5. Il mostro

Boone sedeva su un basso muretto di pietra che divideva un pascolo da un campo. Sul campo trotterellavano allegramente due setter che un po' si rincorrevano tra loro, un po' inseguivano gli uccelli che si sollevavano in volo spaventati dal loro movimento. Il sole del tardo pomeriggio era ancora caldo, il cielo limpido s'incurvava su di loro come una grande cupola turchina.

Boone era andato in giro per Hopkins Acre per un paio d'ore accompagnato dai due cani festosi. Inizialmente si era messo in cammino con l'intenzione di trovare la bolla temporale, di individuare la parete di tempo differenziale, che in qualche punto, si diceva, doveva giungere al livello del suolo. Aveva cercato di camminare in linea retta, fermandosi di tanto in tanto per controllare la sua posizione rispetto a una fila di bastoncini piantati in terra per riferimento. Ma dopo avere camminato per un'ora o poco più, procedendo in quella che a lui sembrava una linea retta, si era accorto con un certo stupore di essere ritornato al punto di partenza.

Quella camminata, comunque, non era stata del tutto inutile. In quell'ora, il paesaggio gli era entrato nel sangue. Era passato molto tempo dall'ultima sua passeggiata in campagna, e la passeggiata gliene aveva riportato alla mente altre, di altri anni, in altre terre. A un certo punto si era imbattuto in un gregge di placide pecore che erano rimaste immobili a osservarlo, con nello sguardo un blando interrogativo, per poi allontanarsi di qualche passo e ritornare a osservarlo mentre si allontanava. Aveva incontrato piccoli rigagnoli, che correvano svelti, di acqua cristallina; aveva attraversato brevi boschetti di alberi eleganti; aveva notato con profonda soddisfazione i fiori selvatici autunnali, che crescevano lungo i ruscelletti, che con le loro corolle parevano annuire perpetuamente nello specchio dell'acqua chiara e sulla riva.

E adesso si era seduto sul basso muricciolo di pietra, a poca distanza dal punto da cui era inizialmente partito. Alle sue spalle c'era la strada che, tra filari di pioppi ormai prossimi a morire, si dirigeva alla casa; davanti a lui c'era la distesa del campo, coperta di stoppie rade. Posando gli occhi su quello spettacolo campestre, ripensò con meraviglia a quanto era stato raccontato loro, a lui e a Corcoran, dagli abitanti della casa. Era una storia fantastica, ardita, che continuava a eludere la sua ragione. Non riusciva a trovare un punto logico da cui iniziare a rifletterci sopra. Poi, in fondo al campo, ai bordi di un boschetto, colse un movimento. Guardando con maggiore attenzione si accorse che era un uomo, e dopo qualche istante riconobbe Corcoran. Attese che salisse fino a lui.

Non si alzò in piedi ad attendere l'amico. Si limitò a battere una mano sul muretto e dire: — Siediti, Jay. Dimmi che cosa hai scoperto.

Corcoran non era il tipo di persona che andava a passeggio senza motivo; se si era mosso, era perché cercava qualcosa.

— Ho trovato il bordo della bolla — gli spiegò infatti. — Ne sono certo, anche se è poco visibile e se all'inizio non potevo averne la sicurezza.

— L'ho cercato anch'io — disse Boone. — Ho cercato di camminare in linea retta, ma alla fine mi sono ritrovato al punto di partenza. Non ho trovato la parete, ma tu hai occhi diversi dai miei.

— Sì. Probabilmente è questo. Ho occhi davvero diversi. Ma ho anche un testimone. Henry, spiegaglielo tu.

— Henry? Jay, tu dai i numeri. Non vedo nessuno. Ti ho guardato mentre salivi lungo il campo, ed eri solo.

— Ho fatto amicizia con lui mentre ero a passeggio — disse Corcoran. — Dimenticavo che tu non puoi vederlo alla luce del sole. Henry, mettiti all'ombra, sotto quell'albero, in modo che il mio amico possa vederti.

Indicò con la mano iin piccolo albero che cresceva accanto al muro. — Nell'ombra dovresti vederlo — aggiunse.

Boone guardò attentamente. Dapprima non vide niente, ma poi scorse un leggero formicolio dell'aria, come tante particelle di polvere illuminate da un raggio di luce solare, quando al tramonto, in una stanza buia, penetra la luce da una fessura della persiana.

Dall'ombra gli giunse una voce: parole non pronunciate che gli si formarono direttamente nel cervello. “Lieto di conoscervi, signore. Io sono Henry, anche se Horace, di tanto in tanto, mi chiama il Fantasma, con turbamento e irritazione degli altri membri della famiglia. A me, il nome Fantasma non dispiace. Forse è il nome adatto a un'entità come la mia. In fin dei conti, chi è in grado di dire che cosa sia e che cosa non sia un fantasma? Comunque, ammesso che io sia un fantasma, non sono certo un fantasma del passato, come gran parte degli altri, bensì un fantasma del futuro”.

— Che mi prenda un colpo! — esclamò Boone. — Eppure, sotto molti altri aspetti, siete quasi una persona normale. Qualche ora fa, in famiglia si è parlato di voi. Io sono Tom Boone. Io e Jay siamo vecchi amici.

“Quello che vi ha detto il vostro amico, di avere visto la parete temporale, è vero” disse Henry nella mente di Boone. “So che l'ha vista, anche se in modo impreciso. Il vostro amico è una persona davvero fuori del normale. A quanto ne so, nessun altro essere umano può vedere realmente la parete, anche se ci sono degli strumenti che permettono di rivelarne la presenza. Ho tentato di mostrargli un cercatore. Ce ne sono diversi, che cercano la bolla. Sanno che c'è qualcosa di strano, ma non sanno che cos'è”.

— É tu — domandò Boone, rivolgendosi a Corcoran — l'hai visto, questo cercatore?

— Ho visto qualcosa. Un oggetto non molto grande. Grande come un cane. Ma non l'ho visto bene. Ho visto solo che c'era qualcosa.

“Io non so che cosa sono i cercatori” disse Henry. “Ma nella nostra situazione dobbiamo stare attenti a tutto ciò che esce dall'ordinario”.

— Come va, in casa? — Corcoran domandò a Boone.

— Quando sono uscito, stavano discutendo. Discutendo, dico, e non insultandosi. Da una parte c'erano Horace ed Enid, che si chiedevano dove seppellire Gahan. E gli altri discutevano di tutto.

— Penso che abbiamo fatto bene a uscire — disse Corcoran. — Almeno hanno avuto la possibilità di parlarne tra loro, senza estranei.

Boone annuì. — È una faccenda loro. E le decisioni devono prenderle loro.

— Prima, quando sei saltato sulla tavola, ho pensato che volessi fare tu il mattatore.

— No — disse Boone. — Non volevo rubare la scena a nessuno. Ma quelle discussioni non arrivavano a niente. Tutti si limitavano a strillare e basta. Rischiavano di continuare fino al giorno dopo, senza combinare niente. Occorreva qualcuno che gli mettesse un po' di sale in zucca.

“Non dovete giudicarli male perché sono chiassosi e inconcludenti” disse Henry. “Ammetto che è male, ma dovete capire che per loro si tratta di cose molto importanti. Sono fuggiti dal futuro centocinquant'anni fa. Sono fuggiti per salvarsi la vita, naturalmente, ma anche per impedire che gli uomini vivessero come astrazioni senza corpo, perché la razza rimanesse qualcosa di più che un semplice processo mentale teorico e ipotetico. Pensate al mio caso. Io ero giunto a metà strada: continuando, sarei diventato come diventerà tutta la razza umana se vinceranno gli Infiniti. Con me il procedimento non ha funzionato. Si è fermato prima di giungere al termine, mi ha respinto, e io mi sono trovato libero; inoltre, nella mia forma attuale, non posso essere ripreso. Ormai sono fuori da ogni pericolo, a parte forse qualche strano destino che non so immaginare. Ed essendo sfuggito al processo, sono ritornato tra i miei familiari, e sono poi fuggito con loro. Grazie alla mia forma poco ortodossa sono riuscito ad aiutarli. E poiché mi considerano ancora uno di loro, i miei familiari prendono le mie difese quando Horace, che fa parte della famiglia soltanto perché ha fatto la voce grossa con mia sorella e l'ha convinta a sposarlo, mi tratta in modo poco rispettoso”.

— Il racconto è affascinante — disse Corcoran — e ci fa meglio comprendere la situazione. Capirai che per noi è difficile afferrare tutte le sfumature di una situazione accaduta un milione di anni dopo la nostra epoca.

“Capisco” disse Henry “e confesso il mio stupore nel vedere come avete accettato bene ciò che avete appreso nelle ultime ore. Le nostre rivelazioni non vi hanno affatto sconcertato”.

— Siamo troppo stupidi per riuscire a sconcertarci — disse Boone.

“Non sono d'accordo. Non avete rivelato alcuna debolezza. Il vostro comportamento mi fa pensare che la nostra razza, in fondo, sia più razionale di quanto pensavamo. Non pensavamo di trovare tanta razionalità nelle nostre radici ancestrali”.

— Mi domandavo una cosa — disse Corcoran. — Hai detto di avere aiutato la tua famiglia nella fuga. In che modo l'hai aiutata?

“Come esploratore” disse Henry. “Sono adattissimo per il ruolo. Chi si può insospettire di un tremolio nella luce lunare, o di un piccolo scintillio nel sole? Quando li vede, qualsiasi uomo ragionevole li attribuisce a un'aberrazione momentanea della propria vista. Dunque, mi sono recato nel passato da solo. Diversamente dagli altri, io non ho bisogno di mezzi meccanici come il loro viaggiatore: per me, spazio e tempo sono strade aperte. Sono andato in avanscoperta. Gli altri si tenevano pronti a partire e aspettavano le mie indicazioni. Ma prima del mio ritorno sono stati costretti a fuggire precipitosamente, senza nessuna direzione e senza un piano preciso. Alla fine li ho trovati, profondamente sepolti in quello che voi chiamate Medioevo, allorché grandi distese dell'Europa erano deserte, paludose e desolate. Un nascondiglio perfetto, ma oltremodo spiacevole”.

— Sei stato tu, allora, a trovare questo posto, Hopkins Acre?

“Proprio così. C'erano altri posti adatti, e forse migliori di questo, che a me piacevano di più. Ma questo era pronto per il nostro arrivo. Il proprietario e la famiglia erano assenti perché erano in viaggio in Europa. Prima di andare a cercare gli altri, mi sono procurato l'assistenza di alcuni tecnici della mia epoca che hanno chiuso la zona per noi. Perciò dico che questo luogo, esattamente come è adesso, era pronto per i miei familiari, quando riuscii a trovarli in quella gabbia di matti che era l'Europa del Medioevo”.

— Mi chiedo cosa è successo alla famiglia degli Hopkins — disse Corcoran. — Sono ritornati dalla vacanza e la loro casa era sparita, come se non fosse mai esistita. Oltre a ciò che la circondava: un edificio, una fattoria, una tenuta con tutte le persone che ci abitavano… spazzati via nel corso di una notte. Mi domando come hanno reagito i vicini.

“Non lo so” disse Henry. “Nessuno di noi se ne è mai preoccupato. La cosa non ci riguarda. Abbiamo preso soltanto delle proprietà immobiliari. La proprietà è di tutti.”

Da dietro di loro giunse la voce di David: — Vi ho visti qui seduti — disse — e vengo a dirvi che al tramonto ci sarà il funerale.

— Possiamo darvi qualche aiuto? — domandò Boone. — Magari aiutarvi a scavare la fossa?

David scosse la testa. — Non ci serve aiuto. Horace, che è così robusto, è in grado di spalare un bel mucchio di terra. E un po' di lavoro non farà male a Timothy, anche se lo odia. Qualche callo sulle sue manine delicate sarà una grande lezione per lui. Inoltre c'è già Emma ad aiutarlo.

David si sedette sul muretto accanto a loro.

— C'è anche Henry — disse Corcoran. — Stavamo parlando con lui. Una conversazione gradevole e istruttiva.

— Avevo l'impressione che ci fosse anche lui — disse David. — Mi pareva di cogliere la sua presenza. Henry, sono lieto che tu sia qui. È bene che tutta la famiglia prenda parte al funerale. Adesso siamo tutti presenti, escluso Spike. Hai idea di dove sia? Puoi andare a prenderlo?

“Non ne ho idea, David. Nessuno può mai rintracciarlo. Potrebbe trovarsi dappertutto. Comunque, la cosa ha poca importanza. Non è esattamente un membro della famiglia”.

— Ormai lo è diventato — disse David.

— Mi chiedevo un'altra cosa — disse Corcoran. — Avete accertato come è morto Gahan?

— L'ha controllato Horace. Aveva una profonda lacerazione nel petto, come se l'avesse colpito un grande artiglio che gli ha strappato la carne. Non capisco come sia sopravvissuto così a lungo. Era già quasi morto, quando è precipitato con il viaggiatore.

— Quanto tempo avrà impiegato? Voglio dire, il viaggio da Atene a qui?

— Il tragitto è pressocché istantaneo.

— Lo supponevo. Nel nostro viaggio da New York abbiamo sperimentato un'oscurità momentanea, e poi, quasi immediatamente, l'urto dell'atterraggio.

— Horace, credo — disse David — è l'unico di noi a cui poteva venire in mente di esaminare Gahan. Horace si spacca la testa cercando di arrivare al fondo delle cose, cercando di pianificare le sue azioni. Ma non è capace di fare progetti a lunga scadenza. In questo momento ha fatto disporre sul prato tutt'e tre i viaggiatori. Quello di Gahan funziona ancora. La caduta nell'aiola non lo ha danneggiato. Horace li ha attrezzati con vettovaglie e con alcune delle armi di Timothy.

— Ne deduco che avete deciso di partire.

— Sì, certo, anche se non abbiamo ancora deciso la data, e neppure il luogo di destinazione. Horace ci ha già assegnato ai nostri rispettivi viaggiatori.

— E, quando partirete, verremo con voi?

— Certo. Siamo in pochi. Ed è molto probabile che avremo bisogno di voi.

— Suppongo che dovremmo mostrarcene soddisfatti.

— Soddisfatti o no, voi verrete con noi. Tutt'e due.

— Non credo di voler rimanere qui — disse Corcoran. — Intrappolato in pochi ettari di colline, entro un segmento di tempo sfasato…

— È strano come è costituito il gruppo — disse David, con aria pensosa, come se riflettesse a voce alta. — La famiglia, voglio dire. Horace è il tipo ostinato, pratico, poco immaginativo, quello che organizza e che fa i progetti. Poi ci sono Emma la piagnucolosa, nella parte della nostra coscienza, Timothy lo studioso, Enid la pensatrice. E io; il perdigiorno, il cattivo esempio, quello che permette agli altri di sentirsi probi e virtuosi.

— Di ciò che dite — commentò Boone — mi colpisce soprattutto una frase. Avete detto che Enid è la pensatrice. Mi sembra che l'abbiate detto con uno strano tono di rispetto, quasi come per dare alla parola un significato particolare…

— Nell'epoca da cui veniamo — disse David — c'era finalmente tempo per pensare. Non c'era più bisogno di spaccarsi la schiena per vivere. Il progresso c'era già stato, e non gli davamo molto peso. Perciò, avendo a disposizione il tempo necessario, molti si sono dedicati al pensiero.

— La filosofia?

— No, al semplice pensiero di per se stesso. Un modo di ammazzare il tempo. Era un'attività che godeva di molta considerazione. Da essa uscivano molte grandi idee, che venivano dibattute in modo assai dotto, ma che non venivano mai tradotte in pratica. Eravamo stufi di tradurre in pratica idee. La grande bellezza del pensiero è che non ha nessun limite. Potete passare la vita a pensare, e molte persone lo facevano. Forse fu per questo che molti di noi accettarono l'idea degli Infiniti, di trasformarci in unità d'intelligenza incorporea, in entità pensanti, libere dalla materialità del corpo biologico.

— Sembrate quasi approvare il programma degli Infiniti.

— Niente affatto — disse David. — Cerco solo di descrivervi la situazione, come la vedevano alcuni di noi.

— Ma Enid…?

— Nel suo caso, la cosa è leggermente diversa. Mettiamola in questo modo: Timothy studia il passato dell'umanità cercando i difetti fondamentali della cultura umana, nella speranza che i futuri resti della razza possano trovare un modo di vita dotato di migliori possibilità di sopravvivenza. Enid, mediante il pensiero deduttivo, cerca invece di arrivare a scenari indipendenti che servano da guida alla nuova cultura che si instaurerà se la nostra razza sopravviverà come esseri biologici. Sia Timothy sia Enid cercano di trovare nuove strade per gli esseri umani. Diamo loro tempo e potranno trovare nuovi modelli di vita per l'uomo.

“Sta arrivando Enid” disse Henry.

I tre si alzarono in piedi per accoglierla. — Tra poco si inizia — disse Enid.

— C'è anche Henry; è qui con noi — disse David.

— Bene — disse lei. — Allora ci siamo tutti. Anche Spike è arrivato, poco tempo fa.

Si avviarono lungo la leggera salita che conduceva alla casa. Corcoran e David davanti a tutti, Boone accanto a Enid. Lei lo prese sottobraccio e gli parlò familiarmente.

— Non c'è neppure la bara. Non abbiamo avuto il tempo di fabbricarla. Lo abbiamo avvolto in un lenzuolo, e Timothy ha trovato una tela spessa con cui abbiamo fabbricato un sudario. Non abbiamo potuto fare altro. Horace è frenetico. Dice che dovremmo partire subito.

— E voi, cosa pensate?

— Penso che probabilmente ha ragione. Che dobbiamo andarcene. Ma mi spiace lasciare la casa. È stata la nostra dimora per molto tempo. Seppelliamo Gahan ai piedi di una vecchia quercia, dietro la casa.

— Vi piacciono gli alberi?

— Sì. È un amore molto diffuso. Ci sono moltissime persone che li amano. Vi sorprendete se vi dico che gli alberi succederanno agli uomini? Gli alberi prenderanno sicuramente il nostro posto, ci sostituiranno.

Boone disse: — È uno dei concetti più raffinati che abbia sentito.

Lei non rispose, e proseguirono in silenzio. Quando giunsero alla casa, Enid indicò un punto alla sua destra. — Ecco i viaggiatori — disse. — Tutti schierati, in attesa di noi.

I tre veicoli erano fermi sul prato davanti alla casa: i due più piccoli là vicino, e il terzo, quello più grande che era servito a Martin come abitazione, un poco più lontano.

— Voi e il vostro amico verrete con noi — disse Enid. — Qualcuno si è già ricordato di dirvelo? Spero che la cosa non vi dia fastidio. Mi spiace che siate finiti in mezzo a tutti questi pasticci.

Lui rispose con una smorfia, un po' scherzando e un po' risentito: — È un'esperienza a cui non rinuncerei per tutto l'oro del mondo.

— Lo dite sul serio? — volle sapere lei.

— Non lo so neanch'io — disse Boone. — So soltanto una cosa. Che, quando partirete, preferirò essere con voi, dovunque andiate, piuttosto che rimanere in questo posto, senza potermi allontanare.

Corcoran e David si erano diretti verso sinistra per fare il giro della casa.

— Finito il funerale — disse Enid — ci riuniremo per decidere gli ultimi particolari della partenza.

Da dietro la casa giunse uno strillo acuto e lacerante. S'interruppe per un attimo, ma poi riprese, come una sorta di miagolio impaurito che non voleva spegnersi e che saliva e scendeva lungo la scala delle note.

Boone si avviò di corsa verso la misteriosa origine del suono. Aveva un nodo alla gola, perché il terrore di quell'urlo pareva afferrarlo tra i suoi artigli.

Quando giunse all'angolo dell'edificio, qualcosa che si muoveva rapidamente lo colpì e lo gettò a terra, facendolo rotolare sull'erba. Finì contro un cespuglio di rose, in mezzo alle spine. Poi cadde in avanti e cadde con la faccia nella terra dell'aiuola.

Si passò una mano sul viso per ripulirsi dal terriccio umido, e con l'altra mano cercò di spostare i gambi spinosi: cosa non facile, perché le spine aguzze gli erano penetrate nei vestiti e non volevano staccarsi.

Quando riuscì a togliersi la terra dalla faccia, vide Emma che correva verso il viaggiatore di Martin, seguita da una parte degli altri, forse da tutti: correvano come se avessero avuto il diavolo alle calcagna. Doveva essere stata Emma, si disse, che lo aveva travolto.

Diede uno strattone disperato per liberarsi dal cespuglio, ma uno stelo particolarmente robusto, rimastogli accanto ai calzoni, lo fece inciampare. Finì seduto in terra, voltato verso la parte sinistra dell'edificio.

E da quella parte giungeva qualcosa: una cosa che Boone non aveva mai visto, che non credeva potesse esistere. Assomigliava a una ragnatela vivente, alta almeno quattro metri. Pulsava di energia, o di qualcosa che pareva energia e che correva sotto forma di onde lungo tutta la sua struttura, guizzando, scintillando e lampeggiando lungo i sottili fili che la costituivano. Dietro i fili c'era uno specchio o un disco di qualche tipo, che forse era un occhio. Al di là dello scintillio dell'energia, Boone scorse confusamente quelle che sembravano appendici meccaniche. Le appendici scendevano verso di lui. Nella rete c'erano anche altri oggetti, ma Boone non riusciva a immaginare che cosa fossero.

Sentì una voce che gridava: — Boone, sbrigatevi! Vi aspetto!

Si affrettò ad alzarsi, si liberò la gamba e cominciò a correre.

Sul prato rimaneva soltanto uno dei viaggiatori piccoli.

— Correte! — gridava Enid davanti al portello aperto.

Corse come non aveva mai corso in tutta la sua vita. Enid si affrettò a entrare nel viaggiatore. Dalla soglia, gli rivolse dei gesti disperati.

Boone raggiunse finalmente il viaggiatore e saltò all'interno, ma inciampò sull'orlo e finì addosso a Enid.

— Toglietevi, pasticcione! — gridò lei, e Boone si affrettò a gettarsi di lato. Il portello si chiuse. E mentre si chiudeva, Boone vide che la rete era ormai addosso a loro. Enid armeggiava freneticamente con il pannello degli strumenti, nella parte anteriore del viaggiatore.

Boone cercò di strisciare fino a lei, ma all'improvviso una forte scossa lo buttò a terra, e con la scossa giunse l'oscurità, la profonda e spaventosa oscurità che aveva già conosciuto quando il viaggiatore di Martin aveva lasciato New York.

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