Il colpo di una frusta sulla schiena nuda mi fece tornare alla realtà.
— Tira verso di te, bestione! Smetti di sognare ad occhi aperti, o ti sembrerà che i fulmini di Zeus si stiano scaricando sulla tua schiena!
Sedevo su una panca di legno ruvido lungo il parapetto superiore di una lunga imbarcazione sciabordante, con un pesante remo tra le mani. No, non un remo. Una pagaia. Stavamo remando energicamente, sotto un sole alto e caldo. Potevo vedere il sudore grondare lungo il costato emaciato e la spina dorsale dell’uomo davanti a me. C’erano segni di frustate sulla sua carnagione nocciola.
— Tira! — ruggì l’uomo con la frusta. — Mantieni il ritmo!
Non avevo addosso altro che un perizoma di pelle macchiata. Il sudore mi irritava gli occhi. La schiena e le braccia mi facevano male. Le mie mani erano callose e sporche.
L’imbarcazione somigliava a una canoa da guerra hawaiana. La prua si slanciava verso l’alto finendo in una grottesca polena intagliata, qualche crudele spirito demoniaco, immaginai, a protezione della nave e del suo equipaggio. Diedi un rapido sguardo intorno mentre immergevo la pagaia nel mare scuro e palpitante e contai quaranta rematori. In mezzo al ponte c’erano balle di merci, pecore legate e maiali che grugnivano a ogni rollio.
Il sole ardeva sopra di noi. Il vento era irregolare e leggero. L’unica vela era ammainata contro l’albero. Potevo sentire il fetore dello sterco degli animali. Verso poppa un uomo calvo e muscoloso batteva un mazzuolo su un tamburo piuttosto logoro, costante come un metronomo. Noi dovevamo affondare le pagaie nell’acqua a tempo con la sua battuta, o prendere una staffilata dalla frusta del capo rematore.
C’erano altri uomini riuniti a poppa, in piedi, che si riparavano gli occhi con una mano e indicavano qualcosa con l’altra mentre parlavano fra loro. Indossavano tuniche di lino pulito lunghe al ginocchio e mantelli rossi o blu che scendevano sino al polpaccio. Avevano piccole daghe alla cintura, più come ornamento che per combattere, pensai. Con l’impugnatura d’argento intarsiato. Sui loro mantelli, fermagli d’oro. Erano giovani, magri, con una leggera barba. Ma i loro visi erano austeri, non gai. Guardavano in direzione di qualcosa che sembrava preoccupare i loro spiriti giovanili. Seguii il loro sguardo e vidi un promontorio non molto lontano, un’altura rocciosa e senza un albero sul bordo di un sabbioso tratto di spiaggia. Evidentemente la nostra destinazione era al di là del promontorio.
“Dov’ero? Come c’ero arrivato?” Rovistai con frenesia nella mia mente. L’unico solido ricordo che riuscii a trovare fu quello di una donna bella, alta, dagli occhi grigi, che mi amava e che io amavo. Eravamo… un brivido di nerissima angoscia rifluì dentro di me. Era morta.
La mia mente cominciò a girare, come se nel mare si fosse aperto un vortice che mi trascinava con sé verso il fondo. Morta. Sì. C’era una nave, una nave molto diversa. Una nave che non viaggiava nell’acqua, ma nel vuoto infinito delle stelle. Io ero stato su quella nave con lei. Ed era esplosa. Lei era morta. Era stata uccisa. Tutti e due eravamo stati uccisi.
Eppure io vivevo, sudato, sporco, con la schiena che mi bruciava per le frustate, su quella canoa troppo grande e stranamente primitiva diretta verso una terra sconosciuta, sotto un cielo come l’ottone e senza una nuvola.
“Chi sono io?” Con un’improvvisa scossa di paura, mi resi conto che non riuscivo a ricordare niente di me tranne il nome. — Io sono Orion — mi dissi. Ma non riuscii a ricordare nient’altro. La mia memoria era vuota, quasi fosse stata completamente cancellata come la lavagna di un’aula pronta per una nuova lezione.
Strinsi forte gli occhi e mi obbligai a pensare alla donna che avevo amato e a quella fantastica nave lanciata fra le stelle. Non riuscivo nemmeno a ricordare il suo nome. Vidi fiamme, sentii grida. La tenevo tra le braccia mentre il calore copriva di bolle la nostra pelle e rendeva le pareti di metallo intorno a noi rosse come l’inferno.
— Ci hanno battuto, Orion — mi diceva lei. — Moriremo insieme. Questa è la sola consolazione che avremo, amore mio.
Ricordavo il dolore. Non semplicemente l’agonia della carne che bruciava, si spaccava, si cuoceva al vapore mentre i nostri occhi venivano consumati dal fuoco, ma la tortura di essere diviso per sempre dall’unica donna che amassi in tutto l’universo.
La frusta schioccò di nuovo sulla mia schiena nuda.
— Più forte! Tira più forte, figlio di puttana, o per gli dèi sacrificherò te invece che un vitello quando toccheremo terra!
L’uomo si chinò sopra di me, la faccia sfregiata rossa d’ira, e mi colpì di nuovo con la frusta. Il dolore non fu niente. Lo allontanai senza pensarci due volte. Riuscivo sempre a controllare completamente il mio corpo. Se avessi voluto, avrei potuto spezzare in due quella pesante pagaia e piantarne l’estremità scheggiata nel cranio solido del capo rematore. Ma cos’era la fitta di dolore della sua frusta paragonata all’agonia della morte, alla sua irreparabilità?
Remammo intorno al promontorio roccioso e avvistammo un’insenatura riparata. Lungo la spiaggia curva c’erano dozzine di navi come la nostra, tirate in secca sulla sabbia. Baracche e tende erano ammucchiate tra gli scafi neri, come frammenti di carta che ingombrano una strada cittadina dopo una parata. Qua e là, un sottile fumo grigio che saliva dai fuochi delle cucine. Una cappa di fumo più denso e più nero si levava a ondate in lontananza.
Più all’interno, a circa un chilometro di distanza, su un promontorio a picco che sovrastava la spiaggia, si ergeva una città o fortezza che fosse. Alte mura di pietra con torri quadrate si alzavano al di sopra dei merli. In lontananza, si stagliavano scure colline boscose che lasciavano gradatamente il posto a montagne più alte che fluttuavano scintillando nell’azzurra foschia del calore.
I giovani a poppa sembrarono innervosirsi ancora di più alla vista della città cinta di mura. Le loro voci erano basse, ma io li sentivo abbastanza facilmente.
— Eccola là — disse uno ai suoi compagni. La sua voce era severa.
Il giovane vicino a lui annuì e disse una sola parola. — Troia.
Atterrammo, letteralmente, spingendo la barca su quella spiaggia finché la carena non sfregò contro la sabbia e non potemmo andare più avanti. Poi il capo rematore cominciò a sbraitare ordini mentre ci sporgevamo dai parapetti, afferravamo delle funi e sforzandoci, imprecando, slogandoci i tendini delle braccia e delle spalle, trainavamo sulla spiaggia lo scafo nero come la pece finché solo la poppa e il timone toccarono l’acqua.
Sapevo che difficilmente ci sarebbero state correnti degne di essere chiamate tali. Una volta attraversate finalmente le Colonne d’Ercole e passati nell’Atlantico, lì sì avremmo incontrato le correnti vere. Poi mi domandai come facessi a saperlo.
Non ebbi tempo per chiedermelo a lungo. Il nostro capo ci lasciò qualche magro attimo per riprendere fiato, poi cominciò a farci scaricare la nave. Urlava e minacciava, agitando la frusta multipla verso di noi, la barba rosso cannella ispida e aggrovigliata e la cicatrice sulla guancia sinistra che risaltava, bianca, sul viso florido dagli occhi di rana. Io trasportavo balle e pecore che belavano e si dimenavano e maiali puzzolenti, mentre i gentiluomini con i mantelli, le tuniche di lino e i sandali puliti scendevano lungo una passerella, ognuno seguito da due o più schiavi che portavano i loro bagagli, soprattutto armi e armature, da quello che potevo vedere.
— Sangue fresco per la guerra — borbottò l’uomo vicino a me, accennando ai giovani nobiluomini. Aveva l’aspetto sudicio che mi sentivo io, un vecchio tutto nervi con la pelle asciugata e raggrinzita quanto il cuoio segnato dalle intemperie. I suoi capelli erano radi, grigi, appiccicati per il sudore; la barba era sporca e scarmigliata. Come me non indossava altro che un perizoma; le gambe magre e le ginocchia nodose sembravano a malapena abbastanza forti per sopportare il carico che trasportava.
C’erano moltissimi altri uomini, laceri e sudici quanto noi, che ricevevano le balle e il bestiame che passavamo loro. Sembravano felici di farlo. Mentre andavo avanti e indietro dalla barca vidi che quella lingua di spiaggia era protetta da un bastione di terra, puntellato qua e là da paletti appuntiti.
Finalmente, portammo a termine il nostro compito scaricando un centinaio di massicce anfore da vino, mentre il sole toccava il promontorio che avevamo doppiato durante la mattinata. Doloranti, esausti, ci sdraiammo intorno a un fuoco e ci vennero distribuite ciotole di legno fumanti di lenticchie e verdure bollite. Un vento freddo soffiava da nord mentre il sole scivolava dietro l’orizzonte, mandando le scintille del nostro piccolo fuoco a brillare verso il cielo che si faceva scuro.
— Non avrei mai creduto che mi sarei trovato qui nella pianura di Ilio — disse il vecchio che aveva lavorato vicino a me. Si portò la ciotola alle labbra e inghiottì la minestra avidamente.
— Da dove vieni? — gli chiesi.
— Da Argo. Mi chiamo Polete. E tu?
— Orion.
— Ah, come il Cacciatore.
Annuii, mentre una debole eco di memoria mi fece rizzare i capelli sulla nuca. Il Cacciatore. Sì, ero un cacciatore. Una volta. Molto tempo prima. O… era molto tempo da allora? Il futuro e il passato erano confusi nella mia mente. Ricordavo…
— E da dove vieni, Orion? — chiese Polete, distruggendo le fragili immagini che si stavano formando a metà nella mia mente.
— Oh — feci un gesto vago — da un posto a ovest di Argo. Molto a ovest.
— Più in là di Itaca?
— Al di là del mare — risposi, senza sapere perché ma sentendo istintivamente che quella era la risposta più onesta che potessi dare.
— E come sei arrivato qui?
— Mi strinsi nelle spalle. — Sono un vagabondo. E tu?
Avvicinandosi di più, Polete corrugò le sopracciglia e si grattò i capelli radi. — Niente vagabondo. Io sono un cantastorie, ed ero felice di passare i miei giorni nell’agorà, e guardare le facce della gente mentre parlavo. Soprattutto i bambini, con i loro grandi occhi. Ma questa guerra ha messo fine al mio narrare.
— Come mai?
Si pulì la bocca con il dorso della mano sudicia. — Il mio signore Agamennone può aver bisogno di più guerrieri, ma la sua infedele consorte vuole più thetes.
— Schiavi?
— Ah! Peggio che schiavi. Molto peggio — borbottò. Indicò gli uomini esausti sdraiati intorno al fuoco morente. — Guardaci! Senza casa e senza speranza. Almeno uno schiavo ha un padrone su cui contare. Uno schiavo appartiene a qualcuno; è membro di una famiglia. Un thes non appartiene a niente e a nessuno; non ha terra, né casa, è escluso da tutto tranne che dal dolore e dalla fame.
— Ma tu facevi parte di una famiglia ad Argo, no? — Lui chinò la testa e strinse gli occhi, come per allontanare un doloroso ricordo.
— Una famiglia, sì — disse con voce bassa. — Finché l’uomo della regina Clitennestra non mi ha scacciato dalla città perché ripetevo quello che anche i cani e i gatti randagi dicevano ad Argo; che la regina si era presa un amante mentre il suo reale marito era qui a combattere sotto le mura di Troia.
Presi un sorso della zuppa che si stava raffreddando rapidamente cercando qualcosa da dire.
— Almeno non ti hanno ucciso — fu tutto quello che riuscii a mettere insieme.
— Meglio se l’avessero fatto! — rispose Polete amaramente. — Sarei morto, nell’Ade, e sarebbe stata la fine di tutto. Invece sono qui, a sgobbare come un somaro, a lavorare come salariato.
— È già qualcosa, comunque — dissi io.
I suoi occhi si spostarono di scatto su di me. — Stai mangiando il tuo salario, Orion.
— Questa… questa è la nostra paga?
— Per il lavoro della giornata. Esattamente. Fammi vedere un thes con qualche soldo in tasca e io ti farò vedere un bel ladruncolo.
Trassi un profondo respiro.
— Più in basso degli schiavi, ecco dove siamo — disse Polete in un sussurro pesante di sonno arretrato. — Vermi sotto i loro piedi. Cani. È così che ci trattano. Ci fanno lavorare a morte e lasciano le nostre ossa a marcire dove siamo caduti.
Con un lungo sospiro Polete mise giù la ciotola vuota e si sdraiò sul terreno sabbioso. Stava diventando così buio che riuscivo a malapena a vedere la sua faccia. Il piccolo, misero fuoco si era ridotto a nient’altro che braci. Il vento che soffiava dal mare era freddo e tagliente. Automaticamente adattai la circolazione sanguigna per mantenermi più caldo possibile. Non c’erano coperte e nemmeno teloni cerati tra i corpi stravaccati dei thetes esausti. Dormivano con i loro perizomi e nient’altro.
Io mi sdraiai vicino al vecchio, poi mi ritrovai a domandarmi quanti anni avesse in realtà. Quaranta, forse. Dubitai che chiunque superasse di molto i cinquant’anni in quel periodo primitivo. Un paio di cani rognosi si contesero qualche osso vicino al fuoco, poi si sistemarono fianco a fianco, meglio protetti di noi contro la notte.
Proprio prima di chiudere gli occhi, colsi l’immagine delle torri a strapiombo di Troia, che si stagliavano scure contro il cielo di un viola sempre più profondo.
Agamennone. Troia. Come ero arrivato lì? Quanto tempo sarei potuto sopravvivere come qualcosa di più vile di uno schiavo?
Addormentarsi fu come entrare in un altro mondo. Il mio sogno era reale come la vita. Pensai che forse era la vita, una vita diversa su un piano diverso dell’esistenza.
Mi trovavo in un posto che non aveva né tempo né dimensione. Niente terra, niente mare, niente cielo. Nemmeno un orizzonte. Un grande bagliore dorato mi circondava, allargandosi all’infinito su tutti i lati, caldo e così luminoso da abbagliarmi gli occhi. Non potevo vedere nient’altro che il suo fulgore.
Senza sapere perché, cominciai a camminare. Lentamente, all’inizio, ma presto il mio passo si fece più rapido, come se sapessi dove mi stavo dirigendo e perché. Il tempo non aveva significato, lì, e camminai senza fermarmi, con i piedi nudi che posavano su qualcosa di solido sotto di me, anche se quando guardavo in basso non riuscivo a vedere nient’altro che la brillante luce dorata.
E poi lontano, molto lontano, vidi un luccichio che eclissava qualunque altra cosa. Un corpuscolo, un punto, una fonte di splendore che ardeva di oro puro e mi trascinava in avanti come una calamità attira una scheggia di ferro, come il sole infuocato richiama una cometa.
Corsi, volai verso quel bagliore bruciante. Con gli occhi dolorosamente abbagliati, il cuore che batteva selvaggiamente, il respiro che mi raschiava la gola.
Mi fermai e mi lasciai cadere in ginocchio.
Una forma umana sedeva davanti a me, più in alto rispetto al mio livello, sostenuta da niente di più consistente che la luce dorata. Ecco la fonte di tutto quello splendore. Brillava in modo così meraviglioso che i miei occhi si ferivano al solo guardarlo. Eppure non potevo distogliere lo sguardo.
Era splendido. Una folta chioma di capelli dorati, occhi spruzzati d’oro. La pelle che brillava di un bagliore vivificante. Un viso assolutamente stupendo, mascolino eppure dolce, calmo e sicuro, con un accenno di sorriso che gli increspava le labbra. Aveva le spalle larghe e il petto ampio e senza peli. Era nudo sino alla cintola, da cui cominciavano ad avvolgerlo stoffe d’oro risplendente.
— Mio povero Orion. — Il suo sorriso divenne quasi di scherno. — Sei certamente in un misero stato.
Io non sapevo cosa rispondere. Non potevo rispondere. La voce mi si congelò in gola.
— Ricordi il tuo Creatore? — chiese lui, sarcasticamente.
Io annuii in silenzio.
— Certo. Questo ricordo è radicato così profondamente dentro di te che solo la distruzione finale potrà cancellarlo.
Mi inginocchiai davanti a lui con la mente che mi girava vorticosamente piena di ricordi a metà, lottando per ritrovare la voce, per parlare, per domandargli…
— Ricordi il mio nome? — chiese.
Lo ricordai, quasi.
— Non importa. Per ora puoi chiamarmi Apollo. I tuoi compagni nella pianura di Ilio si riferiscono a me con questo nome.
Apollo. Il dio greco della luce e della bellezza. Certo. Il dio della musica e della medicina; o era biotecnologia, mi chiesi. Ma mi sembrava di ricordare che aveva un altro nome, in un altro tempo. E c’erano altri dei, anche. E una dea, quella che io amavo.
— Sono duro con te, Orion, perché mi hai disobbedito nella faccenda di Ahriman. Hai deliberatamente distorto il corso del continuum, per puro sentimentalismo.
— Per amore — risposi. — La mia voce era debole, affannosa. Ma parlai.
— Tu sei una creatura, Orion — sogghignò lui. — Cosa puoi sapere dell’amore?
— La donna — mi difesi. — La dea…
— È morta.
La sua voce era fredda e implacabile come il fato. Sentii il ghiaccio che mi congelava le vene.
— Tu l’hai uccisa — affermai testardo.
Il suo sorriso di scherno svanì in una cupa solennità. — In un certo senso, Orion, sei stato tu a ucciderla. Osando amare una dea, tentandola perché assumesse forma umana, hai sancito la sua condanna.
— Tu dai a me la colpa…
— Colpa? Un dio non incolpa. Orion. Un dio punisce. O premia. Tu vieni punito, per il momento. Accetta la tua sorte e la tua punizione cesserà.
— E poi?
Gli tornò il sorriso. — Ho altri compiti per te, creatura mia, dopo che i Troiani avranno battuto questi barbari Greci. Non avere paura, non ho intenzione di farti morire di nuovo, non per ora. C’è molto lavoro per te in quest’era.
Cominciai a chiedergli cosa intendesse, ma un piede chiuso in un sandalo mi colpì sulle costole, e aprendo gli occhi vidi che mi trovavo sulla spiaggia, tra i Greci che stavano assediando Troia. Un thes, il più misero dei miseri.
— In piedi! C’è del lavoro da fare! — gridò l’uomo.
Alzai lo sguardo su di lui, ma vidi invece il fulgore accecante del sole mattutino. Fremetti e chinai la testa.
Ci fu data una ciotola colma di una leggera minestra d’orzo e avena e poi fummo messi a lavorare con badili di legno ai terrapieni in difesa della spiaggia.
Mentre i guerrieri facevano una tranquilla colazione a base di montone e di pane non lievitato, e i loro uomini d’armi aggiogavano i cavalli ai carri e affilavano lance e spade, noi passammo rumorosamente attraverso una delle uscite di fortuna nelle fortificazioni che erano state innalzate lungo la spiaggia. Il nostro compito, in quel bel mattino ventoso, era di approfondire la trincea davanti alle fortificazioni e di ammucchiarci sopra i materiali di sterro. Questo avrebbe reso ancora più difficile per le truppe o i carri troiani raggiungere le navi.
Lavorammo per buona parte della mattinata. Il cielo era un anfiteatro scintillante di chiarore, un blu senza nubi punteggiato di gabbiani urlanti che si libravano in volo sopra di noi. Il mare era di un blu ancora più scuro, solcato senza posa dalle creste delle bianche onde schiumose. Le protuberanze marrone grigiastro delle isole si innalzavano in un lontano orizzonte. Dalla parte opposta, le torri e le mura di Troia sembravano incombere torve su di noi al di là della pianura. Più lontano, le colline erano scure di alberi e dietro ancora si alzavano le montagne nebbiose.
Mentre il sole saliva, la brezza rafforzò in un vento a raffiche aiutandoci con la sua frescura mentre scavavamo e svuotavamo i badili dentro cesti intrecciati che venivano portati sulla cima della fortificazione da altri thetes.
Mentre lavoravo e sudavo, pensai alla visione della notte. Non era un sogno, di questo ero certo. Il Radioso esisteva davvero, sia che si chiamasse Apollo o con qualunque altro nome di un’esistenza precedente. Ricordavo confusamente che apparteneva a un altro tempo, un’altra era; lui, e un’oscura presenza incombente. Quello che lui chiamava Ahriman, pensai. E la dea, la donna che amavo. La donna che era morta. Il Radioso diceva che ero io il responsabile della sua fine. Eppure io sapevo che era stato lui a mettere in moto la catena di eventi conclusasi con l’esplosione della nostra nave stellare. Lui l’aveva uccisa, ci aveva uccisi entrambi. Eppure in qualche modo mi aveva fatto rivivere, mi aveva portato in quel tempo e in quel luogo, solo e privo di memoria.
Ma io ricordavo. Un po’, comunque. Abbastanza per sapere che odiavo il Radioso per quello che aveva fatto a me, e a lei. Strinsi le mani callose sulla pala, colmo d’ira e di una vana, vuota sensazione di struggimento. Nessuno degli altri thetes si stava sforzando molto e il lavoro procedeva a rilento, principalmente perché il capomastro e gli altri sorveglianti ci ignoravano e passavano il tempo sulla cima della fortificazione, da cui potevano guardare l’accampamento e i guerrieri nelle loro splendide armature di bronzo.
Achei, era il nome che davano a se stessi. L’avevo sentito dagli uomini che lavoravano intorno a me. Sarebbero dovuti passare altri mille anni prima che cominciassero a pensarsi come Greci. Erano lì ad assediare Troia, eppure sembravano preoccupati che i Troiani potessero sfondare le difese e attaccare l’accampamento. “C’è agitazione tra loro” pensai.
E il Radioso diceva che i Troiani stavano per battere gli assedianti. Polete era stato adibito al trasporto dei cesti di terriccio sulla cima del bastione. All’inizio pensai che quello fosse un peso troppo gravoso per le sue vecchie gambe ossute, ma i cesti erano piccoli e quasi mai pieni, e i sorveglianti abbastanza trascurati da permettere ai portatori di arrampicarsi lentamente su per il pendio.
Il vecchio mi individuò tra gli scavatori e venne verso di me.
— Non va tutto bene tra i grandi e potenti, stamattina — mi sussurrò compiaciuto. — C’è stata una qualche discussione tra il mio signore Agamennone e Achille, il grande uccisore di uomini. Dicono che Achille non lascerà la sua tenda, oggi.
— Nemmeno per aiutarci a scavare? — scherzai.
Polete ridacchiò rumorosamente. — Il Sommo Re Agamennone gli ha mandato una delegazione per supplicarlo di unirsi alla battaglia. Non credo che funzionerà. Achille è giovane e arrogante. Pensa che la sua merda profumi di rosa.
Risi in risposta al vecchio.
— Voi, laggiù! — Il capomastro ci indicò dalla cima della fortificazione. — Se non tornate a lavorare vi darò io qualcosa di cui ridere!
Polete sollevò il cesto mezzo pieno sulle fragili spalle e cominciò a risalire il pendio. Io mi volsi di nuovo alla mia pala.
Il sole era alto nel cielo senza nubi quando il cancello di legno più vicino a me si aprì scricchiolando e i carri cominciarono ad uscire, mentre gli zoccoli dei cavalli risuonavano con un rumore sordo sulla rampa di terra compressa che tagliava la trincea. Tutti i lavori si fermarono. I sorveglianti ci gridarono di uscire dalla trincea e noi ci arrampicammo con impazienza sul pendio della fortificazione, felici di poter guardare la battaglia imminente.
Le armature luccicavano al sole mentre i carri si mettevano in fila per due. Per la maggior parte erano tirati da due cavalli, anche se alcuni avevano tiri a quattro. I cavalli nitrivano e battevano nervosamente le zampe, come se percepissero la confusione che si sarebbe scatenata di lì a poco. Avevo contato settantanove carri. Un bel po’ meno delle migliaia cantate dai poeti.
Su ogni carro c’erano due uomini, uno che si occupava dei cavalli, l’altro armato di numerose lance di peso e lunghezza diversi. Le più lunghe erano più di due volte l’altezza di un guerriero, anche bardato di elmo con il pennacchio.
Ogni coppia, su ciascun carro, indossava pettorali di bronzo, elmi e placche alle braccia. Non potevo vedere le gambe ma immaginai che fossero protette dagli schinieri. La maggior parte degli aurighi portava una leggera corazza di piccoli dischi rotondi sull’avambraccio sinistro, e ogni guerriero aveva uno scudo a forma di otto alto quasi quanto lui, che lo copriva dal mento alle caviglie. Tutti portavano una spada in una bandoliera allacciata sulla spalla. Colsi il luccichio dell’oro e dell’argento sulle impugnature delle lame. Molti avevano archi legati sulla schiena o agganciati alla fiancata del carro.
Si levò un grido mentre l’ultimo carro varcava il cancello e passava sul pendio di terra battuta che attraversava le trincee. I quattro cavalli neri che lo tiravano erano magnifici, eleganti e lucenti. Il guerriero sul carro sembrava più robusto della maggior parte degli altri, e la sua corazza era filigranata e intarsiata d’oro.
— Quello è il Sommo Re — disse Polete, superando il boato degli uomini urlanti. — Quello è Agamennone.
— Achille è con loro? — chiesi.
— No. Ma il gigante laggiù è il Grande Aiace — indicò lui, eccitato pur non volendo. — C’è Ulisse, e…
Un rumore echeggiante ci raggiunse dai merli di Troia. Una nuvola di polvere avvolgeva una teoria di carri che stava spuntando da una porta sul lato destro della città, snodandosi lungo un pendio che portava alla pianura davanti a noi.
Truppe a piedi uscivano in fretta dalle nostre porte adesso, soldati con archi, fionde, asce, mazze. Alcuni indossavano corazze o cotte di maglia ad anelli, ma la maggior parte di loro non aveva niente di più protettivo che farsetti di pelle, alcuni costellati di borchie di bronzo.
— I due eserciti si schierarono l’uno di fronte all’altro sulla pianura spazzata dal vento. Un fiume di discreta portata formava un confine naturale al campo di battaglia sulla nostra destra, mentre un corso d’acqua più piccolo delimitava il lato sinistro. Al di là delle loro sponde il terreno sabbioso era verde di lunghi ciuffi d’erba, ma il campo di battaglia era stato messo a nudo dalle ruote dei carri e dai piedi della soldatesca in marcia.
Per circa mezz’ora non successe niente. Si fecero avanti i messaggeri e parlarono l’uno con l’altro, mentre la nube di polvere veniva trascinata via dal vento.
— Nessuno degli eroi si sfida reciprocamente a singolare duello, oggi — spiegò Polete. — I messaggeri si stanno scambiando offerte di pace, che ognuna delle parti rifiuterà.
— Fanno così ogni giorno?
— Così mi hanno detto. A meno che non piova.
— Davvero la guerra è cominciata a causa di Elena? — chiesi.
Polete si strinse accuratamente nelle spalle. — Questa è la scusa. Ed è vero che il principe Alessandro l’ha rapita da Sparta. Se lei l’abbia seguito di sua volontà o no, solo gli dèi lo sanno.
— Alessandro? Pensavo che si chiamasse Paride.
— Qualche volta viene chiamato Paride. Ma il suo nome è Alessandro. Uno dei figli di Priamo. — Polete rise. — Ho sentito che lui e Menelao, il marito legittimo di Elena, hanno combattuto in duello qualche giorno fa e Alessandro è scappato. Si è nascosto dietro la sua fanteria! Ci puoi credere?
Io annuii.
— Menelao è il fratello di Agamennone — continuò Polete, abbassando la voce. — Al Nobile Re piacerebbe molto annientare Troia. Avrebbe via libera attraverso l’Ellesponto sino al Mare dalle Nere Acque.
— È importante?
— Oro, ragazzo mio — sussurrò Polete. — Non soltanto il metallo con cui i re si adornano, ma il grano dorato che cresce sulle rive lontane di quel mare. Una terra inondata di grano. E nessuno ci può arrivare attraverso gli stretti a meno che non paghi un tributo a Troia.
— Ahhh. — Cominciavo a capire quali motivi reali stavano dietro a quella guerra.
— Alessandro era in missione di pace a Micene, per stabilire un nuovo accordo commerciale tra suo padre Priamo e il re Agamennone. Ha fatto una sosta a Sparta e ha finito con il rapire Elena, invece. Ad Agamennone non serviva altra scusa. Se riesce a conquistare Troia avrà libero accesso alle ricchezze delle regioni al di là degli stretti.
Stavo per chiedergli perché i Troiani non restituissero semplicemente Elena al suo consorte, quando una serie di squilli di corno misero fine alla quiete della pianura.
— Adesso comincia — disse Polete, cupamente. — I pazzi si lanciano nella carneficina ancora una volta.
Osservammo mentre gli aurighi facevano schioccare le fruste e i cavalli si scagliavano in avanti, portando Achei e Troiani gli uni verso gli altri a velocità folle.
Io focalizzai la mia attenzione sul carro più vicino a noi e vidi il guerriero che vi stava sopra infilare i piedi calzati di sandali in una specie di coppia di archetti sollevati, in modo da avere un equilibrio stabile. Tenne lo scudo davanti a sé e prese la lancia più corta e più leggera dal fascio tintinnante nel contenitore alla sua destra.
— Diomede — disse Polete, prima che io lo chiedessi. — Il principe di Argo. Un giovane eccellente.
Un carro che gli si avvicinava deviò improvvisamente e ne partì un giavellotto. Passò oltre senza provocare danni.
Diomede scagliò la sua lancia e colpì la groppa del più lontano dei cavalli del nemico. Il cavallo nitrì e si sollevò sulle zampe, alterando talmente l’andatura degli altri tre che il carro scartò incontrollato, facendo cadere il guerriero sul terreno polveroso. Anche l’auriga cadde, o si buttò, dietro il rivestimento del carro.
Altri combattimenti stavano tramutando il campo nudo in una enorme nuvola di polvere; c’erano carri che giravano, lance che fischiavano nell’aria, acute grida di battaglia e imprecazioni urlate che risuonavano dappertutto. I soldati a piedi si tenevano indietro, lasciando che in quella fase iniziale fossero i nobili a combattersi fra loro.
Un urlo superò tutti gli altri rumori, uno strano grido lacerante come di un gabbiano impazzito.
— Il grido di guerra di Ulisse — disse Polete. — Lo si sente sempre sopra tutti gli altri.
Ma io ero ancora concentrato su Diomede. Il suo auriga tirò le redini per fermare i cavalli e il guerriero saltò giù, con due lance strette nella mano sinistra e il massiccio scudo a figura intera che sbatteva sull’elmo e sugli schinieri.
— Ah, un uomo meno valoroso avrebbe trafitto il suo nemico dal carro — disse Polete con ammirazione. — Diomede è un vero nobiluomo. Magari fosse stato ad Argo, quando l’uomo di Clitennestra mi ha scacciato!
Diomede si avvicinò al guerriero caduto, che si mise in piedi con difficoltà e tenne lo scudo davanti a sé, sguainando la grande spada. Il principe di Argo prese la lancia più lunga e pesante con la destra e l’agitò minacciosamente. Non potevo sentire cosa i due uomini si stessero dicendo, ma si gridavano reciprocamente qualcosa.
Improvvisamente, entrambi lasciarono cadere le armi, si corsero incontro e si abbracciarono come due fratelli che non si vedono da lungo tempo.
— Devono avere dei parenti in comune — spiegò Polete. — O forse una volta uno dei due è stato ospite nella casa dell’altro.
— Ma la battaglia…
Scosse la testa grigia. — Cosa c’entra? Ci sono moltissimi altri da uccidere.
I due guerrieri si scambiarono le spade, poi tutti e due tornarono ai propri carri e andarono in direzioni opposte.
— Non c’è da stupirsi se questa guerra dura da dieci anni — borbottai.
Ma anche se Diomede aveva posto fine al suo primo incontro della giornata in modo così poco cruento, quello fu il solo attimo di pace in mezzo alla carneficina della battaglia. I carri si schiantavano l’uno contro l’altro, i lancieri dirigevano le loro armi lunghe quattro metri contro i nemici come cavalieri medievali avrebbero fatto ancora quasi duemila anni più tardi. Le sole punte di bronzo delle lance erano lunghe quanto il braccio di un uomo. Quando tutte le energie di un tiro di quattro cavalli al galoppo si concentravano sulla cima luccicante di quell’affilata punta di lancia, era come se una palla di cannone ad alta velocità si conficcasse nel bersaglio. Gli uomini venivano sollevati in alto, fuori dai carri, quando le lance li trovavano. Una corazza di bronzo non offriva nessuna protezione contro quella forza tremenda.
I guerrieri preferivano combattere dai carri, vidi, anche se qua e là qualcuno era sceso e affrontava il suo avversano a piedi. La fanteria restava ancora indietro, muovendosi furtivamente e strizzando gli occhi nei mulinelli di polvere, mentre i nobili si affrontavano singolarmente. Stavano aspettando un segnale? C’era un qualche tipo di tattica in quello sconcertante disordine di combattimenti individuali? O forse i soldati a piedi sapevano che non avrebbero mai potuto affrontare uno di quei combattenti in armatura con le loro lance mortali?
Due nobili protetti dalla corazza si stavano affrontando a piedi, attaccando e parando con le lunghe lance. Uno di loro si girò improvvisamente e picchiò la lancia di lato sull’elmo del suo avversario, che cadde a terra. L’uomo gli conficcò la lancia nel collo. Il sangue zampillò, subito assorbito dal terreno assetato.
Invece di tornare al suo carro o di avvicinarsi furtivamente a un altro nemico, il guerriero vittorioso si mise in ginocchio e cominciò a slacciare la corazza dell’ucciso.
— Un ricco bottino — spiegò Polete. — Con la sola spada, si potrebbero comprare cibo e vino per un mese, almeno.
Immediatamente i soldati a piedi cominciarono ad avanzare, da entrambi i lati, alcuni per aiutare a spogliare il cadavere, altri per difenderlo. Cominciò un rapido e comico tiro alla fune, che rapidamente divenne un serio combattimento con coltelli, asce, mazze e accette. Il nobile con l’armatura scombinò tutto, però. Si gettò in mezzo alla fanteria nemica con la sua lunga spada, falciando membra e vite finché i pochi che potevano corsero via per salvare la pelle. Poi i suoi uomini ripresero a spogliare il cadavere mentre il guerriero faceva loro la guardia, fuori dalla battaglia, in quel momento, come se fosse stato lui l’ucciso.
La maggior parte dei carri erano rovesciati o vuoti ormai. Gli uomini stavano combattendo a piedi, con le lance o le spade. Vidi un nobile con la corazza raccogliere e lanciare pietre, con buoni risultati. Gli arcieri, molti dei quali erano aurighi che tiravano da dietro i pannelli laterali di pelle dei loro veicoli, cominciarono a scegliere come bersaglio la fanteria. Vidi un guerriero armato lasciar cadere improvvisamente la lancia e strapparsi urlando una freccia conficcata nella spalla. Un carro passò velocemente e il guerriero a bordo infilzò un arciere con la lancia, sollevandolo completamente dal carro e trascinandolo nella polvere finché il corpo non si staccò dalla punta uncinata dell’arma.
Tutto durò solo qualche minuto. Sembrava non esserci nessun ordine nella battaglia, nessun piano, nessuna tattica. I nobili sembravano più interessati a depredare i corpi che a sconfiggere le forze nemiche. Era più un gioco che una guerra, ma un gioco che inzuppava il terreno di sangue e riempiva l’aria di grida di dolore e di paura.
La cosa che si notava di più era che voltarsi e tentare la fuga era molto più pericoloso che affrontare il nemico e combattere. Vidi un auriga far fare marcia indietro alla sua pariglia per sfuggire a due carri che convergevano su di lui. Qualcuno tirò una lancia che lo colpì tra le scapole. I suoi cavalli si misero a correre all’impazzata, e mentre il guerriero rimasto sul carro tentava di afferrare le redini dalle mani senza vita del suo compagno per riprendere il controllo dei cavalli, un altro lanciere si avvicinò e lo uccise con un colpo alla schiena.
I soldati che si allontanavano a piedi dal teatro del combattimento venivano colpiti sulla schiena dalle frecce o abbattuti dai guerrieri sui carri che brandivano le spade come falci.
Stava diventando difficile vedere, perché la polvere era sempre più fitta. Ma intesi uno squillo di tromba e il boato di molti uomini che gridavano insieme. Poi il tuono degli zoccoli dei cavalli fece tremare il terreno.
Tra la polvere avanzavano tre dozzine di carri, diretti esattamente verso il luogo dove eravamo noi, in cima ai cumuli di terra delle fortificazioni.
— Il principe Ettore! — disse Polete, con un tono di riverente timore. — Guarda come si apre la strada fra gli Achei!
Ettore doveva aver riorganizzato le sue forze o averle tenute lontane dalla confusione iniziale. Comunque fosse, adesso le stava dirigendo come truppe d’assalto fra le truppe nemiche, massacrando a destra e a sinistra. La sua lancia lunga e massiccia era macchiata di sangue sino a metà dei suoi quattro metri di lunghezza. La portava con la disinvoltura con cui avrebbe tenuto una bacchetta, trafiggendo sia nobili in armatura sia fanti dal farsetto di pelle, procedendo senza rallentare verso le fortificazioni che proteggevano la spiaggia, l’accampamento, le navi.
Per alcuni minuti gli Achei risposero all’attacco, ma quando il carro di Ettore riuscì a oltrepassare la fila disordinata dei loro carri e si diresse verso la porta del bastione, la resistenza achea andò in frantumi. Nobili e plebei, carri e fanteria, tutti corsero, gridando, a cercare salvezza nelle fortificazioni di terra.
Ettore e i suoi sfogarono la loro furia sanguinosa sui nemici terrorizzati. Con lance, spade e frecce uccisero, uccisero e uccisero. Gli Achei correvano verso di noi zoppicando, inciampando, sanguinando. Le grida e i lamenti riempivano l’aria.
Un carro acheo si precipitò verso l’entrata sobbalzando e sferragliando, passando al di là e persino sopra i fanti in fuga. Riconobbi la corazza del guerriero dalle larghe spalle: Agamennone, il Sommo Re.
Non sembrava così splendido, in quel momento. Il suo elmo piumato era coperto di polvere. Una freccia gli sporgeva dalla spalla destra e il sangue gli striava il braccio.
— Siamo rovinati! — gridava con una voce acuta come quella di una ragazza. — Rovinati!
Gli Achei correvano a cercare salvezza nelle fortificazioni, con i carri troiani che incalzavano da vicino e seguiti dalla fanteria che brandiva spade e asce. Qua e là un soldato a piedi si fermava per un attimo per lanciare un sasso contro i nemici in ritirata o per inginocchiarsi e scoccare una freccia.
Una mi rasentò sibilando. Mi voltai e vidi che Polete ed io eravamo soli sulla cima del bastione. Gli altri thetes, persino il capomastro, erano scesi nell’accampamento.
Una rumorosa contesa si stava svolgendo vicino alla porta. Era un affare di legno sgangherato, fatto di assi prelevate da alcune delle navi. Non era una vera porta, con i cardini, ma semplicemente una barricata di legno che andava sollevata e incuneata nell’apertura della fortificazione.
Alcuni uomini stavano freneticamente cercando di metterla a posto, mentre altri tentavano di trattenerli finché il resto dei compagni in fuga non fosse riuscito a entrare. Vidi che Ettore e i suoi carri avrebbero raggiunto l’ingresso in un minuto e anche meno. Una volta superata la porta, lo sapevo, i Troiani avrebbero massacrato tutti nell’accampamento.
— Resta qui — dissi a Polete, e senza controllare se mi avesse obbedito, mi riparai tra i paletti piantati in cima al bastione, dirigendomi verso l’uscita.
Con la coda dell’occhio vidi una lancia leggera volare sibilando verso di me. I miei sensi sembravano acuiti, più all’erta. Il mondo intorno a me si muoveva lentamente mentre il mio corpo passava improvvisamente all’ipervelocità. Il giavellotto arrivò fluttuando pigramente nell’aria, flettendosi leggermente mentre avanzava. Io feci un salto indietro e quello si conficcò nel terreno ai miei piedi, tremolando. Lo tirai con forza e corsi verso la porta.
Il carro di Ettore stava già salendo la rampa che attraversava la trincea di fronte al bastione. Non c’era tempo per nien’altro, così saltai giù, proprio di fronte ai cavalli di Ettore che arrivavano alla carica. Urlai e sollevai entrambe le braccia, e i cavalli spaventati indietreggiarono nitrendo.
Per un istante il mondo si fermò, immobile come una pittura su un vaso. Alle mie spalle gli Achei stavano tentando di sollevare la barricata che avrebbe tenuto i Troiani fuori dal campo. Davanti a me, la pariglia di Ettore si impennò con gli zoccoli non ferrati delle zampe anteriori che si agitavano a pochi centimetri dalla mia faccia. Io stavo leggermente chinato, tenendo il leggero giavellotto con entrambe le mani, all’altezza del torace, pronto a muovermi in qualunque direzione.
I cavalli si allontanarono da me, con gli occhi sbarrati e bianchi di paura, facendo quasi scivolare il carro di lato giù dalla rampa di terra battuta. Vidi che Ettore era ancora in piedi, con una mano sulla sponda del carro e l’altra sollevata sopra la testa, brandiva una lancia mostruosamente lunga e grondante di sangue.
Mirò al mio petto.
Guardai Ettore, Principe di Troia, negli occhi. Erano occhi castani, calmi e profondi. Nessuna rabbia, nessuna sete di battaglia. Era un soldato freddo e calcolatore, un pensatore tra l’orda di bruti madidi di adrenalina. Notai che al braccio sinistro portava un piccolo scudo rotondo fissato con cinghie, invece del pesante modello a figura intera che usava la maggior parte degli altri nobili. Sopra, c’era dipinto un airone in volo, quasi in uno stile che sarebbe stato definito giapponese nei millenni a venire.
Fece l’atto di scagliare la lancia. Io feci un passo di lato, lasciai cadere il giavellotto che avevo in mano e afferrai l’asta di frassino che Ettore ancora impugnava, sollevando l’uomo al di sopra della sponda del carro. Poi gli strappai la lancia e la calai sulla testa dell’auriga, mandandolo a sbattere contro il lato opposto del carro.
I cavalli si fecero prendere dal panico e inciamparono l’uno nell’altro sulla rampa stretta. Uno cominciò a scivolare lungo il bordo scosceso della trincea. Nitrendo di paura, tutti indietreggiarono e si voltarono, calpestando il povero auriga mentre si lanciavano giù dalla rampa verso la lontana città, trascinandosi dietro il carro vuoto.
Ettore si mise in piedi a fatica e si diresse verso di me sfoderando la spada. Io parai con la lancia, tenendola come un’asta da combattimento, e lo colpii alle caviglie facendolo cadere di nuovo.
In quel momento altri Troiani stavano salendo la rampa a piedi, dal momento che i loro carri erano ormai inutili e visto che i cavalli terrorizzati di Ettore avevano fatto disperdere gli altri.
Diedi uno sguardo dietro di me. La barricata era sollevata, adesso, e gli arcieri achei stavano tirando attraverso le fessure tra le assi. Altri erano in cima al bastione e scagliavano sassi e lance. Ettore sollevò lo scudo per proteggersi e indietreggiò. Alcune frecce troiane arrivarono nella mia direzione, ma io le schivai facilmente.
I troiani si ritirarono, ma solo al di là della distanza di un tiro d’arco. Ettore disse loro di fermarsi lì.
E proprio come la mattina, la battaglia era finita. Gli Achei erano chiusi nel loro accampamento, dietro le fortificazioni e la trincea, con il mare alle spalle. I Troiani occupavano la pianura disseminata di cadaveri.
Mi arrampicai su per la barricata e passai una gamba dall’altra parte. Esitando un momento, diedi un’occhiata indietro al campo di battaglia. Quanti di quei giovani nobili arrivati con la nostra imbarcazione giacevano adesso laggiù, spogliati della loro splendida corazza, delle loro spade tempestate di gemme, delle loro giovani vite? Vidi degli uccelli volare in tondo, in alto, nel terso cielo azzurro. Non gabbiani: avvoltoi.
Polete mi chiamò. — Orion, tu devi essere il figlio di Ares! Un grande guerriero, per aver avuto la meglio sul principe Ettore!
Altre voci si unirono all’elogio, mentre io mi lasciavo scivolare giù dalla barricata traballante e saltavo sul terreno. Mi circondarono, battendomi le mani sulla schiena e sulle spalle, sorridendo, gridando. Qualcuno mi offrì una ciotola di vino.
— Hai salvato il campo!
— Hai fermato quei cavalli come se fossi Poseidone in persona!
Persino il capomastro mi guardò con sguardo indulgente. — Quello non era un comportamento da thes — disse, studiandomi attentamente, forse per la prima volta, con i suoi sporgenti occhi da rana. — Perché un guerriero lavora come salariato?
Senza nemmeno pensarci, risposi: — Un dovere che devo compiere. Un dovere nei confronti di un dio.
Si scostarono tutti. I sorrisi si trasformarono in reverente timore. Solo il capomastro ebbe il coraggio di restare fermo davanti a me. Annuì e disse con calma: — Capisco. Bene, il dio deve essere rimasto compiaciuto di te, stamattina.
Io mi strinsi nelle spalle. — Lo vedremo abbastanza presto.
Polete si mise al mio fianco. — Vieni, ti troverò un po’ di fuoco e del buon cibo caldo.
Lasciai che il vecchio cantastorie mi conducesse via.
— Sapevo che non eri un uomo comune — disse mentre passavamo tra le tende e le baracche. — Non uno con le tue spalle. Beh, sei alto quasi quanto il Grande Aiace. Un nobile, mi sono detto. Un nobile, come minimo.
Ciarlò e chiacchierò, dicendomi come le mie azioni apparivano ai suoi occhi, recitando la carneficina di quel giorno come se volesse imprimerla fermamente nella sua memoria per ricordarla in futuro. Tutti i capannelli di uomini che oltrepassavamo ci offrivano un po’ del loro pasto di mezzogiorno. Le donne del campo mi sorridevano. Alcune furono anche abbastanza coraggiose da avvicinarsi a noi e da offrirmi carne fresca e cipolle allo spiedo.
Polete le allontanò tutte. — Preoccupatevi della fame dei vostri padroni — disse brusco. — Bendate le loro ferite e versate su di loro unguenti odorosi. Dategli da mangiare, offritegli vino, e sbattete per loro i vostri occhi da bue!
A me disse: — Le donne sono la causa di tutti i mali del mondo, Orion. Stai attento, con loro.
— Ci sono donne schiave o thetes? — chiesi.
— Non esistono donne thetes. È una cosa mai sentita. Una donna che lavora a salario? Mai sentito.
— Nemmeno prostitute?
— Ah! Nelle città sì, naturalmente. Prostitute del tempio. Ma non sono thetes. Non è affatto la stessa cosa.
— Allora le donne di qui…
— Schiave. Prigioniere. Sorelle e mogli di nemici uccisi, catturate razziando città e campagne.
Raggiungemmo un gruppo di uomini che sedeva intorno a uno dei fuochi più grandi, giù, quasi addosso alle barche incatramate. Alzarono lo sguardo e ci fecero posto. Sulla barca più vicina a noi era stato sospeso un telone per formare una tenda. Davanti, c’era una guardia con l’elmo, con un cane ben curato ai suoi piedi. Fissai la polena decorata dell’imbarcazione, una testa di delfino sogghignante contro lo sfondo blu scuro.
— Il campo di Ulisse — spiegò Polete a bassa voce, mentre ci sedevamo e ci venivano offerte generose scodelle di carne arrosto e calici di vino con il miele. — Questi sono Itacensi.
Lasciò cadere qualche goccia di vino per terra prima di bere, e fece fare lo stesso a me. — Omaggio agli dèi — mi ammaestrò Polete, sorpreso che non conoscessi l’usanza.
Gli uomini si complimentarono con me per l’impresa alla barricata, poi cominciarono a chiedersi quale dio particolare mi avesse ispirato un’azione così eroica. I favoriti erano Poseidone e Ares, anche se Atena era in buona posizione e lo stesso Zeus veniva menzionato ogni tanto. Essendo Greci, cominciarono presto a discutere appassionatamente tra loro senza prendersi il disturbo di chiedere a me.
Io ero ben lieto di lasciarli fare. Ascoltandoli mentre discutevano venni a sapere molto di quella guerra.
Non erano rimasti accampati a Troia per dieci anni, anche se avevano fatto incursioni nella regione ogni estate, per quasi tutto quel tempo. Achille, Menelao, Agamennone e gli altri re guerrieri avevano saccheggiato la costa Egea orientale, bruciando città e prendendo prigionieri, finché finalmente avevano trovato il coraggio, e le forze, per assediare la stessa Troia.
Ma senza Achille, il loro più grintoso combattente, gli uomini pensavano che le loro prospettive fossero incerte. A quanto pareva, Agamennone aveva dato in premio ad Achille una giovane prigioniera e poi se l’era ripresa, e quell’insulto era più di quanto il superbo guerriero potesse sopportare, persino dal Nobile Re.
— La cosa buffa in tutto questo — disse uno degli uomini, gettando un osso di agnello ben rosicchiato ai cani che gironzolavano intorno al nostro cerchio — è che Achille preferisce il suo amico Patroclo a qualunque donna.
Tutti annuirono e mormorarono assensi. La tensione tra Achille e Agamennone non era causata da un partner sessuale; era una faccenda di onore e di orgoglio testardo. Da entrambe le parti, per quanto potevo vedere.
Mentre mangiavamo e parlavamo il cielo divenne più scuro e il tuono rombò dall’entroterra.
— Il Padre Zeus parla dal Monte Ida — disse Polete.
Uno dei soldati di fanteria, con il farsetto di pelle macchiato di schizzi di grasso e di sangue, sorrise verso il cielo nuvoloso. — Forse Zeus ci darà il pomeriggio libero.
— Non si può combattere con la pioggia — fu d’accordo qualcun altro.
E infatti, dopo pochi minuti, cominciò a piovere a dirotto. Ci sparpagliammo in cerca di qualunque riparo potessimo trovare. Polete ed io ci accovacciammo sotto la nave di Ulisse.
— Ora i grandi signori si incontreranno e fisseranno una tregua, in modo che le donne e gli schiavi possano uscire a raccogliere i corpi dei morti. Stanotte quei corpi saranno bruciati e verrà innalzato un tumulo sulle loro ossa. Sospirò. — È così che cominciano le fortificazioni, con un tumulo che copre i resti degli eroi uccisi.
Io mi tirai su a sedere e osservai la pioggia venire giù, trasformando la spiaggia in un pantano e punteggiando il mare di spruzzi. Il vento a raffiche trasportava grigie distese di pioggia attraverso la baia, e si fece così buio e nebbioso che non riuscivo a vedere il promontorio. Faceva freddo, il tempo era opprimente e non c’era nient’altro da fare che aspettare come animali silenziosi finché non fosse tornato il sole.
Mi rannicchiai più vicino che potei alla carena della nave, sentendomi infreddolito e completamente solo. Sapevo di non appartenere a quel tempo e a quel luogo. Ero stato esiliato lì dalla stessa potenza che aveva ucciso il mio amore.
“Servo un dio” avevo detto a quegli ingenui Achei. Sì, ma non volontariamente. Come una povera, stupida creatura che vaga alla cieca in mezzo a una foresta incommensurabile, reagisco a forze al di là della mia comprensione.
“Chi ha ispirato le mie gesta eroiche?” mi chiesi. La figura dorata del mio sogno che chiamava se stesso Apollo? Ma da quello che avevano detto gli uomini dell’accampamento, Apollo appoggiava i Troiani in quella guerra, non gli Achei. Mi ritrovai a temere il sonno. Sapevo che una volta addormentato avrei dovuto affrontare di nuovo quel… dio. Non trovavo un’altra parola per lui.
Improvvisamente mi resi conto che c’era qualcuno in piedi davanti a me. Alzai lo sguardo e vidi un uomo robusto, dal torace possente, con una scura barba brizzolata e uno sguardo sicuro negli occhi. Portava una pelle di lupo attorno alla testa e alle spalle. La pioggia ci picchiava sopra. Indossava una tunica lunga sino al ginocchio e una spada allacciata sul fianco. Schinieri e polpacci erano coperti di fango. I pugni, grandi come martelli, piantati sui fianchi.
— Sei tu quello di nome Orion? — gridò nella pioggia battente.
Io mi alzai in piedi e vidi che ero parecchi centimetri più alto di lui. Nonostante questo, non aveva l’aspetto di un uomo da poter prendere alla leggera.
— Sono Orion.
— Vieni con me — disse brusco, e cominciò a voltarsi.
— Dove?
Voltando la testa mi rispose: — il mio signore Ulisse vuole vedere che razza di uomo è riuscito a fermare il principe Ettore. Adesso muoviti!
Polete aggirò con me la prua della nave, tra i rovesci di pioggia e poi su per una scala di corda sino al ponte.
— Sapevo che Ulisse sarebbe stato l’unico abbastanza saggio da usarti — disse con voce stridula. — Lo sapevo!
— Quale dio servi? — chiese Ulisse. Mi trovavo alla presenza del re di Itaca, che sedeva su uno sgabello di legno, affiancato su entrambi i lati da altri nobili. Non sembrava molto alto; le sue gambe erano tozze ma molto muscolose. Aveva un torace enorme, largo e solido come quello di un uomo che ha nuotato ogni giorno sin da ragazzo. Le braccia erano forti e grosse. Portava sui polsi spesse bande di pelle, e al di sopra del gomito sinistro un bracciale di onice lucidato e di lapislazzuli che brillava persino nella penombra della tenda all’interno della nave. Bianche cicatrici di vecchie ferite risaltavano sulla pelle scura, dividendo i peli neri come sentieri in una foresta.
Aveva un taglio fresco sull’avambraccio sinistro, anche, rosso, da cui usciva ancora un po’ di sangue.
La pioggia batteva contro i teloni, appena qualche centimetro sopra la mia testa. La tenda odorava di cani, di muffa e di umidità. E di freddo. Ulisse portava una tunica senza maniche, ed era a gambe e piedi nudi, ma aveva un vello di pecora buttato sulle larghe spalle.
Sul viso, una folta barba con scuri peli arricciati. C’era solo una traccia di grigio in quella barba. Una pesante massa di riccioli gli scendeva sulle spalle e sulla fronte fin quasi a toccare le sopracciglia nere. Quegli occhi erano grigi come il mare, là fuori in quel pomeriggio piovoso, e sondavano, perquisivano, giudicavano.
Aveva posto la sua domanda nello stesso momento in cui Polete ed io eravamo stati fatti entrare nella sua tenda, senza nessun preliminare o saluto formale.
— Quale dio servi?
— Atena — risposi rapidamente. Non ero sicuro del perché avessi scelto la dea guerriera, tranne per il fatto che Polete aveva detto che favoriva gli Achei contro i Troiani.
Ulisse borbottò e mi fece segno di sedere sull’unico sgabello libero della tenda. Gli altri due uomini che gli sedevano ai lati erano vestiti in modo molto simile al suo. Uno sembrava circa della stessa età di Ulisse, l’altro molto più vecchio. Aveva i capelli e la barba completamente bianchi e le sue membra sembravano essersi ridotte a ossa e tendini. Era avvolto in un mantello blu.
Tutti avevano un aspetto stanco e provato dalla battaglia della mattina, anche se nessuno aveva ferite fresche come il loro re.
Ulisse sembrò notare Polete per la prima volta. — Lui chi è? — chiese indicandolo.
— Il mio amico — dissi io. — Il mio compagno e aiutante.
Lui annuì, accettando il cantastorie. Dietro Polete, appena dentro la tenda e al riparo dalla pioggia scrosciante, c’era l’ufficiale che ci aveva convocato a quell’udienza.
— Ci hai reso un grande servizio stamattina — disse Ulisse. — Un servizio simile deve essere ricompensato.
Il fragile vecchio alla sua destra parlò con una voce sorprendentemente forte e profonda. — Ci hanno detto che sei arrivato come thes a bordo della nave giunta l’altra notte. Eppure stamattina hai combattuto come un uomo nato e allevato da guerriero. Per gli dèi! Mi hai ricordato me stesso quando avevo la tua età! Non conoscevo assolutamente la paura, allora! Ero conosciuto sino a Micene e persino a Tebe! Lascia che te lo dica…
Ulisse sollevò la mano destra. — Per favore, Nestore, ti prego di astenerti dalle reminiscenze per il momento.
Il vecchio sembrò dispiaciuto, ma sprofondò di nuovo nel silenzio.
— Che ricompensa chiederesti? — mi disse Ulisse. — Se posso, sarò lieto di accordartela.
Pensai per mezzo momento soltanto, poi risposi: — Chiedo di divenire guerriero al servizio del Re di Itaca. — Poi, sentendo uno scalpiccio di piedi nudi dietro di me, aggiunsi: — E di avere il mio amico, qui, come mio servitore.
Per vari secondi Ulisse non disse niente, sebbene Nestore assentisse vigorosamente con la testa dalla bianca barba e il guerriero più giovane alla sinistra del re mi sorridesse.
— Siete entrambi thetes senza una casata? — chiese Ulisse.
— Sì.
Si strofinò la barba. Poi un lento sorriso gli si diffuse sul viso. — Allora benvenuti nella casa del re di Itaca. Il tuo desiderio è esaudito.
Non ero sicuro di quello che dovevo fare, finché non vidi Nestore corrugare leggermente la fronte e farmi segno con entrambe le mani, palmi in giù. Mi inginocchiai di fronte a Ulisse.
— Grazie, grande re — dissi, sperando che quello fosse il giusto grado di umiltà. — Ti servirò al meglio delle mie possibilità.
Ulisse tolse il bracciale dal suo bicipite e me lo strinse al braccio. — Alzati, Orion. Il tuo coraggio e la tua forza saranno una gradita aggiunta alle nostre milizie. — All’ufficiale all’entrata della tenda ordinò: — Antiloco, fai in modo che si procuri degli abiti decenti; e armi.
Poi mi fece un segno di congedo con il capo. Io mi voltai. Polete mi sorrideva raggiante. Antiloco, con il cappuccio di lupo ancora gocciolante, mi guardò come per misurarmi, non per i vestiti, ma come lottatore.
Mentre lasciavamo la tenda e uscivamo di nuovo nella pioggia scrosciante, potei sentire la voce vibrante di Nestore.
— Molto abile da parte tua, Ulisse! Portandolo fra la tua gente ti sei guadagnato il favore di Atena che lui serve. Io stesso non avrei potuto fare una mossa più saggia, anche se ai miei tempi ho dovuto prendere delle decisioni molto delicate, lascia che te lo dica. Ricordo quando i pirati Dardani razziavano la costa del mio regno e nessuno sembrava capace di fermarli, dopo che la flotta del re Minosse era stata distrutta dal grande maremoto. Allora, i pirati avevano catturato un mercantile che trasportava un carico di rame da Cipro. Una fortuna, valeva, perché sai che non si può fabbricare il bronzo senza il rame. Nessuno sapeva cosa fare! Il rame era…
La sua voce, pur forte com’era, fu infine sommersa dalla pioggia pesante e dal lamento del vento.
Antiloco ci fece oltrepassare varie imbarcazioni itacensi sino a una baracca di assi legate insieme e poi spalmate dello stesso catrame nero con cui erano state stuccate le navi. Era la costruzione più vasta che avessi visto nell’accampamento, grande abbastanza da contenere quasi due dozzine di uomini, calcolai approssimativamente. C’era solo una porta d’entrata, bassa e con un telone inchiodato sopra per tenere fuori la pioggia e il vento.
All’interno, il capanno era una combinazione di magazzino e armeria che fece fischiare Polete di meraviglia. C’erano i carri, rovesciati, con le ruote per aria, mucchi di elmi e corazze ordinatamente accatastati lungo una delle pareti, rastrelliere di lance, spade e archi in fila su un’altra, e ceste piene di indumenti e coperte lungo la parete posteriore.
— Quanta roba — disse Polete ammirato.
Antiloco, che non era molto dotato di senso dell’umorismo, sogghignò. — Sono le spoglie degli uccisi.
Polete annuì e sussurrò: — Così tante.
Un vecchio rugoso si fece avanti sul pavimento sabbioso da dietro un tavolo pieno di tavolette d’argilla.
— Cosa c’è adesso? Non ho già abbastanza da fare senza che tu mi porti degli estranei? — si lamentò. Era un vecchio scontroso, magro e con un’espressione acida, le mani nodose e contorte come artigli, la schiena curva.
— Ho uno nuovo per te, scriba. Il mio signore Ulisse vuole che sia propriamente equipaggiato. — E con questo, Antiloco si voltò e sparì attraverso la bassa apertura del capannone.
Lo scriba avanzò trascinando i piedi arrivando abbastanza vicino da toccarmi, e mi scrutò con gli occhi socchiusi. — Grande come un toro cretese! Come ci si aspetta che io trovi dei vestiti adatti ad uno della tua taglia?
Borbottò e mugugnò mentre conduceva Polete e me dietro tavoli coperti di corazze di bronzo, placche per le braccia, schinieri, ed elmi piumati. Io mi fermai e presi un elmo.
— Quello no! — strillò lo scriba. — Questi non sono per quelli come te!
Affondò una delle sue mani simili ad artigli nel mio avambraccio e mi trascinò verso un mucchio di indumenti buttati per terra vicino all’entrata del capannone.
— Ecco — disse. — Guarda cosa riesci a trovare tra questi.
Mi ci volle un po’, ma infine mi infilai una tunica di lino macchiata, un gonnellino di pelle che mi arrivava alle ginocchia e un corpetto di pelle senza maniche che non mi era tanto stretto di spalle da impedirmi i movimenti. Mentre lo scriba aggrottava le sopracciglia e borbottava, mi accertai che Polete trovasse una tunica e una camicia di lana. Come armi presi una semplice spada corta e mi legai un pugnale alla coscia destra, sotto il gonnellino. Non avevano metalli preziosi o gemme nell’impugnatura, anche se la traversa di bronzo della spada aveva un complicato disegno a intaglio.
Lo scriba non riuscì a trovare nessun tipo di elmo che mi andasse bene, così infine ci accordammo su un mantello con un cappuccio di maglia di bronzo. Sandali e schinieri con borchie di bronzo completarono il mio abbigliamento, anche se le dita dei piedi mi sporgevano notevolmente oltre il bordo dei sandali.
Lo scriba oppose una violenta resistenza, ma io insistetti nel prendere due coperte per ciascuno. Strillò e discusse e minacciò che avrebbe fatto chiamare il re in persona per dirgli che razza di sprecone fossi. Fu solo quando lo sollevai da terra afferrandolo con una sola mano che si azzittì e mi lasciò prendere le coperte. Ma il suo cipiglio avrebbe fatto coagulare il latte.
Quando lasciammo il capannone la pioggia era cessata e il sole che calava a occidente stava rapidamente asciugando la spiaggia. Polete tornò verso il fuoco, dall’uomo con il quale avevamo diviso il pasto di mezzogiorno. Mangiammo di nuovo, bevemmo vino e stendemmo le coperte che c’eravamo appena procurati per prepararci a dormire.
Allora Polete cadde sulle sue ginocchia ossute e mi afferrò la mano destra con entrambe le sue, tenendola stretta, con una forza che non avrei mai immaginato in lui.
— Orion, mio padrone, mi hai salvato la vita due volte, oggi.
Io volevo liberare la mano.
— Hai salvato l’intero accampamento dalla lancia di Ettore e in più mi hai liberato da una vita di miseria e di vergogna. Ti servirò sempre, Orion. Ti sarò sempre grato per aver mostrato una pietà così grande nei confronti di un povero vecchio cantastorie.
Mi baciò la mano. Mi chinai e lo sollevai prendendolo per le fragili spalle.
— Povero vecchio ciarlone — dissi piano — sei il primo uomo che abbia mai visto tanto grato di diventare schiavo.
— Il tuo schiavo, Orion — mi corresse lui. — Sono felice di esserlo.
Io scossi la testa, incerto su cosa fare o dire. Infine borbottai: — Be’, dormi un po’.
— Sì. Certo. Che Phantasos possa concederti sogni lieti.
Io non volevo chiudere gli occhi. Non volevo sognare il Creatore che chiamava se stesso Apollo, sempre che il mio incontro con lui potesse essere chiamato sogno.
Mi sdraiai sulla schiena fissando il nero trapunto di stelle, chiedendomi verso quale di quelle la nostra nave stesse allora viaggiando, e se la luce della sua esplosione sarebbe stata mai vista nei cieli notturni della Terra. Vidi di nuovo il viso di lei, bello più di quanto si potesse credere, con i capelli neri che brillavano, gli occhi grigi luccicanti di desiderio.
L’aveva uccisa lui, lo sapevo. Il Radioso. Apollo. L’aveva uccisa e ne dava a me la colpa. Aveva ucciso lei ed esiliato me in quel tempo primitivo. L’aveva uccisa, ma aveva salvato me per il suo personale divertimento.
— Orion? — sussurrò una voce.
Mi tirai su a sedere e automaticamente allungai una mano verso la spada che si trovava per terra vicino a me.
— Il re ti vuole. Era Antiloco, in ginocchio al mio fianco.
Saltai in piedi, afferrando la spada. Era notte fonda, e la luce del fuoco morente era appena sufficiente perché potessi riconoscere il viso dell’uomo.
— È meglio che porti l’elmo, se ne hai uno — disse Antiloco.
Mi chinai e presi il mantello di maglia di metallo. Polete aprì gli occhi.
— Il re vuole parlarmi — dissi al vecchio. — Torna a dormire.
Lui sorrise e si rannicchiò felice nelle coperte.
Io seguii Antiloco tra i corpi addormentati dei nostri compagni sino alla prua della nave di Ulisse.
Come sospettavo, il re era molto più basso di me. Il pennacchio del suo elmo mi arrivava a malapena al mento. Mi fece un cenno di saluto con il capo e disse semplicemente: — Seguimi, Orion.
Tutti e tre camminammo silenziosamente nell’accampamento addormentato sino alla cima del bastione, non lontano dalla porta dove io mi ero guadagnato il loro rispetto quella mattina. C’erano soldati di guardia lassù, con le lunghe lance strette in mano che scrutavano nervosamente il buio. Al di là dell’ombra color inchiostro della trincea la pianura era punteggiata di fuochi troiani.
Ulisse emise un sospiro che sembrò spaccargli il torace. — Il principe Ettore occupa la pianura, come puoi vedere. Domani i suoi eserciti distruggeranno le fortificazioni e tenteranno di irrompere nel nostro accampamento e bruciare le nostre navi.
— Possiamo trattenerli? — chiesi.
— Decideranno gli dèi, una volta che il sole sarà sorto.
Io non dissi nulla. Sospettavo che Ulisse stesse cercando di escogitare un piano che influenzasse gli dèi in suo favore.
Una forte voce da tenore chiamò dal buio sotto di noi. — Ulisse, figlio di Laerte, stai contando i fuochi troiani?
Ulisse sorrise cupamente. — No, Grande Aiace. Sono troppi perché qualunque uomo riesca a contarli.
Mi fece un cenno e scendemmo di nuovo nell’accampamento. Aiace era davvero un gigante tra quegli uomini. Torreggiava su di loro e superava persino me di un centimetro o due. Aveva anche le spalle larghe e le sue braccia erano grosse come tronchi di giovani alberi. Stava a testa scoperta sotto le stelle con indosso soltanto una tunica e una veste di pelle. Il suo viso era largo, con gli zigomi alti e un piccolo naso schiacciato. La sua barba era rada, quasi stentata, non fitta e riccioluta come quella di Ulisse e degli altri condottieri. Con un po’ di sorpresa mi accorsi che il Grande Aiace era molto giovane, e probabilmente non doveva avere più di diciannove o vent’anni.
Vicino a lui c’era un uomo molto più vecchio, con i capelli e la barba bianchi, avvolto in un mantello scuro.
— Ho portato Fenice con me — disse il Grande Aiace. — Forse può convincere Achille meglio di quanto possiamo noi.
Ulisse fece un cenno di approvazione.
— Ero suo tutore quando Achille era un ragazzo — disse Fenice con voce leggermente roca. — Era orgoglioso e suscettibile sin da allora.
Aiace si strinse nelle sue spalle massicce. Ulisse disse: — Bene, proviamo a convincerlo a unirsi di nuovo all’esercito.
Ci dirigemmo verso la parte estrema dell’accampamento, dove erano tirate in secco le navi di Achille. Una mezza dozzina di uomini armati seguiva i tre nobili, e io mi ci ritrovai in mezzo. Il vento soffiava dal mare, freddo e tagliente come un coltello. Quasi invidiai a Polete le coperte in cui si era avvolto, e cominciai a domandarmi perché non avessi preso anche dei mantelli dal vecchio e avaro scriba.
Una volta entrati nella parte di accampamento di Achille, oltrepassammo numerose sentinelle, con gli elmi allacciati stretti e le lance pronte. Indossavano mantelli che il vento faceva svolazzare e gonfiare intorno alle loro corazze di bronzo. Riconobbero il gigantesco Aiace e il tozzo ma potente re di Itaca, naturalmente, e lasciarono passare il resto di noi senza contestazioni.
Infine fummo fermati da un paio di guardie le cui armature luccicavano anche nella debole luce stellare, a pochi metri da una grande baracca di assi.
— Siamo una delegazione del Sommo Re — disse Ulisse, con la voce profonda e grave di formalità — mandati a visitare Achille, principe dei Mirmidoni.
La sentinella salutò battendosi il pugno sul cuore e disse: — Il principe Achille vi stava aspettando e vi dà il benvenuto.
Fece un passo di lato e ci indicò la porta della baracca.
Potente guerriero che fosse, a quanto pareva Achille si godeva i suoi piaceri di creatura mortale. L’interno della costruzione era drappeggiato di ricchi arazzi, e il pavimento coperto di folti tappeti. Divani e cuscini erano sparpagliati nella stanza spaziosa. In un angolo, un focolare era rosso di braci che tenevano lontano il freddo e l’umidità. Potevo sentire il vento che gemeva attraverso il buco nel tetto, ma l’interno era ragionevolmente caldo e confortevole.
Tre donne stavano sedute vicino al fuoco fissandoci con grandi occhi scuri. Erano magre e giovani, vestite modestamente con camicie senza maniche. C’erano pentole di rame e ferro su un tripode posto sul focolare e ne uscivano deboli sbuffi di vapore. Sentii il profumo di carne speziata e di aglio.
Achille sedeva su un largo divano appoggiato alla parete di fondo della baracca, dando le spalle a un magnifico arazzo che rappresentava una cruenta scena di battaglia. Il divano era su un palco, sollevato dal pavimento come il trono di un re.
Di primo acchito, il grande guerriero fu una sorpresa. Non era un gigante dai muscoli vigorosi come Aiace. Non era robusto e possente, come Ulisse. Sembrava piccolo, quasi come un ragazzino, con le gambe e le braccia nude, magre e praticamente senza peli. Aveva il mento completamente rasato, e i riccioli dei suoi lunghi capelli neri erano raccolti in alto in una maglia d’argento. Indossava una splendida tunica di seta bianca, bordata da un disegno geometrico purpureo, tenuta stretta in vita da una cintura di mezzelune d’oro incastrate l’una nell’altra.
Non portava armi, ma dietro di lui si allineava una mezza dozzina di lance, a portata di mano.
Il suo viso fu lo shock più grande. Brutto, quasi al punto di essere grottesco. Occhi piccoli e tondi, labbra piegate in un perpetuo atteggiamento di stizza, un affilato naso a becco, la pelle pustolosa e butterata. Nella mano destra teneva stretta una coppa di vino tempestata di pietre preziose; mi sembrò che vi avesse già attinto più di una volta.
Ai suoi piedi sedeva un giovane assolutamente bellissimo, che fissava non noi, ma Achille. Era Patroclo, lo sapevo senza bisogno che mi fosse detto. I suoi capelli fittamente arricciati erano di un castano rossastro, anziché del solito tono più scuro dei Greci. Mi chiesi se fosse il suo colore naturale.
Come Achille, anche Patroclo non aveva la barba. Ma sembrava giovane abbastanza da non aver bisogno di radersi. Sul tappeto vicino a lui c’era una brocca d’oro per il vino.
Guardai di nuovo Achille e capii quali demoni ne facevano il più grande guerriero della sua epoca. Un ragazzo piccolo e brutto nato da un re. Un ragazzo destinato a un certo ruolo, ma sempre oggetto di scherno e derisione dietro alle spalle. Un giovane posseduto da un fuoco capace di zittire le risate, di soffocare lo scherno. Le sue gambe e le sue braccia magre erano dure come il ferro, nodose di muscoli, i suoi occhi assolutamente privi di umorismo. Non avevo alcun dubbio che potesse sconfiggere Ulisse e persino il possente Aiace con la pura e semplice forza di volontà, da solo.
— Salve, o sempre audace Ulisse — disse con una calma, chiara voce da tenore in un tono vicino alla presa in giro. — E a te, Fenice, mio beneamato maestro.
Io guardai il vecchio. Si chinò verso Achille, ma i suoi occhi erano sul bellissimo Patroclo.
— Noi ti portiamo i saluti, principe Achille — disse Ulisse — del nobile re Agamennone.
— Di colui che rompe gli accordi, vuoi dire — rispose Achille brusco. — Agamennone il ladro di doni.
— Egli è il nostro Sommo Re — continuò Ulisse, con un tono che suggeriva vagamente che tutti loro erano legati ad Agamennone e che la cosa migliore da fare era cercare di lavorare con lui.
— Infatti lo è — ammise Achille. — E assai amato dal Padre Zeus, ne sono sicuro.
Potevo vedere che sarebbe stato un incontro difficile.
— Forse i nostri ospiti hanno fame — suggerì Patroclo con voce dolce.
Achille gli scompigliò la massa di capelli ricciuti. — Sempre premuroso.
Ci offrì da sedere e disse alle donne di portare per noi cibo e vino. Ulisse, Aiace e Fenice presero posto sui divani sistemati vicino al palco di Achille. Patroclo riempì le loro coppe con la brocca d’oro. Noi subalterni sedemmo per terra, vicino all’entrata. Le donne passarono tra noi con vassoi di agnello arrostito e cipolle, e ci riempirono le coppe di legno di vino speziato misto a miele.
Dopo un giro di brindisi e di motteggi educati, Achille disse: — Credo di aver sentito il potente Agamennone piangere come una donnicciola, stamattina. Si lascia andare alle lacrime abbastanza facilmente, non è vero?
Ulisse si accigliò leggermente. — Il nostro re è stato ferito, stamattina. Un codardo arciere troiano l’ha colpito alla spalla sinistra.
— Mi dispiace — disse Achille. — Vedo che anche tu non te la sei cavata senza ferite, nella battaglia di oggi. Ti sei messo a piangere?
Aiace si intromise violentemente.
— Achille, se Agamennone piange non è per dolore o paura. È per vergogna! Vergogna che i Troiani ci tengano rinchiusi nel nostro accampamento. Vergogna che il nostro migliore combattente se ne stia seduto qui su un morbido divano mentre i suoi compagni vengono massacrati da Ettore e dalle sue truppe!
— Vergogna è ciò che dovrebbe provare! — gli gridò in risposta Achille. — Mi ha derubato! Mi ha trattato come uno schiavo e anche peggio. Chiama se stesso il Sommo Re ma si comporta come un ruffiano dedito al furto!
E andò avanti così. Achille era furioso con Agamennone perché si era ripreso il premio con cui l’aveva ricompensato, una qualche ragazza prigioniera. Asseriva di essere stato lui a portare il peso di tutto il combattimento, dato che Agamennone era un codardo, ma che dopo la vittoria il Nobile Re aveva distribuito il bottino a suo piacimento, e anche in seguito si era rifiutato di dargli quello che Achille sentiva come dovutogli.
— Ho saccheggiato più città e portato agli Achei più prigionieri e bottino di qualunque altro qui, e nessuno di voi può dire che non è vero — insistette con calore. — Nonostante questo, quel grasso maiale lardoso può rubarmi le meritate ricompense e voi, tutti voi, glielo lasciate impunemente fare! Qualcuno di voi si è forse schierato in mia difesa in consiglio? Pensate che vi debba qualcosa? Perché dovrei combattere per voi quando non alzate nemmeno la voce in mio favore?
Patroclo cercò di calmarlo, ma senza molto successo. — Achille, questi uomini non sono tuoi nemici. Sono venuti qui in missione di pace. Non si addice al padrone di casa gridare in questo modo contro i suoi ospiti.
— Lo so — rispose Achille, quasi sorridendo al giovane. — Non è colpa vostra — disse a Ulisse e agli altri. — Ma scenderò all’Ade prima di aiutare di nuovo Agamennone. Non è degno di fiducia. Dovreste pensare a nominarvi un altro capo.
Ulisse parlò con accortezza, lodando il valore di Achille in battaglia, minimizzando i fallimenti e le manchevolezze di Agamennone. Aiace, brusco e diretto come un badile, disse chiaramente al principe che stava aiutando i Troiani ad assassinare gli Achei. Il vecchio Fenice fece appello al senso dell’onore del suo antico studente e gli recitò paternali da bambino.
Achille rimase imperturbabile. — Onore? — disse brusco a Fenice. — Che genere di onore mi sarebbe rimasto se mettessi di nuovo la mia lancia al servizio dell’uomo che mi ha derubato?
Ulisse disse: — Possiamo farti riavere la ragazza, se è questo che vuoi. Possiamo procurarti dozzine di ragazze.
— O di ragazzi — aggiunse Aiace. — Qualunque cosa tu voglia.
Achille si alzò in piedi, e Patroclo si affrettò a mettersi al suo fianco. Avevo ragione, era terribilmente basso, anche se ogni centimetro del suo corpo trasudava vigore. Persino l’esile Patroclo lo superava di qualche centimetro.
— Difenderò le mie navi quando Ettore invaderà l’accampamento. — disse Achille. — Finché Agamennone non verrà personalmente a scusarsi e non mi pregherà di riunirmi all’esercito, questo è tutto ciò che farò.
Ulisse si alzò, rendendosi conto che eravamo stati congedati. Fenice si mise in piedi e, dopo essersi guardato intorno, Aiace finalmente capì e si alzò anche lui.
— Cosa diranno di Achille i poeti delle future generazioni? — chiese Ulisse, scoccando la sua ultima freccia all’orgoglio del guerriero. — Che se ne stava accigliato nella sua tenda mentre i Troiani massacravano i suoi amici?
Il colpo rimbalzò su Achille senza penetrarlo. — Non diranno mai che mi sono umiliato e che ho gettato via il mio onore servendo un uomo che mi aveva mortificato.
Ci dirigemmo verso la porta, con educate e formali parole di saluto. Fenice rimase indietro e io sentii Achille invitare il suo antico mentore a restare per la notte.
Fuori, Aiace scosse la testa stancamente. — Non c’è niente che possiamo fare. Non vuole proprio darci ascolto.
Ulisse gli batté la mano sulle larghe spalle. — Abbiamo fatto del nostro meglio, amico mio. Ora dobbiamo prepararci per la battaglia di domani. Senza Achille.
Aiace sparì arrancando nel buio, seguito dai suoi uomini. Ulisse si voltò verso di me, con uno sguardo pensieroso.
— Ho un compito da affidarti — disse. — Se avrai successo potrai mettere fine alla guerra.
— E se non lo avrò?
Ulisse sorrise e mi mise una mano sulla spalla. — Nessun uomo vive in eterno, Orion.
Meno di un’ora dopo mi ritrovai a percorrere la rampa sulla trincea di fronte alle nostre fortificazioni, diretto verso il campo troiano. Un pezzo di tela bianca annodata sopra il mio gomito sinistro indicava che stavo operando sotto una bandiera di tregua. Un sottile rametto di salice nella mia mano sinistra era il simbolo inconfondibile del messaggero.
— Questi dovrebbero farti passare al di là delle sentinelle troiane senza farti tagliare la gola — mi aveva detto Ulisse. Non sorrideva mentre diceva quelle parole, e io non trovai le sue rassicurazioni molto tranquillizzanti.
— Raggiungi il principe Ettore e parla solo con lui — mi aveva ordinato. — Digli che Agamennone gli offre una soluzione a questa guerra: se i Troiani restituiranno Elena al suo consorte legittimo, gli Achei se ne torneranno nelle loro terre, soddisfatti.
— Non è già stata fatta, quest’offerta? — avevo domandato.
Ulisse aveva sorriso alla mia ingenuità. — Certo. Ma sempre con la pretesa di un enorme riscatto, più tutta la fortuna che Elena ha portato con sé. E sempre mentre si combatteva sotto le mura di Troia. Priamo e i suoi figli non avrebbero mai creduto che noi avremmo tolto l’assedio senza irrompere nella città e saccheggiarla. Ma ora che è Ettore ad assediare noi, forse crederanno che siamo pronti ad andarcene, e che abbiamo solo bisogno di un compromesso per salvare la faccia per metterci a fare i bagagli.
— La restituzione di Elena non è niente di più che un compromesso per salvare la faccia? — avevo chiesto senza riflettere.
Uno sguardo curioso. — È solo una donna, Orion. Pensi che Menelao se ne sia stato in clausura, da quando la cagna è fuggita con Alessandro?
L’avevo sbirciato di sottecchi, così colpito dal suo atteggiamento da non sapere cosa rispondere. Mi domandavo però se Ulisse la pensasse allo stesso modo su sua moglie, che lo aspettava a Itaca.
Ulisse mi aveva fatto ripetere le istruzioni e poi, soddisfatto, mi aveva condotto sulla cima del bastione, non lontano da dove mi ero guadagnato la gloria la mattina prima. Nella luce argentata della luna si era alzata la nebbia, trasformando la pianura in una distesa di vapore che tremolava, alzandosi e riabbassandosi lentamente come un respiro. Qua e là si poteva cogliere il bagliore dei fuochi troiani, come deboli stelle lontane nella nebbia che avvolgeva ogni cosa.
— Ricorda — aveva ripetuto Ulisse — devi parlare con il principe Ettore e nessun altro.
Scesi lungo il pendio del bastione, sino alle ombre color inchiostro della trincea, e infine mi diressi verso l’accampamento troiano tra i meandri di nebbia che si spostavano lentamente, guidato dai fuochi che palpitavano e brillavano attraverso la nebbia. La bruma era fredda sulla mia pelle, come il tocco della morte.
Scrutando nella foschia resa argentea dalla luna, vidi un fuoco più grande, più luminoso degli altri. “È lì che deve essere la tenda di Ettore” pensai. Mi diressi da quella parte, teso per la paura che una sentinella mi desse l’altolà da un momento all’altro. Almeno speravo che mi si desse l’altolà e non di venire semplicemente trafitto nel buio senza nessuna domanda. I miei sensi erano più che vigili; sapevo che avrei potuto sentire il rumore di una daga che veniva sguainata dal fodero, o vedere un’ombra avvicinarsi furtivamente alle mie spalle. Ma non sentivo e non vedevo niente. Era come se la nebbia avesse avvolto l’intero campo, attutito ogni suono, mummificato ogni uomo tranne me.
Il fuoco sembrava crescere, come se qualcuno lo stesse alimentando per trasformarlo da un fuoco da campo morente in un grande segnale di benvenuto. Ma non tremolava più come un fuoco. Era un luminoso bagliore continuo, che diventava ogni momento più brillante. Presto fu tanto luminoso che dovetti portarmi il braccio sulla fronte per ripararmi gli occhi dalla sua bruciante intensità. Non sentivo provenirne nessun calore, ma il suo splendore esercitava una qualche strana forza su di me. Mi sentii come compresso da quel bagliore accecante, forzato a mettermi in ginocchio davanti alla sua dorata, insostenibile radiosità.
Poi sentii la risata di un uomo, e seppi subito chi era.
— In piedi, Orion! — disse il Radioso. — O ti piace strisciare come un verme?
Mi rialzai lentamente. Il Radioso era immerso in una tiepida luminescenza che sembrava separarlo dalla pianura avvolta nella nebbia. Rimaneva notte, al di là di noi. Nessuno si muoveva, nell’accampamento. Nessuna sentinella ci vide o ci sentì.
— Orion — disse lui con il suo sorriso beffardo — in qualche maniera trovi continuamente modo di dispiacermi. Hai salvato l’accampamento acheo.
— Questo ti dispiace? — chiesi.
Si sfregò il mento, un gesto stranamente umano in un essere tanto simile a un dio come lui. — Come Apollo, il dio del sole, colui che porta luce e bellezza a questa gente, cerco la vittoria dei Troiani su questi barbari dell’Acaia.
— E gli altri… — cercai a tentoni una parola, mi decisi — dèi? Non tutti favoriscono Troia, vero?
Il suo sorriso scomparve.
— Ce ne sono altri — dissi io, — esseri simili a dèi come te?
— Ci sono — ammise lui.
— Più grandi di te? C’è uno Zeus, un Poseidone?
— Ci sono vari… esseri come me, Orion — rispose lui, agitando una mano vagamente. — I nomi con cui li chiamano questi primitivi sono irrilevanti.
— Ma sono più potenti di te? C’è uno Zeus? Un re, tra voi?
Lui rise. — Stai cercando un modo per combattere contro di me!
— Sto tentando di capire chi e cosa sei — dissi. Il che era vero, fino a quel momento.
Il Radioso mi guardò attentamente, quasi con cautela. — Molto bene — disse infine — se vuoi vedere qualcuno degli altri…
E gradualmente, come una nebbia notturna che si dissolve lentamente sotto il sole del mattino, vidi delle immagini cominciare a formarsi tutt’intorno a me. Emersero lentamente, si materializzarono, presero solidità e colore. Donne e uomini vivi, che respiravano, mi circondavano, mi scrutavano dall’alto, mi ispezionavano come uno scienziato potrebbe fare con una specie di insetto o di batterio.
— Questo è impetuoso — disse uno di loro con una profonda voce da dio.
— È una mia creatura — ribatté il Radioso. — Posso controllarlo.
Sì, pensai. Puoi controllarmi. Ma un giorno il controllo ti sfuggirà.
Potevo vedere dozzine di facce che mi studiavano. Belle donne dalla pelle perfetta e dagli occhi che luccicavano come gioielli e uomini che irradiavano giovinezza eppure parlavano con la gravità e la sapienza di millenni, di eoni, dell’eternità stessa.
Io mi sentivo come un ragazzino in mezzo ad adulti enormemente più saggi, come un bambino a confronto con i giganti.
— L’ho portato qui dalla pianura di Ilio — disse il Radioso, quasi sfidandoli a lamentarsi.
— Sei diventato più audace — disse quello che aveva parlato prima. Era scuro di occhi e di capelli, solenne come un’alta montagna rocciosa. Pensai a lui come a Zeus, anche se non teneva stretti in mano fulmini baluginanti e la sua barba era tagliata corta e appena toccata di grigio.
Il Radioso rise spensieratamente.
Io frugai in quel cerchio di grandi visi senza sorriso, cercandone uno che mi fosse familiare, la dea che avevo amato, o anche l’oscuro Ahriman a cui avevo dato la caccia. Non vidi nessuno dei due.
Una delle donne parlò: — Intendi ancora permettere ai Troiani di vincere la guerra?
Il Radioso le sorrise. — Sì, anche se questo non ti fa piacere.
— I Greci hanno molto da offrire alle tue creature — disse lei.
— Bah! Barbari!
— Non saranno sempre così. Con il tempo costruiranno una splendida civiltà… se glielo permetterai.
— La civiltà di Troia sarà ancora più splendida, te lo prometto — disse lui scuotendo la chioma dorata.
— Ho studiato le traiettorie temporali — disse uno dei maschi. — Si dovrebbe permettere ai Greci di vincere.
— No! — gridò il Radioso. — Al diavolo le traiettorie temporali! Sto creando una nuova traiettoria qui, una che potrebbe soddisfare tutti noi se solo voi non interferiste con i miei piani.
— Abbiamo diritto di manipolare queste creature quanto te — disse la donna. — Ho davvero molto poca fiducia nei tuoi piani.
— Perché non capisci — insistette il Radioso. — Io voglio che Troia vinca perché Troia, allora, diventerà il punto più importante di questa fase della storia umana. La città si trasformerà in un potente impero che si estenderà dall’Europa all’Asia. Pensaci! L’energia e il vigore degli Europei combinati con la saggezza e la pazienza dell’Oriente. La ricchezza di entrambi i mondi sarà riunita in una sola, l’impero Iliaco unificato si estenderà dalle Isole Britanniche al subcontinente Indiano!
— Che vantaggi porterà? — chiese uno degli altri uomini. Come gli altri, era attraente quanto un viso umano può esserlo, perfetto in ogni dettaglio. — Le tue creature dovranno sempre affrontare la crisi finale. L’unità fra loro può essere meno desiderabile di un po’ di sana competitività.
— Sì — disse la donna. — Ricordo la traiettoria dominata dall’uomo di Neanderthal che hai fatto distruggere da questa creatura. Hai finito quasi col distruggere anche tutti noi.
Il Radioso mi guardò di traverso. — Quello è stato un errore che non si ripeterà.
— No, non con Ahriman e le sue tribù in salvo nel loro continuum.
— Quella è una faccenda conclusa e noi siamo sopravvissuti alla crisi — disse quello che io chiamavo Zeus. — La questione, adesso, è cosa si deve fare riguardo il punto particolare di Troia.
— Troia deve vincere — insistette il Radioso.
— No, i Greci dovrebbero.
— I Troiani vinceranno — dichiarò il Radioso seccamente. — Vinceranno perché io li farò vincere.
— In modo che tu possa creare questo impero di Ilio che sembra ti stia tanto a cuore — disse Zeus.
— Esattamente.
— Perché è così importante? — chiese la donna.
— Unificherà tutta l’Europa e buona parte dell’Asia — rispose lui. — Non ci sarà alcuna separazione tra Est e Ovest, nessuna dicotomia nello spirito umano. Nessun Alessandro il Macedone con la sua avidità semibarbara, nessun Impero Romano, nessuna Costantinopoli a fare da barriera tra l’Asia e l’Europa. Niente Cristianesimo e Islam a combattere la loro guerra di venti secoli l’uno contro l’altro.
Gli altri ascoltavano e cominciarono ad annuire. Tutti tranne la donna scettica e quello che io chiamavo Zeus.
“È un gioco per loro” mi resi conto. — Stanno manipolando la storia umana così come un giocatore di scacchi muove i pezzi sulla scacchiera. E se una civiltà viene completamente distrutta, per loro ha la stessa importanza di un pedone sacrificato o di una torre mangiata e tolta dalla scacchiera.
— Fa davvero tanta differenza? — chiese un uomo dai capelli scuri.
— Certo che ne fa! — rispose il Radioso. — Io tento di unificare la razza umana, di portare le molte sfaccettature delle mie creature all’armonia e all’unità…
— In modo che possano aiutarci ad affrontare la crisi finale — disse Zeus quasi in un sussurro.
Il Radioso annuì. — Questo è il mio obiettivo. Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto che riusciamo a trovare.
— Non sono sicuro che il tuo sia il metodo migliore — continuò Zeus.
— Io sono certa che non lo è — disse la donna.
— Io procederò sia che voi approviate o no — replicò il Radioso. — Queste creature sono mie e io le farò arrivare al punto in cui potranno davvero esserci d’aiuto.
Gli altri del cerchio mormorarono e annuirono o scossero la testa. Non c’era unanimità fra loro. Mentre osservavo, cominciarono a svanire, a tremolare e a dissolversi finché solo io e il Radioso restammo l’uno di fronte all’altro, nel bagliore che tutto pervadeva di quel luogo senza ubicazione, senza tempo, in un mondo che non conoscevo.
— Bene, Orion, hai incontrato gli altri. Alcuni di loro, almeno.
— Tu parli di noi come delle tue creature — dissi. — Hanno creature proprie anche gli altri?
— Alcuni sì. Altri sembrano più interessati a intromettersi negli affari delle mie che a crearsi le proprie.
— Allora… gli uomini e le donne della Terra… li hai creati tu?
— Tu sei stato uno dei primi, Orion — rispose lui. — E poi in un certo senso, voi avete creato noi.
— Cosa? Non capisco.
— Come potresti?
— Tu hai creato la razza umana in modo che noi possiamo aiutarvi — dissi, ripetendo quello che avevo sentito.
— Alla fine, sì.
— Ma mentre gli altri credono che porterai noi umani in loro aiuto, tu in effetti progetti di farti aiutare da noi contro di loro — mi resi conto.
Lui mi fissò.
— E questo farà di te il più potente degli dèi, non è così?
Lui esitò un momento prima di rispondere. — Io sono il più potente di tutti i Creatori, Orion. Gli altri possono non riconoscere questo fatto, ma è così.
In quel momento sentii le mie labbra incresparsi in un sorriso sardonico.
Lui conosceva i miei pensieri. — Credi che lo faccia per mania di grandezza? Per sete di guerra tra le creature che io stesso ho creato? — Scosse la testa tristemente. — Quanto poco capisci. Hai un grande desiderio che i tuoi sandali ti adorino, Orion? È necessario per la tua felicità che la tua spada o il coltello nascosto sotto il tuo gonnellino proclamino che tu sei il più grande padrone che abbiano mai conosciuto?
— Non capisco…
— Come potresti? Come potresti anche solo immaginare le conseguenze con cui io mi trovo a dover combattere? Orion, io ho creato la razza umana per necessità, in effetti, ma non per la necessità di essere adorato! Gli universi sono vasti, Orion, e pieni di pericoli. Io cerco di proteggere il continuum, di evitargli di essere lacerato da forze che tu non potresti nemmeno concepire. Mentre gli altri esitano e litigano, io agisco. Io creo. Io ordino!
— E per raggiungere il tuo scopo è necessario che Troia vinca questa guerra?
— Sì!
— Ed era anche necessario distruggere la nave stellare che stavamo guidando? Necessario uccidere la donna che amavo? La donna che mi amava?
Per un attimo mi guardò allarmato. — Te ne ricordi?
— Ricordo la nave stellare. L’esplosione. Lei è morta tra le mie braccia. Tutti e due siamo morti.
— Io ti ho resuscitato. Ti ho riportato alla vita.
— E lei?
— Lei era una dea, Orion. Io posso resuscitare solo le creature che io stesso ho creato.
— Se era una dea, com’è potuta morire?
— Gli dèi possono morire, Orion. I racconti sulla nostra immortalità sono piuttosto esagerati. Come le pie illusioni sulla nostra bontà e misericordia.
Sentivo il cuore battermi nel petto, il sangue rimbombarmi nelle orecchie. La mia testa ondeggiava. Odiavo quell’uomo, quel sedicente dio dorato, quell’assassino. Lo odiavo con ogni fibra del mio essere. Dichiara di avermi creato, mi dissi. Eppure io lo distruggerò.
— Non volevo ucciderla, Orion — disse lui, e suonava quasi sincero. — La cosa era al di là del mio controllo. Lei ha scelto di rendersi umana. Per amor tuo, Orion. Conosceva i rischi e li ha accettati per amor tuo.
— Ed è morta. — Una rabbia omicida bruciava dentro di me. Eppure quando provai a fare un passo verso di lui, scoprii che non potevo muovermi. Ero congelato, immobilizzato, incapace persino di stringere i pugni contro i fianchi.
— Orion — disse l’oggetto della mia ostilità — non puoi biasimare me per quello che lei ha fatto a se stessa.
Come si sbagliava!
— Tu devi servirmi che ti piaccia o no — insistette. — Non c’è modo per te di sfuggire il tuo destino, Orion. Poi aggiunse, mormorando, quasi a se stesso: — Non c’è modo per nessuno di noi due, di sfuggire al nostro destino.
— Io posso rifiutarmi di servirti — dissi io testardo.
Lui sollevò un sopracciglio dorato e mi studiò, di nuovo con quel tono arrogante e beffardo nella voce. — Finché vivrai, mia rabbiosa creatura, giocherai il tuo ruolo nei miei piani. Non puoi rifiutarti perché non potrai mai sapere quali dei tuoi atti servono a me e quali no. Tu barcolli alla cieca nella tua linearità limitata dal tempo, che va da un giorno all’altro, mentre io percepisco lo spazio-tempo sulla scala del continuum.
— Che paroloni — dissi con disprezzo. — Suoni magniloquente quasi quanto il vecchio Nestore.
I suoi occhi si strinsero. — Ma io dico la verità, Orion. Tu vedi il tempo come presente, passato e futuro. Io creo il tempo e lo manipolo perché il continuum non venga fatto a pezzi. E finché vivrai, mi aiuterai in questo grande compito.
— Finché vivrò — ripetei. — È una minaccia?
Lui sorrise di nuovo. — Io non faccio minacce, Orion. Non ne ho bisogno. Io ti ho creato. Io posso distruggerti. Tu non ricordi quante volte sei morto, vero? Eppure ti ho fatto rivivere ogni volta, in modo che potessi servirmi di nuovo. Questo è il tuo destino, Orion. Servirmi. Essere il mio Cacciatore.
— Io voglio essere libero! — gridai. — Non il tuo pupazzo!
— Bah! Perdo il mio tempo cercando di spiegare me stesso a te. Nessuno è libero, Orion. Nessuna creatura potrà mai essere libera. Non finché vivrai.
Incrociò le braccia sul petto e scomparve bruscamente come una candela spenta da un colpo di vento. Improvvisamente fui solo, nel buio e nella nebbia della pianura davanti a Troia.
“Finché vivrò” pensai silenziosamente “lotterò per saltarti alla gola. È stato uno sbaglio dirmi che non sei immortale. Ti ucciderò, dorato Apollo, Creatore, o qualunque possa essere il tuo vero nome e la tua vera apparenza. Finché vivrò, cercherò la tua morte e niente di meno. Proprio come tu hai ucciso lei, io ucciderò te.”
— Tu laggiù! Ferma!
Mi trovavo di nuovo nel campo troiano, mentre un improvviso vento pungente si era messo a soffiare dal mare e disperdeva la nebbia. I fuochi da campo punteggiavano il buio, e in lontananza le torri di Troia crescevano buie e minacciose contro il cielo illuminato dalla luna.
Io barcollavo sui piedi instabili, come un uomo che ha bevuto troppo vino, come un uomo improvvisamente spinto attraverso una porta che non aveva visto. Il Radioso e gli altri Creatori erano spariti completamente come se non fossero stati nien’altro che un sogno. Ma io sapevo che erano reali.
Erano là fuori, su un altro piano dell’esistenza, a giocare con noi, a discutere su quale parte dovesse vincere quella sciagurata guerra. Le mie mani si strinsero a pugno mentre il ricordo dei loro volti e delle loro parole alimentava la rabbia che bruciava dentro di me.
Due sentinelle mi si avvicinarono con circospezione, le pesanti spade in mano. Io ingoiai una profonda boccata della gelida aria notturna per calmarmi.
— Sono un emissario del Sommo Re Agamennone — dissi, lentamente e con cautela. — Sono stato mandato a parlare con il Principe Ettore.
Le sentinelle erano un duetto mal assortito, uno basso e tozzo, con una barba nera sporca e arruffata e una pancia sporgente che gonfiava il corsetto di maglia metallica, l’altro più alto e terribilmente magro, rasato o troppo giovane per avere la barba.
— Il Principe Ettore, il Domatore di Cavalli, ecco chi vuole vedere, lui — disse quello con la pancia tonda. Rise sgradevolmente. — Vorrei anch’io!
Quello più giovane sogghignò e mise in mostra un vuoto dove mancava un incisivo.
— Un emissario, eh? — Pancia Tonda mi diede un’occhiata sospettosa. — Con una spada al fianco e un mantello di maglia. Più verosimilmente una spia. O un assassino.
Io sollevai la mia verga da messaggero. — Sono stato mandato dal Sommo Re. Non sono qui per combattere. Prendete la mia spada e il mio mantello, se vi fanno paura. — Avrei potuto renderli entrambi innocui prima che sapessero cosa stava succedendo, ma non era quella la mia missione.
— Sarebbe molto più sicuro ficcarti questa lancia nelle budella e farla finita — disse Pancia Tonda.
Il giovane mise avanti una mano per trattenerlo. — Ermes protegge i messaggeri, lo sai. Non vorrei attirare l’ira del Trickster.
Pancia Tonda aggrottò le ciglia e borbottò, ma infine si tolse la soddisfazione di prendermi spada e mantello. Non mi perquisì, e quindi non trovò il pugnale che portavo legato alla coscia destra. Era più interessato al bottino che alla sicurezza.
Dopo che Pancia Tonda si fu fatto scivolare la mia bandoliera sulla schiena e si fu allacciato il mantello sotto il mento tremolante, i due mi condussero dal loro capo.
Erano Dardani, alleati dei Troiani, arrivati da varie miglia a nord per combattere contro gli Achei invasori. Durante l’ora successiva fui portato dal capo del contingente dardano all’ufficiale troiano, da lì alla tenda del capo luogotenente di Ettore, e infine, al di là dell’improvvisato recinto per i cavalli e il deposito dei carri in attesa nel silenzio, sino alla piccola e semplice tenda e al fuoco protetto del principe Ettore.
Ad ogni tappa spiegai la mia missione. Sia i Dardani sia i Troiani parlavano un dialetto del greco parlato dagli Achei, diverso ma non così tanto da essere incomprensibile. Io mi resi conto che molti dei difensori di Troia provenivano da diverse zone a nord e a sud lungo la costa. Dopo che gli Achei avevano razziato le loro città per anni, ora si erano riuniti tutti sotto il comando Troiano per cacciare definitivamente gli invasori.
Quella era l’intenzione del Radioso: fare in modo che i Troiani respingessero gli Achei e guadagnassero la supremazia sull’Egeo. Infine avrebbero fondato un impero che avrebbe compreso l’Europa, il Medio Oriente e l’India.
Se quello era il suo scopo, il mio doveva essere fare in modo che fallisse. Se Ulisse stava offrendo un compromesso che avrebbe permesso agli Achei di riprendere il mare senza bruciare Troia sino alle fondamenta, allora io dovevo sabotare l’offerta. Sentii un momentaneo rimorso di coscienza. Ulisse si fidava di me. Oppure, mi domandai, mi aveva mandato in quella missione diplomatica perché preferiva perdere me che non uno della sua gente?
Con questi pensieri che turbinavano nella mia mente, fui scortato davanti a Ettore.
La sua tenda era a malapena grande abbastanza per lui e i suoi servi. Due nobili in armatura stavano fuori all’ingresso, vicino al fuoco, con i pettorali di bronzo che brillavano nella notte. Gli insetti ronzavano e guizzavano nella luce delle fiamme. Non c’erano né schiavi né donne in vista. Ettore stava in piedi davanti al lembo d’entrata della tenda. Era alto per quella gente, quasi della mia statura.
Non portava alcuna armatura, nessun emblema del suo rango. Solo una tunica pulita e soffice stretta in vita, e una daga ornamentale che gli pendeva dalla cintura. Non aveva bisogno di impressionare nessuno con la grandiosità. Possedeva quella calma forza interiore che può fare a meno di esibizioni esteriori.
Nella luce tremolante del fuoco da campo mi studiò silenziosamente per un attimo. Quegli stessi solenni occhi castani. Il suo viso era attraente, intelligente, anche se vidi rughe di stanchezza intorno agli occhi, solchi profondi sulla fronte larga. Nonostante la pienezza della sua ricca barba castana, notai che aveva le guance scavate. La tensione di quella guerra stava esigendo il suo tributo anche da lui.
— Tu sei l’uomo della porta — disse infine. Le sue parole erano misurate, senza traccia di sorpresa né ira.
Annuii.
Mi guardò attentamente. — Il tuo nome?
— Orion.
— Da dove vieni?
— Da un posto molto a ovest da qui. Al di là dei mari dove tramonta il sole.
— Al di là di Oceano? — chiese.
— Sì.
Rimase sorpreso, con la fronte corrugata, per qualche momento. Poi chiese: — Cosa ti porta alla pianura di Ilio? Perché stai combattendo per gli Achei?
— Un debito che devo pagare a un dio — risposi.
— Quale dio?
— Atena.
— Atena ti ha mandato qui a combattere per gli Achei? — Sembrava interessato alla cosa, quasi preoccupato.
Scuotendo la testa, risposi: — Sono arrivato all’accampamento acheo avant’ieri notte. Non avevo mai visto Troia prima. Improvvisamente, nel mezzo della battaglia, ho agito d’impulso. Non sapevo cosa mi spingesse a farlo. È successo tutto nel lampo di un momento.
Ettore sorrise, teso. — Frenesia di battaglia. Un dio ha preso il controllo del tuo spirito, amico mio, e ti ha ispirato gesta che nessun mortale potrebbe portare a termine senza aiuto. Mi è successo molte volte.
Anch’io gli sorrisi. — Sì, forse è questo che mi è successo.
— Non avere dubbi in merito. Ares o Atena si sono impadroniti del tuo spirito e ti hanno riempito della frenesia di battaglia. Avresti potuto sfidare Achille in persona, in quelle condizioni.
Alcuni schiavi emersero dal buio per sistemare sedie di pelle e offrire frutta e vino. Al cenno di Ettore mi sedetti e presi un poco di tutto. La qualità del vino troiano era alquanto superiore a quella del vino degli Achei.
— Porti la verga di un messaggero e dici di essere qui come emissario di Agamennone — disse Ettore, appoggiandosi stancamente alla sua sedia scricchiolante.
— Porto un’offerta di pace.
— Abbiamo già sentito simili offerte. C’è niente di nuovo in quello che Agamennone propone?
Notai che i suoi due aiutanti si facevano più vicini, impazienti di sentire quello che avevo da dire. Io pensai brevemente a Ulisse, che si fidava di me. Ma dissi: — Il Sommo Re ripete la sua precedente offerta di pace. Se restituirete Elena e il patrimonio che ha portato con sé da Sparta, e pagherete un’indennità per le spese che gli Achei hanno dovuto affrontare, Agamennone dirigerà le sue navi lontano da Ilio.
Ettore diede un’occhiata ai suoi due luogotenenti, che borbottarono cupamente.
Poi, a me, disse: — Non abbiamo accettato questa proposta quando gli Achei ci tenevamo rinchiusi all’interno delle mura della nostra città, senza alleati. Ora che li superiamo di numero e che siamo noi a tenerli rinchiusi nel loro stesso accampamento, perché dovremmo anche solo considerare dei patti tanto oltraggiosi?
Dovevo farlo suonare convincente almeno a metà, pensai. — Secondo il modo di vedere degli Achei, principe Ettore, il tuo successo di oggi è stato assai favorito dal fatto che Achille non ha preso parte alla battaglia. Ma non resterà nelle retrolinee per sempre.
— Un uomo solo — controbatté Ettore.
— Il miglior guerriero dell’esercito acheo — feci notare io. — E i suoi Mirmidoni sono un’unità da combattimento formidabile, mi è stato detto.
— Abbastanza vero — ammise Ettore. — Ciononostante, quest’offerta di pace non differisce in niente dalle altre, anche se noi siamo in vantaggio.
— Allora cosa devo dire al Sommo Re?
Il principe si alzò. — Non sta a me prendere una decisione. Io comando l’esercito, ma mio padre è ancora re a Troia. Lui e il suo consiglio devono considerare la tua offerta.
Mi alzai anch’io. — Il re Priamo?
— Polidama — chiamò Ettore — conduci questo messaggero dal re. Enea, avverti i comandanti che non attaccheremo finché il re Priamo non avrà considerato l’ultima offerta di pace di Agamennone. Mi prese un’ondata di esultanza. I Troiani non avrebbero attaccato il campo degli Achei finché io fossi stato in trattative con il loro re! Potevo dare a Ulisse e agli altri una giornata di tregua, almeno.
E poi mi resi conto che quello era esattamente quanto Ulisse aveva progettato. Il re di Itaca aveva mandato un eroe sacrificabile, un uomo che Ettore avrebbe riconosciuto, ma non importante per la forza achea, all’interno del campo troiano, con un’abile mossa per recuperare un giorno al disastro di quella mattina.
Io pensavo di tradire Ulisse, ma lui aveva già prima messo nel sacco sia me sia Ettore.
Cercando di sembrare appropriatamente solenne e di non lasciar trapelare le mie emozioni, seguii il nobile troiano chiamato Polidama attraverso il campo, sulla pianura, sino alle mura di Troia.
Entrai nella leggendaria città nel cuore della notte. La luna era alta, eppure c’era ancora così buio che non riuscivo a vedere praticamente niente.
Le mura incombevano dall’alto come ombre minacciose. Vidi deboli lanterne che illuminavano un ingresso, mentre oltrepassavamo una gigantesca quercia che si agitava e sibilava nella brezza notturna, piegandosi leggermente al vento incessante di Ilio.
Per avvicinarci alla porta dovemmo seguire un percorso che passava lungo le mura a strapiombo. Proprio prima della porta dall’altra parte della strada, si allungava un altro muro, in modo che chiunque entrasse dalla porta era vulnerabile su tre lati.
La porta, di per sé, era poco difesa. Un trio di ragazzi stava oziando con le immancabili lunghe lance appoggiate sul muro di pietra. Altri erano sui bastioni sovrastanti. Praticamente tutto l’esercito troiano era accampato vicino alla spiaggia.
All’interno, una larga strada di terra battuta passava in mezzo a costruzioni non più alte di due piani. La fredda, pallida luce della luna faceva sembrare più profonde e più scure le ombre delle loro facciate con le imposte chiuse. Non c’era assolutamente nessuno che si muovesse su quella strada, né nei vicoli scuri che se ne staccavano, nemmeno un gatto.
Polidama non era un tipo loquace. In un silenzio praticamente totale, mi condusse a una costruzione dal tetto basso e in una stanza minuscola, illuminata dall’instabile fiamma blu-gialla di una piccola lampada a olio di rame appoggiata su uno sgabello di legno a tre zampe. C’era un letto singolo e un cassettone di legno di cedro, nient’altro. Una coperta di lana grezza ricopriva il letto.
— Sarai introdotto alla presenza del re domani mattina — disse Polidama, e quello fu il suo più lungo discorso della serata. Senza dire nient’altro mi lasciò, chiudendo piano la porta di legno dietro di sé.
E sprangandola.
Non avendo niente di meglio da fare mi spogliai, tirai indietro la ruvida coperta e mi sdraiai sul letto. Era molleggiato; un sottile materasso di piume sopra un intreccio di funi.
Mentre cominciavo ad assopirmi, mi resi conto improvvisamente che il Radioso avrebbe potuto invadere di nuovo i miei sogni. Per un attimo tentai di combattere il sonno, ma il corpo ebbe la meglio sulla volontà e i miei occhi si chiusero inevitabilmente. Il mio ultimo pensiero da sveglio fu di chiedermi come potessi mettermi in contatto con uno degli altri Creatori, con lo Zeus che considerava con tanta perplessità i piani del Radioso, con la donna che gli si opponeva apertamente.
Ma se sognai, non ricordai poi nulla quando fui svegliato dal chiavistello della porta che si apriva scattando. Mi misi a sedere, immediatamente all’erta, e allungai la mano per prendere il coltello che mi ero tolto ma avevo lasciato sul letto tra il mio corpo e il muro.
Una donna entrò di spalle nella stanza, portando un catino e una brocca d’acqua. Quando si voltò e mi vide seduto lì, nudo, sorrise, fece un piccolo inchino e mise catino e brocca sul cassettone di cedro. Poi uscì indietreggiando e chiuse la porta. Fuori, sentii numerose risatine femminili.
Un troiano entrò nella mia stanza dopo un unico colpo secco alla porta. Sembrava più un gentiluomo di corte che un guerriero. Era piuttosto alto ma aveva le spalle morbide, lo sguardo mite, con le pupille protuberanti. La sua barba era già piuttosto grigia, la testa quasi calva, la tunica riccamente ricamata e coperta di una lunga veste senza maniche verde scuro.
— Ti condurrò nella sala delle udienze del re Priamo appena avrai avuto il pasto del mattino.
La diplomazia si muoveva con passi cortesi; io ne fui felice. Il gentiluomo mi condusse agli orinatoi sul retro della casa, poi di nuovo nella mia stanza per una rapida lavata. La colazione consisteva in frutta, formaggio e pane non lievitato, bagnato nel latte di capra. Mangiammo nella grande cucina di fronte alla casa. Metà della stanza era occupata da un focolare rotondo, sotto un’apertura del tetto. Era freddo e vuoto, a parte un po’ di ceneri scure sparse qua e là, che sembravano lì da molto tempo.
Attraverso la finestra della cucina vidi diverse persone intente ai loro compiti mattutini. Alcune donne badavano a noi, gettandomi occhiate curiose. Il gentiluomo le ignorava, tranne che per ordinare altri fichi e miele.
Infine ci avviammo per quella che sembrava la strada principale, che saliva leggermente verso un edificio dalle colonne elegantemente scanalate e un tetto digradante a scalini. Il palazzo di Priamo, immaginai. O il tempio principale della città. Forse entrambe le cose. Il sole non era ancora alto, ma l’aria era molto più tiepida in quella strada che non fuori sulla pianura ventosa.
— È lì che stiamo andando? — indicai.
Il gentiluomo mosse di scatto la testa. — Sì, naturalmente. Il palazzo del re. Un palazzo più splendido non esiste in nessun’altra parte del mondo; tranne forse in Egitto, naturalmente.
Io ero sorpreso da quanto in realtà Troia fosse piccola. E affollata. Case e negozi erano addossati le une agli altri. Le strade non erano lastricate, e si inclinavano a “V” in modo che l’acqua scorresse al centro quando pioveva. Le ruote dei carri vi avevano inciso profondi solchi. Ricevetti inchini e sorrisi mentre ci dirigevamo verso il palazzo.
— I principi reali, come Ettore e Alessandro e i loro fratelli, vivono nel palazzo con il re. — Il mio cortigiano si stava trasformando in una guida turistica. Indicò una strada più in basso. — Vicino alle porte Scee ci sono le case dei principi minori e della nobiltà. Sono belle case, nondimeno, molto più belle di quante potrai trovarne a Micene o persino a Mileto.
Stavamo passando attraverso la zona del mercato. Bancarelle coperte di tende mettevano in vendita piccole, preziose derrate: pane, vegetali secchi, un agnello pelle e ossa che belava lamentosamente.
Eppure i mercanti, sia uomini sia donne, sembravano sorridenti e felici.
— Hai portato un giorno di pace — mi disse il gentiluomo. — I contadini possono portare i loro prodotti al mercato, stamattina. I taglialegna possono uscire nel bosco e tagliare la legna da ardere prima che scenda la notte. La gente è grata di questo.
— L’assedio vi ha danneggiato — mormorai.
— Sino a un certo punto, sicuro. Ma non siamo affamati. Nel tesoro reale c’è grano sufficiente per un anno! L’acqua arriva da una sorgente protetta da Apollo in persona. E quando c’è veramente bisogno di combustibile o di bestiame o di qualunque altra cosa, le nostre truppe scortano la gente necessaria in incursioni nell’entroterra. Sollevò di un paio di centimetri il mento coperto di barba grigia. — Non moriremo di fame.
Io non dissi nulla.
Lui considerò il mio silenzio una manifestazione di dubbio. — Guarda quelle mura! Gli Achei non saranno mai capaci di scalarle!
Io seguii il suo sguardo ammirato giù per un vicolo contorto e vidi le mura turrite che si innalzavano al di sopra delle case. Sembravano davvero alte, solide e forti.
— Apollo e Poseidone hanno aiutato il re Laomedonte a costruire quelle mura, che hanno resistito ad ogni assalto di cui sono state oggetto. Certo, Ercole una volta ha saccheggiato la città, ma ha avuto un aiuto divino e non ha neppure tentato di aprire una breccia lì. Ha attaccato sul lato occidentale, dove c’è il muro più vecchio. Ma questo è stato molto tempo fa.
Io rizzai le orecchie. Il muro occidentale era più debole? Ma, come accorgendosi di aver detto troppo, la mia guida sprofondò nel silenzio, il viso rosso. Fece il resto della strada verso il palazzo senza dire nient’altro.
Le guardie tennero le loro lance rigidamente dritte mentre oltrepassavamo le colonne dipinte di cremisi sulla facciata del palazzo ed entravamo nel suo fresco interno. Non vidi marmo, il che in qualche modo mi sorprese. Le colonne e le spesse mura del palazzo erano fatte di una pietra grigiastra simile al granito, lucidata sino ad assumere una luminosa levigatezza. Dentro, i pavimenti erano coperti di mattonelle lucide e colorate. Le pareti erano intonacate e dipinte in rossi e gialli vivaci, con bordi blu o verdi che correvano lungo i soffitti.
Faceva freddo. Nonostante il calore del sole, quei grossi muri di pietra isolavano il palazzo così bene che quasi immaginai di poter vedere il mio respiro congelarsi nell’aria ombrosa.
La sala al di là dell’ingresso era stupendamente decorata di paesaggi dipinti sulle pareti intonacate. Scene di belle dame e di uomini avvenenti su campi verdi e rigogliosi con alberi fronzuti. Nessuna battaglia, nessuna scena di caccia, nessuna ostentazione di potere imperiale o di sete di sangue.
C’erano delle statue lungo il corridoio, la maggior parte a grandezza reale, alcune più piccole, altre così grandi che le loro teste o le braccia allargate raschiavano contro le travi lucide dell’alto soffitto.
— Gli dèi della città — mi spiegò il cortigiano. — La maggior parte di queste statue si trovava fuori dalle quattro porte principali, prima della guerra. Naturalmente le abbiamo portate qui per salvaguardarle dagli Achei saccheggiatori.
— Naturalmente — fui d’accordo io.
Le statue sembravano di marmo. Con mia sorpresa, erano vivacemente dipinte. Capelli e barbe erano di un nero profondo, con riflessi bluastri. Vesti e tuniche erano per la maggior parte color oro, adornate da gioielli veri. La carne era delicatamente colorata, e gli occhi dipinti così vividamente che quasi sembravano guardarmi.
Non riuscivo a distinguerli l’uno dall’altro. Gli dèi sembravano tutti con spalle larghe e barba, le dee di una bellezza eterea. Poi riconobbi Poseidone, una figura magnificamente muscolosa con una folta barba ricciuta che teneva un tridente nella mano destra.
Uscimmo dalla gelida sala d’ingresso nella tiepida luce del sole di un cortile. Una statua enorme, assolutamente troppo grande per poter stare all’interno, si ergeva davanti a noi. Allungai il collo per vederne il viso contro il cielo blu cristallo del mattino.
E sentii le ginocchia mancarmi.
Era il Radioso. Perfetto in ogni dettaglio, come se avesse posato lui stesso. Ogni dettaglio tranne uno: l’artista troiano gli aveva dato i capelli neri, come tutti gli altri dèi. Ma il viso, la curva leggera del labbro, gli occhi mi fissavano, leggermente divertiti, leggermente annoiati. Io tremai. Mi aspettavo davvero che la statua parlasse, si muovesse.
— Apollo — disse il gentiluomo. — Il protettore della nostra città. — Se aveva notato quanto la statua facesse effetto su di me, fu troppo educato per farne accenno. O forse era reverenza nei confronti del dio.
Staccai lo sguardo dagli occhi dipinti del Radioso. Dentro di me, tremavo di quella rabbia e di quella frustrazione che vengono con la disperazione. Come potevo anche solo pensare di operare contro i suoi desideri, di sconfiggerlo, di ucciderlo? “Eppure lo farò”, mi dissi. Con uno sforzo di volontà che sembrò strapparmi l’anima, promisi di nuovo a me stesso che avrei trascinato il Radioso nella polvere.
Camminammo per il cortile assolato. Dappertutto c’erano germogli e arbusti in fiore. Intorno alla vasca quadrata centrale erano sistemati con arte alberi in vaso. Nella vasca, dei pesci nuotavano pigramente.
— Abbiamo anche la nostra statua di Atena — disse il mio compagno, indicando al di là della vasca un qualche cosa di legno, alto a malapena un metro. — È molto antica e molto sacra.
La statua ci dava le spalle. Noi attraversammo il cortile ed entrammo nell’altra ala del palazzo. Immediatamente, mentre facevamo il primo passo nell’ombra dell’ingresso, la temperatura scese di colpo.
C’erano molti più soldati di guardia in quel corridoio, anche se ebbi l’impressione che la loro presenza fosse più una questione di pompa e di formalità che non di sicurezza. Il gentiluomo mi condusse in una piccola stanza confortevole arredata con sedie di pelle tesa e tavoli lucidati sino a brillare, intarsiati di splendido avorio e d’argento. C’era una sola finestra, che dava su un altro cortile più piccolo, e un massiccia porta di legno decorata a fasce di bronzo. Chiusa.
— Il re ti riceverà tra poco — disse lui, guardando nervosamente verso la porta chiusa.
Io presi una sedia e costrinsi il mio corpo a rilassarsi. Non volevo apparire teso o apprensivo davanti al re troiano. Il gentiluomo di corte, che ritenevo passasse la maggior parte della sua vita all’interno del palazzo, sembrava sulle spine. Andava avanti e indietro per la piccola sala con aria preoccupata. Me lo immaginai con una sigaretta, a tirare boccate di fumo come un padre in attesa.
Infine borbottò: — Porti davvero un’offerta di pace, o è solamente un’altra manovra achea?
Dunque era quello. Sotto la sua fiducia nelle mura costruite dagli dèi, nel cibo e nella legna da ardere raccolta dall’esercito e nell’eterna sorgente che Apollo stesso proteggeva, era ansioso di vedere la guerra finire e la sua città di nuovo sicura e in pace.
Prima che potessi rispondere, però, la pesante porta si aprì cigolando. Due soldati la spinsero e un vecchio con un mantello verde simile a quello del mio accompagnatore mi fece cenno di entrare. Si appoggiava pesantemente a un lungo bastone di legno che aveva sulla cima un simbolo d’oro con un sole raggiante. La sua barba era color della cenere, la testa quasi totalmente calva. Mentre mi avvicinavo alla soglia e a lui, mi scrutò con uno sguardo miope.
— Il tuo nome proprio, messaggero?
— Orion.
— Di?
Io esitai, chiedendomi cosa volesse dire. Poi risposi: — Della Casa di Itaca.
Lui si accigliò, sentendolo, ma si voltò e fece qualche passo all’interno della sala delle udienze, poi batté il bastone per terra tre volte. Vidi che il pavimento di pietra era profondamente consumato in quel punto.
Parlò in tono alto, con una voce che una volta poteva essere stata ricca e profonda ma che ora suonava come il miagolio di un gatto: — O Grande Re, figlio di Laomedonte, Scionte e Scamandro, Servo di Apollo, Beneamato degli Dèi, Guardiano dell’Ellesponto, Protettore della Troade, Baluardo Occidentale dell’Hatti, Difensore di Ilio; un emissario degli Achei, di nome Orion, della Casa di Itaca.
La sala era spaziosa, ampia e con il soffitto alto. Al centro era aperta sul cielo, al di sopra di un focolare rotondo dove ardevano carboni di un rosso smorto che mandavano una debole spirale di fumo grigio. Tra le colonne che correvano tutt’attorno alle pareti c’erano dozzine di uomini e donne: la nobiltà di Troia, immaginai, o almeno i nobili troppo vecchi per l’esercito. E le loro signore. Con vesti ricche di colori accesi e risplendenti di gioielli.
Io avanzai e vidi Priamo, il re di Troia, seduto su uno splendido trono d’ebano intagliato e intarsiato d’oro, sopra un palco con tre scalini. Con mia sorpresa, vidi che era affiancato a destra da Ettore, che doveva essere salito dall’accampamento vicino alla spiaggia; alla sua sinistra sedeva un uomo più giovane, e in piedi dietro di lui…
Era davvero bella abbastanza da far mettere in viaggio mille navi. Elena era bionda, con i riccioli d’oro che le scendevano oltre le spalle. Una figura piccola, quasi delicata, tranne che per il magnifico seno coperto soltanto da una trasparentissima camicia. Una cintura d’oro le cingeva la vita, esaltando il busto ancora di più. Persino attraverso la grande sala delle udienze potevo vedere che il suo viso era incredibilmente sensuale, eppure con grandi occhi che davano un’impressione di innocenza a cui nessun uomo poteva resistere.
Era appoggiata sullo schienale intricatamente intagliato della sedia di Alessandro; il giovane principe alla sinistra di Priamo doveva essere Alessandro, mi resi conto. Con i capelli e la barba più scuri di Ettore, bello in modo quasi femmineo. Elena gli teneva una mano sulla spalla. Lui la guardò e lei gli rispose con un sorriso splendente. Poi entrambi volsero lo sguardo verso di me che mi avvicinavo. Il sorriso di Elena scomparve nell’attimo in cui Alessandro allontanò gli occhi da lei. Mi osservò con occhi freddi e calcolatori.
Priamo era più vecchio di Nestore, ed evidentemente debole. La sua barba bianca era rada e logora, i suoi lunghi capelli anche, come se una malattia rovinosa avesse preso possesso di lui. Sembrava sprofondare nelle vesti di porpora mentre sedeva abbandonato sul suo trono intarsiato d’oro, troppo stanco anche a quell’ora del mattino per stare seduto diritto o per sollevare il braccio dal grembo. La parete dietro il trono era dipinta in toni blu e acquamarina. Eleganti imbarcazioni scivolavano tra delfini giocherelloni. Alcuni pescatori gettavano le loro reti nell’acqua brulicante di ogni genere di pesci.
— Re mio signore — disse Ettore, vestito di una semplice tunica — questo emissario di Agamennone porta un’altra offerta di pace.
— Sentiamola — sussurrò Priamo, debole come un sospiro.
Tutti mi guardarono.
— Io fissai la nobiltà riunita e vidi un desiderio, una smania, una chiara speranza che io fossi il portatore di un’offerta che avrebbe messo fine alla guerra. Soprattutto tra le donne potevo percepire il desiderio di pace, anche se mi rendevo conto che gli uomini si controllano di più.
Mi inchinai profondamente davanti al re, poi feci un cenno con la testa prima ad Ettore, poi ad Alessandro. Colsi lo sguardo di Elena mentre lo facevo, e mi sembrò che mi sorridesse leggermente.
— O Grande Re — cominciai — ti porto i saluti del Sommo Re Agamennone, comandante dell’esercito acheo.
Priamo annuì e agitò le dita di una mano, come per incitarmi a tralasciare i preliminari e ad arrivare direttamente alla questione.
Lo feci. Non gli riportai l’offerta di Ulisse di andarsene con Elena e nient’altro, bensì la mia elaborazione: Elena, il suo tesoro e un’indennità che Agamennone avrebbe distribuito al suo esercito.
Potei sentire l’atmosfera della sala cambiare. La bramosa aspettativa morì. Una cupa reazione di malinconia scese su tutti loro.
— Ma questo non è niente di più di quello che Agamennone ha offerto in passato — ansimò Priamo.
— E che noi abbiamo fermamente rifiutato — aggiunse Ettore.
Alessandro rise. — Se abbiamo rifiutato condizioni così offensive quando gli Achei premevano alle nostre porte, perché dovremmo anche solo considerarle adesso che teniamo bloccati i barbari sulla spiaggia? Tra un paio di giorni bruceremo le loro navi e li macelleremo da quelle bestie che sono.
— Io sono un nuovo arrivato in questa guerra — dissi. — Non so niente dei vostri contrasti e dei vostri diritti. Io sono stato incaricato di offrirvi i termini per la pace, e l’ho fatto. Sta a voi considerarli e dare una risposta.
— Non consegnerò mai mia moglie! — disse bruscamente Alessandro. — Mai!
Elena gli sorrise e lui sollevò il braccio per prendere la mano di lei nella sua.
— Un nuovo arrivato, dici? — chiese Priamo, con una curiosità sufficiente a illuminargli gli occhi. — Eppure dichiari di essere della Casa di Itaca. Quando hai fatto passare la tua testa sotto l’architrave della nostra soglia, ho pensato che potessi essere quello che chiamano Grande Aiace.
Risposi: — Ulisse mi ha preso nella sua casa, o re mio signore. Sono arrivato su questi lidi solo qualche giorno fa.
— E da solo mi ha impedito di prendere d’assalto il campo acheo — disse Ettore in tono dispiaciuto. — È un peccato che Ulisse ti abbia adottato. Non mi dispiacerebbe avere un uomo tanto impavido dalla mia parte.
Sorpreso della sua offerta, e chiedendomi cosa potesse implicare, risposi appena: — Ho paura che sarebbe impossibile, mio signore.
— Sì — fu d’accordo Ettore. — Peccato, però.
Priamo si mosse sul trono, tossì dolorosamente, poi disse: — Ti ringraziamo per il messaggio che porti, Orion della Casa di Itaca. Ora dobbiamo considerarlo e decidere una risposta.
M’indirizzò un debole gesto di congedo. Io mi inchinai di nuovo e tornai nell’anticamera. Le guardie chiusero la pesante porta dietro di me.
Ero solo nella piccola sala; il gentiluomo di corte che prima mi aveva fatto da guida era scomparso. Mi avvicinai alla finestra e guardai il grazioso giardino, così pieno di pace, così luminoso di fiori e di api ronzanti intente al loro lavoro. Là non c’era nessuna traccia di guerra: semplicemente il ciclo senza fine di nascita, crescita, morte e rinascita.
Pensai alle parole che il Radioso mi aveva detto. Quante volte ero morto e rinato? A quale scopo? Lui voleva che Troia vincesse quella guerra, o almeno sopravvivesse all’assedio acheo. Perciò il mio desiderio era lo stesso di Agamennone: schiacciare Troia, bruciarla sino alle fondamenta, massacrare il suo popolo e distruggerla per sempre.
Distruggere quel giardino? Bruciare quel palazzo? Massacrare Ettore e il vecchio Priamo e tutti gli altri?
Strinsi i pugni e gli occhi, forte. Sì! dissi a me stesso. Proprio come il Radioso massacrerebbe Ulisse e il vecchio Polete. Proprio come aveva fatto bruciare il mio amore sino alla morte.
— Orion di Itaca.
Diedi le spalle alla finestra. Sulla soglia c’era un solo soldato, con la testa scoperta, con una corazza di pelle ben oliata anziché l’armatura, e una corta spada al fianco.
— Seguimi, prego.
Lo seguii per un lungo corridoio sino a una rampa di scale, poi attraverso varie stanze senza nessuno, riccamente ammobiliate e decorate con splendidi arazzi. Avrebbero bruciato bene, mi trovai a pensare. Salimmo un’altra rampa e infine venni introdotto in una confortevole saletta, con finestre senza tende e una porta aperta che dava su una terrazza e sul mare lontano. Graziosi affreschi decoravano le pareti, scene di uomini tranquilli e di donne in un mondo pastello di fiori e animali gentili.
Il soldato chiuse la porta e mi lasciò solo. Ma non per molto. Dalla porta dalla parte opposta della stanza, appena qualche attimo dopo, entrò la bella Elena.
Toglieva il respiro, non c’erano dubbi. Portava una gonna a balze di brillanti colori arcobaleno con nappe d’oro che tintinnavano mentre camminava verso di me. Il suo corsetto, adesso, era blu come il cielo egeo, e la camicia bianca così trasparente che potevo vedere i cerchi scuri delle areole intorno ai capezzoli. Portava una tripla collana d’oro e altro oro a entrambi i polsi e ai lobi delle orecchie. Anelli di pietre preziose le scintillavano alle dita.
Era minuscola, quasi delicata, nonostante la figura a clessidra. La pelle era simile a panna, perfetta e molto più chiara di quella delle donne che avevo visto nell’accampamento acheo. I suoi occhi erano di un blu profondo come il suo mare, le labbra morbide e piene, i capelli del colore del miele dorato, con i riccioli che le ricadevano molto più giù delle belle spalle. Un boccolo testardo le scendeva sulla fronte. Aveva un profumo di fiori: leggero, pulito, allettante.
Elena mi sorrise e mi indicò una sedia. Lei scelse un divano coperto di cuscini, dando la schiena alla finestra aperta. Io mi misi a sedere e aspettai che fosse lei a parlare. In verità, il solo guardarla contro lo sfondo del mare blu era una festa che sembrava troppo bella per descriverla a parole.
— Dici di essere uno straniero in questa terra — la sua voce era lenta, melodiosa. Capivo come Alessandro, o qualsiasi altro uomo, avrebbe osato qualunque cosa per averla. E tenerla.
Io annuii e scoprii di dover deglutire prima di riuscire a parlare. — Mia signora, sono arrivato su una nave solo qualche giorno fa. Prima di allora, tutto quello che sapevo di Troia erano… storie raccontate da viandanti.
— Sei un marinaio, allora?
— Non proprio — dissi. — Sono un… viaggiatore, un vagabondo.
Mi guardò con un’ombra di sospetto in quei limpidi occhi blu. — Non un guerriero?
— Ho fatto il guerriero, ogni tanto, ma questa non è la mia professione.
— Però può essere il tuo destino.
Non trovai una risposta da darle.
Elena disse: — Servi la dea Atena. — Non era una domanda. Aveva eccellenti fonti di informazione, a quanto pareva.
Annuendo, risposi: — Questo è vero.
Si morse il labbro inferiore. — Atena mi detesta. È nemica di Troia.
— Eppure la sua statua è venerata…
— Non si può fare a meno di onorare una divinità così potente, Orion. Non importa quanto Atena mi odi, il popolo di questa città deve continuare a placarla meglio che può. Disastri sicuri si abbatteranno su Troia se non lo farà.
— Apollo la protegge — dissi io.
Lei annuì. — Eppure io temo Atena. — Elena guardò lontano, scrutando il passato, forse. O cercando di vedere il futuro.
— Mia signora, desideri che faccia qualcosa per te?
I suoi occhi mi si puntarono di nuovo addosso. Un debole sorriso le increspò le labbra. — Ti chiedi perché ti ho mandato a chiamare?
— Sì.
Il suo sorriso si fece malizioso. — Non pensi che potrei voler dare uno sguardo più da vicino a uno straniero così avvenente? A un uomo così alto, con delle spalle così larghe? Che ha affrontato da solo Ettore e i cavalli del suo carro?
Chinai leggermente la testa. — Posso farti una domanda, mia signora?
— Puoi… anche se io non prometto di rispondere.
— Tutto il mondo se lo chiede: Alessandro ti ha davvero rapito o hai lasciato Sparta con lui di tua volontà?
Il suo sorriso rimase. Divenne anche più largo, finché lei non buttò indietro la testa e uscì una risatina genuina, di cuore, divertita.
— Orion — disse infine, — davvero non capisci le donne.
Forse io arrossii. — Questo è abbastanza vero — ammisi.
— Ti dirò solo una cosa — riprese Elena. — Non importa come e perché io abbia accompagnato Alessandro in questa città: non tornerò mai volontariamente a Sparta. — E aggiunse rapidamente: — Non che nutra cattivi sentimenti nei confronti di Menelao, il mio primo marito. Era gentile con me.
— Ma Alessandro è più gentile?
Allargò le braccia. — Guardati intorno, Orion! Hai gli occhi, usali. Quale donna vorrebbe vivere volontariamente come moglie di un signore acheo, quando potrebbe essere una principessa di Troia?
— Ma Menelao è un re…
— E una regina achea è considerata ancora meno dei cani e dei cavalli di suo marito. Una donna a Sparta è una schiava; che sia moglie o concubina, non fa nessuna reale differenza. Pensi che ci siano delle donne nella sala delle udienze di Sparta, quando arriva un emissario con un messaggio per il re? O nella Micene di Agamennone, o nella Pilo di Nestore, o anche nell’Itaca di Ulisse? No, Orion. Non lì. Ma qui a Troia le donne sono considerate esseri umani. Qui c’è civiltà.
— Allora la tua preferenza per Alessandro è in realtà una preferenza per Troia — dissi io.
Lei si posò un dito sulle labbra, come volesse scegliere le parole da usare. Poi: — Quando fui data in sposa a Menelao, non ebbi nessuna voce in capitolo. Tutti i giovani signori dell’Acaia mi volevano: insieme alla mia dote. Fu mio padre a prendere la decisione. Se, gli dèi non vogliano, gli Achei dovessero vincere questa guerra e obbligarmi a tornare a Sparta con Menelao, io sarò di nuovo un possesso.
— Acconsentiresti a tornare a Sparta se questo significasse salvare Troia dalla distruzione?
— Che domanda stupida! Credi davvero che Agamennone combatta per l’onore di suo fratello? Gli Achei sono decisi a distruggere questa città. Io sono soltanto la loro scusa per attaccare.
— Così ho già sentito dire, nell’accampamento acheo.
— Priamo è vicino alla morte — continuò Elena. — Ettore morirà in battaglia; questo è stato predetto. Ma Troia non deve cadere, anche se Ettore muore.
E, pensai, se Ettore muore, Alessandro diventerà re. Facendo di Elena la regina di Troia.
Lei mi fissò con quei suoi grandi occhi e disse: — Orion, puoi dire questo a Menelao: se vuole che torni da lui, deve conquistarmi con atti di valore in battaglia. Io non andrò a un uomo volontariamente, come premio di consolazione per aver perduto questa guerra.
Io feci un profondo respiro. Era molto più saggia di quanto avessi immaginato. “Vuole senza dubbio che Troia vinca, vuole rimanere in questa città in modo da poterne un giorno essere la regina. Però vuole dire al precedente marito che tornerà da lui: se vince! Sta dicendo a lui, attraverso di me, che tornerà a Sparta e sarà una docile moglie achea se e quando Troia sarà rasa al suolo.”
Donna intelligente! Non importa chi vince, lei proteggerà la sua bella pelle.
Chiacchierammo ancora per qualche minuto, ma era chiaro che Elena mi aveva già dato il messaggio che voleva io trasmettessi agli Achei. Infine si alzò, indicando che il nostro incontro era finito. Mi alzai anch’io e mi diressi verso la porta. Naturalmente la guardia era fuori, in attesa di scortarmi di nuovo nella sala delle udienze.
Non c’era nessuno, tranne il gentiluomo di corte che era stato con me quella mattina. La sala circondata di colonne era vuota, piena di echi.
— Il re e i regali principi stanno ancora deliberando sul tuo messaggio — sussurrò. — Devi aspettare.
Aspettai. Vagammo attraverso numerose sale e infine uscimmo nel grande cortile da cui eravamo passati la mattina. Il sole caldo era piacevole sulle braccia nude.
Spinto dalla curiosità, attraversai il giardino sino alla piccola statua di Atena. Era a malapena lunga quanto il mio braccio, ed evidentemente molto antica, segnata da anni e anni di pioggia e di vento. Diversamente dalle altre statue più imponenti, non era colorata. O, piuttosto, la pittura originale si era dissolta da tempo e non era stata rimpiazzata.
Atena. La dea guerriera era vestita di una lunga tunica, però impugnava lo scudo e la lancia. In testa aveva un elmo piumato, tirato indietro, lontano dal viso.
La guardai in volto e mi mancò il respiro. Era il viso di lei, il viso della donna che avevo amato. Il viso della dea che il Radioso aveva ucciso.
Così era vero. Gli dèi non erano immortali. Proprio come il Radioso mi aveva detto. E sapevo che non mi aveva mentito riguardo al resto: gli dèi non erano né misericordiosi né benevoli. Giocavano i loro giochi e decidevano le loro regole mentre noi, le loro creature, tentavamo di dare un senso a quello che ci facevano.
L’ira bruciava dentro di me. “Non sono immortali. Gli dèi possono essere uccisi. Io posso uccidere il Radioso. E lo farò” promisi di nuovo a me stesso. Come, non lo sapevo. Quando, non ne avevo idea. Ma per le fiamme che bruciavano dentro di me, giurai che l’avrei distrutto, non importa quanto ci sarebbe voluto e quanto sarebbe costato.
Diedi un rapido sguardo al grazioso cortile pieno di fiori. Sì, avrei cominciato da lì. “Lui vuole salvare Troia, farne il centro di un impero che andrà dall’Europa all’Asia. Allora io la distruggerò, la schiaccerò, massacrerò la sua gente e brucerò i suoi palazzi sino alle fondamenta.”
— Orion.
Io strinsi gli occhi, come svegliandomi da un sogno. Ettore stava in piedi davanti a me. Non l’avevo sentito avvicinarsi.
— Principe Ettore — dissi.
— Vieni con me. Abbiamo una risposta per Agamennone.
Lo seguii all’interno di un’altra ala del palazzo. Come prima, Ettore indossava solo una semplice tunica, quasi completamente priva di ornamenti. Niente armi. Niente gioielli. Nessuna ostentazione del suo rango. La nobiltà era dentro di lui, e chiunque lo vedesse, sapeva istintivamente che quello era un uomo di merito e d’onore. Eppure, mentre lo seguivo passo per passo attraverso le sale fastose, vidi di nuovo che quella guerra gli aveva fatto pagare il suo prezzo. Il viso coperto dalla barba era scavato, e una ruga di preoccupazione si era fissata nello spazio tra le sopracciglia. Camminammo sino all’estremità opposta del palazzo e su per una stretta scalinata, in un buio tenebroso illuminato soltanto da qualche occasionale fessura delle finestre. Andammo su, su per la scalinata, girando intorno a gradini di pietra, respirando faticosamente intorno e intorno agli stretti confini della gradinata, fino a quando infine ci infilammo in una bassa porta quadrata che dava sulla piattaforma in cima alla torre più alta di Troia.
— Alessandro ci raggiungerà tra breve — disse Ettore, dirigendosi verso i merli giganteschi dei bastioni. Era quasi mezzogiorno e il sole abbagliante era caldo nonostante la forte brezza di mare che soffiava su di noi e faceva svolazzare i capelli castani di Ettore.
Da un punto d’osservazione così alto potevo vedere l’accampamento acheo, dozzine di lunghe imbarcazioni nere tirate in secco sulla spiaggia dietro le fortificazioni di sabbia, e la trincea che avevo aiutato a scavare appena quarantotto ore prima. L’esercito troiano era accampato nella pianura, tende e carri sparsi sul terreno nudo, con i fuochi da campo che mandavano sottili riccioli di fumo nel cielo cristallino. Un fiume di discrete dimensioni scorreva attraverso la pianura verso sud e sfociava nella baia; un altro, più piccolo, passava a nord. L’accampamento acheo era delimitato dalle rive dei due fiumi.
Oltre le onde che rotolavano sulla spiaggia, vidi un’isola vicino all’orizzonte, la protuberanza marrone di una montagna consumata, e dietro un’altra, che si librava simile a un fantasma nel blu nebbioso in lontananza.
— Bene, fratello, gliel’hai detto?
Mi voltai e vidi Alessandro che procedeva a grandi passi verso di noi. Diversamente da Ettore, indossava una tunica che sembrava morbida come la seta, e sopra, un bel mantello blu savoia. Al fianco aveva una spada coperta di pietre preziose, e altre gemme gli luccicavano alle dita e al collo. I capelli e la barba erano tagliati con cura e brillavano d’olio dal dolce profumo. Il suo viso era liscio, sebbene non fosse molto più giovane di suo fratello.
— Ti stavo aspettando — rispose Ettore.
— Bene! Allora lascia che sia io a dargli la notizia. — Sorridendo sgradevolmente, Alessandro mi disse: — Puoi dire al grasso Agamennone che il re Priamo respinge la sua offerta oltraggiosa. In più, domani a quest’ora i carri troiani staranno correndo nel vostro accampamento, bruciando le vostre navi e massacrando i tuoi vili Achei, finché non resterà altro che cenere e ossa. I nostri cani faranno un bel banchetto domani notte.
Io rimasi impassibile.
Ettore scosse leggerissimamente la testa, poi posò una mano sulla spalla coperta dal mantello blu di suo fratello, come per trattenerlo. — Nostro padre non si sente abbastanza bene per vederti di nuovo. E sebbene le impetuose parole di mio fratello possano sembrare offensive, la vera risposta che abbiamo per Agamennone è che rifiutiamo la sua offerta di pace.
— E qualunque altra offerta che implichi la restituzione di mia moglie al barbaro! — sbottò brusco Alessandro.
— Allora ci sarà di nuovo guerra domani — dissi io.
— Certo che ci sarà! — confermò il giovane.
— Pensate davvero di essere abbastanza forti da sfondare le difese achee e bruciare la loro flotta?
— Decideranno gli dèi — rispose Ettore.
— In nostro favore — aggiunse Alessandro.
Quel ragazzo presuntuoso cominciava a non piacermi. — Una cosa è combattere dai carri, su questa pianura — indicai il campo di battaglia limitato dalla spiaggia, dai due fiumi, e dal promontorio a picco su cui sorgeva la città. — Un’altra è irrompere nell’accampamento acheo e combattere a piedi contro l’intero esercito. Non sarà uno scontro fra eroi. Tutti gli uomini dell’accampamento acheo combatteranno per la propria vita.
— Non credi che anche noi stiamo combattendo per le nostre vite? — ribatté Alessandro. — E per le vite delle nostre mogli e dei nostri figli?
— Io non credo che possiate annientare gli Achei — insistetti io. — Non con le forze che vedo nella pianura.
Alessandro rise. — Stai guardando nella direzione sbagliata, barbaro. Guarda là, invece!
Indicò l’entroterra, in direzione delle lontane colline boscose e delle montagne incombenti dietro di esse. — Là si trova l’impero Hatti — disse. — Si estende da questa spiaggia fino a est e a sud. Il Sommo Re Hatti ha combattuto contro gli Egiziani, Orion. E li ha vinti! Ed è nostro alleato.
Io tirai l’ovvia conclusione. — Aspettate aiuti da lui.
— È già in marcia. Ci siamo arrangiati da soli per le razzie achee nelle fattorie e nelle città delle vicinanze, ma quando il pomposo Agamennone ha portato qui il suo esercito, abbiamo mandato una delegazione al Sommo Re Hatti, nella sua capitale Hattusas.
Ettore disse con calma: — Ho visto quella città quando ero ragazzo, Orion. Potrebbe contenere Troia dieci volte. È immensa, ed è la potenza degli Hatti a renderla tale.
Io non dissi nulla.
— Sino ad ora, abbiamo combattuto gli Achei solo con l’aiuto dei nostri vicini, i Dardani e gli altri popoli della Troade — riprese Alessandro. — Ma quando gli Hatti manderanno le loro truppe, l’esercito di Agamennone sarà completamente annientato.
— Perché mi dite queste cose? — chiesi.
Prima che Alessandro potesse rispondere, Ettore spiegò: — Perché abbiamo deciso di fare ad Agamennone una controfferta, Orion. Noi non abbiamo cercato questa guerra. Preferiamo la pace, e le arti più tranquille del commercio e dello scambio, al sangue e al fuoco della battaglia.
Facendo tacere suo fratello con uno sguardo severo, Ettore continuò. — Il re Priamo offre onorevoli condizioni di pace. Se Agamennone porterà via il suo esercito e tornerà in Acaia, mio padre il re offre di negoziare un nuovo trattato di amicizia e di scambi che permetterà a Micene il libero passaggio dall’Ellesponto.
— Micene? — chiesi. — E le altre città achee: Itaca, la Pilo di Nestore, Tirinto…
— Micene — ripeté Ettore. — Come Sommo Re, Agamennone può stipulare accordi personali con le altre città achee. Finché per il transito verranno impiegate navi achee, Troia non farà alcuna obiezione.
Un colpo di diplomazia magistrale! Allettare con la possibilità di libero passaggio Agamennone, e solo lui, in modo da fornirgli anche una posizione di preminenza sulle altre potenze achee. Come minimo, avrebbe fatto scoppiare tali discordie tra i reuncoli achei da distruggere la loro capacità di unirsi in una guerra contro Troia. Magistrale!
— Porterò questo messaggio ad Agamennone — mentii.
— Fallo — disse Alessandro brusco. — E di’ all’avido Sommo Re che se non accetta la nostra offerta entro l’alba di domani, il suo corpo farà da cibo a nibbi e cani entro il tramonto.
Io lo fissai. Lui cercò di sostenere il mio sguardo, ma dopo un attimo guardò da un’altra parte.
— Resteremo in attesa di una risposta per l’alba di domani — disse Ettore. — Se la nostra offerta non viene accettata, forzeremo l’accampamento acheo. Anche se non avremo successo, è solo una questione di giorni perché l’esercito Hatti ci raggiunga.
— Abbiamo avuto messaggi con segnali di fumo — si vantò Alessandro. — Il loro esercito sarà in vista delle nostre mura entro tre giorni.
Guardai di nuovo Ettore. Lui annuì e io gli credetti.
— Ci sono stati abbastanza morti — disse Ettore. — È tempo di fare la pace. Agamennone può tornare a Micene con onore. Gli facciamo un’offerta generosa.
— Ma Elena resta con me! — aggiunse Alessandro.
Io dovetti sorridere a quelle parole. Non potevo davvero biasimarlo perché voleva tenerla.
Ettore mi diede una guardia d’onore di quattro uomini che mi scortarono fuori dalle porte Scee da cui ero entrato la notte prima. Ora, vedevo bene le massicce mura di Troia. Riuscivo quasi a credere che qualche dio avesse aiutato a costruirle. Blocchi enormi di pietra erano incuneati e fatti combaciare fino a un’altezza di più di nove metri, con alte torri quadrate che le sormontavano sulle porte e gli angoli principali. Le mura si inclinavano verso l’alto, così che risultavano più grosse al livello del terreno.
Dal momento che la città sorgeva sul promontorio a picco che guardava la pianura di Ilio, l’esercito attaccante avrebbe dovuto percorrere una salita prima di raggiungere le mura.
Tornai al campo Acheo e trovai Polete che mi aspettava sulla porta di fortuna.
— Che notizie porti? — chiese curioso. Mi accorsi che la sua voce, sebbene debole e stridente, non aveva il tono gracchiante e ansimante che affliggeva Priamo.
— Niente di buono — risposi. — Ci sarà battaglia domani.
Le spalle magre di Polete crollarono sotto la tunica consumata. — Pazzi. Maledetti pazzi.
Io sapevo che le cose erano diverse, ma non lo rivelai. Ci sarebbe stata battaglia, il giorno dopo, perché io non avrei fatto sapere alle due parti che ognuna di esse era pronta alla pace.
Andai direttamente da Ulisse, con Polete che mi saltellava vicino, le gambe ossute che facevano doppio lavoro per adeguarsi al mio passo. Soldati e nobili mi fissarono, leggendo nel mio viso cupo le notizie che portavo da Troia. Anche le donne mi guardarono, poi volsero il capo sapendo che il giorno successivo avrebbe portato sangue, massacro e terrore. Molte di loro erano native di quella terra, e speravano di essere liberate dalla schiavitù dai soldati troiani. Ma sapevano, pensai, che nella frenesia e nella sete di sangue della battaglia le loro possibilità di essere violentate e uccise erano molto più di quelle di essere riscattate e restituite alle loro famiglie.
L’alloggio di Ulisse era sul ponte della sua nave. Mi ricevette da solo, congedando aiutanti e servi per ascoltare il mio rapporto. Era nudo e bagnato dopo la sua nuotata mattutina, e si stava asciugando con forza con un ruvido asciugamano. Seduto su uno sgabello a tre zampe, si appoggiò con la schiena all’unico albero della nave. Le vele ammuffite che erano servite da tenda quando pioveva erano di nuovo piegate adesso che il sole splendeva, ma il viso barbuto del re di Itaca era scuro e simile a un presagio di sventura come una nuvola di tempesta, mentre gli dicevo che Priamo e i suoi figli avevano rifiutato i termini di pace degli Achei.
— Non hanno fatto nessuna controfferta? — chiese quando ebbi terminato il mio rapporto.
Senza esitare, mentii. — Nessuna. Alessandro ha detto che non consegnerà Elena, a nessuna condizione.
— Nient’altro?
— Lui e il principe Ettore mi hanno detto che un esercito Hatti sta marciando in loro aiuto.
Gli occhi di Ulisse si spalancarono. — Cosa? A che distanza sono da qui?
— A qualche giorno di marcia, a quanto ha detto Alessandro.
Si tirò la barba, con una reale costernazione sul viso. — Questo non può essere — mormorò. — Non può essere!
Io aspettai in silenzio, e guardai le barche allineate sulla spiaggia. Ognuna aveva l’albero rizzato, come se l’equipaggio si stesse preparando a salpare. Gli alberi non erano armati, il giorno prima.
Infine Ulisse saltò in piedi. — Vieni con me — disse con un tono di urgenza. — Agamennone deve saperlo.
— Gli Hatti stanno venendo qui? Per aiutare Priamo? — gracchiò Agamennone con la sua alta voce stridente. — Impossibile! Non può essere vero!
Il Sommo Re sembrava sgomento. Sedeva a capo del Consiglio, la spalla sinistra fasciata con strisce di stoffa macchiate di sangue e di un qualche cataplasma oleoso.
Era grosso di spalle e di corpo, costruito come una tozza torretta, tondo e massiccio dal collo ai fianchi. Indossava una cotta di maglia dorata sulla tunica, e sopra una corazza di pelle splendente, con fibre e ornamenti d’argento. Una spada ingioiellata gli pendeva dal fianco. Persino le gambe erano chiuse in schinieri di bronzo elaboratamente decorato, con fibbie d’argento. I sandali avevano nappe d’oro sui cinturini.
Nel complesso, Agamennone sembrava vestito più per una battaglia che non per un consiglio con i suoi luogotenenti e i re e i principi delle varie tribù achee.
Ma, conoscendo gli Achei e la loro tendenza alla discussione, forse sperava di intimorirli con la sua tenuta pomposa. O forse pensava sul serio di andare in battaglia.
Trentadue uomini sedevano in circolo intorno al piccolo focolare della baracca di Agamennone, i comandanti dei contingenti achei. Ogni regno alleato di Agamennone e di suo fratello Menelao era lì, sebbene i Mirmidoni fossero rappresentati da Patroclo anziché da Achille. Io sedevo dietro ad Ulisse, che si trovava due seggi più giù sulla destra del Sommo Re, così ebbi l’opportunità di studiare Agamennone da vicino.
C’era molta poca nobiltà nei lineamenti del Sommo Re. Come il suo corpo, il viso era largo e pesante, con un grosso naso tronco, la fronte bassa e gli occhi incassati che sembravano guardare il mondo con sospetto e risentimento. I capelli e la barba stavano appena cominciando a diventare grigi, ma erano ben pettinati e brillavano di un olio così profumato che mi faceva pizzicare le narici persino da dove ero seduto.
Teneva uno scettro di bronzo nella mano sinistra; quella destra era abbandonata mollemente in grembo. Una delle regole di equilibrio e ordine nelle riunioni del Consiglio stabiliva, a quanto pareva, che solo chi teneva lo scettro fosse autorizzato a parlare.
— Ho la promessa giurata dello stesso Hattusilis, Sommo Re dell’Hatti, che non interferirà nella nostra guerra contro Troia — disse Agamennone con tono petulante. — Scritta! — aggiunse.
— Ho visto l’accordo — confermò suo fratello Menelao.
Alcuni dei re e dei principi annuirono, ma il grande, rude Aiace, che sedeva a metà del circolo, parlò.
— Molti di noi non hanno mai visto il documento mandato dal Sommo Re Hatti.
Agamennone sospirò, quasi in modo femmineo, e si voltò verso un servo in piedi dietro la sua sedia. Immediatamente, questi andò in un angolo della stanza, dove un tavolo e varie casse erano stati raggruppati insieme a formare qualcosa di simile a un ufficio.
La baracca del Sommo Re era più grande di quella di Achille, ma non altrettanto lussuosa. Le pareti di tronchi erano nude, anche se il letto era coperto di ricchi drappi. Durante tutta la sfuriata, Agamennone non usò mai il palco; restò seduto allo stesso livello di tutti gli altri. Il bottino di dozzine di città era sparso tutt’intorno: armature, spade coperte di pietre preziose, lunghe lance con punte di bronzo luccicante, tripodi di ferro e di bronzo, casse che dovevano aver contenuto oro e gioielli. Il Sommo Re aveva fatto uscire le donne e gli schiavi. Non c’era nessuno, tranne il Consiglio, gli scriba e qualche servitore.
I servi portarono una tavoletta di argilla cotta coperta di iscrizioni cuneiformi. Agamennone la fece passare lungo il cerchio dei consiglieri. Ognuno la controllò attentamente, anche se mi sembrò che quasi nessuno di loro riuscisse a leggerla. Come a confermare il mio sospetto, una volta che fu tornata nelle sue mani Agamennone la fece leggere a voce alta da uno dei servi.
Il documento era un pezzo di magistrale fraseologia diplomatica. Salutava Agamennone come Sommo Re collega, e io vidi il suo petto gonfiarsi d’orgoglio al suono di quelle parole. Il Sommo Re dell’Hatti, sovrano di tutte le terre dalla sponda dell’Egeo sino alle antiche mura di Gerico (per sua stessa modesta ammissione), riconosceva la legittimità delle rimostranze achee contro Troia e prometteva di non interferire nella loro soluzione.
Naturalmente, la formulazione era molto più indiretta di così, ma il significato sembrava abbastanza chiaro. Persino un Troiano avrebbe dovuto ammettere che Hattusilis aveva promesso ad Agamennone che non avrebbe aiutato Troia.
— Eppure i Troiani sostengono che l’esercito Hatti è a pochi giorni di marcia, e viene in loro aiuto — disse Ulisse.
— Perdonami, Re di Itaca — disse il vecchio Nestore che sedeva tra Ulisse e Agamennone — ma non hai lo scettro, e quindi stai parlando senza averne il diritto.
Ulisse sorrise all’uomo dalla bianca barba. — Anche tu, Re di Pilo — disse gentilmente.
— Cosa stanno dicendo? — gridò uno dei principi dall’altra parte del cerchio. — Non riesco a sentirli!
Agamennone porse lo scettro a Ulisse, che si alzò e ripeté il suo discorso con voce chiara.
— Come facciamo a sapere che è vero? — si lasciò scappare Aiace.
Discussero tra loro, e alla fine mi ordinarono di raccontare esattamente quello che mi era stato detto. Io mi alzai e ripetei le parole di Alessandro e di Ettore.
— L’ha detto Alessandro? — Menelao sputò sul pavimento sabbioso. — È il principe dei bugiardi.
— Ma Ettore l’ha confermato — disse Nestore, prendendo frettolosamente lo scettro dalle mie mani. Mentre io mi sedevo, disse: — Se questa storia di un esercito Hatti fosse stata detta al nostro messaggero semplicemente da Alessandro, sarei d’accordo con il re Menelao… — Nestore continuò a divagare, sicuro del diritto dello scettro. Il succo del suo discorso era che Ettore era un uomo d’onore: se lui aveva detto che l’esercito Hatti si stava avvicinando a Troia, doveva essere vero. Ettore era un uomo a cui si poteva credere, diversamente da suo fratello.
— Questo significa disastro per noi! — gridò Agamennone, i piccoli occhi stretti che si colmavano davvero di lacrime. — L’esercito Hatti potrebbe distruggere noi e i Troiani allo stesso tempo!
Tutti sembravano essere d’accordo.
— Hanno combattuto battaglie contro gli Egiziani!
— Hanno conquistato Akkad!
— Hanno saccheggiato Babilonia!
— Hattusilis ha marciato su Mileto e la città gli ha aperto le porte, piuttosto che il suo esercito facesse crollare le mura.
La paura che si era diffusa tra i consiglieri era palpabile, come un vento freddo che spegne una candela e ti lascia al buio.
Nessuno di loro sembrava sapere cosa fare. Tremavano come un gruppo di antilopi che vede avvicinarsi un gruppo di leoni, e non riesce a decidere in che direzione scappare.
Infine Ulisse chiese lo scettro. Alzandosi, disse con calma: — Forse Ettore e il suo vile fratello sbagliano a credere che l’esercito Hatti stia marciando in loro aiuto. Forse le truppe Hatti sono nelle vicinanze per ragioni personali, ragioni che non hanno niente a che fare con la nostra guerra contro Troia.
Mormorii e borbottii di dissenso. — Troppo bello per essere vero disse una voce al di sopra dello sfondo brontolante.
— Io suggerisco di mandare un messaggero incontro al comandante Hatti per chiedere quali siano le sue intenzioni. Facciamo portare al nostro messaggero una qualche prova dell’accordo tra Hattusilis e il nostro Sommo Re, per ricordare al comandante Hatti che il suo Signore ha promesso di non interferire nella nostra guerra.
— A cosa servirebbe? — Agamennone strinse forte le mani, tremando e afferrandosi le spalle.
— Se hanno intenzione di combattere contro di noi potremmo almeno fare i bagagli e salpare verso casa.
Tutti furono d’accordo.
Ma Ulisse tenne lo scettro in alto finché tutti non fecero silenzio. — Se gli Hatti stessero davvero venendo in aiuto di Troia, Ettore si preparerebbe ad attaccare il nostro accampamento domani? — chiese.
Sguardi perplessi s’incrociarono da diversi punti del circolo. Molto grattare di barbe.
Ulisse continuò: — Si sta preparando ad attaccarci, questo lo sappiamo. Ma perché dovrebbe rischiare la vita della sua gente, e il suo stesso collo, se ci fosse per strada un esercito Hatti pronto a combattere al suo fianco?
— Per la gloria — rispose Patroclo.
— Ettore è come il mio signore Achille: la vita, per lui, significa meno dell’onore e della gloria.
Scuotendo la testa, Ulisse rispose:
— Forse questo è vero. Ma io non ne sono convinto. Io dico che dovremmo almeno mandare un messaggero a far vedere al comandante Hatti l’accordo giurato con noi, e a determinare se gli Hatti stanno venendo davvero in soccorso di Troia.
Ci volle circa un’altra ora di discussione, ma infine tutti furono d’accordo con il piano di Ulisse. Non avevano davvero nessun’altra scelta, se non salpare.
Il messaggero che scelsero, naturalmente, fui io.
Quando infine la riunione terminò, domandai a Ulisse il permesso di avvicinare Menelao per un messaggio privato da parte di sua moglie. Il Re di Itaca mi guardò con solennità, mentre la sua mente considerava fino in fondo le possibili conseguenze di un tale messaggio. Poi, con un cenno di assenso, chiamò a voce alta il nome di Menelao e si avvicinò al re spartano che stava uscendo dalla baracca.
— Orion ha un messaggio per te, da Elena — disse semplicemente, la voce bassa in modo che gli altri membri del Consiglio che si allontanavano non potessero sentirlo facilmente.
— Cos’è? — chiese Menelao impaziente, tenendomi strette le braccia mentre uscivamo sulla spiaggia.
Ulisse rimase con tatto dentro alla baracca. Menelao ed io facemmo qualche passo sulla sabbia prima che io parlassi. Era un uomo attraente, con una fitta barba nera e folti capelli ricci. Era di molti anni più giovane di suo fratello, e dove i lineamenti di Agamennone erano pesanti e quasi dozzinali, la struttura generale e il viso di Menelao avevano una sorta di forza e di fierezza. Era molto più magro del Sommo Re, non essendo così dedito alle gozzoviglie.
— Tua moglie ti manda i suoi saluti — cominciai — e dice che tornerà volontariamente con te a Sparta…
Il suo viso si illuminò.
Io finii: — …ma solo se avrai successo nel conquistare Troia. Dice che non lascerà Troia come premio di consolazione per chi ha perso la guerra.
Menelao trasse un profondo respiro e buttò indietro la testa. — Allora, per gli dèi — mormorò, — per Ares e Poseidone e per lo stesso Zeus potente, scalerò quelle mura e la riprenderò con me, non importa quanto sangue servirà!
Capivo come doveva sentirsi, avendo visto Elena e parlato con lei. E sentii anche una sensazione perversa di soddisfazione. Avevo fatto tutto quello che potevo per incoraggiare gli Achei ad andare avanti con la loro guerra. Non ci sarebbe stata nessuna pace con Troia. Non finché io potevo evitarlo.
Poi ricordai che c’era un esercito in marcia per venire in aiuto di Troia, e io dovevo trovarlo, e fermarlo in qualche modo.
Portai Polete con me.
Aspettammo sino al calare della notte, poi ci dirigemmo verso l’estremità meridionale dell’accampamento, dove il fiume più grande, lo Scamandro, divideva il nostro accampamento dalle forze troiane nella pianura.
Ulisse ci fece ottenere una fragile imbarcazione di canne, e io pagaiai nella forte corrente mentre Polete svuotava l’acqua. Il punto era vedere se il nostro vascello che imbarcava acqua sarebbe affondato prima di raggiungere l’altra riva. Ce la facemmo, ma proprio per miracolo.
La notte era scura; la luna non era ancora sorta. Piccoli banchi di nebbia stavano arrivando dal mare.
— Una notte per fantasmi e dèmoni — sussurrò Polete.
Ma il mio sguardo era sulla riva opposta del fiume, dove brillavano i fuochi troiani.
— Lascia perdere fantasmi e dèmoni — gli risposi sussurrando anch’io. — Stai attento invece che non ci siano vedette e sentinelle troiane.
Avevo una nuova spada al fianco e un mantello blu scuro sulle spalle. Polete aveva solo un piccolo coltello da caccia; non era bravo con le armi, diceva. Anche lui aveva un mantello che lo riparava contro il gelo della notte, e portava un piccolo zaino di carne secca e pane e una borraccia di pelle con il vino.
Io avevo al polso sinistro una leggera fascia di rame con la copia dell’accordo tra il Sommo Re Hatti e Agamennone. Sembrava un comune bracciale, ma era tutto inciso a caratteri cuneiformi. Bastava solo farla rotolare su una lastra di creta umida e il documento si sarebbe riprodotto.
Passammo le ore più buie della notte costeggiando la riva del fiume, risalendo verso l’entroterra oltre la pianura di Ilio e la città di Troia. Nell’oscurità i fitti cespugli si avviluppavano ai nostri piedi, facendoci rallentare. Cercavamo di muoverci in silenzio, ma spesso dovevamo tagliare i rami coperti di foglie. Quando la luna sbucò sopra le lontane montagne, stavamo scalando le pendici della prima delle colline. Potevo vedere il limitare delle foreste davanti a me, querce, frassini, faggi e larici, argentei e silenziosi nella luce della luna. Più su, pini scuri e abeti rossi dritti e alti. I cespugli si erano ormai fatti più radi, e potevamo andare più in fretta.
Polete ansimava forte, ma faceva del suo meglio per tenermi dietro. Mentre ci spingevamo tra le ombre più scure, una civetta gridò, come per sfidarci.
— Atena ci dà il benvenuto — disse Polete ansando.
— Cosa?
Mi afferrò la spalla. Io mi fermai e mi volsi. Lui era piegato in avanti, le mani sulle ginocchia nodose, respirava affannosamente e cercava di riprendere fiato.
— Non abbiamo bisogno… di dèmoni della foresta — ansimò. — Hai… il tuo dèmone personale… dentro di te.
Sentii un rimorso di coscienza. — Mi dispiace — dissi. — Non mi ero accorto che stavamo andando troppo in fretta per te.
— Possiamo… riposarci qui?
— Sì.
Si tolse lo zaino dalle spalle e crollò sul terreno muschioso. Io respirai una profonda boccata di aria pulita di montagna, frizzante di una traccia di pino.
— Cos’è che hai detto a proposito di Atena? — chiesi, inginocchiandomi vicino a lui.
Polete mosse vagamente una mano. — La civetta… è il simbolo di Atena. Il suo grido significa che lei ci dà il benvenuto al sicuro di questi boschi. Siamo sotto la sua protezione.
Sentii la mia mascella stringersi. — No, vecchio. Non può proteggere nessuno, nemmeno se stessa. Atena è morta.
Anche nel buio riuscii a vedere i suoi occhi spalancarsi. — Cosa stai dicendo? Questo è sacrilegio!
Io mi strinsi nelle spalle e mi accovacciai sul terreno vicino a lui.
— Orion — disse Polete con convinzione sollevandosi su un gomito, — gli dèi non possono morire. Sono immortali!
— Atena è morta — ripetei, sentendo un dolore sordo alla bocca dello stomaco.
— Ma tu sei al suo servizio!
— Io servo la sua memoria. E vivo per vendicarmi del suo assassino.
Lui scosse la testa incredulo. — È impossibile, Orion. Gli dèi e le dee non possono morire. Non finché anche un solo mortale si ricorda di loro. Finché tu onori Atena e la servi, lei non è morta.
— Forse è così — dissi, per calmare lui e la sua paura. — Forse hai ragione.
Ci sdraiammo per dormire qualche ora, avvolti nei nostri mantelli. Io avevo paura di chiudere gli occhi, così rimasi ad ascoltare i rumori tenui della foresta, il dolce fruscio degli alberi nella brezza fresca e scura, il ronzio degli insetti, il richiamo occasionale di una civetta.
“Lei è morta” mi dissi. “È morta nelle mie braccia. E io ucciderò il Radioso, un giorno.”
La luna mi guardava furtivamente attraverso i rami ondeggianti degli alberi. “Artemide, sorella di Apollo” pensai. “Difenderai tuo fratello contro di me? O eri tu che discutevi contro di lui? Gli altri dèi mi combatteranno o mi saranno alleati nella vendetta contro il Radioso?”
Dovevo essermi addormentato, perché sognai di vederla di nuovo: Atena, in piedi, alta e splendente d’argento luccicante, i lunghi capelli scuri lucidi come l’ebano, i begli occhi grigi che mi guardavano cupamente.
— Non sei solo, Orion — mi disse. — Hai molti alleati intorno a te. Devi solo trovarli. E condurli alla tua meta.
Io cercai di raggiungerla, ma mi ritrovai seduto sul terreno muschioso della foresta, la nuova luce gialla del sole che filtrava tra gli alberi. Gli uccelli stavano innalzando un canto di benvenuto al nuovo giorno.
Polete si stiracchiò prima che decidessi di svegliarlo. Mangiammo una colazione fredda bagnata da vino tiepido, poi riprendemmo la marcia.
Ci dirigemmo verso nord, verso la strada che partiva dall’entroterra di Troia. Superammo due file di colline boscose, e quando raggiungemmo la cima della terza vedemmo distendersi sotto di noi un’ampia vallata, disseminata di campi coltivati. Un fiume serpeggiava dolcemente, e lungo le sue rive, l’uno vicino all’altro, sorgevano minuscoli villaggi.
Una brutta colonna di fumo nero si alzò da uno di quelli.
L’indicai: — L’esercito Hatti è là.
Scendemmo in fretta dal pendio boscoso e giungemmo nei campi di grano alto sino al petto, camminando a fatica tra le messi dorate come naufraghi che vacillano nella salvezza di una spiaggia sconosciuta.
— Perché un alleato troiano dovrebbe bruciare un villaggio troiano? — chiese Polete.
Io non avevo risposta. La mia attenzione era fissa su quella colonna di fumo e sul pietoso mucchio di baracche brucianti che lo producevano. Riuscivo a vedere i carri e i cavalli, adesso, e uomini in armature che luccicavano sotto il sole del mattino.
Ci facemmo strada in mezzo al grano che maturava e arrivammo sul bordo del campo. Polete mi tirò il mantello.
— Forse sarebbe meglio se stessimo giù finché non scopriamo cosa sta succedendo qui.
— Non c’è tempo — dissi. — Ettore starà attaccando la spiaggia ormai. Se queste sono truppe hatti, dobbiamo scoprire che intenzioni hanno.
Continuai ad avanzare e dopo una dozzina di passi uscii dalla zona coltivata. Potevo vedere chiaramente i soldati, adesso. Erano più alti e più belli degli Achei. E, presi uno per uno, meglio armati ed equipaggiati. Ciascuno portava una tunica di maglia metallica e un elmo di lucido ferro nero. Le loro spade erano lunghe, con le lame di ferro, non di bronzo. I loro scudi erano piccoli e quadrati, legati sulle spalle, dal momento che non c’era nessun combattimento in atto.
Ne vidi una mezza dozzina che stava radunando una famigliola di contadini fuori dalla loro capanna: un uomo, sua moglie e due giovani figlie. I quattro sembravano terrorizzati, come conigli presi in trappola. Caddero in ginocchio e alzarono le mani in un gesto di supplica. Uno dei soldati gettò una torcia sul tetto di paglia della capanna, mentre gli altri si stringevano intorno ai contadini supplicanti e piangenti, con le spade sguainate e sorrisi minacciosi.
— Fermatevi! — gridai, dirigendomi velocemente verso di loro. Potevo sentire dietro di me il frusciare di Polete che se ne stava nascosto tra gli steli di grano.
I soldati si voltarono.
— Chi diavolo sei? — gridò il loro comandante.
— Un messaggero del Sommo Re Agamennone — risposi, incamminandomi verso di lui. Era leggermente più basso di me, ben costruito, con le cicatrici di molte battaglie. Il suo viso era duro e fiero come un falcone da caccia, con gli occhi che brillavano sospettosi; il naso era curvo come il becco di un falco. Aveva la spada in mano. Io tenni la mia nel fodero.
— E chi è, in nome dei Nove Signori della Terra, il Sommo Re Aga… qualunque cosa sia?
Io stesi il braccio sinistro. — Porto un messaggio del vostro Sommo Re, un messaggio di pace e di amicizia che ha mandato ad Agamennone.
Il soldato sogghignò acidamente. — Pace e amicizia, eh? — Sputò ai miei piedi. — Questo è quanto valgono pace e amicizia. — Poi disse ai cinque uomini dietro di lui: — Tagliate la gola all’uomo e prendete le donne.
Mi occuperò di questo qui di persona.
Il mio corpo passò istantaneamente all’ipervelocità, ogni senso così acutizzato che potevo vedere le vene dell’Hatti pulsargli sul collo, proprio dietro l’orecchio, e sentire il sibilo della sua lama di ferro che volteggiava nell’aria. Dietro di lui, vidi uno degli altri soldati afferrare per i capelli il contadino inginocchiato e tirargli indietro la testa per scoprirgli la gola. La moglie e le figlie trattenevano il respiro.
Io evitai facilmente la lama volteggiante e mi lanciai contro il soldato che stava per massacrare il contadino. Il mio balzo li fece cadere entrambi per terra. Rotolai per rimettermi in piedi e colpii il soldato alla testa con un calcio. Cadde sulla schiena, svenuto.
Tutto accadde così rapidamente che le mie reazioni sembravano automatiche, al di fuori di qualsiasi consapevole controllo. Disarmai i due soldati più vicini prima che i loro compagni potessero muoversi. Quando lo fecero, sapevo già le loro intenzioni dai movimenti dei loro occhi, dalla contrazione dei muscoli dei bicipiti o delle cosce. Fu solo questione di piantare un pugno in un plesso solare e un altro alla mascella del soldato successivo, fratturando l’osso.
Ero davanti alla famigliola inginocchiata e stretta insieme, con cinque soldati hatti sul terreno dietro di me e il loro comandante di fronte, con la spada ancora in mano. Aveva la bocca spalancata, gli occhi fuori dalle orbite. Non c’era paura sul suo viso, solo uno stupore che gli bloccava il respiro in gola.
Per’un istante restammo l’uno di fronte all’altro, pronti al combattimento. Poi, urlando un’imprecazione, lui tirò indietro il braccio con la spada per quello che pensai fosse un affondo.
Invece, lanciò l’arma. Vidi la punta volare esattamente in direzione del mio petto. Non ebbi tempo per altro che un piccolo passo di lato. Mentre la lama scivolava oltre la mia veste di pelle io afferrai l’impugnatura. Lo slancio della spada e il mio stesso movimento mi fecero fare un giro su me stesso. Quando mi trovai di nuovo di fronte al soldato, avevo la sua spada in mano.
Sembrava incollato al terreno. Ero sicuro che sarebbe corso via se avesse potuto controllare i suoi piedi, ma lo shock l’aveva immobilizzato.
— Metti insieme i tuoi uomini e portami dal tuo ufficiale comandante — dissi, gesticolando con la spada.
— Tu… — guardava la spada a bocca aperta, senza sollevare lo sguardo su di me. — Tu non sei… umano. Devi essere un dio.
— Serve Atena! — disse con voce acuta Polete, uscendo dal suo nascondiglio nel campo di grano, con un sorriso che mostrava i denti mancanti sul vecchio viso rugoso. — Nessuno può resistere contro Orion, servitore della dea guerriera.
Io gli porsi di nuovo la spada. — Come ti chiami, soldato?
— Lukka — rispose. Gli ci vollero tre tentativi per rimettere la spada nel fodero, tanto gli tremava la mano.
— Non ho niente contro di te, Lukka, o contro qualunque soldato hatti. Portami dal tuo comandante; ho un messaggio per lui.
Lukka era completamente frastornato. Riunì i suoi uomini: uno aveva una mascella rotta; un altro sembrava stordito e aveva gli occhi vitrei da commozione cerebrale.
Il contadino e la sua famiglia si avvicinarono a me strisciando sulle mani e sulle ginocchia e cominciarono a baciarmi i piedi coperti dai sandali. Misi in piedi l’uomo rudemente, prendendolo per le spalle, e dissi alle donne di alzarsi.
— Che tutti gli dèi ti proteggano e facciano avverare ogni tuo desiderio — disse il contadino. Sua moglie e le figlie tennero la testa bassa, fissando per terra. Ma io potei vedere i loro volti rigati di lacrime.
Sentii la bile in gola. Che tutti gli dèi ti proteggano! Nella sua ignoranza pensava che gli dèi si interessassero davvero degli esseri umani, che potessero davvero essere toccati dalle preghiere e dai sacrifici. Se quell’uomo semplice avesse saputo cosa erano gli dèi in realtà, avrebbe vomitato per il disgusto. Eppure, quando guardai nei suoi occhi pieni di lacrime, non potei permettermi di disilluderlo. A cosa sarebbe servito, se non a riempire i suoi giorni del tormento è del dubbio?
— E che gli dèi proteggano te, contadino. Tu fai uscire la vita dal grembo di Madre Natura. Questa è un’occupazione molto più degna del guerreggiare e dell’uccidere.
Dopo altri ringraziamenti, i quattro rientrarono di corsa nella loro capanna per spegnere il fuoco appiccato dai soldati. Io seguii Lukka e i suoi uomini zoppicanti e feriti attraverso il villaggio in fiamme alla ricerca del comandante. Polete trotterellava al mio fianco, recitando un resoconto minuziosissimo di quanto era appena successo, facendo le prove per un futuro racconto.
Mi sembrava chiaro che quello era un contingente assolutamente troppo piccolo per essere l’esercito Hatti. Eppure non c’erano altre truppe nella valle, per quanto Polete ed io avevamo potuto vedere dalla cima della collina. Quella piccola unità poteva essere l’esercito che Ettore e Alessandro si aspettavano dovesse aiutarli?
E se quei soldati erano alleati dei Troiani, perché stavano bruciando un villaggio troiano?
Nella piazza del villaggio, nient’altro che una radura di terra nuda in mezzo alle capanne di mattoni secchi, una processione di soldati si stava snodando oltre una fila di carri e bighe. Il comandante si trovava su una delle bighe, intento a suddividere il bottino tra i suoi uomini. I soldati stavano caricando le misere proprietà degli abitanti del villaggio su un carro, in una lunga fila disordinata: una brocca per il vino a due manici, una coperta, un paio di polli stridenti che sbattevano le ali, una lampada d’argilla, un paio di stivali. Non era un villaggio ricco.
In lontananza potevo sentire le grida e il pianto delle donne. A quanto pareva i soldati non le stavano prendendo prigioniere; le violentavano e le lasciavano ai loro lamenti.
Il comandante era un uomo basso, scuro di carnagione, tarchiato, più simile agli Achei che non Lukka e i suoi uomini. Aveva i capelli e la folta barba di un nero così scuro che sembravano mandare riflessi bluastri. Una brutta cicatrice bianca gli sfregiava la parte sinistra del viso, dalla guancia alla linea della mascella, dividendo la barba. Come gli altri soldati hatti, indossava una maglia metallica; la corazza di pelle, però, era lavorata con arte, e la spada era intarsiata d’avorio lungo l’impugnatura.
Lukka rimase a rispettosa distanza con me al fianco e Polete di dietro, mentre i suoi cinque uomini si allontanavano zoppicando per prendersi cura dei lividi e delle ferite. Il comandante lanciò uno sguardo interrogativo dalla nostra parte, ma continuò a dividere il bottino che i soldati portavano davanti a lui: circa la metà di tutto finiva in un mucchio ai piedi del suo carro; i soldati portavano via per sé l’altra metà. Io incrociai le braccia sul petto e aspettai, l’odore delle capanne che bruciavano nelle narici, il lamento delle donne nelle orecchie.
Infine, l’ultima brocca di terracotta e le ultime capre belanti furono spartite e il comandante fece segno a un paio di uomini scalzi vestiti di rozzi corsetti di raccogliere la sua parte di bottino e di caricarla sul suo carro. Schiavi, pensai. O magari thetes.
Il comandante scese stancamente dalla biga e chiamò Lukka a rapporto piegando il dito.
Osservandomi mentre ci avvicinavamo, disse: — Quest’uomo non è un contadino merdoso.
Lukka si batté il pugno sul petto e rispose: — Dichiara di essere un messaggero di qualche sommo re, signore.
Il comandante mi studiò. Io mi chiamo Arza. E tu?
— Orion — risposi.
— Sembri più un combattente che un messaggero.
Io toccai il bracciale sul mio polso sinistro. — Porto un messaggio del Sommo Re di Hatti al Sommo Re degli Achei, un messaggio di pace e di amicizia.
Arza diede uno sguardo a Lukka, poi spostò i suoi profondi occhi castani di nuovo su di me. — Il Sommo Re dell’Hatti, eh? Bene, il tuo messaggio non vale l’argilla su cui è scritto. Non c’è nessun Sommo Re dell’Hatti. Non più. Il vecchio Hattusilis è morto. La grande fortezza di Hattusas era in fiamme l’ultima volta che l’ho vista.
Polete ansimò. — Gli Hatti sono caduti?
— I grandi nobili di Hattusas combattono tra di loro — disse Arza. — Il figlio di Hattusilis sembra sia morto, stando alle voci.
— Allora cosa state facendo qui? — chiesi.
Lui sbuffò. — Sopravviviamo, messaggero. Meglio che possiamo. Vivendo in questa terra e combattendo le altre bande di soldati e di predoni che cercano di portarci via quello che abbiamo.
Io diedi uno sguardo al villaggio. Un fumo nero e sporco macchiava il cielo terso. I cadaveri che giacevano sul terreno attiravano nuvole di mosche.
— Siete voi stessi una banda di predoni — dissi.
Gli occhi di Arza si strinsero. — Parole dure da parte di un messaggero. — Sghignazzò all’ultima parola.
Ma la mia mente stava andando più in là. — Ti piacerebbe entrare al servizio del Sommo Re acheo? — chiesi.
Lui rise. — Non servirò nessun re barbaro né chiunque altro. La banda di Arza serve se stessa! Andiamo dove vogliamo andare e prendiamo quello che vogliamo prendere.
— Guerrieri potenti — risposi con disprezzo. — Bruciate villaggi e violentate donne inermi che non hanno soldati a proteggerle. Molto coraggioso da parte vostra.
Con la coda dell’occhio vidi Lukka impallidire e fare mezzo passo lontano da me. Sentii anche Polete farsi indietro.
Arza strinse la mano sull’impugnatura intarsiata d’avorio della sua spada. — Hai l’aspetto di un soldato — ringhiò. — Vuoi proteggere quello che è rimasto di questo villaggio? Contro di me?
Lukka disse: — Devo metterti in guardia, signore; quest’uomo è un combattente come non ne ho mai visti prima. Serve Atena e…
— La dea puttana? — rise Arza. — Quella che dichiara di essere vergine? Il mio dio è Taru, il dio della tempesta e del lampo, e lui vincerà sempre la tua graziosa verginella! Non resterà vergine a lungo se combatte contro Taru!
Stava cercando di provocarmi. Io scossi la testa e mi voltai per allontanarmi.
— Lukka — ordinò lui a voce alta. — Taglia la gola di questo codardo.
Prima che l’angosciato Lukka potesse rispondere, mi girai di nuovo di fronte ad Arza e dissi: — Fallo da solo, potente assalitore di donne.
Fece un largo sogghigno e sguainò la spada dal fodero piuttosto consumato. — Con piacere, messaggero — rispose.
Estrassi la spada anch’io, e Arza rise di nuovo. — Bronzo! Povero pazzo, taglierò quel giocattolo a metà, con il mio ferro!
Mentre avanzava verso di me puntandomi addosso la sua lama, io passai di nuovo all’ipervelocità. Tutto rallentò: riuscivo a vedere il suo petto che saliva e scendeva mentre respirava, e un rivolo di sudore che si formava sulla sua fronte e cominciava a scendergli sulla guancia. Lukka era fermo come una statua, incapace di decidere se doveva tentare di fermare il suo comandante o unirsi al suo attacco. Polete aveva gli occhi spalancati, la bocca leggermente aperta, le mani che cercavano di afferrare l’aria intorno.
Arza avanzò di qualche passo; poi indietreggiò di nuovo verso il suo carro, senza togliermi gli occhi di dosso, allungò una mano indietro e prese lo scudo. Io rimasi dov’ero e lasciai che se lo fissasse al braccio. Mi fece un sogghigno e, vedendo che non mi muovevo per attaccarlo, afferrò anche l’elmo di ferro e se lo mise. Era lucido sino a brillare, e i paraorecchi gli proteggevano i lati del volto. Vidi che la cicatrice scendeva esattamente lungo il bordo del lembo di ferro.
Era un soldato di professione e avrebbe approfittato di qualunque vantaggio gli avessi concesso. Da parte mia, non avevo nessun desiderio di ucciderlo, ma se l’unico modo per guadagnare il suo rispetto era avere la meglio su di lui in combattimento, ero più che pronto a farlo.
Avanzò verso di me con sicurezza, chinandosi leggermente, scrutandomi attraverso la stretta fessura tra il bordo dell’elmo e la cima dello scudo. C’era il simbolo di un lampo dipinto rozzamente sulla pelle tesa dello scudo. Aspettai, osservando. Lo scudo copriva la maggior parte del suo corpo quando stava chinato, rendendo difficile vedere da che parte intendesse muoversi. Nonostante questo, aspettai. Fece una finta, muovendo lo scudo in direzione del mio viso e dirigendo contemporaneamente un colpo di spada all’altezza della mia cintura.
Parai il suo affondo con la mia lama di bronzo, poi di rovescio incrinai la cornice di metallo del suo scudo. Ma il colpo ruppe la mia spada a metà.
Con un grido esultante Arza gettò via lo scudo rotto e si lanciò verso di me. Avrei potuto facilmente infilzarlo con il troncone appuntito della mia lama, invece gli andai incontro, lo afferrai al polso con la mano sinistra e lo colpii sulla testa con il pomello della spada rotta.
Cadde in ginocchio, rotolò, e scosse il capo. Vidi una bella ammaccatura sul suo elmo lucido.
Poi si rimise in piedi e mi si lanciò di nuovo addosso. Io lasciai cadere la spada, gli presi il braccio con entrambe le mani e gli feci lasciare l’arma.
Con un ringhio di rabbia estrasse furiosamente la daga e venne una terza volta verso di me.
Io indietreggiai, le mani aperte. — Non ho nessuna voglia di ucciderti — gli dissi.
Lui si chinò e raccolse la spada dal terreno polveroso. Ormai più di una dozzina dei suoi soldati si era riunita intorno a noi, a bocca spalancata.
— Ti ucciderò, messaggero, nonostante i tuoi trucchi — ringhiò.
Mi venne di nuovo incontro, con spada e daga, menando colpi e imprecando contro di me, con la bava alla bocca. Io mi spostai leggermente con un salto, chiedendomi quanto sarebbe potuto durare quel gioco.
— Stai fermo e combatti! — gridò lui.
— Senza un’arma?
Venne di nuovo alla carica e, invece di correre, mi abbassai e lo feci inciampare. Cadde pesantemente.
Ma si rimise in piedi, latrando. — Ti ucciderò!
— Non puoi — risposi.
— Lo farò. Voi, uomini, tenetelo fermo!
I soldati esitarono solo un attimo, abbastanza a lungo da farmi capire che se non avessi ucciso quell’animale impazzito, lui avrebbe ucciso me.
Prima che potessero mettermi le mani addosso, raccolsi il mozzicone della mia spada di bronzo e avanzai verso Arza. Lui mi rivolse un sorriso malvagio e fece un affondo, pronto a intervenire con la daga se avessi cercato di parare il colpo di spada. Invece io scartai con un passo di lato e diressi l’estremità appuntita della mia lama contro il suo petto, proprio sotto l’ascella.
Arza sembrò molto sorpreso. La sua bocca si spalancò, poi si riempì di sangue. Per un attimo avvertii tutto il peso del suo corpo sul braccio teso con cui tenevo la spada, poi lasciai andare l’arma e lui cadde nella polvere, con le mani che ancora stringevano le inutili lame.
Guardai Lukka. Lui lanciò un’occhiata al comandante caduto, poi a me. Una sua parola e un intero drappello di armati mi sarebbe stato addosso.
Prima che potesse parlare, gridai ai soldati: — Quest’uomo vi ha condotto a piccole vittorie contro miseri villaggi di contadini. Vi piacerebbe partecipare al bottino di una grande città, piena d’oro? Chi vuole seguirmi e aiutarmi a conquistare Troia?
Alzarono le mani e gridarono di gioia. Tutti.
C’erano quarantadue uomini nella banda hatti, e io li condussi attraverso lo Scamandro e poi giù, verso la spiaggia dove dovevano essere accampati gli Achei, se non erano stati spazzati via da Ettore e dai suoi.
Lukka mi accettò come loro capo. Mantenne impassibile il suo viso da falco, ma mi pareva di vedere nei suoi occhi scuri un accenno di riverente timore per le mie prodezze. Gli altri lo seguirono. Non avevano avuto molto affetto per il caduto Arza. Questi era il loro comandante quando la lotta civile era scoppiata tra le varie fazioni hatti, e come tutti i soldati di professione, avevano seguito il loro capo anche se non ne erano particolarmente contenti. Finché li teneva insieme, e assicurava loro la sopravvivenza razziando villaggi inermi, erano disposti a mettere da parte le sue piccole tirannie e il suo cattivo carattere.
— Abbiamo fatto una vita da cani — mi raccontò Lukka mentre ci arrampicavamo sulle creste boscose fra la strada e il fiume. — La mano di ogni uomo è alzata contro tutti gli altri. Non c’è più nessun ordine nella terra degli Hatti, non da quando il vecchio re è morto e suo figlio è stato scacciato dai nobili. Ora combattono per il regno e l’esercito è diviso in dozzine di piccole bande come la nostra, senza disciplina, senza rispetto, senza nessuna paga se non quello che riusciamo a rubare ai contadini e agli abitanti dei villaggi.
— Quando arriveremo all’accampamento acheo — gli promisi — il Re Ulisse sarà felice di accogliervi al suo servizio.
— Sotto il tuo comando — disse Lukka.
Io lo fissai. Era assolutamente serio. Dava per scontato che l’uomo che aveva ucciso Arza avrebbe preso il comando della truppa.
— Sì — dissi — sotto il mio comando.
Fece un ghigno avido. — C’è molto oro a Troia, questo lo so. Abbiamo scortato una carovana di tributi dalla Troade ad Hattusas, una volta. Un sacco di oro.
Così marciammo verso la pianura di Ilio. Adesso ero il capo di un’unità di mercenari che sognavano di saccheggiare la città. L’esercito che Ettore aspettava per difendere Troia non esisteva più; si era diviso in una quantità di bande di predoni, preoccupate solo della propria sopravvivenza.
Lukka divenne automaticamente il mio luogotenente. Lui conosceva gli uomini e io no. Mi considerava poco meno di un dio. Mi faceva sentire a disagio, ma al momento mi serviva. Era un soldato di professione, forte e onesto. Era un uomo di poche parole, ma ai suoi occhi da falco non sfuggiva nulla, e gli uomini lo rispettavano.
Dormimmo negli stessi boschi in cui Polete ed io avevamo passato la notte precedente. Mi sdraiai, spada e daga ai fianchi, e desiderai con forza che la mia mente si mettesse in contatto con gli dèi. No, non erano dèi, ricordai a me stesso. Creatori, sì. Ma non dèi.
Chiusi gli occhi e tesi ogni nervo per vederli di nuovo, per parlare con loro. Completamente invano. Tutto quello che ottenni fu una serie di muscoli irrigiditi dalla tensione, che mi fecero dolere la schiena e il collo in modo orribile e mi tennero sveglio per la maggior parte della notte.
Il mattino seguente trovammo un guado nel fiume, lo attraversammo e marciammo verso il mare.
Era ben oltre mezzogiorno quando vedemmo le mura incombenti di Troia, in alto sul promontorio a picco. Le tende troiane non punteggiavano più la pianura; al loro posto, il terreno eroso tra le fortificazioni achee e le mura della città era ingombro delle macerie di una battaglia. Carri rotti e laceri rimasugli di tende erano sparsi dappertutto. Donne vestite di nero e schiave mezze nude si muovevano lentamente, con aria affranta, tra i mucchi di corpi che giacevano riversi e spogliati delle armature sotto il sole alto. Gli avvoltoi giravano pazientemente sopra di loro. Protuberanze scure di cavalli morti giacevano qua e là. Lo scontro doveva essere stato feroce, mi dissi. Ma le navi achee erano ancora allineate sulla spiaggia, gli scafi neri intatti. In qualche modo, Agamennone, Ulisse e gli altri erano sopravvissuti all’attacco furibondo di Ettore.
Polete fissò la carneficina oltre il fiume con gli occhi spalancati e pieni di lacrime. Lukka e gli altri soldati hatti sembravano valutare la situazione con sguardo professionale.
— Quella è Troia — disse Lukka indicandola.
— Quella è Troia — confermai.
Diede uno sguardo d’apprezzamento alle mura. — Non sarà facile aprire una breccia in quelle difese.
— Ma si può fare davvero?
Lui sorrise cupamente. — Se le grandi mura di Hattusas hanno potuto essere rovesciate, quella città può essere presa.
Aspettammo nell’ombra degli alberi lungo il bordo del fiume, mentre Polete e uno dei soldati hatti l’attraversavano sulla fragile barca di canne ed entravano nell’accampamento acheo. I miei ordini a Polete erano di fare rapporto a Ulisse e a nessun altro.
Passò un’ora. Due. Il sole brillava sul mare, il pomeriggio era caldo e tranquillo. Infine vidi una galea dalla testa di delfino scivolare verso di noi, con i remi che si muovevano a un ritmo tranquillo. Entrammo nell’acqua fresca e ci issammo a bordo della nave di Itaca. Lukka insistette perché io andassi per primo. Lui salì per ultimo.
Polete si sporgeva dalla murata, e tendeva le braccia magre per aiutarmi a salire. Il suo viso dalla barba ispida era cupo.
— Che notizie ci sono? — chiesi sgocciolando acqua sul ponte e sui rematori.
— Ieri si è combattuta una grande battaglia — rispose lui.
— Questo lo vedo.
Mi prese per il gomito e mi portò verso poppa, lontano dai rematori. — Ettore e i suoi fratelli hanno sfondato le difese e sono entrati nell’accampamento. Achille rifiuta ancora di combattere, ma Patrocolo ha indossato l’armatura del suo padrone e ha guidato i Mirmidoni al contrattacco. Hanno scacciato i Troiani dall’accampamento e li hanno inseguiti fin sotto alle mura di Troia.
— Devono aver pensato che fosse Achille — mormorai.
— Forse sì. Un dio ha riempito Patroclo di frenesia di battaglia. Tutti nell’accampamento pensavano che fosse troppo debole per combattere, eppure ha ricacciato i Troiani dentro le loro stesse porte e ne ha uccisi a dozzine di sua mano.
Drizzai un sopracciglio. A “dozzine”. Le storie di guerra crescevano a ogni racconto, e quella stava già diventando esagerata dopo solo ventiquattr’ore.
— Ma poi gli dèi hanno abbandonato Patroclo — continuò il cantastorie tristemente. — Ettore lo ha trafitto con la sua lancia e ha spogliato il suo cadavere dell’armatura d’oro di Achille.
Sentii il mio viso che si tendeva. “Gli dèi fanno i loro giochi” pensai. “Lasciano che Patroclo abbia il suo momento di gloria e poi ne esigono il prezzo.”
— Adesso Achille si lamenta nella sua tenda e si copre la testa di cenere. Giura una feroce vendetta contro Ettore e tutti i Troiani.
— Dunque combatterà — dissi, chiedendomi se fosse stato uno di quelli che si opponeva al Radioso a organizzare tutto, in modo che Patroclo morisse per far tornare Achille in battaglia.
— Domani mattina — mi disse Polete — Achille incontrerà Ettore in singolare duello. Si sono accordati attraverso i messaggeri. Non ci sarà combattimento sino ad allora.
Singolar tenzone tra Ettore e Achille. Ettore era di gran lunga il più forte dei due, freddo e intelligente anche in battaglia. Achille era senza dubbio più agile, anche se più piccolo, e sostenuto da quel tipo di rabbia che conduce gli uomini a gesta impossibili. Solo uno sarebbe uscito vivo dallo scontro, lo sapevo.
Anche prima che la nostra galea attraccasse, riuscii a sentire i gemiti e i lamenti funebri dell’accampamento dei Mirmidoni. Sapevo che era una questione di forma, che il principe Achille aveva ordinato alle donne di piangere. Ma c’erano voci profonde di uomini tra le grida delle donne. E un tamburo che batteva una nenia lenta e triste. Un enorme falò bruciava da quella parte dell’accampamento, mandando verso il cielo un fumo nero e fuligginoso.
— Achille piange il suo amico — disse Polete. Ma potevo vedere che quell’esibizione di dolore lo innervosiva un po’.
Eppure, nonostante i riti di lutto dei Mirmidoni, il resto dell’accampamento era eccitato per l’imminente incontro tra Achille ed Ettore. C’era quasi un’atmosfera di festa, tra gli uomini. Stavano piazzando scommesse, dando probabilità. Ridevano e ci scherzavano sopra, come se non avesse niente a che fare con il sangue e la morte. Mi accorsi che stavano cercando di esorcizzare l’incertezza e il terrore che tutti provavano. Le lamentazioni dal campo dei Mirmidoni continuarono implacabili. Ma lentamente mi venne in mente che tutti si rendevano conto che quella battaglia tra i due campioni avrebbe deciso la guerra, in un modo o nell’altro. Pensavano che, indipendentemente da chi sarebbe caduto, la guerra sarebbe finita e loro avrebbero potuto finalmente tornare a casa.
Ulisse ispezionò il contingente hatti appena sbarcò dalla sua galea. Lukka li schierò in una doppia fila, con me alla testa, mentre il rullo del tamburo funebre e i gemiti dei lamentatori stavano sospesi sopra di noi come la gelida mano della morte.
Il re di Itaca tentò d’ignorarne il suono. Mi sorrise. — Bene, Orion, hai portato con te il tuo esercito personale.
— Mio signore Ulisse — risposi — come me, questi uomini sono ansiosi di servirti. Sono soldati esperti, e possono esserti di grande aiuto.
Lui annuì, guardando i nuovi arrivati con attenzione. — Accetterò i loro servigi, Orion. Ma non prima di aver parlato con Agamennone. Non sarebbe bene far ingelosire, o impaurire, il Sommo Re.
— Come desideri — dissi. Conosceva la politica e la personalità dei suoi compagni Achei molto meglio di me. Ulisse non era chiamato l’astuto per niente.
Mentre ci dirigevano verso la nave che ospitava il suo alloggio, gli spiegai che non c’era nessun esercito Hatti in marcia in soccorso di Troia, riportandogli quello che Arza e Lukka mi avevano detto a proposito della morte del Sommo Re e della guerra civile che stava dilaniando l’impero.
Accarezzandosi la barba pensierosamente, Ulisse mormorò: — Pensavo che il Sommo Re stesse perdendo il suo potere quando ha permesso ad Agamennone di sistemare il suo contrasto con Priamo. In passato, gli Hatti hanno sempre protetto Troia e sono intervenuti contro chiunque abbia minacciato la regione.
Feci in modo che i nuovi soldati fossero nutriti e ottenessero tende e una sistemazione per la notte imminente. Sedevano in circolo intorno al loro fuoco, senza mescolarsi con gli Achei. Da parte loro, questi guardavano gli Hatti con non poco timore. Guardavano con invidia le loro uniformi di maglia metallica e pelle lavorata. Tra gli Achei, non ce n’erano due abbigliati nello stesso modo o con lo stesso equipaggiamento. Vedere circa quaranta uomini vestiti in modo identico era una novità per loro.
Con mia sorpresa, però, non sembravano impressionati e neanche interessati alle spade di ferro che gli Hatti portavano. Io stesso avevo la spada di Arza, e avevo visto con i miei occhi quanto una lama di ferro fosse più resistente di una di bronzo.
Mentre il sole tramontava, colorando il mare di un profondo rosso vino, Lukka mi si avvicinò. Io sedevo separato dagli uomini, e cenavo con Polete al fianco. Lukka si fermò dalla parte opposta del nostro piccolo fuoco, giocherellando nervosamente con le cinghie dell’armatura, il viso contratto in un cupo cipiglio. Pensai che venisse a lagnarsi per le lamentazioni dei Mirmidoni; non mi sentivo di biasimarlo, anche se non potevo farci nulla.
Non c’era niente su cui potesse sedersi, così mi alzai e gli fece segno di avvicinarsi.
— Mio signore Orion — cominciò — posso parlarti francamente?
— Certo. Parla pure chiaro, Lukka. Non voglio che ci siano pensieri nascosti che possano causare malintesi tra noi.
Lasciò uscire un sospiro represso di sollievo. — Grazie, signore.
— Cos’è, allora?
— Bene signore… che razza di assedio è questo? — Era quasi indignato. — L’esercito se ne sta qui seduto nell’accampamento, a mangiare e a bere, mentre la gente della città entra ed esce a raccogliere cibo e legna da ardere. Non vedo macchine per abbattere le porte o per salire sulle mura. Questo non è affatto un assedio come si deve!
Gli sorrisi. Le lamentazioni funebri per Patroclo non avevano niente a che fare con quello che lo infastidiva. Era un soldato di professione, e le stravaganze da amatore lo infastidivano.
— Lukka — dissi — questi Achei non sono molto sofisticati nell’arte della guerra. Domani vedrai due uomini che combattono l’uno contro l’altro dai carri, e questo potrebbe addirittura decidere l’esito della guerra.
Lui scosse la testa. — Non è possibile. I Troiani non lasceranno entrare volontariamente questi barbari nelle loro mura. Non mi interessa quanti campioni cadranno.
— Forse hai ragione — fui d’accordo.
— Ora guarda. — Indicò la città sul promontorio a picco, immersa nel rosso dorato del sole che tramontava. — Vedi quella sezione di muro, la parte che è più bassa del resto?
Era il lato occidentale della città, quello in cui, come il gentiluomo di corte si era lasciato sfuggire, le difese erano più deboli.
— I miei soldati possono costruire torri da assedio e portarle fino a lì, in modo che i guerrieri achei possano saltare dalle piattaforme superiori direttamente all’interno dei bastioni.
— I Troiani non cercherebbero di distruggere le torri mentre ci avviciniamo alle loro mura?
— Con che cosa? — sogghignò. — Lance? Frecce? Anche se lanciano frecce infuocate, copriremo le macchine con pelli di cavallo bagnate.
— Ma potranno concentrare tutti i loro uomini in quel singolo punto e respingervi.
Si grattò la folta barba nera. — Forse sì. Di solito cerchiamo di attaccare in due o tre punti allo stesso tempo. O di creare qualche diversivo che tenga le forze nemiche occupate da qualche altra parte.
— Questa è una buona idea — dissi. — Ne parlerò con Ulisse. Sono sorpreso che nessun Acheo ci abbia mai pensato da solo.
Lukka fece un’espressione acida. — Questi non sono veri soldati, mio signore. I re e i principotti si atteggiano a grandi guerrieri, e forse lo sono. Ma la mia sola unità potrebbe sconfiggere questi qui anche se fossero cinque volte di più.
Parlammo ancora per un po’, e poi mi lasciò per controllare che i suoi uomini fossero sistemati in modo appropriato.
Polete, che era rimasto seduto in silenzio durante la nostra conversazione, si mise in piedi. — Quell’uomo è troppo avido di vittoria — disse, in un sussurro che era quasi di rabbia. Vuole vincere da solo, senza lasciare nulla da decidere agli dèi.
— Gli uomini combattono le guerre per vincere, no?
— Gli uomini combattono per la gloria, e il bottino, e per avere storie da raccontare ai loro nipoti. Un uomo dovrebbe andare in battaglia per dimostrare il suo coraggio, per affrontare un campione e mettere alla prova il suo destino. Lui invece vuole usare trucchi e macchine per vincere — e sputò sulla sabbia per sottolineare il suo pensiero.
— Eppure tu stesso hai disprezzato i guerrieri achei e li hai chiamati folli assetati di sangue — gli ricordai.
— E lo ripeto! Ma almeno combattono con onore, come gli uomini dovrebbero combattere.
Io risi. — Nel luogo da cui vengo, vecchio, c’è un detto: “In guerra e in amore tutto è permesso”.
Per una volta, Polete non seppe cosa rispondere. Borbottò tra sé mentre lo lasciavo vicino al fuoco, per andare in cerca di Ulisse.
Nell’umido alloggio di tende del re di Itaca, parlai della possibilità di costruire le torri d’assedio.
— Possono essere messe su ruote e tirate sino alle mura? — domandò Ulisse, per il quale l’idea era nuova.
— Sì, mio signore.
— E questi Hatti sanno costruire simili macchine?
— Sì.
Nella luce tremolante dell’unica lampada di rame sul tavolo da lavoro, potei vedere gli occhi di Ulisse brillare a quella possibilità. Con aria assorta accarezzò il collo del cane ai suoi piedi mentre considerava i possibili risultati.
— Vieni — disse alla fine. — Questo è il momento di parlarne ad Agamennone!
Il Sommo Re sembrava mezzo addormentato quando fummo introdotti alla sua presenza. Si era assopito su una sedia da campo, con una coppa di vino incrostata di gemme nella mano destra. Apparentemente la sua spalla si era rimessa abbastanza da permettergli di piegare il gomito. Non c’era nessun altro nella baracca, tranne due schiave con gli occhi scuri, silenziose nelle camicie sottili che lasciavano nude le braccia e le gambe.
Ulisse sedette di fronte al Sommo Re. Io mi accovacciai sul pavimento al suo fianco. Ci fu offerto del vino. Era denso di miele speziato e di farina d’orzo.
— Una torre che si muove? — borbottò Agamennone dopo che Ulisse glielo ebbe spiegato due volte. — Impossibile! Come può una torre di pietra…
— Sarebbe fatta di legno, figlio di Atreo. E coperta di pelli per proteggerla.
Agamennone abbassò lo sguardo annebbiato su di me e lasciò affondare il mento nel suo largo torace. Le lampade gettavano lunghe ombre attraverso la stanza, dando al suo viso dalle pesanti sopracciglia un aspetto sinistro, quasi minaccioso.
— Devo restituire la prigioniera Briseide a quel cucciolo impertinente — borbottò. — E consegnarli una fortuna in bottino. Anche se il suo amante è stato ucciso da Ettore, quel piccolo serpente ha rifiutato di riunirsi alla battaglia finché “il bottino che gli spetta di diritto non gli sarà restituito.” Il disprezzo che mette sulla parola “diritto” potrebbe incidere il bronzo.
— Figlio di Atreo — cercò di calmarlo Ulisse — se il mio piano funziona, saccheggeremo Troia e prenderemo tanti tesori che persino l’arrogante Achille ne sarà pago.
Agamennone non disse niente. Mosse leggermente la coppa e una delle schiave si avvicinò a riempirle tutte. Quella di Ulisse era d’oro, come quella del Sommo Re. La mia era di legno.
— Altre tre settimane — mormorò Agamennone. Bevve il vino rumorosamente, facendone cadere un po’ sulla tunica già macchiata. — Ho bisogno di altre tre settimane.
— Signore?
Agamennone lasciò che la coppa gli scivolasse dalle dita e cadesse con un tonfo sul pavimento coperto di tappeti. Si sporse in avanti, un ghigno astuto sulla faccia carnosa.
— Fra altre tre settimane le mie navi porteranno il raccolto di grano dal Mar Nero attraverso l’Ellesponto, sino a Micene. E né Priamo né Ettore saranno in grado di fermarle.
Ulisse emise un piccolo silenzioso “oh”. Mi accorsi che Agamennone non era stupido. Se non poteva conquistare Troia, avrebbe almeno fatto passare dagli stretti le sue navi, cariche di grano, prima di togliere l’assedio. E se gli Achei dovevano salpare senza vincere la guerra, almeno lui avrebbe avuto scorte di grano per un anno nella sua Micene, e avrebbe potuto usarlo o venderlo ai suoi vicini quando l’avesse ritenuto opportuno.
Ulisse aveva fama di essere astuto, ma mi resi conto che il re di Itaca era più esattamente un uomo cauto, un uomo che considerava tutte le possibilità prima di fare la sua mossa. Era Agamennone lo scaltro: malizioso, egoista e avido.
Riprendendosi rapidamente dalla sua sorpresa, Ulisse disse: — Ma ora abbiamo la possibilità di distruggere Troia del tutto. Non solo prenderemo il bottino della città, e le sue donne, ma avremo libera navigazione attraverso l’Ellesponto per tutti gli anni del tuo regno!
Agamennone si appoggiò di nuovo alla sedia. — Un’idea valida, figlio di Laerte. Un’idea valida. Ci penserò e convocherò il consiglio per decidere. Dopo il duello di domani.
Con un cenno del capo, Ulisse disse: — Sì, dopo che avremo visto se Achille resterà tra noi o morirà sulla lancia di Ettore.
Agamennone fece un largo sorriso.
Dormii saltuariamente quella notte.
Avevo una tenda da solo, adesso, come si addice a un comandante. E mi aspettavo che il pesante vino al miele avrebbe agito come una droga sulla mia mente. Invece mi rigiravo sul pagliericcio, e ogni volta che riuscivo ad assopirmi la mia mente si riempiva dei visi dei Creatori. Discutevano e litigavano tra loro, scommettendo su chi avrebbe vinto l’imminente battaglia.
Poi vidi Atena, la mia beneamata, che stava sola in disparte, in silenzio, lontana dagli altri dèi litigiosi e indifferenti che giocavano con la vita degli uomini. Mi guardava seria, senza un sorriso, senza un suono. Ferma come una statua di carne congelata. Mi fissò negli occhi per attimi senza fine, come se stesse cercando di impartirmi telepaticamente un po’ di conoscenza.
— Tu sei morta — le dissi.
Invece della sua voce, sentii le parole roche, stridule di Polete: — Sin che tu la veneri e la servi, Atena non è morta.
Un nobile sentimento, pensai. Ma questo non mi permetteva di tenerla tra le braccia, di sentire il calore del suo amore.
“Invece — dissi a me stesso — prenderò il Radioso in queste mani e spremerò la vita fuori da lui. Proprio come una volta…”
Ricordai qualcosa. Qualcuno. Un uomo cupo e meditabondo, una forma enorme, con la pelle grigia, che avevo cacciato attraverso i secoli e i millenni. Ahriman! Mi ricordavo di lui, della sua voce aspra, torturata, sussurrante.
Lo sentivo adesso. — Pazzo — sibilò. — Cerchi la forza e trovi solo debolezza.
Pensai di svegliarmi. Pensai di tirarmi su appoggiandomi sul gomito e di passarmi una mano affaticata sugli occhi cisposi. Ma sentii, distintamente come se fosse stato vicino a me, la voce fredda e chiara del Radioso: — Smetti di combattermi, Orion. Se una dea può morire, pensa a quanto facilmente potrei mandare alla distruzione finale una delle mie stesse creature.
Balzai a sedere e vidi un bagliore d’oro filtrare attraverso l’apertura della mia tenda. Precipitandomi fuori, nudo tranne che per la spada che tenevo stretta, vidi che era il sole del mattino che annunciava il nuovo giorno.
L’alba era tersa, lucente e ventosa.
Anche se il combattimento tra Achille ed Ettore era quello che tutti aspettavano, l’esercito si stava ugualmente preparando a marciare sulla pianura. I soldati uscivano in parte perché uno scontro a due può degenerare in confusione generale abbastanza facilmente, ma soprattutto perché volevano vedere da vicino il combattimento.
Diedi istruzioni a Lukka di tenere i suoi lontano dalla lotta. — Questo non sarà il vostro tipo di battaglia — dissi. — Non c’è motivo di rischiare uomini.
— Potremmo cominciare a tagliare gli alberi che ci servono per le torri d’assedio — suggerì lui. — Ne ho visti di abbastanza adatti dall’altra parte del fiume.
— Aspetta che il duello sia finito — dissi. — State vicino all’ingresso delle fortificazioni e preparatevi a difenderlo dai Troiani se necessario.
Si batté il pugno sul petto facendo segno di aver capito.
Sulla pianura battuta dal vento davanti all’accampamento sfilò praticamente tutto l’esercito acheo, rango per rango. Vicino alle mura di Troia stavano sfilando allo stesso modo carri e soldati a piedi, sollevando mulinelli di polvere che si alzavano nel cielo senza nubi. Vidi alcune bandiere sventolare sui bastioni della città, e immaginai addirittura di vedere di sfuggita i luminosi capelli dorati di Elena sulla torre più alta.
Ulisse mi aveva ordinato di tenermi sul lato sinistro del suo carro. — Proteggi il mio auriga se entriamo nella mischia — aveva detto, e mi aveva fatto dare uno degli scudi a figura intera che mi riparava dal mento alle caviglie. Pesava parecchio sul mio braccio sinistro, ma quel peso era quasi un conforto. Con cinque fasce di pelle fissate su una cornice di legno con borchie di bronzo, lo scudo avrebbe fermato quasi qualunque cosa tranne una lancia scagliata a distanza ravvicinata da un carro in corsa.
Polete era sulle fortificazioni insieme agli schiavi e ai thetes, sforzando i suoi vecchi occhi per vedere il combattimento. Mi avrebbe interrogato per ore quella notte, lo sapevo, spremendo dalla mia memoria ogni dettaglio di quello che avrei visto. Se entrambi fossimo sopravvissuti fino a notte, pensai poi.
Mentre stringevo gli occhi contro il sole splendente, dallo schieramento dei Troiani si alzò un boato. Vidi il carro di Ettore, tirato da quattro magnifici cavalli bianchi, uscire in una nuvola di polvere dalle porte Scee e dirigersi verso i ranghi dei soldati. Il principe stava in piedi alto e fiero, con il grande scudo al fianco e quattro enormi lance nel loro contenitore, la punta rivolta al cielo.
Per molti minuti non accadde nient’altro. I fanti achei cominciarono a mormorare. Io guardai Ulisse che sorrise appena con indulgenza. Achille si stava comportando come chi si considera una celebrità, tanto per cambiare, facendosi aspettare. Pensai che sarebbe stata una buona mossa psicologica con qualunque avversario, ma non con Ettore. “Quest’uomo userà il tempo per studiare ogni sasso e ogni protuberanza del campo” mi dissi. “Non è il tipo che si fa innervosire dall’attesa.”
Infine un boato d’esultanza si levò dagli Achei. Voltandomi, vidi quattro cavalli sbuffanti e neri come la notte, strigliati in modo così perfetto che sembravano brillare, che battevano gli zoccoli sulla rampa che tagliava la nostra trincea. Il carro di Achille aveva intarsi d’ebano e d’avorio, e la sua armatura (la seconda per bellezza, dato che la prima era stata tolta al cadavere di Patroclo), luccicava d’oro brunito.
Con l’elmo piumato, c’era poco da vedere del viso di Achille. Ma quando il suo carro mi passò davanti vidi che la sua bocca era una sottile linea torva e gli occhi bruciavano come fornaci.
Non si fermò per le solite formalità pre-combattimento. Nemmeno rallentò. Il suo auriga fece schioccare la frusta sulle orecchie dei cavalli ed essi si precipitarono in avanti a tutta velocità, mentre Achille prendeva una lancia con la mano destra e gridava tanto forte che se ne sentì l’eco sulle mura di Troia: — Patroclo! Pa… tro… clo!
Il suo carro puntò direttamente sull’avversario. L’auriga troiano, sbigottito, incitò i cavalli, ed Ettore impugnò una delle sue lance.
I carri avanzarono l’uno verso l’altro ed entrambi i guerrieri scagliarono le lance simultaneamente. Quella di Achille colpì lo scudo di Ettore facendolo barcollare. Cadde quasi giù dal carro, ma riprese l’equilibrio e afferrò un’altra lancia. L’asta di Ettore passò tra Achille e il suo auriga, scheggiando la base di legno del carro.
Mi sentii gelare. Achille non aveva neanche alzato lo scudo mentre la lancia di Ettore si dirigeva verso di lui. Non aveva neppure indietreggiato, quando gli era passata abbastanza vicino da sfiorare la sua giovane barba. O non gli interessava quello che poteva succedergli o era matto abbastanza da credere di essere invulnerabile.
I carri si sorpassarono e di nuovo i due campioni gettarono le lance. Quella di Ettore rimbalzò sulla spalla di bronzo dell’armatura di Achille, e nuovamente il principe non fece nessun tentativo di proteggersi. La sua lancia colpì l’auriga di Ettore al viso. Con un grido orribile, l’uomo cadde all’indietro, con entrambe le mani brancicanti intorno all’asta che aveva fatto del suo viso una massa sanguinolenta.
Gli Achei gridarono e fecero qualche passo avanti. Ettore, sapendo di non poter controllare i cavalli e combattere nello stesso tempo, saltò agilmente dal carro, due lance strette nella mano sinistra. I cavalli continuarono a correre, con le redini allentate, dirigendosi di nuovo verso le mura della città.
Achille era decisamente in vantaggio. Il suo carro cominciò a girare intorno al troiano, in difficoltà, ancora e ancora, cercando un punto debole, un pur minimo abbassamento della sua guardia. Ma Ettore teneva fermamente lo scudo davanti a sé, leggermente chinato e ben saldo sulle gambe per non presentare ad Achille nient’altro che un elmo di bronzo piumato. Lo scudo e gli schinieri gli proteggevano il corpo.
Achille scagliò un’altra lancia, che però mancò leggermente il bersaglio. Ettore rimase al suo posto, o così sembrò. Notai che ogni volta che ruotava per tenersi di fronte al carro di Achille, arretrava di un passo o due verso i suoi ranghi.
Achille doveva averlo notato, alla fine, e saltò giù dal carro. Un grande, impetuoso fremito di attesa percorse entrambi gli eserciti. I due campioni stavano per affrontarsi a piedi, a portata di lancia.
Ettore avanzò fiducioso verso il nemico. Gli disse qualcosa, e l’altro sputò fuori una risposta. Erano troppo lontani perché potessi sentire le loro parole.
Poi Achille fece qualcosa che strappò agli Achei un grande sospiro lamentoso. Gettò lo scudo per terra facendolo risuonare sul terreno nudo e affrontò Ettore con nient’altro che l’armatura e la lancia.
“Pazzo!” pensai. “Deve credere davvero di essere invulnerabile.” Achille afferrò la lancia con entrambe le mani e affrontò Ettore senza lo scudo.
Lasciando cadere la più corta delle sue due aste, Ettore puntò dritto su di lui. Aveva il vantaggio della corporatura, della forza e dell’esperienza; e lo sapeva. Achille, più scattante ma più piccolo, sembrava assolutamente pazzo. Non cercò di parare il colpo di lancia di Ettore o di allontanarsi di corsa dalla sua traiettoria. Si spostò invece da una parte e dall’altra, evitando appena per qualche centimetro la lancia di Ettore e tenendo la sua puntata proprio agli occhi del troiano.
È una verità di tutti i combattimenti a corpo a corpo che non si può attaccare e difendersi nello stesso tempo. L’abilità sta nel saper passare dall’attacco alla difesa e viceversa in un batter d’occhio. Ettore lo sapeva, e il suo scopo evidente era tenere costantemente sulla difensiva l’avversario privo di scudo. Ma lui rifiutava di difendersi, tranne che schivando i colpi di Ettore. Cominciai a intravedere un metodo nella sua follia: i grandi vantaggi di Achille erano la velocità e l’audacia. Il pesante scudo l’avrebbe rallentato.
Sembrava perdere terreno, e l’altro avanzava costantemente, ma mi accorsi presto che Achille si stava spostando in modo da restare sempre tra Ettore e i ranghi troiani, facendolo così avvicinare sempre di più dalla nostra parte. Osservai il volto del giovane mentre sudava e ansimava sotto il sole alto. Stava sorridendo. Come un bambino che si diverte a strappare le ali alle mosche, come un guerriero che aspetta fiducioso il momento di trapassare con la lancia il torace del nemico, come un pazzo esaltato dal suo omicidio. Avevo già visto quel sorriso. Sulle labbra del Radioso.
Ettore si accorse della manovra. Cambiò tattica e cercò di costringere Achille ad usare la lancia, contando, con la sua forza superiore, di fargliela poi abbassare per trovarsi infine davanti un nemico indifeso.
Achille fece una finta ed Ettore seguì il movimento per una frazione di secondo. Fu abbastanza. Spiccando un balzo degno di un saltatore che lo sollevò completamente da terra, Achille si gettò addosso a Ettore stringendo la lancia con tutta la forza di entrambe le mani. La punta colpì la corazza di bronzo del suo avversario; potei sentirla stridere mentre scivolava in alto lungo l’armatura cercando una fessura in cui penetrare, e poi colpire Ettore sotto il mento.
L’impatto fece indietreggiare il Troiano, che però non cadde. Per un istante i due campioni rimasero allacciati, Achille che spingeva la lancia verso l’alto, stringendo le mani intorno all’asta sino ad avere le nocche bianche, gli occhi fiammeggianti di odio e di sete di sangue, le labbra stirate in un ringhio ferino. Le braccia di Ettore, impacciate dalla lunga lancia, e dal grande scudo, si piegavano in avanti, come ad abbracciare il suo uccisore. La punta dell’arma di Achille entrò più profondamente nella sua gola, su attraverso la mascella, e si conficcò alla base del cervello.
Ettore si afflosciò, quasi appeso alla lancia mortale. L’Acheo diede uno strattone e il corpo senza vita del principe Troiano scivolò sul terreno polveroso.
— Per Patroclo — gridò Achille, brandendo in alto la lancia insanguinata.
Un boato di trionfo si alzò dai nostri ranghi, mentre i Troiani sembravano pietrificati da un orrore mozzafiato.
Achille lasciò cadere la lancia ed estrasse la spada dal fodero. Si accanì attorno al collo di Ettore incidendo una, due, tre volte: voleva staccare la testa come trofeo.
I Troiani urlarono e sì gettarono in massa contro di lui. Senza bisogno di alcun ordine caricammo anche noi. In un batter di ciglia, un combattimento singolo ormai concluso si trasformò in una violenta battaglia generale.
Mi affrettai dietro al carro di Ulisse, pensando che proprio gli uomini che avevano sperato che il duello tra i due campioni avrebbe messo fino alla guerra, si stavano spontaneamente lanciando in una sconsiderata e inutile battaglia, senza pensare, senza preoccuparsi della vita, come lemming suicidi che rispondono meccanicamente a qualche spinta misteriosa.
— Vi piace combattere — ricordai che mi aveva detto una volta il Radioso, molto tempo prima. — Di questo istinto ad uccidere ho dotato le mie creature.
E poi non ci fu più tempo per pensare. Avevo la spada in mano e i nemici mi stavano attaccando, con la sete di sangue e morte in fondo agli occhi. Come Achille, mi liberai dello scudo ingombrante. Non ne avevo bisogno: i miei sensi passarono all’ipervelocità e il mondo intorno a me divenne un sogno al rallentatore.
La spada di ferro funzionava bene. Scheggiava o rompeva le lame di bronzo. Il suo bordo affilato penetrava nelle armature. Raggiunsi il carro di Ulisse. Lui e molti altri guerrieri, con i loro carri, avevano formato una copertura attorno al corpo di Ettore, mentre Achille e i suoi Mirmidoni spogliavano il cadavere sino alla pelle. Io vidi la testa mozzata del coraggioso principe ondeggiare in cima a una lancia, e mi voltai disgustato. Poi qualcuno lo legò per le caviglie al retro di un carro e cercò di farsi strada nella confusione crescente trascinando il corpo straziato verso l’accampamento Acheo.
Invece di scoraggiarsi a quelle barbarie, i Troiani ne risultarono galvanizzati. Lottarono con la rabbia fomentata da quella stessa dissacrazione e si batterono ferocemente per recuperare il corpo di Ettore prima che sparisse dietro le nostre fortificazioni.
Mentre la battaglia si faceva più furiosa, mi resi conto che i Troiani non stavano proteggendo né le linee di ritirata, e nemmeno le porte da cui avevano lasciato la città.
Mi avvicinai di corsa al carro di Ulisse e, superando lo sbraitare delle imprecazioni e il clamore della battaglia, gridai: — La porta! Hanno lasciato la porta sguarnita!
Gli occhi di Ulisse luccicarono. Guardò in alto verso le mura della città e poi di nuovo me. Annuì una volta.
— Alla porta! — urlò con una voce che rimbombò per la pianura. — Alla porta, prima che riescano a chiuderla!
Con questo grido Ulisse si allontanò dalla confusione intorno al cadavere di Ettore, seguito da altri due carri. Io corsi avanti, aprendomi la strada a suon di fendenti finché non ci fu più niente tra me e le mura di Troia se non il terreno nudo vuoto.
— Alla porta! — sentii gridare dietro di me, e un carro passò sferragliando, con i cavalli chiusi nelle loro corazze, le froge sbuffanti, gli occhi bianchi che roteavano.
Il cadavere di Ettore venne immediatamente dimenticato. Il nuovo obiettivo era il raggiungimento delle porte Scee. Ulisse guidava gli Achei che stavano mettendocela tutta per arrivarci prima che i Troiani riuscissero a chiuderle. L’esercito troiano cercava di precederli, in modo da riparare nelle protettive mura prima di esserne tagliato fuori.
Achille, di nuovo sul suo carro, si stava aprendo una strada di sangue fra i Troiani menando fendenti con la spada, finché sia i poveracci a piedi quanto i nobili sui carri non gli fecero ala, sia pure malvolentieri. Allora strappò la frusta dalle mani del suo auriga e incitò i cavalli a un galoppo frenetico verso la porta della città.
Io vidi Ulisse scagliare la lancia contro il petto di un uomo a guardia della porta. Subito sbucarono altri Troiani, vecchi dalla barba grigia e giovani armati di leggeri giavellotti da lancio e di spade. Dai bastioni che fiancheggiavano la porta su entrambi i lati, altri soldati stavano lanciando pietre e frecce infuocate. Ulisse fu costretto a ritirarsi.
Ma non Achille. Andò dritto verso la porta, dimentico del bombardamento dall’alto. La retroguardia nemica si disperse al suo arrivo, riparandosi dietro le massicce porte di legno. Dall’interno, qualcuno cominciò a chiuderle. Vedendo che lo spazio si faceva troppo piccolo perché il suo carro potesse passarci Achille saltò a terra, con la lunga lancia ancora grondante di sangue, e caricò la porta. Si trovò davanti un muro di lame, ma lo divise impetuosamente, vibrando colpi e fendenti senza quartiere.
Ulisse e un altro guerriero, che poi seppi essere Diomede, corsero ad aiutarlo sui loro carri, i grandi scudi legati sulle spalle che li proteggevano dalle pietre e dalle frecce che piovevano dall’alto. Vidi il grosso delle truppe troiane non molto dietro di noi, una mischia aggrovigliata che lottava con gli Achei, cercando di aprirsi la strada verso la città.
Mi infilai tra Ulisse e Achille, parando i colpi di lancia che difendevano il passaggio ormai stretto tra le porte. Afferrai una lancia con la mano sinistra, e la strappai dalle mani del ragazzo spaventato che la teneva, la gettai a terra e allungai il braccio per prenderne un’altra.
Mentre continuavo a farmi strada in questo modo, nel profondo di me mi domandai per quale ragione avrei dovuto uccidere i Troiani. “Sono uomini, esseri umani, creazioni del Radioso proprio come me. Quello che fanno, lo fanno perché il Radioso li manovra, li manipola, proprio come manovra e manipola me.” Ma mi dissi anche: “Tutti gli uomini muoiono, e alcuni muoiono molte volte. Lo scopo della vita è la morte, e finché le creature servono il Radioso, anche inconsapevolmente, anche inconsciamente, allora sono miei nemici. E io li ucciderò, proprio come loro ucciderebbero me”.
E lo feci. Tirai a me la lancia che avevo afferrato trascinandomi dietro l’uomo dalla barba grigia che l’impugnava finché non fu a portata della mia spada. Lui vide il colpo arrivare e lasciò l’asta, gridando e portandosi le mani sulla testa come se questo avesse potuto proteggerlo. La mia lama gli trapassò il costato e gli si conficcò nel cranio.
Un ragazzino mi si gettò addosso con la lancia, mentre liberavo la spada. Lo schivai, ed estratta la spada dalla testa del vecchio puntai contro il nuovo aggressore. Ma il colpo non servì a molto, solo a spaventarlo. Indietreggiò, ma poi avanzò di nuovo. Non gli diedi una seconda possibilità.
La battaglia alla porta mi sembrò durare ore, anche se il senso comune mi dice che si trattò solo di qualche minuto. Il resto dei Troiani arrivò combattendo ancora furiosamente con il grosso delle truppe degli Achei. Carri e fanti colpirono, tagliarono, imprecarono e gridarono e urlarono come impazziti in quello stretto passaggio tra le mura. Polvere e sangue e frecce e pietre riempivano l’aria di morte. I Troiani stavano combattendo per le loro vite, cercando disperatamente di entrare, proprio come gli Achei avevano tentato di sfuggire alla lancia di Ettore pochi giorni prima.
Nonostante i nostri sforzi, i Troiani ressero la porta impedendoci di entrare. Ci volevano uomini determinati per respingere un esercito, ma la retroguardia troiana aveva la determinazione che nasce dalla disperazione. Sapevano che se fossimo riusciti a forzare la porta, la loro città sarebbe stata finita; le loro vite, le loro famiglie, le loro case sarebbero state spazzate via. Così ci trattennero, uomini e ragazzi che prendevano il posto di quelli che noi uccidevamo, mentre i guerrieri scampati alla battaglia sgusciavano all’interno delle mura, continuando a combattere anche in ritirata.
Infine, arrivò il colpo che mise fine a quel massacro. Tutto sembrava muoversi ancora al rallentatore, per me. Le frecce fendevano l’aria così pigramente che pensai di poterle acchiappare a mani nude. Avrei potuto dire dove i guerrieri avrebbero diretto il loro colpo successivo solo guardando i loro occhi e i muscoli che si tendevano e guizzavano sotto la pelle.
Sempre combattendo mentre mi voltavo per occuparmi di alcuni soldati che cercavano di varcare la porta per mettersi in salvo, vidi Achille, con gli occhi assetati di sangue, la bocca aperta in un sorriso selvaggio, che colpiva qualsiasi troiano gli arrivasse a tiro di spada. E contemporaneamente vidi, sui bastioni, un uomo attraente dai lunghi capelli biondi che si sporgeva fuori con un arco in mano, e scoccava una freccia, ornata di grigie penne di falco, in direzione della sua schiena indifesa.
Come in un sogno, o in un incubo, gridai un avvertimento, che si perse nel clamore della battaglia. Mi feci strada tra una mezza dozzina di uomini che lottavano furiosamente e tentai di raggiungere Achille mentre la freccia correva infallibilmente verso il suo bersaglio. Cercai di deviarla con la mano dalla sua traiettoria, e ci riuscii.
Quasi.
La freccia colpì Achille sulla parte posteriore della gamba sinistra, appena sopra il tallone. Il principe dei Mirmidoni crollò a terra con un lacerante grido di dolore.
Per un istante il mondo sembrò fermarsi.
Achille, il campione che sembrava invulnerabile, giaceva nella polvere, a contorcersi nell’agonia, con un freccia che gli sporgeva dalla caviglia sinistra.
Io mi accasciai vicino a lui e staccai la testa del primo Troiano che gli si avvicinò con un solo colpo di spada. Ulisse e Diomede mi raggiunsero subito, e improvvisamente la battaglia cambiò indirizzo. Non stavamo più cercando di forzare le porte Scee; stavamo lottando per mantenere in vita Achille e riportarlo al nostro accampamento.
Ci ritirammo lentamente, e in verità i Troiani sembrarono ben felici di lasciarci andare. Si precipitarono dentro le mura e chiusero le porte massicce. Io presi Achille tra le braccia, mentre Ulisse e gli altri facevano quadrato intorno a noi, e ci dirigemmo di nuovo verso l’accampamento.
Con tutta la sua ferocia e la sua forza, Achille era leggero come un bambino. I suoi Mirmidoni ci circondarono, fissando il loro principe ferito con occhi spalancati e sbalorditi. Il brutto viso di Achille era madido di sudore, le labbra serrate in una bianca linea di dolore mentre lo portavo oltre l’enorme quercia piegata dal vento appena al di là della porta.
— Mi è stata offerta una scelta — mormorò a denti stretti — tra una vita lunga e serena e una folgore di gloria. Io ho scelto la gloria.
— Non è una ferita seria — dissi.
— Saranno gli dèi a decidere quanto sia seria — rispose lui, con una voce così debole che riuscii a malapena a sentirlo.
A metà della pianura inondata di sangue ci vennero incontro sei uomini che portavano una barella di strisce di cuoio, e io vi deposi Achille più dolcemente che potei. Lui fece una smorfia, ma non gridò né si lamentò.
Ulisse posò una mano pesante sulla mia spalla. — Gli hai salvato la vita.
— Hai visto?
— Sì. La freccia era diretta al cuore.
— Quanto pensi che sia grave la ferita?
— Non troppo — rispose Ulisse. — Ma sarà fuori combattimento per molti giorni.
Percorremmo la pianura bruciata fianco a fianco. Il vento si stava di nuovo alzando dal mare, soffiandoci in faccia la polvere, obbligandoci a chinarci mentre camminavamo verso l’accampamento. Mi facevano male tutti i muscoli del corpo. Ero letteralmente incrostato di sangue, sul braccio con cui tenevo la spada, sulle gambe, sulla tunica.
— Hai combattuto molto bene — disse Ulisse. — Per un attimo ho pensato che saremmo riusciti a forzare la porta e a entrare nella città, finalmente.
Scossi la testa stancamente. — Non possiamo forzare una porta difesa. Ed è troppo facile per i Troiani tenerla appena socchiusa.
Ulisse annuì. — Pensi che i tuoi Hatti riusciranno davvero a costruire una macchina che ci permetterà di scalare le mura?
— Sostengono di averlo già fatto, a Ugarit e da qualche altra parte.
— Ugarit — ripeté Ulisse. Sembrava colpito. — Parlerò con Agamennone, e il Consiglio. Finché Achille non tornerà fra noi, non abbiamo speranza di prendere d’assalto una delle loro porte.
— E poca anche con Achille — dissi.
Mi guardò con severità, ma non disse niente.
Polete stava letteralmente saltando sulle sue gambe nodose quando tornai all’accampamento.
— Che giornata! — continuava a ripetere. — Che giornata!
Come al solito, mi strappò di bocca ogni più piccolo dettaglio della battaglia. Aveva guardato dalla cima della fortificazione, naturalmente, ma la folle mischia alla porta era troppo lontana e troppo confusa perché potesse capirci qualcosa.
— E cos’ha detto Ulisse a quel punto? — chiedeva. — Ho visto Diomede e Menelao dirigersi fianco a fianco verso la porta; chi dei due è arrivato prima?
Mi aveva organizzato un banchetto a base di una densa zuppa d’orzo, agnello, cipolle arrostite, pane non lievitato ancora caldo dal forno di terracotta e una borraccia di vino puro.
E mi costrinse a parlare senza mancare un intervallo tra un boccone e l’altro.
Io mangiai, e feci il mio rapporto al cantastorie mentre il sole calava nel mare e le cime delle montagne diventavano d’oro, poi porpora, e svanivano infine nel buio. La prima stella si accese in un cielo viola senza nubi, talmente bella che mi fece comprendere perché ogni cultura le desse il nome della propria dea dell’amore.
Le domande di Polete non finivano mai, così a un certo punto lo mandai a vedere cosa riusciva a scoprire circa le condizioni di Achille. Un po’ era per liberarmi del suo tormento, un po’ per calmare uno strano disagio che si agitava dentro di me. “Achille è perduto”, mi avvertiva una voce dentro la testa. “Non sopravviverà a Ettore di molte ore.”
Cercai di allontanarla catalogandola come sciocchezza, prodotto della fatica della battaglia, pura e semplice caduta di nervi. Eppure spedii Polete a scoprire quanto fosse grave, in realtà, la ferita del principe.
— E trova Lukka e mandamelo — gridai alla sua schiena che si allontanava.
L’ufficiale hatti sembrava cupamente divertito quando arrivò al mio fuoco e salutò battendosi il pugno contro il petto.
— Hai visto la battaglia? — chiesi.
— Una parte.
— Cosa ne pensi?
Non fece nessun tentativo per nascondere il suo disprezzo. — Sembra un gruppo di ragazzi troppo cresciuti che si azzuffano nella piazza principale.
— Il sangue è vero — commentai.
— Sì, lo so. Ma non prenderanno mai una città fortificata assalendo porte protette.
Dovetti dargli ragione.
— Ci sono abbastanza alberi adatti dall’altra parte del fiume per costruire sei torri d’assedio, forse di più — disse Lukka.
— Comincia a costruirne una. Una volta che il Sommo Re avrà visto che è possibile, sono sicuro che capirà.
— Farò cominciare gli uomini alla prima luce.
— Perfetto.
— Dormi bene, signore.
Quasi risi amaramente. Dormi bene, certo. Ma mi controllai abbastanza per rispondere: — E dormi bene anche tu, Lukka.
Polete tornò poco dopo, il viso solenne nella luce morente del nostro fuoco, i grigi occhi tristi.
— Quali sone le notizie? — chiesi mentre crollava a terra ai miei piedi.
— Il signore Achille è finito come guerriero — rispose Polete. — La freccia ha tagliato il tendine del suo tallone. Non potrà più camminare senza una gruccia.
Involontariamente, le mie labbra si contrassero.
Polete prese il vino, esitò, e mi lanciò uno sguardo interrogativo. Io annuii. Se ne versò una porzione abbondante e la bevve d’un fiato.
— Achille è mutilato — dissi. Asciugandosi la bocca con il dorso della mano, il vecchio sospirò. — Be’, potrà vivere una lunga vita a Ftia. Quando suo padre sarà morto, lui diventerà re, e probabilmente governerà su tutta la Tessaglia. Non è poi così male, penso.
Io annuii, d’accordo, ma mi chiesi come Achille avrebbe preso la prospettiva di una lunga vita da storpio. Come una risposta ai miei pensieri, un gemito straziante si levò dall’accampamento occupato dai Mirmidoni. Io saltai in piedi. Polete si alzò più lentamente.
— Il signore Achille! — ululò una voce. — Il signore Achille è morto!
Io guardai Polete.
— Veleno sulla punta della freccia? — domandò lui.
Io gettai a terra la tazza di vino e mi diressi verso il campo del principe. Tutto l’accampamento sembrava affrettarsi nella stessa direzione. Vidi l’ampia schiena di Ulisse, e il gigantesco Aiace superare tutti con le sue lunghe gambe.
Guardie mirmidoni con la lancia in mano tennero indietro la folla dal loro settore, permettendo il passaggio solo ai nobili. Io mi affiancai a Ulisse e superai il blocco insieme a lui. Menelao, Diomede, Nestore e quasi tutti i capi achei si stavano riunendo davanti all’alloggio di Achille.
Tutti, tranne Agamennone.
Entrammo, oltrepassando soldati piangenti e donne che si strappavano i capelli e si graffiavano il viso mentre gridavano le loro lamentazioni.
Il letto di Achille, appoggiato su una bassa piattaforma all’estremità della baracca, era diventato un feretro. Il giovane guerriero vi giaceva sopra, la gamba sinistra avvolta in bende intrise di olio, la daga ancora stretta nella mano destra, un taglio slabbrato che andava da sotto l’orecchio sinistro sino a metà trachea, ancora gocciolante di sangue rosso e luccicante.
I suoi occhi fissavano ciechi le assi del soffitto. La sua bocca era aperta in quello che avrebbe potuto essere un ultimo sorriso come una smorfia di dolore.
Ulisse si voltò verso di me. — Comanda ai tuoi uomini di cominciare a costruire la torre d’assedio.
Io annuii.
Ulisse e gli altri capi si diressero verso la baracca di Agamennone per tenere consiglio di guerra. Io tornai alla mia tenda. L’accampamento era in subbuglio per la notizia: Achille morto per sua stessa mano. No, era una freccia avvelenata. No, era stata una spia troiana. No, il dio Apollo l’aveva ucciso personalmente per vendicare la morte di Ettore e la profanazione del suo cadavere.
Il dio Apollo.
Io scivolai nella mia tenda e mi sdraiai sul pagliericcio. Intrecciando le dita dietro la testa, pensai che per una volta volevo dormire, volevo andare in quell’altra esistenza e incontrare di nuovo i Creatori. Avevo cose da dire, domande da fare, risposte da esigere.
Ma come potevo passare nella loro dimensione? Il Radioso mi aveva portato da loro. Non potevo farlo da solo.
O sì? Chiudendo gli occhi, rivolsi di nuovo i miei pensieri ai “sogni” che avevo già avuto. Li rallentai al massimo, nella mia mente, dilatando ogni secondo ad un’ora, scrutando sempre più in profondità ogni quadro finché riuscii quasi a visualizzare gli atomi di ogni corpo e a vederli scintillare e brillare nella loro eterna danza di energia.
Uno schema. Cercavo uno schema. Doveva esserci una qualche catena di energie, un qualche allineamento di particelle che formavano un passaggio tra un mondo e un altro. “Sono collegati” mi dicevo “una parte di quello che il Radioso chiama continuum. Dov’è il legame? Come funziona il passaggio?”
Fuori dalla mia piccola tenda, lo sapevo, gli insetti ronzavano e le stelle accendevano le loro sfere. La luna si alzava e saliva nel cielo notturno. La mezzanotte arrivò e se ne andò. Ma io continuavo a giacere lì, in trance, con gli occhi chiusi, a smembrare il momento in cui il Radioso mi aveva fatto passare attraverso la porta che collegava il suo mondo con il mio.
Vidi uno schema. Io avevo risposto ogni volta che il Radioso mi aveva convocato davanti a lui, e vidi lo stesso schema di energie che si disponevano in atomi attorno a me. Visualizzai lo schema, lo congelai nella mia memoria, e poi versai ogni grammo di energia mentale che avevo in quell’immagine. Avvertivo il sudore colarmi sulla fronte, il petto, le braccia, le gambe. Ma continuai a concentrarmi finché non sentii il cervello in fiamme.
Una ventata di freddo passò attraverso di me e poi, improvvisamente come un luce che si accende, sentii un dolce calore che mi riscaldava.
Aprii gli occhi e vidi me stesso al centro di un circolo formato dagli esseri superiori, che avevo già incontrato. Ma questa volta ero al loro livello, in mezzo a loro. E loro sembravano sbalorditi.
— Come osi!
— Chi ti ha convocato?
Io sogghignai alla loro sorpresa. Erano davvero splendidi, con vesti di stoffe ricche e luccicanti. Io non avevo niente addosso se non il mio gonnellino di pelle, mi accorsi.
— L’insolenza di questa creatura! — disse una delle donne.
Scrutai i loro visi in cerca del Radioso. Lui si fece largo tra due uomini e mi si mise di fronte.
— Come sei arrivato qui? — domandò.
— Tu mi hai mostrato la strada.
L’ira brillò nei suoi occhi spruzzati d’oro. Ma l’uomo più anziano con la barba a cui io pensavo come a Zeus fece un passo avanti per mettermisi vicino.
— Dimostri notevoli abilità, Orion — mi disse. Poi, rivolgendosi al Radioso: — Dovremmo congratularci con te per averlo creato così dotato.
Pensai di vedere una traccia di sorriso ironico sul viso barbuto di Zeus. Il Radioso chinò leggermente la testa in segno di ringraziamento.
— Molto bene, Orion — disse — così hai trovato la strada per venire qui. A quale scopo? Cosa vuoi?
— Voglio sapere se hai deciso di far vincere a Troia questa guerra o no.
Si guardarono l’un l’altro senza rispondere.
— Non è cosa che ti riguardi — disse il Radioso.
Io guardai gli altri volti, così perfettamente belli, così incapaci di nascondere le loro sensazioni.
— Da questo — ripresi — devo desumere che state ancora discutendo tra voi su quale dovrebbe essere il risultato. Bene! Gli Achei attaccheranno Troia di nuovo. E questa volta la prenderanno e la bruceranno sino alle fondamenta.
— Impossibile! — disse brusco il Radioso. — Io non lo permetterò.
— Pensi di aver eliminato ogni possibilità degli Achei, uccidendo Achille. Bene, ti sbagli. Noi vinceremo. E nel prossimo attacco.
— Ti distruggerò! — disse infuriato.
Io lo guardai con calma. Con mia stessa sorpresa, mi sentivo stranamente sereno dentro di me. Nemmeno una traccia di paura.
— Tu puoi distruggermi, certamente — dissi. — Ma io ho scoperto qualcosa su di voi, che vi autodefinite dèi e dee. Non potete distruggere tutte le vostre creature. Potete influenzarci, manipolarci, ma non potete distruggerci tutti. Ci avrete anche creato, ma ora noi esistiamo e agiamo per conto nostro. Siamo al di là del vostro controllo; non totalmente, lo so, ma abbiamo molta più libertà d’azione di quanto a voi piaccia ammettere.
Zeus disse piano, con una voce simile al brontolio che annuncia un tuono lontano: — Attento, Orion. Stai provocando una collera terribile.
— I vostri poteri sono limitati — insistetti. E improvvisamente capii perché. — Voi non potete distruggerci! Sareste distrutti voi stessi! Voi esisterete finché esisteranno le vostre creature. I nostri destini sono legati attraverso il tempo.
Una delle dee, un sorriso crudele sulle belle labbra, fece un passo verso di me. — Ti lodi troppo, creatura arrogante. Tu puoi essere distrutto, completamente, e molto dolorosamente, anche.
Il Radioso fu d’accordo. — Non occorre distruggervi tutti. Colpire semplicemente una città, con la peste o con un terremoto devastante, di solito è sufficiente a ottenere quello che vogliamo da voi piccoli, miseri vermi.
La dea mi faceva pensare a Era, la moglie di Zeus, secondo gli Achei: bella, astuta, inflessibile e implacabile come nemica.
— Personalmente, io favorisco gli Achei — disse, facendomi passare un’unghia lungo il torace nudo, con forza sufficiente a far uscire il sangue. — Ma se dobbiamo aspettarci la tua vanitosa interferenza, cambierò idea e mi metterò d’accordo con il nostro Apollo, qui.
Il Radioso le prese la mano e la baciò. — Vedi, Orion — mi disse — hai a che fare con forze che vanno molto al di là della tua portata. Forse sarebbe meglio se ti eliminassi adesso, una volta per tutte.
— Come hai eliminato quella di nome Atena? — ringhiai.
— Ancora insolenza!
— Distruggilo subito e facciamola finita — disse uno degli altri maschi.
Il Radioso annuì, con un mezzo sorriso riluttante sulle labbra. — Ho paura che tu sia vissuto più a lungo della tua utilità, Orion.
— Lasciatelo in pace.
Queste parole, pronunciate in un sussurro sibilante, stridente, congelarono tutte le divinità che mi si stringevano attorno.
Si spostarono di lato per fare spazio a una figura massiccia e corpulenta che avanzò lentamente verso di me. Era come se avessero paura di toccarlo, paura di essere fatti a pezzi dalle sue braccia potenti se solo lui le avesse allungate. Aveva le spalle arrotondate, ma larghe, e guizzanti di muscoli. Il suo corpo era pesante, e massiccio, le gambe più corte di quanto mi sarei aspettato, ma ugualmente nerborute e potenti. Il viso era largo, con occhi ardenti sotto le folte sopracciglia.
Diversamente dagli altri, vestiti di splendide tuniche, indossava una casacca di pelle nera e un gonnellino verde foresta lungo sino al ginocchio. Aveva un colorito grigiastro e i capelli neri pettinati all’indietro. Benché fosse leggermente curvo, incombeva su di me come su tutti gli altri.
Mi venne direttamente incontro, brillando come un vulcano che ribolle senza fiamme.
— Ti ricordi di me? — La sua voce era un aspro sussurro affaticato.
— Ahriman — dissi, intimorito dalla sua presenza.
Lui chiuse gli occhi per un momento. Poi: — Siamo stati nemici per molto, molto tempo, Orion. Te ne ricordi?
Io guardai in fondo a quegli occhi rossi brucianti e vidi il dolore e l’odio di una caccia che si protraeva da cinquemila anni. Vidi una battaglia nella neve e nel ghiaccio di un’era remota, e una lotta tra noi in altri luoghi, in altri tempi.
— È… tutto confuso — gli risposi.
— Torna nel tuo mondo, Orion — disse Ahriman. — Una volta mi hai reso un buon servizio, ed ora io ripago il debito. Torna nel tuo mondo, e non mettere ulteriormente alla prova il tuo destino.
— Tornerò nel mio mondo — dissi. — E aiuterò gli Achei a conquistare Troia.
Gli dèi e le dee rimasero in silenzio, anche se potevo percepire l’ira che irradiava dal Radioso.
Mi svegliai alle prime luci del giorno, quando uno dei galli dell’accampamento alzò il suo rauco grido nel mattino. Mentre mi infilavo la tunica di lino grigio, notai la sottile linea di un taglio che mi faceva colare il sangue sul petto. Feci in modo di chiudere i miei capillari e il sangue si fermò.
“Dunque il corpo fisico viene trasportato davvero nell’altro mondo” dissi a me stesso. “Non è solo un gioco d’immaginazione, una proiezione delle funzioni mentali. Anche il corpo si muove da un universo all’altro.”
Lukka e i suoi uomini si stavano già dirigendo verso il fiume per abbattere gli alberi con cui costruire la nostra torre da assedio. Gli parlai brevemente prima che se andasse, poi andai da Ulisse, sulla sua nave, per sapere cos’era stato deciso nella riunione del Consiglio.
I Troiani avevano mandato una delegazione a chiedere la restituzione del corpo straziato di Ettore. Pur cercando di mantenere segreta la morte di Achille, gli Achei non riuscirono a evitare che gli emissari Troiani ne venissero a conoscenza: se ne parlava in tutto l’accampamento. Il Consiglio si incontrò con la delegazione troiana, e dopo qualche discussione acconsentì a restituire il corpo di Ettore, suggerendo inoltre una tregua di due giorni durante i quali entrambe le parti avrebbero opportunamente onorato i loro morti.
Una volta che i Troiani se ne furono andati con il cadavere del loro principe, Agamennone parlò al Consiglio della torre da assedio. Venne deciso di sfruttare il periodo della tregua per costruire la macchina in segreto.
Io passai quei due giorni con i soldati hatti, sulla sponda opposta del fiume Scamandro, nascosti alla vista dei Troiani dal groviglio di alberi e arbusti che cresceva lungo la riva. Ulisse, che capiva il valore dell’esplorazione e della raccolta di informazioni più di tutti gli Achei, appostò un gruppo dei suoi uomini migliori lungo la riva del fiume, per evitare che qualunque Troiano si avvicinasse. Speravo che il nostro martellare e segare, che senz’altro i nemici potevano sentire in determinate condizioni di vento, fosse scambiato per un normale lavoro di cantiere.
Per quel lavoraccio arruolammo con la forza dozzine di schiavi e di thetes. Lukka era un ingegnere nato, e dirigeva la costruzione con severa efficienza. La torre prese forma rapidamente, e la sera dell’ultimo giorno di tregua, Agamennone, Nestore e gli altri capi militari attraversarono il fiume per ispezionarla.
L’avevamo costruita orizzontalmente, adagiata sul terreno, in parte perché era più facile farla in quel modo ma soprattutto per tenerla nascosta dietro la vegetazione. Una volta calato il buio, gli schiavi e i thetes erano pronti a tirare le funi che l’avrebbero rizzata.
Agamennone l’osservò attentamente. — Non è alta come le mura della città — si lamentò.
Mentre Lukka e i suoi uomini la costruivano, io avevo programmato come usarla al meglio. Avevamo il tempo per farne solo una, se dovevamo attaccare alla fine della tregua. Quindi dovevamo colpire dove ci sarebbe convenuto di più.
— È alta abbastanza, o re mio signore — dissi — per arrivare alla cima del muro occidentale. Quello è il punto più debole. Anche i Troiani ammettono che quella parte delle loro mura non è stata costruita da Apollo e Poseidone.
Nestore scosse la barba bianca. — Una saggia scelta, giovanotto. Mai sfidare gli dèi, porterebbe solo dolore. Anche se all’inizio sembri avere successo, gli dèi ti faranno presto cadere a causa della tua superbia. Guarda il povero Achille, così pieno di orgoglio: una banale ferita da freccia è stata la sua rovina.
Quando Nestore s’interruppe per prendere fiato, si fermò a respirare, io mi affrettai a continuare: — Sono stato dentro la città. Ne conosco la struttura. Il muro occidentale è dalla parte più alta del promontorio. Una volta superato quel muro, saremo in posizione soprelevata e molto vicini al palazzo e al tempio.
Ulisse assentì — Ci sono stato anch’io, se ricordate, e ho studiato le strade e le costruzioni della città con attenzione. Orion ha ragione. Se entrassimo dalle porte Scee, ad esempio, dovremmo combattere per la strada, in salita, ad ogni centimetro. Fare irruzione dal muro occidentale è meglio.
— Riusciremo a portare questa cosa sulla collina sino al muro? — chiese Agamennone.
— Il pendio sotto il muro occidentale non è così ripido come a nord e a est — dissi. — Il lato più facile è quello meridionale, dove si aprono le porte Scee e Dardanie. Ma è anche il punto più difeso, con le mura più alte e le torri di avvistamento vicino a ciascuna porta.
— Questo lo so! — disse Agamennone brusco. Girò lentamente intorno alla struttura di legno, evidentemente scettico riguardo a quella che per lui era una tecnica sconosciuta.
Prima che potesse chiederlo, dissi: — La cosa migliore sarebbe trasportarla stanotte, dopo che la luna sarà calata. Potremmo contare sulla nebbia proveniente dal mare. Possiamo portarla al di là del fiume sulla zattera che abbiamo costruito e farle attraversare la pianura appoggiata sulla parte posteriore, così la foschia ci nasconderà a qualunque vedetta sulle mura. Poi la solleveremo…
Agamennone mi interruppe con un gesto stizzoso della mano. — Ulisse, sei disposto a guidare… questa manovra?
— Sì, figlio di Atreo. Intendo essere il primo a mettere piede sui bastioni di Troia.
— Molto bene, allora — disse il Sommo Re. — Io non credo che funzionerà, ma se sei pronto a provare, allora prova. Il resto dell’esercito sarà pronto ad attaccare alle prime luci.
Non dormimmo quella notte. Nessuno ci sarebbe riuscito. Nestore organizzò un sacrificio propiziatorio, sgozzando insieme a un paio di vecchi sacerdoti una dozzina di montoni e di capre, con antichi coltelli di pietra, e cospargendo poi la struttura di legno con il loro sangue. Erano seccati che non ci fossero tori e prigionieri umani da sacrificare, Agamennone non considerava il progetto abbastanza importante da permettere che si sprecasse tanto ben di dio.
Lukka era preposto al trasporto della torre. Quando la nebbia cominciò a calare aspettammo acquattati nella foschia gelida, con l’enorme struttura che incombeva su di noi come lo scheletro di un gigante, finché la luna scomparve dietro le isole e la notte diventò più scura che mai.
Io avevo sperato nella copertura delle nuvole, ma le stelle continuarono a brillare mentre lentamente, penosamente, trascinavamo la torre su grandi ruote di legno attraverso la pianura di Ilio e lungo il pendio sotto il muro occidentale di Troia. Schiavi e thetes tiravano le funi, altri spalmavano grasso sulle ruote per non farle cigolare.
Polete strisciava vicino a me, in silenzio, per una volta, io sforzavo gli occhi per localizzare le sentinelle troiane sui bastioni, ma la nebbia mi impediva di vedere bene. Dritto davanti a me riuscii a individuare le due Orse e la “W” asimmetrica di Cassiopea. La costellazione di Orione, il mio omonimo, stava sorgendo a est, di fronte alle corna a forma di “V” del Toro. Le sette Pleiadi brillavano come un grappolo di gemme intorno al collo del Toro.
La notte era misteriosamente silenziosa. Forse i Troiani, confidando nella tregua chiesta dagli Achei, pensavano che le ostilità non sarebbero cominciate prima di giorno. Vero, il combattimento sarebbe iniziato con il sorgere del sole. Ma erano così folli da non appostare sentinelle durante la notte?
Il terreno saliva, adesso, e quello che era sembrato un dolce pendio cominciò a diventare un dirupo. Tutti noi tenevamo le mani strette sulle funi, rompendoci la schiena, cercando di non lamentarci per la fatica e il dolore. Vidi Lukka, il viso contratto per lo sforzo, i tacchi degli stivali affondati nell’erba scivolosa, che si sforzava come un qualsiasi uomo di fatica, come tutti noi.
Alla fine raggiungemmo la base delle mura e ci radunammo lì, in attesa. Io mandai Polete oltre l’angolo del muro ad osservare il cielo per dirmi quando avrebbe cominciato a schiarirsi d’alba. Ci abbandonammo scompostamente a terra, lasciando che i nostri muscoli doloranti si rilassassero fino al momento dell’azione. Anche la torre era adagiata al suolo in attesa di essere rizzata. Io sedevo con la schiena appoggiata al muro e contavo i minuti ascoltando il mio battito cardiaco.
Sentii un gallo cantare dentro la città, poi un altro. “Dov’è Polete?”, mi chiesi. “Si è addormentato o è stato trovato da una sentinella?”
Proprio mentre mi stavo alzando, il vecchio cantastorie emerse dalla nebbia.
— A oriente è ancora buio, tranne che per un primo tocco di debole luce tra le montagne. Presto il cielo diventerà bianco latte, poi rosato come un fiore.
— Ulisse e i suoi soldati staranno cominciando a uscire dall’accampamento — dissi. È ora di rizzare la torre.
Avevamo quasi finito quando i Troiani se ne accorsero.
La nebbia si stava appena diradando mentre tiravamo le funi per mettere la torre in posizione verticale. Era più pesante di quanto sembrava, con le pelli di cavallo e le armi che avevamo assicurato alle piattaforme. Lukka e i suoi uomini la puntellavano con dei pali per aiutarla ad alzarsi, ma non c’era modo di attutire il cigolio e il rumore dei nostri stessi sforzi ansimanti. Tuttavia fu una questione di minuti, anche se a noi sembrarono ore.
E appena la torre scattò in su cozzando sul muro con un suono sordo, dalla parte opposta dei bastioni si levarono voci confuse.
Mi rivolsi a Polete: — Corri da Ulisse e digli che siamo pronti. Deve venire più in fretta che può.
Il piano, inoltre, prevedeva che Ulisse e un gruppo scelto di cinquanta uomini arrivassero dalla pianura, a piedi, perché i carri avrebbero fatto troppo rumore. Stavo cominciando a chiedermi se l’idea fosse delle migliori.
Qualcuno stava gridando da dentro le mura, adesso, e vidi una testa comparire sopra ai bastioni, disegnata per un breve istante contro il cielo che cominciava a schiarire.
Sfoderai la spada e mi arrampicai sulla scala che portava in cima alla torre. Lukka era ad appena un passo dietro di me, e il resto dei soldati hatti ci sciamarono ai lati, per srotolare le pelli di cavallo destinate a proteggere i fianchi della costruzione dalle lance e dalle frecce.
— Cos’è? — sentii un ragazzo gridare dalla cima del muro.
— È un cavallo gigante! — rispose una voce strozzata dalla paura. — Con degli uomini dentro!
Raggiunsi la piattaforma superiore della torre, spada in mano. I nostri calcoli erano stati quasi perfetti. La piattaforma superava i bastioni di circa trenta centimetri. Senza esitazione, saltai sulle mura e di lì sul camminamento retrostante.
— C’erano due giovani troiani, sbalorditi, a bocca spalancata, gli occhi fuori dalle orbite, e lunghe lance nelle mani tremanti. Lukka arrivò dietro di me e ne tagliò uno quasi a metà con un selvaggio fendente della sua spada. L’altro lasciò cadere la lancia, urlando, e saltò dalla piattaforma sulla strada sottostante.
Il cielo si stava illuminando. La città sembrava addormentata. Ma oltre l’angolo del muro riuscii a vedere un’altra sentinella, con la lancia che si stagliava nel rosa grigiastro dell’alba. Invece di attaccarci, si voltò e corse verso una torre quadrata vicino alle porte Scee.
— Darà l’allarme — dissi a Lukka. — Ci saranno addosso in pochi minuti.
Lukka annuì senza parlare, il volto da falco che non mostrava né paura né attesa.
Ormai era una gara, tra gli uomini di Ulisse e le guardie troiane. Avevamo conquistato una testa di ponte all’interno delle mura; ora dovevamo mantenerla. Mentre gli Hatti di Lukka recuperavano in fretta le lance e gli scudi che avevamo legato alle travi della torre, io guardai oltre il parapetto. Nebbia e buio ricoprivano ancora la pianura. Non riuscivo a vedere Ulisse e i suoi uomini tra le ombre; ammesso che ci fossero.
Una buona dozzina di guardie troiane si riversò fuori dalla torre di guardia. E vidi altri Troiani che venivano verso di noi dalla parte opposta, correndo lungo il muro settentrionale, a lance spianate. La battaglia era cominciata.
Gli Hatti erano militari professionisti. Avevano già affrontato delle lance, e sapevano come usare le loro. Formammo un muro difensivo ravvicinando al massimo i nostri scudi, e sfoderammo un fronte irsuto come un porcospino con le nostre aste. Anch’io tenevo stretta una lancia nella mano destra e avevo lo scudo appoggiato a quello di Lukka. I miei sensi passarono all’ipervelocità ancora una volta e il mondo intorno a me rallentò. Però sentivo ancora il mio cuore battere forte e le mani diventare scivolose per il sudore.
I Troiani ci attaccarono con furia disperata, praticamente lanciandosi sulla punta della nostre lance. Loro combattevano per salvare la loro città. Noi combattevamo per le nostre vite. Sapevo che non c’era modo per noi di ritirarci senza essere massacrati. O mantenevamo la testa di ponte, o morivamo.
Il nostro muro di scudi cedette sotto il loro attacco selvaggio. Fummo costretti a indietreggiare di un passo, poi di un altro. Una pesante punta di bronzo sibilò al di sopra del mio scudo, mi sfiorò l’orecchio e trapassò il soldato dietro di me, ma mentre lui moriva, io conficcai la mia lancia nel ventre dell’uomo che l’aveva ucciso. Il suo viso passò dal trionfo alla sorpresa all’agonia finale nell’arco di un secondo.
Altri Troiani stavano salendo numerosi sulla scala della piattaforma, allacciandosi le armature sugli indumenti da notte. Erano i nobili, la crema della forza combattente; lo capivo dalle sfarzose piume dei loro elmi e dall’oro che baluginava nella luce del nuovo giorno sul bronzo delle loro corazze.
Anche gli arcieri si stavano organizzando dietro la protezione dei bastioni, e scoccavano frecce infuocate contro la nostra torre, e su di noi. Una freccia si infilò nel mio scudo. Un’altra colpì alla gamba l’uomo alla mia destra, che barcollò e cadde. Immediatamente, una lancia Troiana gli trapassò la parte posteriore del collo.
Gli arcieri stavano lanciando a parabole, adesso, in modo da superare il nostro muro di scudi. Le frecce incendiarie calavano come pioggia; i nostri cadevano a terra, avvolti dalle fiamme.
Lo sbarramento di frecce avrebbe rapidamente rotto il nostro muro di scudi, e allora ciò che era rimasto dei miei uomini sarebbe caduto vittima della superiorità numerica nemica. Una furia bruciante cresceva dentro di me, una rabbia folle contro quegli uomini ben decisi ad ucciderci e contro gli dèi che ci manovravano in quegli scacchieri assassini. Chiamala frenesia di battaglia, chiamala sete di sangue, io so solo che sentii svanire in un lampo di fuoco i freni della civilizzazione, la crosta della moralità, e da quella fiamma di odio e paura sorse un nuovo Orion, indifferente alla civiltà, un barbaro con una lancia in mano, assetato di sangue.
— Aspetta qui — dissi a Lukka. Prima che potesse rispondere con non altro che un brontolio, mi feci avanti, sorprendendo i Troiani di fronte a me. Reggendo la spada con due mani, al livello del terreno, ne feci cadere quattro e scivolai in mezzo agli altri schivando i loro colpi maldestri. Cominciai a vederli al rallentatore, e ne uccisi due; Lukka e i suoi uomini ne uccisero molti altri finché i rimanenti si radunarono in un gruppo compatto per affrontare gli Hatti.
Io mi gettai sugli arcieri. Quasi tutti fuggivano; solo due rimasero lì a scoccare frecce contro di me il più rapidamente possibile. Li colpii con lo scudo mentre correvo. Infilzai il primo sulla mia lancia, un ragazzo troppo giovane per avere più che qualche ciuffo di barba. Il suo compagno cercò di estrarre la spada, ma io lo colpii con lo scudo facendogli perdere l’equilibrio. Cadde al di là del muro.
Gli altri arcieri indietreggiarono, mettendosi al sicuro dai soldati hatti che difendevano la loro posizione. Per un attimo mi ritrovai solo. Ma proprio per un attimo. Una dozzina di nobili troiani avanzavano rapidamente verso di me lungo il camminamento, e altri spuntavano già dietro di loro. Sollevai la mia lunga lancia e la scagliai contro l’uomo più vicino, trapassandogli completamente lo scudo e il petto. Lui cadde all’indietro, tra le braccia dei suoi compagni più vicini.
Buttai lo scudo contro di loro per rallentarne l’avanzata, poi raccolsi l’arco del ragazzo che avevo ucciso. Era di corno e legno liscio e lucido, bello ed elegantemente curvato. Ma non avevo tempo di ammirarne la fattura. Lanciai tutte le frecce che trovai nella faretra, obbligando i nobili a ripararsi dietro gli scudi, bloccandoli per pochi ma preziosi minuti.
Dopo che ebbi scoccato l’ultima freccia e gettato l’inutile arco, il capo dei Troiani abbassò lo scudo abbastanza perché potessi riconoscerlo: Alessandro, un sorriso sardonico sul viso grazioso.
— Così il messaggero è un guerriero, dopo tutto — mi gridò.
Sguainando la spada dal fodero, risposi: — Sì. Anche il ladro di donne è un guerriero?
— Migliore di te — disse Alessandro.
— Provalo, allora — temporeggiai. — Affrontami da uomo a uomo.
Diede un’occhiata agli Hatti che combattevano dietro di me. — Anche se mi divertirebbe, oggi non è la giornata per tali piaceri.
— Oggi è il tuo ultimo giorno di vita, Alessandro — dissi.
Come a conferma, da dietro di me si alzò un urlo acuto che faceva gelare il sangue. Ulisse!
Alessandro sembrò sbalordito per un momento, poi gridò ai suoi compagni: — Fateli sgombrare dal muro!
I Troiani attaccarono. Dovevano oltrepassarmi per poter raggiungere Lukka e Ulisse, e dovetti affrontare una dozzina di lunghe lance con nient’altro che la spada. Mi venivano incontro al rallentatore, punte di bronzo che luccicavano nell’alba, dondolando leggermente. Notai Alessandro indietreggiare lasciando avanzare gli altri.
Feci un passo avanti sul bordo della piattaforma, poi mi buttai tra le due lance più vicine e arrivai abbastanza sotto da poter usare la spada. Due Troiani caddero, altri si voltarono verso di me. Evitai a malapena una punta che premeva contro il mio ventre, mentre colpivo l’impugnatura di un’altra lancia e la tagliavo a metà con la mia lama di ferro. Schivai un altro colpo e feci un passo indietro: nel vuoto.
Mentre barcollavo sul bordo della piattaforma, un’altra lancia cercò di trafiggermi. La parai con la fascia di metallo del mio polso sinistro, deviandola abbastanza da salvare la pelle. Ma il movimento mi fece precipitare.
Feci una capriola completa a mezz’aria e caddi in piedi. L’impatto mi fece cedere le ginocchia e rotolai sulla terra battuta della strada. Una spada si conficcò nel terreno vicino alla mia spalla. Voltandomi, vidi un paio di frecce che si dirigevano verso di me. Le schivai e mi buttai dietro l’angolo di una casa.
Alessandro e i suoi uomini si affrettarono verso il cuore della battaglia che infuriava in cima al muro: il mio contingente hatti e gli Itacensi di Ulisse contro i Troiani sempre più numerosi svegliati così rudemente dal loro sonno. Avevamo bisogno di un diversivo, di qualcosa che spostasse l’attenzione dei difensori.
Mi precipitai lungo lo stretto vicolo in mezzo alle case e trovai una porta. L’aprii con un calcio. Una donna gridò di terrore quando entrai, la spada in mano. Si rannicchiò in un angolo della cucina, le braccia intorno a due bambini piccoli che si stringevano a lei. Mentre mi dirigevo a gran passi verso di loro, tutti gridarono e corsero lungo la parete, squittendo e agitandosi come topi, poi si lanciarono verso la porta aperta. Io li lasciai andare.
Un piccolo fuoco ardeva nel focolare. Strappai le fragili tende dalla porta che separava la cucina dalla stanza successiva e le buttai nel fuoco. Bruciarono in una vampata. Poi feci a pezzi il tavolo di legno e alimentai le fiamme. Passando nell’altra stanza, afferrai pagliericci e coperte e buttai nel fuoco anche quelli.
Diedi alle fiamme due case, tre, poi l’intera fila. La gente strillava e gridava. Uomini e donne correvano verso l’incendio con secchi d’acqua attinta alla fontana in fondo alla strada.
Sicuro che il fuoco li avrebbe tenuti occupati, salii la rampa di scale più vicina per tornare al combattimento sulle mura.
Gli Achei si stavano riversando oltre il parapetto, adesso, e i Troiani perdevano terreno. Balzai su di loro da dietro, chiamando Lukka. Lui mi sentì e portò i suoi uomini dalla mia parte, aprendosi sanguinosamente la strada fra i difensori.
— La torre d’avvistamento vicino alle porte Scee — dissi, indicando con la spada ormai rossa. — Dobbiamo prenderla e aprire le porte.
Lottammo per tutta la lunghezza del muro, scontrandoci con i guerrieri troiani che salivano a gruppetti e allontanando i pochi che non uccidevamo. I fuochi che avevo appiccato si stavano propagando ad altre case adesso, e una cappa di fumo nero nascondeva il palazzo alla nostra vista.
La torre aveva poche guardie; la maggior parte delle forze troiane era stata inviata contro Ulisse sul muro occidentale. Entrammo nella stanza delle sentinelle, sfondando la porta con l’impugnatura delle lance, e uccidemmo gli uomini che si trovavano lì. Poi ci precipitammo giù e cominciammo a sollevare le pesanti travi che barricavano le porte Scee. Si alzò un grido lamentoso, e vidi che Alessandro e gli altri nobili scendevano rapidamente le scale di pietra e correvano verso di noi.
Li avevamo messi davanti a un problema. Se permettevano a Ulisse di tenere il muro, il resto degli Achei sarebbe entrato nella città da quella parte. Ma se si concentravano nella difesa del muro, i nemici sarebbero entrati dalle porte che avremmo aperto. Dovevano fermarci da entrambe la parti, e fermarci in fretta.
Gli arcieri cominciarono a tirare contro di noi, ma ciò nonostante gli Hatti continuarono a spingere le porte massicce. Alcuni uomini caddero, ma le tre enormi travi si stavano lentamente muovendo, sollevandosi verso l’alto e infine staccandosi.
Schivai una freccia e vidi Alessandro che correva verso di me attraverso la piazza dietro la porta.
— Di nuovo tu! — mi gridò.
Quelle furono le sue ultime parole. Mi attaccò con la lancia, ma io, chinandomi di lato, gliela feci abbassare con l’avambraccio sinistro e conficcai la mia spada di ferro nella sua corazza di bronzo, fino all’elsa. Mentre la ritiravo, schizzando di sangue rosso brillante gli intarsi d’oro, avvertii una folle ondata di piacere, una gioia sanguinaria per aver tolto la vita all’uomo che aveva causato la guerra.
Alessandro cadde pesantemente a terra. Vidi la luce abbandonare i suoi occhi. Ma in quel momento, una freccia mi colpì alla spalla sinistra. Il dolore si diffuse per un attimo prima che io reagissi automaticamente, respingendolo. Strappai la freccia, la punta tagliente che mi lacerava la carne. Il sangue zampillò, ma chiusi volontariamente i vasi e feci in modo che si coagulasse.
Nel frattempo, altri Troiani si dirigevano verso di me. Ma si fermarono di colpo quando il gemito scricchiolante di enormi cardini di bronzo mi disse che le porte Scee si stavano finalmente aprendo. Udii una specie di boato, e voltandomi vidi irrompere il muro dei carri achei, che puntavano dritto su di me.
I Troiani si dispersero e anch’io mi tolsi rapidamente di mezzo. Agamennone era sul primo carro. I suoi cavalli calpestarono il cadavere di Alessandro e il veicolo sobbalzò, poi continuò ad avanzare sferragliando, all’inseguimento dei guerrieri in fuga.
Indietreggiai, mentre la polvere dei carri in corsa mi pungeva gli occhi e mi ricopriva la pelle, i vestiti, la spada insanguinata. L’eccitazione della battaglia cominciò a calare e osservai il corpo di Alessandro sollevato e schiacciato da un carro dopo l’altro. Lukka arrivò al mio fianco, uno sfregio sulla guancia e altri su entrambe le braccia. Nessuno sembrava grave, però. — La battaglia è finita — disse. — Comincia il massacro.
Io annuii, improvvisamente esausto.
— Sei ferito — disse.
— Non è grave.
Esaminò la spalla, scuotendo la testa e mormorando: — Sembra già mezzo rimarginata.
— Ti ho detto che non è grave.
Gli uomini si riunirono intorno a noi. Sembravano a disagio. Non spaventati, ma irritati, nervosi.
— Questo è il momento in cui i soldati ricevono la loro paga mi disse Lukka.
Il bottino, voleva dire. Rubare tutto quello che si può trasportare, violentare le donne, e poi mettere a fuoco la città.
— Andate — dissi, ricordando i primi fuochi che io stesso avevo appiccato. — Io starò bene. Ci vediamo all’accampamento.
Lukka si batté il pugno sul petto, poi si rivolse a quello che era rimasto dei suoi uomini. — Seguitemi — ordinò. — E ricordate, non correte rischi. Ci sono ancora moltissimi uomini armati. E qualche donna cercherà di usare il coltello contro di voi.
— Qualunque cagna provi a ferirmi, se ne pentirà — disse un soldato.
— Qualunque cagna che veda la tua brutta faccia, probabilmente, userà il coltello su se stessa!
Risero tutti e si allontanarono insieme. Ne contai trentacinque. Ne erano stati uccisi sette.
Per un attimo rimasi seduto lì vicino al muro, a guardare i carri e i fanti achei che si riversavano dalla porta aperta e indifesa. Il fumo stava diventando più denso. Scrutai il cielo e vidi che il sole aveva a malapena raggiunto la cima del muro. Era ancora mattina presto.
“Così è fatta”, dissi a me stesso. “La tua città è caduta, Apollo. Il tuo piano è fallito.”
Non sentii alcuna esultanza, né gioia. “Questa non è vittoria” mi resi conto. “Uccidere un migliaio di uomini e di ragazzi, bruciare una città che ci sono voluti secoli a costruire, violentare le donne e trascinarle via in schiavitù; questo non è trionfo.”
Lentamente mi misi in piedi. La piazza era vuota adesso, tranne che per il corpo straziato di Alessandro e i cadaveri di altri caduti. Dietro i colonnati dei templi vedevo le fiamme che si alzavano verso il cielo, il fumo che saliva tra le nuvole. “Un sacrificio agli dèi” pensai amaramente.
Sollevando sulla testa la spada insanguinata, gridai: — Voglio il tuo sangue, Radioso! Il tuo sangue!
Non ci fu risposta.
Guardai quello che era rimasto del corpo di Alessandro. “Moriamo tutti, principe di Troia. I tuoi fratelli sono morti. Probabilmente tuo padre sta morendo proprio in questo momento. Alcuni di noi muoiono molte volte. I fortunati, solo una.”
Poi mi colpì un pensiero, come un messaggio telepatico diretto al mio cervello. “Dov’è Elena, la bella Elena che è stata la causa di questo massacro, la donna calcolatrice che ha cercato di usare anche me?”
Percorsi a grandi passi la strada principale di Troia in fiamme, la spada in mano, in un mattino reso buio dal fumo degli incendi a cui io stesso avevo dato inizio. L’aria era piena di grida e singhiozzi di donne, e di voci di uomini che sbraitavano e ridevano. Il tetto di una casa crollò in una pioggia di scintille, obbligandomi a indietreggiare di qualche passo. Forse era la casa in cui avevo dormito; non potevo saperlo.
Camminai per il viale in salita, il viso annerito dalla polvere e dalla fuliggine, le braccia spruzzate di sangue. Vidi che il rigagnolo al centro della strada polverosa era diventato rosso. Un paio di bambini mi oltrepassarono di corsa gridando, e un terzetto di Achei ubriachi li inseguivano barcollando e ridendo. Ne riconobbi uno: il gigantesco Aiace, con un’enorme brocca di vino in una mano.
— Tornate indietro! — gridava con voce da ubriaco. — Non vi faremo del male!
I bambini scapparono nel fumo e scomparvero lungo un vicolo.
Io continuai a salire, verso il palazzo, oltre il rogo dei banchi del mercato che mi bruciacchiava i peli delle braccia, oltre un mucchio di Troiani caduti che dovevano aver cercato di opporre resistenza. Infine, raggiunsi la scalinata sulla facciata del palazzo. Anche quella era disseminata di cadaveri.
Seduto sull’ultimo gradino, appoggiato contro una delle massicce colonne di pietra, c’era Polete. In lacrime.
Mi affrettai verso di lui. — Sei ferito?
— Sì — rispose, dondolando la vecchia testa. — Nell’anima.
Mi sentii quasi sollevato.
— Guarda che desolazione. Assassinio e fuoco. È per questo che vivono gli uomini? Per agire come bestie?
— Sì — risposi, prendendolo per le spalle ossute. — Qualche volta gli uomini agiscono davvero come bestie. Qualche volta si comportano come angeli. Possono costruire città meravigliose e raderle al suolo. E allora? Non cercare di trovare un senso in questo, accettaci semplicemente come siamo.
Polete mi guardò con occhi arrossati di lacrime e di fumo. — Dunque dovremmo accettare i capricci degli dèi, e ballare ogni volta che tirano i nostri fili? È questo che mi stai dicendo?
— Non ci sono dèi, Polete. Solo bulletti viziosi che ridono del nostro dolore.
— Niente dèi? Non può essere. Deve esserci una qualche ragione alla nostra esistenza, qualche ordine nel mondo.
— Noi facciamo quello che dobbiamo fare, vecchio moralista — dissi aspro. — Obbediamo agli dèi quando non abbiamo altra scelta.
— Parli per enigmi, Orion.
— Torna all’accampamento, vecchio. Questo non è posto per te. Qualche Acheo ubriaco potrebbe scambiarti per un Troiano.
Ma lui non si mosse, tranne che per appoggiare la testa alla colonna. Vidi che la pittura una volta rosso vivo adesso era annerita e qualcuno aveva inciso un nome nella pietra con la punta della lancia: Tersite.
— Ci vediamo all’accampamento — dissi.
Lui annuì tristemente. — Sì, quando il potente Agamennone dividerà il bottino e deciderà quante delle donne e quanto del tesoro terrà per sé.
— Vai all’accampamento — ripetei con più fermezza. — Subito. Questo non è un consiglio, Polete, è un ordine.
Inspirò profondamente, poi sospirò, infine si mise lentamente in piedi.
— Prendi questo — dissi porgendogli il bracciale che Ulisse mi aveva dato. — Ti farà riconoscere da qualunque zoticone ubriaco che ti volesse staccare la testa.
Lui lo accettò senza parlare. Era assolutamente troppo grande per le sue fragili braccia, così se lo mise intorno al collo magro. Dovetti ridere mio malgrado.
— Ridere in mezzo al saccheggio di una grande città — mi rimproverò Polete. — Stai diventando un vero guerriero acheo, mio padrone.
Con questo cominciò a scendere i gradini, fermandosi ogni tanto, come un uomo a cui davvero non interessa da che parte va.
Io superai il colonnato ed entrai nella sala delle statue, dove i guerrieri achei stavano ordinando agli schiavi di radunare le sculture e di trasportarle alle navi. Attraversai il cortile che era stato così bello: i vasi erano rovesciati e infranti, i fiori calpestati, e il sangue dei cadaveri sparsi dappertutto macchiava l’erba. La piccola statua di Atena era già sparita. Quella grande di Apollo era caduta e si era rotta in vari pezzi. Sogghignai cupamente.
Un’ala del palazzo bruciava. Potevo vedere le fiamme rosseggiare attraverso le finestre. Chiusi gli occhi per un attimo, cercando di localizzare nella mente la stanza in cui Elena mi aveva parlato. Era lì che divampava il fuoco.
Da un balcone in alto sentii venire delle grida, poi imprecazioni. Il cozzare di metallo contro metallo. Si combatteva ancora, lassù.
— Le donne della casa reale si sono chiuse nel tempio di Afrodite! — sentii gridare alle mie spalle. — Avanti! — Il tono era quello di chi va a una festa, o che si affretta a sedersi al suo posto prima che il sipario si alzi sull’atto finale di una commedia.
Tolsi la spada dal fodero e mi precipitai su per la scala più vicina. Un gruppetto di Troiani stava opponendo un’estrema quanto inutile difesa del corridoio che portava ai templi reali, contro una marmaglia di guerrieri achei, urlanti e furibondi. Dietro le porte sbarrate alle loro spalle dovevano esserci il vecchio Priamo e sua moglie, insieme con le figlie e i nipoti, mi resi conto.
Anche Elena doveva essere lì, pensai. Vidi Menelao, Diomede e lo stesso Agamennone colpire con le lance i pochi disperati difensori, ridendo di loro e prendendoli in giro.
— Rischiate le vostre vite per niente — gridò Diomede. — Gettate le lance e vi permetteremo di vivere.
— Come schiavi! — ruggì Agamennone.
I Troiani lottavano con coraggio, ma erano inferiori di numero e irrimediabilmente condannati. Erano in trappola, le spalle contro le porte che cercavano così valorosamente di difendere, mentre dal corridoio continuavano ad arrivare altri Achei per prendere parte al divertimento.
Mi lanciai in un altro corridoio e attraversai una fila di stanze in cui i soldati rovistavano con furia in mezzo a casse di splendide vesti, staccando gioielli dalle scatole intarsiate d’oro e strappando gli arazzi di seta dalle pareti. Sapevo che anche quell’ala del palazzo sarebbe stata presto in fiamme. Troppo presto.
Trovai un balcone, mi arrampicai sulla balaustra, e sporgendomi più in là che potevo mi attaccai con una mano al bordo di una finestra nel muro posteriore del tempio. Dondolai per circa un metro nel vuoto e mi issai a forza di braccia sul davanzale della finestra. Spostando le tende ornate di perline, mi trovai in un piccolo, buio santuario. Le pareti erano nude, le mattonelle del pavimento vecchie e consumate sino ad essere tetre. Piccole statue votive si allineavano lungo i lati della stanza, alcune ancora ornate di ghirlande di fiori appassiti. L’aria odorava di incenso e di vecchie candele. In piedi vicino alla porta, dandomi le spalle, le mani strette l’una all’altra per la paura, c’era Elena.
Mi chinai leggermente e mi diressi in silenzio verso di lei.
— Elena — dissi.
Lei si voltò di scatto, i pugni premuti contro la bocca, il corpo irrigidito dal terrore. Vidi i suoi occhi riconoscermi, e lei rilassarsi un po’.
— L’emissario — sussurrò.
— Orion — le ricordai.
Rimase ferma, disorientata per un momento, con indosso le sue vesti più fini, coperta d’oro e gioielli, più bella di quanto qualunque donna avesse il diritto di essere. Poi corse verso di me, tre passi minuscoli, e premette la testa dorata contro il mio petto fuligginoso e macchiato di sangue. I suoi capelli erano profumati come fiori fragranti.
— Non lasciare che mi uccidano, Orion! Per favore, per favore! Saranno follemente assetati di sangue. Persino Menelao. Mi staccherebbe la testa e poi darebbe la colpa ad Ares. Per favore, proteggimi!
— È per questo che sono venuto — dissi. E mentre lo dicevo seppi che era vero. Era l’unica cosa civile che potessi fare in quella folle giornata di morte. Avendo ucciso l’uomo che l’aveva rapita, avrei fatto in modo che il marito la riprendesse.
— Priamo è morto — mi disse, con voce soffocata e singhiozzante. — Il suo cuore si è spezzato quando ha visto gli Achei superare il muro occidentale.
— La regina? — chiesi.
— È nel tempio principale, con le altre donne della famiglia reale. Proprio dall’altra parte di quella porta. Le guardie fuori hanno giurato di morire fino all’ultimo uomo prima di permettere ad Agamennone e ai suoi bruti di entrare lì.
Io la tenni stretta e ascoltai il clamore della battaglia. Non durò molto. Un ultimo grido di agonia, un boato finale di trionfo, poi un rumore sordo contro le porte sbarrate. Lo schianto di legno che va in frantumi, infine il silenzio.
— Sarebbe meglio entrare con gli altri, piuttosto che lasciare che irrompano qui e ti trovino sola — suggerii.
Lei si allontanò da me e lottò visibilmente per mantenere l’autocontrollo. Sollevando il piccolo mento come la regina che aveva sperato di essere, Elena disse: — Sì. Sono pronta ad affrontarli.
Mi avvicinai alla porta di comunicazione, tirai il chiavistello e aprii una fessura. Agamennone, suo fratello Menelao e dozzine di altri nobili achei stavano sciamando nel tempio. Statue coperte d’oro più grandi del naturale erano allineate lungo i muri, sul pavimento di marmo luccicante. All’estremità del tempio, dietro l’altare, torreggiava una statua di Afrodite, ornata di fiori e coperta d’oro e gioielli.
Alla sua base bruciavano centinaia di candele, che strappavano bagliori tremolanti all’oro e alle gemme. Ma gli Achei ignorarono tutti i tesori del tempio. Fissarono invece l’altare riccamente addobbato, e la vecchia che vi giaceva sopra.
Io non avevo mai visto Ecuba. L’anziana regina era distesa sull’altare, le braccia incrociate sul petto, gli occhi chiusi. Le sue vesti erano ricamate d’oro; ai polsi e alle dita portava turchesi e ambra, rubini e corniole. Pesanti catene d’oro e una corona incrostata di pietre preziose erano state posate su di lei. Sette donne, le più anziane con i capelli grigi e le più giovani intorno ai vent’anni, stavano in piedi intorno all’altare, di fronte agli Achei sudati e sporchi di sangue, rimasti a bocca aperta davanti allo splendore della defunta Signora di Troia.
Una delle donne più anziane stava dicendo con calma ad Agamennone:
— Ha preso il veleno appena il re è morto. Sapeva che Troia non sarebbe potuta sopravvivere a questo giorno, che la mia profezia era infine divenuta realtà.
— Cassandra — mi sussurrò Elena. — La figlia maggiore della regina.
Agamennone spostò lentamente lo sguardo dalla salma di Ecuba alla principessa dai grigi capelli. I suoi piccoli occhi stretti brillavano d’ira e di frustrazione.
Cassandra disse: — Non porterai a Micene la Regina di Troia sulla tua nave nera, potente Agamennone. Non sarà mai una delle tue schiave.
Un sorriso cattivo increspò le labbra del Sommo Re. — Allora dovrò accontentarmi di te, principessa. Sarai mia schiava al posto suo.
— Sì — disse Cassandra — così moriremo insieme per mano della tua infedele moglie.
— Cagna troiana! — esplose Agamennone allungandole un violento manrovescio che la fece cadere sul pavimento.
Prima che la situazione precipitasse, io spalancai la porta del santuario. Gli Achei si voltarono, le mani già strette sulle spade. Elena entrò con grazia regale e un’espressione assolutamente vuota sul viso incredibilmente bello. Era come se la statua più splendida che si potesse immaginare avesse miracolosamente preso vita.
Si avvicinò in silenzio a Cassandra e l’aiutò a rialzarsi. Il sangue colava dalle labbra spaccate della principessa.
Io mi fermai a lato dell’altare, la mano sinistra sul pomello della spada. Agamennone e gli altri mi riconobbero. I loro visi erano sporchi, le mani macchiate di sangue. Sentivo l’odore del loro sudore anche a quella distanza.
Menelao, per un attimo stordito dalla shock, si fece avanti e afferrò la moglie per le spalle.
— Elena! — La sua bocca sembrò contorcersi, come se stesse cercando di pronunziare parole che non volevano lasciare la sua anima.
Lei non sorrise, ma i suoi occhi cercarono quelli di lui. Gli altri Achei osservavano ammutoliti.
Tutte le emozioni che un essere umano può provare guizzarono sul viso di Menelao. Elena rimase semplicemente lì, nella sua stretta, aspettando che lui parlasse, agisse, prendesse la decisione di farla vivere o morire.
Agamennone ruppe il silenzio. — Bene, fratello, ti avevo promesso che l’avremmo ripresa! È di nuovo tua, perché te ne occupi come credi meglio.
Menelao inghiottì con difficoltà e infine trovò la voce. — Tu sei mia moglie, Elena — disse, più per le orecchie di Agamennone e degli altri che per quelle di lei, pensai. — Quello che è successo da quando Alessandro ti ha rapita non è colpa tua. Una donna prigioniera non è responsabile di quello che le succede.
Mi trattenni dal sorridere. Menelao la rivoleva con tanto fervore che era disposto a dimenticare tutto. Per il momento.
Agamennone gli batté allegramente una mano sulla spalla. — Mi dispiace soltanto che Alessandro non abbia avuto il coraggio di affrontarmi da uomo a uomo. L’avrei infilzato volentieri con la mia lancia.
— Dov’è Alessandro? — chiese Menelao all’improvviso.
— È morto — risposi io. — Il suo corpo è sulla piazza vicino alle porte Scee.
Le donne cominciarono a piangere, singhiozzando silenziosamente, senza spostarsi dal feretro della madre. Tutte tranne Cassandra, i cui occhi lampeggiarono di furia non celata.
— Ulisse sta girando per tutta la città a cercare tutti i principi e i nobili — disse Agamennone. — Quelli che rimarranno vivi serviranno come nobili sacrifici agli dèi — e rise al suo gioco di parole.
Così lasciai Troia per l’ultima volta, sfilando insieme agli Achei vittoriosi nella città in fiamme, con Agamennone che portava sette principesse troiane al suo campo e alla schiavitù, e Menelao che camminava fianco a fianco con Elena, di nuovo sua moglie. Una scorta d’onore ci marciava vicino, le spade levate dritte verso il cielo annerito. Lamenti e singhiozzi si alzavano intorno; l’aria era piena del puzzo del sangue e del fumo.
Io notai che Elena non toccava mai Menelao volontariamente, nemmeno per prendergli la mano. Ricordai quello che mi aveva detto quando ci eravamo visti per la prima volta: che tra gli Achei essere una moglie, anche una regina, era poco meglio che essere una schiava.
Non toccò mai Menelao e lui la guardò appena, dopo quel primo incontro carico di emozione nel tempio di Afrodite.
Ma lei si guardò alle spalle più di una volta, guardò nella mia direzione, come per accertarsi che io non le fossi troppo lontano.
L’accampamento acheo fu un’orgia gigantesca di banchetti e di baldoria per tutta la giornata e sino a notte inoltrata. Nessun tentativo di fare altro che bere, amoreggiare, mangiare e celebrare la vittoria. I soldati barcollavano ubriachi, avvolti delle sete preziose saccheggiate nella città in fiamme. Le prigioniere se ne stavano rannicchiate e tremanti, quando non venivano percosse e seviziate fino a perdere i sensi.
Scoppiarono litigi. Gli uomini discutevano per una coppa, o un anello, o più spesso per una donna. Il sangue cominciò a scorrere e molti Achei che pensavano di essere al sicuro, adesso che la guerra era finita, scoprirono che la morte poteva trovarli anche nel mezzo del trionfo.
— Domani ci saranno i solenni sacrifici di ringraziamento agli dèi — mi disse quella sera Polete mentre sedevamo vicino al nostro fuoco. — Saranno uccisi molti uomini e molti animali e il fumo delle loro pire verrà offerto ai cieli. Poi Agamennone dividerà il bottino migliore.
Io guardai oltre il suo viso triste e segnato dalle intemperie verso le fiamme della città, che facevano ancora brillare di un rosso cupo il cielo ormai scuro della sera.
— Sarai un uomo ricco, domani, padrone Orion — disse il vecchio cantastorie. — Agamennone non può fare a meno di dare ad Ulisse una grossa fetta del bottino e Ulisse sarà generoso con te; molto più generoso dello stesso Agamennone.
Scossi la testa tristemente. — Non fa nessuna differenza, Polete. Non per me.
Sorrise come per dire: “Ah, ma aspetta che Ulisse ti copra d’oro e di bronzo, di tripodi e paioli di ferro. Allora sentirai la differenza”.
Mi alzai e passai tra gli Achei in tumulto, cercando Lukka e gli altri soldati hatti. Non dovetti guardare lontano. Avevano messo il loro piccolo campo intorno al fuoco, con il loro bottino: fini coperte, stivali, splendidi archi di osso e avorio, e due dozzine di donne che stavano strette insieme, aggrappate l’una all’altra, fissando quelli che le avevano catturate con gli occhi pieni di paura.
Lukka si mise in piedi quando mi vide arrivare nel buio.
— È questo che avete preso dalla città? — chiesi.
— Sì, signore. Si usa che il comandante scelga la sua metà e gli uomini dividano il resto. Vuoi prendere la tua metà adesso?
Scossi la testa. — No. Dividete tutto tra voi.
Lukka aggrottò le sopracciglia perplesso. — Tutto quanto?
— Sì. E hai fatto bene a riunire tutto così. Domani Agamennone dividerà il bottino più prezioso. Gli Achei potrebbero voler dividere il vostro.
— Abbiamo già messo via la parte del re — disse lui. — Ma la tua…
— Prendila tu, Lukka. A me non serve.
— Nemmeno un paio di donne?
Gli sorrisi. — Nella mia terra, le donne non vengono prese come schiave. Vengono liberamente o non vengono affatto.
Per la prima volta da quando l’avevo incontrato, il valoroso guerriero sembrò sorpreso. Io risi e gli augurai una piacevole notte.
Mentre entravo nella mia tenda pensai che l’andirivieni e le grida del campo mi avrebbero tenuto sveglio. Ma non appena mi sdraiai sul pagliericcio mi addormentai.
Per ritrovarmi ancora una volta in quel vuoto dorato, nel reame dei Creatori. Scrutai nel bagliore che pervadeva ogni cosa e scorsi, debolmente, forme e masse, lontano, molto lontano, come torri e costruzioni di una città distante vista nel bagliore di un sole insopportabilmente luminoso.
Non avevo deciso io di mettermi in contatto con i Creatori. Doveva essere stato il Radioso a chiamarmi, ancora una volta.
— No, Orion, non è stato lui. Sono stato io.
Una forma umana si materializzò a circa venti metri da me. Quello con i capelli scuri e la barba tagliata con cura, quello che io chiamavo Zeus. Invece di vesti dorate, però, indossava una specie di tuta intera, con un collo alto abbottonato sotto la gola. Era di un insolito colore azzurro cielo, e brillava stranamente mentre lui camminava verso di me.
— Dovresti essere contento che Apollo non ti abbia convocato — disse, con un’espressione mista di curiosità divertita e seria preoccupazione.
— È furioso con te. Ti dà la colpa della caduta di Troia.
— Bene — dissi.
Zeus scosse la testa con un movimento netto e misurato. — Non va affatto bene, invece. Con la rabbia che ha in corpo, ti distruggerebbe completamente. Ti ho chiamato per proteggerti da lui.
— Perché?
Inarcò un sopracciglio. — Orion, tu dovresti ringraziare gli dèi per le benedizioni che ti concedono.
Chinai leggermente la testa. — E io ringrazio te, qualunque sia il tuo vero nome…
— Puoi chiamarmi Zeus. — Sembrava deliziato all’idea. — Per ora.
— Ti ringrazio, Zeus.
Il suo sorriso si allargò. — I ringraziamenti più forzati che un dio abbia mai ricevuto, scommetto.
Io mi strinsi nelle spalle.
— Nonostante questo, la verità è che hai fatto naufragare i piani di Apollo, per il momento.
— Dubito che avrei potuto fare qualunque cosa senza il vostro aiuto — dissi. — Molti di voi si opponevano ai suoi piani per Troia.
Lui sospirò. — Sì, non eravamo uniti su questo. Per niente uniti.
— Quella che io chiamo Era è davvero tua moglie? — chiesi.
Lui sembrò sorpreso. — Moglie? Certo che no. Non più di quanto sia mia sorella. Non abbiamo cose del genere qui.
— Niente mogli?
— Né sorelle — disse lui. — Ma questo non ha importanza. Il punto è: come continueremo il nostro lavoro, con l’opposizione di Apollo? È piuttosto arrabbiato. Non possiamo permetterci una scissione dichiarata, fra noi. Sarebbe catastrofico.
— Qual è esattamente il vostro lavoro? — chiesi.
— Dubito che potresti capirlo — rispose Zeus, fissandomi con uno sguardo duro. — Questa capacità non è mai stata plasmata dentro di te.
— Mettimi alla prova. Forse posso imparare…
Ma lui scosse la testa, vigorosamente questa volta. — Orion, tu non puoi visualizzare gli universi. Quando hai liberato Ahriman e gli hai permesso di lacerare il continuum, non hai pensato che da tutta quell’energia sprigionata si sarebbe formato un nuovo continuum, vero?
Le sue parole fecero scattare in me un barlume di memoria. — Ho liberato Ahriman — dissi lentamente. — Dopo averlo inseguito sino al tempo precedente all’Era Glaciale.
— Prima, dopo, fa poca differenza — fece Zeus spazientito. — Il popolo di Ahriman ora vive in pace nel suo continuum, al sicuro e lontano dal corso che noi tentiamo di proteggere. Ma tu…
— Il Radioso, Apollo: mi ha creato davvero?
Zeus annuì. — E l’intera razza umana. In origine, eravate cinquecento.
Immagini sfocate brillavano nella mia mente come fantasmi, tremolanti e indistinte, ma quasi a portata di mano. — Siamo stati mandati a distruggere la razza di Ahriman, a preparare la Terra per la nostra specie.
Mosse la mano con impazienza. — Questo ha poca importanza, adesso. È stato tutto risolto. — Non gli piaceva pensare al nostro incarico di genocidio. Lui era stato d’accordo, ovviamente, ma non gradiva che gli venisse ricordato.
— E alcuni di noi sono sopravvissuti per dare origine alla razza umana sulla Terra.
— Questo è vero — disse Zeus.
— E ci siamo evoluti, nel corso dei millenni, fino a produrre alla fine… — ricordavo, adesso, — … fino a produrre voi, alla fine, una razza di esseri umani superiori, così superiori da essere simili a dèi.
— E noi abbiamo creato voi — disse Zeus. — Quello che tu chiami Apollo ha guidato questo progetto. Poi vi abbiamo mandato a ritroso nel tempo per rendere la Terra abitabile per noi.
— Uccidendo i suoi originari abitanti: la razza di Ahriman.
— Sono abbastanza al sicuro — disse lui mostrando di nuovo una traccia di irritazione. — Grazie a te.
— E adesso Ahriman ha gli stessi vostri poteri.
— Virtualmente.
Capivo tutto adesso. O quasi. — Ma Troia cos’ha a che fare con questo? — chiesi.
Zeus sorrise appena, come assaporando la sua più vasta conoscenza. — Una volta che si comincia ad alterare il continuum, Orion, si crea tutta una serie di effetti collaterali che devono essere o rigidamente controllati o lasciati al loro corso naturale finché si esauriscono da soli. Apollo cerca di controllare gli eventi, di portare determinati accomodamenti nel continuum, ogni volta che questo può tornare a nostro vantaggio. Ma alcuni di noi si rendono conto che si rischia l’autodistruzione perché ogni cambiamento che facciamo genera altri effetti collaterali, e rende più difficile proteggere il continuum.
Avevo quasi capito. — Allora, mi ha mandato a Troia per aiutare i Troiani a vincere.
— Sì. La maggior parte di noi voleva che la guerra seguisse il suo corso naturale, senza la nostra interferenza. Apollo ci ha sfidato e ti ha mandato in quel punto del continuum. Io credo che avesse intenzione di farti uccidere i capi achei nel loro accampamento.
Scoppiai quasi a ridere. Ma poi un ciuffo di memoria mi fece dire: — Lui ha detto qualcosa su pericoli provenienti da oltre la Terra, e anche tu hai parlato di universi; al plurale.
Zeus fece uno sforzo per dominare la sorpresa e la paura che le mie parole avevano scatenato in lui. Controllò il suo volto e lo rese quasi privo di espressione, ma non abbastanza rapidamente da mascherare completamente le sue emozioni.
— Ci sono altri, da altre parti dell’universo? — chiesi. — Altri universi?
— Questo era qualcosa che non c’eravamo aspettati — ammise. — Il nostro continuum interferisce con altri. Quando apportiamo cambiamenti nel nostro spazio-tempo, questo influisce su altri universi. E le loro manipolazioni influiscono su di noi.
— E cosa significa?
Fece un profondo sospiro. — Significa che dobbiamo lottare non solo per mantenere questo continuum, ma anche per proteggerlo da coloro che vogliono manipolarlo per i loro scopi.
— E io? Dove mi inserisco?
— Tu? — Mi guardò con evidente perplessità, come se una spada, o un computer o un’astronave avessero chiesto quale fosse il loro scopo. — Tu sei un nostro strumento, Orion, da usarsi dove e quando lo riteniamo utile. Ma sei uno strumento testardo; non ti sei curato dell’ordine di Apollo, e adesso lui vuole distruggerti.
— Ha ucciso la donna che amavo. Era una di voi: quella che io chiamo Atena.
— Non darne la colpa a lui, Orion.
— Invece lo faccio.
Zeus scosse la testa. — È triste che tu biasimi gli dèi e ci consideri fonte dei tuoi guai. Sei stato tu stesso a procurarti sofferenze maggiori di quelle che avresti dovuto sopportare.
— Eppure tu mi proteggi dall’ira di Apollo.
— Puoi esserci ancora utile, Orion. È uno spreco distruggere uno strumento che può essere usato.
Sentii la rabbia montare dentro di me. La sua fredda soddisfazione, la sua aria di superiorità, cominciavano a farmi infuriare. O ribollivo perché sapevo che lui mi era superiore, molto più potente di quanto io avrei mai potuto sperare di essere?
— Porta al Radioso un messaggio da parte mia — dissi. — Digli che sto imparando. I miei ricordi cominciano a tornare. Un giorno, qualunque cosa lui sappia, la saprò anch’io. Qualunque cosa lui possa fare, anch’io sarò capace di farla. E un giorno io lo distruggerò.
Zeus mi sorrise, con compassione, nel modo in cui un padre sorride a un figlio disobbediente. — Ti distruggerà lui molto prima di quel giorno, Orion. Stai vivendo una vita in prestito.
Io volevo rispondere, ma lui svanì nel nulla. La città lontana, l’aura dorata tutt’intorno a me, tutto scomparve come il filo di fumo di una candela. Ero di nuovo nella mia tenda, e il sole stava sorgendo sul giorno in cui le spoglie di Troia sarebbero state spartite e gli dèi avrebbero ricevuto i loro sacrifici di animali e di uomini.
Il giorno sorse grigio e tetro. Gli Achei, doloranti e indisposti dopo la lunga notte, erano silenziosi e solenni mentre il sole si alzava lentamente dietro i banchi di nubi. Il vento dal mare sapeva di pioggia, e del freddo dell’autunno imminente.
Né io né i miei Hatti prendemmo parte ai sacrifici. Polete rimase sconcertato.
— Ma tu servi la dea — disse.
— È morta. Non importa quello che offriranno, lei non potrà riceverlo.
Borbottando “sacrilegio”, Polete si allontanò verso i grossi mucchi di detriti e assi di legno che gli schiavi e i thetes stavano radunando al centro dell’accampamento. Io rimasi vicino al nostro fuoco, non lontano dalle navi di Ulisse, e mi limitai a guardare.
Nestore guidò i sacerdoti in processione attorno al campo, seguito da Agamennone e dagli altri capi, tutti nelle loro più splendide corazze e armati di lunghe lance luccicanti che mi sembrarono più oggetti ornamentali che guerreschi.
Mentre loro sfilavano cantando inni a Zeus e a tutti gli altri immortali, le vittime sacrificali venivano riunite al centro del campo. C’era il solito gregge di capre e pecore e la mandria di tori, a centinaia, che scalciavano abbastanza polvere da oscurare le rovine annerite di Troia sul promontorio. Belati e muggiti facevano da contrappunto al salmodiare e ai canti degli Achei.
Le vittime umane, tutti gli uomini oltre i dodici anni catturati vivi, avevano le mani strettamente legate dietro la schiena e le caviglie immobilizzate. Tra loro, anche a distanza, riconobbi il vecchio gentiluomo che mi aveva scortato al palazzo. Stavano in silenzio, cupi, completamente consapevoli di quello che li aspettava, ma senza né chiedere pietà né lamentarsi del loro fato. Suppongo che sapessero bene che nulla avrebbe cambiato il loro destino.
Tutta la lunga giornata venne dedicata ai sacrifici rituali. Prima gli animali, dalle colombe ai tori urlanti che si agitavano follemente anche se i loro zoccoli erano fermamente legati insieme, inarcando la groppa e scuotendo la testa finché l’ascia di pietra del sacerdote non calava sulla gola con uno schizzo di sangue caldo. Furono sacrificati persino dei cavalli, a dozzine.
Poi toccò agli uomini. Uno per uno furono condotti all’altare grondante di sangue, e fatti inginocchiare con la testa piegata. I fortunati morirono con un solo colpo. Ma solo i più fortunati.
Quando tutto finì e vennero accesi i fuochi, i sacerdoti erano coperti di sangue e l’accampamento puzzava di interiora e di escrementi. Mentre il sole calava, le pire fiammeggiavano contro il cielo che incupiva mandando in alto spire di fumo che si presumeva gradito agli dèi.
Poi tutti si diressero alle navi di Agamennone, al centro della spiaggia, dove i tesori razziati a Troia formavano un alto mucchio. Centinaia di donne e bambini erano raggruppati alla catasta, controllati da un gruppo di guerrieri sogghignanti.
Agamennone salì su una sedia splendidamente intagliata, anch’essa presa alla città. Era stata posta su una piattaforma improvvisata per diventare una sorta di trono. Il re cominciò a dividere il bottino, un tanto a ogni comandante, cominciando con il vecchio Nestore dalla barba bianca.
Gli Achei gli si affollarono intorno, la brama e l’invidia che luccicavano negli occhi. Io rimasi fermo vicino alla nave di Ulisse, e notai che Lukka e i suoi uomini erano rimasti con me.
— Le vostre cose sono al sicuro? — gli chiesi.
Lui borbottò un’affermazione. — Volevano prendere le nostre donne per farle spartire al Sommo Re, ma li abbiamo convinti a lasciarci in pace.
Quasi sorrisi, immaginandomi Lukka e i suoi disciplinati soldati a formare una falange contro un branco di guerrieri achei che cominciavano appena a smaltire la sbornia.
La cerimonia continuò sino a notte inoltrata. Agamennone spartì armature e armi di bronzo, monili d’oro, urne e vasi stupendi, porfido e onice, utensili da cucina in rame, tripodi di ferro e pentole, vesti, sete, coperte, arazzi; e donne, giovinetti e ragazze. Tenne per sé metà di tutto: il diritto del Sommo Re. Ma mentre alcuni dei comandanti mi passavano vicino, portando il loro bottino alle navi, li sentii lamentarsi della sua avarizia.
— Ha la generosità di uno scarabeo stercorario.
— Sa che siamo stati noi a combattere più duramente, sul muro. E cosa ne abbiamo in cambio? Meno di suo fratello.
— Quelle donne sarebbero dovute essere nostre, ti dico. Il re è troppo avido.
— Cosa ci puoi fare? Lui prende quello che vuole e a noi resta quello che lascia.
Pensai che anche Ulisse sembrava meno che soddisfatto quando mi si avvicinò. La luce dei roghi era troppo lontana, ma i nostri fuochi da campo illuminavano di guizzi rossi il suo viso dalla barba scura.
— Orion — mi chiamò. Io mi avvicinai.
— Il tuo servo Polete si sta scavando la fossa da solo — disse Ulisse. — Sta criticando la generosità del Sommo Re.
Guardai nei suoi occhi scuri. — Non lo stanno facendo tutti? — chiesi con grazia.
Il suo sorriso di risposta mi disse come si sentiva. — Ma non così apertamente e a portata d’orecchio di Nestore e di Menelao e di altri che riporteranno le sue parole ad Agamennone. Faresti meglio ad occupartene. Il vecchio cantastorie nuota in acque pericolose.
— Grazie, mio signore. Vedrò cosa fare.
Mi affrettai verso il settore di Agamennone, oltrepassando capannelli di Achei scontenti che contavano il loro bottino.
Polete era seduto sulla sabbia vicino a un piccolo fuoco, praticamente sotto una delle navi del Sommo Re, circondato da una folla di Achei che sogghignavano o ridevano. Non c’erano nobili, fra loro, ma poco lontano, nell’ombra, notai Nestore in piedi, con le braccia magre incrociate sul petto, che guardava accigliato in direzione di Polete.
— …e vi ricordate quando Ettore li ha spinti tutti nuovamente verso le nostre porte, e lui è entrato con una freccia che gli aveva a malapena punto la pelle, piangendo come una donna: “Siamo perduti! Siamo perduti!”.
La folla intorno al fuoco scoppiò a ridere. Dovevo ammettere che il vecchio cantastorie sapeva imitare l’acuta voce di Agamennone quasi perfettamente.
— Mi chiedo cosa farà Clitennestra quando il suo coraggioso e nobile marito tornerà a casa — sogghignò Polete. — Mi chiedo se il suo letto è abbastanza alto da terra per nascondere il suo amante.
Alcuni uomini si rotolarono per terra dal ridere, con le lacrime agli occhi. Io cominciai ad aprirmi la strada attraverso la folla per raggiungere il mio servo.
Ma era troppo tardi. Una dozzina di uomini armati arrivarono a passo di marcia e l’auditorio di Polete si tolse rapidamente di mezzo. Riconobbi Menelao alla loro testa.
— Cantastorie! — disse brusco. — Il Sommo Re vuole sentire quello che hai da dire. Vediamo se le tue storie riescono a far ridere anche lui.
Gli occhi di Polete si spalancarono di paura improvvisa: — Ma io stavo solo…
Due guardie lo afferrarono sotto le ascelle e lo misero in piedi.
— Vieni con me — disse Menelao.
Io andai a mettermi di fronte a lui. — Questo è il mio servo. Me ne occuperò io.
Prima che Menelao potesse rispondere, si intromise Nestore. — Il Sommo Re ha chiesto di vedere questo narratore di storie. Nessuno può interferire! — Era il discorso più breve che gli avessi mai sentito fare.
Con una scrollata di spalle, Menelao si diresse verso l’alloggio di Agamennone, mentre le sue guardie trascinavano Polete dietro di lui, seguiti da Nestore, da me, e da tutti gli uomini che si stavano divertendo alle beffe del cantastorie.
Agamennone era ancora seduto sul suo trono improvvisato, grasso, rosso per il vino, attorniato dai tesori di Troia. Le sue dita paffute affondarono nei braccioli della sedia quando vide il cantastorie portato di peso ai suoi piedi. Aveva anelli luccicanti su tutte le dita, pollici compresi.
Polete si inginocchiò tremante davanti al Sommo Re, che fissò la sua magra, malconcia persona.
— Stavi raccontando bugie su di me — ringhiò Agamennone.
Il vecchio gli si avvicinò e sollevò il mento guardandolo in faccia. — Non è vero, Sommo Re. Io sono un cantastorie di professione. Non dico bugie, parlo solo di quello che vedo con i miei stessi occhi e sento con le mie stesse orecchie.
— Dici sporche bugie! — strillò Agamennone, la voce che gli diventava stridula. — Su mia moglie!
— Se tua moglie fosse una donna onesta, sire, non sarei nemmeno qui. Sarei nella piazza del mercato di Argo a raccontare storie alla gente, lì dove dovrei essere.
— Non voglio sentire nessuna calunnia su mia moglie — lo avvisò Agamennone.
Ma Polete insistette: — Il Sommo Re dovrebbe essere il giudice più importante di tutti, il più giusto, il più imparziale. Tutti sanno cosa sta succedendo a Micene; chiedi a chiunque. La tua prigioniera Cassandra, una principessa di Troia, ha profetizzato…
— Silenzio! — ruggì il Sommo Re.
— Come puoi far tacere la verità, figlio di Atreo? Come puoi cambiare il destino che il fato ha scelto per te?
Agamennone tremava, di rabbia. Si alzò e scese dalla pedana, davanti a Polete.
— Tenetelo fermo! — ordinò, sfoderando la daga ingioiellata alla sua cintura.
Le guardie afferrarono le fragili braccia di Polete.
— Io posso far tacere te, chiacchierone, separandoti dalla tua lingua bugiarda.
— Aspetta! — gridai, e mi aprii la strada a spinte verso di lui.
Agamennone mi guardò mentre mi avvicinavo, i piccoli occhi porcini improvvisamente preoccupati, quasi spaventati.
— Quest’uomo è mio servo — dissi — Lo punirò io.
— Molto bene, allora — disse Agamennone, indicando con la daga la mia spada di ferro. — Tu gli porterai via la lingua.
Scossi la testa. — Sarebbe una punizione troppo crudele per qualche parola scherzosa.
— Ti rifiuti di obbedirmi?
— Quest’uomo è un cantastorie — dissi cercando di difenderlo. — Se gli tagli la lingua lo condanni a morire di fame o alla schiavitù.
Lentamente, i lineamenti arrossati e pesanti di Agamennone si composero in un sorriso. Non era di gioia.
— Un cantastorie, eh? — si rivolse a Polete, che se ne stava in ginocchio floscio come un sacco di stracci nella presa delle due grosse guardie. — Dichiari di parlare solo di quello che vedi e che senti. Molto bene. Non vedrai né sentirai niente! Mai più!
Mi si contrasse lo stomaco quando mi resi conto di quello che intendeva fare. Allungai la mano verso la spada, ma incontrai dieci lance che mi circondavano, quasi toccandomi la pelle.
Una mano mi strinse la spalla. Mi voltai. Era Menelao, il viso serio. — Stai calmo, Orion. Il cantastorie deve essere punito. Non ha senso che tu ti faccia uccidere per un servo.
Polete mi fissava, con gli occhi che mi pregavano di fare qualcosa. Mi mossi verso di lui, solo per essere fermato dalle lance contro la mia carne.
— Mia moglie mi ha detto come l’hai protetta durante il saccheggio del tempio — mi disse Menelao all’orecchio, a voce bassa. — Sono in debito con te. Non obbligarmi a ripagarti con il tuo sangue.
— Allora corri da Ulisse — lo pregai. — Per favore. Forse lui può calmare l’ira del Sommo Re.
Menelao scosse appena la testa. — Sarebbe tutto finito prima che riuscissi a raggiungere la prima nave di Itaca. Guarda.
Nestore in persona prese un tizzone ardente da una delle pire, con un’espressione maligna e perversa sulla vecchia faccia. Agamennone glielo prese mentre le guardie tiravano indietro le braccia di Polete e uno di loro gli metteva un ginocchio sulla schiena. Agamennone afferrò il vecchio cantastorie per i capelli e gli arrovesciò la testa. Sentii di nuovo le punte delle lance che mi trapassavano gli abiti.
— Vagherai per il mondo nel buio, vile narratore di bugie.
Polete gridò di dolore mentre Agamennone gli bruciava per primo l’occhio sinistro e poi quello destro. Svenne. Con un sorriso da pazzo che gli distorceva ancora le grosse labbra, Agamennone gettò via il tizzone, estrasse di nuovo la daga e staccò le orecchie dalla testa del vecchio.
Le guardie lasciarono cadere sulla sabbia il corpo mutilato.
Agamennone alzò lo sguardo e disse con la sua voce più acuta: — Così la giustizia arriva a chiunque diffami la verità! — Poi si voltò, sogghignando, verso di me. — Puoi riprenderti il tuo servo, adesso.
I soldati che mi circondavano indietreggiarono, ma mi tennero ancora le lance puntate addosso, pronti a trafiggermi alla prima mossa sbagliata.
Guardai la forma sanguinante di Polete, poi il Sommo Re.
— Ho sentito la profezia di Cassandra — dissi. — Non viene mai creduta, ma non sbaglia mai.
Il sorriso mezzo demente di Agamennone svanì. Mi fissò. Per un lungo, eterno momento, pensai che avrebbe ordinato alle guardie di uccidermi sul posto.
Ma poi sentii la voce di Lukka che mi chiamava da poco lontano, alle mie spalle. — Stai bene, mio signore Orion? Hai bisogno di aiuto?
Le guardie volsero lo sguardo in quella direzione. Vidi che Lukka aveva portato il suo intero contingente, in pieno assetto da battaglia: trentacinque Hatti armati di scudi e spade di ferro.
— Non ha bisogno di nessun aiuto — rispose subito Agamennone — tranne che per portare via lo schiavo che ho punito.
Con questo si voltò e tornò in fretta nella sua baracca. Le guardie sembrarono emettere un grande sospiro di sollievo e abbassarono le lance.
Io mi avvicinai a Polete, raccolsi il suo corpo sanguinante e lo portai tra le braccia alla nostra tenda.
Mi occupai di Polete per il resto della notte. C’era solo vino per lenire il suo dolore, e niente per alleviare l’angoscia della sua mente. Lo adagiai nella mia tenda, gemente e singhiozzante. Lukka trovò un guaritore, un vecchio dignitoso dalla barba grigia che, assistito da due giovani donne, cosparse di balsamo le sue bruciature e le fessure sanguinanti che erano state le orecchie. — Nemmeno gli dèi possono restituirgli la vista — disse il guaritore con tono solenne, sussurrando in modo che Polete non potesse sentire. — Gli occhi sono stati bruciati.
Sapevo cosa si provava. Ricordavo il mio intero corpo che veniva bruciato vivo.
— Gli dèi siano maledetti — ringhiai. — Vivrà?
Se le mie parole lo avevano colpito, il guaritore non lo diede a capire. — Il suo cuore è forte. Se sopravviverà alla notte, vivrà per tutti gli anni a venire.
Il guaritore stemperò una qualche polvere in una coppa di vino e la fece bere a Polete, che sprofondò nel sonno quasi immediatamente. Le donne prepararono una scodella di cataplasma e mi fecero vedere come spalmarlo su un panno per metterlo sugli occhi del vecchio. Non parlarono praticamente mai, istruendomi con la dimostrazione, anziché con le parole, e non una volta mi guardarono direttamente in faccia. Il guaritore sembrava sorpreso che volessi curare personalmente Polete. Ma non fece commenti, e mantenne la sua aria professionale.
Rimasi seduto vicino al vecchio cantastorie fino all’alba, mettendogli compresse fresche sugli occhi circa ogni mezz’ora, impedendogli di toccarsi le bruciature. Dormì, ma anche nel sonno si lamentava e si dibatteva.
Molto dopo che l’alba aveva tinto il cielo di un rosa delicato, il respiro di Polete accelerò all’improvviso e lui cercò di togliersi il panno che gli copriva il viso. Io fui più veloce, e gli afferrai i polsi prima che potesse farsi del male.
— Mio signore Orion? — La sua voce era stridula e secca.
— Sì — dissi. — Tieni le mani lungo i fianchi. Non cercare di toccarti gli occhi.
— Allora è vero? Non era un incubo?
Gli sollevai leggermente la testa e gli diedi un sorso di vino. — È vero — risposi. — Sei cieco.
Il suo gemito avrebbe strappato il cuore a una statua di marmo.
— Agamennone — disse, molti attimi dopo. — Il potente re si è vendicato su un vecchio cantastorie. Come se questo gli rendesse fedele sua moglie.
— Prova a dormire — dissi. — Il riposo è ciò di cui hai bisogno.
Lui scosse la testa. Il panno scivolò via, scoprendo la carne viva delle due piaghe bruciate che erano state i suoi occhi. Mi avvicinai per rimettere a posto il panno, vidi che si stava asciugando e lo spalmai di altro cataplasma.
— Potresti anche tagliarmi la gola, Orion. Non ti servirò a niente, adesso. Non servirò a nessuno.
— È già stato sparso troppo sangue, qui — dissi.
— A niente — mormorò mentre gli applicavo il panno. Poi gli sollevai di nuovo la testa e gli diedi altro vino. Si riaddormentò presto.
Lukka infilò la testa nella tenda. — Mio signore, il re Ulisse vuole vederti.
Uscii dalla tenda alla luce del giorno. Ordinando a Lukka che un uomo vegliasse Polete, mi diressi alla nave di Ulisse e mi arrampicai sulla scala di corda che pendeva dallo scafo incurvato.
Il ponte era disseminato del tesoro saccheggiato a Troia. Diedi le spalle a quella distesa luccicante e guardai verso la città. C’erano centinaia di minuscole figure sui bastioni, che abbattevano le pietre annerite, sudando sotto il sole caldo per radere al suolo le mura che per tanto tempo avevano sfidato gli Achei.
Dovetti camminare con attenzione per non inciampare nei mucchi di tesori che coprivano il ponte. Ulisse era al suo posto sul ponte di poppa, ritto nella luce abbagliante del sole, con i capelli ancora bagnati per la solita nuotata, un sorriso compiaciuto sul viso folto di barba.
I suoi occhi cercarono i miei. — La vittoria è completa grazie a te, Orion. — Indicando i lavori di demolizione continuò: — Troia non risorgerà mai più.
Io annuii cupamente. — Priamo, Ettore, Alessandro; l’intera Casa di Ilio è stata spazzata via.
— Tutti tranne Enea il Dardano. Si dice che fosse un bastardo di Priamo. Non abbiamo trovato il suo corpo.
— Può essere bruciato nell’incendio.
— È possibile — disse Ulisse. — In ogni caso, non credo che sia molto importante. Se è vivo, sarà nascosto da qualche parte nelle vicinanze. Lo troveremo. E comunque non resterà niente qui a cui possa tornare.
Nel frattempo, un’enorme pietra venne divelta a forza di leve e funi. Cadde a terra, alzando una pesante nuvola di polvere. Solo più tardi ne sentii il tonfo.
— Apollo e Poseidone non saranno contenti di quello che viene fatto alle loro mura.
Ulisse rise. — Qualche volta gli dèi devono inchinarsi al volere degli uomini, Orion, che gli piaccia o no.
— Non temi la loro ira?
— Se non avessero voluto che abbattessimo le mura, non saremmo riusciti a farlo.
Era quello che mi chiedevo. Gli dèi sono più sottili degli uomini, e hanno una memoria più lunga. Sapevo che Apollo era adirato con me: come avrebbe sfogato la sua ira?
— È il tuo turno di scegliere la tua parte del bottino della città — disse Ulisse, indicando un grande mucchio sulla poppa della nave. — Prendi un quinto di tutto quello che vedi.
Io lo ringraziai, e passai un’ora a rovistare tra tutta quella roba. Scelsi coperte, armature, indumenti, armi, elmi e gioielli che potevano essere scambiati con cibo e riparo.
— I prigionieri sono laggiù, tra le navi. Prendi un quinto anche di quelli.
Io scossi la testa. — Ho a malapena cavalli e asini — spiegai. — I bambini sarebbero inutili e le donne causerebbero solo litigi tra i miei uomini.
Ulisse mi guardò attentamente. — Parli come uno che non ha nessuna intenzione di venire a Itaca.
— Mio signore — risposi — sei stato più che generoso con me. Ma nessuno qui ha alzato una mano per aiutare il mio servo la notte scorsa. Agamennone è un animale crudele e vizioso. Se ti seguissi nella tua terra, mi verrebbe presto la voglia di cominciare una guerra contro di lui.
Ulisse borbottò: — Questo sarebbe assurdo.
— Forse sì. Meglio che le nostre strade si separino qui e adesso. Lascia che prenda i miei uomini e il mio servo cieco, e che vada per la mia strada.
Il re di Itaca si sfregò la barba, riflettendo. Infine assentì. — Molto bene, Orion. Vai per la tua strada. E che gli dèi possano esserti amici.
— Anche a te, nobilissimo fra tutti gli Achei.
Non vidi mai più Ulisse. Quando tornai alla mia tenda, dissi a Lukka di mandare gli uomini a prendere il bottino che avevo scelto e di trovare cavalli e asini per trasportare quello e noi: lessi delle domande nei suoi occhi, ma non le pose. Invece si affrettò a eseguire i miei ordini.
Mentre il sole cominciava a scendere dietro le isole e noi ci riunivamo intorno al fuoco per il pasto serale, un giovane messaggero arrivò correndo e mi si avvicinò.
— Mio signore Orion, un nobile visitatore desidera parlare con te.
— Chi è? — chiesi.
Il giovanetto allargò le braccia. — Non lo so. Mi è stato ordinato di dirti che un nobile della Casa Reale ti farà visita prima che scenda il sole. Dovresti prepararti.
Io lo ringraziai e lo invitai a dividere il pasto con noi. Sembrava straordinariamente compiaciuto di sedere insieme ai soldati hatti. I suoi occhi studiavano le spade di ferro con ammirazione.
Un nobile visitatore della Casa Reale. Della gente di Agamennone? Mi chiesi chi stesse arrivando, e perché.
Mentre le lunghe ombre del tramonto cominciavano a fondersi nel porpora del crepuscolo, un gruppo di sei guerrieri achei marciò verso il nostro fuoco da campo, con un uomo piccolo e snello in mezzo. Una persona molto importante o un prigioniero, pensai. L’uomo sembrava troppo piccolo per essere uno dei nobili achei che avevo incontrato. Indossava un’armatura di metallo sopra una lunga veste, e aveva tirato sul viso i lembi dell’elmo, come per andare in battaglia. Non riuscivo a vederlo in faccia. Mi alzai e feci un piccolo inchino. La mini-processione marciò esattamente sino alla mia tenda prima di fermarsi. Io li raggiunsi e scostai il lembo d’entrata.
— Un rappresentante del Sommo Re? — chiesi. — Venuto ad assicurarsi che il vecchio cantastorie sia davvero cieco?
Il visitatore non disse niente, ma entrò chinandosi nella tenda. Io lo seguii, sentendo montare un’ira ribollente. Non dormivo da due giorni, ma la mia furia contro Agamennone mi teneva sveglio e all’erta.
Il visitatore guardò Polete, che giaceva sul pagliericcio con le fessure delle orecchie incrostate di sangue secco. Sentii lo sconosciuto trattenere il fiato. E poi notai che le sue mani erano minuscole, delicate, troppo lisce per aver mai retto uno scudo o una lancia.
L’afferrai per le spalle, lo feci ruotare fino ad averlo di fronte e gli tolsi l’elmo. I lunghi capelli dorati di Elena ricaddero sulle sue spalle.
— Dovevo vedere… — sussurrò, gli occhi spalancati per l’orrore.
La riportai davanti al vecchio cantastorie. — Allora guarda — dissi aspro. — Guarda bene.
— Agamennone ha fatto questo?
— Con le sue stesse mani. Tuo cognato l’ha accecato per pura stizza. Ubriaco di potere e di gloria, ha celebrato la sua vittoria su Troia mutilando un vecchio.
— E Menelao?
— Tuo marito stava lì a guardare. I suoi uomini mi tenevano fermo con le lance mentre suo fratello compiva queste nobili gesta.
— Orion, vorrei poter… quando ho sentito cos’era successo, ero così nauseata e adirata…
Ma non c’erano lacrime nei suoi occhi. La sua voce non tremava. Le parole che diceva, in realtà, non avevano niente a che fare con quello che sentiva, o con il motivo per cui era lì.
— Che cosa vuoi? — le chiesi. Lei si voltò a guardarmi. — Vedi quanto sono crudeli. Che barbari possono essere.
— Sei al sicuro, adesso — dissi. — Menelao farà di nuovo di te la sua regina. Sparta può non essere civile come Troia, ma non c’è più nessuna Troia. Accontentati di quello che hai.
Lei mi fissò, come tentando di decidere se poteva dire quello che aveva in mente.
Io sentii la mia rabbia svanire sotto lo sguardo fisso di quegli occhi colore del cielo.
— Non voglio essere la regina di Sparta né la moglie di Menelao — balbettò Elena. — Solo un giorno in questo miserabile campo mi ha nauseata.
— Salperai presto per Micene, e poi per…
— No! — disse in un sussurro disperato. — Non voglio tornare indietro con loro! Portami con te, Orion! Portami in Egitto.
Fu il mio turno, lì nella tenda, di restare sbalordito per la sorpresa. — In Egitto?
— È il solo Paese veramente civile di tutto il mondo, Orion. Mi riceveranno come la regina che sono, e tratteranno me e il mio seguito nel modo appropriato. Regalmente.
Avrei dovuto rifiutare subito la sua proposta, ma la mia mente stava già tessendo un folle arazzo di vendetta. Immaginai la faccia di Agamennone quando fosse venuto a sapere che sua cognata, per la quale aveva ostentatamente combattuto quella guerra lunga e sanguinosa, aveva rifiutato suo fratello e se n’era andata con un altro.
Non un principe che l’aveva rapita contro il suo volere, ma un misero guerriero, poco più che un thes, con il quale era fuggita dietro sua stessa insistenza.
Non avevo niente contro Menelao, a parte che era il fratello di Agamennone e che non aveva fatto nulla perché Polete non fosse accecato.
“Lascia che mangino la polvere dell’umiliazione e dell’ira impotente” mi dissi. “Lascia che il mondo rida di loro mentre Elena sfugge un’altra volta. Se lo meritano.”
Sapevo che ci avrebbero inseguiti. Che avrebbero cercato di trovarci. E se ci fossero riusciti, avrebbero ucciso me e forse anche lei.
“E allora?” pensai. “Per cosa devo vivere se non per sfogare la mia vendetta contro quelli che mi hanno fatto torto? Apollo cerca di distruggermi, ora che ho dato il mio aiuto alla caduta di Troia. Cos’ho da temere da due re mortali?”
Guardai il bel viso di Elena, così perfetto, la sua pelle liscia e pura come quella di un bambino, i suoi occhi pieni di speranza e di aspettativa, innocenti quanto scaltri.
Mi stava manovrando ancora, mi accorsi, per fuggire da quei rozzi Achei. Si stava offrendo come ricompensa se avessi sfidato Agamennone e Menelao.
— Molto bene — dissi. — Polete dovrebbe essere in grado di viaggiare in un paio di giorni. Partiremo fra tre notti.
Gli occhi di Elena luccicarono e un sorriso sfiorò gli angoli delle sue labbra. Io presi la sua minuscola mano nella mia e la baciai, e lei capì perfettamente quello che non avevo bisogno di dire.
— Fra tre notti — mi sussurrò. Poi mi si avvicinò un poco e si mise in punta di piedi per baciarmi rapidamente sulle labbra.
Si infilò di nuovo l’elmo troppo grande raccogliendovi bene i capelli, e se ne andò con la sua scorta. Li osservai marciare di nuovo verso le navi di Menelao, poi mandai uno degli uomini di Lukka a prendere il guaritore. Arrivarono le sue donne e fasciarono le ferite di Polete prima che lui arrivasse.
— Saremo in condizioni di viaggiare tra due giorni — chiesi — se lui non deve camminare?
L’uomo mi diede uno sguardo severo. — Se deve. È vecchio, e la morte potrebbe esigerlo comunque tra pochi anni.
— Viaggiare in un carro gli farebbe male?
— Non abbastanza da fare molta differenza — rispose.
Quando se ne furono andati, mi sdraiai sul pagliericcio che avevo fatto stendere vicino a Polete. Il vecchio si agitò nel sonno e mormorò qualcosa. Io mi chinai reggendomi su un gomito per sentire le sue parole.
— Guardati dai doni di una donna — borbottò Polete.
Io sospirai. — Ora divulghi profezie invece che storie, vecchio — sussurrai.
Polete non rispose.
Mi addormentai quasi subito, appena posata la testa sulla paglia. Mi sforzai di restare là, nella pianura di Ilio, e di non farmi trascinare nel mondo dei Creatori. Sapevo che vi avrei incontrato un pericolo per me inaffrontabile.
Se fu la mia forza di volontà, o se Apollo, Zeus e i loro compagni non si presero il disturbo di cercare di raggiungermi, non posso dirlo. Tutto quello che so è che non incontrai nessun dio, adirato o meno, durante il mio sonno di quella notte.
Ma sognai.
Sognai l’Egitto, una terra calda che si stendeva lungo un grande fiume, circondata su entrambi i lati da un deserto bruciante. Una terra di palme e coccodrilli, così antica che il tempo stesso sembrava non significare nulla, lì. Una terra di massicce piramidi che incombevano come monumenti alieni sulle meschine città degli uomini, facendo apparire infinitamente piccoli tutti i parametri umani, tutta l’umana conoscenza.
E dentro la più grande di quelle piramidi vidi la mia amata, che mi aspettava, silenziosa e immobile come una statua, che mi aspettava perché la riportassi di nuovo alla vita.
Il mattino seguente dissi a Lukka che avremmo lasciato l’accampamento e ci saremmo diretti in Egitto.
— È un bel viaggio — disse. — Attraverso terre ostili.
— È lì che andremo — insistetti. — Gli uomini mi seguiranno?
Gli occhi castani di Lukka si alzarono di scatto sui miei, poi guardarono da un’altra parte. — Abbiamo preso tre carri di bottino per un lavoro di qualche giorno e due ore di combattimento. Ti seguiranno, non temere.
— Per tutta la strada, fino in Egitto?
Sorrise senza divertimento. — Se ci riusciamo. Gli Egiziani reclutano soldati per il loro esercito, da quanto ho sentito. Sono stanchi di combattere personalmente le loro guerre. Se arriviamo ai loro confini, troveremo un impiego.
— Bene — dissi, felice di avere una scusa per attirarli verso la mia meta.
— Dirò agli uomini di cominciare a riunire dei carri per le nostre scorte — disse Lukka.
Gli afferrai una spalla. — Forse porterò una donna con me.
Lui sorrise. — Mi stavo chiedendo quando ti saresti rilassato.
— Ma non voglio che loro si trascinino dietro nessuna donna dall’accampamento. Si risentiranno perché io ne porto una? Creerà problemi?
Grattandosi la barba, Lukka rispose: — Ci sono state donne in abbondanza qui al campo. Gli uomini sono soddisfatti, per adesso. Ci muoveremo più in fretta senza gente al seguito, questo è certo. E probabilmente troveremo altre donne durante la marcia.
Capii cosa voleva dire. — Sì, dubito che il nostro viaggio verso l’Egitto sarà del tutto pacifico.
Questa volta i suoi occhi si fissarono nei miei. — Io spero soltanto che sia pacifica la nostra partenza dall’accampamento.
Sorrisi gravemente. Non era stupido, quell’Hatti.
Due notti dopo convinsi un ragazzino a venire con me al campo di Menelao. La zona non era veramente controllata: i pochi uomini di guardia sapevano che non c’era nessun nemico al momento. Stavano più attenti a proteggere dal furto il bottino e gli schiavi che a qualunque altra cosa.
Il ragazzo ed io trovammo la tenda di Elena. Fuori incontrai alcune schiave che mi guardarono di traverso, come se sapessero cosa stava per succedere. Una di loro mi introdusse nella tenda della sua padrona. Era grande, ed Elena ci stava passeggiando nervosamente.
La regina fece uscire l’ancella senza che tra noi ci fosse nemmeno una parola. Io diedi un pugno al ragazzo stupito, lo spogliai e guardai Elena infilarsi i suoi stracci sulla camicia corta. Indicò una semplice cassa di legno, larga la metà dell’apertura della mie braccia, e mentre io la tenevo alzata lei ne trasse da sotto una piccola scatola.
Sempre senza parlare uscimmo dalla tenda, oltrepassammo le donne e le guardie distratte e ci dirigemmo verso la riva del fiume, dove Lukka e i suoi uomini ci aspettavano con cavalli, asini e carri tirati da buoi.
Lasciammo l’accampamento nel buio della notte, come una banda di ladri. Cavalcando su una coperta ripiegata più volte che quella gente faceva passare per sella, mi voltai a guardare un’ultima volta le rovine di Troia, le sue mura un tempo fiere già sgretolate e simili a fantasmi nella fredda luce argentata della luna che sorgeva.
Il terreno tremò. I nostri cavalli sbuffarono e nitrirono, impennandosi nervosamente.
— È Poseidone che parla — disse Polete dal suo carro con voce debole ma comprensibile. — La terra tremerà ancora per la sua collera. Finirà l’opera di distruzione delle mura di Troia.
Il vecchio stava predicendo un terremoto. Violento. Un’altra buona ragione per noi per andare il più lontano possibile.
Guadammo il fiume e ci dirigemmo a sud. Verso l’Egitto.