grandezza agli dèi, che in realtà non sono più saggi o più gentili di qualunque pastore vagabondo?”
Passeggiammo per tutta la lunghezza del ponte della nave, e ci trovammo di fronte al porto.
— E questo molo poderoso? L’hanno costruito gli dèi? È molto più lungo delle mura di Troia. E l’obelisco all’estremità? I templi e le ville che abbiamo visto oggi? Le hanno costruite gli dèi?
Lei rise piano. — Orion, non essere sciocco. Certo che no; gli dèi non si abbassano a costruire cose così terrene.
— Allora, se i mortali possono aver costruito strutture così gigantesche, perché non possono aver costruito le piramidi? Non hanno niente di tanto misterioso: sono solo più grandi e richiedono più manodopera e più tempo.
Lei decise di esorcizzare la mia bestemmia canzonandomi. — Per un uomo che dichiara di servire gli dèi, Orion, dimostri davvero poco rispetto per gli immortali.
Dovetti convenirne. Nutrivo scarso rispetto per coloro che avevano creato quel mondo e la sua gente, e che si sentivano in diritto di servirsi di noi, torturandoci e uccidendoci, qualunque fossero gli scopi che li muovevano.
Elena percepì il mio malumore e cercò di calmarmi facendo l’amore. Per un po’ dimenticai tutto e permisi al mio corpo di cancellare qualsiasi altra realtà. Ma quando, al culmine della passione, io chiusi gli occhi, mi si parò davanti il sorriso di Atena, bello al di là della mortalità umana, e l’incantesimo si spezzò.
Anche l’umore scherzoso di Elena era cambiato. Sussurrandomi nell’orecchio, disse: — Non sfidare gli dèi, Orion. Per favore, non metterti contro di loro. Non può venirne nulla di buono.
Io non risposi. Non potevo dirle niente che non fosse una bugia o le desse motivo di preoccupazione.
Ci addormentammo abbracciati. Ma presto io mi svegliai al leggero dondolio della nave e al rumore di risate soffocate. Lukka e i suoi uomini stavano tornando. Doveva essere quasi l’alba.
Chiudendo gli occhi, mi concentrai sulla grande piramide di Khufu. Sintonizzai ogni particella del mio essere su quel mucchio di pietre e sulla camera funebre che conteneva. La vedevo chiaramente, che risplendeva contro la notte, stagliandosi nel cielo stellato, brillante di una luce che nessun occhio mortale poteva vedere.
La grande piramide pulsava di energie interne, luccicante, invitante. Improvvisamente, dalla sua punta, un vivido raggio blu saettò verso il cielo, un dardo scintillante di energia che si alzava verso lo zenit della volta notturna.
Ero in piedi davanti alla piramide. Il mio corpo fisico era lì, lo sapevo. Eppure le guardie ai margini della grande piazza antistante non mi videro. Non percepivano la luce che irradiava dalla grande costruzione né lo strale incredibilmente azzurro che prorompeva dalla sua estremità.
E io non potevo avvicinarmi. Come se un muro impenetrabile mi si parasse davanti, non potevo fare un solo passo verso la piramide. Rimasi fuori, nell’aria notturna, finché il sudore non cominciò a colarmi sul viso e sul petto, e poi sulle costole e sulle gambe.
Non riuscii a entrare nella piramide. Il Radioso vi si era sigillato dentro, compresi, e non mi avrebbe permesso di raggiungerlo. Stava proteggendosi da me o dagli altri Creatori?
Non faceva differenza, per quanto mi riguardava. A meno che non fossi riuscito a entrare nella piramide, non potevo in alcun modo costringerlo a resuscitare Atena. Gridai forte nella notte, urlando alle stelle la mia rabbia e la mia frustrazione, e caddi sulle pietre che lastricavano la grande piazza davanti alla tomba di Khufu.
Il viso di Elena era bianco per lo shock.
— Cosa c’è, Orion? Cos’hai?
Ero nella nostra cuccetta a bordo della nave, madido di sudore, aggrovigliato nella leggera coperta che ci eravamo buttati addosso.
Dovetti inghiottire due volte prima di ritrovare la voce. — Un sogno — dissi rauco. — Niente…
— Hai visto di nuovo gli dèi — disse Elena.
Sentii un rumore di piedi nudi che correvano e poi qualcuno batté alla porta. — Mio signore Orion! — La voce di Lukka.
— Va tutto bene — gridai. — Solo un brutto sogno.
Ancora con il viso del colore della cenere, Elena disse: — Ti distruggeranno, Orion. Se continui con questo folle assalto contro di loro, ti schiacceranno completamente!
— No — risposi. — Non fino a quando non avrò avuto la mia vendetta. Dopo, potranno farmi quello che vogliono. Ma prima la vendicherò.
Elena mi voltò le spalle, il volto segnato d’ira e rammarico.
Mi svegliai completamente instupidito, quella mattina. Se Nefertu si chiedeva cosa mi aveva fatto gridare, fu troppo educato per domandarlo. L’equipaggio mollò gli ormeggi e riprendemmo il nostro viaggio verso la capitale.
Passai tutta la giornata a fissare la grande piramide, con il grande Occhio di Amon che mi fissava di rimando. Il Radioso ne aveva fatto la sua fortezza, il suo rifugio, mi dissi. Dovevo riuscire a entrare, in qualche modo. O morire nel tentativo.
Navigammo sul Nilo per settimane, lunghi giorni vuoti di sole e di fiume, lunghe notti di tentativi frustranti per raggiungere il Radioso o qualcuno degli altri Creatori. Era come se avessero lasciato la Terra e fossero andati da qualche altra parte. O forse si stavano tutti tenendo nascosti. Ma da cosa?
Elena mi studiava continuamente. Parlava raramente degli dèi, solo qualche volta, di notte, quando stavamo per addormentarci. Mi chiedevo fino a che punto credesse a quello che le avevo detto. Forse non lo sapeva nemmeno lei.
Ogni giorno era uguale all’altro, tranne che per il mutare del panorama. Un giorno oltrepassammo quella che sembrava una città in rovina: costruzioni smozzicate, monumenti ridotti in macerie.
— C’è stata una guerra, qui? — chiesi a Nefertu.
Per la prima volta lo vidi irritato, quasi adirato. — Questa era la città di un re — disse ermeticamente.
— Un re? Vuoi dire che questa, una volta, era la capitale?
— Praticamente sì.
Dovetti tirargli fuori la storia, parola per parola. Era chiaramente penoso per lui, ma così affascinante che non potei resistere dal continuare ad assillarlo finché non ebbi l’intero racconto. La città si chiamava Akhetaten, ed era stata costruita dal re Akhenaten più di cento anni prima. Per Nefertu, Akhenaten era un re malvagio, un eretico che aveva rinnegato gli dèi dell’Egitto tranne uno: Aten, un dio del sole.
— Ha causato grandi miserie in questa terra, e la guerra civile. Quando finalmente morì, la città fu abbandonata, e i suoi successori hanno abbattuto i suoi monumenti e distrutto i suoi templi. La sua memoria è una vergogna per noi.
“Sì” pensai. Riuscivo a capire quanto quel ricordo mettesse Nefertu a disagio. Eppure mi chiesi se l’eresia di Akhenaten non fosse stata uno dei piani del Radioso andati storti. Forse ero passato di lì, in una delle vite che non riuscivo a ricordare, e forse un domani vi sarei tornato, per eseguire chissà quale volontà dei Creatori.
“No” mi dissi. “I miei giorni come loro servitore finiranno una volta che avrò riportato Atena alla vita”. O almeno, così speravo.
Continuammo a navigare, e vedemmo coccodrilli scivolare lungo le rive piene di canne ed enormi ippopotami tuffarsi e barrire l’uno all’altro, con le grandissime bocche rosa e i denti tozzi ridicoli e terrificanti allo stesso tempo.
— Non è un buon posto per nuotare — osservò Lukka.
— No, a meno di non voler finire come pasto di mezzogiorno — fui d’accordo.
Finalmente ci avvicinammo a Wast, la potente capitale del Regno delle Due Terre. Lungo la riva orientale i canneti lasciarono il posto ai campi coltivati, e poi a basse costruzioni di mattoni secchi intonacati. Dall’altra parte del fiume vedemmo altre tombe seminascoste dai dirupi.
Mentre continuavamo a navigare, le costruzioni divennero più vaste, più grandiose. I mattoni secchi lasciarono il posto alla pietra decorata, le fattorie a belle ville, dalle pareti affrescate. Alte palme da dattero e fiorenti agrumeti ondeggiavano nel vento caldo. In lontananza, cominciammo a scorgere templi ed edifici massicci, grandi obelischi e una quantità di statue gigantesche di un uomo in piedi, con un corpo magnifico, i pugni stretti lungo i fianchi, il volto atteggiato a un sorriso sereno.
— Hanno tutte lo stesso viso — disse Elena a Nefertu.
— Sono tutte statue dello stesso re, Ramesses II, padre dell’attuale re Merenptah.
Le colossali sculture torreggiano in lunghe file sulla riva orientale del fiume. Il re doveva aver scavato intere montagne di granito trasportandolo poi lungo il fiume su chiatte, per innalzare simili monumenti a se stesso.
— Ramesse è stato un re glorioso — ci spiegò Nefertu — potente in battaglia e generoso con il suo popolo. Ha eretto queste statue e molte altre, anche più grandi, verso la sorgente del fiume. Sono lì per ricordare al nostro popolo la sua gloria e per intimorire i barbari del sud. Persino adesso temono il suo potere.
— “Guarda le mie opere tu, potente, e disperati” — citai. La frase mi tornò in mente all’improvviso, e sapevo che era stata scritta da quel re megalomane.
C’erano molte tombe lungo la riva occidentale ed una era così bella che mi tolse il respiro quando la vidi. Bianca, bassa, circondata di colonne e proporzionata nel modo che, un giorno, avrebbe reso immortale il Partenone di Atene.
— È la tomba della regina Hatshepsut — mi disse Nefertu. — Ha governato come un uomo; per la felicità dei sacerdoti e di suo marito.
Se Menefer era notevole, Wast era sopraffacente. La città era costruita per far apparire ridicola la dimensione umana.
Enormi costruzioni incombevano dai bordi dell’acqua, e noi attraccammo ad un molo massiccio sotto la loro fresca ombra. I viali erano pavimentati di pietra e larghi abbastanza perché quattro carri potessero starvi fianco a fianco. Dietro, si alzavano molti templi, con le poderose colonne di granito vivacemente dipinte e i tetti rivestiti di metallo che scintillavano al sole. Più lontano, in alto sulle colline, splendide ville erano disseminate tra le macchie d’alberi e i campi coltivati.
Fummo accolti al molo da una guardia d’onore, in uniformi di lino immacolato e maglia metallica così lucida che brillava. Le spade e le punte delle lance erano di bronzo, e notai che Lukka passò in rassegna le armi con una rapida occhiata professionale.
Nefertu si incontrò con un altro ufficiale, vestito solo di un gonnellino bianco e con il medaglione d’oro del suo ufficio sul petto nudo, che si presentò come Mederuk. Ci condusse tutti al palazzo dove avremmo aspettato l’udienza del re. Elena ed io fummo fatti salire su una portantina retta da schiavi negri, mentre per Nefertu e Mederuk ce n’era una seconda. Lukka e i suoi uomini erano a piedi, affiancati dalla luccicante guardia d’onore.
Elena era raggiante di felicità. — Il mio posto è davvero in questa città — disse.
Il mio invece era a Menefer, pensai, nella grande piramide. Più restavo lì a Wast, minori erano le mie possibilità di distruggere il Radioso e di resuscitare Atena.
Guardando attraverso le tende della nostra portantina, mentre i portatori nubiani ci trasportavano per il viale in salita, vidi che Nefertu e Mederuk chiacchieravano gaiamente come due vecchi amici che si scambiano gli ultimi pettegolezzi. Erano felici. Elena era felice. Persino Lukka e i suoi uomini sembravano contenti, perché presto avrebbero trovato impiego nell’esercito egiziano.
Solo io mi sentivo irrequieto e insoddisfatto.
Il palazzo reale di Wast era un grande complesso di templi, zone residenziali, spaziosi cortili, caserme, magazzini per il grano e recinti per il bestiame. Intorno, c’erano gatti dappertutto. Gli Egiziani li veneravano come sacri e li lasciavano liberi di andare in giro per tutto il complesso. Pensai che dovevano essere molto utili contro i topi e gli altri animali che inevitabilmente infestavano i granai.
I nostri alloggi a palazzo erano… degni di un palazzo. Ad Elena e a me vennero date stanze adiacenti, enormi e ariose, con alti soffitti di assi di cedro e lucidi pavimenti di granito, freschi sotto i piedi nudi. Le pareti avevano freddi toni di blu e di verde, con cornici di rosso e oro brillante attorno alle porte e alle finestre. Dalla mia stanza, potevo spaziare sui tetti di tegole in direzione del fiume.
Chiunque avesse progettato la camera aveva un preciso senso della simmetria. Esattamente di fronte alla porta del corridoio, c’era la porta della terrazza. Le finestre ai lati di quest’ultima erano compensate sul muro opposto da finte finestre dipinte, esattamente della stessa forma e dimensione di quelle vere, con la “cornice” dipinta degli stessi colori.
Avevamo sei servi a nostra disposizione. Mi fecero un bagno profumato, mi rasarono, mi tagliarono i capelli, mi pettinarono e mi vestirono di fresco e leggero lino egiziano. Quando fui di nuovo solo nella mia stanza, raccolsi il pugnale dal mucchio di indumenti sporchi che avevo abbandonato ai piedi del letto e me lo legai ancora alla coscia, sotto il gonnellino immacolato. Mi sentivo quasi nudo, senza.
Quelle false finestre mi disturbavano. Mi chiesi se non nascondessero un’entrata segreta alla mia stanza, ma quando le controllai da vicino, sotto le dita sentii solo il muro.
Un servo bussò timidamente alla porta, e dopo che gli ebbi dato il permesso di entrare, mi annunciò che ai signori Nefertu e Mederuk avrebbe fatto piacere cenare con la mia signora e con me. A mia volta gli dissi di pregare Nefertu di venire nella mia stanza.
Era ora che gli dicessi la verità sul conto di Elena. Dopo tutto, lei voleva essere invitata a restare a Wast. Voleva essere trattata come la regina che era stata.
Nefertu arrivò e ci sedemmo fuori, sulla terrazza, sotto il tendone che ci riparava dal sole. Senza che lo chiedessi, un servo ci portò una caraffa di vino gelato e due coppe.
— Ho qualcosa da dirti — cominciai dopo che il servo se ne fu andato — qualcosa che ti ho tenuto nascosto sino ad ora.
Nefertu fece il solito educato sorriso e aspettò che continuassi.
— La signora che è con me era la regina di Sparta, e una principessa della caduta Troia.
— Ah — disse Nefertu — ero sicuro che non fosse una donna comune. Non solo per la sua bellezza; soprattutto il suo portamento dimostra un’educazione regale.
Versai il vino per tutti e due, e ne presi un sorso. Era eccellente, secco e frizzante, fresco e delizioso: il miglior vino che avessi assaggiato dai tempi di Troia.
— Avevo sospettato che la signora fosse un personaggio importante — continuò Nefertu. — E sono felice che tu abbia deciso di parlarmene. Effettivamente, stavo per porre a tutti e due domande piuttosto precise. Sua Grazia Nekoptah vorrà sapere tutto di voi e dei vostri viaggi prima di concedervi l’udienza con il re.
— Nekoptah?
— È il capo sacerdote della casa reale, un cugino dello stesso re. Serve il potente Merenptah come primo consigliere. — Nefertu prese un sorso di vino. Si leccò le labbra con la punta della lingua e gettò uno sguardo ai suoi soldati, come se temesse che qualcuno potesse sentirci.
Sporgendosi di più verso di me, disse a voce più bassa: — Mi è stato detto che Nekoptah non si accontenta del suo potere di consigliere: vuole quello di re.
Sentii le mie sopracciglia sollevarsi. — Un intrigo di palazzo?
Nefertu si strinse nelle spalle. — Chi può dirlo? Le vie del palazzo sono complesse; e pericolose. Stai attento, Orion.
— Ti ringrazio per il consiglio.
— Dobbiamo incontrarci con Nekoptah domattina. Desidera vedere te e la signora.
— E a proposito di Lukka e dei suoi soldati?
— Sono comodamente alloggiati nell’ala delle caserme. Un ufficiale del re li ispezionerà domani e li accetterà certamente nell’esercito.
Per qualche ragione, mi sentivo a disagio. Forse era l’avvertimento di Nefertu sugli intrighi di palazzo. — Vorrei vedere Lukka prima di andare a cena — dissi. — Per assicurarmi che lui e i suoi uomini siano trattati bene.
— Non è necessario — disse Nefertu.
— È una mia responsabilità — risposi.
Lui annuì. — Temo di averti reso sospettoso. Ma forse è un vantaggio.
— Alzandosi, concluse: — Vieni, allora. Visiteremo le caserme e vedrai che I tuoi uomini stanno bene, lì.
Lukka e i suoi erano sistemati davvero comodamente. Le caserme non avevano certo il lusso del mio appartamento reale, ma per i soldati erano quasi un paradiso: letti veri e un solido tetto sulla testa, schiavi che portavano l’acqua calda e lucidavano le armature, cibo, bevande e la prospettiva di una visita al bordello.
— Li terrò d’occhio, stanotte — mi disse Lukka con un sorriso sul viso da falco. — Domani sfileremo davanti agli ufficiali egiziani; non voglio che se ne vadano a ciondolare in giro e ti disonorino.
— Sarò con voi durante l’ispezione — gli dissi.
Nefertu stava quasi per protestare, poi lasciò perdere.
Mentre tornavamo ai nostri appartamenti, gli chiesi: — C’è qualche obiezione a che io sia presente alla parata, domani?
Lui uscì nel suo sorriso diplomatico. — Semplicemente che l’ispezione avverrà all’alba e il nostro incontro con Nekoptah sarà poco dopo.
— Dovrei essere con i miei uomini quando saranno sottoposti all’ispezione.
— Sì, suppongo che sia giusto. — Ma Nefertu non sembrava comunque troppo contento.
Quella sera cenammo nel suo appartamento, una stanza più o meno simile alla mia per grandezza e decorazioni. Ebbi l’impressione che Nefertu si considerasse fortunato ad averci incontrato: non era cosa di tutti I giorni, per un funzionario civile di una piccola città periferica, essere invitato a palazzo reale e ospitato in un simile splendore.
Elena raccontò la sua storia. Nefertu e Mederuk erano affascinati dal suo racconto della guerra tra Achei e Troiani, e lei sembrava fiera di esserne stata la causa.
Mederuk la fissò spudoratamente per tutta la cena. Era un uomo di mezza età, dalla figura un po’ appesantita e i capelli radi e grigi. Come tutti gli Egiziani aveva la pelle scura e gli occhi quasi neri. Il suo viso era dolce e rotondo, praticamente senza rughe, quasi come quello di un bambino. La vita di palazzo non aveva lasciato tracce su quel volto paffuto e insipido. Era come se, durante la notte, l’uomo cancellasse con cura i segni di qualsiasi esperienza e affrontasse ogni nuovo giorno con una fresca, rimodellata vacuità che non poteva assolutamente offendere nessuno, né lasciar trasparire i pensieri che passavano dietro quella maschera gentile.
Ma continuava a fissare Elena, e piccole gocce di sudore gli imperlavano il labbro superiore.
— Devi parlare con Nekoptah — disse, quando la donna ebbe terminato il suo racconto. La cena era finita da tempo; gli schiavi avevano tolto i piatti e adesso non c’era niente sul tavolo basso al quale sedevamo, tranne che le coppe del vino e le ciotole di melograni, fichi e datteri.
— Sì — fu d’accordo Nefertu. — Sono sicuro che suggerirà al re di invitarti a vivere qui a Wast, come ospite reale.
Elena sorrise, ma i suoi occhi si posarono su di me. Sapeva che me ne sarei andato appena possibile. Una volta saputo che lei era al sicuro, e che Lukka e i suoi uomini erano stati accettati nell’esercito, allora sarei potuto partire.
— La signora — dissi — porta con sé un considerevole tesoro. Non sarà un ospite gravoso.
I due egiziani colsero un qualche umorismo nelle mie parole e ne sembrarono educatamente divertiti.
— Un peso per il re — ridacchiò Nefertu, che aveva bevuto una discreta quantità di vino.
— Come se il grande Merenptah si preoccupasse delle spese — fu d’accordo Mederuk, con un sorriso ben esercitato. La sua coppa non era stata svuotata nemmeno una volta. Lo guardai attentamente. Il suo viso liscio e paffuto non rivelava la minima traccia di emozione, ma i suoi occhi neri come il carbone tradivano i piani che stavano prendendo forma nella sua mente.
Lasciai il letto di Elena prima dell’alba e tornai silenziosamente nella mia stanza. Il cielo stava appena cominciando a schiarire e la camera era ancora buia, ma qualcosa mi fece fermare sui miei passi e trattenere il respiro.
Appena un debolissimo segno di movimento. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. Rimasi immobile, gli occhi che scrutavano nel buio, cercando di penetrare le ombre. C’era qualcuno nella stanza. Lo sentivo. Sempre sforzandomi di vedere, nelle tenebre, cercai di ricordare esattamente la disposizione della camera, la posizione del letto, del tavolo, delle sedie, dei cassettoni. Le finestre e la porta sul corridoio…
Un leggero suono grattante, legno o metallo contro la pietra. Spiccai un balzo in quella direzione, e andai a sbattere dolorosamente contro il muro. Barcollai indietro di qualche passo e mi lasciai cadere seduto con un tonfo.
Mi ero scontrato con il muro esattamente nel punto in cui era dipinta una delle false finestre. Era davvero una porta nascosta, camuffata così bene da non poterla distinguere?
Mi misi lentamente in piedi, con la spina dorsale che mi faceva male. Qualcuno era stato nella mia stanza, di questo ero certo. Un egiziano, non il Radioso o uno degli altri Creatori. Muoversi furtivamente nel buio non era il loro stile. Qualcuno mi aveva spiato; o ci aveva spiato, me e Elena. O aveva rovistato tra le mie cose.
Un ladro? Ne dubitavo, e un rapido controllo ad abiti e armi dimostrò che non mancava niente.
Mi vestii rapidamente, ancora indeciso se lasciare Elena sola e addormentata, domandandomi se l’intruso mi cercava per farmi domande su di lei, o per dirmi di stare lontano da Lukka e dal luogo della parata… Nefertu mi aveva avvisato degli intrighi di palazzo, e io ero completamente disorientato.
Un grattare alla porta. La spalancai e vidi Nefertu, vestito di tutto punto e con quel sorriso educato che lui usava per affrontare il mondo.
Dopo averlo salutato, gli chiesi: — È possibile mettere una guardia alla porta di Elena?
Sembrava sinceramente allarmato. — Perché? C’è qualcosa che non va?
Gli raccontai cos’era successo. Sembrò scettico, ma si allontanò per il corridoio a cercare una guardia. Pochi minuti dopo tornò insieme a un negro muscoloso, con un gonnellino di pelle di zebra e una spada al fianco.
Sentendomi un po’ meglio, mi diressi al luogo della parata, davanti alle caserme.
Lukka aveva disposto le due dozzine di uomini in doppia fila, con le maglie metalliche e le armature lucidate di fresco e gli elmi e le spade scintillanti come specchi. Ogni soldato aveva anche una lancia con la punta di ferro, tenuta ben dritta, a novanta gradi precisi rispetto al terreno.
Nefertu mi presentò al comandante egiziano che doveva ispezionare gli Ittiti. Si chiamava Raseth, un veterano di carnagione scura, robusto e minaccioso, calvo e brusco come una pallottola. Le sue braccia sembravano ancora potenti nonostante l’età avanzata, e lui zoppicava leggermente, come se il tempo gli avesse accumulato addosso troppo peso perché le gambe arcuate potessero sorreggerlo.
— Ho combattuto contro gli Ittiti — disse a nessuno in particolare mentre si voltava verso i soldati allineati davanti a lui. — So quanto sono bravi. — Girandosi improvvisamente dalla mia parte, afferrò il collo della tunica e se la tirò giù dalla spalla sinistra, scoprendo lo sgradevole sfregio di una cicatrice. — Il regalo di un lanciere ittita a Meggido. — Sembrava fiero della ferita.
Lukka si trovava in testa alla sua piccola banda e fissava l’infinito davanti a sé. Gli uomini stavano impalati, muti e con gli occhi immobili nel sole del mattino.
Raseth li passò in rassegna, annuendo e borbottando tra sé mentre Nefertu ed io restavamo in disparte ad osservare.
Poi, Raseth si voltò improvvisamente e zoppicò di nuovo verso di noi.
— Dove hanno combattuto? — mi chiese.
Io descrissi brevemente gli assedi di Troia e di Gerico.
Raseth annuì con aria da intenditore. Non sorrise. Non era il tipo di comandante che sorride in presenza delle truppe.
— Genieri, eh? Noi non usiamo spesso la tecnica dell’assedio disse. — Ma va bene. Ci serviranno. L’esercito del re dà loro il benvenuto.
Così ebbe fine la parte più facile della giornata. Dalle caserme, Nefertu mi condusse attraverso un cortile largo e vuoto. Il sole del mattino cominciava a farsi caldo sulla mia schiena e creava ombre nette sul liscio terreno polveroso. Lungo il muro posteriore del cortile vidi un recinto per il bestiame e qualche dromedario dalla schiena gibbosa che camminava pigramente, agitando la coda per scacciare le mosche. Arrivava un po’ di brezza dal fiume, però, e nell’aria sentivo il profumo dei gelsomini e degli alberi di limone.
— Gli uffici reali — disse Nefertu indicando un gruppo di costruzioni che avevo preso per templi. Notai che l’uomo era nervoso, teso, per la prima volta da tutte le lunghe settimane che lo conoscevo. — È lì che incontreremo Nekoptah.
Si incamminò per una lunga rampa leggermente in salita, fiancheggiata su entrambi i lati da due file di statue di Ramesses II, tutte più grandi del reale, ognuna uguale all’altra: un uomo dai muscoli potenti che avanzava a grandi passi, i pugni stretti lungo i fianchi, un sorriso sereno sul volto attraente. Nemmeno un difetto sul corpo o sul viso, perfettamente simmetrici, completamente equilibrati. Il granito rosa delle statue catturò il sole del mattino, assumendo quasi l’aspetto di carne viva.
Io mi sentivo come se un vero gigante mi stesse fissando. O un dio. Uno dei Creatori. Nonostante il tepore del sole, rabbrividii.
Alla fine della rampa voltammo a sinistra e oltrepassammo una fila di sfingi massicce: corpi accucciati di leoni con la testa di toro. Erano alte quanto me.
— Il leone è il simbolo del sole — spiegò Nefertu. — Il toro è il totem di Amon. Queste sfingi rappresentano l’armonia tra gli dèi.
In mezzo alle zampe anteriori di ciascuna sfinge, c’era una statua di… e chi, sennò? Almeno, quelle erano semplicemente a grandezza naturale.
— Non ci sono statue di Merenptah? — chiesi.
Nefertu annuì. — Oh, sì, certo. Ma lui venera suo padre come chiunque altro suddito dei Due Regni. Chi abbatterebbe le statue di Ramesses per sostituirle con le proprie? Nemmeno il re oserebbe.
Ci avvicinammo a un enorme portone, fiancheggiato da altre due statue colossali di Ramesses: seduto, questa volta, con in mano la verga che indicava la sua carica e la spiga di grano che simboleggiava la fertilità. Cominciai e chiedermi come ci si sentisse, a salire al trono dopo un simile monarca.
— Merenptah e Nekoptah — chiesi mentre entravamo, infine, nella fresca ombra del tempio — sono parenti di sangue?
Nefertu sorrise a denti stretti, in modo quasi acido, pensai. — Sì. Ed entrambi venerano Ptah come loro protettore e guida.
— Non Amon?
— Venerano Amon e tutti gli altri dèi, Orion. Ma Ptah è il loro dio particolare. Menefer era la città sacra di Ptah. Merenptah ha portato il suo culto qui, nella capitale. Nekoptah è il sommo sacerdote di Ptah.
— C’è una statua di Ptah che io possa vedere? Che aspetto ha?
— Lo vedrai molto presto. — Parlò in tono quasi adirato, come se la mia domanda lo avesse irritato o temesse qualcosa che io non capivo.
Stavamo percorrendo un lungo corridoio anch’esso fiancheggiato da enormi colonne, così alte che il soffitto sopra di noi si perdeva tra le ombre. Il pavimento era di marmo, le gigantesche colonne di granito, larghe quanto l’albero più poderoso. C’era una fila di guardie in luccicanti armature d’oro, a distanza di qualche metro l’una dall’altra, ma avevo l’impressione che fossero lì soltanto proforma. In quel tempio, non c’era stato bisogno di uomini armati per migliaia di anni. Quel corridoio enorme era stato progettato per far sentire piccolo qualsiasi uomo, per sopraffare i comuni mortali con la sua grandiosa immensità. Era una tattica usata dai potenti di tutte le epoche: utilizzare l’architettura per piegare le anime dei loro simili, per riempirli di stupore, e ammirazione, e timore di una grandezza capace di erigere opere così poderose.
Un paio di occhi fosforescenti mi fissavano dalla profondità delle ombre. Quasi risi. Un altro dei numerosi gatti del palazzo.
Superato il solenne corridoio, salimmo una scalinata di marmo nero. Poi prendemmo un altro corridoio, sui cui lati si allineavano piccole statue di vari dèi con la testa di animale: un falco, uno sciacallo, un leone, persino un formichiere. In fondo, in un’apposita nicchia, c’era una statua così gigantesca che arrivava praticamente al soffitto.
— Ecco Ptah — disse Nefertu in una specie di sussurro.
La statua incombeva su di noi, grande quasi quanto i colossi di Ramesses fuori dal tempio. Un lucernario, dal tetto, dirigeva un raggio di sole su tutta la lunghezza della candida scultura. Vidi il volto di un uomo con il corpo avvolto in bende come una mummia tranne che per le mani, libere, che stringevano un lungo bastone fittamente lavorato. Una papalina gli copriva la testa e una corta barba gli ornava il mento. L’espressione era impenetrabile, come quella del magro, sarcastico Ermes, l’ultima volta, quando avevo trasportato Giosuè nel mondo dei Creatori.
Nefertu si fermò ai piedi della statua gigantesca, dove l’incenso bruciava dentro due bracieri. Si inchinò tre volte, poi prese un pizzico di qualcosa da una scodella tra i due fuochi e la buttò tra le braci alla sua sinistra. Quella roba provocò un piccolo scoppio fiammeggiante e mandò una spirale di fumo bianco verso il lontano soffitto.
— Anche tu devi offrire un sacrificio, Orion — mi sussurrò.
Con il viso impassibile, mi avvicinai e gettai il mio pizzico nel braciere a destra. Fece un fumo nero. Voltandomi di nuovo verso Nefertu, vidi che i suoi occhi seguivano l’onda scura. Il suo viso era altrettanto scuro.
— Ho fatto qualcosa di sbagliato? — chiesi.
— No — rispose, gli occhi ancora fissi sulla spirale di fumo. — Ma a quanto pare, il sacro Ptah non ha del tutto gradito la tua offerta.
Io mi strinsi nelle spalle.
Mentre mi guidava lungo un altro corridoio ancora più stretto, piantonato da altre due guardie dall’armatura d’oro, e poi verso una massiccia porta d’ebano incassata in un profondo stipite di pietra, Nefertu sembrava ancor più nervoso, teso da un’ansia che non riusciva a nascondere. Era preoccupato per l’incontro con Nekoptah o per qualcosa che io avevo fatto? O che non avevo fatto?
C’era un’altra guardia sulla porta. L’aprì senza dire una parola per Nefertu.
Entrammo in una sala piuttosto grande. La luce del giorno penetrava da tre finestre sulla nostra destra. La stanza era assolutamente priva di decorazioni: le pareti di pietra erano nude come quelle della cella di una prigione. Anche il pavimento era nudo, e non piastrellato. In fondo, vicino all’unica altra porta, c’era un lungo tavolo ingombro di rotoli per scrivere, con due candelabri d’argento, le candele spente, alle estremità.
Dietro al tavolo sedeva un uomo incredibilmente grasso, dalla testa completamente rasata e l’enorme corpo sferico coperto di una veste grigia senza maniche che arrivava sino a terra. Le sue braccia, flaccide, lardose senza peli e rosa come la pelle di un porcellino, erano appoggiate sul lucido legno del tavolo. Ad ogni dito, compresi i pollici, gli scintillavano anelli di pietre preziose, alcuni così affondati nella carne da far pensare che stessero lì da anni. L’uomo aveva le guance talmente grandi che gli ricadevano sul petto e sulle spalle. Riuscivo a malapena a vedere gli occhi infossati nel volto grossolano, che ci studiavano mentre attraversavamo la stanza vuota per arrivare alla scrivania. Era anche truccato: gli occhi sottolineati con il khol e circondati di un’ombra verde sopra e sotto, le guance sfumate di belletto, le labbra rosso scuro.
Nefertu si buttò sul pavimento e premette la fronte sul mattonato nudo. Io rimasi in piedi, anche se chinai leggermente il busto in segno di rispetto.
— O grande Nekoptah — intonò Nefertu dal pavimento — sommo sacerdote del temuto Ptah, mano destra del potente Merenptah, guida del popolo, guardiano delle Due Terre, ti porto il barbaro Orion, come mi hai ordinato.
Le carnose labbra tinte del sommo sacerdote si incurvarono in quello che avrebbe potuto essere un sorriso. — Puoi alzarti, Nefertu, mio servo. Ti sei comportato bene. — La sua voce aveva un timbro limpido e dolce. Mi sorprese, una voce tanto bella, in una persona così grossolana e brutta. Poi mi resi conto che Nekoptah doveva essere un eunuco, votato al servizio del dio fin da bambino.
Nefertu si alzò lentamente in piedi e restò vicino a me. Aveva il viso rosso, se per averlo premuto contro il pavimento o per l’imbarazzo, non potrei dirlo.
— E tu, barbaro…
— Mi chiamo Orion — l’interruppi.
Nefertu sussultò a quell’impudenza. Nekoptah borbottò appena.
— Orion, allora — concesse. — Il mio generale Raseth mi ha detto che i tuoi ventiquattro Ittiti saranno una passabile aggiunta al nostro glorioso esercito.
— Sono uomini di valore.
— Comunque, io non mi accontento facilmente — disse, la voce leggermente più alta. — Raseth è in un’età in cui s’indulge al passato. Io devo guardare al futuro, se devo proteggere e guidare il nostro grande re.
Mi studiava attentamente, mentre parlava, aspettando una mia reazione. Io rimasi in silenzio.
— Quindi — continuò, ho pensato a una prova cui sottoporre queste reclute.
Attese di nuovo una risposta. Di nuovo, io non dissi niente.
— Tu, Orion, guiderai i tuoi uomini nella zona del delta, dove i barbari Popoli del Mare stanno nuovamente razziando le nostre città costiere. Un gruppo particolarmente molesto batte vele con una testa di leone. Li troverai e li distruggerai, in modo che non creino più problemi al Basso Regno.
Menelao, mi resi conto. Che cercava Elena e saccheggiava la costa, depredando il più possibile nella sua ricerca. Probabilmente insieme ad Agamennone.
— Quante di queste navi sono state avvistate? — chiesi.
Nekoptah sembrava deliziato che avessi finalmente parlato. — I rapporti variano. Almeno dieci, probabilmente due dozzine.
— E vi aspettate che due dozzine di uomini conquistino due dozzine di navi piene di Achei?
— Avrai altri soldati con te. Me ne occuperò io.
Scossi la testa. — Con tutto il rispetto, mio signore…
— Vostra Santità — sussurrò Nefertu.
Dovetti fare uno sforzo per superare la reazione automatica a quelle parole. — Con tutto il rispetto… Vostra Santità, io non avevo intenzione di restare con gli Ittiti, una volta accettati nell’esercito.
— Le tue intenzioni hanno poca importanza — disse Nekoptah. — I bisogni di un re sono sovrani.
Ignorandolo, continuai. — Sono venuto qui come scorta della regina di Sparta, sua altezza Elena…
— Scorta? — Il sacerdote fece un sorrisino allusivo. — O consorte?
Sentii il sangue bollirmi dentro. Ma mi dominai, e chiusi i capillari che avrebbero fatto diventare rosso il mio viso.
Piano, dissi: — Così qualcuno ci stava davvero spiando nelle nostre stanze.
Nekoptah gettò indietro la testa e rise. — Orion, pensi che il primo ministro del re ammetterebbe degli stranieri a palazzo senza tenerli d’occhio? Ogni tuo respiro è stato osservato; mi è stato fatto rapporto persino sul pugnale che porti sotto il gonnellino.
Annuii, sapendo che c’erano uomini armati dietro la porta alle spalle del sacerdote, pronti a difendere il loro padrone o a ucciderci al suo più piccolo cenno. Solo una cosa Nekoptah non sapeva, perché non mi aveva mai visto in azione: potevo tagliargli la gola prima che le guardie riuscissero ad aprire la porta. E potevo ucciderne tre o quattro, anche, se avessi dovuto.
— Lo porto da così tanto tempo, ormai, che mi sembra una parte del mio corpo — dissi umilmente. — Mi spiace che sia stato motivo di offesa.
Nekoptah agitò una mano carnosa, e gli anelli brillarono nella luce del sole. — Il sacerdote capo del potente Ptah non ha paura di un pugnale — disse con grandiosità.
Nefertu strisciò i piedi nervosamente, come se desiderasse essere da tutt’altra parte.
— Come stavo dicendo — ripresi — sono venuto qui come scorta di sua altezza Elena, regina di Sparta, principessa della caduta Troia. Desidera risiedere nel Regno delle Due Terre. Ha abbastanza ricchezze da non essere un peso per lo stato…
Nekoptah agitò la mano grassa con impazienza, in un movimento abbastanza vigoroso da far tremolare le sue guance colossali come onde in un lago.
— Risparmiami la noiosa recitazione di fatti che conosco già — disse spazientito.
Di nuovo lottai per non mostrare la mia rabbia.
Puntando un dito tozzo verso di me, Nekoptah disse: — Questo è ciò che il re desidera tu faccia, Orion: porterai i tuoi uomini lungo il fiume, verso il delta, cercherai questi barbari razziatori e li distruggerai. Questo è il prezzo perché la tua regina di Sparta venga accolta nella nostra città.
Uccidere il marito di Elena in cambio della sua sicurezza nella capitale d’Egitto. Ci pensai un attimo, poi chiesi: — E chi proteggerà la signora mentre io sono via?
— Sarà sotto la protezione dell’onniveggente Ptah, Architetto dell’Universo, signore del Cielo e delle Stelle.
— E il rappresentante del potente Ptah qui tra i mortali sei proprio tu, giusto?
Nekoptah abbassò il mento in segno di assenso.
— Alla signora verrà permesso di incontrare il re? Vivrà in questa casa, protetta dai tuoi servitori?
— Vivrà nella mia casa — rispose il sacerdote — protetta da me. Certo non avrai paura della mie intenzioni nei confronti della tua… regina?
— Ho promesso di consegnarla al re d’Egitto — insistetti — non al primo ministro del re.
Di nuovo Nefertu trattenne il respiro, come se si aspettasse un’esplosione. Ma Nekoptah si limitò a dire con calma: — Non ti fidi di me, Orion?
Io risposi. — Tu desideri che io guidi le truppe contro gli Achei invasori della tua terra. Io desidero che la mia signora incontri il re e sia sotto la sua protezione.
— Parli come se fossi in condizioni di contrattare. Non lo sei. Farai come ti è stato detto. Se compiacerai il re, la tua richiesta sarà esaudita.
— Se compiacerò il re — dissi — sarà perché il primo ministro del re gli dirà di essere compiaciuto.
Un largo sorriso soddisfatto si diffuse sul viso truccato di Nekoptah. — Precisamente, Orion. Ci capiamo a vicenda.
Io accettai silenziosamente la sconfitta. Per il momento. — A sua altezza Elena sarà permesso di vedere il re, come lei desidera?
Con un sorriso ancora più largo, Nekoptah rispose: — Certamente. La sua Reale Maestà attende di cenare con la regina di Sparta proprio stasera. Anche tu puoi essere invitato; se siamo in perfetto accordo.
Per il bene di Elena, chinai leggermente la testa. — Sì — risposi.
— Bene! — La sua voce non poteva rimbombare, era troppo acuta. Ma rimbalzò ugualmente sulle pareti di pietra.
Gettai uno sguardo a Nefertu con la coda dell’occhio. Sembrava immensamente sollevato.
— Potete andare — disse Nekoptah. — Un messaggero ti porterà l’invito a cena, Orion.
Cominciammo a voltarci verso la porta.
Ma il sommo sacerdote aveva dell’altro da dire. — Ancora una cosa. Un piccolo dettaglio. Sulla via del ritorno, dopo la distruzione degli invasori, devi fermarti a Menefer e portarmi il sommo sacerdote di Amon.
Nefertu impallidì. La sua voce tremò. — Il sommo sacerdote di Amon?
Quasi giovialmente, Nekoptah rispose. — Proprio lui. Portalo qui. Da me. — Il suo sorriso era rimasto fisso sulle labbra carnose, ma entrambe le mani si erano strette a pugno.
Io chiesi: — Come saprà che ti rappresento?
Lui rispose ridendo: — Non avrà nessun dubbio in merito, non temere. Ma per convincere i soldati del tempio che fanno la guardia alla sua carcassa senza valore… — si sfilò un anello d’oro massiccio dal pollice sinistro. C’era incastonata una corniola rosso sangue con incisa una miniatura di Ptah. — Ecco. Questo convincerà chiunque ne dubiti che agisci per mio conto.
L’anello era pesante e caldo nella mia mano. Nefertu lo fissò come se fosse la sentenza di morte di qualcuno.
Evidentemente, Nefertu era ancora scioccato dal nostro incontro con il primo ministro. Rimase in silenzio mentre venivamo scortati al mio appartamento, molto al di là del complesso di templi e palazzi che costituivano la reggia.
Anch’io rimasi in silenzio, cercando di far combaciare i pezzi del rompicapo. Che mi piacesse o no, mi trovavo implicato in una qualche cospirazione; Nekoptah mi stava usando per i suoi scopi, e dubitavo che coincidessero con i migliori interessi del Regno delle Due Terre.
Uno sguardo a Nefertu mi disse che non mi avrebbe fornito alcuna spiegazione. Aveva il viso del colore della cenere mentre camminavamo tra le guardie dall’armatura dorata, lungo i corridoi e i cortili circondati di colonne, con i gatti che si muovevano furtivamente tra le ombre. Le mani gli tremavano, la sua bocca era una linea sottile, con le labbra strette così forte da essere bianche.
Raggiungemmo il mio appartamento e l’invitai ad entrare.
Scosse la testa. — Temo che ci siano altri affari di cui devo occuparmi.
— Solo per un momento — dissi. — C’è qualcosa che devo mostrarti. Per favore.
Congedò le guardie ed entrò nella mia stanza, gli occhi impauriti ma curiosi.
Sapevo che eravamo osservati. Da qualche parte c’era uno spioncino abilmente nascosto, e qualcuno al servizio del sommo sacerdote di Ptah stava seguendo ogni nostro gesto. Condussi Nefertu a due sedie di corda intrecciata sulla terrazza, davanti al cortile e alle palme fruscianti.
Dovevo sapere cosa sapeva. Non me l’avrebbe detto volontariamente, questo lo capivo, quindi dovevo scrutare nella sua mente, che lui volesse o no. Forse, sotto la superficie del suo rigido autocontrollo, una parte di lui cercava un alleato contro qualunque cosa lo spaventasse.
Il pover’uomo sedeva proprio in punta alla sedia, la schiena dritta come un fuso, le mani strette sulle ginocchia. Avvicinai la mia sedia e gli posai una mano sulla spalla magra. Potevo sentire la tensione dei nervi del collo.
— Cerca di rilassarti — gli dissi piano, tenendo la voce bassa in modo che chiunque stesse guardando non potesse sentire.
Gli massaggiai la base del collo con una mano, fissandolo profondamente negli occhi. — Ci conosciamo da molte settimane, Nefertu. Ho imparato ad ammirarti e a rispettarti. Voglio che tu pensi a me come a un amico.
Il suo mento si abbassò leggermente. — Tu sei mio amico — assentì.
— Mi conosci abbastanza bene da renderti conto che non voglio farti del male. Né voglio far consapevolmente male al tuo popolo, al popolo delle Due Terre.
— Sì — disse con tono assonnato. — Lo so.
— Puoi fidarti di me.
— Posso fidarmi di te.
Lentamente, lentamente, costrinsi il suo corpo e la sua mente a rilassarsi. Era quasi addormentato, anche se i suoi occhi erano aperti e mi poteva parlare. Ma la sua mente cosciente, la sua forza di volontà, erano allentate. Era un uomo spaventato, che aveva terribilmente bisogno di un amico di cui fidarsi. Lo convinsi non solo che poteva fidarsi di me, ma che doveva dirmi cosa lo spaventava.
— Questo è il solo modo in cui posso aiutarti, amico mio.
I suoi occhi si chiusero per un attimo. — Capisco, amico Orion.
Lentamente cominciò a parlare, con una voce bassa e monotona che speravo non arrivasse alle spie di Nekoptah. La storia che mi rivelò era complicata come avevo temuto. E sapeva di pericolo. Non solo per me; io ero abituato al pericolo e non mi faceva realmente paura. Ma Elena aveva inavvertitamente messo il piede nella trappola che Nekoptah aveva abilmente ideato. Per quanta ripugnanza provassi per lui, dovevo ammirare la sagacia della sua mente e rispettare l’audacia e la velocità delle sue mosse.
Si sussurrava da una parte all’altra del regno, mi disse Nefertu, che il re Merenptah stesse morendo. Qualcuno diceva per deperimento; altri per veleno. Ma comunque stessero le cose, il potere del trono veniva esercitato dal primo ministro del re, l’obeso Nekoptah.
L’esercito era fedele al sovrano, non a un sacerdote di Ptah. Ma era debole e diviso. I suoi giorni di gloria sotto Ramesses II erano finiti da tempo. Merenptah aveva lasciato che si sgretolasse a tal punto che la maggior parte dei soldati erano stranieri e la maggior parte dei generali erano vecchi, pomposi palloni gonfiati che vivevano degli allori del passato. Se al tempo di Ramesses avevano respinto i Popoli del Mare che razziavano il delta, ora i barbari saccheggiavano e terrorizzavano il Basso Regno, e l’esercito sembrava incapace di fermarli.
Nekoptah non voleva un esercito forte. Sarebbe stato un ostacolo al suo controllo sul re e sul regno. Però, non poteva permettere ai Popoli del Mare di depredare ulteriormente le città costiere: il Basso Regno sarebbe insorto contro di lui se non fosse riuscito a difenderlo adeguatamente. Così il sommo sacerdote di Ptah aveva escogitato un brillante piano: mandare il contingente ittita appena arrivato contro i predoni, come parte di una nuova spedizione militare nel delta. Lasciare che i capi barbari vedessero che gli uomini che avevano rapito Elena a Troia, adesso, erano in Egitto. Far loro sapere che, proprio come sospettavano, Elena era sotto la protezione del regno delle Due Terre.
E dir loro anche, tramite un messaggero segreto, che Elena sarebbe stata restituita se avessero smesso le loro razzie. Non solo: Nekoptah era pronto a offrire a Menelao e ai suoi Achei una parte del ricco Paese del delta se avessero protetto il Basso Regno dagli attacchi degli altri Popoli del Mare.
Ma prima, Menelao doveva essere certo che Elena fosse davvero in Egitto. Per questo, Orion e i suoi Ittiti sarebbero stati mandati nel delta come agnelli sacrificali, a farsi massacrare dai barbari.
E ancora.
Una certa irrequietezza per l’usurpazione di fatto da parte di Nekoptah cominciava già a serpeggiare nella città di Menefer, l’antica capitale, dove le grandi piramidi proclamavano il culto di Amon. Il gran sacerdote di quel dio, di nome Hetepamon, era il capo di una congiura contro Nekoptah. Se Orion fosse uscito vivo dalle battaglie del delta, doveva portare Hetepamon a Wast. Come ospite, se possibile. Come prigioniero, se necessario.
Naturalmente, se Orion fosse stato ucciso dai Popoli del Mare, sarebbe stato mandato qualcun altro a strappare Hetepamon al suo tempio e a consegnarlo nelle mani di Nekoptah.
Un piano preciso, degno di una mente astuta.
Mi appoggiai allo schienale della sedia e allentai la presa sulla mente di Nefertu. Lui si chinò leggermente, poi inspirò una profonda boccata d’aria. Strizzò gli occhi, scosse la testa, intontito, poi mi sorrise.
— Mi sono addormentato?
— Ti sei assopito un attimo — risposi.
— Che strano.
— L’incontro di stamattina è stato molto faticoso.
Si alzò in piedi e si stiracchiò. Guardando oltre il cortile sotto di noi, vide che il sole stava quasi tramontando.
— Devo aver dormito per ore! — e mi guardò sinceramente perplesso. — Quanto dev’essere stato noioso per te.
— Non mi sono annoiato.
Scuotendo cautamente il capo in modo incerto come per verificarne la saldezza disse: — Il riposo sembra avermi fatto bene. Mi sento ristorato.
Io ero contento. Nefertu era troppo onesto per portare il peso dei piani di Nekoptah senza un amico con cui condividere il problema.
Ma sembrava ancora leggermente sconcertato quando se ne andò. Gli chiesi di incontrarci la mattina dopo a colazione, in modo che potessi raccontargli della serata con il re.
La cena con il re d’Egitto, il sovrano più potente del mondo, il faraone che aveva cacciato gli Israeliti dal suo Paese. Una serata inquietante.
Elena era tremendamente eccitata all’idea dell’incontro. Passò l’intero pomeriggio circondata da serve che le fecero il bagno, la profumarono, le legarono i capelli in cascate di riccioli d’oro, le truccarono il bel viso con khol per gli occhi e rossetto per le guance e le labbra. Si abbigliò con la sua gonna pieghettata più fine, decorata di fili d’oro e tintinnanti nappine d’argento, si ornò di collane, bracciali e anelli che sfolgoravano alla luce delle lampade, mentre gli ultimi raggi del sole morivano nel cielo violetto.
Io indossai un nuovo gonnellino di pelle, regalo di Nefertu, e una fresca camicia di lino bianco, dono anch’essa dell’egiziano.
E mi allacciai il pugnale alla coscia, come una cosa scontata.
Elena aprì la porta che metteva in comunicazione le nostre stanze e rimase sulla soglia, fremente d’impazienza.
— Sono presentabile per il re? — chiese.
Io sorrisi e risposi sinceramente: — La domanda giusta sarebbe: “Il re d’Egitto è presentabile per l’incontro con la donna più bella del mondo?”.
Anche lei mi sorrise. Mi avvicinai, ma lei mi tenne a distanza con le braccia. — Non mi toccare! Mi sporcherò, o sgualcirò il vestito!
Io gettai indietro la testa e risi. Doveva essere la mia ultima risata per molto tempo.
Una scorta di una buona dozzina di guardie in armature d’oro ci condussero attraverso stretti corridoi e rampe di scale che non sembravano avere alcuna logica, tranne quella di confondere chi non conosceva la strada a memoria. Ripensando al mio incontro con Nekoptah e a quello che Nefertu mi aveva suo malgrado rivelato, mi resi conto che Elena ed io eravamo in realtà prigionieri del sommo sacerdote, più che ospiti del re.
Invece di una magnifica sala da pranzo affollata di ospiti allegri e di artisti intenti a intrattenerli con musica e danze mentre i servi portavano vassoi colmi di cibo e versavano vino da brocche d’oro, la cena con Merenptah si svolse tranquilla, in una piccola sala senza finestre.
Elena ed io fummo condotti dalle guardie davanti a una semplice porta di legno. Un servo l’aprì e ci introdusse in una stanza piuttosto piccola. Eravamo soli, davanti a un tavolo apparecchiato per quattro. Dal soffitto pendeva una lampadario di rame. Contro il muro, erano allineati tavoli di servizio.
Il servo ci fece un inchino e uscì da un’altra porta.
Ancora una volta sentii i capelli rizzarmisi sulla nuca. Eravamo osservati, lo sapevo. C’erano degli affreschi sul muro, scene di caccia, con il sovrano dipinto più grande di tutti gli altri, che colpiva con la lancia leopardi e leoni. Vidi il luccichio di occhi neri come il carbone dove avrebbero dovuto esserci quelli fulvi di un leone.
— A Sparta, l’ospitalità è così misera che un re lascerebbe i suoi ospiti soli in una stanza, senza cibo, né bevande, né intrattenimenti? — chiesi a Elena.
— No — rispose a voce bassa. Sembrava enormemente contrariata.
La porta che dava sul corridoio si aprì e il grasso Nekoptah entrò camminando come una papera, in una veste bianca lunga sino a terra che sembrava una tenda. Era coperto di gioielli quasi quanto Elena, e il trucco sul suo viso era molto più pesante. Avevo informato Elena del suo aspetto e di ciò che pensavo di lui. Il sacerdote era al corrente di ogni mia parola, potevo capirlo dall’espressione malevola con cui mi guardò.
— Perdonate l’informalità di questa serata — ci disse. — In seguito, organizzeremo un’adeguata cena ufficiale per la regina di Sparta. Stasera il re desidera semplicemente conoscervi, e darvi il benvenuto nel Regno delle Due Terre.
Prese la mano di Elena e se la portò alle labbra. Lei si trattenne dal ritirarla, ma solo a fatica.
Nekoptah batté le mani, e immediatamente arrivò un servo con un vassoio di coppe da vino.
Avevamo appena assaggiato il vino, un rosso dolciastro che Nekoptah diceva fosse importato da Creta, quando la porta del corridoio si aprì di nuovo e una guardia annunciò: — Sua Maestà Reale, re delle Due Terre, beneamato di Ptah, Guardiano del Popolo, Figlio del Nilo.
Invece del re, però, entrarono sei sacerdoti in vesti grigie, con turiboli di rame che riempirono la stanza d’incenso fumoso e pungente. Salmodiavano in una lingua antica e si esibirono in una mini-processione intorno al tavolo per tre volte, lodando Ptah e il suo servo sulla terra, Merenptah.
Quando uscirono, fu la volta di sei guardie dall’armatura d’oro, che si misero tre a tre lungo la parete ai lati della porta e si congelarono in un’immobilità immediata. Ognuno aveva una lancia che toccava quasi il soffitto. Poi arrivarono due arpisti, e poi quattro giovani donne che reggevano colorati ventilabri di piume di pavone. In mezzo a loro comparve finalmente il re d’Egitto, Merenptah.
Era un uomo di mezza età, con i capelli ancora scuri. Di corporatura esile e piccolo di statura, camminava leggermente piegato in avanti, come curvo per gli anni o le preoccupazioni. O per il dolore. Indossava una veste bianca senza maniche, con ricami d’oro all’orlo. La sua pelle era molto più chiara di quella di qualunque egiziano avessi incontrato. Diversamente dal suo primo ministro, il re non portava alcun ornamento, tranne un piccolo medaglione d’oro con il simbolo di Ptah appeso a una sottile catena intorno al collo, e bracciali di rame ai polsi.
Furono i suoi occhi a preoccuparmi. Sembravano annebbiati, vacui, quasi ciechi. Come se i suoi pensieri fossero ripiegati quasi completamente dentro di lui. Come se il mondo circostante fosse una cosa senza valore, un fastidio, un impedimento a ciò che considerava davvero importante.
Gettai uno sguardo a Elena, in piedi vicino a me. L’aveva notato anche lei.
I due arpisti e le fanciulle con i ventilabri si inchinarono profondamente al re e lasciarono la stanza. Una delle guardie rimaste nel corridoio chiuse la porta e rimanemmo soli, a parte i sei soldati allineati contro il muro come statue. Sapevo che mi sarei seduto dando loro le spalle, e questo non mi piaceva.
Le presentazioni furono educate ma frettolose. Elena fece una graziosa riverenza al sovrano, che però si mostrò completamente indifferente alla sua bellezza, e persino alla sua presenza. Io mi inchinai e lui borbottò qualcosa circa i barbari del mare.
Sedemmo al tavolo e alcuni schiavi ci servirono una minestra fredda e varie portate di pesce. Il re non mangiò quasi nulla. Nekoptah mangiò per tutti e quattro.
La conversazione fu discontinua. Nekoptah fu quello che parlò di più, soprattutto su come il culto di Ptah trovasse fiera resistenza da parte di pericolosi fanatici che stavano tentando di reinstaurare l’eresia di Akhenaten. — Specialmente a Menefer — si lamentò il sommo sacerdote trangugiando un grosso boccone. — Lì i sacerdoti stanno riportando in auge il culto di Aten.
— Pensavo che venerassero Amon — dissi — piuttosto che Aten.
— Sì — intervenne Elena. — Abbiamo visto l’Occhio di Amon sulla grande piramide.
Nekoptah corrugò la fronte. — Dicono di riverire Amon, ma segretamente è l’idea di Akhenaten che cercano di reinstaurare. Se non verranno fermati, e presto, getteranno le Due Terre nello scompiglio ancora una volta.
Il re annuì con aria assente, piluccando il suo pesce.
Con me che traducevo, Elena cercò di imbastire con lui una conversazione, chiedendogli di sua moglie e dei suoi figli. Il re si limitò a guardare il vuoto.
— La moglie di Sua Maestà è morta di parto l’anno scorso — disse Nekoptah.
— Oh, mi dispiace…
— Anche il bambino è morto.
— Che cosa terribile!
Il sovrano sembrò fare uno sforzo per metterla a fuoco. — Ho un figlio — mormorò.
— Il Principe Aramset — lo precedette Nekoptah. — Un bravo giovane. Diventerà un buon re, un giorno. — Ma si rabbuiò, e aggiunse: — Naturalmente, Sua Maestà ha anche altri validi figli dalle concubine reali.
Merenptah sprofondò di nuovo nel silenzio. Elena lanciò uno sguardo al grasso sacerdote.
E andò così per tutto il resto della sera. Quando la cena ebbe termine, il re ci augurò la buona notte e se ne andò. Notai che Nekoptah gli si inchinò appena; d’altra parte, grasso com’era, non avrebbe potuto fare molto di più.
Mentre le guardie ci scortavano ai nostri alloggi, chiesi alla mia compagna: — Credi che il re sia malato?
Il suo viso dimostrava quanto si sentisse preoccupata. — No, Orion. Solo drogato. È una cosa che ho già visto. Quella grassa bestia lo imbottisce di narcotici per esercitare il potere come gli pare.
Ero felice che Elena parlasse solo l’acheo e che le guardie non potessero capirla. Almeno, lo speravo.
La situazione mi era penosamente chiara. Nekoptah teneva sotto controllo la capitale e il re. Mi stava usando per imbastire un losco affare in cui usare Elena come merce di scambio per la sicurezza del delta contro i Popoli del Mare. A titolo cautelativo, intendeva destituire il sacerdote capo di Amon e rafforzare la sua presa sull’intero regno.
Per assicurarsi che io agissi secondo i suoi desideri, Nekoptah avrebbe tenuto Elena in ostaggio nella capitale, senza sapere che io ero al corrente della sua intenzione di restituirla a Menelao.
E il Radioso. Che si era creato una fortezza nella grande piramide.
Sembrava tutto un gran pasticcio, una situazione senza speranza. A meno che non avessi trovato il modo di tagliare quel groviglio con un colpo solo. Come un messaggio di qualche dio, un piano prese forma nella mia mente. Quando Elena ed io raggiungemmo i nostri appartamenti, ormai sapevo cosa dovevo fare.
Tutto mi aspettavo tranne che il principe ereditario si unisse alla nostra spedizione.
Mentre Lukka e i suoi uomini salivano a bordo della nave che ci avrebbe portati nel Basso Regno, una portantina sotto scorta portata da sei nubiani si fermò davanti alla nostra passerella. Le tende si scostarono e dalla lettiga scese agilmente un giovane magro, muscoloso e chiaro di pelle come Merenptah e i sacerdoti che avevo incontrato.
Si chiamava Aramset: il solo figlio legittimo del re. Così giovane da avere appena un ciuffo stentato di peluria che gli si arricciava sul mento. Era un bel ragazzo, e dava una buona idea dell’aspetto che doveva avere avuto suo padre alla stessa età. Sembrava ansioso di prendere parte alla guerra.
Il capo nominale della nostra spedizione, il grasso, zoppicante generale Raseth, si inchinò profondamente al principe e poi mi presentò.
— Massacreremo i barbari — annunciò Aramset ridendo. — Mio padre vuole che impari le arti della guerra, per farne tesoro quando prenderò il governo.
Sembrava abbastanza simpatico. Ma dentro di me sapevo che era stato Nekoptah ad aggiungere quella chicca. Se il principe fosse rimasto ucciso, in assenza di altri eredi legittimi lui avrebbe rafforzato la sua posizione.
Ancora una volta dovevo ammirare l’astuzia del sacerdote.
Avevo lasciato Elena quella mattina, affidandola alle cure di Nefertu. Lei capiva pienamente tutte le macchinazioni che ci giravano intorno, ma percepiva che un vortice di intrighi mi stavano trascinando lontano da lei.
— Menelao mi sta ancora cercando — disse, mentre la tenevo tra le braccia.
— È lontano centinaia di miglia — risposi. Posò la testa dorata sul mio petto. — Orion, qualche volta penso che il mio destino sia di tornare da lui. Qualsiasi cosa io faccia, lui mi tallona come un segugio del fato.
Io non risposi.
— Ti ucciderà, se andrai davvero in battaglia contro di lui.
— No, non credo. E nemmeno io voglio davvero ucciderlo.
Si scostò leggermente e mi fissò negli occhi. — Ti rivedrò mai più, mio protettore?
— Certamente.
Ma lei scosse la testa. — No. Non credo. Penso che questo sia il nostro ultimo incontro, Orion.
Aveva le lacrime agli occhi.
— Tornerò — dissi.
— Ma non da me. Cercherai la tua dea e ti dimenticherai di me.
Io rimasi in silenzio per un momento, sapendo bene che aveva ragione. Poi dissi: — Nessuno potrebbe mai dimenticarti, Elena. La tua bellezza vivrà attraverso i tempi.
Si sforzò di sorridere. La baciai un’ultima volta, pur sapendo che qualcuno ci stava spiando, poi le dissi addio.
Nefertu mi accompagnò alle banchine e io gli chiesi di vegliare su Elena e di proteggerla dagli intrighi di palazzo.
— Lo farò, amico mio — disse. — Custodirò il suo onore e la sua vita.
Così, mentre il battello si allontanava dalla banchina con il sole del primo mattino che occhieggiava tra gli obelischi e le statue monumentali, io feci un ultimo gesto di saluto a Nefertu, sapendo in cuor mio che quel piccolo funzionario dai capelli grigi non sarebbe mai stato in grado di proteggere nessuno, nemmeno se stesso, dal potere di Nekoptah. La mia sola speranza era di portare a termine quello che dovevo fare il più in fretta possibile, e di tornare alla capitale per occuparmi del grasso primo ministro prima che potesse nuocere a Elena o al mio amico egiziano.
Passai in rassegna gli edifici del palazzo mentre la nostra nave scivolava sulla corrente, cercando una terrazza dove una donna dai capelli d’oro avrebbe potuto salutarmi con la mano. Ma non vidi nessuno.
— Così cominciamo a guadagnarci la paga.
Mi voltai di scatto e vidi Lukka in piedi vicino a me, il viso severo atteggiato a un sorriso composto. Era felice di allontanarsi dalla corte per andare in battaglia, dove un uomo sapeva chi erano i suoi nemici e come affrontarli.
Aramset si rivelò un compagno piacevole anche se rideva per nascondere il nervosismo. Il generale Raseth andava su e giù per la nave, asfissiando il giovane principe finché questi non chiarì che preferiva essere trattato come un ufficiale qualsiasi.
Stranamente, Lukka e il ragazzo sembravano andare d’accordo. Il giovane ammirava sinceramente il valoroso soldato e tutte le sue cicatrici di battaglia, e sembrava ansioso di imparare da lui tutto quello che poteva.
Un caldo pomeriggio, mentre passavamo davanti alle rovine di Akhetaten, sentii Lukka dire al principe: — Tutto quello che ti ho detto nei giorni scorsi non è niente a confronto con l’esperienza della battaglia. Quando il nemico arriva caricandoti, lanciando le sue grida di guerra e puntando la lancia contro il tuo petto, allora scopri se davvero hai abbastanza sangue freddo per la guerra. Solo allora.
Aramset lo fissò con gli occhi sgranati, e seguì il mercenario ittita per tutta la nave come un cucciolo fiducioso.
Il nostro battello portava cinquanta soldati, e poteva contare su sessanta rematori, tutti schiavi, molti dei quali nubiani. Dal momento che navigavamo verso la foce del fiume, la corrente del Nilo faceva la parte più pesante del lavoro.
Dozzine di altre imbarcazioni si accodarono a noi nel lungo viaggio verso il delta.
In ogni porto in cui attraccavamo per la notte, trovavamo navi intere di soldati che aspettavano di unirsi alla nostra spedizione. Cominciai a capire la vera potenza dell’Egitto, un’organizzazione in grado di mettere insieme una flotta tale da costituire un potente esercito capace di coprire centinaia di miglia.
Ma quali degli uomini sulla nostra nave erano spie di Nekoptah? Chi erano gli assassini? A quanti dei soldati delle altre imbarcazioni era stato ordinato di ripiegare, una volta cominciata la battaglia, e di lasciare che io e i miei Ittiti fossimo fatti a pezzi dai predoni? Sapevo di non potermi fidare di nessuno tranne che di Lukka e, di conseguenza, delle sue due dozzine di soldati.
In quei lunghi giorni caldi, in quelle notti buie e clementi, imparai a conoscere il principe Aramset. Era molto più che un ragazzo nervoso che rideva.
— Voglio che Lukka e i suoi Ittiti siano la mia guardia personale, una volta tornati a Wast — mi disse una sera, mentre ci attardavamo sui resti della cena. Eravamo ormeggiati al molo di una delle tante città disseminate sulla riva del fiume, cullati dallo sciacquio della corrente. Era una notte tranquilla, fin troppo calda, e avevamo mangiato all’aperto cercando disperatamente di cogliere qualunque brezza vagante potesse soffiare. Uno schiavo agitava ritmicamente sulle nostre teste un ventaglio di foglie di palma, per tenere lontane le zanzare. Il generale Raseth si era addormentato a tavola, sulla coppa di vino vuota. Il principe non prendeva mai vino; beveva soltanto acqua.
— Non avresti potuto scegliere un uomo più leale, Altezza — dissi.
— Ti pagherò bene per loro.
Io risposi: — Mio principe, permettimi di rifiutare. So che Lukka sarebbe contento di servirti e rendervi felici entrambi farebbe contento me.
Lui annuì leggermente, come se non si fosse aspettato niente di meno. — Però, Orion, non dovrei accettare un dono così prezioso senza offrire qualcosa in cambio.
— L’amicizia del principe ereditario delle Due Terre è un dono che non ha prezzo — dissi.
Lui sorrise. Volutamente, versai una coppa di vino da quel poco che Raseth aveva lasciato e gliela porsi.
Lui rifiutò con un misurato gesto delta mano.
— Per sancire il nostro accordo — suggerii.
— Non bevo mai vino.
— Non ti piace il sapore?
Il suo viso si fece serio. — Ho visto cosa il vino ha fatto a mio padre. Il vino e altre cose.
— Allora non è malato.
— Solo nell’anima. Da quando mia madre è morta, mio padre si distrugge nello spirito.
Colsi una grande amarezza nella sua voce. Era lì per dimostrare a suo padre che era degno di ereditare il suo trono.
Con la maggior delicatezza possibile, chiesi di Nekoptah.
Aramset mi guardò attentamente.
— Il Sommo Sacerdote di Ptah e primo ministro del re è un uomo molto potente, Orion. Persino io devo parlargli con rispetto.
— Conosco il suo potere — dissi. — Lo terrai come tuo primo ministro, quando diventerai re?
— Mio padre è vivo — rispose secco il principe. Non c’era nessuna traccia d’ira per la mia supposizione. Né di rancore nei confronti di Nekoptah. Aveva imparato a nascondere bene le sue emozioni, quel ragazzo.
— Però — insistetti — se tuo padre dovesse diventare inabile al governo, perché malato o affetto da malinconia, saresti incaricato di governare al suo posto, o sarebbe Nekoptah ad agire per lui?
Per lunghi attimi Aramset non disse nulla. I suoi occhi scuri scavavano dentro di me, come cercando di vedere quanto poteva fidarsi di quello straniero proveniente da una terra lontana.
Infine disse: — Nekoptah è perfettamente in grado di amministrare il regno. Lo sta facendo adesso, con l’approvazione di mio padre.
Non era il caso d’insistere. Il giovane era abbastanza saggio da non dire niente di compromettente contro Nekoptah. Ma pensai che non gli piaceva molto, il grasso primo ministro. Le sue mani si erano chiuse a pugno appena l’avevo menzionato la prima volta e rimasero così strette finché non mi augurò la buona notte e si diresse verso la sua cabina.
Infine raggiungemmo il Paese del delta, rigoglioso di terre verdi, percorso da freschi canali, ricco di uccelli dalle lunghe zampe, bianchi come la neve e rosa come coralli. I comandanti delle guarnigioni locali conferirono con il generale Raseth e gli dissero che i Popoli del Mare avevano occupato numerosi villaggi vicino alla foce. Calcolavano che il numero degli invasori superasse il migliaio.
Quella sera, il generale, il principe Aramset ed io cenammo insieme nella piccola cabina sul ponte di poppa. Raseth era di umore gioviale, e si dava da fare con il pesce e le cipolle stufate.
— Tenete conto delle solite esagerazioni dei soldati — disse afferrando la caraffa del vino — e non avremo niente più che qualche centinaio di barbari di cui occuparci.
— Mentre noi abbiamo più di mille soldati addestrati — concluse il principe.
Raseth annuì. — È solo questione di trovarli e di attaccarli prima che possano disperdersi o tornare alle loro navi.
Pensai all’accampamento acheo sulla spiaggia di Troia. Mi chiesi se Ulisse e il Grande Aiace sarebbero stati tra i miei nemici.
— I cavalli e i carri stanno arrivando con le navi dei rifornimenti — stava borbottando Raseth a nessuno in particolare. — Nel giro di pochi giorni saremo pronti ad attaccare.
Lo guardai dalla parte opposta del tavolo. — Attaccare dove? Sei certo che i barbari saranno ancora dove sono stati visti vari giorni fa?
Raseth si grattò il mento. — Hummm. Potrebbero essersi spostati altrove con le loro navi, giusto?
— Sì. Via mare, potrebbero muoversi rapidamente e coprire cento miglia prima che noi sappiamo che se ne sono andati.
— Allora ci servono degli esploratori che li tengano d’occhio — disse Aramset.
Il generale scoccò un sorriso raggiante al giovane principe. — Eccellente! — gridò. — Diventerai un buon generale, mio signore.
Poi si girarono entrambi dalla mia parte. Raseth disse: — Orion, tu e i tuoi Ittiti perlustrerete i villaggi dove i barbari sono stati visti l’ultima volta. Se sono andati via, tornerete qui e ce lo direte. Se sono ancora lì, li terrete sotto osservazione finché il corpo principale del nostro esercito non arriverà.
Prima che potessi dire qualcosa, Aramset aggiunse: — E io verrò con voi!
Il generale scosse la testa rotonda come una pallottola. — Sarebbe un rischio troppo grande, Vostra Altezza.
“Soprattutto se una delle spie di Nekoptah si confida con Menelao” pensai. Raseth stava lavorando per Nekoptah? Che ordini segreti aveva?
Il principe Aramset non gradì affatto l’obiezione. — Mio padre mi ha mandato con questa spedizione per imparare qualcosa sulla guerra. Non me ne starò al sicuro nelle retrovie mentre altri combattono.
— Quando comincerà la battaglia, Vostra Altezza, tu sarai al mio fianco — disse il generale. — Queste sono le mie istruzioni. — E aggiunse: — Dalle labbra stesse del re.
Aramset fu colto alla sprovvista. Ma solo per un attimo. — Bene, nel frattempo posso accompagnare Orion e i suoi uomini in questa missione perlustrativa.
— Non posso permetterlo, mio signore — ribadì il veterano.
Il giovane si voltò verso di me. — Starò vicino a Lukka. Non permetterà che mi succeda niente di male.
Con la maggior gentilezza possibile dissi: — Ma cosa potrà succedere a Lukka, se dovrà occuparsi di te e trascurare i suoi doveri?
Il principe mi fissò, la bocca aperta per rispondere; ma non ne venne fuori nessuna parola. Era sinceramente affezionato a Lukka. Il suo unico guaio era che era giovane, e come tutti i giovani non poteva immaginarsi ferito, o mutilato, o ucciso.
Raseth approfittò del silenzio del principe. — Orion — disse con voce improvvisamente carica di autorità, — farai scendere a terra i tuoi uomini e li condurrai nei villaggi dove i barbari sono stati visti l’ultima volta, e mi farai rapporto sui loro movimenti con uno specchio solare. Partirai domani all’alba.
— E io? — chiese il principe.
— Resterai qui con me, Altezza. I carri e i cavalli arriveranno presto. Ci sarà battaglia sufficiente a soddisfare qualunque uomo, tra pochi giorni.
Io assentii cupamente. Occorsero due giorni di marcia per arrivare dalla nostra nave ai villaggi costieri dove le imbarcazioni achee dallo scafo nero erano state tirate in secca.
Il terreno era piatto e costellato di canali d’irrigazione, ma i campi erano grandi abbastanza da permettere di combattere sui carri, se non ci si preoccupava di rovinare le messi.
Lukka e i suoi uomini si accamparono in riva a uno dei canali più grandi, vicino a un ponte facile da proteggere con un paio di uomini decisi o, in alternativa, facile da bruciare, in modo da costringere eventuali inseguitori a guadare il canale o a trovare il ponte successivo, a circa un chilometro di distanza.
Lukka ed io attraversammo il ponte e attraversammo i campi di grano alto sino alle ginocchia. Ci arrestammo ai margini di un villaggio che arrivava fino alla spiaggia, e vidi dozzine di piccole imbarcazioni da pesca ormeggiate a moli di legno consumati dalle intemperie. Le navi da guerra achee erano in secca sull’arenile. Tende e baracche improvvisate erano disseminate lì intorno, i fuochi da campo mandavano sottili spirali di fumo grigio.
Nonostante la brezza che soffiava dal mare, la mattina era calda e il sole bruciava sulla nostra schiena mentre ce ne stavamo chini ai bordi del campo di grano e osservavamo la vita del villaggio. Nessuna delle navi aveva la testa di delfino blu di Itaca, e fui felice di scoprire che Ulisse non c’era.
— Ci sono solo otto navi — dissi a Lukka. — O gli altri si sono spostati in altri villaggi, o sono tornati ad Argo.
— Perché alcuni se ne sarebbero andati lasciando qui gli altri?
— Menelao cerca sua moglie — risposi. — Non tornerà senza di lei.
— Non può setacciare tutto l’Egitto con qualche centinaio di uomini.
— Forse aspetta rinforzi — dissi. — Può aver rimandato le altre navi ad Argo per portare qui il grosso dell’esercito acheo.
Lukka scosse la testa. — Anche con tutti i guerrieri di Argo, non sarebbero in grado di raggiungere la capitale.
— No — ammisi, parlando man mano che le idee prendevano forma nella mia mente. — Ma se riuscirà a causare distruzioni sufficienti qui sul delta, dove cresce la maggior parte del cibo del regno, allora potrebbe essere in grado di costringere gli Egiziani a dargli quello che vuole.
— Lei?
Esitai. — Lei. Per il suo orgoglio. E anche per qualcos’altro, penso.
Lukka mi lanciò uno sguardo interrogativo.
— Potere — dissi. — Suo fratello Agamennone ha preso il controllo degli stretti che portano al mar Nero. Menelao cerca altrettanto in Egitto.
Mi sembrava corretto. Doveva essere corretto. Tutto il mio piano dipendeva da quello.
— Ma come sai che quelle sono le navi di Menelao? — chiese Lukka sempre pratico. — Le navi sono disarmate, senza vele né alberi. Potrebbero essere di qualche altro re o principotto acheo.
Ero d’accordo con lui. — È per questo che stanotte entrerò nell’accampamento. Per vedere se Menelao c’è davvero.
Se Lukka aveva obiezioni sul mio piano, le tenne per sé. Tornammo al nostro campo vicino al canale e consumammo un pasto frugale mentre il sole tramontava. Poi tornammo al villaggio.
Gli abitanti sembravano convivere senza grossi attriti con i barbari invasori. Avevano poca scelta, naturalmente, ma mentre mi facevo strada nel buio, non avvertii nessuna delle tensioni che caratterizzano una comunità occupata da stranieri ostili. Nessuna delle case di mattoni di fango sembrava bruciata. Niente soldati, da nessuna parte. Pareva che la gente si fosse ritirata per un normale riposo notturno, senza preoccupazioni per le proprie figlie e le proprie vite.
Nessun segno che si fosse combattuta una battaglia, nemmeno una scaramuccia. Sembrava piuttosto che gli Achei si fossero accordati per un’occupazione a lungo termine, senza violenza o razzie. Come se avessero avuto in mente qualcosa di più duraturo.
“Bene” pensai. Esattamente come me.
Mi avviai per le strade piene d’ombre del villaggio, che si intrecciavano e si srotolavano sotto la fredda luce della luna crescente. Il vento era tiepido adesso, e soffiava dall’entroterra, facendo sospirare le palme e gli alberi da frutta. Da qualche parte abbaiò un cane. Non sentii né grida né lamenti, né urla di terrore. Era un borgo silenzioso, quieto, tranquillo; solo, con qualche centinaio di guerrieri armati fino ai denti accampati sulla spiaggia.
I loro fuochi da campo stavano morendo in poche braci davanti a ciascuna nave. Una fila di carri riposava sul lato opposto del campo, vicino al rozzo steccato del recinto dei cavalli. Alcuni uomini dormivano per terra, avvolti nelle coperte, ma per la maggior parte erano dentro le tende o nelle baracche traballanti che avevano costruito. Un terzetto di sentinelle oziava vicino all’unico fuoco ancora acceso. Sembravano rilassati, come se il turno di guardia fosse una questione puramente formale, più che un fattore di sicurezza.
Andai direttamente verso di loro. Uno mi individuò mentre mi avvicinavo e disse qualcosa ai compagni. Non erano allarmati. Lentamente, raccolsero le lunghe lance e si misero in piedi.
— Chi sei e cosa vuoi? — mi gridò il capo.
Mi avvicinai abbastanza perché mi riconoscessero alla luce del fuoco. — Sono Orion, della Casa di Itaca.
Questo li sorprese.
— Itaca? Ulisse è qui? Le ultime notizie lo davano disperso in mare.
Abbassarono le lance quando giunsi a portata di braccio. — L’ultima volta che ho visto Ulisse è stato sulla spiaggia di Ilio — dissi. — Ho viaggiato per terra, da allora.
Uno di loro cominciò a ricordare.
— Tu sei quello che aveva per schiavo il cantastorie.
— Il blasfemo che Agamennone ha accecato.
Un’ira antica risorse dentro di me.
— Sì — risposi. — Quello che Agamennone ha accecato. Il Sommo Re è qui?
Si guardarono l’un l’altro a disagio. — No, questo è l’accampamento di Menelao.
— Non ci sono altri signori achei con lui?
— Non ancora. Ma arriveranno presto. Menelao è folle di rabbia da quando sua moglie è fuggita anche dopo la caduta di Troia. Giura che non lascerà questa terra finché non gli verrà restituita.
— Se fossi in te, Orion — disse il terzo — correrei più lontano possibile. Menelao è convinto che sia stato tu a portargliela via.
Ignorai l’avvertimento. — Come fa a sapere che lei è in Egitto?
Il capo del trio si strinse nelle spalle. — A quanto ho sentito, ha ricevuto un messaggio da qualche potente e importante egiziano che gli diceva che Sua Altezza era qui. In qualche palazzo da qualche parte.
— Questo è quello che dicono — fu d’accordo una delle altre guardie.
La storia che Nefertu mi aveva inconsapevolmente rivelato era precisa in modo sbalorditivo. Nekoptah doveva aver mandato un corriere a Menelao appena Nefertu gli aveva fatto rapporto sulla presenza della regina di Sparta in Egitto, mesi prima. Naturalmente Nefertu si era reso conto che Elena era un personaggio importante della nobiltà achea, e alla fine me lo aveva detto. E Nekoptah, da quell’astuto farabutto che era, si era immediatamente adoperato per usarla come esca, per portare al suo servizio Menelao e gli altri guerrieri dei Popoli del Mare.
Dissi: — Accompagnatemi da Menelao. Ho notizie interessanti per lui.
— Il re dorme. Aspetta sino a domattina. Non avere tanta fretta di farti uccidere.
Io riflettei. Dovevo insistere perché lo svegliassero? Mi stavano offrendo la possibilità di sfuggire alla sua ira. Dovevo tornare da Lukka, al nostro accampamento, e ritornare la mattina dopo? Decisi di aspettare lì sulla spiaggia e di dormire per qualche ora. La collera di Menelao mi sembrava cosa da poco.
Le guardie mi guardarono di traverso, ma mi procurarono una coperta e mi lasciarono dormire. Mi sdraiai sulla spiaggia e chiusi gli occhi.
Per ritrovarmi in una stanza strana, circondato da macchine piene di luci intermittenti e da schermi percorsi da linee curve colorate che pulsavano dappertutto. Il soffitto brillava di una fredda luce che non creava ombre.
Mi voltai e vidi il Creatore dai lineamenti affilati che io chiamavo Ermes. Come sempre, era vestito di un’uniforme di metallo argenteo, dal collo agli stivali. Abbassò una volta il mento in segno di saluto.
Senza preamboli, chiese: — L’hai già trovato?
— No — mentii, sperando che non potesse leggere nella mia mente.
Inarcò un sopracciglio. — Davvero? Con tutto il tempo che sei stato in Egitto, non hai idea di dove si nasconda?
— Non l’ho visto. Non so dove sia.
Con un leggero sorriso, Ermes disse: — Allora te lo dirò io. Guarda dentro la grande piramide. I nostri sensori rivelano un consumo di potenza concentrato in quella struttura. Ne avrà fatto la sua fortezza.
— Oppure — controbattei — ve lo sta facendo credere, mentre in realtà è da qualche altra parte o in qualche altro tempo.
Gli occhi di Ermes si strinsero. — Sì… è abbastanza intelligente da tenderci un tranello. Per questo è vitale che tu entri nella piramide e controlli se è davvero lì.
— Sto tentando di farlo.
— E?
— Sto tentando — ripetei. — Ci sono delle complicazioni.
— Orion — disse come a sottolineare la sua pazienza verso di me — non ci resta molto tempo. Dobbiamo trovarlo prima che faccia a pezzi l’intero continuum. È diventato pazzo ed è capace di distruggerci tutti.
“E allora?” pensai. — Forse gli universi starebbero molto meglio con tutti noi fuori dai piedi.
— Non capisci? — insistette Ermes. — Il tempo stringe! È questione di giorni!
— Sto facendo del mio meglio — risposi. — Ho cercato di entrare nella grande piramide, ma non ha funzionato. Ora devo andarci fisicamente, e per farlo ho bisogno della cooperazione del re, o magari di quella del sommo sacerdote di Amon.
Ermes fece un profondo sospiro di impazienza. — Fai quello che devi, Orion, ma per amore del continuum fallo in fretta!
Io annuii, e mi ritrovai a strizzare gli occhi alle prime luci dell’alba nel cielo nuvoloso della spiaggia egiziana.
Intorno a me c’era una dozzina di uomini armati, e uno di loro mi stava premendo l’impugnatura della lancia tra le costole.
— In piedi, Orion. Il mio signore Menelao vuole arrostire la tua carcassa per colazione.
Mi alzai. Mi afferrarono per le braccia e mi tennero saldamente, facendomi marciare verso la tenda del re. Non ebbi nessuna possibilità di prendere la spada, che rimase sulla mia coperta. Ma il pugnale legato alla coscia era ancora lì, sotto il gonnellino.
Menelao camminava su e giù come un leone in gabbia, quando le guardie mi portarono davanti a lui. Molti dei suoi nobili passeggiavano irrequieti davanti alla tenda, le spade al fianco, anche se non indossavano l’armatura. Menelao indossava una vecchia tunica, e aveva un mantello rosso sangue sulle spalle. Fremeva di rabbia tanto da far tremare la barba scura.
— Sei tu! — gridò quando le guardie mi portarono da lui. — Accendete i fuochi! Lo arrostirò centimetro per centimetro!
I nobili, tutti più giovani di Menelao, notai, sembravano quasi impauriti dall’ira del loro re.
— Cosa state aspettando — ringhiò. — Questo è l’uomo che ha rapito mia moglie! Pagherà il suo delitto con la più lenta agonia di morte che nessuno abbia mai patito!
— Tua moglie sta bene ed è al sicuro nella capitale egiziana — dissi io. — Se vorrai ascoltarmi per un…
Furente, fece un passo verso di me e mi colpì con un manrovescio alla bocca.
La mia collera esplose. Con una scrollata di spalle mi liberai degli uomini che mi immobilizzavano le braccia, poi li colpii alla cintura con i gomiti. Caddero boccheggiando.
Prima che avessero toccato terra, avevo tirato fuori il pugnale e, afferrando lo sconcertato Menelao per i capelli, glielo puntai alla gola.
— Un gesto da uno qualunque di voi — sibilai — e il vostro re morirà.
Si immobilizzarono tutti; i nobili, alcuni con le mani già sull’elsa della spada; le guardie, con gli occhi spalancati e la bocca aperta.
— Ora, nobile Menelao — dissi forte abbastanza che tutti potessero sentire, anche se la mia bocca era vicina al suo orecchio — discuteremo dei nostri contrasti da uomini o ci affronteremo l’un l’altro da nemici in un duello leale. Non sono un thes o uno schiavo, per essere legato e torturato per il tuo piacere. Ero un guerriero della Casa di Itaca, e ora sono il comandante di un esercito egiziano, un esercito mandato qui per distruggerti.
— Tu menti! — mugghiò Menelao dimenandosi nella mia presa. — Gli Egiziani ci hanno accolto sui loro lidi. Stanno custodendo mia moglie per me, e mi hanno invitato a navigare verso la loro capitale per reclamarla.
— Il primo ministro del re egiziano ha architettato una graziosa trappola per te e per tutti i signori achei che arrivano in questa terra — insistetti. — Ed Elena è l’esca.
— Bugie — disse Menelao. Ma mi accorsi di aver catturato l’attenzione degli altri nobili.
Allentai la presa su di lui e gettai il pugnale sulla sabbia ai suoi piedi.
— Lascia che gli dèi dimostrino chi di noi ha ragione — lo sfidai. — Scegli il tuo guerriero migliore e mettilo a confronto con me. Se mi ucciderà, significherà che sto mentendo. Se avrò la meglio io, mi farai la grazia di ascoltare quello che ho da dire, perché quello sarà stato il volere degli dèi.
Una rabbia omicida bruciava ancora negli occhi di Menelao, ma i nobili gli si strinsero intorno ansiosi.
— Perché no?
— Lascia che decidano gli dèi!
— Non hai niente da perdere, mio signore.
Fremente di rabbia, Menelao gridò: — Niente da perdere? Non capite che questo traditore, questo rapitore, sta semplicemente cercando di procurarsi una morte rapida e pulita invece dell’agonia che merita?
— Mio signore Menelao — gridai in risposta. — Sulla pianura di Ilio ti ho pregato di intercedere in favore del cantastorie Polete contro l’ira di tuo fratello. Tu hai rifiutato, e ora il vecchio è cieco. Adesso tutto è cambiato. Non sto pregando, io pretendo da te quello che mi devi: un combattimento leale. Non qualche giovane campione che affretti scioccamente la sua morte. Voglio combattere contro di te, potente guerriero. Possiamo sistemare i nostri contrasti con le lance e le spade.
L’avevo in pugno. Si allontanò di un passo ricordando le mie prodezze a Troia. Ma non aveva modo per evitare di affrontarmi; aveva detto a tutti che voleva uccidermi. Ora doveva farlo, e da solo, o permettere che i suoi seguaci lo considerassero un codardo.
L’intero accampamento formò un cerchio sbilenco intorno a noi, mentre i servi di Menelao lo aiutavano ad armarsi. Avremmo combattuto a piedi. Una delle guardie mi portò la mia spada; me la misi a tracolla e ne sentii il peso rassicurante sul fianco. Tre nobili, malvolentieri, mi fecero scegliere tra numerose lance. Ne presi una che era più corta ma più pesante delle altre.
Menelao emerse da un capannello di servi e di nobili, coperto di bronzo dalla testa ai piedi, con uno scudo enorme a figura intera. Nella mano destra reggeva un’unica lunga lancia, ma notai che i suoi uomini ne avevano deposto a terra numerose altre, a qualche passo dietro di lui.
Io non avevo né scudo né armatura. Non li volli. Speravo di avere la meglio su Menelao senza doverlo uccidere, per dimostrare a lui e agli altri Achei che gli dèi erano tanto dalla mia parte che nessun uomo mi si sarebbe potuto opporre. Per riuscirci, dovevo evitare di rimanere infilzato dalla lancia di Menelao, naturalmente.
Potevo sentire l’eccitazione degli Achei attorno a noi. Non c’era niente di meglio di un combattimento prima di colazione per stimolare la digestione.
Un vecchio in una tunica lacera uscì dalla folla e si mise di mezzo. Aveva una lunga barba grigio sporco.
— Nel nome dell’eterno Zeus e di tutti gli dèi potenti del sommo Olimpo — cominciò con forte voce da annunciatore — prego che questo combattimento sia grato agli dèi, e che essi mandino la vittoria a chi la merita. — Si allontanò in fretta e Menelao si portò il pesante scudo davanti al corpo. Con i copri- guance dell’elmo abbassati, tutto quello che potevo vedere di lui erano gli occhi furenti.
Feci un piccolo passo a destra, allontanandomi dal suo braccio armato di lancia e tenendo la mia con la destra.
Menelao vibrò la sua arma contro di me. Poi, senza un attimo di esitazione, si buttò indietro per prenderne un’altra.
I miei sensi si fecero più rapidi, come succede sempre in battaglia, e il mondo intorno a me rallentò nei languidi movimenti di un sogno. Osservai la lancia venirmi addosso, feci un passo di lato, e lasciai che l’asta cadesse senza danni nella sabbia vicino ai miei piedi. Gli Achei emisero un “ohh” di stupore.
Menelao aveva già afferrato un’altra lancia. Si piantò sui talloni e lanciò anche quella. Di nuovo, l’evitai. Con la terza, però, il re partì alla carica, con un lacerante grido di guerra.
Parai la sua lancia con la mia e feci cozzare l’impugnatura contro lo scudo massiccio con un colpo sordo, abbastanza violentemente da farlo barcollare. Lui vacillò, ritrovò l’equilibrio e si gettò verso di me. Invece di parare, questa volta mi abbassai e gli infilai la lancia tra le ginocchia. Menelao cadde a gambe all’aria ed io fui su di lui immediatamente, con le cosce che gli immobilizzavano le braccia al terreno, la spada puntata alla gola, tra i copri- guance dell’elmo e il colletto della corazza.
Mi fissò. I suoi occhi non brillavano più di odio; erano spalancati di paura e stupore.
Seduto sull’armatura di bronzo che gli proteggeva il torace, alzai la spada verso il cielo e proclamai a voce più alta possibile: — Gli dèi hanno parlato! Nessuno può sconfiggere chi è ispirato dalla volontà dell’onnipotente Zeus!
Mi alzai e misi in piedi Menelao. Gli Achei si strinsero intorno a noi, accettando il verdetto divino.
— Solo un dio può aver combattuto così!
— Nessun mortale può affrontare un dio e vincere.
Si affollarono intorno a Menelao e lo rassicurarono che nessun eroe a memoria d’uomo aveva mai combattuto contro un dio ed era sopravvissuto per raccontarlo, tuttavia si tennero a distanza prudenziale dal mio braccio e mi guardarono con aperto timore reverenziale.
Infine il vecchio sacerdote si avvicinò e mi fissò con occhi miopi. — Sei un dio venuto a istruirci in forma umana?
Trassi un profondo respiro e mi strinsi nelle spalle. — No, vecchio. Ho sentito il dio dentro di me mentre combattevamo, ma adesso se n’è andato e io sono di nuovo un semplice mortale.
Menelao, ora a testa scoperta, mi guardò di traverso. Ma essere sconfitto da un dio non era vergognoso, e lasciò che i suoi uomini gli dicessero che aveva fatto qualcosa di molto coraggioso e meraviglioso. Però era chiaro che per me non aveva alcuna simpatia.
Mi invitò nella sua tenda, dove mi studiò in silenzio mentre i servi lo liberavano dall’armatura e alcune schiave ci portavano fichi, datteri, e denso miele speziato. Mi sedetti su uno scanno d’ebano finemente intagliato: di disegno e fattura egiziana, notai. Non poteva provenire da quel villaggio periferico.
Menelao si sedette su una sedia di corda intrecciata, con il piatto di frutta e miele in mezzo a noi. Quando i servi ci ebbero lasciati soli, gli chiesi: — Vuoi davvero indietro tua moglie?
Un residuo dell’ira precedente tornò nei suoi occhi. — Per cosa altro pensi che sia qui?
— Per uccidermi e servire quel grasso ippopotamo di nome Nekoptah.
Trasalì al nome del primo ministro.
— Lascia che ti dica quello che so — continuai. — Nekoptah ti ha promesso Elena e una parte delle ricchezze dell’Egitto, se mi uccidi. Giusto?
— Giusto — borbottò.
— Ma rifletti un attimo. Perché il primo ministro del re dovrebbe aver bisogno di un signore acheo per sbarazzarsi di un solo uomo, di un barbaro, di un vagabondo capitato in Egitto solo per caso, come scorta di un’esule di rango reale?
A dispetto di sé, Menelao sorrise.
— Non sei un comune vagabondo, Orion. Non sei così facile da uccidere.
— Ti è mai venuto in mente che Elena venga usata come esca, per attirarti verso la tua morte, te e tutti i signori achei che con te sono venuti in Egitto?
— Una trappola?
— Io non sono venuto solo. Un esercito egiziano sta aspettando ad appena un giorno di marcia da qui. In attesa di potervi prendere tutti nella loro rete.
— Mi è stato detto…
— Ti è stato detto di far sapere a tuo fratello e agli altri signori che sarebbero stati i benvenuti, qui, se avessi fatto come il primo ministro chiedeva — dissi per lui.
— Mio fratello è morto.
Sentii un lampo di sorpresa. Agamennone morto!
— È stato assassinato da sua moglie e dal suo amante. Anche la sua schiava Cassandra. Ora suo figlio cerca la vendetta contro la sua stessa madre! Tutta Argo è in tumulto. Se tornassi… — La sua voce svanì in un rantolo e lui si lasciò cadere in avanti, nascondendo il viso tra le mani. La profezia di Cassandra, le “bestemmie” che avevano procurato la cecità a Polete, trovavano riscontro. Clitennestra e il suo amante avevano ucciso il Sommo Re.
— Non abbiamo un posto dove andare — confessò Menelao con voce bassa e pesante di disperazione. — Argo è sottosopra. I barbari del nord si spingono verso Atene e poi arriveranno ad Argo. Agamennone è morto. Ulisse è disperso in mare. Gli altri signori achei che stanno arrivando per unirsi a me, lo fanno solo per disperazione. Ci è stato detto che gli Egiziani ci accoglieranno bene. E adesso tu mi dici che è tutta una trappola.
Seduto sullo scanno, guardai il re di Sparta che piangeva. Il mondo gli stava crollando addosso e lui non sapeva a che santo votarsi.
Ma io sì.
— Ti piacerebbe trasformare questa trappola in un trionfo? — gli chiesi.
Menelao levò gli occhi pieni di lacrime verso di me ed io cominciai a spiegargli il mio piano. Avrebbe comportato restituirgli Elena, e nel profondo del mio essere mi odiavo per questo. Era una donna viva, vitale, calda e vibrante, e io la stavo barattando come un bene qualsiasi, come una merce di scambio. L’ira che mi sentivo dentro la diressi contro il Radioso. “È opera sua” mi dissi. “Le sue manipolazioni hanno confuso tutte le nostre vite; io sto solo cercando di rimettere le cose a posto.” Ma sapevo che quello che facevo lo facevo per me stesso, per ostacolare il Radioso, per farlo avvicinare di un passo al momento in cui avrei potuto distruggere lui e riportare Atena alla vita. Odio e amore si confondevano dentro di me, mescolati in un crogiolo incandescente che ribolliva nella mia testa, troppo potente perché potessi resisterle. Avrei potuto barattare ben più di una regina innamorata, saccheggiare città e cancellare intere nazioni pur di ottenere quello che volevo: la vita per Atena e la morte di Apollo.
Così continuai, e spiegai a Menelao come riconquistare la moglie e guadagnarsi un posto sicuro nel Regno delle Due Terre.
Il piano di Nekoptah era molto buono. Praticamente infallibile. Aveva pensato quasi a tutto. Bastava solo ritorcerlo contro di lui.
Nei giorni seguenti mi mossi come una macchina, parlando e agendo automaticamente, rifiutandomi di pensare in modo da soffocare i richiami della mia coscienza. Mangiavo, dormivo, non sognavo, e portavo i miei piani sempre più vicini al successo, giorno dopo giorno.
Provavo un’amara soddisfazione nel depistare i perfidi progetti di Nekoptah contro lui stesso. Il grassone si era lasciato prendere la mano, come succede prima o poi a tutti i cospiratori. Mandando il principe Aramset in quella spedizione, aveva pensato di eliminare l’unico concorrente al trono d’Egitto. Ma era proprio Aramset la chiave del mio contrattacco. Seguii il piano di Nekoptah alla lettera, tranne che per un dettaglio: Menelao e gli altri Achei avrebbero giurato fedeltà al futuro sovrano, e non al primo ministro. Ma solo la vendetta finale, il trionfo contro il Radioso, mi avrebbe dato piacere. E vedevo sempre più vicino quel momento, il momento ultimo in cui l’avrei distrutto completamente.
Che buffo, mi dicevo. Ero entrato in quel mondo come un thes, inferiore anche a uno schiavo. Ero diventato guerriero, poi comandante militare, poi guardiano e amante di una regina. Ora mi preparavo a creare un re, e a decidere chi avrebbe governato il Paese più ricco e più potente della terra. Io, Orion, avrei strappato il potere dalle dita ingioiellate dell’infido Nekoptah e l’avrei rimesso al suo posto: nelle mani del principe della corona.
Sulle prime Aramset mi ascoltò con freddezza, quando condussi Menelao alla nave, ormeggiata a un giorno di marcia dalla costa. Ma quando vide chiaro nel mio disegno, quando si rese conto che gli stavo offrendo non solo una soluzione al problema dei Popoli del Mare ma anche un modo per eliminare Nekoptah, accolse rapidamente le mie idee, e anche con calore. Le spie del Sommo Sacerdote infestavano ancora l’esercito e il seguito del principe, ma con Lukka e i suoi Ittiti a proteggerlo, Aramset era abbastanza al sicuro. E il vecchio, burbero generale Raseti era fedele al principe, nonostante il suo borbottare. La stragrande maggioranza dell’esercito l’avrebbe seguito, se fosse nata una crisi. Gli emissari di Nekoptah erano pochi di numero e impotenti contro la lealtà dell’esercito. Il primo ministro doveva usare furtività e astuzia per raggiungere i suoi scopi; le sue armi erano la menzogna e l’assassinio, non soldati che combattevano faccia a faccia alla luce del sole.
Aramset ricevette il re di Sparta con solenne dignità. Niente risatine o nervosismo giovanile. Sedeva su un trono improvvisato sul ponte di poppa della nave reale, sotto una tenda a strisce di colore brillante, con vesti sfarzose e la strana doppia corona delle Due Terre, il volto atteggiato a un’espressione rigidamente impassibile, come le statue di suo nonno.
Da parte sua, Menelao fece una splendida figura, con la sua armatura di filigrana d’oro sfolgorante come il sole stesso, la barba scura e i capelli ricci luccicanti d’olio. Altri quattordici signori achei venivano dietro di lui. Con le armature sfavillanti e gli elmi piumati, le barbe scure e le braccia segnate di cicatrici, apparivano selvaggi e feroci vicino ai raffinati Egiziani.
La nave rigurgitava di uomini: il seguito del principe, soldati, dignitari delle città costiere, funzionali governativi. Quasi tutti indossavano lunghe vesti ed erano nudi sino alla vita, tranne che per i medaglioni della loro carica. Sapevo che alcuni di loro erano spie di Nekoptah, ma lasciai che riferissero al loro grasso padrone che il principe della corona aveva risolto il problema dei Popoli del Mare senza spargimento di sangue. Il mio solo rimpianto era di non poter vedere la faccia truccata del primo ministro contorcersi d’ira alla notizia.
Gli scribi ufficiali sedevano ai piedi del principe, prendendo nota di ogni parola che veniva detta. Alcuni disegnatori, appollaiati da tutte le parti, immortalavano quel momento con schizzi febbrili su fogli di papiro. Molte altre navi si stringevano in cerchio intorno a noi, anch’esse piene di gente decisa a presenziare a quell’importantissimo evento. Anche la spiaggia era affollata, di uomini, donne e persino bambini provenienti da molte città. Lukka era in piedi dietro il trono del principe, con le labbra serrate per evitare di sorridere. Gli piaceva stare più in alto di Menelao.
Io mi trovavo di lato rispetto all’assemblea, e ascoltavo il re di Sparta che recitava fedelmente il copione che avevo scritto per lui. Gli altri signori achei, appena arrivati dalle loro inquiete terre con le mogli e le famiglie, continuavano a muoversi a disagio nel caldo del sole che si alzava. La conversazione tra il principe egiziano e lo spodestato sovrano acheo occupò la maggior parte di un lungo mattino. In breve, Menelao prometteva che tutti gli Achei sarebbero stati fedeli al principe Aramset e, attraverso di lui, al re Merenptah. A sua volta, Aramset promise agli Achei terra e case; in nome del re, naturalmente. La loro terra sarebbe stata lungo le coste, e gli Achei avrebbero dovuto proteggerla dalle incursioni nemiche. I Popoli del Mare erano stati assorbiti dal Regno delle Due Terre. I ladri si erano trasformati in poliziotti.
— Pensi che davvero proteggeranno le coste? — mi chiese Aramset mentre i servi gli toglievano gli abiti da cerimonia.
Eravamo nella sua cabina piccola, bassa e soffocante nel caldo di mezzogiorno. Sentivo il sudore che mi colava giù per la mascella e le gambe. Invece, il giovane principe sembrava a suo agio in quel forno soffocante.
— Dandogli terra e case — risposi riprendendo un argomento di cui si era già discusso mille volte — eliminiamo la ragione d’essere delle loro razzie. Non hanno altro posto dove andare, e temono i barbari che li invadono da nord.
— Penso che mio padre sarà contento di me.
Sapevo che stava esprimendo una speranza, più che una certezza.
— Nekoptah invece no.
Lui rise mentre gli ultimi indumenti gli cadevano di dosso lasciandolo con il solo perizoma attorno ai fianchi.
— Mi occuperò io di Nekoptah — disse allegramente. — Ho il mio esercito personale, adesso.
I servi addetti alla vestizione se ne andarono e ne arrivarono altri portando acqua gelata e ciotole di frutta.
— Preferisci del vino, Orion?
— No, l’acqua andrà bene.
Aramset prese un piccolo melone e un coltello. Mentre cominciava a farlo a fette, chiese: — E tu, amico mio? Mi preoccupi.
— Io?
Mi guardò. — Sei disposto a rinunciare alla bella signora?
— È la moglie legittima di Menelao.
Aramset sorrise. — L’ho vista, sai. Io non la lascerei andare. Non volontariamente.
Sentendomi a disagio, preferii tacere. Come potevo spiegargli dei Creatori e della dea che speravo di riportare in vita? Come potevo spiegargli dell’infelicità che cresceva dentro di me, della riluttanza a perdere quella donna che aveva condiviso la mia vita per tanti mesi, che mi aveva offerto il suo amore? Il silenzio fu il mio rifugio.
Scrollando le spalle, Aramset disse: — Se non vuoi parlare di donne, cosa mi dici a proposito della ricompensa?
— Ricompensa, Vostra Altezza?
— Mi hai reso un grande servizio. Hai reso al mio popolo un grande servizio. Che ricompensa vuoi? Dillo e sarà tua.
Ci pensai appena per un istante. — Permettetemi di entrare nella grande piramide di Khufu.
Per un momento Aramset non disse nulla. Poi, increspando leggermente le labbra, rispose: — Potrebbe essere difficile. In realtà è la provincia del gran sacerdote di Amon…
— Hetepamon — dissi.
— Lo conosci?
— Nekoptah mi ha detto il suo nome. Dovevo riportarlo a Wast con me, se fossi sopravvissuto alla trappola con Menelao.
D’impulso, Aramset balzò in piedi e corse alla cassapanca sul lato opposto della cabina. Sollevò il coperchio e rovistò tra mucchi di abiti finché non trovò un piccolo medaglione d’oro attaccato a una lunga catena.
— Qui c’è l’occhio di Amon — mi disse. Vidi un emblema inciso nell’oro. — Me l’ha dato mio padre prima di… diventare devoto a Ptah.
Prima di diventare dipendente dalle droghe che Nekoptah gli somministrava, tradussi tra me.
— Mostralo a Hetepamon — disse il principe — e lo riconoscerà come proveniente dal re. Non potrà rifiutarti nulla, allora.
La nostra armata spiegò le vele e cominciò a risalire il Nilo due giorni dopo. All’esercito che gli Egiziani avevano riunito, si erano aggiunti adesso Menelao e un contingente di guerrieri achei scelti, legati da giuramento ad Aramset. La forza principale dei greci rimase sulla costa, con gli amministratori egiziani che li aiutavano a insediarsi nelle città che avrebbero protetto da allora in poi. Il principe si diresse di nuovo alla capitale, con la sua vittoria pacifica sui Popoli del Mare.
Io andavo su e giù per il ponte, o mi afferravo alle murate come se avessi potuto così far soffiare il vento più forte e far muovere la nave più in fretta, con la sola forza di volontà. Di giorno, sforzavo gli occhi per cogliere il primo bagliore della punta luccicante della grande piramide di Khufu.
Di notte, tentavo di raggiungere l’interno dell’antica tomba trasferendovi il mio corpo. Inutilmente. Il Radioso aveva schermato la piramide troppo bene. Il solo sforzo mentale non poteva penetrare la sua fortezza. La mia unica speranza era che il Sommo Sacerdote di Amon potesse portarmi fisicamente al di là di una porta o di un passaggio, nella gigantesca costruzione.
“Questa sarebbe l’ironia finale” pensai, mentre me ne stavo sdraiato nella mia cuccetta coperto dal sudore dell’inutile fatica, notte dopo notte. “Il Radioso può impedire ai suoi compagni Creatori di penetrare nella sua fortezza, ma può impedire di entrarvi fisicamente a due comuni esseri umani?”
Arrivò infine il giorno in cui oltrepassammo la periferia di Menefer, e la lucente immensità della grande piramide sorse davanti ai nostri occhi.
Convocai Lukka nella mia cabina e gli dissi: — Qualunque cosa accada nella capitale, proteggi il principe. È il tuo padrone, adesso. Forse non mi rivedrai più.
I suoi occhi duri si addolcirono. — Mio signore Orion, non ho mai pensato a un mio superiore come a… a un amico. — Gli mancò la voce.
Gli diedi una pacca sulla spalla. — Lukka, bisogna essere in due per creare un’amicizia. E un uomo con il cuore forte e fedele come il tuo è un tesoro raro. Mi piacerebbe avere un pegno, un ricordo da darti.
Sorrise tristemente. — Ho molti tuoi ricordi, mio signore. Ci hai innalzato dalla polvere all’oro. Nessuno di noi ti dimenticherà mai.
Un ragazzo dell’equipaggio infilò la testa dalla porta aperta della cabina e mi disse che una barca era pronta a portarmi in città. Fui felice dell’interruzione, e anche Lukka. Altrimenti avremmo potuto cadere l’uno nelle braccia dell’altro e metterci a piangere come bambini.
Aramset mi stava aspettando lungo il parapetto della nave.
— Torna da me a Wast, Orion — disse.
— Lo farò se posso, Altezza.
Nonostante la nuova dignità di vero principe con tanto di esercito al suo comando, era pieno di curiosità. — Non mi hai mai detto perché vuoi entrare nella tomba di Khufu.
Sorrisi tra me. — È la più grande meraviglia del mondo. Voglio ammirarne le bellezze.
Ma non era tipo da accontentarsi così facilmente. — Tu non sei un ladro che cerca di depredare i tesori sepolti con il grande Khufu. Le meraviglie che cerchi devono essere altro che oro e gioielli.
— Cerco un dio — risposi onestamente. — E una dea.
I suoi occhi lampeggiarono. — Amon?
— Forse è quello che voi chiamate così. In altre terre ha diversi nomi.
— E la dea?
— Anche lei ha molti nomi. Non so come venga chiamata in Egitto.
Aramset sorrise, e il ragazzo che era in lui fece capolino attraverso la sua serietà da principe. — Per gli dèi! Sono mezzo tentato di venire con te! Mi piacerebbe vedere quello che cerchi.
— Vostra Altezza ha affari più importanti alla capitale — dissi gentilmente.
— Sì, questo è vero — ammise lui con un cipiglio di disappunto.
— Essere l’erede al trono è una pesante responsabilità — dissi. — Solo un vagabondo senza soldi è libero di avere delle avventure.
Aramset scosse la testa fingendo rammarico. — Orion, cosa mi hai fatto? — Il rammarico non era del tutto simulato, mi accorsi.
— Tuo padre ha bisogno di te. Questo grande regno ha bisogno di te.
Lui assentì, con riluttanza, e ci separammo. Vidi Menelao che sbirciava dal ponte mentre scendevo la scala di corda sino alla barca in attesa. Lo salutai con la mano più allegramente possibile. Lui fece un cupo cenno con la testa.
Uno dei vantaggi di una burocrazia gigantesca come quella dell’amministrazione egiziana è che, una volta che si è messa in moto per te, può portarti alla tua meta con la velocità di una macchina ben oliata. Il principe della corona aveva dato un ordine ai burocrati di Menefer: conducete Orion da Hetepamon, Sommo Sacerdote di Amon. E questo fecero, con non comune efficienza.
Fui accolto al molo da un gruppo di quattro uomini, abbigliati con una veste rigida e con il medaglione di rame dei funzionari minori. Mi condussero a un carro trainato da cavalli e ci avviammo per la strada coperta di ciottoli dalla riva del fiume sino al distretto dei templi, nel cuore della vasta città.
I quattro, che per tutto il tragitto scambiarono a malapena qualche parola con me e tra loro, mi guidarono attraverso un labirinto di cortili e di corridoi, finché alla fine mi introdussero, da una porticina, in una stanza di dimensioni modeste, allegramente illuminata dalla luce del sole.
— Il Sommo Sacerdote ti raggiungerà tra poco — disse uno di loro. Poi mi lasciarono solo.
Rimasi a disagio per qualche momento. Non c’erano altre porte nella stanza. Solo tre piccole finestre in fila sullo stesso muro. Mi sporsi dal davanzale di quella centrale, e vidi che c’era un dislivello di circa cento metri dal giardino sottostante. Sulle pareti erano dipinte scene che ritenni a carattere religioso: figure umane dalla testa animale che ricevevano offerte di grano da esseri umani più piccoli. I colori erano brillanti e allegri, come se appena stesi o rinfrescati da poco. C’erano molte sedie intorno ad un tavolo sgombro che sembrava di legno di cedro. Per il resto, la stanza era vuota.
La porta, infine, si aprì, ed io rimasi senza fiato per lo stupore quando l’uomo enormemente obeso entrò ciondolando. Nekoptah! Mi avevano teso una trappola! Il sangue mi pulsava nelle orecchie. Avevo lasciato la mia spada, e persino il pugnale sulla nave. Tutto quello che avevo con me era il medaglione di Amon intorno al collo e l’anello di corniola di Nekoptah, infilato nella cintura.
Lui mi sorrise. Un sorriso piacevole, che sembrava sincero. Poi notai che non portava anelli, né collane, né nessun altro gioiello. Il suo viso non era truccato. Aveva un’espressione amichevole, aperta, e curiosa; come se mi vedesse per la prima volta, come se fossi un estraneo.
— Sono Hetepamon, Sommo Sacerdote di Amon — disse. Anche la voce sembrava quasi la stessa. Ma non del tutto.
— Io sono Orion — risposi, quasi intontito per la sorpresa e lo stupore. — Ti porto i saluti del principe Aramset.
Era grasso quanto Nekoptah. Gli somigliava così tanto che avrebbe potuto essere…
— Stai pure comodo — disse Hetepamon. — Questo è un incontro informale. Non c’è bisogno di cerimonie.
— Tu… — Non sapevo come dirlo senza apparire sciocco. — Tu rassomigli…
— Al Sommo Sacerdote di Ptah. Sì, lo so. È normale: siamo gemelli. Io sono il più vecchio, di qualche battito cardiaco.
— Fratelli? — E compresi che era vero. Lo stesso viso, gli stessi lineamenti, lo stesso corpo orribilmente elefantino. Ma mentre Nekoptah trasudava oscura e intrigante malvagità, Hetepamon sembrava in pace con se stesso, innocente, sereno, quasi gioviale.
Il Sommo Sacerdote mi stava sorridendo. Ma quando mi avvicinai mi scrutò in viso, stringendo forte gli occhi. La sua espressione amichevole si affievolì. Sembrava preoccupato.
— Per favore, spostati dal sole in modo che possa vederti meglio. — La sua voce tremava leggermente.
Io mi spostai, e lui mi venne più vicino. I suoi occhi si spalancarono, e una sola parola gli uscì in un sussurro dalla bocca aperta.
— Osiride!
Hetepamon cadde in ginocchio e premette la fronte sulle mattonelle del pavimento.
— Perdonami, grande signore, per non averti riconosciuto prima. La tua sola figura avrebbe dovuto essere un indizio sufficiente, ma i miei occhi mi stanno abbandonando e so di non essere degno di trovarmi alla tua divina presenza…
Continuò a balbettare per vari minuti prima che riuscissi a farlo alzare e a metterlo a sedere. Sembrava sul punto di svenire: il viso era color cenere, le mani tremanti.
— Io sono Orion, un viaggiatore di una terra lontana. Servo il principe della corona. Non so niente di un uomo di nome Osiride.
— Osiride è un dio — disse Hetepamon ansimando, le mani paffute premute sul petto che si sollevava. — Ho visto il suo ritratto nelle antiche incisioni all’interno della piramide di Khufu. È il tuo viso!
Pian piano lo feci calmare e feci in modo che si rendesse conto che ero un essere umano, non un dio venuto a punirlo per qualche immaginaria mancanza. La sua paura svanì, a poco a poco, mentre insistevo che, se somigliavo tanto al ritratto di Osiride, significava che gli dèi desideravano che lui mi aiutasse.
Hetepamon mi ascoltò, poi mi spiegò che Osiride, dio della vita, della morte e del rinnovamento, prendeva spesso forma umana.
Era stato il primo re del genere umano, mi disse, colui che l’aveva liberato dalla barbarie e aveva insegnato le arti del fuoco e dell’agricoltura. Vecchi ricordi si agitavano dentro di me: vidi una misera manciata di uomini e donne lottare contro il freddo perpetuo di un’era glaciale; vidi una banda di cacciatori del neolitico imparare penosamente a piantare le messi. Ero stato io. Io avevo dato loro il fuoco e l’agricoltura.
— Osiride, nato dalla Terra e dal Cielo, fu slealmente assassinato da Tifone, il signore del male — continuava Hetepamon con voce uniforme e leggermente sussurrante, quasi come in trance. — Sua moglie Aset, che lo amava oltremisura, si adoperò per riportarlo alla vita.
Ero vissuto lì in un’età precedente? Non ne avevo alcun ricordo, però poteva essere accaduto.
Sforzandomi di apparire calmo, dissi a Hetepamon: — Io servo gli dèi della mia lontanissima terra, che possono essere gli stessi che venerate qui in Egitto con nomi diversi.
Il grasso sacerdote chiuse gli occhi, come se avesse ancora paura di guardarmi. — Gli dèi hanno grandi poteri e possono agire molto al di là della nostra capacità di comprensione.
— Abbastanza vero — fui d’accordo, aggiungendo silenziosamente che un giorno li avrei compresi interamente, o sarei morto per sempre.
Hetepamon aprì gli occhi e tirò un grande, profondo respiro, pesantemente roco. — Come posso aiutarti, mio signore?
Guardai nei suoi occhi scurissimi e vidi vera paura, vero timore reverenziale. Non aveva discusso quando gli avevo detto che ero mortale, ma era tuttora convinto di aver ricevuto la visita del dio Osiride. Forse era così.
— Devo entrare nella grande piramide. Cerco… — Esitai. “Non ha senso fargli venire un infarto” pensai. — Cerco il mio destino.
— Sì — disse. — La piramide si trova davvero al centro esatto del mondo. Forse è il luogo del destino di tutti noi.
— Quando possiamo farlo?
Si morse il labbro inferiore per un momento. La sua rassomiglianza con Nekoptah mi metteva ancora leggermente a disagio.
— Entrare nella grande piramide significherebbe una cerimonia formale, una processione, preghiere e sacrifici che richiederebbero giorni o settimane di preparazione.
— Non c’è modo di farlo senza tutta questa cerimonia?
Annuì lentamente. — Sì, se lo desideri.
— Lo desidero.
Hatepamon chinò la testa in un tacito consenso. — Dovremo aspettare sino a dopo il tramonto del sole — disse.
Passammo la giornata guadagnando lentamente fiducia l’uno nell’altro. Pian piano superai la sensazione che lui fosse Nekoptah travestito, e, a poco a poco, Hetepamon si trovò più a suo agio, anche se ancora sospettava che io potessi essere un dio sotto mentite spoglie. Mi fece visitare il vasto tempio di Amon, dove i grandi corridoi e le loro colonne si levavano più in alto degli alberi, dove le storie della creazione, del diluvio e dei contatti tra uomini e dèi erano incise sui muri in immagini e geroglifici.
Una delle cose che mi convinse che il sacerdote era davvero un gemello di Nekoptah fu la sua assurda abitudine di masticare continuamente piccole noci scure. Ne portava una piccola sacca appesa alla cintura e vi infilava continuamente le dita simili a prosciutti. I suoi denti erano sgradevolmente macchiati, a forza di masticarle. Nekoptah, aveva altri vizi, ma questo no.
Hetepamon mi raccontò la storia di Osiride e della sua sposa-sorella Aset, che gli Achei chiamavano Iside. Osiride era tornato dagli inferi e dalla morte stessa per stare con lei, tanto era l’amore tra loro. Gli Egiziani vedevano Osiride nella scomparsa del sole, alla fine di ogni giorno, e nell’avvicendarsi delle stagioni durante l’anno: la morte che viene seguita inevitabilmente da una nuova vita.
Io ero morto molte volte, ed ero rinato sempre. Potevo riportare in vita la mia Atena? La leggenda non diceva nulla della sua fine.
— Questi non sono veri ritratti degli dèi — mi disse Hetepamon mentre ci trovavamo di fronte a un mastodontico bassorilievo che occupava un’intera parete del tempio principale. La sua voce rimbombava tra le ombre. — Le loro fattezze umane sono semplici forme idealizzate.
Io annuii mentre osservavo i ritratti sereni di dèi e, più in piccolo, di re morti da tempo.
Avvicinandosi tanto da farmi sentire l’odore delle noci nel suo alito, mi sussurrò con tono confidenziale: — Alcuni dei volti degli dèi, in realtà, sono stati disegnati prendendo a modello quelli dei re. Oggi lo considereremmo blasfemo, un tempo la gente credeva che gli stessi re fossero dèi.
— Adesso non lo credono più? — chiesi.
Scosse le guance grasse. — Il re è il rappresentante degli dèi sulla Terra, il mediatore tra gli dèi e gli uomini. Diventa un dio quando muore ed entra nell’altro mondo.
— Perché tuo fratello ti vuole in suo potere? — chiesi improvvisamente, seccamente, senza preamboli.
— Mio fratello… ? Cosa stai dicendo?
Gli mostrai l’anello di corniola di Nekoptah e dissi: — Mi ha ordinato di portarti alla capitale. Dubito che avesse in mente un incontro fraterno.
Hetepamon impallidì. La voce quasi gli mancò. — Lui… ti ha ordinato…
Io aggiunsi. — Va dicendo al re che vuoi reinstaurare l’eresia di Akhenaten.
Pensai che il sacerdote sarebbe caduto su uno dei suoi grassi fianchi, proprio lì, sul pavimento di pietra del tempio.
— Ma questo non è vero! Io sono fedele ad Amon e a tutti gli dèi!
— Nekoptah ti vede come una minaccia — dissi.
— Vuole affermare il culto di Ptah come il più importante di questa terra, e se stesso come uomo più potente del regno.
— Sì, ci credo. — Non dissi niente a proposito del principe Aramset.
— Ha sempre avuto cattivi sentimenti nei miei confronti — mormorò tristemente Hetepamon — ma non pensavo che mi odiasse tanto da volerla… fare finita con me.
— È molto ambizioso.
— E crudele. Sin da quando eravamo ragazzi, gli piaceva infliggere dolore.
— Controlla il re.
Si torse le mani grasse. — Allora sono perduto. Non posso aspettarmi nessuna pietà da parte sua. — Gettò uno sguardo circolare all’enorme tempio vuoto, come cercando aiuto dai bassorilievi di pietra degli dèi. — Tutti i sacerdoti di Amon passeranno sotto la sua spada. Non lascerà nessuno di noi, per timore che possiamo minacciare Ptah; e lui stesso.
Era davvero atterrito, e sembrava sul punto di piangere. Mi accorsi che non era né ambizioso né crudele. Come fosse diventato Sommo Sacerdote di Amon non lo sapevo, ma era chiaro che aveva poco potere e nessuna ambizione politica.
Adesso ero sicuro di potermi fidare di quell’uomo che somigliava tanto al mio nemico. Così lo tranquillizzai, dicendogli come Aramset stesse tornando alla capitale a capo di un piccolo esercito, deciso a proteggere suo padre e a prendere il posto che gli spettava come erede al trono.
— È così giovane — disse Hetepamon.
— Un principe del regno matura in fretta — risposi. — O non matura affatto. — Uscimmo dal grande tempio e salimmo per una lunga scalinata di pietra, con Hetepamon che ansimava e sudava, finché non raggiungemmo il tetto della costruzione. Da sotto un tendone ondeggiante, vidi distendersi la città di Menefer e, al di là del Nilo, la grande piramide luccicante di Khufu che si stagliava bianca e appuntita contro le rupi di granito.
Alcuni servi portarono tavoli e sedie, mentre altri arrivarono con carciofi e melanzane a fettine, carne fresca, vino gelato, fichi, datteri e meloni, su vassoi d’argento. Mi resi conto che non eravamo mai stati realmente soli, ma sempre tenuti d’occhio per tutto il nostro giro attraverso i templi. Ero sicuro, però, che nessuno aveva osato avvicinarsi abbastanza da poterci ascoltare.
Rimasi divertito nel vedere che Hetepamon mangiava frugalmente, quasi con delicatezza, mordicchiando qualche foglia di carciofo, evitando la carne, prendendo solo un fico o due. Ma doveva mangiare qualcosa di più di quelle noci che portava con sé, mi resi conto, per conservare quella stazza. Come molte persone molto in sovrappeso, probabilmente mangiava per lo più quando era solo.
Osservammo il sole calare e io pensai al loro Osiride, morto e risorto proprio come me.
Infine, quando gli ultimi raggi del tramonto svanirono sulle rupi e anche la punta luccicante della grande piramide divenne finalmente scura, Hetepamon sollevò la sua enorme mole dalla sedia.
— È ora — disse.
Sentii un tremito nelle viscere. — Sì. È ora.
Scendemmo per la stessa scala, attraverso il tempio principale ormai buio, guidati solo da qualche candeliere sulle gigantesche colonne di pietra. Dietro la statua colossale di qualche dio, i cui lineamenti si perdevano tra le ombre, Hetepamon si avvicinò al muro e passò l’indice tozzo sulla linea di congiunzione di due pietre massicce.
La parete si aprì, mentre l’enorme pietra si sollevava senza far rumore, e noi entrammo silenziosamente nel vano segreto. Una piccola lampada ad olio bruciava fiocamente su un tavolo vicino all’ingresso. Hetepamon la prese e la pietra scivolò di nuovo al suo posto.
Seguii il grasso sacerdote in uno stretto corridoio, alla luce tremolante della lampada che lui teneva in mano.
— Stai attento qui — mi avvertì in un sussurro. — Tieniti sulla destra, contro il muro, o metterai il piede su un trabocchetto.
Seguii le sue istruzioni. Poi, più giù nel corridoio, dovemmo tenere la sinistra. Quindi scendemmo per una lunghissima rampa di scale. Sembrava interminabile. Potevo a malapena scorgere gli scalini alla fiamma instabile della lampada, ma sembravano appena consumati, anche se completamente coperti di polvere. La tromba delle scale si restrinse; le mie spalle sfioravano i muri. Il soffitto era così basso che dovevo tenere la testa chinata in avanti.
Hetepamon si fermò e io andai quasi a sbattergli contro.
— Qui diventa difficile. Dobbiamo saltare il prossimo gradino, toccare il quarto successivo, poi saltare quello dopo ancora. Hai capito?
— Se sbaglio?
Lasciò uscire un lungo sospiro. — Come minimo, l’intera scalinata si riempirà di sabbia. Ma ci potrebbero essere altre trappole di cui non sono a conoscenza; gli antichi costruttori erano molto accurati e molto infidi.
Mi assicurai di seguire le sue istruzioni al millimetro.
Infine arrivammo in fondo alla scala e imboccammo un corridoio leggermente più largo. Cominciavo a sentirmi sollevato. Il più era fatto. Nessun altro avvertimento su trabocchetti o scalini da evitare.
Ci fermammo, ed Hetepamon spinse una porta. Si aprì lentamente, cigolando. Passammo.
Improvvisamente una luce brillò tutt’intorno a noi, dolorosamente forte. Mi misi un braccio sugli occhi, aspettando di sentire la risata derisoria del Radioso.
Invece sentii la mano di Hetepamon che mi tirava. — Non aver paura, Orion. Siamo nella camera degli specchi. È per questo che non abbiamo potuto avvicinarci alla tomba fino a dopo il tramonto.
Abbassai il braccio e, strizzando gli occhi, vidi che ci trovavamo in una stanza completamente rivestita di specchi. Sulle pareti, sul pavimento, sul soffitto, nient’altro che specchi. E non erano piani, ma si piegavano in ogni sorta di strana angolazione, dappertutto tranne che in una specie di passaggio a zig-zag sul pavimento. La luce che mi aveva spaventato era semplicemente il riflesso della nostra modesta lampada, che mandava bagliori sfolgoranti da centinaia di sfaccettature.
Indicando verso l’alto, il grasso sacerdote disse: — Sopra di noi ci sono dei prismi che concentrano la luce del sole. Durante le ore di luce questa camera ucciderebbe chiunque vi entrasse.
Ancora con gli occhi semichiusi, lo seguii fino a un’altra porta cigolante, e di nuovo in uno stretto e buio corridoio.
— Cosa c’è ancora? — borbottai.
Lui rispose piano: — Oh, il peggio è passato. Adesso, non ci resta che arrampicarci su quella piccola scala e saremo nel tempio di Amon, proprio sotto la piramide. Da lì, c’è una lunga salita fino alla camera funeraria, ma non ci sono più trappole.
Non mi pareva vero.
Il tempio era una stanza minuscola, molto sotto il livello del terreno, grande appena abbastanza per un altare, qualche statua e alcune lampade. Tre delle pareti erano rozzamente scavate nella roccia viva; la quarta era coperta di vaghe incisioni. Il soffitto sembrava essere un solo enorme blocco di pietra. Potevo sentire il peso tremendo della massiccia piramide incombere sopra di noi, opprimente, spaventoso, come la mano di un gigante che mi spremeva l’aria dai polmoni. Un’alcova buia mascherava una rampa di scale quasi verticale che portava in alto, verso la camera del re.
Senza dire niente, Hetepamon sollevò la lampada sulla testa e si girò verso la parete istoriata.
L’indicò con la mano libera. — Osiride — sussurrò.
Era il mio ritratto. — E vicino c’era quello della mia Atena.
— Aset — sussurrai anch’io.
Lui annuì.
Così era vero. Eravamo stati entrambi in quella terra migliaia di anni prima, o anche di più. E lei era lì adesso, in attesa che la riportassi in vita. Lo sapevo. Le ero vicino. Il pensiero mi fece tremare ulteriormente.
— Io resterò qui, Orion, mentre tu sali nella tomba di Khufu — disse Hetepamon.
Lo sguardo che gli lanciai doveva essere crudelmente interrogativo.
— Non posso salire per quella scala ripida, Orion — si scusò frettolosamente. — Ti assicuro che non ci sono altri pericoli di cui preoccuparsi.
— Sei mai stato nella camera funeraria? — chiesi.
— Oh sì, tutti gli anni. — Precedette la domanda che gli avrei posto. — La processione entra nella piramide dalla facciata esterna, dove una pietra dotata di cardini funge da porta. La rampa che porta alla tomba è molto più comoda del passaggio che vedi. Nonostante questo — disse sorridendo — devo essere trasportato da otto schiavi molto forti.
Io annuii comprensivo.
— Ti aspetterò qui e pregherò Amon per il tuo destino, e per la salvezza del principe Aramset.
Lo ringraziai e, dopo aver acceso una delle lampade dell’altare con la sua, mi avviai per la ripida scala serpeggiante.
Ci impiegai credo più di un’ora anche se avevo perso il senso del tempo arrancando sugli scalini, girando in tondo ancora e ancora. I gradini sembravano tagliati direttamente nelle pareti, e alcuni erano più stretti delle fessure della roccia originaria. La mia lampada forniva una piccola sorgente di luce irregolare contro il buio pesto, e mentre salivo avevo la sensazione di non stare andando da nessuna parte, come se fossi stato sulla ruota di una mola, destinato ad arrampicarmi dolorosamente, penosamente, per sempre. Mi sentivo quasi privo di percezione sensoriale: nessun suono tranne quello del mio respiro e lo stropiccio dei miei stivali sui gradini di pietra; niente da vedere tranne i muri polverosi alla fioca luce della lampada. Il mondo esterno poteva essersi dissolto o trasformato in ghiaccio o bruciato sino a diventare un tizzone, e io non l’avrei mai saputo.
Ma continuai ad arrancare, e infine arrivai a destinazione.
Salii attraverso un buco del pavimento e mi ritrovai in una camera spaziosa. Un grande feretro di pietra sorreggeva un magnifico sarcofago, lungo almeno cinque metri, fatto di cipresso stupendamente lavorato e intarsiato d’avorio, oro, lapislazzuli, porfido, turchese e dio sa cos’altro. Splendidi manufatti riempivano la stanza: ciotole di grano, e vasi che, ne ero sicuro, erano pieni di ottimo vino e di acqua limpida. Probabilmente venivano sostituiti ogni anno durante la cerimonia di cui mi aveva detto Hetepamon. Attrezzi e armi erano allineati ordinatamente contro le pareti. Alcune scalinate conducevano in alto ad altre stanze. Tutto quello di cui il re aveva bisogno in vita era lì o nelle vicinanze, pronto perché potesse usarlo nell’altra vita.
Ma non c’era alcun segno del Radioso.
Davanti al sarcofago abbagliante di Khufu, circondato dagli oggetti più belli che mano umana avesse potuto fare, strinsi i pugni in un’ira impotente.
Lui non c’era! Mi aveva mentito!
Nella ricca camera funeraria non c’era né il Radioso né il corpo di Atena. Volevo urlare. Volevo spaccare tutto, aprire il sarcofago del re, buttare a terra l’intera piramide, pietra per pietra.
Invece rimasi semplicemente lì, muto come un qualunque animale, ingannato e sconfitto.
Ma la mia mente era al lavoro. Il Radioso aveva fatto di quella piramide la sua fortezza, proteggendola con energie che nemmeno gli altri Creatori potevano penetrare. Ci voleva un comune mortale, che entrasse fisicamente, attraverso i passaggi costruiti dall’uomo, contro il quale le barriere di energia non avrebbero funzionato.
Allora perché il Radioso la difendeva? Come copertura? Forse.
O forse la piramide era in realtà un punto di partenza per il vero luogo in cui si nascondeva. La stava proteggendo perché conteneva qualche indizio sulla sua reale posizione. Qualche indizio, o qualche dispositivo di trasferimento.
I Creatori non erano dèi. Non si muovevano da un punto del continuum all’altro per afflato mistico. Non generavano energia per forza di volontà divina. Usavano macchine, congegni, tecnologie che avevano del divino per la loro potenza, ma frutto di cervelli e mani umane, proprio come gli utensili e le armi di quella tomba.
Pensai tra me: “Se il Radioso ha nascosto una macchina del genere in questo mucchio di pietre, deve emettere un qualche tipo di energia. Posso percepirla?”.
Chiusi gli occhi e cercai di escludere la mia mente cosciente. Con uno sforzo di volontà che mi fece torcere le viscere, disinserii i cinque sensi normali: divenni cieco, sordo, totalmente solo in un universo di nulla.
Per quanto tempo rimasi in quello stato, non ne ho idea. Ma infine un filo sottile di sensibilità si fece strada nella mia coscienza. Un bagliore, un rivolo di calore, un sibilo debolissimo simile al ronzio di un’apparecchiatura elettrica in lontananza.
Aprii gli occhi molto lentamente e richiamai gli altri sensi, cautamente per non spezzare il legame con la fonte di energia che avevo scoperto. Mi diressi, quasi come un sonnambulo, verso un pannello scolpito nel muro. Si aprì alla mia pressione e rivelò un altro passaggio serpeggiante verso l’alto. Salii.
Attraversai numerose altre camere e percorsi oscuri corridoi, guidato solo dalla debole emissione.
E localizzai la fonte: una piccola stanza vicino all’estremità della piramide, così bassa e stretta che fui costretto a chinarmi per entrarci. La mia mano sollevata incontrò il metallo liscio; era caldo e vibrante di energià. La punta della piramide, di elettro: un buon conduttore di elettricità e, mi resi conto, di altre forme di energia.
Al centro della minuscola camera, occupandola quasi tutta, c’era una cupola di nero metallo opaco, abbandonata lì come l’uovo di qualche gigantesco uccello meccanico. Emetteva un ronzio. Toccai la sua liscia superficie. Era calda.
Sentii la mano leggermente appiccicaticcia mentre la tiravo indietro, come se avessi toccato della vernice non ancora asciutta. Toccai di nuovo la cupola; spinsi leggermente e sentii che cedeva. Premetti con più forza, e la mia mano sembrò penetrare la superficie, affondarci. Era fredda, dolorosamente fredda.
Ma non riuscii a ritirare la mano. Qualcosa dentro la cupola mi stava trascinando in avanti, risucchiandomi nel suo interno gelato. Gridai e lasciai cadere la lampada che ancora reggevo, mentre tutto il mio corpo annegava nel freddo mortale della cupola.
Riconobbi la morte, un alito che portava l’agonia a ogni mia cellula, a ogni nervo. Stavo cadendo, cadendo in un buio assoluto mentre il mio corpo si congelava e gli ultimi lampi di vita del mio cervello soccombevano al dolore e all’oscurità. I miei ultimi pensieri furono d’amore e di odio: amore per la mia Atena e odio per il Radioso, che mi aveva battuto ancora una volta.
Ma quando aprii gli occhi, ero sdraiato su un soffice prato. Un sole caldo splendeva su di me. Soffiava una piacevole brezza. O era il respiro dei miei stessi polmoni?
Mi misi a sedere. Il cuore mi batteva nel petto. I miei occhi osservarono. Quella non era la Terra. Il cielo era di un vivido color arancio. Brillavano due soli, uno grande abbastanza da coprire metà del cielo, l’altro come una capocchia di vivido diamante che sfavillava in trasparenza, dietro la distesa arancione del suo gonfio compagno. L’erba su cui ero seduto era di un cupo color mattone, sfumato di marrone nerastro. Il colore del sangue secco. Era spugnosa, cedevole, più simile a muffa o a carne che non all’erba vera. Scorsi delle colline in lontananza, alberi dalla forma strana, e un ruscello.
— Ci incontriamo di nuovo, Orion.
Mi voltai e vidi il Radioso ritto davanti a me. Saltando in piedi dissi: — Credevi di poterti nascondere?
— No, certamente no. Tu sei il mio Cacciatore. Sono stato io a darti questi istinti.
Portava una camicia dorata morbida e sciolta, con le maniche rigonfie, e un paio di pantaloni scuri che gli fasciavano la cintura e le gambe, infilate in stivali alti sino alla coscia. Sembrava più rilassato che mai, con un sorriso fiducioso, la folta criniera di capelli dorati scompigliata dal vento. Ma, quando lo guardai negli occhi fulvi, vidi strane luci, segni di emozioni e tensioni che stava cercando severamente di controllare.
— Ho consegnato Elena agli Egiziani. Ho fatto cadere le mura di Gerico per te. Agamennone, Ulisse e la maggior parte degli altri guerrieri achei sono stati spazzati via. Nuovi invasori stanno conquistando le loro terre. Hanno pagato per la caduta di Troia.
I suoi occhi luccicarono. — Ma tu no.
— Ho fatto quello che hai chiesto. Ora è il tuo turno di tenere fede alla tua parte di accordo.
— Un dio non fa accordi, Orion. Un dio ordina!
— Non sei un dio più di quanto lo sia io — dissi brusco. — Hai mezzi migliori, questo è tutto.
— Io ho una conoscenza migliore, creatura. Non confondere i giocattoli con il giocattolaio, o la sua sapienza.
— Forse è così — risposi.
— Forse? — Fece un sorriso tollerante. — Hai idea di dove sei, Orion? No, naturalmente no. Hai idea di dove conducano i miei piani? Come potresti?
— Non mi interessa…
— Non fa alcuna differenza che ti interessi o meno — disse, con gli occhi che lampeggiavano. — I miei piani proseguono nonostante le tue ridicole ire e i tuoi bronci. Persino nonostante l’opposizione degli altri Creatori.
— Stanno cercando di trovarti — dissi.
— Sì, naturalmente. Lo so. E ti hanno chiesto di aiutarli, giusto?
— Non l’ho fatto.
— No? — Divenne improvvisamente ironico, e mi guardò con diffidenza, quasi con rabbia.
— Ti ho servito fedelmente. In modo che tu riporti Atena alla vita.
— Fedelmente, sì. Lo so.
— Ho fatto quello che chiedevi — insistetti.
— Chiesto? Chiesto? Io non chiedo mai, Orion. Ti ho detto quello che doveva essere fatto. Mentre gli altri esitano e discutono e dibattono, io agisco. — Il suo respiro si fece più rapido, gli occhi presero una luce folle. — Non meritano di vivere, Orion. Io sono l’unico che sappia cosa fare, come proteggere il continuum dai suoi nemici. Non se ne rendono conto, ma in realtà servono il nemico. Quegli stupidi pazzi stanno lavorando per il nemico! Meritano di essere distrutti. Spazzati via. Completamente.
Lo fissai. Stava delirando.
— Sono l’unico degno di esistere! Le mie creature serviranno me e me solo. Gli altri saranno distrutti come meritano. Sarò il solo e il supremo! Sopra tutti gli altri! Per sempre!
Ero stanco delle sue declamazioni.
— Apollo, o qualunque sia il tuo nome, è ora che riporti alla vita Atena…
Mi guardò con gli occhi socchiusi. Più lucidamente, rispose: — Si chiama Anya.
— Anya — ricordai. — Anya.
— Ed è morta proprio del tutto, Orion. Non ci sarà nessuna resurrezione.
— Ma tu hai detto…
— Quello che ho detto non importa. È morta.
Le mie dita si contrassero. Lui mi fissò, e io sentii le forze che comandava invadermi, dominarmi, congelare il mio corpo nell’immobilità, anche se lui preferì tenere vigile la mia mente.
Con un grido che scosse i cieli mi liberai del controllo ipnotico e gli saltai alla gola. Lui sbarrò gli occhi incredulo e cercò di alzare le mani per difendersi, ma fu troppo lento. Lo slancio del mio salto lo fece cadere a gambe all’aria sull’erba color del sangue.
— Mi hai dato forza e furia omicida, vero? — gridai mentre gli spremevo la vita dalla gola. Emetteva rumori soffocati e mi percuoteva dove poteva con i pugni, ma senza effetto.
— Se lei non può vivere, non vivrai nemmeno tu — dissi rafforzando la stretta, guardando i suoi occhi ormai sporgenti, la lingua già rigonfia. — Vuoi spazzare via gli altri e regnare da solo? Non durerai nemmeno un altro minuto!
Due mani forti mi presero per le braccia e mi tirarono indietro. Lottai per liberarmene, inutilmente, e poi mi accorsi di chi mi stava trattenendo.
— Basta così, Orion! — disse Zeus bruscamente.
Lo fissai, con la furia omicida che mi pulsava ancora nelle vene. Altri quattro Creatori mi tenevano saldamente. Altri ancora, uomini e donne, stavano intorno ad Apollo e a me, in una varietà di tuniche, vesti luccicanti e uniformi metalliche.
Zeus aspettò che la smettessi di agitarmi. Il Radioso giaceva in preda a conati di vomito e colpi di tosse sul terreno scuro, appoggiato su un gomito, toccandosi la gola. Vidi le impronte rosse delle mie dita e sentii solo disappunto perché non mi era stato permesso di terminare il lavoro.
— Ti abbiamo chiesto di trovarcelo, non di ucciderlo — disse Zeus, cercando di mascherare con il tono severo un sorrisetto di soddisfazione.
— L’ho trovato da solo — risposi. — E quando ha rifiutato di resuscitare At… Anya, ho saputo che meritava la morte.
Scuotendo la testa, Zeus disse: — Nessuno merita di morire per mano di un altro, Orion. Questa è la menzogna estrema. Non ti rendi conto che è pazzo? La sua mente è malata.
Una nuova ondata di furia si sollevò dentro di me. — E voi lo aiuterete? Proverete a curarlo?
— Lo cureremo — rispose Ermes dal viso sottile. — Con il tempo.
Si inginocchiò vicino ad Apollo e lo toccò con una corta verga di metallo che aveva preso dalla tasca della tunica. I lividi sulla gola del Radioso impallidirono e sparirono. Il suo respiro tornò normale.
— Le riparazioni fisiche sono le più facili — disse Ermes alzandosi in piedi. — Rimettere a posto la mente richiederà più tempo, ma verrà fatto.
— Voleva uccidervi, uccidervi tutti — dissi.
Era rispose: — Questo significa che noi dovremmo uccidere lui? Solo una creatura può pensare in questo modo, Orion.
— Ha ucciso Anya!
— No — disse il Radioso, alzandosi lentamente in piedi. — L’hai uccisa tu, Orion. È diventata mortale per amor tuo, ed è morta.
— Io l’amavo!
— Anch’io l’amavo! — gridò lui.
— E lei ha scelto te! Ha meritato la morte!
Lottai di nuovo contro gli uomini che mi tenevano, ma erano troppi e troppo forti. Ma anche così Apollo indietreggiò, lontano da me, e Zeus si mise tra noi.
— Orion! — disse brusco. — Lottare contro di noi non ha senso.
— Ha detto che poteva riportarla in vita.
— Era la sua follia a parlare — rispose Zeus.
— No! — lo contraddisse il Radioso. — Io posso riportarla alla vita! Ma non per lui! Non perché si dia a questa… a questa creatura!
— Ridammela! — urlai, divincolandomi inutilmente nella stretta dei quattro che mi tenevano.
Era mi si avvicinò, senza il suo solito sorriso derisorio. Il suo viso era serio, quasi comprensivo. — Orion, ci hai servito bene e siamo contenti di te. Ma devi accettare ciò che deve essere accettato. Devi far uscire dalla tua mente tutti i pensieri che riguardano Anya.
Sollevò la mano e mi toccò la guancia con la punta delle dita. Sentii tutta la furia e la tensione scorrere via da me. Il mio corpo si rilassò, la mia rabbia si placò.
Dissi a Era: — Far uscire dalla mia mente tutti i pensieri che la riguardano? Questo sarebbe come chiedermi di non respirare.
— Sento la tua pena — disse lei dolcemente. — Ma quello che è fatto non può essere disfatto.
— Sì, invece! — ringhiò il Radioso. Poi rise e mi lanciò uno sguardo sprezzante. Zeus fece un cenno del capo a Ermes, che prese Apollo per le spalle. Quello corpulento, con i capelli rossi, che io chiamavo Ares, si avvicinò anche lui al Radioso, pronto a fermarlo, se necessario.
Ma lui continuò — Io posso farlo — disse con occhi selvaggi. — Posso riportarla indietro. Ma non per te, Orion. Non perché possa abbracciare una creatura, un verme che io ho fatto per servirmene!
— Riportatelo in città — disse Zeus. — La sua pazzia è peggiore di quanto pensassi.
— Non sono io il folle — sbraitò Apollo. — Io sono il solo sano di mente, qui! Tutti voi altri siete pazzi! Stupidi, ciechi pazzi! Pensate di poter controllare il continuum e di salvarvi! Follia! Nient’altro che follia! Solo io posso salvarvi. Solo io so come tenere il vostro prezioso collo fuori dal cappio. E tu, Orion! Non vedrai mai più Anya. Mai più!
Ermes cominciò a trascinarlo via, seguito dal muscoloso Ares. Zeus e gli altri cominciarono a svanire, scintillando nella luce dei due soli come un miraggio nel deserto. Io rimasi solo su quello strano mondo e li guardai dissolversi lentamente.
Proprio un attimo prima, il Radioso si voltò e gridò ancora: — Guardati, Orion! Te ne stai lì come un misero pupazzo. Nessuno la riporterà indietro! Solo noi due potremmo, e tu non sai come!
Rise forte mentre sbiadiva e spariva con gli altri, lasciandomi solo su un mondo estraneo e sconosciuto.
Ci volle un po’ prima che il significato delle parole del Radioso mi colpisse in pieno.
«Nessuno la riporterà indietro! Solo noi due potremmo, ma tu non sai come!»
Potevo riportare Anya in vita. Era questo che aveva detto. Era solo una beffa, una perfida bugia perché continuassi a illudermi? Scossi la testa. “È pazzo” mi dissi. “Non puoi credere a niente di quello che dice.”
Eppure l’aveva detto, e io non riuscivo a togliermelo dalla testa.
Diedi uno sguardo intorno al paesaggio sconosciuto e mi resi conto che, se avevo una qualche possibilità di resuscitare Anya, potevo farlo solo dalla Terra. Chiudendo gli occhi, feci in modo di tornare. Credetti di sentire la folle risata del Radioso risuonare in lontananza. Poi mi sembrò che Zeus mi parlasse: — Sì, puoi tornare, Orion. Ci hai servito bene.
Avvertii un istante di freddo tagliente come la lama di una spada, e quando riaprii gli occhi mi ritrovai di nuovo nella grande piramide, nella camera del re.
Madido di sudore, mi appoggiai vacillando contro il sarcofago intagliato d’oro. Ero completamente esausto, corpo e mente. In qualche modo mi trascinai lungo la scalinata di pietra, giù fino alla camera sotterranea in cui Hetepamon aspettava.
Il grasso sacerdote era inginocchiato davanti all’altare di Amon. Aveva acceso tutte le lampade del piccolo sacrario. Un pungente odore di incenso riempiva la stanza, mentre lui mormorava in una lingua che non era l’egiziano corrente.
— … per la salvezza dello straniero Orion, o Amon, io ti prego. Potentissimo tra gli dèi, proteggi questo straniero che rassomiglia al tuo amato Osiride…
— Sono tornato — dissi, appoggiandomi stancamente contro il muro di pietra.
Hetepamon si voltò così rapidamente che perse l’equilibrio e cadde a quattro zampe. Faticosamente, riuscì a mettere in piedi la sua massiccia mole.
— Così in fretta? Sei stato via a malapena un’ora.
Sorrisi. — Gli dèi possono far scorrere il tempo rapidamente, quando vogliono.
— Hai portato a termine la tua missione? — chiese curioso. — Hai compiuto il tuo destino?
— Questa parte — risposi.
— Allora possiamo andarcene?
— Sì, possiamo andare, adesso. — In piedi davanti all’altare, guardai la statua di Amon. Per la prima volta notai quanto somigliasse al Creatore che io chiamavo Zeus, senza quella barbetta ordinata.
Nei giorni seguenti risalimmo il Nilo, Hetepamon ed io, diretti alla capitale. Il principe Aramset mi aspettava lì. C’erano anche Menelao ed Elena; si sarebbero riuniti prima del mio ritorno. “Almeno” pensai, “lei vivrà nelle comodità dell’Egitto. Forse riuscirà a insegnare a suo marito qualcuna delle arti della civiltà e renderà la propria vita più sopportabile.”
Anche Nekoptah ci aspettava. Non avevo nessuna idea di come Aramset si sarebbe occupato di lui. Il primo ministro non avrebbe mai ceduto il potere volontariamente, e il principe sembrava terribilmente giovane per quei giochi di politica di corte. Ero felice che Lukka comandasse la sua guardia personale.
Ma il pensiero di loro ronzava appena da qualche parte della mia mente. I miei occhi videro città e villaggi scivolare via, monumenti torreggianti lungo le rive, fattorie e frutteti coltivati da schiavi nudi. I miei veri pensieri erano rivolti ad Anya e alle parole di sfida del Radioso.
Avevo il potere di riportarla alla vita? Se sì, come avrei potuto riuscirci se nessuno degli altri Creatori sapeva come?
O lo sapevano? Sentii un’ira glaciale afferrarmi nella sua morsa spietata. Mi stavano dicendo la verità, Zeus, ed Era e gli altri? O Anya era la vittima di una lotta di potere tra di loro, quella che aveva perso nella battaglia tra i Creatori? Dicevano di non uccidersi l’un l’altro, ma il Radioso aveva causato la morte di Anya, e forse nessuno degli altri aveva voglia di aiutarmi a riportarla indietro.
Ogni notte, tentavo di mettermi in contatto con i Creatori, di raggiungere la città sotto la cupola d’oro nel lontano futuro. Ma loro mi rifiutarono. Stavo sdraiato nella mia stretta cuccetta a bordo della nave e non vedevo nient’altro che i riflessi del fiume sul basso soffitto di legno, non sentivo nulla tranne il ronzio degli insetti e l’eco lontana e passeggera di una canzone dalla spiaggia.
A Wast, fummo accolti in modo molto diverso dal giorno in cui Elena, Nefertu ed io eravamo sbarcati la prima volta. Ci aspettava il principe in persona, con una guardia d’onore e un gruppo di soldati dall’armatura luccicante, allineati sul molo di pietra da un’estremità all’altra. Migliaia di persone si accalcavano sul lungofiume, attratte dalla vista del principe Aramset, giovane e sgargiante nel suo gonnellino bordato di porpora e nel pettorale d’oro.
Vidi Lukka e i suoi uomini, con l’armatura egiziana, adesso, fieramente ritti in prima fila, vicinissimi al principe.
E non c’era segno di Nekoptah né di qualunque altro sacerdote del suo tempio.
Ci venne dato un benvenuto davvero regale. Aramset venne direttamente verso di me e mi salutò posandomi entrambe le mani sulle spalle, suscitando una tumultuosa ovazione della folla.
— Sua altezza Elena? — gli chiesi, superando il rumore delle acclamazioni.
Sorridendo mi gridò nell’orecchio: — Si è riunita felicemente a suo marito, ed ora gli permette di corteggiarla alla maniera egiziana; con doni e fiori e serenate di menestrelli la sera.
— Non dormono insieme?
— Non ancora. — Rise. — Gli sta insegnando a essere civile, e devo dire che lui sembra ansioso di imparare; almeno così può sperare di portarla a letto.
Dovetti sorridere tra me. A suo modo, Elena avrebbe educato Menelao. Però, sentii una punta di rincrescimento maggiore di quanto mi fossi aspettato.
Aramset salutò Hetepamon con regale solennità, poi ci accompagnò ai nostri carri tirati da quattro magnifici stalloni bianchi. La nostra processione risalì le strade della capitale con un’andatura lenta e regolare; il principe voleva dare alla folla tempo in abbondanza per ammirarlo. “Può essere giovane” pensai “ma a quanto pare ha già capito un paio di cose sulla politica. Deve aver passato i suoi pochi anni ad osservare da vicino i meccanismi del potere.” Ero impressionato.
Raggiunto il palazzo, vidi il vecchio Nefertu in cima alla scalinata che portava all’entrata principale. Ero felice di vederlo vivo e vegeto, scampato alle macchinazioni di Nekoptah.
Scendemmo dai carri e Aramset mi si avvicinò. — Devo far sapere della presenza del gran sacerdote di Amon; è un importante personaggio, non solo un amico, Orion.
— Capisco.
— Fra tre giorni ci sarà una solenne cerimonia, per sancire la nuova alleanza tra gli Achei e il regno delle Due Terre. Presiederà mio padre, e Nekoptah sarà al suo fianco.
— Cosa sta succedendo…
— Dopo — disse il principe, con il viso raggiante. — Ho molto da raccontarti, ma dovrai aspettare più tardi.
Quindi si avvicinò a Hetepamon mentre io salivo con compostezza le scale per salutare Nefertu, rendendomi conto, mentre mi dirigevo verso di lui, che era la prospettiva di avere notizie di Elena che mi eccitava, in realtà.
Per tutto il pomeriggio e buona parte della serata Nefertu mi fece un accurato resoconto su tutto ciò che era accaduto durante la mia assenza. La notizia del nostro pacifico successo nel Paese del delta era stata naturalmente trasmessa a Nekoptah con gli specchi solari, quasi immediatamente. All’inizio, lui sembrava furioso, ma poi aveva dovuto fare buon viso a cattiva sorte. Non aveva fatto nessuna avance nei confronti di Elena, conscio che il suo ostaggio era ormai diventato il prezzo dell’alleanza con Menelao.
Mentre il sole gettava lunghe ombre sulla città, ci ritirammo nel mio appartamento, io su un soffice divano di seta dipinta, Nefertu su uno scanno di legno da cui poteva guardare la terrazza e i tetti al di là.
— Nekoptah è rimasto stranamente silenzioso e inattivo — disse il burocrate dai capelli argentei. — Per la maggior parte del tempo è rimasto chiuso nei suoi alloggi.
— Non cederà il potere senza combattere — dissi.
— Credo che lo spuntare del principe Aramset come una forza di cui tener conto l’abbia colto di sorpresa e abbia scombinato i suoi piani — disse Nefertu. — E dobbiamo ringraziare te per questo, Orion.
— Il che significa che Nekoptah ne dà la colpa a me.
Lui rise; un risolino soffocato, in realtà, fu tutto quello che si concesse.
— E sua altezza Elena? — chiesi.
Il viso di Nefertu assunse quello sguardo vuoto e privo di espressione del burocrate di professione che non desidera rivelare nulla. — Sta bene — rispose.
— Vuole vedermi?
Allontanando leggermente gli occhi da me, rispose: — Non l’ha detto.
— Vorresti dirle che io desidero vederla?
Sembrava addolorato. — Orion, sta permettendo a suo marito di ricominciare a farle la corte. Il marito che tu le hai mandato.
Mi alzai dal divano e andai verso la terrazza. Sapevo che aveva ragione. Però, volevo vedere Elena un’ultima volta.
— Portale il mio messaggio — lo pregai. — Dille che partirò per sempre, quando la cerimonia sarà finita. Mi piacerebbe vederla per un’ultima volta.
Alzandosi lentamente dalla sedia, il vecchio disse con voce piatta: — Farò come chiedi.
Se ne andò, e io rimasi sulla terrazza a guardare la sera che passava dal rosso del tramonto al viola scuro e infine al nero della notte. Le lampade brillavano per tutta la città, in gara con le stelle che riempivano il cielo.
Un servo del principe arrivò con dei pacchi e un invito a cena. I pacchi contenevano abiti nuovi: non una tunica di stile egiziano o una veste di lino bianco, ma un gonnellino di pelle e un corsetto simili a quelli che avevo indossato per tanti mesi. Risi tra me. Quel completo era tagliato splendidamente e lavorato in argento. Includeva un mantello blu notte e stivali morbidi come gli occhi di una cerva.
Aramset stava diventando un vero diplomatico. Mi chiesi quanto i miei vecchi abiti macchiati puzzassero per lui. Alcuni servi risposero al mio batter di mani e mi prepararono un bagno. Infine, lavato, profumato, con il gonnellino nuovo, il corsetto, il mantello e il mio vecchio pugnale ancora legato alla coscia, fui scortato agli alloggi di Aramset.
Fu un cena tranquilla, solo noi due, anche se vidi quattro degli uomini di Lukka di guardia proprio fuori della porta. Alcuni servi portarono vassoi di cibo, e il principe fece assaggiare tutto.
— Temi il veleno? — gli chiesi.
Lui si strinse nelle spalle. — Ho circondato di guardie il tempio di Ptah e ho dato ordine di tenervi dentro il Sommo Sacerdote. È lì che rimugina e trama congiure. Ho suggerito a mio padre che Nekoptah e suo fratello officino alla prossima cerimonia, tutti e due insieme.
— Dovrebbe essere interessante — dissi.
— Il popolo vedrà che i sacerdoti dei due dèi si somigliano come due gocce d’acqua — sorrise il giovane. — Potrebbe tornare utile per sventare qualunque piano di Nekoptah per mettere Ptah al di sopra degli altri dèi.
Staccai un morso di melone e pensai tra me che Aramset si stava occupando della politica di corte piuttosto bene.
— Tuo padre sta… bene? — chiesi.
Il viso del principe si rabbuiò. — Mio padre non starà mai bene, Orion. La sua malattia è troppo avanzata, grazie a Nekoptah. Il meglio che posso fare è farlo sentire a suo agio e permettere al popolo di continuare a credere nel suo re.
Aramset sembrava avere il totale controllo della situazione. Non c’era più bisogno di me, lì. Entro tre giorni avrei potuto riprendere la mia ricerca di Anya, ovunque mi avesse portato. “Eppure” pensai, “sarebbe bello vedere Elena ancora una volta.”
Un servo irruppe trafelato nella stanza e cadde in ginocchio, scivolando sul pavimento lucido e andando quasi a sbattere contro il principe.
— Vostra Altezza Reale! Il Sommo Sacerdote di Ptah è morto! Di sua stessa mano!
Aramset balzò in piedi urtando la sedia dietro di sé. — Di sua mano? Il codardo!
— Chi lo dirà al re? — chiese il servo.
— Nessuno — ringhiò Aramset. — Prima vedrò questo suicidio — e si diresse alla porta.
Io andai con lui e feci cenno ai soldati ittiti di accompagnarci. Ne mandai uno da Lukka, con l’ordine di seguirci insieme a tutti gli altri.
Attraversammo il cortile illuminato dalle stelle ed entrammo nel tempio di Ptah. Percorremmo le stesse scale e lo stesso corridoio, verso lo stesso ufficio dove l’arcigno Nekoptah mi aveva ricevuto per la prima volta.
Giaceva sulla schiena, un enorme mucchio di carne con uno squarcio rosso scuro sui rotoli di grasso della gola. Nella luce tremolante della lampada vedemmo il suo viso truccato, con gli occhi che fissavano, vuoti, le assi di legno scuro del soffitto. Il medaglione d’oro gli era scivolato sulla spalla, e il sangue vi si stava già coagulando. Gli anelli sulle sue dita tozze scintillavano anche alla luce traballante della lampada.
Li fissai.
— Questo non è Nekoptah — dissi.
— Cosa?
— Guarda — indicai. — Gli mancano tre anelli. Le dita di Nekoptah sono così grasse che nessuno avrebbe potuto sfilarglieli.
— Per gli dèi! — mormorò Aramset. — Allora è suo fratello, truccato per sembrare lui!
— Nekoptah l’ha ucciso, e adesso può andare dove vuole senza essere disturbato.
— Mio padre!
Il principe saettò verso la porta. Le guardie, confuse, mi lanciarono uno sguardo interrogativo. Io feci loro cenno di seguire Aramset. Il ragazzo aveva ragione: il suo primo dovere era proteggere suo padre. Nekoptah poteva andarsene in giro per tutto il palazzo, nelle vesti di suo fratello. Dubitavo che intendesse far del male al re, ma il principe faceva bene ad andare da lui.
Mi inginocchiai vicino al cadavere del povero Hetepamon per qualche minuto, e improvvisamente compresi quale sarebbe stata la prossima mossa di Nekoptah.
Scattai in piedi e mi precipitai verso gli alloggi di Elena.
Avevo capito i piani omicidi del Sommo Sacerdote. Il suo scopo era distruggere l’alleanza tra gli Achei e gli Egiziani, dimostrando al re che il principe Aramset aveva portato la minaccia barbara giusto nel cuore della capitale. “Chissà” pensai attraversando di corsa il palazzo verso l’appartamento di Elena, “forse convincerà Menelao a uccidere il principe.”
Sapevo che se poteva controllare Elena, poteva controllare anche Menelao. Anche se non avesse ucciso il principe, se solo fosse riuscito a far esplodere Menelao, la nuova influenza del principe Aramset su suo padre sarebbe stata finita. Nekoptah sarebbe tornato al potere con un borioso: “Ve l’avevo detto”.
Oltrepassai guardie stupite, guidato dal ricordo della pianta del palazzo. Ma la porta di Elena non aveva guardie. Anzi, era leggermente aperta. La spalancai.
Nefertu giaceva sul pavimento, con un pugnale ingioiellato infilato nella schiena.
Mi avvicinai in fretta a lui. Era ancora vivo, ma solo per poco.
— Pensavo… il Sommo Sacerdote di Amon…
I suoi occhi erano vitrei. Sangue rosso brillante gli usciva dalla bocca.
— Elena — chiesi. — Dove ha portato Elena?
— Agli inferi… per incontrare Osiride… — La voce di Nefertu era un debolissimo sospiro. Potevo sentire la sua sofferenza. Cercò di respirare, ma i suoi polmoni erano pieni di sangue e di agonia.
Non avevo il tempo di essere gentile. Mi stava morendo tra le braccia.
— Dove ha portato Elena, Nekoptah?
— Osiride… Osiride…
Scossi il povero vecchio morente.
— Guardami! — pretesi. — Io sono Osiride.
I suoi occhi si spalancarono. Debolmente, cercò di raggiungere il mio viso con la mano senza forze. — Mio signore Osiride…
— Dimmi dove il falso sacerdote Nekoptah ha portato la donna straniera — gli chiesi.
— Al tuo tempio… ad Abtu…
Mi bastava. Posai la testa grigia di Nefertu sulle mattonelle decorate del pavimento. — Ti sei comportato bene, mortale. Riposa in pace, adesso.
Lui sorrise, sospirò, e smise di respirare per sempre.
Il tempio di Osiride ad Abtu. Andai dal principe Aramset e gli dissi cos’era successo.
— Non posso lasciare il palazzo, Orion — disse. — Le spie e gli assassini di Nekoptah possono essere dappertutto. Devo rimanere qui con mio padre.
Fui d’accordo. — Dimmi solo dov’è Abtu e dammi i mezzi per arrivarci.
Abtu era a due giorni di carro a nord della capitale. — Posso farti avere cavalli freschi ogni dieci chilometri — disse il principe. Poi mi offrì Lukka e i suoi uomini.
— No, sono la tua guardia personale, adesso. Non privarti della loro fedeltà. Un auriga e cavalli freschi sono tutto quello che mi serve.
— Nekoptah non sarà solo ad Abtu — mi avvertì Aramset.
— Esatto — dissi. — Ci sarò anch’io.
Prima del sorgere del sole, ero su un carro leggero e solido, vicino a un Egiziano color nocciola che frustava i quattro destrieri lungo la strada che portava a nord.
Non avevo altro che gli abiti che indossavo e una spada di ferro, che Lukka mi aveva dato quando ci eravamo salutati. E il pugnale che era stato mio compagno per tanto tempo e che aveva lasciato la sua impronta sulla mia coscia destra.
Corremmo furiosamente sulla strada, sollevando una nube di polvere dietro di noi, con il mio auriga che grugniva e sbuffava per lo sforzo di tenere sotto controllo i quattro cavalli e i loro zoccoli che rimbombavano sulla terra battuta.
Ci fermammo alle stazioni di posta il tempo sufficiente a sostituire i cavalli e a prendere un po’ di cibo e un sorso di vino.
All’alba del secondo giorno, l’auriga era esausto. Riusciva a malapena a calare dal carro il corpo irrigidito e dolorante, quando ci fermammo a metà strada. Ce lo lasciai. Lui protestò. Mi pregò di farlo continuare, dicendo che il principe lo avrebbe fatto frustare a morte se mi avesse abbandonato. Ma non aveva senso farlo proseguire.
Presi le redini nelle mie mani. L’avevo osservato abbastanza per sapere come occuparmi dei cavalli. La fatica urlava nel mio corpo, ma io sapevo come interpretare i suoi segnali e pompai più ossigeno, ricorsi all’iperventilazione, sempre guidando furiosamente gli animali freschi nel mattino che s’illuminava.
Avevo il fiume sulla sinistra, e superai molte imbarcazioni che si lasciavano trasportare dalla corrente del Nilo. Non abbastanza in fretta per me. Feci schioccare la frusta e i cavalli si sforzarono ulteriormente nelle loro armature.
Ad un curva della strada, mi voltai e diedi uno sguardo dietro di me. Un altro ciuffo di polvere si alzava alle mie spalle, lontano, all’orizzonte. Qualcuno mi stava seguendo alla mia stessa folle velocità. Truppe di rinforzo inviatemi dal re? O Menelao deciso a riprendersi sua moglie? In entrambi i casi, sarebbe stato un aiuto. Poi mi colpì un altro pensiero: potevano essere seguaci di Nekoptah, decisi ad aiutare lui?
Mentre il sole tramontava, passai a velocità folle attraverso un villaggio di piccole case spaventando adulti e bambini, e costeggiai circa un chilometro di giardini circondati da file di alberi e di laghetti graziosamente disposti. Il tempio di Osiride era là in mezzo, in cima a una lunga rampa che portava al fiume. Al molo era ormeggiata una sola barca.
Una mezza dozzina di soldati in armatura di bronzo montavano la guardia davanti all’entrata principale del tempio, quando feci fermare i cavalli coperti di schiuma e saltai giù dal carro.
— Chi sei e cosa stai facendo qui? — domandò il loro capo.
Ero disposto anche a combattere, se fosse stato necessario, ma avrei preferito evitarlo.
— In ginocchio, mortali! — dissi con voce più profonda possibile. — Io sono Osiride, e questo è il mio tempio.
Loro mi guardarono a bocca aperta, poi scoppiarono a ridere. Mi resi conto di essere letteralmente coperto della polvere della strada, e che difficilmente potevo sembrare la gloriosa e radiosa figura di un dio.
— Tu sei uno degli stranieri che il mio signore Nekoptah ci ha detto che avrebbero tentato di entrare nel tempio — disse il capo delle guardie. Sguainò la spada e gli altri si mossero per circondarmi. — Solo per la tua bestemmia, meriti la morte.
Trassi un profondo respiro. Erano sei, piccoli, muscolosi Egiziani con la pelle di un marrone profondo e gli occhi ancora più scuri, il petto protetto dalla corazza, elmi conici di bronzo sulla testa e spade in mano.
— Osiride muore ogni anno — dissi — e ogni volta il sole tramonta. Sono abituato alla morte. Ma non verrò ucciso da mani mortali.
Prima che potesse reagire, gli strappai la spada e la lanciai verso il fiume. La lama di bronzo catturò gli ultimi raggi del sole. I soldati la seguirono con gli occhi mentre descriveva la sua curva, in alto, sopra di loro. Gettai a terra il loro capo e affrontai l’uomo successivo. Cadde con un colpo alla testa. Quando il loro capo riuscì a sollevarsi sulle mani e le ginocchia, io avevo già sopraffatto tutto il suo manipolo.
Puntai un dito sul comandante, ricordando i toni imperiosi che il Radioso aveva usato spesso con me. — Resta in ginocchio, mortale, quando guardi un dio! E sii felice che vi abbia risparmiato la vita.
Tutti e sei affondarono la testa nella polvere, tremando visibilmente.
— Perdonaci, o potente Osiride…
— Resta fedelmente di guardia e sarai perdonato — dichiarai. — Ricorda che sfidare l’ira degli dèi significa andare incontro a una morte dolorosa.
Percorsi il tempio a grandi passi, chiedendomi se un dio avesse mai corso. Non davanti ai suoi fedeli, pensai. Non male per un uomo mandato in quel tempo come strumento senza mente, un servo senza ricordi. Mi ero conquistato il rango di creatore di re e di simulatore della divinità.
Ora, ero nuovamente votato alla vendetta, questa volta non per me stesso ma in nome di un grasso sacerdote innocente e di un vecchio, fedele burocrate, entrambi assassinati solo per essersi trovati tra Nekoptah e il potere. Sfoderai la spada e cominciai la mia caccia personale al Sommo Sacerdote di Ptah.
Percorsi cortili illuminati dalla luna appena sorta e risonanti corridoi, fiancheggiati da colonne e statue degli dèi. Mi imbattei in una fila di piccole stanze, santuari di varie divinità. Nekoptah non era nel sacrario di Ptah, dove guardai per prima cosa. Poi vidi che quello di Osiride aveva una piccola porta sul retro. La raggiunsi e la spalancai.
Era lì tutti e tre, in piedi vicino all’altare di Osiride, illuminati dalle lampade sul muro: Nekoptah, Elena e Menelao.
Lo spodestato re di Sparta era in armatura di bronzo, e teneva nella destra una pesante lancia; Elena, in una sfavillante veste blu-argento, si teneva leggermente dietro di lui.
— Te l’avevo detto! — gridò Nekoptah. — Ti avevo detto che sarebbe venuto a cercarla!
Il viso del sacerdote era senza trucco, e la sua rassomiglianza con Hetepamon era straordinaria. Però, mentre l’espressione del fratello era sorridente e amabile, quella di Nekoptah era collerica e viziosa. Notai che non portava gioielli alle mani tranne che su tre dita, dove gli anelli erano troppo affondati nella carne per poter essere tolti.
— Sì — dissi, più a Menelao che a Nekoptah. — Cerco lei. Per restituirla a suo marito.
Gli occhi di Elena scintillarono, ma lei non disse niente.
— Me l’hai portata via — ringhiò Menelao.
— Ha dormito con lei — s’intromise Nekoptah. — Hanno fatto di te un cornuto.
Io dissi: — Sei stato tu ad allontanarla da te, Menelao, con le tue maniere brutali. Vuole essere tua moglie, adesso, ma solo se la tratterai con amore e rispetto.
— Hai qualcosa da pretendere da me? — disse lui brusco, stringendo più forte la lancia.
Io rinfoderai la spada. Gentilmente risposi: — Menelao, ci siamo già affrontati in combattimento…
— Gli dèi non ti favoriranno sempre, Orion.
Diedi uno sguardo alle intricate incisioni sulle pareti del tempio. Naturalmente, c’era Osiride, e anche Aset, la mia Anya, mi accorsi, e tutte le altre divinità del pantheon egiziano.
— Prendi atto della somiglianza, Menelao. — Indicai l’effigie di Osiride. — E anche tu, falso sacerdote di Ptah. Guarda chi ti trovi davvero davanti!
Guardarono tutti e tre. Vidi gli occhi di Menelao spalancarsi, la sua bocca aprirsi.
— Io sono Osiride — dissi, e in quel momento sentivo di avere assolutamente ragione. — Gli dèi mi favoriranno sempre, perché sono uno di loro.
Elena era a bocca aperta, ma Menelao aveva lo sguardo stralunato. Solo Nekoptah lesse chiaramente nelle mie parole.
— Non è vero! — gridò. — È un trucco! Non ci sono dèi e non ci saranno mai. È tutto una menzogna!
Io sorrisi al suo viso contorto e furibondo. Dunque nel più profondo del suo cuore Nekoptah non credeva in niente. Era un cinico della peggior specie.
— Elena — dissi — Menelao è tuo marito e, indipendentemente da quanto ci sia stato fra noi, è vicino a lui che devi restare, adesso.
Annuendo, lei rispose: — Capisco, Orion… o dovrei chiamarti Signore Osiride?
Lo disse con un leggero sorriso che mi indusse a domandarmi fino a che punto mi credesse. Non aveva importanza; capiva cosa stavo cercando di fare e l’accettava. Tutti e due sapevamo che non ci saremmo rivisti più.
Ignorando la sua falsa domanda, mi rivolsi a suo marito. — E tu, Menelao. Hai fatto cadere la mura di Troia e hai attraversato mezzo mondo in cerca di questa donna; è tua, adesso, grazie al valore delle tue armi. Amala e proteggila. Dimentica il passato.
Menelao si drizzò in tutta la sua statura e rivolse a Elena uno sguardo da ragazzo innamorato.
— Pazzi! — ringhiò Nekoptah. — Vi farò uccidere tutti!
— I tuoi soldati non leveranno mai le spade contro un dio, grasso prete — gli dissi. — Che tu mi creda o meno, non lo faranno mai.
Sapeva che intendevo ucciderlo. I suoi minuscoli occhi da maiale guizzavano da una parte all’altra mentre mi avvicinavo.
Improvvisamente, Nekoptah agganciò un braccio al collo di Elena. Un piccolo pugnale gli spuntò miracolosamente nell’altra mano, e sfiorò il viso di lei.
— Morirà se non fate come dico — strillò.
Era troppo lontano perché potessi raggiungerlo prima che le tagliasse la gola come aveva fatto con il suo gemello. Menelao era impietrito vicino a loro, la lancia stretta nella mano destra.
— Uccidilo! — gli ordinò Nekoptah. — Infila la tua lancia nel suo cuore di cane.
— Non posso uccidere un dio.
— Non è un dio più di te o di me. Uccidilo, o lei morirà.
Menelao si girò verso di me e sollevò la lancia. Io rimasi immobile. Nei suoi occhi vidi confusione e paura, ma non odio, e nemmeno ira. Il viso di Nekoptah era una mappa confusa di rabbia, i suoi occhi bruciavano. Elena fissò suo marito, poi guardò me.
— Fai quello che devi, Menelao — dissi. — Salva tua moglie. Io sono morto molte volte. Una volta in più non mi spaventa.
Il re acheo sollevò la lunga lancia sopra la testa, la fece roteare e la conficcò nel collo lardoso del sacerdote. Nekoptah emise un rantolo soffocato, sì irrigidì e il coltello gli cadde dalle dita intorpidite. Lasciò andare Elena mentre cercava di afferrare la lancia con l’altra mano.
Con il viso contorto in un cipiglio feroce, Menelao sfilò la lancia dal collo di Nekoptah che rotolò sul pavimento di pietra, mentre il sangue sprizzava sul suo corpo enorme.
Buttando la spada per terra, Menelao corse da Elena. Lei gli si gettò tra le braccia, felice, e posò la testa sul suo petto.
— Mi hai salvato — disse. — Mi hai salvato da quell’orribile mostro.
Menelao sorrise. Nella luce tremolante delle lampade, mi sembrò che il suo viso bruno arrossisse leggermente.
— Hai agito bene — gli dissi. — Ci voleva coraggio.
Si passò un dito nella barba scura, un gesto che lo fece apparire quasi timido. — Non sono estraneo alla lotta, mio signore. Ho visto molte volte cosa succede quando una lancia colpisce la carne di un uomo. Il corpo si congela per lo shock.
— Hai liberato questo regno dal suo più grande pericolo. Prendi tua moglie e ritorna alla capitale. Servi bene il principe Aramset: il peso del regno è tutto sulle sue spalle, adesso. E un giorno, sarà re di fatto, oltre che di diritto.
Con il braccio attorno alle spalle di Elena, Menelao si diresse alla porta. Lei si voltò per salutarmi un’ultima volta.
— Orion, dietro di te!
Io mi voltai e vidi Nekoptah in piedi, sanguinante, barcollante, che teneva la lancia di Menelao con entrambe le mani. Pur vacillando diresse la punta insanguinata fino al mio petto, con tutto il suo peso.
— Non… un dio — ansimò. Poi cadde a faccia in giù, finalmente morto.
Il dolore improvviso invase il mio cervello degli sgraditi ricordi di altre morti, di altre agonie. Rimasi pietrificato, con la lancia che mi usciva dal costato e ogni nervo del mio corpo che gridava di dolore. Sentii il cuore che si sforzava di pompare sangue, nonostante la lacerazione del bronzo affilato.
Caddi in ginocchio, e vidi il mio stesso sangue gocciolare sul pavimento. Elena e Menelao se ne stavano immobili, fissandomi orripilati.
— Andate — dissi loro. Voleva essere un ordine. Venne fuori come un sussurro.
Elena mosse un passo verso di me.
— Andate! — dissi con più vigore, ma lo sforzo mi riempì di onde vertiginose. — Lasciatemi! Fate come vi dico!
Menelao l’attirò di nuovo a sé, e insieme corsero fuori nella notte, verso la capitale e una vita che sperai serena, forse anche felice.
Io mi sedetti pesantemente, senza più forze, chinandomi in avanti per quanto me lo consentiva la lancia, bloccata dall’altra parte dal cadavere obeso di Nekoptah.
La fine definitiva, pensai.
— Se non posso essere con te in vita, Anya, allora ti raggiungerò nella morte — dissi a voce alta.
Caddi sulla schiena mentre le ombre nere dell’incoscienza turbinavano e si riunivano intorno a me.
Giacevo sulla schiena, in attesa della morte finale, sapendo che né il Radioso né nessuno degli altri Creatori mi avrebbero resuscitato. Né avrebbero resuscitato Anya. Sapevo che erano felici di disfarsi di entrambi.
Un’ondata di rabbia superò il dolore che pulsava nel mio corpo. Stavo accettando la loro vittoria su di me, su di lei, la loro vittoria su di noi. Stavano teneramente curando il Radioso per riportarlo alla sanità mentale, in modo da continuare a dominare la razza umana e il suo destino finale.
Ricordi di altre vite, di altre morti, mi sommersero. Cominciai a capire cosa mi avevano fatto e, soprattutto, come l’avevano fatto.
Con l’ultimo rimasuglio di energia sollevai lentamente le braccia e afferrai la lancia affondata nel mio petto. Immerso in un sudore freddo, chiusi le cellule sensoriali che urlavano di dolore e ordinai alla mia carne d’ignorare l’agonia che mi bruciava dentro. Gli uncini insanguinati strapparono grossi lembi di me, ma non aveva importanza. Li strappai via e lasciai l’asta cadere con un tonfo sul pavimento.
Il mondo girava vorticosamente, adesso. I muri del tempio mandavano bagliori, con gli affreschi e le incisioni che danzavano e ondeggiavano come creature vive, in una danza complicata e lugubre.
Mi tirai su appoggiandomi ai gomiti e guardai le pareti. Vidi il mio ritratto e quello di Anya, l’uno di fronte all’altro, che traballavano, si muovevano e sparivano alla mia vista.
“Il segreto del tempo è che scorre come un oceano, in enormi correnti e maree. Gli esseri umani vedono il tempo come un fiume, come il Nilo, che si muove sempre in modo lineare, da qui a lì.” Ma nelle molte vite che avevo vissuto, io avevo imparato come navigare su quel mare.
Ci voleva energia per muoversi attraverso il tempo. Ma l’universo era pieno di energia, immerso com’era nella radiante abbondanza d’innumerevoli stelle. I Creatori sapevano come utilizzarla, e il ricordo delle loro azioni insegnò anche a me come fare.
Le pareti del tempio di Osiride si fecero trasparenti ai miei occhi, ma non scomparvero. Le incisioni divennero confuse. Le immagini danzanti, baluginanti, si dissolsero lentamente, finché i muri restarono lisci e nudi, come appena costruiti.
Mi alzai in piedi. La mia ferita non c’era più. Esisteva in un altro tempo, a migliaia d’anni di distanza.
Dalla porta aperta non vidi il cortile con il suo colonnato ma un giardino rigoglioso dove gli alberi da frutta curvavano i rami carichi sul terreno erboso, e i fiori schiudevano i loro petali colorati come primo benvenuto ai raggi del sole mattutino.
Il tempio in cui mi trovavo era piccolo, semplice, praticamente privo di decorazioni. Un rozzo altare di pietra era accostato a una parete, con una sola, piccola statua in cima. Rappresentava un uomo con la testa di un animale che non riuscii a riconoscere: un becco ricurvo e appuntito, quasi come quello di un falco, ma nient’altro, nei tratti, ricordava un uccello.
Non aveva importanza. Vidi che c’era un’altra apertura sulla parete opposta, e che portava a un sacrario più piccolo e più interno. Era buio, ma vi entrai senza esitare.
Nell’ombra indistinta, la vidi giacere sull’altare, vestita di una lunga tunica argentata. Aveva gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. Non respirava, ma io sapevo che non era morta. Stava solo aspettando.
Alzai lo sguardo verso il soffitto basso, appena al di sopra della mia testa. Era di travi, rivestito di assi sigillate con la pece. Allungai le braccia e, come mi aspettavo, vidi che un riquadro proprio al di sopra dell’altare era munito di cardini. L’aprii e feci in modo che il sole del mattino battesse sul corpo esanime di Anya.
L’argento della sua veste luccicò di mille minuscole stelle. Il colore tornò sulle sue guance.
Mi avvicinai, mi chinai su di lei e la baciai sulle labbra.
Era calda e viva. Intrecciò le braccia attorno al mio collo, sospirò profondamente e ricambiò il mio bacio. Sentivo gli occhi pieni di lacrime e per lunghi minuti non dicemmo assolutamente niente, limitandoci a tenerci così stretti che né il tempo né lo spazio avrebbero potuto separarci.
— Sapevo che mi avresti trovato — disse infine Anya, la voce bassa, calda e vibrante d’amore.
— Dicevano che non potevi essere resuscitata. Dicevano che eri morta per sempre.
— Ero qui. Ti aspettavo.
Si mise a sedere lentamente e io l’aiutai ad alzarsi. Nei suoi occhi c’era l’immensità degli universi. Mi sorrise, lo stesso sorriso raggiante che ricordavo da così tante esistenze.
Ma, mentre la tenevo tra le braccia, incredibilmente felice, il ricordo della nostra morte insieme mi suscitò un brivido gelido.
— Cosa c’è, amore mio? — chiese lei. — Cosa c’è che non va?
— Il Radioso ti ha uccisa…
Il suo viso si fece serio. — È folle di gelosia, Orion. Geloso di te.
— Gli altri Creatori l’hanno fermato. Cercheranno di curarlo.
Mi guardò con nuovo rispetto. — E tu li hai aiutati a catturarlo, vero?
— Sì.
— Lo supponevo. Non ci sarebbero riusciti senza il tuo aiuto, proprio come io non sarei potuta tornare alla vita senza di te.
— Non capisco — dissi.
Mi sfiorò la guancia con la punta delle sue dita morbide e meravigliose. — Ci vorrà tempo per insegnarti, Orion, ma sai già molto più di quanto tu non ti renda conto.
Una nuova domanda prese forma nella mia mente. — Sei umana, adesso o sei una… dea?
Anya rise. — Non ci sono dèi o dee, Orion. Lo sai. Abbiamo solo una conoscenza molto superiore a quella degli uomini che ci hanno preceduto. Capacità molto maggiori. Siamo più potenti.
Molto più potenti di me, pensai.
Come se potesse leggermi la mente, Anya disse: — I tuoi poteri stanno crescendo, Orion. Hai imparato molto da quando il Radioso ti ha mandato per la prima volta nell’Era Glaciale, a caccia di Ahriman. Stai diventando uno di noi.
— Puoi morire? — chiesi senza riflettere.
Lei capì la mia paura. — Tutti possono morire, Orion. L’intero continuum può essere distrutto, con tutto quello che vi si trova.
— Allora non c’è nessun luogo dove possiamo vivere in pace? Nessun tempo dove potremo riposare, e vivere e amare come fanno i normali esseri umani?
— No, caro. Nemmeno i comuni mortali hanno questo privilegio. La cosa migliore che possiamo sperare è di restare insieme, di affrontare le gioie e i pericoli fianco a fianco, in ogni tempo, in tutti gli universi.
La presi di nuovo tra le braccia e mi sentii non soltanto contento, ma divinamente felice. — Mi basterà. Stare con te è tutto ciò che desidero, nient’altro importa.