Libro terzo.

Il ritorno.

La sentinella alla porta oziava in mezzo alle ombre buie del corpo di guardia della Vecchia Città.

Fuori, poteva udire le voci delle altre sentinelle, tese e scosse per l’eccitazione e la paura, che cercavano di farsi coraggio. Dovevano essere in venti, là fuori, pensò la vecchia guardia con amarezza. Il turno di notte era stato raddoppiato, quelli fuori servizio avevano deciso di rimanere, piuttosto che tornarsene a casa. Sopra di lui, sulle mura, poteva udire il passo lento e costante dei Cavalieri di Solamnia. E da un’altezza ancora maggiore gli giungeva di tanto in tanto lo scricchiolio e lo sbattere delle ali dei draghi o, talvolta, le loro voci. Parlavano gli uni con gli altri nella lingua segreta dei draghi. Quelli erano i draghi di bronzo che Lord Gunthar aveva fatto giungere dalla Torre del Sommo Chierico, i quali sorvegliavano il cielo allo stesso modo in cui gli umani sorvegliavano il terreno.

Tutt’intorno a sé, poteva udire i suoni... i suoni dell’imminente fine.

Quel pensiero aleggiava nella mente del custode della porta, anche se non con quelle esatte parole, naturalmente: né «imminente», né «fine» facevano parte del suo vocabolario. Ma, ugualmente, la consapevolezza era presente in lui. La sentinella alla porta era un vecchio mercenario e aveva vissuto molte di quelle notti. Un tempo era stato giovane come quelli che adesso si trovavano là fuori, intenti a vantarsi delle grandi gesta che avrebbero compiuto il mattino seguente. La sua prima battaglia: lui aveva avuto tanta paura che ancora oggi non riusciva a ricordare nulla.

Ma, dopo, c’erano state moltissime altre battaglie. Ci si abituava alla paura. Diventava parte di noi, proprio come la spada. Il pensiero di quella imminente battaglia non era diverso. Sarebbe giunto al mattino e, se fosse stato fortunato, alla notte.

Un improvviso sferragliare di picche, un vociare e una confusione generale sbalzò la vecchia guardia fuori dalle sue riflessioni filosofiche. Brontolando, ma provando ugualmente una punta dell’antica eccitazione, sporse la testa fuori dal corpo di guardia.

«Ho sentito qualcosa!» ansimò una giovane guardia, correndo verso di lui, quasi col fiato mozzo.

«Là... là fuori! Pareva un tintinnare di armature, un’intera schiera!»

Le altre guardie stavano scrutando l’oscurità. Perfino i Cavalieri di Solamnia avevano smesso di camminare su e giù e stavano guardando lungo l’ampia strada maestra che dalla Città Nuova conduceva a quella Vecchia passando per la porta. Altre torce erano state rapidamente aggiunte a quelle che già ardevano sulle mura. Proiettavano un brillante cerchio di luce sul terreno sottostante.

Ma la luce finiva a circa una ventina di passi di distanza, facendo apparire l’oscurità che stava al di là ancora più oscura. Adesso la vecchia guardia poteva udire i suoni, ma non si fece prendere dal panico. Era abbastanza vecchio d’esperienza da sapere che l’oscurità e la paura potevano far apparire un singolo uomo come un reggimento.

Uscendo con passo pesante dal corpo di guardia, agitò le mani, aggiungendo con un ringhio:

«Tornate ai vostri posti!»

Le guardie più giovani, borbottando, tornarono alle loro posizioni, ma tennero pronte le armi. La vecchia guardia, con la mano sull’elsa della spada, rimase cocciutamente nel mezzo della strada, aspettando.

Ma non comparve un’intera divisione di draconici, bensì un uomo... soltanto un uomo (anche se abbastanza grosso da valere per due) e quello che sembrava un kender.

I due si arrestarono, ammiccando vistosamente al bagliore delle torce. La vecchia guardia li soppesò. L’omone non portava nessun mantello, e la guardia potè vedere che la luce si rifletteva su un’armatura che un tempo magari avrebbe anche potuto rifulgere, ma che adesso era incrostata di fango grigio e perfino annerita in alcuni punti, come se fosse stata esposta al fuoco. Il kender era coperto dello stesso tipo di fango, anche se, a quanto pareva, aveva fatto un certo sforzo per spazzolarlo via dai suoi sgargianti gambali azzurri. L’omone zoppicava, e sia lui sia il kender mostravano tutti i segni di essere stati di recente in battaglia.

Strano, pensò la guardia al cancello. Ancora non c’è stato nessun combattimento, almeno che io sappia.

«Gente fredda, tutti e due,» borbottò la vecchia guardia, notando come la mano dell’omone poggiasse tranquilla sull’elsa della spada mentre lui si guardava intorno facendo il punto della situazione. A sua volta il kender si guardava intorno con la solita curiosità dei kender. La sentinella alla porta fu un po’ sorpresa nel vedere che il kender stringeva fra le braccia un grosso libro rilegato in cuoio.

«Dichiarate le ragioni della vostra presenza,» intimò la guardia, venendo avanti e fermandosi davanti ai due.

«Sono Tasslehoff Burrfoot,» dichiarò il kender, riuscendo, dopo una breve lotta con il libro, a liberare una piccola mano. La porse alla guardia. «E questo è il mio amico, Caramon. Venivamo da Sol...»

«Le nostre ragioni dipendono da dove ci troviamo,» disse l’uomo chiamato Caramon con voce amichevole ma con un’espressione seria sul volto che fece esitare la sentinella.

«Volete dire che non sapete dove vi trovate?» chiese la guardia, insospettita.

«Non siamo di questa parte del paese,» rispose l’omone con freddezza. «Abbiamo perso la nostra mappa. È naturale che, vedendo le luci della città, siamo venuti da questa parte.»

Sì, e io sono Lord Amothus, pensò la guardia. «Qui vi trovate a Palanthas.»

L’omone guardò dietro di sé, poi tornò a fissare la guardia, che a stento gli arrivava alle spalle.

«Così, quella dietro di noi dev’essere la Città Nuova. E dov’è mai la gente? Abbiamo percorso la città in lungo e in largo. Non c’è anima viva.»

«Siamo in allarme.» La guardia fece un cenno con la testa. «Tutti sono stati condotti all’interno delle mura. Credo sia tutto quello che vi serve sapere, per il momento. Adesso, qual è il vostro lavoro, qui? E come mai non sapete quello che sta succedendo? Credo che a quest’ora lo sappia mezzo paese.»

L’omone si passò una mano sulla mandibola incolta con un mesto sorriso. «Un’intera bottiglia di spirito dei nani finisce per offuscare tutto. Non è vero, capitano?»

«E vero,» grugnì la guardia. Ed era anche vero che lo sguardo di quell’individuo era limpido, tagliente e deciso. Fissando quegli occhi, la guardia scosse la testa. Li aveva visti altre volte, gli occhi di un uomo che sta per incontrare la morte e che si è messo in pace sia con gli dei sia con se stesso.

«Vuoi farci entrare?» chiese l’omone. «A giudicare da come stanno le cose, un altro paio di guerrieri potrebbe farvi comodo.»

«Potrebbe farci comodo un uomo delle tue dimensioni,» replicò la guardia. Abbassò lo sguardo sul kender corrugando la fronte. «Ma, in quanto a lui, credo che faremo meglio a lasciarlo qua fuori come esca per le zanzare.»

«Sono un guerriero anch’io!» protestò il kender, indignato. «Diamine, una volta ho salvato la vita a Caramon!». Il suo volto s’illuminò. «Vuoi che te lo racconti? È una storia bellissima. Eravamo in una fortezza magica. Raistlin mi ci aveva portato dopo aver ucciso un mio ami... Ma questo non importa. Comunque, c’erano questi nani scuri che stavano attaccando Caramon, e lui è scivolato, e...»

«Aprite la porta!» gridò la vecchia guardia.

«Su, vieni, Tas,» lo sollecitò l’omone.

«Ma stavo arrivando alla parte migliore!»

«Oh, a proposito,» l’omone si voltò, dopo aver tappato con consumata abilità la bocca del kender,

«mi sapresti dire la data?»

«Terzogiorno, quintomese, 356,» recitò la guardia. «Oh,» aggiunse, «forse sarà meglio che un chierico dia un’occhiata alla tua gamba.»

«Chierici,» mormorò l’omone tra sé. «È vero, me n’ero dimenticato. Adesso ci sono i chierici.

Grazie,» gridò, mentre insieme al kender valicava la porta. La guardia sentì nuovamente pigolare la voce del kender, quando questi riuscì a liberarsi dalla mano dell’omone:

«Pfiu! Dovresti proprio darti una lavata, Caramon. Oh, bah! Accidenti, mi hai riempito la bocca di fango. Adesso, dov’ero rimasto? Oh, sì, avresti proprio dovuto lasciarmi finire! Ero appena arrivato al punto in cui scivolavi sul sangue, e...»

Scrollando la testa, la guardia seguì perplessa i due con lo sguardo. «Che storia,» borbottò, mentre la grande porta tornava lentamente a chiudersi, «e scommetto che neppure un kender potrebbe inventarne una migliore.»

Capitolo primo.

Cosa dice, Caramon?» Tas era in punta di piedi, nel tentativo di sbirciare da sopra il braccio dell’omone.

«Silenzio!» bisbigliò Caramon, irritato. «Sto leggendo.» Scosse il braccio. «E lasciami andare.»

L’omone si era messo a sfogliare rapidamente le Cronache che aveva preso ad Astinus. Ma aveva smesso di girare le pagine e adesso ne stava studiando una con molta attenzione.

Tas, con un sospiro (dopotutto, quel libro l’aveva trasportato lui) si abbandonò contro la parete e si guardò intorno. Si trovavano sotto uno dei bracieri accesi che i palanthani utilizzavano per illuminare le strade durante la notte. Il kender calcolò che doveva essere quasi l’alba. Le nubi della tempesta impedivano il libero passaggio ai raggi del sole, ma la città stava assumendo una squallida colorazione grigiastra. Una nebbia gelida saliva a riccioli dalla baia, vorticando lungo le strade.

Anche se la maggior parte delle finestre era illuminata, c’era poca gente nelle strade. Alla cittadinanza era stato detto di rimanere in casa, a meno che non fossero membri della milizia. Ma Tas poteva distinguere i volti delle donne premuti contro i vetri, che guardavano, in attesa. Di tanto in tanto qualche uomo passava accanto a loro, di corsa, stringendo un’arma in mano, diretto alla porta principale della città. E, a un certo punto, si aprì una porta che dava accesso a un’abitazione proprio di fronte al punto in cui si trovava Tas. Ne uscì un uomo con in pugno una spada arrugginita. Lo seguì una donna piangente. Chinandosi, l’uomo la baciò con tenerezza, poi baciò il bimbetto che la donna stringeva tra le braccia. Infine, voltandosi di scatto, s’incamminò con passo rapido lungo la strada.

Quando passò davanti a loro, Tas vide che il suo volto era rigato di lacrime.

«Oh, no!» borbottò Caramon.

«Cosa? Cosa?» gridò Tas balzando in piedi e cercando di guardare la pagina che Caramon stava leggendo.

«Ascolta: “Il mattino del giornoterzo, la cittadella volante comparve nel cielo sopra Palanthas, accompagnata da stormi di draghi neri e azzurri. E con la comparsa della cittadella nel cielo, vi fu davanti alle porte della Vecchia Città un’apparizione, alla cui vista più d’un veterano di molte campagne si sbiancò per la paura e volse altrove lo sguardo.

«Poiché era comparso, come se fosse stato creato dalla stessa tenebra della notte, Lord Soth, Cavaliere della Rosa Nera, in sella a un incubo con occhi e zoccoli di fuoco. Cavalcò verso la più vicina porta della città senza che nessuno osasse opporsi, e le guardie fuggirono davanti a lui in preda al terrore.

«E lì si fermò.

«‘Signore di Palanthas,’ gridò il Cavaliere della Morte con una voce cavernosa che proveniva dai regni dell’oltretomba, ‘consegna la tua città alla Signora Kitiara. Consegnale le chiavi della Torre della Grande Stregoneria, nominala sovrana di Palanthas, e lei vi permetterà di continuare a vivere in pace. Alla vostra città verrà risparmiata la distruzione.’

«Lord Amothus prese il suo posto sulle mura, fissando il Cavaliere della Morte sotto di lui. Molti di quelli intorno a Lord Amothus non potevano guardare, tanto li aveva scossi la paura. Ma il Lord, malgrado fosse anche lui pallido come la morte, si erse in tutta la sua statura, restituendo coraggio con le sue parole a coloro che l’avevano smarrito:

«Porta questo messaggio alla tua Signora dei Draghi. Palanthas è vissuta nella pace e nella bellezza per molti secoli. Ma non siamo disposti a comperare la pace, né la bellezza, al prezzo della nostra libertà.

«‘Allora compratele al prezzo della vostra vita!’ urlò Lord Soth. Apparentemente dal nulla, si materializzarono le sue legioni: tredici guerrieri scheletrici, che cavalcavano destrieri con occhi e zoccoli di fuoco, si disposero alle sue spalle. E, dietro di loro, in piedi su carri fatti di ossa umane e trainati da wyvern, comparvero le banshee, gli spiriti delle donne elfe costrette dagli dei a servire Lord Soth. Stringevano in pugno spade di ghiaccio. Soltanto udire le loro urla lamentose significava la morte.

«Alzando una mano, resa visibile soltanto dal guanto di cotta d’acciaio che portava, Lord Soth indicò la porta della città che era chiusa e sbarrava loro la strada. Pronunciò una parola magica, e a questa parola un gelo orrendo investì tutti coloro che guardavano, agghiacciando più l’anima che il sangue. Il ferro della porta cominciò a sbiancarsi di brina, poi si tramutò in ghiaccio, poi, a un’altra parola di Lord Soth, la porta, ormai tutta di ghiaccio, s’infranse.

«Lord Soth abbassò la mano e si lanciò attraverso la porta infranta, seguito dalle sue legioni.

«Sull’altro lato della porta, in sella al drago di bronzo Fireflash (il suo nome draghesco era Khirsah), c’era ad aspettarlo Tanis Mezzelfo, eroe delle Dragonlance. Nel medesimo istante in cui vide il suo avversario, il Cavaliere della Morte tentò di trucidarlo urlando la parola magica: ‘Muori!’ Tanis Mezzelfo, essendo protetto dal braccialetto d’argento, il quale offriva una resistenza magica, non fu toccato dall’incantesimo. Ma il braccialetto che gli aveva salvato la vita in quel primo attacco, ora non poteva più aiutarlo...»

«Non poteva più aiutarlo!» urlò Tas, interrompendo la lettura di Caramon. «Cosa significa?»

«Zitto!» sibilò Caramon, e proseguì: «... più aiutarlo. Il drago di bronzo che Tanis cavalcava, non disponendo di protezione magica, morì nell’istante in cui Lord Soth impartiva l’ordine, costringendo Tanis Mezzelfo a fronteggiare a piedi il Cavaliere della Morte. Lord Soth scese di sella per affrontare il suo avversario, secondo le Leggi del Combattimento stabilite dai Cavalieri di Solamnia, leggi che erano ancora vincolanti per il Cavaliere della Morte, anche se lui, da molto tempo, era al di là della loro giurisdizione. Tanis Mezzelfo combatté con coraggio, ma Lord Soth gli era nettamente superiore. Cadde, mortalmente ferito, con la spada del Cavaliere della Morte conficcata nel petto...»

«No!» rantolò Tas. «No! Non possiamo permettere che Tanis muoia!» Sollevò una mano e tirò Caramon per il braccio. «Andiamo! Siamo ancora in tempo per trovarlo e avvertirlo...»

«Non posso, Tas,» disse Caramon con calma. «Devo raggiungere la Torre. Sento che la presenza di Raistlin si avvicina sempre più. Non ho tempo, Tas.»

«Non puoi parlare sul serio! Non possiamo lasciar morire Tanis!» bisbigliò Tas, fissando Caramon con gli occhi spalancati.

«No, Tas, non possiamo,» replicò Caramon, guardando il kender con espressione grave. «Lo salverai tu.»

Questo pensiero mozzò letteralmente il fiato a Tasslehoff. Quando finalmente ritrovò la voce, fu più uno squittio che altro. «Io? Ma, Caramon, io non sono un guerriero! Oh, so di aver detto alla guardia che io...»

«Tasslehoff Burrfoot,» ribadì Caramon, in tono severo, «suppongo sia possibile che gli dei abbiano organizzato tutta questa faccenda soltanto per il tuo divertimento privato. È possibile, ma ne dubito fortemente. Noi facciamo parte di questo mondo, e dobbiamo assumerci delle responsabilità.

Adesso lo capisco. Sì, lo capisco con molta chiarezza.» Sospirò, e per qualche istante il suo volto fu talmente solenne e triste che Tas si sentì afferrare da un nodo alla gola che quasi lo soffocò.

«So bene che faccio parte del mondo, Caramon,» replicò con aria infelice, «e sarei lieto di prendermi tutta la responsabilità che ritengo di poter affrontare. Ma il fatto è che io sono una parte così corta del mondo, se capisci quello che voglio dire. E Lord Soth è una parte così alta e brutta.

E...»

Una tromba squillò, poi un’altra. Sia Tas sia Caramon si azzittirono, ascoltando, fino a quando lo strepito non si fu spento. «Ci siamo, vero?» chiese Tas con voce sommessa. «Sì,» fu la risposta di Caramon. «Farai meglio ad affrettarti.» Chiuse il libro e lo ripose con delicatezza dentro un vecchio zaino che Tas era riuscito a «procurarsi» mentre si trovavano nella Città Nuova deserta. Il kender era riuscito a procurarsi anche alcune borse nuove, oltre ad altri interessanti oggetti, e probabilmente era meglio che Caramon, questo, non lo sapesse. Poi, allungando la mano, l’omone l’appoggiò sulla testa di Tas, lisciandogli quel ridicolo ciuffo. «Grazie, Tas. Grazie.»

«Ma Caramon!» Tas lo fissò, sentendosi tutt’a un tratto molto solo e confuso. «Do... dove andrai?»

Caramon levò lo sguardo al cielo, là dove si profilava la Torre della Grande Stregoneria, uno squarcio nero in mezzo alle nubi tempestose. Le luci ardevano alle finestre più alte della Torre, dove si trovavano il laboratorio e il Portale.

Tas seguì il suo sguardo fino alla Torre. Vide le nubi che si addensavano minacciose intorno a essa, i lampi arcani che guizzavano avvolgendola, quasi trastullandosi con essa. Ricordò quell’unica volta che aveva visto da vicino il Bosco di Shoikan...

«Oh, Caramon! » gridò, afferrando la mano dell’omone. «Caramon, non... aspetta...»

«Addio, Tas,» disse Caramon, staccando da sé con fermezza il kender che gli si era aggrappato addosso. «Devo farlo. Sai cosa accadrà se non lo farò. E anche tu sai quello che devi fare. Adesso affrettati. A quest’ora è probabile che la cittadella sia già sopra la porta.»

«Ma, Caramon...» gemette Tas.

«Tas, devi farlo!» urlò Caramon, la sua voce rabbiosa echeggiò lungo la strada vuota. «Hai intenzione di lasciar morire Tanis senza aiutarlo?»

Tas si ritrasse. Mai prima di allora aveva visto Caramon infuriato, per lo meno non con lui. E durante tutte le avventure che avevano vissuto insieme, Caramon non gli aveva urlato neppure una volta. «No, Caramon,» replicò, mite. «Soltanto che non... non sono sicuro di cosa devo fare...»

«Ti verrà in mente qualcosa,» borbottò Caramon, corrugando la fronte. «Ti succede sempre.»

Voltandosi, si allontanò, lasciando Tas a guardarlo, sconsolato.

«A... addio, Caramon,» gridò il kender, dietro la figura che se ne andava. «Non... non ti deluderò.»

L’omone si voltò. Quando parlò, la sua voce suonò strana a Tas, come se stesse soffocando a causa di qualcosa. «So che non lo farai, Tas, qualunque cosa accadrà.» Con un ultimo cenno della mano, riprese ad allontanarsi lungo la strada.

Tas vide in distanza le ombre scure del Bosco di Shoikan, le ombre che la luce del giorno non avrebbe mai illuminato, le ombre tra le quali si annidavano i guardiani della Torre.

Tas rimase là per un momento, seguendo con lo sguardo Caramon fino a quando non lo perse di vista nel buio. A dir la verità, aveva continuato a sperare che Caramon avrebbe cambiato idea all’improvviso... che si sarebbe voltato, gridandogli: «Aspetta, Tas! Vengo con te a salvare Tanis!»

Ma Caramon non lo fece.

«Ragione per cui, dovrò arrangiarmi da solo,» concluse Tas con un sospiro. «E mi ha urlato!».

Tirando un po’ su col naso, si girò e s’incamminò con passo affaticato nella direzione opposta, verso la porta. Sentiva di avere il cuore là sotto, nelle scarpe infangate, e questo gliele faceva sentire ancora più pesanti. Non aveva assolutamente nessuna idea di come avrebbe fatto a salvare Tanis da un Cavaliere della Morte, e più ci pensava, più gli sembrava insolito che Caramon gli avesse affidato quella responsabilità.

«Comunque, ho salvato la vita a Caramon,» borbottò Tas. «Forse ha finito per rendersi conto che...»

D’un tratto si fermò e rimase immobile come una statua nel mezzo della strada.

«Caramon si è sbarazzato di me!» gridò. «Tasslehoff Burrfoot, hai davvero il cervello d’un pomolo di maniglia, come Flint ti ha detto tante volte. Si è sbarazzato di me! È andato là a morire!

Mandarmi a salvare Tanis è stata soltanto una scusa!» Sconvolto e infelice, Tas scrutò la strada nei due sensi. «E adesso, cosa faccio?» borbottò.

Fece un passo nella direzione in cui era scomparso Caramon. Poi sentì di nuovo squillare una tromba, questa volta con una nota acuta e allarmata e, al di sopra dello squillo, gli parve di udire una voce che gridava ordini... la voce di Tanis.

«Ma se vado con Caramon, Tanis morrà!». Tas si fermò. Quasi voltandosi, fece un passo verso Tanis. Poi si fermò di nuovo, arrotolandosi il ciuffo intorno a un dito, un autentico cavatappi d’indecisione. Il kender non aveva mai sperimentato una simile frustrazione in tutta la sua vita.

«Tutti e due hanno bisogno di me!» gemette in preda all’angoscia. «Come posso scegliere?»

Poi... «Lo so!» la fronte gli si spianò. «Ecco!»

Con un profondo sospiro di sollievo, Tas si girò di scatto, e continuò in direzione della porta, questa volta mettendosi a correre.

«Salverò Tanis,» ansimò, infilando un vicolo come scorciatoia, «e poi tornerò indietro e salverò Caramon. Tanis potrebbe perfino essermi di aiuto.»

Correndo lungo il vicolo, facendo fuggire i gatti, terrorizzati, in tutte le direzioni, Tas corrugò, irritato, la fronte. «Mi chiedo quanti sono in totale gli eroi che ho dovuto salvare,» disse fra sé, arricciando il naso. «A esser franchi, cominciano un po’ tutti a stufarmi.»

La cittadella volante comparve nel cielo sopra Palanthas proprio nell’istante in cui le trombe suonavano il cambio della guardia. Le guglie e i bastioni sgretolati, le torreggianti mura di pietra, le finestre illuminate alle quali si accalcavano i draconici, tutto era chiaramente visibile mentre la cittadella fluttuava verso il basso, ondeggiando nell’aria, le fondamenta appoggiate sulla ribollente nube magica.

Le mura della Città Vecchia erano affollate di uomini, cittadini, cavalieri, mercenari. Nessuno diceva una parola. Tutti stringevano le loro armi con lo sguardo fisso sopra le loro teste, in cupo silenzio.

Ma, malgrado tutto, una parola venne pronunciata alla vista della cittadella... o parecchie, a dire il vero.

«Oh...» fu lo sbalordito sussurro di Tas, le mani chiuse in una stretta convulsa, pieno di meraviglia davanti a quello spettacolo. «Non è fantastico? Mi ero dimenticato di quanto fossero magnifiche le cittadelle

volanti! Darei qualunque cosa, sì, qualunque cosa, per viaggiarci sopra.» Poi, con un nuovo sospiro, si riscosse. «Non adesso, Burrfoot,» si disse con severità, imitando la voce di Flint. «Hai del lavoro da fare. Adesso.» Si guardò intorno, «Là c’è la porta. Là c’è la cittadella. Ed ecco che arriva Lord Amothus... Cielo, ha un aspetto terribile! Ho visto dei morti con un aspetto molto migliore del suo. Ma dove... Ah!»

Una cupa processione marciava lungo la strada in direzione di Tas, un gruppo di Cavalieri di Solamnia, che veniva avanti a piedi, conducendo i cavalli. Non c’era allegria, non parlavano. Il volto di ognuno di loro era solenne e teso, ognuno di loro sapeva che, con ogni probabilità, stava andando incontro alla morte. Erano guidati da un uomo la cui faccia barbuta faceva un violento contrasto con i volti baffuti ma per il resto ben rasati dei cavalieri che gli stavano intorno. E malgrado indossasse l’armatura di un Cavaliere della Rosa, non la portava con la disinvoltura degli altri cavalieri.

«Tanis ha sempre odiato la cotta di maglia,» si disse Tas, gli occhi puntati sull’amico che si avvicinava. «Ed eccolo qui, che indossa l’armatura di un Cavaliere di Solamnia. Chissà cosa avrebbe detto Sturm! Vorrei tanto che Sturm fosse qui adesso!». Il labbro inferiore di Tas cominciò a tremare. Una lacrima gli scivolò lungo la guancia prima che potesse fermarla. «Vorrei che chiunque abbia coraggio e intelligenza bastanti si trovasse qui adesso!»

Quando i cavalieri si avvicinarono alla porta, Tanis si arrestò e si voltò verso di loro, impartendo ordini a bassa voce. Dall’alto giunse un aspro scricchiolio di ali di drago. Sollevando lo sguardo, Tasslehoff vide Khirsah che stava girando in cerchio, guidando una formazione di altri draghi di bronzo. E c’era la cittadella, lì nel cielo, che si stava avvicinando sempre più alle mura, continuando a perdere quota.

«Sturm non c’è. Caramon non c’è. Non c’è nessuno, Burrfoot,» borbottò Tas, asciugandosi con un gesto risoluto gli occhi. «Ancora una volta sei solo... Adesso, che cosa farò?»

Pensieri folli si agitarono nella mente del kender: davvero ogni tipo di pazzia, dal trattenere Tanis puntandogli addosso la spada («Parlo sul serio, Tanis. Tieni le mani alzate!») al colpirlo in testa con un frammento aguzzo di roccia («Uh, senti, Tanis, ti spiacerebbe toglierti l’elmo per un momento?»). Ma Tas era talmente disperato da prendere in considerazione addirittura la possibilità di dirgli la verità («Vedi, Tanis, siamo tornati indietro nel tempo, poi siamo andati avanti, e Caramon ha preso questo libro ad Astinus proprio mentre il mondo stava per finire e, prima dell’ultimo capitolo, il libro racconta come sei morto, e...»). D’un tratto Tas vide Tanis sollevare il braccio destro. Vi fu un bagliore d’argento...

«Ecco,» esclamò Tas, tirando un profondo sospiro di sollievo. «Ecco quello che farò, proprio quello che so fare meglio...»

«Qualunque cosa accada, lasciate che mi occupi io di Lord Soth,» esclamò Tanis, fissando cupo i cavalieri schierati intorno a lui. «Voglio che mi giuriate questo sul Codice e la Misura.»

«Tanis, mio signore...» cominciò a dire sir Markham.

«No, non ho intenzione di discutere, Cavaliere. Non avreste la benché minima possibilità contro di lui senza una protezione magica. Ognuno di voi, invece, sarà necessario per combattere contro le sue legioni. Ora, o lo giurate, oppure vi ordinerò di lasciare il campo. Giurate!»

Da oltre la porta chiusa, una voce possente e cavernosa echeggiò, invitando Palanthas ad arrendersi. I cavalieri si guardarono l’un l’altro, sentendo brividi di paura percorrere i loro corpi nell’udire quel suono inumano. Vi fu un attimo di silenzio, interrotto soltanto dal cigolio delle ali dei draghi, mentre le grandi creature bronzee, azzurre, argentee e nere giravano in cerchio, squadrandosi funeste, in attesa dell’ordine di combattere. Il drago di Tanis, Khirsah, si librava nell’aria nei pressi del suo cavaliere, pronto a scendere al primo cenno.

E poi udirono la voce di Lord Amothus, fragile e tesa, ma risoluta, che rispondeva al Cavaliere della Morte. «Porta questo messaggio alla tua Signora dei Draghi. Palanthas è vissuta in pace e bellezza per molti secoli. Ma non siamo disposti a comperarle, né la pace né la bellezza, al prezzo della nostra libertà.»

«Lo giuro,» disse sir Markham con voce sommessa, «sul Codice e la Misura.»

«Lo giuro,» giunse la risposta degli altri cavalieri dopo di lui.

«Grazie,» replicò Tanis, fissando ognuno dei giovani davanti a sé, pensando che la maggior parte non sarebbe rimasta in vita ancora per molto... Pensando che lui stesso... Scosse rabbiosamente la testa. «Fireflash...» Le parole che avrebbero fatto scendere il drago erano già sulle sue labbra, quando Tanis udì esplodere un tumulto in fondo alla fila dei cavalieri.

«Ahi! Togli quella zampa dal mio piede, zoticone!»

Un cavallo nitrì. Tanis udì imprecare uno dei cavalieri, poi una voce acuta che rispondeva con tono innocente: «Be’, non è colpa mia! È stato il tuo cavallo a calpestarmi! Flint aveva ragione quando parlava di questi stupidi animali...»

Gli altri cavalli, fiutando la battaglia e già influenzati dalla tensione dei loro cavalieri, drizzarono le orecchie e sbuffarono innervositi. Uno di loro uscì dalla fila quasi a passo di danza. Il suo cavaliere tirò le briglie.

«Tenete sotto controllo quei cavalli!» gridò Tanis con voce tesa. «Cosa sta succedendo...»

«Fatemi passare! Fuori dai piedi. Cosa? È tuo questo pugnale? Devi averlo lasciato cadere...»

Al di là della porta, Tanis udì la voce del Cavaliere della Morte.

«Pagherete per questo con la vostra vita!»

E dalla fila davanti a lui si levò un’altra voce.

«Tanis, sono io, Tasslehoff!»

Il mezzelfo si sentì sprofondare il cuore. In quel momento non avrebbe saputo dire quale delle due voci l’avesse raggelato di più.

Ma non pareva che ci fosse tempo per pensare o stupirsi. Guardando dietro di sé, Tanis vide la porta diventare ghiaccio, la vide frantumarsi...

«Tanis!» qualcosa l’aveva afferrato per il braccio. «Oh, Tanis!» Tas si aggrappò a lui. «Tanis, devi venire subito a salvare Caramon! Sta per entrare nel Bosco di Shoikan!»

Caramon? Caramon è morto, fu il primo pensiero di Tanis. Ma d’altro canto anche Tas è morto.

Cosa sta succedendo? Sto forse impazzendo per la paura?

Qualcuno gridò. Guardandosi intorno stordito, Tanis vide i volti dei cavalieri farsi d’un pallore mortale sotto i loro elmi, e seppe che Lord Soth e le sue legioni stavano varcando la porta.

«Salta su!» gridò freneticamente, cercando di liberarsi del kender, il quale si teneva tenacemente aggrappato a lui. «Tas! Questo non è il momento... Vattene da qui, dannazione!»

«Caramon morirà,» gemette Tas. «Devi salvarlo, Tanis!»

«Caramon... è... già... morto!» ringhiò Tanis.

Khirsah atterrò accanto a lui, lanciando un alto grido di battaglia. Sia i buoni sia i cattivi, tutti gli altri draghi gli fecero eco gridando per la collera, volando gli uni addosso agli altri, facendo balenare gli artigli. In meno di un istante esplose la pugna, l’aria fu piena dei lampi e dell’odore dell’acido. In alto, nella cittadella volante, suonarono i corni. I draconici esplosero in urla di gioia e cominciarono a lasciarsi cadere sulla città, allargando le ali coriacee per frenare la caduta.

Lord Soth, in sella al suo drago, si stava avvicinando sempre più. Il gelo della morte s’irradiava dal suo corpo scarnificato.

Ma, per quanto ci provasse, Tanis non riuscì a scuotersi di dosso Tas.

Alla fine, imprecando fra i denti, il mezzelfo riuscì ad afferrare il kender che si dimenava disperatamente. Agguantandolo sotto la cintura, talmente arrabbiato da sentirsi letteralmente soffocare per la collera, Tanis scaraventò il kender nell’angolo di un vicolo lì vicino.

«E resta lì!» gl’intimo con un ruggito.

«Tanis!» lo implorò Tas, «non puoi andare là fuori! Morirai, lo so!»

Lanciando a Tas un’ultima occhiata furente, Tanis girò sui tacchi e si mise a correre. «Fireflash!» urlò. Il drago scese in picchiata verso di lui, atterrando in una strada lì accanto.

«Tanis!» gridò Tas con voce acuta. «Non puoi combattere Lord Soth senza il braccialetto!»

Capitolo secondo

Il braccialetto! Tanis abbassò lo sguardo sul proprio polso. Il braccialetto non c’era più! Girandosi di scatto, si lanciò verso il kender. Ma era troppo tardi. Tasslehoff sfrecciava lungo la strada, correndo come se la sua vita dipendesse da questo. (Il che, dopo aver lanciato un’occhiata alla faccia infuriata di Tanis, sembrò a Tas la pura verità.)

«Tanis!» gridò sir Markham. Lord Soth era in sella al suo incubo, incorniciato dai resti frantumati della porta della città di Palanthas. Il suo sguardo fiammeggiante incontrò quello di Tanis e non lo lasciò. Perfino da quella distanza, Tanis sentì la sua anima accartocciarsi per la paura che sempre avvolge i morti che camminano.

Cosa avrebbe potuto fare, adesso? Non aveva il braccialetto, e senza di esso non avrebbe avuto nessuna possibilità. Proprio nessuna! Grazie agli dei, pensò Tanis in quella frazione di secondo... grazie agli dei che non sono un cavaliere, vincolato a morire con onore.

«Correte!» ordinò, attraverso labbra così irrigidite da riuscire a parlare a malapena. «Fuggite!

Contro costui non c’è niente che possiate fare! Ricordate il vostro giuramento! Ritiratevi! Sacrificate la vostra vita a combattere i vivi...»

Proprio mentre pronunciava queste parole, un draconico atterrò davanti a lui, l’orrendo volto da rettile era contorto dalla bramosia di sangue.

Ricordandosi appena in tempo di non trafiggere quella creatura, il cui corpo osceno sarebbe fulmineamente diventato di pietra, imprigionando la spada del suo uccisore, Tanis lo colpì al viso con l’elsa della sua arma, gli sferrò un calcio nello stomaco, e poi superò il corpo con un salto mentre questo rotolava al suolo.

Alle sue spalle udì i cavalli nitrire per il terrore, e uno scalpitare di zoccoli. Sperò che i cavalieri stessero obbedendo al suo ultimo ordine, ma non poteva perdere neppure un istante a guardare.

C’era ancora una possibilità, se fosse riuscito ad agguantare Tas e a riprendersi il braccialetto magico...

«Il kender!» urlò rivolto al drago e indicando la piccola figura dal piede veloce che stava scomparendo in fondo alla strada.

Khirsah capì e decollò all’istante. Le punte delle sue ali sfiorarono gli edifici quando scese in picchiata lungo l’ampia strada, lanciato all’inseguimento, facendo cadere al suolo pietre e mattoni.

Tanis correva dietro al drago. Non si guardò intorno. Non ne aveva bisogno. Poteva sentire dalle urla d’agonia quello che stava accadendo.

Quella mattina la morte cavalcò le strade di Palanthas. Capeggiata da Lord Soth, quell’armata spettrale varcò le porte come un vento gelido, facendo appassire ogni cosa che incontrava lungo il suo percorso.

Quando Tanis raggiunse il drago, Khirsah stringeva Tas fra i denti. Tenendo Tas a testa in giù per il fondo delle brache azzurre, il drago lo stava scuotendo come il più efficiente dei guardiani di una prigione. Le borse di recente acquisite da Tas si aprirono facendo cadere sulla strada una piccola grandinata di anelli, cucchiai, un portatovaglioli, e mezza forma di formaggio.

Ma niente braccialetto d’argento.

«Dov’è, Tas?» domandò Tanis, fremendo di rabbia, desideroso di scrollare lui stesso il kender.

«N-n-non lo tr-tr-troverai mai-mai-mai,» replicò il kender, con i denti che gli ballavano in bocca.

«Mettilo giù,» ordinò Tanis al drago. «Fireflash, fai buona guardia.»

La cittadella volante si era fermata all’altezza delle mura della città, i suoi usufruitori di magia e i chierici scuri stavano combattendo i draghi d’argento e di bronzo che li attaccavano. Era difficile distinguere qualcosa in mezzo ai lampi accecanti e alla foschia causata dal fumo che si stava diffondendo dovunque, ma Tanis fu certo di aver intravisto un drago azzurro che lasciava la cittadella. Kitiara, pensò, ma non aveva tempo di pensare a lei.

Khirsah lasciò cadere Tas, quasi a capofitto, e allargando le ali si voltò verso il lato meridionale della città, dove il nemico si stava radunando e dove i difensori della città lo stavano coraggiosamente respingendo.

Tanis si avvicinò a scrutare il piccolo colpevole, il quale a sua volta lo fissò con aria di sfida, mentre si rialzava.

«Tasslehoff,» disse Tanis con la voce che gli tremava per la rabbia repressa, «questa volta sei andato troppo oltre. Questo tuo scherzo potrebbe costare la vita a centinaia d’innocenti.

Restituiscimi il braccialetto, Tas, e sappi questo: da adesso in avanti la nostra amicizia è finita!»

Aspettandosi qualche scusa balzana o qualche piagnucolio di pentimento, il mezzelfo non era preparato a vedere Tas che lo fissava pallido in volto, le labbra tremanti e un’aria di tranquilla dignità.

«È molto difficile da spiegare, Tanis, e davvero non ne ho il tempo. Ma se tu avessi combattuto contro Lord Soth, non ci sarebbe stata nessuna differenza.» Contemplò il mezzelfo con grande serietà. «Devi credermi, Tanis: ti sto dicendo la verità. Non avrebbe avuto nessuna importanza.

Tutta quella gente che sta per morire, sarebbe morta lo stesso, e saresti morto anche tu e, cosa ancora peggiore, l’intero mondo sarebbe morto... ma tu non sei morto, così, forse, il mondo non morrà. E adesso,» concluse Tas con fermezza, raccogliendo da terra le borse e risistemandole sulla sua persona, «dobbiamo andare a salvare Caramon.»

Tanis fissò Tas poi, stancamente, si portò le mani alla testa, strappandosi l’elmo d’acciaio arroventato. Non aveva la più pallida idea di ciò che stava accadendo. «D’accordo, Tas,» disse, esausto. «Dimmi allora di Caramon. È vivo? Dove si trova?»

Il volto di Tas si contorse per la preoccupazione. «È proprio questo, Tanis. Potrebbe non essere vivo. Per lo meno, non ancora per molto. Sta cercando di entrare nel Bosco di Shoikan!»

«Il Bosco di Shoikan?» Tanis parve vivamente allarmato. «È impossibile!»

«Lo so!» Tas si tirò innervosito il ciuffo. «Ma sta cercando di arrivare alla Torre della Grande Stregoneria per fermare Raistlin...»

«Capisco,» borbottò Tanis. Scaraventò l’elmo sul selciato. «O, per lo meno, comincio. Da che parte?»

Il volto di Tas s’illuminò. «Allora, vieni? Mi credi? Oh, Tanis, sono così contento! Non hai idea di quale importante responsabilità sia badare a Caramon. Da questa parte!» gridò, indicandogli la strada con slancio.

«C’è nient’altro che posso fare per te, Mezzelfo?» chiese Khirsah, allargando le ali e volgendo avidamente lo sguardo alla battaglia che veniva combattuta lassù, sopra le loro teste. «No, a meno che tu possa entrare nel Bosco.» Khirsah scosse la testa. «Mi spiace, Mezzelfo. Neppure i draghi possono entrare in quel bosco maledetto. Ti auguro buona fortuna, ma non aspettarti di trovare vivo il tuo amico.»

Sbattendo le ali, il drago balzò in aria e si levò in volo verso il combattimento. Scuotendo gravemente la testa, Tanis s’incamminò lungo la Strada con passo rapido; Tasslehoff si mise a correre per stargli dietro.

«Forse Caramon non è neppure riuscito ad arrivare così lontano,» disse Tas, speranzoso. «Io non ci sono riuscito, l’ultima volta che Flint ed io siamo venuti. Ed i kender non hanno paura di niente!»

«Hai detto che sta cercando di fermare Raistlin?»

Tas annuì.

«Allora, arriverà fin là,» predisse Tanis, con voce cupa.

C’era voluto ogni più piccolo frammento di forza e di coraggio da parte di Caramon anche soltanto per avvicinarsi al Bosco di Shoikan. Così, riuscì ad avvicinarsi a esso più di quanto qualsiasi altro essere umano aveva mai fatto senza avere su di sé alcun talismano che permettesse di accedervi senza pericolo. Adesso si trovava davanti a quegli alberi scuri e silenziosi, tremando e sudando e cercando d’indursi a fare un altro passo.

«La morte mi attende là dentro,» mormorò fra sé, leccandosi le labbra secche. «Ma che differenza può mai fare? Ho affrontato la morte cento e più volte!». Stringendo ancor più nella mano l’elsa della spada, spinse una volta ancora avanti il piede.

«No, non morirò!» gridò alla foresta. «Non posso morire. Troppo dipende da me. E non saranno... non saranno degli alberi a fermarmi!»

Spinse avanti anche l’altro piede.

«Ho camminato in luoghi più bui di questo,» continuò a parlare in tono di sfida. «Ho percorso la Foresta di Wayreth. Ho attraversato Krynn quando stava morendo. Ho visto la fine del mondo. No,» aggiunse con fermezza, «questa foresta non contiene nessun terrore che io non possa superare.»

Detto questo, Caramon si fece avanti ed entrò nel Bosco di Shoikan.

Si trovò subito immerso in una tenebra perenne. Per lui fu come trovarsi di nuovo nella Torre, quando l’incantesimo di Crysania lo aveva accecato. Soltanto, che questa volta era solo. Il panico lo ghermì. C’era vita all’interno di quella oscurità! Una vita empia, orribile, che non era affatto una vita ma una morte vivente... I muscoli di Caramon s’infiacchirono. Cadde carponi, singhiozzando e tremando per il terrore.

«Sei nostro!» bisbigliarono le voci sommesse e sibilanti. «Il tuo sangue, il tuo calore, la tua vita! Sono nostri! Nostri! Avvicinati ancora di più. Portaci il tuo dolce sangue, le tue calde carni. Abbiamo freddo, freddo, al di là di ogni sopportazione. Avvicinati, avvicinati di più.»

Caramon fu sopraffatto dall’orrore. Doveva soltanto voltarsi e correre, e sarebbe riuscito a sfuggire alla... «No, no,» alitò in quell’oscurità soffocante e sibilante, «devo fermare Raistlin! Devo... andare... avanti.»

Per la prima volta nella sua vita, Caramon scrutò nelle profondità del proprio essere e trovò la stessa indomabile volontà che aveva condotto il suo gemello a vincere la fragilità e il dolore e perfino la stessa morte pur di raggiungere il suo scopo. Digrignando i denti, incapace di reggersi in piedi eppure deciso ad andare avanti, Caramon strisciò sulle mani e sulle ginocchia sul terreno.

Fu uno sforzo coraggioso, ma non arrivò lontano. Scrutando la tenebra, guardò paralizzato e affascinato le mani scarnificate che spuntavano dal suolo. Dita gelide e lisce come il marmo si chiusero sulle sue mani e cominciarono a trascinarlo giù. Disperato, cercò di liberarsi, ma altre mani cercarono di afferrarlo, lacerandogli le carni con le unghie. Si sentì risucchiare verso il basso. Le voci sibilanti gli sussurravano alle orecchie, labbra ossute gli premevano contro le carni. Il gelo gli raggelò il cuore. «Ho fallito...»

«Caramon,» gli giunse una voce preoccupata.

«Caramon?» E poi: «Tanis sta arrivando!»

«Grazie agli dei!»

Caramon aprì gli occhi. Sollevò lo sguardo e vide il volto barbuto del mezzelfo, che lo stava fissando con un’espressione di sollievo frammisto a perplessità, stupore e perfino ammirazione.

«Tanis!» rizzandosi a sedere ancora intorpidito dall’orrore, Tanis strinse l’amico tra le braccia robuste, serrandolo al proprio corpo, singhiozzando per il sollievo.

«Amico mio!» esclamò Tanis, e non riuscì ad aggiungere altro, soffocato dalle sue stesse lacrime.

«Stai bene, Caramon?» chiese Tas, rimanendogli vicino.

L’omone emise un lungo sospiro. «Sì,» rispose, prendendosi la testa fra le mani tremanti. «Credo di sì.»

«È la cosa più coraggiosa che abbia mai visto fare a un uomo,» dichiarò Tanis in tono solenne, risollevandosi per appoggiarsi sui calcagni e fissando Caramon. «La più coraggiosa... e la più stupida.»

Caramon arrossì. «Già,» borbottò a bassa voce. «Be’... tu mi conosci.» «Un tempo sì,» replicò Tanis, grattandosi la barba. Il suo sguardo contemplò lo splendido fisico dell’omone, la sua pelle di bronzo, la sua espressione risoluta e tranquilla. «Dannazione, Caramon! Un mese fa sei venuto, completamente ubriaco, ai miei piedi! Il tuo coraggio era praticamente a terra! E adesso...»

«Sono passati anni, Tanis,» l’interruppe Caramon, risollevandosi lentamente in piedi con l’aiuto di Tas. «È tutto quello che posso dirti. Ma, cos’è successo? Come ho fatto a uscire da quel terribile luogo?» lanciò Un’occhiata alle proprie spalle, vide in lontananza le ombre degli alberi, » in fondo alla strada, e non potè fare a meno di rabbrividire.

«Ti ho trovato,» disse Tanis, alzandosi a sua volta in piedi. «Loro, quelle creature, ti stavano trascinando sotto terra. Laggiù avresti trovato un luogo assai inquieto per riposare, amico mio.»

«Come hai fatto a entrare?»

«Questo,» spiegò Tanis, sorridendo e tenendo alto il braccialetto d’argento.

«Ti ha fatto entrare? Allora, forse...»

«No, Caramon,» disse Tanis, tornando a infilare il braccialetto dentro la cintura, con una lunga occhiata obliqua a Tas, il quale ostentava un’aria estremamente innocente. «La sua magia a stento era in grado di farmi superare i bordi di quel bosco maledetto. Sentivo il suo potere diminuire sempre più...»

L’espressione speranzosa di Caramon si spense. «Ho tentato anche con il nostro congegno magico,» disse guardando Tas. «Ma non funziona neanche quello. Non mi aspettavo che lo facesse.

Non ci ha permesso neppure di attraversare la Foresta di Wayreth. Ma dovevo tentare. Non... non sono neppure riuscito a fare in modo che si trasformasse! Mi si è quasi rotto tra le mani, perciò ho lasciato stare.» Rimase silenzioso per qualche istante, poi, con la voce che gli tremava per la disperazione, disse frenetico: «Tanis, devo raggiungere la Torre!» Le sue mani si strinsero a pugno.

«Non posso spiegartelo, ma ho visto il futuro, Tanis! Devo varcare il portale e fermare Raistlin.

Sono il solo che possa farlo!»

Disorientato, Tanis appoggiò una mano sulla spalla dell’omone per calmarlo. «Così mi ha detto Tas, più o meno. Ma, Caramon, là c’è Dalamar... e... in nome degli dei, come potresti mai riuscire a varcare il Portale?»

«Tanis,» disse Caramon guardando il suo amico con un’espressione così seria e ferma che il mezzelfo sbatté le palpebre per lo stupore, «tu non puoi capire, e non c’è tempo per spiegartelo. Ma devi credermi. Devo entrare in quella Torre!»

«Hai ragione,» annuì Tanis, dopo aver fissato Caramon con perplesso stupore, «non capisco. Ma ti aiuterò, se potrò, sempre che sia possibile.»

Caramon sospirò di nuovo, abbassò la testa e infossò le spalle. «Grazie, amico mio,» disse in tutta semplicità. «Ero talmente solo durante tutta questa vicenda. Se non fosse stato per Tas...»

Guardò in direzione del kender, ma Tas non lo stava ascoltando. Il suo sguardo era fisso, con rapita attenzione, sulla cittadella volante, ancora sospesa sopra le mura della città. La battaglia infuriava nell’aria intorno a essa, fra i draghi, e sul terreno sottostante, come si poteva intuire dalle dense colonne di fumo che si levavano dal lato sud della città, dall’echeggiare delle grida e delle urla, dal cozzare delle armi e dallo scalpitio degli zoccoli dei cavalli.

«Scommetto che una sola persona basterebbe a pilotare quella cittadella fino alla Torre,» disse Tas, continuando a fissarla con interesse. «Uuush! Dritti sopra il Bosco. Dopotutto, la sua magia è malvagia come quella del Bosco, ed è piuttosto grande, la cittadella voglio dire, non il Bosco.

Probabilmente ci vorrebbe un sacco di magia per poterla fermare, e...»

«Tas!»

Il kender si voltò e si trovò davanti a Caramon e a Tanis, entrambi intenti a fissarlo.

«Cosa?» gridò allarmato. «Non sono stato io! Non è colpa mia...» «Se soltanto potessimo salire lassù!» Tanis fissò la cittadella. «Il congegno magico!» gridò Caramon, in preda all’eccitazione, tirandolo fuori dalla tasca interna della camicia che indossava sotto la giubba. «Questo ci porterà lassù!»

«Ci porterà dove?». D’un tratto Tasslehoff si rese conto che stava succedendo qualcosa. «Ci porterà dove...» seguì lo sguardo di Tanis. «Là? Là?». Gli occhi del kender scintillarono luminosi come stelle. «Davvero? Davvero? Dentro la cittadella volante? È meraviglioso! Sono pronto. Andiamo!»

Il suo sguardo andò al congegno magico che Caramon stringeva in mano. «Ma quello funziona soltanto per due persone, Caramon. Come farà Tanis a salire lassù?»

Caramon si schiarì la gola, a disagio, e il kender cominciò a capire.

«Oh, no!» gemette Tas. «No!»

«Mi spiace, Tas,» disse Caramon, trasformando con le mani che gli tremavano il ciondolo piccolo e anonimo nello scettro brillante e ingioiellato, «ma dovremo combattere duramente per riuscire a entrare là dentro...»

«Mi devi portare, Caramon!» gridò Tas. «L’idea era mia! Io posso combattere!». Frugandosi nella cintura, sfoderò il suo pugnaletto. «Ti ho salvato la vita! Ho salvato la vita a Tanis!»

Intuendo dall’espressione sul volto di Caramon che l’amico si sarebbe ostinato sulla sua decisione, Tas si rivolse a Tanis e gli buttò le braccia attorno al corpo, implorandolo. «Portatemi con voi!

Forse il congegno funzionerà per tre persone. O, meglio, due persone e un kender. Sono basso, potrebbe non accorgersi di me... Per favore!»

«No, Tas,» replicò Tanis con fermezza. Staccandosi il kender di dosso, , si avvicinò a Caramon.

Alzando un dito ammonitore, lo mise in guardia, con un’espressione che Tas conosceva benissimo.

«E stavolta parlo sul serio!»

Tas rimase là con un’espressione talmente sconsolata che il cuore di Caramon si riempì di tristi presagi. «Tas,» intervenne con voce sommessa, inginocchiandosi accanto al kender angosciato, «hai visto cosa accadrà se falliremo! Bisogna che Tanis sia con me, mi servono la sua forza, la sua spada... Capisci, vero?»

Tas cercò di sorridere, ma il labbro inferiore gli tremò. «Sì, Caramon, capisco. Mi spiace.»

«E, dopotutto, è stata una tua idea,» aggiunse Caramon in tono solenne, rialzandosi in piedi.

Mentre questo pensiero parve confortare il kender, non contribuì più di tanto a dar fiducia al mezzelfo. «Per qualche motivo,» borbottò Tanis, «questo mi preoccupa.» Lo stesso valse per l’espressione sul volto del kender. «Tas,» Tanis assunse la sua aria più severa, mentre Caramon si spostava fermandosi ancora una volta accanto a lui, «promettimi che troverai qualche posto sicuro e ci rimarrai, e che ti terrai lontano dai guai! Dunque, lo prometti?»

Il volto di Tas era la fedele immagine del tumulto interiore: il kender si morse le labbra, le sue sopracciglia s’intrecciarono, si torse il ciuffo fino in cima alla testa. Poi, d’un tratto, i suoi occhi si allargarono. Sorrise, e finalmente lasciò liberi i capelli che gli si sciolsero lungo la schiena. «Ma certo che lo prometto, Tanis,» dichiarò con un’espressione talmente innocente e sincera che il mezzelfo non potè fare a meno di cacciare un gemito.

Ma adesso non c’era niente che potesse fare. Caramon stava già recitando la magica cantilena, manipolando il congegno. L’ultima immagine che Tanis vide, prima di sparire nelle nebbie turbinanti della magia, fu quella di Tasslehoff ritto su un piede solo, che si sfregava il polpaccio d’una gamba con l’altra, mentre li salutava agitando una mano con un sorriso allegro.

Capitolo terzo.

«Fireflash!» esclamò Tasslehoff, non appena Tanis e Caramon furono scomparsi alla sua vista.

Il kender si voltò e corse fino in fondo alla strada, verso il lato meridionale della città dove i combattimenti erano più violenti. «Poiché,» ragionò fra sé, «è probabile che i draghi stiano conducendo laggiù la loro battaglia.»

Fu allora che Tas si rese conto della sfortunata falla nel suo piano. «Maledizione!» borbottò, fermandosi e sollevando lo sguardo al cielo che brulicava letteralmente di draghi che ringhiavano, artigliavano e si alitavano addosso l’un l’altro rabbiosamente il fiato micidiale. «Adesso, come riuscirò a trovarlo in mezzo a tutta quella confusione?»

Tirando un profondo sospiro esasperato, il kender si sentì subito soffocare e tossì. Si guardò intorno ed ebbe modo di notare che l’aria stava diventando estremamente fumosa e che il cielo, in precedenza grigio a causa dello spuntare dell’alba oltre le nubi tempestose, adesso si stava illuminando d’un bagliore fiammeggiante.

Palanthas era in fiamme.

«Non è proprio il posto sicuro in cui fermarsi,» borbottò Tas. «E Tanis mi ha detto di trovarmi un posto sicuro. Ma il posto più sicuro che conosco è con lui e con Caramon, e loro si trovano lassù in quella cittadella, proprio adesso, e probabilmente si staranno cacciando in guai senza fine, e io sono incastrato qui, in una città che viene data alle fiamme e saccheggiata.» Il kender pensò intensamente. «Ecco!» esclamò all’improvviso. «Rivolgerò una preghiera a Fizban! Ha funzionato un paio di volte, be’... credo che abbia funzionato. E in ogni caso, non può far male.»

Vedendo una pattuglia di draconici che stava arrivando lungo la strada e non volendo nessuna interruzione, Tas s’infilò in un vicolo dove si rannicchiò dietro un cumulo di rifiuti, sollevando lo sguardo al cielo. «Fizban,» recitò in tono solenne, «è questo il momento! Se non usciamo da questa situazione, tanto vale che buttiamo l’argento nel pozzo e andiamo ad abitare con le galline, come diceva mia madre, e anche se non sono molto sicuro di cosa volesse dire, certo ha un suono sinistro.

Devo trovarmi con Tanis e Caramon. Tu sai che non possono cavarsela senza di me. E per raggiungerli mi serve un drago. Ora, questo non è molto. Avrei potuto chiedere molto di più, per esempio che mi facessi saltare l’intermediario mandandomi a sfrecciare fin lassù... Ma non l’ho fatto. Soltanto un drago. Nient’altro.»

Tas aspettò.

Non accadde nulla.

Esalando un sospiro esasperato, Tas fissò il cielo severamente, aspettando ancora un po’.

Ancora niente.

Tas tirò un altro sospiro. «D’accordo, lo ammetto. Darò il contenuto di una borsa, forse perfino di due, per avere la possibilità di volare nella cittadella. Ecco, è la verità. Il resto della verità, comunque. E ti ho sempre ritrovato il cappello...»

Ma, malgrado il suo gesto magnanimo, non comparve nessun drago.

Alla fine Tas si arrese. Rendendosi conto che la pattuglia draconica era ormai passata, si rialzò da dietro il cumulo di spazzatura e ripercorse il vicolo, uscendo nuovamente in strada.

«Bene,» borbottò, «suppongo che tu abbia da fare, Fizban, e...»

In quell’istante il terreno si sollevò sotto i piedi di Tas, l’aria si riempì di rocce infrante, di mattoni e di macerie, un fragore simile a quello del tuono assordò il kender, e poi... silenzio.

Tirandosi su, spazzolandosi via la polvere dai gambali, Tas sbirciò in mezzo al fumo e alle macerie, cercando di vedere cosa fosse successo. Per un attimo pensò che forse un altro edificio gli fosse stato fatto cadere addosso, come a Tharsis. Ma poi vide che non era quello il caso.

Un drago di bronzo giaceva supino in mezzo alla strada. Era coperto di sangue, le sue ali, allargate sopra l’isolato, avevano schiacciato parecchi edifici, la coda giaceva di traverso su parecchi altri.

Aveva gli occhi chiusi e c’erano segni di bruciature lungo i suoi fianchi, e pareva non respirasse più.

«Ora...questo,» dichiarò Tas vivamente irritato fissando il drago, «non era quello che avevo in mente!»

In quel momento, però, il drago si mosse. Una palpebra sbatté e si aprì, e l’occhio parve guardare il kender come se, nello stordimento, lo riconoscesse.

«Fireflash!» ansimò Tas, correndo su per una delle gigantesche zampe, a guardare il drago nell’occhio. «Ti stavo cercando. Sei... sei ferito gravemente?»

Il giovane drago parve sul punto di rispondere quando un’ombra scura li coprì entrambi. Gli occhi di Khirsah si spalancarono di colpo, mentre dava in un ringhio sommesso e cercava, pure indebolito, di sollevare la testa, ma lo sforzo parve al di là delle sue possibilità. Sollevando lo sguardo, Tas vide un grosso drago nero che scendeva in picchiata verso di loro, in apparenza deciso a finire la sua vittima.

«Oh, no, non lo farai!» borbottò Tas. «Questo è il mio drago! Me l’ha mandato Fizban. Ora... come si fa a combattere un drago?»

Le storie di Huma balenarono nella mente del kender, ma non gli furono di molto aiuto, dal momento che non aveva una dragonlance, e neppure una spada. Sfoderò il suo pugnaletto e lo fissò speranzoso, poi scosse la testa e se lo ricacciò nella cintura. Insomma, avrebbe dovuto fare quanto meglio poteva.

«Fireflash,» istruì il drago mentre saliva rumorosamente sullo stomaco ampio e scaglioso della creatura, «tu rimani steso qui e zitto, va bene? Sì, so tutto di come vorresti morire onorevolmente in combattimento, lottando contro il tuo nemico. Avevo un amico che era un Cavaliere di Solamnia.

Ma in questo momento non possiamo permetterci di comportarci in modo onorevole. Ho altri due amici che adesso sono ancora vivi ma forse non lo saranno più se non potrò andare ad aiutarli.

Inoltre, ti ho già salvato la vita una volta, stamattina, anche se al momento la cosa non è molto evidente, e tu mi devi questo.»

Tas non fu certo che Khirsah avesse capito, obbedendo ai suoi ordini, o invece avesse, semplicemente, perso conoscenza. Comunque, non ebbe il tempo di preoccuparsene. In piedi sopra il petto del drago affondò la mano nelle profondità di una delle sue borse per vedere cos’aveva che potesse essergli di aiuto, e saltò fuori il braccialetto d’argento di Tanis.

«Non penseresti mai che Tanis possa essere così incauto con questo,» borbottò fra sé Tas, infilandoselo al braccio. «Deve averlo fatto cadere mentre si occupava di Caramon. È una fortuna che io l’abbia raccolto. Adesso...» sollevando il braccio, indicò il drago nero che si librava sopra le loro teste, con le fauci spalancate, pronto a vomitare addosso alla sua vittima il suo acido micidiale.

«Fermo là!» urlò il kender. «Il corpo di questo drago è mio! L’ho trovato io... Be’, lui ha trovato me, così per dire. Mi ha quasi schiacciato contro il suolo. Perciò, squagliatela e non rovinarlo con quel tuo indecente fiatone!»

Il drago nero si arrestò, perplesso, e abbassò lo sguardo. Aveva, abbastanza spesso, ceduto prede ai draconici e ai goblin, ma mai, a quanto riusciva a ricordare, gli era capitato di cederla a un kender.

Anche se lei (era un drago femmina) era stata ferita in battaglia e si sentiva stordita per il sangue che aveva perso e aveva ricevuto una botta al naso, qualcosa le diceva che la faccenda era sbagliata.

Non riusciva a ricordare di aver mai incontrato un kender malvagio. Però doveva ammettere che poteva sempre esserci una prima volta. Questo indossava un braccialetto d’indubbia magia nera, tanto che sentiva fin troppo chiaramente con quanta efficacia bloccava i suoi incantesimi.

«Sai cosa posso ottenere a Sanction, oggi, per dei denti di drago?» urlò il kender. «Per non parlare degli artigli. Conosco uno stregone pronto a pagare trenta pezzi d’acciaio per un solo artiglio!»

Il drago nero corrugò la fronte. Quella conversazione era stupida. Sentiva il corpo pieno di dolori, e la rabbia crescerle dentro. Decise, molto semplicemente, di distruggere quel kender irritante insieme al suo nemico, aprì la bocca... e in quell’istante fu colpita all’improvviso alle spalle da un drago bronzeo. Stridendo per il furore, il drago nero scordò la propria preda mentre lottava per la vita, artigliando freneticamente l’aria per guadagnare spazio, col bronzeo implacabile al suo inseguimento.

Cacciando un fragoroso sospiro di sollievo, Tas si sedette sullo stomaco di Khirsah.

«Questa volta ho proprio pensato che fosse la nostra fine,» borbottò il kender, sfilandosi il braccialetto e tornando a ficcarlo dentro la borsa. Sentì il drago agitarsi sotto di lui, esalando un lungo respiro. Tas si lasciò scivolare lungo il fianco scaglioso del drago e toccò il suolo.

«Fireflash? Sei... sei ferito molto gravemente?». Comunque, come si faceva a guarire un drago?

«Potrei... potrei andare a cercare un chierico, anche se immagino che in questo momento siano tutti molto occupati, con la battaglia che sta infuriando e tutto il resto...»

«No, kender,» disse Khirsah con la sua voce profonda, «questo non sarà necessario.» Il drago aprì gli occhi e scosse la grande testa, sporgendo il lungo collo per guardarsi intorno. «Mi hai salvato la vita,» disse fissando il kender un po’ confuso.

«Due volte,» gli fece notare Tas con allegria. «Prima, c’è stata questa mattina con Lord Soth. Il mio amico Caramon, tu non lo conosci, ha quel libro che racconta quello che succederà nel futuro, o meglio, quello che non succederà nel futuro, adesso che lo stiamo cambiando.

Comunque, tu e Tanis avreste combattuto contro Lord Soth e sareste periti tutti e due, soltanto che io ho rubato il braccialetto e così tutto questo non è successo... che siete morti, voglio dire.»

«Invero.» Rotolandosi sul fianco, Khirsah distese una gigantesca ala coriacea sollevandola in alto nell’aria piena di fumo, e l’esaminò da vicino, Era tagliata e sanguinante, ma non era stata strappata.

Il drago procedette a esaminare l’altra ala in ugual maniera, mentre Tas lo guardava incantato.

«Credo che mi piacerebbe essere un drago,» disse il kender con un sospiro.

«Naturalmente....» Khirsah contorse con lenti movimenti il suo corpo di bronzo per girarsi ed ergersi sui suoi piedi artigliati, estraendo per prima cosa la sua lunga coda dalle macerie di un edificio che aveva schiacciato. «Noi siamo i prescelti dagli dei. Il nostro arco di vita è così lungo che per noi la vita degli elfi è breve come quella d’una candela accesa, mentre la vita degli umani e di voi kender è soltanto una stella cadente. Il nostro , alito è mortale, la nostra magia così potente che soltanto i più grandi stregoni possono superarci.»

«Lo so,» disse Tasslehoff, cercando di nascondere la propria impazienza. «Adesso sei sicuro che tutto funziona?»

Anche Khirsah nascose un sorriso. «Sì, Tasslehoff Burrfoot,» replicò con voce grave, flettendo le ali. «Ogni cosa, uhm... funziona, come dici tu.» Scosse la testa. «Mi sento un po’ intontito, è tutto. E così, dal momento che mi hai salvato la vita, io...»

«Due volte.»

«Due volte,» si corresse il drago, «sono tenuto a renderti un servigio. Cosa desideri da me?»

«Portami sulla cittadella volante!» esclamò Tas, accingendosi a salire in groppa al drago. Si sentì sollevare in aria per il colletto della camicia agganciato a uno degli enormi artigli di Khirsah. «Oh, grazie per il passaggio. Anche se avrei potuto fare da solo...»

Ma non venne deposto sul dorso del drago. Piuttosto, si trovò a fronteggiare Khirsah faccia a faccia.

«Questo sarebbe estremamente pericoloso, se non fatale per te, kender,» disse Khirsah con severità.

«Non posso permetterlo. Lascia che ti porti dai Cavalieri di Solamnia, che si trovano nella Torre del Sommo Chierico...»

«Sono stato nella Torre del Sommo Chierico!» gemette Tas. «Devo arrivare alla cittadella volante.

Capisci, uh... devi capire. Tanis Mezzelfo! Lo conosci? Si trova lassù proprio adesso e, uh... Mi ha lasciato qui perché mi procurassi alcune, uhm, importanti informazioni per lui e,» Tas terminò precipitosamente, «le ho avute e adesso devo portargliele.»

«Dai a me le informazioni,» disse Khirsah. «Gliele trasmetterò io.»

«N... non, no, non... non funzionerebbe affatto,» balbettò Tas, pensando freneticamente. «Sono, uh, sono in lingua kender! E non possono venire tradotte in... uh... in comune. Tu non parli il kender, non è vero, uh, Fireflash?»

«Ma certamente,» stava per dire il drago. Ma, guardando negli occhi speranzosi di Tasslehoff, Khirsah sbuffò. «Certo che no!» esclamò sdegnato. Lentamente e con cautela depositò il kender sul proprio dorso, fra le ali. «Ti porterò da Tanis Mezzelfo, se è questo che desideri. Non c’è nessuna sella, poiché non combattiamo con i cavalieri in groppa, perciò tienti stretto forte.»

«Sì, Fireflash,» urlò Tas gioioso, sistemandosi le borse intorno al corpo e afferrandosi al collo del drago bronzeo con entrambe le piccole mani. Gli venne all’improvviso un pensiero. «Senti, Fireflash,» gridò, «tu non farai niente di avventuroso là in alto, vero, come rigirarti sul dorso o tuffarti a picco verso terra? Poiché, anche se sono sicuramente divertenti, queste faccende potrebbero essere piuttosto scomode per me, che non ho nessuna cintura di sicurezza o qualcosa del...»

«No,» rispose Khirsah sorridendo. «Ti porterò lassù quanto più rapidamente possibile, così da poter tornare subito alla battaglia.»

«Pronto quando lo sarai anche tu!» urlò Tas, spronando i fianchi di Khirsah con i calcagni mentre il drago di bronzo balzava in aria. Approfittando delle correnti favorevoli, si levò in alto nel cielo e si librò sopra la città di Palanthas.

Non fu una cavalcata piacevole. Guardando giù, Tas trattenne il fiato. Quasi tutta la Città Nuova era in fiamme. Dal momento che era stata evacuata, i draconici vi scorrazzavano senza che nessuno li ostacolasse, incendiando e saccheggiando sistematicamente al loro passaggio. I draghi buoni erano riusciti a impedire che i draghi neri e azzurri distruggessero completamente la Città Vecchia, così come avevano distrutto Tharsis, e i difensori della città stavano resistendo da soli all’assalto dei draconici. Ma l’assalto di Lord Soth era costato caro. Tas poteva vedere, dal suo punto di osservazione, i corpi dei cavalieri e dei loro cavalli sparpagliati per le strade come soldatini di latta frantumati da un bambino vendicativo. E, mentre osservava, potè vedere Lord Soth Che continuava a cavalcare senza che nessuno lo ostacolasse, con i suoi guerrieri che massacravano ogni creatura vivente si parasse loro davanti, con il gemito spaventoso delle banshee che si levava al di sopra delle grida dei morenti.

Tas deglutì dolorosamente. «Oh, cielo,» bisbigliò, «supponi che questo sia colpa mia! Dopotutto, non posso saperlo. Caramon non è mai arrivato a leggere quello che il libro diceva dopo! Io ho soltanto supposto che... no,» rispose Tas con fermezza a se stesso, «se non avessi salvato Tanis, allora Caramon sarebbe morto nel bosco. Ho fatto quello che dovevo fare, e dal momento che c’è un tale pasticcio, non ci penserò mai più.» Per distogliere la mente dai suoi problemi e dalle cose orribili che vedeva accadere sul terreno sottostante, Tas si guardò intorno, sbirciando attraverso il fumo, per vedere quello che stava succedendo nel cielo. Intravide un movimento alle sue spalle, e un grande drago azzurro si levò ,; in volo dalle strade vicine al Bosco di Shoikan. «Il drago di Kitiara!» mormorò il kender, riconoscendo lo splendido e micidiale Skie. Ma il “ drago non aveva nessun cavaliere. Kitiara non era visibile da nessuna parte.

«Fireflash!» gridò Tas per avvertirlo, torcendosi su se stesso per osservare il drago azzurro, che li aveva visti e stava cambiando direzione, sfrecciando verso di loro.

«Sono conscio della sua presenza,» dichiarò Khirsah, gelido, lanciando un’occhiata in direzione di Skie. «Non preoccuparti, siamo vicini alla nostra destinazione. Ti depositerò, kender, poi tornerò indietro ad affrontare il mio nemico.»

Voltandosi, Tas vide che erano davvero molto vicini alla cittadella volante. Tutti i pensieri di Kitiara e del drago azzurro sparirono dalla sua testa. Da vicino, la cittadella era ancor più meravigliosa di quanto lo era vista da sotto. Poteva osservare con grande chiarezza i giganteschi massi di roccia sospesi sotto di essa, quelle che un tempo erano state le fondamenta rocciose sulle quali era stata costruita.

Nubi magiche ribollivano intorno a essa, facendola galleggiare nell’aria, i lampi sfrigolavano e crepitavano in mezzo alle torri. Studiando la cittadella stessa, Tas vide enormi crepe serpeggiare lungo i lati della fortezza di pietra: i danni strutturali erano le conseguenze della tremenda forza necessaria a strappare l’edificio dalle ossa della terra. La luce risplendeva alle finestre delle tre alte torri della cittadella e dalla saracinesca aperta sul davanti, ma Tas non riuscì a vedere nessun segno esterno di vita. Comunque, non aveva alcun dubbio che avrebbe trovato ogni genere di vita all’interno!

«Dove vorresti andare?» chiese Khirsah, con una nota d’impazienza nella voce.

«Qualsiasi parte andrà bene, grazie,» rispose Tas con cortesia, comprendendo che il drago era ansioso di tornare a combattere.

«Non credo che l’ingresso principale sia consigliabile,» osservò il drago, compiendo una deviazione improvvisa. Con una stretta virata girò in cerchio intorno alla cittadella. «Ti porterò sul retro.»

Tas avrebbe detto di nuovo «grazie», ma il suo stomaco, per qualche inspiegabile motivo, aveva fatto un improvviso tuffo verso il suolo mentre il cuore gli era balzato in gola quando il movimento circolare del drago li aveva fatti girare entrambi nell’aria. Poi Khirsah si mise in orizzontale e, picchiando verso il basso, effettuò un atterraggio morbidissimo in un cortile deserto. Impegnato per il momento a placare le proprie budella, Tas riuscì a malapena a scivolare giù dal dorso del drago e a saltare in mezzo alle ombre, senza preoccuparsi delle frivolezze.

Ma, una volta sul terreno solido (be’, una specie di terreno solido), il kender si sentì immensamente più simile a se stesso.

«Arrivederci, Fireflash!» gridò, agitando la piccola mano. «Grazie, e buona fortuna!»

Ma se il bronzeo lo sentì, non rispose. Khirsah stava prendendo rapidamente quota, guadagnando spazio aereo. Skie lo inseguiva sfrecciando, con gli occhi rossi che ardevano d’odio. Con una scrollata di spalle e un breve sospiro, Tas li lasciò alla loro personale battaglia, si voltò e si mise a studiare i dintorni.

Era in piedi sul retro della fortezza su un mezzo cortile: a quanto pareva, l’altra metà era stata lasciata indietro quando la cittadella era stata trascinata fuori dal terreno. Notando che, in effetti, si trovava disagevolmente vicino all’orlo del lastricato nel punto in cui era stato spezzato, Tas si affrettò a raggiungere il muro della fortezza stessa. Si muoveva in silenzio, tenendosi fra le ombre, con quei movimenti furtivi naturali, innati nei kender.

Arrestandosi un attimo, si guardò intorno. C’era una porta sul retro che conduceva nel cortile, ma era una gigantesca porta di legno rinforzata con fasce di ferro. E, pur avendo una serratura estremamente interessante, che le sue dita ardevano dal desiderio di saggiare, il kender immaginò, con un sospiro, che con ogni probabilità doveva avere sull’altro lato “una guardia dall’aspetto ugualmente interessante. Avrebbe fatto molto meglio a entrare strisciando attraverso una finestra e, guarda caso, c’era una finestra illuminata proprio sopra di lui. Molto sopra di lui.

«Dannazione,» mormorò Tas. La finestra si trovava ad almeno sei piedi dal suolo. Guardandosi intorno, Tas trovò un masso di roccia infranta e, dopo molte spinte, riuscì a manovrarlo così da spostarlo fin sotto la finestra. Si arrampicò su di esso e sbirciò con cautela all’interno. Due draconici giacevano pietrificati sul pavimento, l’uno sopra l’altro, con le teste fracassate. Un altro draconico giaceva morto accanto a loro, con la testa completamente troncata dal corpo. A parte quei tre corpi, non c’era nessun altro nella stanza. Tenendosi in punta di piedi, Tas sporse dentro la testa, ascoltando. Non troppo lontano potè udire un cozzare di metallo, ed echeggiare aspre grida e urla, e anche un tremendo ruggito.

«Caramon!» disse Tas. Strisciando attraverso la finestra, balzò giù sul pavimento, compiaciuto nel notare che, per ora, la cittadella era rimasta perfettamente immobile e non pareva esser diretta da nessuna parte. Ascoltò di nuovo, e potè sentire quel familiare ruggito farsi più forte, frammisto alle imprecazioni di Tanis. «Come sono carini,» disse Tas annuendo soddisfatto, mentre attraversava strisciando la stanza. «Mi stanno aspettando.»

Emergendo in un corridoio dalle scabre pareti di pietra, Tas si fermò un attimo per orientarsi. I rumori della battaglia echeggiavano sopra di lui. Sbirciando in fondo al corridoio illuminato dal bagliore delle torce, Tas vide una scala e andò in quella direzione. Come precauzione, sfoderò il suo pugnaletto, ma non incontrò nessuno. Il corridoio era vuoto, e così lo erano le scale strette e ripide.

«Umpf,» borbottò Tas, «adesso è di certo un posto assai più sicuro della città. Devo ricordarmi di dirlo a Tanis. E, parlando di Tanis, dove saranno mai lui e Caramon, e come faccio ad arrivarci?»

Dopo esser salito quasi in verticale per una decina di minuti, Tas si fermò, fissando l’oscurità penetrata dalla luce delle torce. Si rese conto che stava salendo una scala strettissima schiacciata fra il muro interno e quello esterno di una delle torri della cittadella. Poteva ancora udire l’infuriare della battaglia, adesso pareva che Tanis e Caramon si trovassero proprio sull’altro lato del muro rispetto al punto in cui si trovava lui, ma non riusciva a vedere nessun modo per poter arrivare fino a loro. Frustrato e con le gambe affaticate, smise di salire.

O me ne torno giù, oppure tento un’altra via, ragionò, oppure posso proseguire per questa strada.

Andare verso il basso, anche se più comodo per i piedi, potrebbe rivelarsi più affollato. E dev’esserci una porta lassù, da qualche parte, altrimenti perché mai mettere qui una scala?

Questo ragionamento gli piacque, per cui Tas decise di continuare a salire, anche se questo adesso significava che i rumori della battaglia parevano provenire da sotto di lui invece che da sopra. D’un tratto, proprio mentre cominciava a pensare che un nano ubriaco con un contorto senso dell’umorismo doveva aver costruito quella stupida scala, arrivò in cima e trovò la porta.

«Ah, una serratura!» esclamò sfregandosi le mani. Da lungo tempo non aveva più avuto la possibilità di scassinarne una, e temeva che avrebbe finito per arrugginirsi. Esaminando la serratura con occhio esperto, appoggiò con cautela la mano sulla maniglia della porta. Con suo vivo disappunto, questa si aprì senza difficoltà.

«Oh, be’» commentò con un sospiro, «in ogni caso non ho con me i miei arnesi da scasso.»

Spingendo con prudenza la porta, diede una sbirciatina dall’altra parte. Davanti a lui c’era soltanto una ringhiera di legno. Tas aprì ancora di più la porta, la varcò e si trovò su uno stretto terrazzino che correva tutt’intorno all’interno della torre.

Il frastuono del combattimento era molto più intenso, ed echeggiava con forza sulla pietra. Tas attraversò di corsa il pavimento di legno del terrazzino e si sporse oltre l’orlo della ringhiera, per cercare l’origine dei colpi sferrati contro il legno, del clangore delle spade, delle urla e dei tonfi.

«Ciao Tanis, ciao Caramon!» gridò eccitato. «Ehi, avete già capito come si fa a far volare questo affare?».

Capitolo quarto.

Intrappolati su un terrazzino parecchie rampe più sotto rispetto a quello dal quale Tas si sporgeva, Tanis e Caramon stavano lottando per la vita. Quello che aveva tutte le apparenze di un piccolo esercito di draconici e di goblin si accalcava sulle scale sotto di loro.

I due guerrieri si erano barricati dietro una gigantesca panca di legno che avevano trascinato di traverso alla cima della scala. Dietro di loro c’era una porta, e a Tas venne da pensare che avessero risalito le scale in direzione appunto di quella porta nel tentativo di fuggire, ma erano stati fermati prima di poterla varcare.

Caramon, le braccia coperte di sangue verde fino ai gomiti, stava fracassando teste con un pezzo di legno che aveva strappato via dal terrazzino, un’arma assai più efficace di una spada quando si combattevano quelle creature i cui corpi si trasformavano in pietra. La spada di Tanis era intaccata, l’aveva usata come un bastone, e il suo corpo sanguinava da parecchi tagli attraverso la cotta di maglia che sulle braccia era rotta in molti punti, e sul suo pettorale spiccava una grossa ammaccatura. Da quanto Tas riuscì a capire dopo una prima febbrile occhiata, pareva ci fosse una situazione di stallo. I draconici non riuscivano ad avvicinarsi abbastanza alla panca per trascinarla via oppure scalarla. Ma, nel momento in cui Caramon e Tanis avessero lasciato la loro posizione, subito sarebbe stata rovesciata.

«Tanis! Caramon!» urlò Tanis. «Quassù!»

Entrambi si guardarono intorno con stupore, nell’udire la voce del kender. Poi Caramon, afferrando Tanis, puntò un dito «Tasslehoff!» gridò Caramon, la sua voce tonante rimbombò nella cavità della Torre. «Tas! Questa porta dietro di noi! È chiusa a chiave. Non possiamo uscire!»

«Arrivo subito!» gridò Tas tutto eccitato, arrampicandosi sulla ringhiera e preparandosi a saltare in mezzo alla mischia.

«No!» urlò Tanis. «Aprila dall’altro lato! L’altro lato!» glielo indicò freneticamente.

«Oh,» disse Tas deluso. «Sicuro, nessun problema.» Ridiscese la scala e stava per raggiungere la porta quando vide che i draconici sulla scala sottostante a Caramon e a Tanis avevano all’improvviso cessato di combattere. A quanto pareva, qualcos’altro aveva attirato la loro attenzione. Un ordine venne impartito con voce aspra, e i draconici cominciarono a spingersi a vicenda per porsi di lato. Avevano sfoderato i denti in espressioni ghignanti. Tanis e Caramon, sorpresi da quell’inatteso placarsi della battaglia, arrischiarono una cauta occhiata oltre la sommità della panca, mentre Tas guardava giù dalla ringhiera del terrazzino.

Un draconico dalle Vesti Nere, decorate da rune arcane, stava salendo le scale. Stringeva un bastone nella mano artigliata, un bastone intagliato a somiglianza di un serpente pronto a colpire.

Un usufruitore di magia Bozak! Tas sentì il cuore piombargli giù nella bocca dello stomaco quasi con altrettanta violenza di quando il drago aveva virato. I soldati draconici stavano rinfoderando le spade, era ovvio che ritenevano che la battaglia fosse alla fine. Il loro stregone avrebbe risolto la faccenda in modo semplice e rapido.

Tas vide che Tanis portava la mano alla cintura... per tornar fuori vuota. Il volto di Tanis si sbiancò sotto la barba. La sua mano balzò a un altro punto della cintura. Non c’era niente. Freneticamente il mezzelfo guardò intorno a sé sul pavimento.

«Sai,» disse Tas fra sé e sé, «scommetto che quel braccialetto adesso gli farebbe comodo, con le sue difese magiche. Forse è proprio quello che sta cercando. Credo che non si sia reso conto di averlo perduto.» Affondò la mano in una delle sue borse e tirò fuori il braccialetto d’argento.

«E qui, Tanis! Non preoccuparti! L’avevi lasciato cadere, ma io l’ho trovato!» gridò, agitandolo in aria.

Il mezzelfo sollevò lo sguardo, corrugando la fronte. Le sue sopracciglia si aggrovigliarono in maniera così allarmante che Tas gli buttò subito il braccialetto. Dopo aver aspettato un attimo per vedere se Tanis l’avrebbe ringraziato (non lo fece), il kender sospirò.

«Sarò là in un minuto!» urlò ancora. Si voltò e infilò a precipizio la porta, scendendo di corsa le scale.

«Certamente non si è mostrato molto grato,» sbuffò Tas sfrecciando giù per i gradini. «Neanche un po’ come il vecchio Tanis amante dell’allegria. Non credo che fare l’eroe sia il modo migliore di andar d’accordo con lui.»

Dietro di sé, ovattata dallo spessore del muro, poteva udire l’aspra cantilena, punteggiata da parecchie esplosioni. Le voci dei draconici si levarono in grida di rabbia e di delusione.

«Quel braccialetto li terrà lontani per un po’,» borbottò Tas, «ma non per molto. Adesso, come faccio ad arrivare sull’altro lato della torre per raggiungerli? Temo che non ci sia altro da fare se non tornare al pianterreno.»

Correndo giù per le scale, raggiunse di nuovo il livello del suolo, sfrecciò davanti alla stanza da dove era entrato nella cittadella, e proseguì fino a quando non arrivò a un corridoio che formava un angolo retto con quello in cui si trovava. Sperò che conducesse sull’altro lato della torre dove Tanis e Caramon erano intrappolati.

Si udì il fragore di un’altra esplosione e, questa volta, l’intera torre tremò. Tas andò ancora più veloce. Il kender girò bruscamente un angolo a destra.

Bum! Andò a sbattere contro qualcosa di tozzo e scuro che ruzzolò a terra con un «wuf!»

L’urto mandò a terra anche Tas, il quale giacque immobile provando la netta impressione, dall’odore, di essere stato colpito da un grumo di spazzatura in putrefazione. Un po’ scosso, riuscì ugualmente a rialzarsi in piedi, barcollando e stringendo il suo pugnaletto, si tenne pronto a difendersi dalla creatura tozza e scura che si era anch’essa rialzata.

Portandosi una mano alla fronte, la creatura disse: «Ooh,» in tono dolente. Poi, guardandosi intorno stordita, vide Tas immobile lì davanti, con un’espressione truce e decisa. La luce delle torce traeva riflessi dalla piccola lama della sua arma. L’«ooh» divenne un «AAAAAHHH.» Con un gemito, la creatura puzzolente perse all’improvviso i sensi.

«Un nanerottolo dei fossi!» esclamò Tas, arricciando il naso disgustato. Rinfoderò il piccolo pugnale e fece per andarsene. Poi si fermò. «Però,» disse parlando fra sé, «potrebbe farmi comodo.»

Chinandosi, Tas afferrò il nano dei fossi per la manciata di stracci che lo copriva e gli diede un’energica scrollata. «Ehi, svegliati!»

Emettendo un sospiro tremante, il nano dei fossi aprì gli occhi. Vedendo un kender dall’aria severa curvo minaccioso sopra di lui, il nano dei fossi divenne bianco come la morte, si affrettò a chiudere di nuovo gli occhi e cercò di fingere di essere ancora privo di sensi.

Tas scosse un’altra volta quel fagotto di stracci.

Il nano dei fossi aprì un occhio con un nuovo, tremulo sospiro, e vide che Tas era ancora lì. C’era soltanto una cosa da fare, simulare la morte. Questo lo si ottiene (fra i nani dei fossi) trattenendo il fiato e irrigidendosi di colpo.

«Su,» esclamò Tas irritato, continuando a scuotere il nano dei fossi, «ho bisogno del tuo aiuto.»

«Vai via,» disse il nano con un tono di voce profondo e sepolcrale. «Io morto.»

«Non sei ancora morto,» ribatté Tas, con la voce più spaventevole che riuscì a cacciare fuori, «ma lo sarai subito a meno che tu non mi aiuti!»

Sollevò il piccolo pugnale.

Il nano rantolò e si rizzò prontamente a sedere, sfregandosi la testa in preda alla confusione. Poi, sgranando gli occhi su Tas, buttò le braccia intorno al kender. «Tu, guaritore. Io tornato dai morti!

Tu grande e potente chierico!»

«No, non lo sono!» sbottò Tas, piuttosto sorpreso da quella reazione. «Adesso mollami. No, ti sei ingarbugliato nella mia borsa. Non in quel modo...»

Dopo parecchi tentativi, riuscì finalmente a togliersi di dosso il nano dei fossi. Tirò in piedi la creatura e la fissò con sguardo severo. «Sto cercando di raggiungere il lato opposto della torre. È questa la strada giusta?»

Il nano dei fossi scrutò il corridoio in ambedue i sensi con aria pensierosa, poi si girò verso Tas.

«Questa strada giusta,» disse alla fine, indicando la direzione verso la quale Tas stava già procedendo.

«Bene!» Tas si rimise in cammino.

«Quale torre?» borbottò il nano, grattandosi la testa.

Tas si fermò. Si voltò e fissò furioso il nano dei fossi, portando la mano al pugnale.

«Io andare con grande chierico,» si affrettò a proporre il nano. «Io guidare.»

«Potrebbe non essere una cattiva idea,» rifletté il kender. Afferrando la mano sudicia del nano, Tas lo trascinò via con sé. Ben presto trovarono un’altra scala che conduceva verso l’alto. Adesso i rumori della battaglia erano molto più intensi, un fatto che indusse il nano a spalancare gli occhi.

Cercò di liberare la mano che Tas gli stringeva. «Me morto una volta,» gridò il nano, tentando spasmodicamente di liberarsi. «Quando tu morto due volte, ti mettono in scatola e buttano in grande buco. Me non così.»

Malgrado questo promettesse d’essere un concetto interessante, Tas non aveva il tempo di esplorarlo. Continuando a stringere saldamente il nano, lo trascinò su per le scale. Il fracasso del combattimento sull’altro lato del muro si faceva più forte di momento in momento. Come sul lato opposto della torre, la scala terminava con una porta. Tas potè sentire dietro di essa tonfi, gemiti e le imprecazioni di Caramon. Tas provò la maniglia. La porta era chiusa a chiave anche su quel lato. Il kender sorrise, tornando a sfregarsi le mani.

«Certamente una porta ben costruita,» commentò, studiandola. Chinandosi, sbirciò attraverso il buco della serratura. «Sono qui!» gridò.

«Apri...» grida soffocate, «... la porta!» concluse il tonante muggito di Caramon.

«Sto facendo del mio meglio!» urlò Tas in risposta, un po’ irritato. «Non ho qui i miei arnesi, sai.

Be’, dovrò improvvisare. Tu... rimani qui!» Afferrò il nano, il quale stava giusto strisciando via furtivo in direzione della scala. Sfoderando il pugnaletto, Tas lo sollevò minaccioso. Il nano crollò a terra come un mucchio di cenci.

«Me restare!» uggiolò, rannicchiandosi terrorizzato sul pavimento.

Tornando a voltarsi verso la porta, Tas infilò la punta del coltello nella serratura e cominciò a girarla con cautela. Gli parve quasi di sentire la serratura che cedeva, quando qualcosa sbatté contro la porta. La lama schizzò fuori dalla serratura.

«Non mi state aiutando!» gridò attraverso la porta. Tirando un lungo, sofferente respiro, Tas tornò a infilare la lama nella serratura.

Il nano dei fossi strisciò più vicino, sollevando lo sguardo su Tas dal pavimento. «Sai proprio tanto tu. Me credere tu non chierico così grande.»

«Cosa vuoi dire?» borbottò Tas concentrandosi.

«Coltello non aprire porta,» disse il nano dei fossi con disprezzo. «Chiave aprire porta.»

«So che con la chiave puoi aprirla,» ribatté Tas, guardandosi intorno esasperato, «ma io non ce l’ho... Dammela!»

Arrabbiato, Tas agguantò la chiave che il nano stringeva in una mano. Infilò la chiave dentro il buco della serratura, sentì un clik! e spalancò la porta. Tanis vi ruzzolò attraverso, finendo praticamente sopra il kender. Caramon lo seguì con un salto. L’omone chiuse la porta sbattendola, spezzando la lama della spada di un draconico che stava giusto varcandola. Appoggiando la schiena contro la porta, Caramon abbassò lo sguardo su Tas, respirando affannosamente.

«Chiudila a chiave!» riuscì ad ansimare.

Tas si affrettò a girare di nuovo la chiave nella serratura. Al di là della porta chiusa risuonarono urla e tonfi e si udì un fracasso di legno che andava in schegge.

«Credo che terrà per un po’» disse Tanis dopo aver studiato la porta.

«Ma non a lungo,» replicò Caramon, cupo in volto. «Specialmente con quel mago Bozak là sotto.

Su, andiamo.»

«Dove?» volle sapere Tanis, asciugandosi il sudore dal viso. Sanguinava per un taglio alla mano e parecchi altri alle braccia, ma per il resto pareva illeso. Caramon era coperto di sangue, ma per la maggior parte era verde, così Tas suppose che si trattasse di sangue del nemico. «Non abbiamo ancora scoperto dove si trova il congegno che fa volare questo affare!»

«Scommetto che lui lo sa,» disse Tas indicando il nano. «È per questo che l’ho portato con me, » aggiunse il kender , piuttosto orgoglioso di sé.

Vi fu uno schianto tremendo. La porta tremò.

«Per lo meno, usciamo da qui,» borbottò Tanis. «Come ti chiami?» chiese al nano dei fossi mentre si affrettavano a ridiscendere le scale.

«Rounce,» disse il nano, fissando Tas con profondo sospetto.

«Molto bene, Rounce,» disse Tanis, soffermandosi su un pianerottolo in ombra per riprendere fiato.

«Mostraci la stanza dove si trova il congegno che fa volare questa cittadella.»

«La Sedia di Capitan Vento,» aggiunse Caramon, fissando con severità il nano. «È così che l’abbiamo sentita chiamare da uno dei goblin.»

«Quello segreto!» disse Rounce con solennità. «Me non dire! Me fatto promessa!»

Caramon ringhiò con tanta ferocia che Rounce divenne bianco sotto lo sporco del suo viso, e Tas, timoroso di vederlo svenire di nuovo, si affrettò a intromettersi. «Puah! Scommetto che non lo sa!» disse, strizzando l’occhio a Caramon.

«Me anche sapere sì!» dichiarò Rounce con alterigia. «Tu tentare trucco per farmi dire. Me non cadere con stupido trucco.»

Tas si accasciò contro la parete con un sospiro. Caramon ringhiò di nuovo, ma il nano, pur ritraendosi intimorito, continuò a guardarlo con intrepida aria di sfida. «Niente strapperà segreto a me!» dichiarò Rounce, incrociando le sudice braccia sul petto coperto di unto e schizzato di cibo.

In alto echeggiarono uno schianto e le voci di molti draconici.

«Uh, Rounce,» mormorò Tanis in tono confidenziale, accucciandosi daccanto al nano, «ma cos’è esattamente quello che non dovresti dire?».

Rounce assunse un’espressione astuta. «Me non dovrei dire che Sedia Capitan Vento in cima a torre di mezzo’. Ecco cosa me non dovrei dire!» guardò Tanis corrugando ferocemente la fronte e sollevò una piccola mano stretta a pugno. «E voi non potere farmi dire!» Raggiunsero il corridoio dove la Sedia di Capitan Vento non si trovava stando a Rounce che li aveva guidati per tutta la strada continuando a dire: «Questa non porta che conduce a scala che conduce a posto segreto.»

Entrarono con cautela, pensando che finora le cose erano andate un pochino troppo lisce. E avevano ragione. Giunti circa a metà corridoio, una porta si spalancò. Venti draconici seguiti dall’usufruitore di magia Bozak, si lanciarono al loro inseguimento.

«Mettetevi dietro di me!» esclamò Tanis, sfoderando la spada. «Ho ancora il braccialetto...».

Ricordando che Tas si trovava con loro, aggiunse: «Almeno credo,» e fissò furioso il proprio braccio. Il braccialetto era ancora là.

«Tanis,» disse Caramon sguainando la spada e ritraendosi lentamente mentre i draconici, in attesa delle istruzioni del Bozak, esitavano, «ci rimane poco tempo! Lo so! Lo sento! Devo arrivare alla Torre della Grande Stregoneria! Qualcuno deve salire là sopra e far volare questo affare!»

«Uno solo di noi non può tenerne a bada tanti!» replicò Tanis, «il che non lascia libero nessuno per manovrare la Sedia di Capitan...» le parole gli si spensero sulle labbra. Fissò Caramon. «Oh, non dirai sul serio...»

«Non abbiamo nessun’altra scelta,» ringhiò Caramon mentre la cantilena del mago s’innalzava di nuovo nell’aria. Si girò per dare un’occhiata a Tasslehoff.

«No,» cominciò a dire Tanis, «assolutamente no...» «Non c’è nessun’altra maniera!» insistette Caramon. Tanis sospirò, scuotendo la testa.

Il kender li fissò tutti e due, sbattendo le palpebre, confuso. Poi, d’un tratto, capì.

«Oh, Caramon...» bisbigliò stringendosi le mani, evitando a stento d’infilzarsele col pugnaletto.

«Oh, Tanis... meraviglioso! Farò in modo che tu sia orgoglioso di me! Ti condurrò fino alla Torre!

Non avrai da rammaricartene! Rounce, avrò bisogno del tuo aiuto.»

Afferrando il nano per il braccio, Tas si lanciò di corsa lungo il corridoio verso una scala a chiocciola che Rounce stava indicando, insistendo:

«Quella scala non porta a luogo segreto!»

Progettata da Lord Ariakas, ex capo delle forze della Regina delle Tenebre, durante la Guerra delle Dragonlance, la Sedia di Capitan Vento permetteva di manovrare una cittadella volante, ed era passata alla storia come una delle più brillanti creazioni della mente brillante, anche se tenebrosa e contorta, di Lord Ariakas, appunto.

La Sedia si trovava in una stanza costruita appositamente per essa, proprio in cima alla cittadella.

Arrampicandosi su per una stretta gradinata a spirale, Capitan Vento giungeva infine a una scaletta a pioli di ferro che conduceva a una botola. Aperta la botola, Capitan Vento entrava in una piccola stanza circolare priva di finestre. Al centro della stanzetta c’era una piattaforma sopraelevata. Due piedistalli, situati all’incirca a tre passi di distanza, si ergevano sulla piattaforma.

Alla vista di quei piedistalli Tas, tirandosi dietro Rounce, emise un profondo respiro. Fatti d’argento, alti all’incirca quattro piedi, quei piedistalli erano le cose più belle che avesse mai visto.

Disegni intricati e simboli magici erano incisi sulle loro superfici. Ogni più piccola linea era riempita d’oro che scintillava alla luce delle torce che sgorgava dalla scala sottostante. E, in cima a ogni piedistallo, era appoggiato un gigantesco globo, fatto d’un lucido cristallo nero.

«Tu non salire su piattaforma,» intimò Rounce con severità.

«Rounce,» disse Tas arrampicandosi sulla piattaforma, che si ergeva per tre piedi sul pavimento,

«sai come far funzionare questo affare?»

«No,» rispose Rounce, gelido, incrociando le braccia sul petto e fissando furioso Tas. «Me mai stato qui molto. Me mai fatto incarichi per gran capo stregone. Me mai messo dentro questa stanza e me mai detto di toccare qualunque cosa stregone volesse. Me mai guardato grande capo stregone volare molte volte.»

«Grande capo stregone?» fece Tas corrugando la fronte. Lanciò una rapida occhiata tutt’intorno, sbirciando fra le ombre della stanzetta. «Dov’è il grande capo stregone?»

«Lui non giù,» disse Rounce, cocciuto. «Lui non prepara a fare nemici a pezzettini.»

«Oh, quel grande capo stregone là,» annuì Tas con sollievo. Poi il kender fece una pausa. «Ma se lui non è qui, chi fa volare questo affare?»

Qualche attimo di silenzio teso, poi, «Adesso capisco,» disse Tas entrando nei cerchi neri incassati nel pavimento fra i due piedistalli. Parevano fatti dello stesso tipo di cristallo nero utilizzato per i globi di vetro. Si udì un’altra esplosione echeggiare nel corridoio sottostante e, ancora una volta, le urla dei draconici inferociti.

A quanto pareva il braccialetto di Tanis respingeva ancora la magia dello stregone.

«Adesso,» disse Rounce, «tu non guarda cerchio su soffitto.» Sollevando lo sguardo, Tas rimase a bocca aperta. Sopra di lui, un cerchio delle stesse dimensioni e diametro della piattaforma sulla quale si provava aveva cominciato ad ardere di un’arcana luce biancoazzurra.

«Va bene, Rounce,» disse Tas con voce resa acuta dall’eccitazione. «Adesso, cos’è che non dovrei fare?»

«Tu non metti mani su neri globi cristallo. Tu non dire a globi quale parte andare,» rispose Rounce tirando su col naso. «Puah, tu non capire mai magia grande come questa!»

«Tanis!» gridò Tas attraverso l’apertura nel pavimento, «in che direzione si trova la Torre della Grande Stregoneria?»

Per un attimo riuscì a sentire soltanto il cozzare delle spade e qualche urlo. Poi la voce di Tanis, dando gradualmente l’impressione di avvicinarsi sempre più, mentre lui e Caramon arretravano lungo il corridoio, giunse fino a lui. «A nordovest! Quasi dritto a nordovest!»

«Bene!». Piantando saldamente i piedi nelle nere depressioni di cristallo, Tas tirò un sospiro tremante, poi sollevò le mani per appoggiarle sui globi di cristallo.

«Dannazione!» gridò deluso sollevando lo sguardo. «Sono troppo corto!»

Abbassando lo sguardo su Rounce, gli fece un cenno. «Suppongo che le mie mani non debbano essere sui globi e i piedi nei cerchi neri allo stesso tempo?»

Il kender ebbe la sgradita sensazione di conoscere già la risposta a quella domanda, il che non faceva comunque nessuna differenza, poiché essa aveva fatto precipitare Rounce in un tale stato di confusione che il nano riusciva soltanto a fissare Tas a bocca spalancata.

Fissando il nano soltanto perché, in preda alla frustrazione, aveva comunque bisogno di fissare qualcosa, Tas decise che avrebbe tentato di saltare in alto per toccare i globi. Non gli fu affatto difficile raggiungerli, ma non appena i suoi piedi si staccarono dai cerchi di cristallo nero, la luce biancoazzurra tremolò e s’indebolì.

«E adesso che cosa faccio?» gemette. «Caramon o Tanis potrebbero arrivarci facilmente, ma sono là sotto, e a giudicare dal baccano non potranno salire quassù ancora per un po’. Cosa posso fare?

Rounce!» esclamò a un tratto. «Sali su!»

Gli occhi di Rounce si restrinsero, carichi di sospetto. «Me non permesso,» disse, cominciando ad arretrare dalla piattaforma.

«Aspetta, Rounce! Non andartene!» gridò Tas. «Ascolta, tu vieni ad aiutarmi! Faremo volare insieme questo coso!»

«Me!» rantolò Rounce. I suoi occhi si spalancarono diventando rotondi come due piattini da tè.

«Volare come gran capo stregone?»

«Sì, Rounce! Basterà che tu venga su e salga in piedi sulle mie spalle, e poi...»

Un’espressione di meraviglia comparve sul volto di Rounce. «Me,» sussurrò con un sospiro estasiato, «volare come gran capo stregone!»

«Sì, Rounce, sì,» disse Tas con impazienza. «Adesso... adesso spicciati prima che il grande capo stregone ci pigli.»

«Me far presto,» disse Rounce, strisciando sulla piattaforma e di qui sulle spalle di Tas. «Me far presto. Me sempre voluto volare...»

«Ecco, ti prendo per le caviglie. Adesso... ahi! Molla i miei capelli! Li stai strappando via! Non ho nessuna intenzione di lasciarti cadere. No, mettiti in piedi... In piedi, Rounce! Alzati in piedi lentamente. Tutto andrà bene. Visto, ti tengo per le caviglie. Non ti lascerò cadere. No, no! Devi restare in equi...»

Kender e nano ruzzolarono ammucchiati l’uno sull’altro.

«Tas!» arrivò la voce ammonitrice di Caramon dalle scale.

«Un momento! Ci sono quasi arrivato,» gridò Tas tirando in piedi Rounce e scuotendolo con forza.

«Adesso, in equilibrio, in equilibrio!»

«In equilibrio, in equilibrio,» borbottò Rounce, battendo rumorosamente i denti.

Tas prese nuovamente posto sui cerchi di cristallo nero e Rounce si arrampicò di nuovo sulle sue spalle. Questa volta il nano, dopo qualche attimo di tensione e di ondeggiamenti, riuscì a tenersi ritto. Tas tirò un sospiro di sollievo. Protendendo le mani sudice, Rounce, dopo qualche inizio sbagliato, le appoggiò con cautela sui globi di cristallo nero.

Immediatamente una cortina di luce scese dal cerchio che ardeva sul soffitto, formando una parete brillante intorno a Tas e al nano. Nel soffitto comparvero delle lune che rifulsero rosse e violette.

E, con un sussulto da paralizzare il cuore, la cittadella volante cominciò a muoversi.

In fondo alla scala, sotto la Sedia di Capitan Vento, il brusco scossone fece finire per terra i draconici e il loro usufruitore di magia. Tanis cadde all’indietro contro una parete e Caramon gli sbatté addosso.

Urlando e imprecando, lo stregone Bozak lottò per rialzarsi in piedi.

Calpestando i suoi stessi uomini, che erano sparsi per il corridoio, ignorando del tutto Tanis e Caramon, il draconico cominciò a correre verso la scala che conduceva, in alto, nella stanza di Capitan Vento. «Fermalo!» grugnì Caramon, spingendosi lontano dal muro mentre la cittadella s’inclinava su un lato come una nave in procinto di affondare. «Ci proverò,» disse Tanis in un soffio, ancora ansimante per la violenta botta. «Ma credo che questo braccialetto sia ormai quasi scarico.» ....

Si lanciò verso il Bozak, ma d’un tratto la cittadella s’inclinò nella direzione opposta. Tanis mancò il colpo e rotolò al suolo. Il Bozak, interamente concentrato nel suo tentativo di fermare i ladri che stavano rubando la sua cittadella, continuò ad avanzare incespicando verso le scale. Caramon sfoderò il pugnale e prese di mira la schiena del Bozak. Ma l’arma colpì un’invisibile barriera magica che si ergeva intorno alle vesti nere e cadde innocua sul pavimento.

Il Bozak aveva appena raggiunto l’estremità inferiore della scala a chiocciola che conduceva nella stanza di Capitan Vento, gli altri draconici si stavano finalmente rialzando, e Tanis stava per aggredire di nuovo il mago, quando la cittadella fece un improvviso balzo, raddrizzandosi. Il Bozak cadde all’indietro addosso a Tanis, i draconici volarono in tutte le direzioni e Caramon, riuscendo a malapena a tenersi in piedi, balzò a sua volta sullo stregone Bozak.

L’improvvisa rotazione della torre interruppe la concentrazione del mago, l’incantesimo protettivo del Bozak venne meno. I draconici lottarono disperatamente con le mani artigliate, ma Caramon, trascinando via la creatura da Tanis, conficcò la propria spada nel corpo dell’usufruitore di magia, proprio mentre lo stregone cominciava a salmodiare un altro canto. Il corpo del draconico si dissolse all’istante in un’orribile pozza gialla, sollevando nuvolaglie di fetido fumo velenoso che turbinarono per tutta la stanza.

«Scappa!» gridò Tanis, lanciandosi, incespicando, verso una finestra aperta, tossendo. Si sporse e inspirò una lunga boccata d’aria fresca, poi rimase lì, ansante.

«Tas!» gridò. «Stiamo andando dalla parte sbagliata! Ho detto nordovest!»

Udì la voce acuta del kender, «Pensa nordovest, Rounce! Nordovest!» «Come me pensare due direzioni stesso tempo?» volle sapere una voce sconosciuta. «Vuoi andare nord, o ovest? Decidi.»

«Nordovest!» gridò Tas. «È una sola direz... Oh, non importa. Ascolta, Rounce, tu pensi nord e io penserò ovest. Potrebbe funzionare.»

Caramon chiuse gli occhi e sospirò per la disperazione, accasciandosi contro un muro.

«Tanis,» disse, «forse farai meglio a...»

«Non c’è tempo,» rispose Tanis, cupo, con la spada in pugno. «Eccoli che arrivano!»

Ma i draconici, in preda alla confusione per la morte del loro capo, e del tutto incapaci di capire quello che stava succedendo alla loro cittadella, si stavano guardando l’un l’altro lanciando occhiate oblique ai loro nemici. In quell’istante, la cittadella cambiò nuovamente direzione, dirigendosi a nordovest e nello stesso tempo abbassandosi di una ventina di piedi.

Voltandosi, inciampando, spingendo e scivolando frenetici, i draconici corsero via lungo il corridoio, scomparendo attraverso il passaggio segreto dal quale erano usciti.

«Stiamo finalmente andando nella direzione giusta,» riferì Tanis, guardando fuori dalla finestra.

Caramon lo raggiunse e vide la Torre della Grande Stregoneria avvicinarsi sempre più.

«Bene! Vediamo quello che sta succedendo,» disse Caramon, cominciando a salire le scale.

«No, aspetta!» Tanis lo fermò. «A quanto pare Tas non può vedere. Dobbiamo guidarlo noi.

Inoltre, quei draconici potrebbero tornare da un momento all’altro.

«Credo che tu abbia ragione,» annuì Caramon, sbirciando dubbioso su per le scale.

«Dovremmo arrivare là fra pochi minuti,» disse Tanis appoggiandosi stancamente contro il davanzale della finestra. «Ma credo che ci sia abbastanza tempo perché tu mi racconti quello che sta succedendo.»

«È difficile da credersi,» commentò Tanis con voce sommessa, guardando di nuovo fuori della finestra, «perfino da parte di Raistlin.»

«Lo so,» replicò Caramon, la voce velata dal dolore. «Per molto tempo non ho voluto crederci. Ma quando l’ho visto in piedi davanti al Portale e quando gli ho sentito dire quello che avrebbe fatto a Crysania, ho saputo finalmente che il male aveva corroso la sua anima.»

«Hai ragione, devi fermarlo,» disse Tanis, tendendo il braccio per stringere la mano dell’omone nella sua. «Ma, Caramon, questo significa forse che devi inseguirlo fin dentro l’Abisso? Dalamar si trova nella Torre, in attesa davanti al Portale. Certamente voi due insieme riuscirete a impedire a Raistlin di riattraversarlo. Non c’è bisogno che tu stesso varchi il Portale...»

«No, Tanis,» disse Caramon scuotendo la testa. «Ricordati che Dalamar non è riuscito a fermare Raistlin la prima volta. Qualcosa accadrà all’elfo scuro, qualcosa che gl’impedirà di adempiere alla sua missione.» Affondando la mano nel suo zaino, Caramon tirò fuori le Cronache rilegate in cuoio.

«Forse riusciremo ad arrivare là in tempo per fermarlo,» suggerì Tanis. Parlare di un futuro che era già stato descritto gli faceva provare una strana sensazione.

Sfogliando il libro fino alla pagina che aveva segnato, Caramon la scorse in fretta, poi improvvisamente accelerò il respiro, seguito da un sibilo sommesso.

«Cosa c’è?» chiese Tanis, sporgendosi per vedere. Caramon si affrettò a chiudere il libro.

«Gli succede davvero qualcosa,» borbottò l’omone, evitando lo sguardo di Tanis. «Kitiara lo uccide.»

Capitolo quinto.

Dalamar sedeva, in solitudine, nella Torre della Grande Stregoneria. I guardiani della Torre, sia i vivi sia i morti, erano ai loro posti accanto all’ingresso, in attesa... sempre vigili.

Fuori dalla finestra della Torre, Dalamar poteva contemplare la città di Palanthas in fiamme. L’elfo scuro aveva osservato il progredire della battaglia dal suo osservatorio, là in cima alla Torre. Aveva visto Lord Soth varcare la porta, aveva visto i cavalieri disperdersi e cadere, aveva visto i draconici precipitarsi giù a ondate dalla cittadella volante. E durante tutto quel tempo, nel cielo i draghi avevano continuato a battagliare, e il loro sangue cadeva come pioggia sulle strade della città.

L’ultima cosa che vide, prima che le fitte volute di fumo che s’innalzavano oscurassero la sua visione, gli mostrò la cittadella volante che stava spostandosi nella sua direzione, muovendosi lentamente e in apparenza indecisa, dando perfino l’idea, a un certo punto, di aver cambiato idea e di dirigersi di nuovo verso le montagne. Dalamar, perplesso, osservò quella scena per parecchi minuti, chiedendosi cosa mai facesse presagire. Era così che Kitiara aveva progettato di entrare nella Torre?

L’elfo scuro provò un attimo di paura. La cittadella poteva volare sopra il Bosco di Shoikan? Si rese conto che, sì, era possibile! Strinse spasmodicamente le mani. Perché non aveva previsto quella possibilità? Continuò a guardar fuori dalla finestra, imprecando contro il fumo che gli ostruiva sempre più la vista. Mentre osservava, la cittadella cambiò un’altra volta direzione, avanzando nel cielo con movimenti barcollanti, come un ubriaco alla ricerca della sua abitazione.

Ancora una volta stava avanzando verso la Torre, ma a passo di lumaca. Cosa mai stava succedendo? L’operatore era rimasto ferito? Dalamar aguzzò gli occhi cercando di veder meglio. E poi il fumo nero s’infittì ancora di più davanti alle sue finestre, oscurando completamente l’immagine della cittadella. L’odore della canapa e della pece in fiamme era terribilmente acre. I depositi, pensò Dalamar. Mentre, lanciando un’imprecazione, era sul punto di voltare le spalle alla finestra, la sua attenzione fu attirata da una breve fiammata che proveniva da un edificio posto quasi direttamente nella direzione opposta: il Tempio di Paladine. Potè vedere, perfino attraverso il fumo, il bagliore farsi sempre più intenso, e potè immaginare nella sua mente i chierici vestiti di bianco, armati di bastoni e di mazze, che invocavano Paladine mentre trucidavano i loro nemici.

Dalamar esibì un truce sorriso, scuotendo la testa mentre attraversava rapidamente la stanza, passando davanti al grande tavolo di pietra con le sue bottiglie, i vasi e i becher. Aveva spinto da parte la maggior parte di questi contenitori, facendo spazio ai suoi libri d’incantesimi, ai rotoli di pergamena e ai congegni magici. Per la centesima volta lanciò ad essi un’occhiata, accertandosi che tutto fosse pronto, passando in fretta davanti agli scaffali pieni dei libri degli incantesimi di Fistandantilus rilegati in pelle azzurro-notte, e davanti agli scaffali pieni dei libri degli incantesimi di Raistlin rilegati in pelle nera. Quando raggiunse la porta del laboratorio, Dalamar l’aprì e pronunciò una parola rivolto all’oscurità più oltre.

All’istante, un paio d’occhi luccicarono davanti a lui, il corpo spettrale tremolò apparendo e scomparendo alla sua vista come se fosse agitato da un vento caldo.

«Voglio dei guardiani in cima alla Torre,» lo istruì Dalamar.

«Dove, apprendista?»

Dalamar rifletté. «La porta d’accesso che conduce giù dalla Camminata della Morte. Appostali là.»

Gli occhi fremettero, chiudendosi in un breve segno di assenso, poi scomparvero. Dalamar fece ritorno al suo laboratorio chiudendosi la porta alle spalle. Poi esitò e si fermò. Avrebbe potuto lanciare incantesimi contro la porta, incantesimi che avrebbero impedito a chiunque di entrare.

Quella era stata una pratica usuale di Raistlin quando lì nel laboratorio eseguiva qualche delicato esperimento magico nel corso del quale la più piccola interruzione poteva rivelarsi fatale. Un respiro tirato nell’istante sbagliato poteva significare lo scatenarsi di forze magiche che avrebbero distrutto la stessa Torre. Dalamar ristette, con le dita delicate appoggiate sulla porta, le parole sulle labbra.

Poi... no, pensò. Avrebbe potuto aver bisogno d’aiuto. I guardiani dovevano essere liberi di entrare nel caso in cui lui non fosse stato in grado di eliminare gli incantesimi. Riattraversando la stanza, si sedette nella comoda poltrona che era la sua preferita, la poltrona che aveva portato lì dai propri alloggi perché contribuisse ad alleviare la stanchezza della sua veglia.

Nel caso in cui io non sia in grado di rimuovere gli incantesimi. Sprofondando nei morbidi cuscini di velluto della poltrona, Dalamar pensò alla morte. Il suo sguardo andò al Portale. Aveva l’aspetto di sempre: le cinque teste di drago, ognuna di colore diverso, il muso rivolto verso l’interno, le cinque bocche aperte in cinque silenziose grida di omaggio alla Regina delle Tenebre. Pareva sempre uguale: le teste scure e immobili, il vuoto all’interno del Portale, quell’inesprimibile vacuità immutabile. Oppure no? Dalamar sbatté le palpebre. Forse era la sua immaginazione, ma gli era parso che gli occhi di ciascuna delle teste cominciassero lievemente a irradiare luce.

L’elfo scuro provò una stretta alla gola, i palmi delle sue mani cominciarono a sudare, per cui se le sfregò sulle vesti. La morte... il morire. Sarebbe arrivato a questo? Le sue dita accarezzarono le rune d’argento ricamate sul tessuto nero, rune che avrebbero bloccato o dissolto certi attacchi magici.

Fissò le proprie mani, la bella pietra verde d’un anello guaritore vi luccicava: un potente congegno magico. Ma il suo potere poteva venire usato una sola volta.

Dalamar si affrettò a ripassare nella propria mente la lezione di Raistlin per giudicare se una ferita era mortale e richiedeva una guarigione immediata, oppure se la potenza guaritrice del congegno poteva venire risparmiata.

Dalamar rabbrividì. Poteva sentire la voce dello Shalafi che discuteva freddamente dei differenti gradi del dolore. Poteva sentire quelle dita ardere di quello strano calore interiore, tracciando le diverse sezioni della sua anatomia, indicando le aree vitali. Di riflesso, Dalamar portò la mano al petto, dove i cinque fori che Raistlin aveva bruciato nella sua pelle sanguinavano e suppuravano eternamente. Nello stesso tempo gli occhi di Raistlin avevano bruciato dentro la sua mente: simili a specchi, dorati, piatti, micidiali.

Dalamar si ritrasse. Una potente magia mi circonda e mi protegge, si disse. Sono abile nell’Arte e, anche se non abile quanto lui, lo Shalafi varcherà il Portale ferito, debole, in punto di morte! Sarà facile distruggerlo!

Le mani di Dalamar si serrarono. Allora, perché mai sto letteralmente soffocando per la paura? si chiese.

Una campana d’argento echeggiò una volta sola. Sorpreso, Dalamar si alzò dalla poltrona, la paura generata dalle fantasticherie della sua mente Venne sostituita dalla paura di qualcosa di molto reale.

E con la paura di qualcosa di concreto, di tangibile, il corpo di Dalamar divenne teso, il sangue gli scorse gelido nelle vene, le ombre scure presenti nella sua mente scomparvero. Aveva ripreso il controllo di sé.

Quel rintocco della campana d’argento significava la presenza di un intruso. Qualcuno era riuscito ad attraversare il Bosco di Shoikan e si trovava all’ingresso della Torre. Normalmente, Dalamar avrebbe lasciato il laboratorio all’istante, con le parole di un incantesimo, per affrontare lui Stesso l’intruso. Ma non osava abbandonare il Portale. Voltandosi per dargli un’occhiata, l’elfo scuro annuì lentamente fra sé. No, non era stata la sua immaginazione, gli occhi delle teste di drago ardevano davvero. Gli parve perfino di vedere il vuoto al suo interno agitarsi e spostarsi, come se un’increspatura avesse percorso la sua superficie.

No, non osava andarsene. Doveva fidarsi dei guardiani. Incamminandosi verso la porta, piegò la testa, ascoltando. Ebbe impressione di udire dei deboli suoni provenire da sotto, un grido soffocato, un cozzare d’acciaio. Poi più nulla, soltanto silenzio. Attese, trattenendo il fiato, sentendo soltanto il battito del proprio cuore.

Nient’altro.

Dalamar sospirò. I guardiani dovevano essersi occupati della faccenda. Si allontanò dalla porta e attraversò il laboratorio per guardar fuori dalla finestra, ma non riuscì a vedere nulla. Il fumo era fitto come nebbia. Udì un lontano rombo di tuono, o forse si trattava di un’esplosione. Chi si era trovato là sotto? si scoprì a chiedersi. Qualche draconico, forse? Avido di altre uccisioni, di altro bottino. Uno di loro poteva essere riuscito a passare...

Non che avesse importanza, si disse con freddezza. Una volta che tutto fosse finito, sarebbe sceso laggiù per esaminare il cadavere...

«Dalamar!»

Dalamar sentì il cuore balzargli in gola, al suono di quella voce si sentì percorrere sia dalla paura sia dalla speranza.

«Cautela, cautela, amico mio,» bisbigliò fra sé. «Ha tradito suo fratello. Non fidarti di lei.»

Eppure scoprì che le mani gli tremavano mentre attraversava lentamente il laboratorio in direzione della porta.

«Dalamar!». Di nuovo la sua voce, tremante di dolore e di terrore. Si udì un tonfo contro la porta, il fruscio di un corpo che scivolava lungo di essa. «Dalamar,» lei chiamò di nuovo, con voce ancora più debole.

La mano di Dalamar era sulla maniglia. Alle sue spalle, gli occhi dei draghi ardevano rossi, bianchi, azzurri, verdi e neri.

«Dalamar,» mormorò ancora Kitiara con voce fioca. «Sono... sono venuta ad aiutarti.»

Dalamar aprì lentamente la porta del laboratorio. Kitiara giaceva sul pavimento ai suoi piedi. Alla vista di lei, Dalamar esalò un profondo sospiro. Se un tempo la donna aveva indossato un’armatura, adesso le era stata strappata dal corpo da mani inumane. Poteva vedere i segni delle loro unghie sulle sue carni. L’indumento nero e attillato che indossava sotto l’armatura era stato strappato e quasi ridotto a brandelli, esponendo la sua pelle abbronzata, il suo seno bianco. Il sangue colava da un’orrenda ferita alla gamba, i suoi gambali di cuoio erano a pezzi. Eppure, lei sollevò lo sguardo su di lui con occhi limpidi, occhi che non avevano paura. In mano stringeva il Gioiello della notte, il talismano che Raistlin le aveva dato per proteggerla mentre si trovava nel Bosco.

«Sono stata forte... appena appena,» bisbigliò Kitiara, dischiudendo le labbra in quel sorriso furfantesco che faceva bruciare il sangue a Dalamar. Sollevò le braccia. «Sono venuta da te.

Aiutami ad alzarmi.»

Dalamar si curvò, afferrò Kitiara e la sollevò in piedi. Lei gli si accasciò addosso. Dalamar potè sentire il tremito che squassava il suo corpo, e scosse la testa, sapendo che il veleno era all’opera nel suo sangue. Cingendola con un braccio, la trasportò quasi di peso dentro il laboratorio e chiuse la porta alle loro spalle.

Il peso di lei sul suo corpo aumentò. Kitiara roteò gli occhi all’indietro. «Oh, Dalamar,» mormorò, e lui vide che era sul punto di perdere i sensi. La cinse completamente fra le braccia. Kitiara appoggiò il capo contro il suo petto, esalando un grato sospiro di sollievo.

Dalamar poteva sentire la fragranza dei suoi capelli: quello strano odore, una mescolanza di profumo e di acciaio. Il corpo gli fremette tra le braccia. Dalamar la strinse ancora di più. Aprendo gli occhi, lei appuntò lo sguardo sul suo. «Mi sento meglio, adesso,» bisbigliò. Le sue mani scivolarono verso il basso...

Dalamar vide brillare troppo tardi quegli occhi castani. Troppo tardi vide contorcersi quel sorriso furfantesco. Troppo tardi sentì sussultare la mano di lei, e la rapida, dolorosa trafittura quando il suo pugnale gli penetrò nel corpo.

«Be’, ce l’abbiamo fatta,» urlò Caramon, guardando giù dal cortile della cittadella volante che si stava sgretolando, mentre si librava sopra le cime degli alberi scuri del Bosco di Shoikan.

«Sì, per lo meno fino a questo punto,» borbottò Tanis. Perfino da quella posizione vantaggiosa, così in alto sopra la foresta maledetta, poteva percepire le gelide ondate di odio e di bramosia di sangue che si levavano, cercando di ghermirli come se i guardiani potessero, perfino adesso, trascinarli sotto. Tremando, Tanis costrinse il proprio sguardo a volgersi là dove la cima della Torre della Grande Stregoneria si profilava più vicina.

«Se riusciremo ad avvicinarci abbastanza,» urlò rivolto a Caramon al di sopra del vento che gli fischiava nelle orecchie, «potremo lasciarci cadere su quella passerella che gira intorno alla cima.»

«La Passerella della Morte,» replicò Caramon con voce cupa. «Cosa?»

«La Passerella della Morte!» Caramon si avvicinò di più, facendo attenzione a dove metteva i piedi, mentre gli alberi scuri scorrevano sotto di loro come le onde di un oceano nero. «E là che si trovava il mago malvagio quando lanciò la maledizione sulla Torre. È da quel punto che è saltato giù.»

«Un posticino allegro e simpatico,» bofonchiò Tanis da sotto la barba, fissandolo tetro. Il fumo continuava a turbinare intorno a loro, nascondendo la vista degli alberi. Il mezzelfo cercò di non pensare a ciò che Stava succedendo nella città. Aveva già intravisto il Tempio di Paladine in fiamme.

«Tu sai, naturalmente,» urlò, afferrando Caramon per la spalla, mentre se ne stavano lì, protesi oltre l’orlo del cortile della cittadella, «che non è affatto improbabile che Tasslehoff vada a schiantarsi direttamente contro quell’affare.»

«Siamo arrivati fin qui,» mormorò Caramon. «Gli dei sono con noi.» Tanis sbatté le palpebre, chiedendosi se avesse sentito bene. «Questo non mi pare il vecchio Caramon tutta giovialità,» dichiarò, con un sogghigno.

«Quel Caramon è morto, Tanis,» replicò Caramon in tono deciso, con gli occhi sempre fissi sulla Torre che si stava avvicinando.

A quella vista, il sogghigno di Tanis si addolcì. «Mi spiace,» fu tutto quello che riuscì a pensare, appoggiando goffamente una mano sulla spalla di Caramon.

Caramon lo guardò con occhi limpidi e luminosi. «No, Tanis,» disse.

«Par-Salian mi ha detto, quando mi mandò indietro nel tempo, che stavo andando nel passato “per salvare un’anima”. Nient’altro. Nient’altro.» Ebbe un triste sorriso. «Pensavo che intendesse parlare dell’anima di Raistlin. Adesso capisco che non era così. Intendeva parlare della mia.» Il corpo dell’omone divenne teso. «Avanti,» esclamò in tono deciso, cambiando argomento all’improvviso,

«siamo abbastanza vicini per saltare giù.»

Un terrazzo che circondava la Torre era comparso sotto di loro, a stento visibile in mezzo ai vortici di fumo. Guardando giù, Tanis si sentì rattrappire lo stomaco. Malgrado sapesse che era impossibile, gli parve che la Torre stesse traballando là sotto, mentre lui era perfettamente immobile. Gli era parsa talmente enorme mentre si stavano avvicinando! Adesso sarebbe stato lo stesso se avesse avuto l’intenzione di saltare giù da un vallenwood per atterrare sul tetto del castello - giocattolo d’un bambino.

Per peggiorare ancora di più le cose, la cittadella continuava a volare avvicinandosi sempre più alla Torre. Tanis ebbe l’impressione che le punte rossosangue dei minareti neri che la sormontavano danzassero mentre la cittadella sobbalzava avanti e indietro, in alto e in basso.

«Salta!» gridò Caramon, lanciandosi nel vuoto.

Un turbine di fumo passò accanto a Tanis. La cittadella si stava ancora muovendo. D’un tratto una gigantesca colonna di roccia nera si profilò direttamente davanti a lui. O saltava, o sarebbe rimasto schiacciato. Freneticamente, Tanis saltò giù, e quasi nel medesimo istante udì sopra di sé un orrendo crepitio e un franare di sassi. Stava cadendo nel nulla, il fumo gli mulinava intorno... e poi ebbe una frazione di secondo per smorzare l’impatto della caduta quando le pietre della Passerella della Morte si materializzarono sotto i suoi piedi.

Atterrò con un tonfo stridente che scosse ogni singolo osso del suo corpo, lasciandolo stordito e senza fiato. Ebbe abbastanza buon senso da rotolarsi sullo stomaco, coprendosi la testa con le braccia, mentre una pioggia di rocce gli cadeva intorno.

Caramon era balzato subito in piedi, ruggendo, «A nord! A nord!»

A Tanis parve di udire, estremamente fioca, una voce stridula che urlava dalla cittadella sopra di lui: «Nord! Nord! Nord! Dobbiamo dirigere dritti a nord!»

Gli schianti e il franare cessarono. Sollevando con cautela la testa, Tanis vide, attraverso un’increspatura del fumo, la cittadella volante che si allontanava nella nuova direzione, ondeggiando leggermente, puntando dritta verso il palazzo di Lord Amothus.

«Tutto a posto?» Caramon aiutò Tanis a rialzarsi.

«Sì,» bofonchiò il mezzelfo con voce scossa. Si asciugò il sangue alla bocca. «Mi sono morso la lingua... Accidenti, se fa male!»

«L’unico modo per scendere è da questa parte,» disse Caramon, facendogli strada attorno alla Passerella della Morte. Giunsero ad un arco incavato nella pietra nera della Torre. C’era una piccola porta chiusa e sbarrata.

«Probabilmente ci saranno delle guardie,» fece notare Tanis a

Caramon il quale, arretrando, si preparava a scagliarsi con tutto il suo peso contro la porta.

«Già,» grugnì l’omone. Prese una breve rincorsa e si lanciò in avanti, Schiantandosi contro la porta.

Questa fremette e scricchiolò, il legno si scheggiò lungo le sbarre di ferro ma resse. Sfregandosi la spalla, Caramon arretrò. Squadrò la porta, concentrò su di essa tutte le sue forze, «si schiantò ancora una volta contro di essa. Questa volta la porta cedette con un boato, trascinando Caramon con sé.

Tanis si affrettò a seguirlo, sbirciando intorno a sé nell’oscurità piena di fumo. Trovò Caramon disteso sul pavimento, circondato da frammenti di legno. Il mezzelfo fece per porgere una mano all’amico, quando all’improvviso si fermò, lo sguardo come pietrificato.

«In nome dell’Abisso!» imprecò, col respiro che gli si era mozzato in gola.

Caramon si affrettò ad alzarsi in piedi. «Sì,» disse guardingo. «Non è la prima volta che li incontro.»

Due paia di occhi disincarnati, che ardevano di un’arcana, gelida luce bianca, fluttuavano davanti a loro.

«Non lasciare che ti tocchino,» lo ammonì Caramon a bassa voce. «Ti succhiano la vita dal corpo.»

Gli occhi si avvicinarono ancora di più.

Caramon si affrettò a portarsi davanti a Tanis, affrontando gli occhi. «Sono Caramon Majere, fratello di Fistandantilus,» disse con voce sommessa. «Mi conosci. Mi hai già visto, in un’epoca trascorsa da molto tempo.»

Gli occhi si arrestarono, Tanis sentiva in modo quasi palpabile il loro gelido esame. Lentamente sollevò il braccio. La fredda luce degli occhi del guardiano trasse foschi riflessi dal braccialetto d’argento.

«Sono amico del tuo padrone, Dalamar,» dichiarò cercando di mantenere ferma la voce. «Mi ha dato questo braccialetto,» Tanis sentì, d’un tratto, una fredda stretta al braccio. Rantolò in preda a un dolore che parve penetrargli direttamente fino al cuore. Barcollando, quasi cadde per terra, ma Caramon lo afferrò appena in tempo.

«Il braccialetto non c’è più,» disse Tanis a denti stretti.

«Dalamar!» urlò Caramon, la sua voce rimbombò assordante nella camera. «Dalamar! Sono

Caramon! Il fratello di Raistlin! Devo entrare nel Portale! Io posso fermarlo! Richiama i guardiani, Dalamar!»

«Forse è troppo tardi,» disse Tanis fissando quegli occhi pallidi, che lo fissavano a loro volta.

«Forse Kit è arrivata qui per prima. Forse lui è morto...»

«Allora lo siamo anche noi,» concluse Caramon con voce sommessa.

Capitolo sesto.

«Maledizione a te, Kitiara,» esclamò Dalamar con la voce soffocata per il dolore. Barcollando all’indietro, si premette la mano sul fianco e sentì il suo stesso sangue scorrergli caldo fra le dita.

Non c’era nessun sorriso di esultanza sul volto di Kitiara, piuttosto un’espressione di paura, poiché si avvide di aver mancato il colpo che avrebbe dovuto ucciderlo. Perché? si chiese in preda al furore. Aveva ucciso cento uomini in quel modo! Perché aveva sbagliato proprio adesso? Lasciò cadere il pugnale e sfoderò la spada, lanciandosi in avanti in un unico movimento.

La spada sibilò per la forza con cui era stato sferrato il colpo, ma colpì una parete solida, le scintille crepitarono quando il metallo entrò in contatto con lo schermo magico che Dalamar aveva creato intorno a sé, e una scossa paralizzante sfrigolò su per la lama, attraverso l’elsa e lungo il braccio della donna. La spada le cadde dalla mano ormai senza forza. Stringendosi il braccio, la stupefatta Kitiara cadde in ginocchio.

Dalamar ebbe il tempo di riprendersi dallo shock della ferita. Gli incantesimi difensivi che aveva lanciato erano stati un riflesso, il risultato di anni di addestramento. In effetti non aveva avuto neppure bisogno di pensarci. Ma adesso fissò cupo la donna sul pavimento davanti a sé, la quale stava cercando di afferrare la spada con la mano sinistra, mentre fletteva la destra cercando di recuperare la sensibilità.

La battaglia era appena cominciata.

Kitiara si rialzò contorcendosi come un gatto, con gli occhi che le ardevano per la rabbia e la bramosia quasi sessuale che la consumavano quando combatteva. Dalamar aveva già visto quell’espressione negli occhi di qualcun altro, in quelli di Raistlin quand’era smarrito nell’estasi della sua magia.

L’elfo scuro deglutì per liberarsi da una sensazione di soffocamento che avvertiva alla gola, e cercò di scacciare il dolore e la paura dalla propria mente, sforzandosi di concentrarsi soltanto sui suoi incantesimi.

«Non indurmi a ucciderti, Kitiara,» disse cercando di guadagnare tempo, sentendo che di momento in momento stava diventando più forte. Doveva conservare quella forza. Gli sarebbe servito ben poco fermare Kitiara e finire poi ucciso per mano del fratello.

Il suo primo pensiero fu quello di chiamare i guardiani. Ma lo respinse. Kitiara era già riuscita a superarli una volta, probabilmente usando il Gioiello della notte. Arretrando davanti alla Signora dei Draghi, Dalamar si avvicinò un poco per volta alla scrivania di pietra, dove si trovavano i suoi congegni magici. Con la coda dell’occhio intravide un luccichio d’oro, una bacchetta magica. Il suo sincronismo avrebbe dovuto essere perfetto. Avrebbe dovuto dissolvere lo schermo protettivo per usare la bacchetta magica contro Kit. E vide negli occhi di Kitiara che lei lo sapeva. Stava aspettando che lui lasciasse cadere lo schermo, il momento preciso...

«Sei stata ingannata, Kitiara,» disse Dalamar con voce sommessa, sperando di distrarla.

«Da te!» lei lo derise. Sollevando un candelabro dalle molte braccia, lo scagliò addosso a Dalamar.

Il candelabro rimbalzò contro lo schermo magico, cadendo ai piedi dell’elfo scuro. Una voluta di fumo si levò dal tappeto, ma il piccolo incendio si spense quasi all’istante, soffocato dalla cera fusa delle candele.

«Da Lord Soth,» spiegò Dalamar.

«Ah,» rise Kitiara, scagliando un becher di vetro contro lo schermo. Il becher s’infranse in mille frammenti luccicanti.

Seguì un altro candelabro. Kitiara aveva già combattuto altre volte contro gli usufruitori di magia.

Sapeva come sconfiggerli. Con i suoi proiettili non intendeva colpire, ma soltanto indebolire il mago, costringerlo a sprecare le sue forze per mantenere lo schermo, per fargli pensare due volte prima di abbassarlo.

«Perché mai pensi di aver trovato Palanthas fortificata?» disse ancora Dalamar, continuando ad arretrare, avvicinandosi sempre più al tavolo di pietra. «Te l’eri aspettato? Soth mi ha rivelato i suoi piani! Mi ha rivelato che avresti attaccato Palanthas per cercare di aiutare tuo fratello! Quando Raistlin varcherà il Portale attirando dietro di sé la Regina delle Tenebre, Kitiara sarà qui ad accoglierlo come una sorella amorevole!».

Kitiara ristette, la sua spada si abbassò di una frazione di pollice. «Te l’ha detto questo, Soth?»

«Sì,» disse Dalamar avvertendo con sollievo la sua esitazione e l’improvvisa confusione. Il dolore della ferita si era un po’ attenuato. Si azzardò a dare un’occhiata al profondo taglio. Le vesti vi si erano appiccicate sopra formando una rozza fasciatura. Lo sgocciolio del sangue era quasi cessato.

«Perché?» Kitiara sollevò le sopracciglia con espressione canzonatoria. «Perché mai Soth dovrebbe tradirmi, elfo scuro?»

«Perché vuole te, Kitiara,» rispose Dalamar con voce sommessa. «Ti vuole alla sola maniera con la quale può averti...»

Una gelida lama di terrore trafisse Kitiara fin nel profondo dell’anima. Ricordò la strana intonazione della voce cavernosa di Lord Soth. Ricordò che era stato lui a consigliarle di attaccare Palanthas. Traboccante di rabbia, Kitiara rabbrividì, scossa da tremiti convulsi. Vedendo i lunghi graffi che le deturpavano le braccia e le gambe, sentendo di nuovo i gelidi artigli di coloro che li avevano causati, si rese conto con amarezza che erano avvelenati.

Veleno. Lord Soth. Non riusciva a pensare. Sollevando lo sguardo, Stordita, vide Dalamar che sorrideva. Rabbiosa gli voltò le spalle per nascondere le proprie emozioni, per riprendere il controllo di sé.

Dalamar, tenendola d’occhio, si avvicinò ancora di più al tavolo di pietra, adocchiando la bacchetta che gli serviva. Kitiara si accasciò, piegando la testa. Stringeva debolmente la spada nella mano destra, bilanciando la lama con la sinistra, fingendo di essere gravemente ferita. Intanto sentiva le forze tornarle nel braccio intorpidito. Che Dalamar pensasse pure di aver vinto. Sarò pronta, quando mi attaccherà. Nell’istante in cui pronuncerà la prima parola magica lo taglierò in due! La sua mano si strinse sull’elsa della spada.

Ascoltò con attenzione, ma non sentì niente, soltanto il lieve fruscio delle vesti nere, il doloroso ansimare dell’elfo scuro. Era vero, si chiese, quello che Dalamar le aveva detto di Lord Soth? E se era vero, aveva importanza? Kitiara trovava l’idea piuttosto divertente. C’erano uomini che avevano fatto anche di più pur di averla. Ma lei era ancora libera. Si sarebbe occupata di Soth più tardi.

L’incuriosiva di più ciò che Dalamar aveva detto di Raistlin. Possibile che potesse vincere?

Avrebbe condotto la Regina delle Tenebre su questo piano? Questo pensiero sgomentava Kitiara... la sgomentava e la angosciava.

«Ti sono stata utile una volta, non è vero, Maestà Oscura?» bisbigliò. «Una volta, quand’eri soltanto una debole ombra su questo lato dello specchio. Ma quando sarai forte, che posto rimarrà per me su questo mondo? Nessuno! Perché tu mi odi e mi temi persino più di quanto io stessa ti odio e ti temo.

«In quanto a quel verme sbavante di mio fratello, ci sarà qualcuno ad aspettarlo: Dalamar! Tu, Dalamar, appartieni al tuo Shalafi anima e corpo! Tu hai intenzione di aiutarlo, non di ostacolarlo, quando varcherà il Portale! No, mio caro amante, non mi fido di te! Non oso fidarmi di te!»

Dalamar vide Kitiara rabbrividire, vide le ferite sul suo corpo diventare d’un azzurro purpureo. Si stava indebolendo, certo. L’aveva vista impallidire quando aveva nominato Soth, per un istante i suoi occhi si erano dilatati per la paura. Sicuramente doveva essersi resa conto di essere stata tradita. Adesso doveva aver sicuramente capito la sua grande follia. Non che avesse importanza, non adesso. Non si fidava di lei, non osava fidarsi di lei...

Dalamar sporse la mano dietro di sé con un movimento serpeggiante. Afferrò la bacchetta e la sollevò, pronunciando la parola magica che disperdeva lo schermo protettivo. In quell’istante Kitiara si girò di scatto. Stringendo la spada con entrambe le mani, calò un fendente con tutte le sue forze. Il colpo avrebbe spiccato di netto la testa di Dalamar dal collo, se lui non si fosse girato a metà per afferrare la bacchetta.

Così invece la lama lo colse dietro alla spalla destra, scendendo in profondità nelle sue carni, fracassandogli la scapola, quasi troncandogli il braccio.

Dalamar lasciò cadere la bacchetta con un urlo, ma non prima di avere scatenato il suo potere magico. Un lampo scoccò, biforcandosi, la sua raffica sfrigolante colpì Kitiara al petto, facendola volare all’indietro, sbattendola contro il pavimento.

Dalamar si accasciò sul tavolo, vacillando per il dolore. Il sangue gli zampillava ritmicamente dal braccio. Per un istante lo fissò istupidito, senza capire, poi le lezioni di anatomia di Raistlin gli ritornarono alla memoria. Quello che sgorgava era il sangue del suo cuore. Sarebbe morto entro pochi secondi. Aveva l’anello della guarigione alla mano destra, quella del braccio ferito.

Indebolito, allungò la mano, afferrò la pietra e pronunciò le semplici parole che attivavano la magia.

Poi perse conoscenza, e il suo corpo scivolò sul pavimento per giacere in una pozza del suo stesso sangue.

«Dalamar!» Una voce chiamò il suo nome. L’elfo scuro si mosse immerso nel torpore. Il dolore gli trafisse il corpo. Gemette e lottò, risprofondando nel buio. Ma la voce urlò di nuovo. I ricordi gli tornarono, e con i ricordi la paura. La paura gli fece riprendere conoscenza. Cercò di rizzarsi a sedere, ma il dolore lo trafisse, quasi facendolo svenire di nuovo. Poteva sentire le estremità fratturate delle ossa che scricchiolavano, sfregandosi le une contro le altre. Il braccio destro e la mano gli pendevano sul fianco inerti e senza vita. L’anello aveva arrestato il fiotto di sangue.

Sarebbe vissuto, ma l’avrebbe fatto soltanto per morire per mano del suo Shalafi «Dalamar!» gridò di nuovo la voce. «Sono Caramon!» Dalamar trasse un lungo sospiro di sollievo. Sollevò la testa, un movimento che richiedeva uno sforzo supremo, e guardò il Portale. Gli occhi dei draghi stavano diventando ancora più luminosi, il bagliore pareva estendersi perfino lungo il collo. Adesso il vuoto si stava decisamente agitando. Potè sentire un vento caldo sulla guancia, o forse era la febbre che ardeva dentro di lui. Udì un fruscio in un angolo in ombra sul lato opposto della stanza, e fu afferrato da un’altra paura. No! Era impossibile che lei potesse essere ancora viva! Serrando i denti per vincere il dolore, Dalamar girò la testa. Potè vedere il suo corpo rivestito dai brandelli d’armatura che rifletteva il bagliore degli occhi dei draghi. Giacque immobile, fermo in mezzo alle Ombre. Poteva sentire il puzzo della carne bruciata. Ma quel rumore...

Dalamar chiuse gli occhi, affaticato. L’oscurità vorticava nella sua testa, minacciando di trascinarlo giù. Non poteva ancora riposare! Combattendo contro il dolore si costrinse a riprendere conoscenza, chiedendosi come mai Caramon non arrivasse. Sentì che lo chiamava di nuovo. Cosa mai stava succedendo? E poi Dalamar ricordò, i guardiani! Certo, non l’avrebbero mai lasciato passare!

«Guardiani, ascoltate le mie parole e obbedite,» cominciò a dire Dalamar, concentrando i suoi pensieri e le sue energie, mormorando le parole che avrebbero aiutato Caramon a superare i terribili difensori della Torre e a entrare nella stanza.

Dietro a Dalamar le teste di drago si ersero ancora più luminose, mentre davanti a lui, in un angolo in ombra, una mano affondò in una cintura intrisa di sangue e, allo stremo delle forze, strinse l’elsa di un pugnale.

«Caramon,» sussurrò Tanis, fissando gli occhi che l’osservavano, «potremmo andarcene. Risalire le scale. Forse c’è un’altra strada...»

«Non c’è. E non ho intenzione di andarmene,» replicò Caramon cocciuto.

«In nome degli dei, Caramon! Non puoi combattere contro queste dannate creature!»

«Dalamar!» chiamò di nuovo Caramon in preda alla disperazione. «Dalamar, io...»

All’improvviso, come se qualcuno li avesse spenti, quegli occhi ardenti scomparvero.

«Se ne sono andati!» esclamò Caramon lanciandosi in avanti. Ma Tanis lo trattenne.

«Un trucco...»

«No.» Caramon lo trascinò con sé. «Puoi sentirli, anche quando non sono visibili. Io non riesco più a sentirli. E tu?»

«Sento qualcosa,» borbottò Tanis.

«Ma non sono loro e non riguarda noi!» esclamò Caramon, scendendo di corsa la scala a chiocciola che partiva dalla sommità della Torre. In fondo alla scala un’altra porta era aperta. Qui, Caramon si fermò, sbirciando con cautela dentro la parte principale dell’edificio.

Dentro faceva buio, buio come se la luce non fosse stata ancora creata. Le torce erano state spente.

Non c’era nessuna finestra che permettesse neppure alla luce offuscata dal fumo fuori della Torre di filtrare all’interno. Tanis ebbe l’improvvisa visione di se stesso che, entrato in quell’oscurità, scompariva per sempre, cadendo dentro il denso male divorante che permeava ogni roccia e ogni pietra. Al suo fianco sentì il respiro di Caramon farsi più rapido, mentre il corpo dell’omone si faceva teso.

«Caramon, cosa c’è là?»

«Là non c’è niente. Soltanto una lunga caduta fin sul fondo. Il centro della Torre è cavo, ci sono scale che corrono fiancheggiando il muro, stanze che si affacciano sulle scale. Adesso, se ricordo bene, sono su un angusto pianerottolo. Il laboratorio si trova all’incirca un paio di rampe più in basso, rispetto a questo punto.» La voce di Caramon s’interruppe. «Dobbiamo proseguire! Stiamo perdendo tempo! Lui si sta avvicinando!». Afferrò Tanis e continuò con più calma. «Su, basta che ti tenga vicino alla parete. Questa scala conduce giù fino al laboratorio...»

«Un passo falso in questa maledetta oscurità, e per noi non avrà più nessuna importanza cosa farà tuo fratello!» disse Tanis. Ma sapeva che le sue parole erano inutili. Per quanto fosse cieco, in quella notte eterna e soffocante, riuscì quasi a vedere il volto di Caramon tendersi risoluto. Sentì l’omone che trascinava un piede in avanti, cercando di procedere continuando a tastare la parete.

Con un sospiro, Tanis si preparò a seguirlo... poi gli occhi tornarono, appuntandosi su di loro. Tanis portò d’istinto la mano alla spada: un gesto stupido e inutile. Ma gli occhi si limitarono a fissarli, niente più. Poi una voce parlò: «Venite. Da questa parte.» Una mano si agitò nel buio. Non riusciamo a vedere niente, dannazione!» ringhiò Tanis. comparve una luce spettrale, stretta in quella mano devastata. Tanis vide. Malgrado tutto, preferiva l’oscurità. Ma non disse niente, poi Caramon si era messo a scendere di corsa le scale, una rampa dopo l’altra. Arrivati in fondo, gli occhi e la mano e la luce si arrestarono. Davanti a loro c’era una porta aperta, e più oltre una stanza.

All’interno della stanza una vivida luce splendeva, uscendo a fiotti anche nel corridoio. Caramon si precipitò in avanti e Tanis lo seguì, affrettandosi a chiudere la porta alle proprie spalle, in modo che quegli orribili occhi non potessero seguirli.

Si girò e si fermò, ispezionando con lo sguardo l’intera stanza, e si rese conto d’un tratto di dove si trovava: nel laboratorio di Raistlin. Tanis, restette, stordito, il corpo premuto contro la porta, osservò Caramon che si precipitava in avanti per inginocchiarsi accanto ad una figura rannicchiata sul pavimento in una pozza di sangue. Dalle vesti nere, Tanis capì che si trattava di Dalamar. Ma non riuscì a reagire, non riuscì a muoversi.

Il male fuori della porta era stato soffocante, polveroso, vecchio di secoli. Ma il male qua dentro era vivo... viveva e palpitava e pulsava. Il gelo s’irradiava dai libri d’incantesimi sugli scaffali, rilegati in azzurro notte, il suo calore emanava da una nuova serie di libri d’incantesimi rilegati in nero, contrassegnati da rune in forma di clessidra, che si trovavano accanto ai primi. Il suo sguardo inorridito fissò dentro i becher, e negli occhi torturati che lo fissavano. Si sentì soffocare dall’odore delle polveri, delle muffe, dei funghi e delle rose e, da qualche parte, dall’odore dolciastro della carne bruciata.

Poi il suo sguardo venne attirato e trattenuto da una luce ardente che si irradiava da un angolo.

Quella luce era bellissima, eppure lo colmò di sgomento e terrore, ricordandogli vividamente il suo incontro con la regina delle Tenebre. Fissò la luce come ipnotizzato, incapace di rivolgere altrove lo sguardo, e vide la luce separarsi in parti distinte, assumendo la forma di cinque teste di drago.

Una porta! Tanis se ne rese conto d’un tratto. Cinque teste si levavano su di una predella dorata, creando una forma ovale con i lunghi colli.

Ognuno di essi era piegato all’interno, con la bocca aperta in un grido pietrificato. Tanis guardò al di là delle teste di drago, il vuoto dentro l’ovale. Là dentro non c’era niente, ma quel niente si muoveva. Tutto era vuoto e vivo. All’improvviso, istintivamente, seppe dove conduceva quella porta, e questa consapevolezza lo raggelò.

«Il Portale,» disse Caramon, vedendo Tanis sbiancarsi in volto e strabuzzare gli occhi. «Vieni qui, dammi una mano.»

«Vai là dentro?» bisbigliò Tanis, selvaggiamente, sbalordito dalla calma dell’omone. Attraversò la stanza e si arrestò accanto all’amico. «Caramon, non essere sciocco!»

«Non ho nessuna scelta, Tanis,» dichiarò Caramon, con quella nuova espressione di tranquilla decisione sul volto. Tanis fece per obbiettare, ma Caramon gli voltò le spalle, tornando accanto all’elfo scuro ferito.

«Ho visto cosa accadrà!» ricordò a Tanis.

Inghiottendo le proprie parole, soffocando su di esse, Tanis s’inginocchiò accanto a Dalamar. L’elfo scuro era riuscito a mettersi in posizione seduta, così da poter fronteggiare il Portale. Era ripiombato nell’incoscienza ma, al suono delle loro voci, i suoi occhi si spalancarono.

«Caramon!» rantolò, allungando una mano tremante. «Tu devi fermare...»

«Lo so, Dalamar,» disse Caramon con gentilezza. «So quello che devo fare. Ma ho bisogno del tuo aiuto! Dimmi...»

Le palpebre di Dalamar sbatterono e si chiusero, la sua pelle era color cenere. Tanis toccò il petto di Dalamar per percepire il battito vitale del giovane elfo. La sua mano aveva appena toccato la pelle del mago quando qualcosa risuonò. Qualcosa stridette contro il suo braccio, colpendo l’armatura e rimbalzando, per poi cadere sferragliando sul pavimento. Abbassando lo sguardo, Tanis vide un pugnale macchiato di sangue.

Sorpreso, si girò di scatto, balzando in piedi con una contorsione, la spada in pugno.

«Kitiara,» bisbigliò Dalamar con un debole cenno del capo.

Scrutando le ombre del laboratorio, Tanis intravide un corpo in un angolo.

«Naturalmente,» mormorò Caramon. «È così che lo uccise.» Tirò su il pugnale da terra. «Questa volta sei stato tu, Tanis, a bloccare il suo lancio.»

Ma Tanis non lo sentì. Rinfoderando la spada, attraversò la stanza, camminando sopra i vetri rotti senza neanche accorgersene, scalciando via un candelabro d’argento che gli era rotolato sotto i piedi.

Kitiara giaceva distesa sullo stomaco, con una guancia premuta contro il pavimento insanguinato, i capelli scuri che le ricadevano sugli occhi. Pareva che il lancio del pugnale avesse esaurito le sue ultime energie. Tanis, avvicinandosi a lei, agitato da un turbine di emozioni, era certo che doveva esser morta.

Ma la volontà indomita che aveva condotto un suo fratello attraverso la tenebra e un altro nella luce, bruciava ancora dentro Kitiara. Sentì un rumore di passi... il suo nemico.

La sua mano si mosse a stringere debolmente la spada. Alzò la testa, sollevò lo sguardo, con occhi che andavano rapidamente oscurandosi.

«Tanis?» lo fissò, perplessa, confusa. Dove si trovava? Flotsam? Erano là di nuovo, insieme?

Certo! Era tornato da lei! Sorridendo, sollevò una mano verso di lui.

Tanis trattenne il fiato, lo stomaco gli si contorse. Mentre lei si muoveva, vide un foro annerito spalancato nel suo petto. Le sue carni erano bruciate, e sotto Tanis potè distinguere il biancore delle ossa. Era una vista talmente macabra che Tanis, nauseato e sopraffatto da un’ondata di ricordi, fu costretto a girare altrove la testa.

«Tanis!» gridò una voce rotta. «Vieni da me!»

Con il cuore colmo di pietà, Tanis s’inginocchiò accanto a lei per sollevarla tra le braccia. Kitiara alzò lo sguardo sul suo viso... e vide la propria morte negli occhi di lui. Fu scossa dalla paura. Lottò per alzarsi.

Ma lo sforzo fu troppo grande per lei. Si accasciò.

«Sono... ferita,» disse rabbiosa in un bisbiglio. «Quanto... grave?» Sollevò una mano e cominciò a toccarsi le ferite.

Strappandosi di dosso il mantello, Tanis l’avvolse intorno al corpo Straziato di Kitiara. «Riposati, Kit,» le disse con voce gentile. «Guarirai. Ti rimetterai in forze.»

«Sei un maledetto bugiardo!» gridò lei, serrando le mani a pugno, facendo eco, se soltanto l’avesse saputo, al morente Elistan. «Mi ha ucciso! Quell’elfo disgraziato!». Sorrise, un sorriso spettrale.

Tanis rabbrividì. «Ma l’ho sistemato per bene! Adesso non potrà più aiutare Raistlin. La Regina delle Tenebre lo ucciderà, li ucciderà tutti!»

Gemendo, si dibatté in preda all’agonia e si aggrappò a Tanis. Lui la tenne stretta. Quando il dolore si alleviò, lei sollevò lo sguardo su di lui. «Sei uno smidollato,» bisbigliò con un tono di voce che era in parte amaro disprezzo, in parte amaro rincrescimento. «Avremmo potuto avere un mondo, tu ed io.»

«Io ho il mondo, Kitiara,» replicò Tanis con voce sommessa, il cuore lacerato dalla ripugnanza e dal dolore.

Kitiara scosse la testa con rabbia e parve sul punto di dire qualcos’altro quando i suoi occhi si spalancarono, lo sguardo fisso su qualcosa all’estremità più lontana della stanza.

«No!» gridò in preda a un terrore che nessuna tortura o sofferenza sarebbero riuscite a strapparle.

«No!». Ritraendosi, rannicchiandosi addosso a Tanis, bisbigliò con voce convulsa e strozzata, «Non lasciare che mi prenda! Tanis, no! Tienilo lontano! Ti ho sempre amato, mezzelfo! Sempre... amato...»

La sua voce divenne un bisbiglio rantolante.

Tanis sollevò lo sguardo, allarmato. Ma la porta era vuota. Là non c’era nessuno. Aveva inteso parlare di Dalamar? «Chi, Kitiara? Non capisco...»

Ma lei non lo sentì. Le sue orecchie erano morte per sempre alla voce dei mortali. Adesso l’unica voce che udiva era quella che avrebbe udito per sempre, per tutta l’eternità.

Tanis sentì afflosciarsi il corpo che stringeva fra le braccia. Lisciando i suoi capelli scuri e riccioluti, scrutò il suo volto, alla ricerca di qualche segno che la morte avesse portato la pace alla sua anima. Ma l’espressione del suo viso era di orrore, i suoi occhi castani erano impietriti nell’orrore, l’affascinante, furfantesco sorriso era contorto in una smorfia.

Tanis sollevò lo sguardo su Caramon. Pallido e con espressione grave, l’omone scosse la testa.

Lentamente, Tanis tornò a deporre il corpo di Kitiara sul pavimento. Chinandosi, fece per baciare quella fronte gelida, ma scoprì di non poterlo fare. L’espressione sul volto del cadavere era troppo truce, troppo spettrale.

Tirando il mantello sopra la testa di Kitiara, Tanis rimase per un momento inginocchiato accanto al suo corpo, circondato dalla tenebra. E poi sentì il passo di Caramon, sentì una mano sul suo braccio.

«Tanis...»

«Sto bene,» rispose burbero il mezzelfo, alzandosi in piedi. Ma, nella sua mente, sentiva ancora l’implorazione di Kitiara sul punto di morte...

«Tienilo lontano!».

Capitolo settimo.

«Sono lieto che tu sia qui con me, Tanis,» disse Caramon.

Era in piedi davanti al Portale, e lo fissava con intensità, seguendo ogni movimento e ogni ondeggiamento del vuoto al suo interno. Accanto a lui sedeva Dalamar, sorretto da cuscini sulla sua sedia, il volto pallido e tirato per il dolore, il braccio legato da una rozza fasciatura. Tanis camminava incessantemente avanti e indietro. Adesso le teste dei draghi ardevano con tale intensità che fissarli direttamente faceva male agli occhi.

«Caramon,» cominciò a dire Tanis, «per favore...»

Caramon si voltò a guardarlo, con la stessa espressione, calma e grave, immutata.

Tanis era perplesso. Come avrebbe potuto discutere con il granito? Sospirò. «D’accordo. Ma come farai a entrare là dentro?» chiese d’un tratto.

Caramon sorrise. Sapeva quello che Tanis era stato sul punto di dire, e gli era grato per non averlo detto.

Rivolgendo un’occhiata cupa al Portale, Tanis indicò con un gesto l’apertura. «Da quanto mi hai già detto, Raistlin ha dovuto studiare per anni, per diventare questo Fistandantilus e intrappolare Dama Crysania convincendola ad andare con lui, e anche allora c’è riuscito a malapena!» Caramon spostò il suo sguardo su Dalamar. «Puoi varcare il Portale, elfo oscuro?»

Dalamar scosse la testa. «No. Come hai detto, ci vuole qualcuno dotato di un grande potere per attraversare quella temibile soglia, Io non ho quel potere, forse non l’avrò mai. Ma non corrucciarti, Mezzelfo. Non stiamo sprecando il nostro tempo. Sono certo che Caramon non avrebbe intrapreso questa missione se non avesse saputo come fare a entrare.» Dalamar fissò intensamente il grosso guerriero. «Poiché, deve entrare... Altrimenti siamo condannati.»

«Quando Raistlin combatterà nell’Abisso contro la Regina delle Tenebre e i suoi famigli,» disse Caramon con voce calma e priva d’espressione, «avrà bisogno di concentrarsi completamente su di loro, escludendo qualunque altra cosa. Non è forse vero, Dalamar?»

«Sicuramente.» L’elfo scuro rabbrividì e si strinse addosso ancora di più le vesti nere con la mano sana. «Un respiro, un battito di ciglia, un sussulto, e loro lo squarteranno e lo divoreranno.»

Caramon annuì.

Come fa ad essere così calmo? si chiese Tanis. E una voce dentro di lui rispose, è la calma di qualcuno che conosce e accetta il proprio destino.

«Nel suo libro,» continuò Caramon, «Astinus ha scritto che Raistlin, sapendo di dover concentrare la sua magia per combattere la Regina, aprìre il Portale per assicurarsi una via di fuga prima di cominciare a combattere. Così, quando fosse arrivato l’avrebbe trovata spalancata per entrarvi, e tornare così su questo mondo.»

«Inoltre sapeva, senza alcun dubbio, che in quel momento sarebbe stato troppo debole per riuscire ad aprirla da solo,» mormorò Dalamar. «Avrebbe avuto bisogno di essere al culmine delle sue forze.

Sì, hai ragione. L’aprirà, e presto. E quando lo farà, tutti quelli che avranno la forza e il coraggio necessari per varcare il confine, potranno entrare.»

L’elfo scuro chiuse gli occhi, mordendosi le labbra per evitare di urlare. Aveva rifiutato una pozione per alleviare il dolore. «Se fallisci,» disse a Caramon, «sono io la vostra ultima speranza.»

La nostra ultima speranza, pensò Tanis: un elfo scuro. Questa è follia! Non può succedere.

Appoggiandosi contro il tavolo di pietra, si prese la testa fra le mani. In nome degli dei, quant’era stanco! Il corpo era dolorante, le ferite lo torturavano e gli pungevano. Si era tolto il pettorale dell’armatura, ma si sentiva ancora pesante come se avesse una lapide appesa al collo. Ma per quanto male gli facesse il corpo, l’anima gli faceva ancora più male. I ricordi gli aleggiavano intorno come i guardiani della Torre, protendendosi a toccarlo con le loro mani gelide. Caramon, che sottraeva furtivo il cibo dal piatto di Flint quando il nano gli voltava la schiena. Raistlin che evocava visioni meravigliose per i deliziati bambini di Flotsam. Kitiara che rideva, buttandogli le braccia al collo, bisbigliandogli all’orecchio. Tanis si sentì stringere il cuore, il dolore gli fece salire le lacrime agli occhi. No! Era tutto sbagliato! Certamente non era così e avrebbe dovuto finire!

Un libro comparve ondeggiando alla sua vista annebbiata: il libro di Caramon, appoggiato sul tavolo di pietra, l’ultimo libro di Astinus, pensò tra sè non può essere, non è così che finrà? Allora divenne conscio di Caramon che lo stava guardando preoccupato. Arrabbiato, si asciugò gli occhi e la faccia e si levò in piedi con un sospiro.

Ma i fantasmi rimasero con lui, sospesi accanto a lui... e accanto al corpo bruciato e martoriato che giaceva lì nell’angolo sotto il suo mantello.

L’umano, il mezzelfo e l’elfo scuro osservavano il Portale in silenzio. Un orologio ad acqua sul caminetto segnava il passare del tempo, le gocce cadevano ad una ad una con la regolarità di un battito di cuore. La tensione nella stanza divenne spasmodica fino a quando sembrò sul punto di spezzarsi e di rimbalzare per il laboratorio come una scudisciata di acre orrore. Dalamar cominciò a borbottare in elfico. Tanis gli scoccò all’improvviso un’occhiata, temendo che l’elfo scuro potesse essere stato colto dal delirio. Il volto del mago era pallido, cadaverico, i suoi occhi cerchiati da profonde ombre purpuree erano affondati dentro le orbite. Il loro sguardo non si spostò mai, ma rimase fisso in continuazione sul vuoto turbinante. Perfino la calma di Caramon pareva sul punto di cedere. Le sue grosse mani si serravano e si disserravano nervose, il sudore gli copriva il corpo, luccicando al bagliore delle cinque teste di drago. Cominciò involontariamente a rabbrividire. I muscoli delle sue braccia si contraevano spasmodicamente.

E poi Tanis sentì una strana sensazione impadronirsi di lui. L’aria era immobile, troppo immobile. I rumori della battaglia che infuriava nella città, fuori dalla Torre, cessarono all’improvviso. Anche all’interno della torre i suoni si spensero. Le parole che Dalamar stava borbottando gli morirono sulle labbra. Il silenzio li avvolse, fitto e soffocante come l’oscurità nel corridoio, come il male all’interno della stanza. Lo sgocciolio dell’orologio ad acqua crebbe d’intensità, ingrandito, ogni goccia pareva scuotere le ossa di Tanis. Gli occhi di Dalamar si spalancarono con un sussulto, le sue mani si contrassero, stringendo nervosamente le vesti nere tra le dita dalle nocche sbiancate.

Tanis si avvicinò ancora di più a Caramon e scoprì che l’omone stava cercando di fare la stessa cosa. Tutti e due parlarono allo stesso tempo. «Caramon...»

«Tanis...»

Disperatamente, Caramon afferrò Tanis per il braccio. «Ti prenderai cura di Tika per me, non è vero?»

«Caramon, non posso lasciarti entrare là dentro da solo!». Tanis lo strinse. «Verrò...»

«No, Tanis.» La voce di Caramon suonò ferma. «Se fallirò, Dalamar avrà bisogno del tuo aiuto. Dì addio a Tika da parte mia, e cerca di spiegarle, Tanis. Dille che l’amo moltissimo, al punto da...» la voce gli venne meno. Non riuscì a continuare. Tanis si strinse a lui.

«So cosa dirle,» rispose, ricordando una propria lettera di addio. Caramon annuì, scrollandosi via le lacrime dagli occhi e tirando un profondo e tremulo sospiro. «E dì addio a Tas. Io... io non credo che abbia mai capito. Non proprio.» Riuscì a sorridere. «Naturalmente prima dovrai riuscire a farlo scendere da quel castello volante.»

«Credo che lo sapesse, Caramon,» disse Tanis con voce sommessa. Le teste dei draghi cominciarono a produrre un suono stridulo, un debole urlio che sembrava provenire da molto lontano. Caramon divenne teso.

L’urlo si fece più forte, più vicino e più stridulo. Il portale ardeva di diversi colori, la testa di ogni drago irradiava un bagliore sfolgorante. «Preparati,» lo avvertì Dalamar con voce rotta. «Addio, Tanis.» Caramon gli tenne stretta la mano con forza. «Addio, Caramon.»

Lasciando la mano dell’amico, Caramon arretrò. Il vuoto si dischiuse. Il Portale si aprì.

Tanis guardò dentro di esso, seppe di aver guardato dentro poiché non riuscì a voltarsi. Ma non riuscì mai a ricordare con chiarezza ciò che aveva visto. Lo sognava ancora dopo molti anni e sapeva di averlo sognato, poiché si svegliava in piena notte inzuppato di sudore. Ma a quel punto l’immagine scompariva sempre dalla sua coscienza, per non venire più riafferrata dalla sua mente sveglia. E poi, rimaneva là disteso, a fissare l’oscurità, tremante per molte ore ancora.

Ma questo sarebbe accaduto più tardi. Adesso sapeva soltanto che doveva fermare Caramon! Ma non poteva muoversi. Non poteva urlare. Paralizzato, colpito dall’orrore, guardò, mentre Caramon, con un’ultima, tranquilla occhiata, si voltava e saliva sulla piattaforma dorata.

I draghi lanciarono un urlo acuto e stridente, carico di trionfo, di odio... Tanis non capì se fosse l’una o l’altra cosa. Il suo proprio urlo, che gli fu letteralmente strappato dal corpo, si smarrì in quel suono assordante.

Vi fu lo schianto di un’onda turbinante, accecante, multicolore. E poi il buio. Caramon se n’era andato.

«Possa Paladine essere con te,» bisbigliò Tanis, soltanto per udire, con un profondo sconforto, la voce di Dalamar fargli eco: «Che Takhisis, la mia Regina, ti accompagni.»

«L’ho visto,» disse Dalamar, un attimo dopo. Guardando intensamente all’interno del Portale, si alzò a metà, per distinguere più chiaramente. Gli sfuggì un rantolo di dolore, avendo scordato la sua infermità nell’eccitazione. Imprecando, si lasciò riaffondare tra i cuscini. Il suo volto era pallido e coperto di sudore.

Tanis smise il suo incessante andirivieni e si fermò accanto a Dalamar.

«Là,» indicò al mezzelfo, il fiato gli usciva sibilante tra i denti stretti. Con riluttanza, sentendo ancora gli effetti dello shock che si prolungavano in lui da quando aveva guardato per la prima volta dentro il portale. Tanis vi diresse lo sguardo una seconda volta. Dapprima non riuscì a vedere nulla, salvo un paesaggio spoglio e desolato che si stendeva sotto un cielo ardente. E poi vide una luce rossa riflettersi sopra n’armatura smagliante. Vide una piccola figura immobile davanti al portale, con la spada in pugno, rivolta verso la parte opposta, in attesa di... «Come farà a chiuderlo?» chiese Tanis, cercando di parlare con calma, anche se il dolore gli soffocava la voce. «Non può farlo,» rispose Dalamar.

Tanis lo fissò allarmato. «Allora, cosa impedirà alla Regina di varcarlo un’altra volta?»

«Non può varcarlo, a meno che qualcuno non lo varchi prima di lei, mezzelfo,» rispose Dalamar con una punta d’irritazione, «altrimenti sarebbe entrata già molto prima di adesso. Raistlin lo tiene aperto. Se lui lo varcherà, lei lo seguirà. Con la morte di Raistlin il Portale si chiuderà.»

«Allora Caramon dovrà ucciderlo... uccidere suo fratello?»

«Sì.»

«E dovrà morire anche lui,» mormorò Tanis.

«Prega che muoia!» Dalamar si inumidì le labbra. Il dolore lo stordiva, lo nauseava. «Poiché neppure lui potrà tornare attraverso il Portale. E malgrado che la morte per mano della Regina delle Tenebre possa essere ,molto lenta, molto spiacevole, credimi, Mezzelfo, è sempre preferibile alla vita!»

«Lui lo sapeva...»

«Sì, lo sapeva. Ma il mondo sarà salvo, Mezzelfo,» osservò Dalamar, cinicamente. Riaffondando nella sua sedia, continuò a fissare il Portale, spiegazzando e lisciando alternativamente con la mano le pieghe delle sue vesti nere coperte di rune.

«No, non il mondo, un’anima,» fece per rispondere Tanis con amarezza, quando sentì alle sue spalle la porta del laboratorio aprirsi con un cigolio.

Lo sguardo di Dalamar si spostò immediatamente. Con gli occhi luccicanti, la sua mano andò a una pergamena d’incantesimi che si era infilata alla cintura.

«Nessuno può entrare,» disse con voce sommessa a Tanis che si era voltato a quel rumore. «I guardiani...»

«Non possono fermarlo,» disse Tanis, lo sguardo fisso sulla porta con un’espressione di paura che rispecchiò, per un istante, quella di terrore pietrificato sulla faccia morta di Kitiara.

Dalamar esibì un tetro sorriso, e si abbandonò di nuovo sulla sedia. Non c’era bisogno di guardarsi intorno. Il gelo della morte scorreva attraverso la stanza come una fetida nebbia.

«Entra, Lord Soth,» disse Dalamar. «Ti aspettavo.»

Capitolo ottavo.

Caramon fu accecato dalla luce sfolgorante che riusciva a penetrare, ardente, perfino attraverso le sue palpebre chiuse. Poi l’oscurità lo avvolse e, quando riaprì gli occhi, per qualche istante riuscì a vedere, e si sentì cogliere dal panico, ricordando quella, volta che si era trovato accecato e smarrito nella Torre della Grande stregoneria. Ma, gradualmente, anche il velo dell’oscurità si levò e i suoi occhi si abituarono alla luminosità arcana dell’ambiente in cui si trovava. Ardeva di uno strano bagliore rosato, come se il sole fosse appena tramontato, gli aveva detto Tasslehoff. E il paesaggio era proprio quello che il kender gli aveva descritto: un territorio vasto e vuoto, sotto un cielo vasto e vuoto. Il cielo e la terra erano dello stesso colore dovunque guardasse, in ogni direzione.

Salvo in una. Voltando la testa, Caramon vide il Portale, adesso alle sue spalle. Era l’unica fascia di colore in quella terra spoglia. Incorniciato in un’ovale formato dalle cinque teste di drago, gli pareva piccolo e lontano anche se sapeva che doveva essere molto vicino. Caramon si disse che sembrava un’immagine appesa a una parete. Nonostante potesse vedere Tanis e Dalamar molto chiaramente, questi non si muovevano. Avrebbero potuto benissimo essere dei soggetti dipinti, colti in un movimento sospeso e costretti a trascorrere immobili l’eternità fissando il nulla. Voltando loro decisamente la schiena, chiedendosi, con una fitta di dolore, se potessero vedere lui allo stesso modo in cui lui poteva vedere loro, Caramon sfoderò la spada e, con i piedi piantati saldamente nel terreno immutevole, aspettò suo fratello.

Caramon non aveva nessun dubbio, proprio nessuno, che una battaglia fra lui e Raistlin sarebbe finita con la sua stessa morte. Anche se Raistlin era indebolito, la sua magia sarebbe sempre stata forte. E Caramon conosceva abbastanza bene suo fratello da sapere che Raistlin, se poteva farlo, non si sarebbe mai presentato totalmente vulnerabile. Gli sarebbe sempre rimasto un incantesimo, o, per lo meno, il pugnale d’argento che teneva al polso.

Ma anche se morirò, il mio obbiettivo sarà stato raggiunto, pensò Caramon con calma. Sono forte, in salute, basterà trafiggere con un solo colpo di spada quel corpo fragile e sottile. Sapeva che questo sarebbe riuscito a farlo, prima che la magia di suo fratello lo incenerisse, come virtualmente lo aveva incenerito una volta, molto tempo addietro, nella Torre della Grande Stregoneria...

Le lacrime gli pungevano gli occhi, gli scorrevano giù per la gola. Le inghiottì, costringendo i suoi pensieri a volgersi altrove per distogliere la mente dalle sue paure... dal suo dolore.

Dama Crysania.

Povera donna, sospirò Caramon. Sperò, per il suo bene, che fosse morta in fretta... senza mai essere cosciente...

Caramon sbatté le palpebre, sorpreso, puntando lo sguardo davanti a sé. Cosa stava succedendo?

Là, dove prima non c’era stato niente sull’ardente orizzonte rosato, adesso spiccava un oggetto. Si ergeva nerissimo contro il cielo rosa, e sembrava piatto, come se fosse stato ritagliato da un pezzo di carta. Le parole di Tas gli risuonarono di nuovo nella mente. Ma lo riconobbe: era un palo di legno... di quelli che ai vecchi tempi avevano usato per bruciare le streghe!

I ricordi tornarono ad affluirgli alla memoria. Poteva vedere Raistlin legato al palo, le fascine di legna ammucchiate intorno a lui che stava lottando per liberarsi, lanciando stridule urla di sfida a coloro che aveva cercato di salvare dalla loro stessa follia smascherando un ciarlatano eretico. Ma avevano creduto che lui fosse una strega.

«Siamo arrivati appena in tempo, Sturm ed io.» borbottò Caramon, ricordando la spada del cavaliere che balenava al sole. Era bastata la sua luce a mettere in fuga i villici superstiziosi.

Guardando più da vicino il palo, che parve di propria volontà accostarsi ancora di più a lui, Caramon vide una figura giacere ai suoi piedi. Era Raistlin? Il palo scivolò sempre più vicino, oppure era lui che stava camminando verso di esso? Caramon girò di nuovo la testa. Il Portale sembrava molto più indietro, ma poteva vederlo. Allarmato, temendo di venire spazzato via, lottò per fermarsi e ci riuscì, immediatamente. Poi udì di nuovo la voce del kender.

Tutto quello che devi fare, per andare da qualsiasi parte, è pensare di trovarti là. Soltanto, fai attenzione perché l’Abisso può alterare e distorcere quello che vedi.

Guardando il palo di legno, Caramon pensò di trovarsi là, e all’istante fu accanto ad esso. Tornando a voltarsi, lanciò un’occhiata in direzione del Portale, e lo vide appeso come un dipinto in miniatura fra il cielo il suolo. Soddisfatto di poter tornare indietro in ogni momento, Caramon si affrettò a raggiungere la figura che si trovava sotto il palo. Dapprima aveva pensato che fosse abbigliata di nero, ed il suo cuore aveva dato un sobbalzo. Ma adesso si avvide che gli era apparsa come una forma nera contro lo sfondo luminoso; in realtà le vesti che indossava erano bianche... E poi seppe.

Naturalmente, era a lei che aveva pensato. «Crysania,» disse. Lei aprì gli occhi e girò la testa verso l’origine della sua voce, ma gli occhi non si fissarono su di lui. Guardarono al di là di lui e Caramon si rese conto che era cieca.

«Raistlin?» bisbigliò, con una voce talmente piena di speranza e di desiderio che Caramon avrebbe dato qualsiasi cosa, la vita stessa, per confermare quella speranza.

Ma, scuotendo la testa, s’inginocchiò e le prese la mano nella sua.

«Sono Caramon, Dama Crysania.»

Lei girò gli occhi ciechi verso il suono della sua voce, stringendo debolmente la sua mano nella propria. Lei guardò nella sua direzione, confusa. «Caramon? Dove siamo?»

«Ho varcato il Portale, Crysania,» lui rispose. Lei sospirò, chiudendo gli occhi. «Così, sei qui nell’Abisso con noi...»

«Sì.»

«Sono stata folle, Caramon,» lei mormorò. «Ma sto pagando la mia follia. Vorrei... vorrei averlo saputo... È stato fatto del male... a qualcun altro... oltre a me? E a lui?». L’ultima parola fu quasi inudibile. «Dama...» Caramon non sapeva come rispondere. Ma Crysania lo fermò. Poteva percepire la tristezza nella sua voce. chiudendo gli occhi, con le lacrime che le colavano lungo le guance, gli premette la mano contro le labbra. «Naturalmente. Capisco!» bisbigliò.

È per questo che sei venuto. Mi spiace, Caramon! Mi spiace tanto!»

Cominciò a piangere. Stringendola a sé, Caramon la cullò per calmarla, come se fosse una bambina. Capì, allora, che Crysania stava morendo.

Poteva sentire la vita che lasciava il suo corpo già mentre lo teneva fra le braccia. Ma cosa l’avesse colpita, di quali ferite avesse sofferto, questo non poteva immaginarlo, poiché non c’era nessun segno sulla sua pelle.

«Non c’è niente di cui dispiacersi, mia signora,» le disse, lisciandole i folti capelli neri e lucidi che le ricadevano sul volto mortalmente pallido. «Tu l’amavi. Se questa è la tua follia, allora è anche la mia, e sono pronto a pagare, con gioia.»

«Se soltanto fosse vero!» lei gemette. «Ma è stato il mio orgoglio, la mia ambizione, a condurmi qui!»

«Davvero, Crysania?» chiese Caramon. «Se così fosse, come mai Paladine ha esaudito le tue preghiere e ti ha aperto il Portale quando si era rifiutato di esaudire le preghiere del Gran Sacerdote?

Perché ti ha benedetto con quel dono, se non perché ha visto quello che c’era davvero nel tuo cuore?»

«Paladine mi ha voltato le spalle!» lei gridò. Afferrando il medaglione con la mano, cercò di strapparselo dal collo. Ma era troppo debole. La sua mano si chiuse sopra il medaglione e rimase là.

E, mentre lo faceva, un’espressione di pace riempì il suo viso.

«No,» disse parlando sommessamente fra sé, «lui è qui. Mi stringe. Lo vedo con tanta chiarezza...»

Caramon si alzò in piedi e la sollevò tra le braccia. La testa di Crysania gli ricadde contro la spalla e il suo corpo si rilassò nella sua stretta. «Torniamo al Portale,» lui le disse.

Lei non rispose, ma sorrise. L’aveva sentito, oppure stava ascoltando un’altra voce?

Rivolto verso il Portale che scintillava in distanza come un gioiello multicolore, Caramon pensò di trovarsi vicino ad esso, e avanzò rapidamente.

D’un tratto l’aria intorno a lui si spaccò crepitando. I lampi si abbatterono dal cielo come tante stilettate, lampi quali Caramon non aveva mai visto prima. Migliaia di sfrigolanti biforcazioni purpuree colpirono il suolo, intrappolandolo per un istante in una spettacolare prigione le cui sbarre erano la morte. Paralizzato dallo shock, Caramon non riuscì più a muoversi. Perfino dopo che i lampi furono scomparsi attese, intimorito, l’esplosivo rimbombare del tuono che avrebbe dovuto assordarlo per sempre. Ma vi fu soltanto il silenzio, il silenzio e, in lontananza, un acuto urlo d’agonia.

Crysania aprì gli occhi. «Raistlin,» disse, stringendo ancora di più la mano intorno al medaglione.

«Sì,» rispose Caramon.

Le lacrime colarono lungo le guance di Crysania. Chiuse gli occhi e si tenne aggrappata a Caramon. Lui continuò a procedere in direzione del portale. Adesso camminava lentamente, un’idea inquietante, allarmante, gli si era affacciata alla mente. Dama Crysania stava morendo, certo. Il pulsare della vita nel suo collo era debole, palpitava sotto le sue dita come il cuore di un uccellino.

Ma non era morta, non ancora. Forse, se fosse riuscito a farle riattraversare il Portale, sarebbe riuscita a sopravvivere. Ma sarebbe riuscito a farglielo varcare, senza varcarlo lui stesso? Sempre stringendola fra le braccia, Caramon si avvicinò ancora di più al portale. O meglio, il Portale si avvicinò a lui, balzò verso di lui mentre si avvicinava, aumentando di dimensioni, gli occhi dei draghi lo fissavano scintillanti, le bocche aperte per ghermirlo e divorarlo. Poteva ancora vedere attraverso il Portale, poteva vedere Tanis e Dalamar, uno in piedi, l’altro seduto; nessuno dei due si muoveva, entrambi erano pietrificati nel tempo. Avrebbero potuto aiutarlo? sostenere Crysania?

«Tanis!» gridò. «Dalamar!»

Ma, anche se lo sentirono gridare, non reagirono alla sua voce. Delicatamente, appoggiò Dama Crysania sul terreno immutevole davanti al Portale. Allora Caramon seppe che non c’era nessuna speranza, l’aveva saputo da sempre. Avrebbe potuto riportarla indietro e lei sarebbe sopravvissuta.

Ma ciò avrebbe significato che Raistlin sarebbe vissuto e fuggito, attirando la Regina dietro di sé, condannando alla distruzione il mondo e le sue genti. Si lasciò cadere su quello strano terreno. Si sedette accanto a Crysania e le prese la mano. In un certo senso era lieto che lei fosse lì con lui. Non si sentiva più così solo. Il tocco della sua mano era confortante. Se soltanto avesse potuto salvarla...

«Cos’hai intenzione di fare a Raistlin, Caramon?» chiese Crysania, dopo qualche istante, con voce sommessa.

«Impedirgli di lasciare l’Abisso,» rispose Caramon. La sua voce risuonò monotona, senza inflessione.

Lei annuì, stringendogli saldamente la mano, fissandolo con gli occhi ciechi.

«Ti ucciderà, vero?»

«Sì,» rispose Caramon con fermezza. «Ma non prima di essere caduto anche lui.»

Uno spasimo di dolore contorse il volto di Crysania. La donna afferrò la mano di Caramon...

«Ti aspetterò!» disse, soffocando. La sua voce s’indebolì. «Ti aspetterò... Quando sarà finita, mi farai da guida poiché non posso più vedere. Mi porterai da Paladine. Mi condurrai fuori dalla tenebra.»

I suoi occhi si chiusero, la sua testa ricadde lentamente, come se fosse appoggiata su un cuscino.

Ma la sua mano stringeva ancora quella di Caramon. Il petto le si alzava e le si abbassava con il respiro. Caramon le appoggiò le dita sul collo, sentì la vita pulsare sotto di esse.

Era stato pronto a condannare se stesso a morte, era pronto a condannare suo fratello. Era stato tutto così semplice!

Ma... poteva condannare lei?

Forse aveva ancora tempo... Forse avrebbe potuto condurla attraverso il Portale e tornare...

Pieno di speranza, Caramon si alzò in piedi e prese tra le braccia il corpo di Crysania, per risollevarlo da terra. Poi, con la coda dell’occhio, intravide un movimento.

Si girò di scatto, e vide Raistlin.

Capitolo nono.

«Cavaliere della Rosa Nera,» ripetè Dalamar.

Occhi di fiamma fissarono Tanis, che aveva portato di scatto la mano all’elsa della spada. Nel medesimo istante delle dita sottili gli toccarono il braccio, facendolo sobbalzare.

«Non interferire, Tanis,» disse Dalamar con voce sommessa. «Non gl’importa niente di te. Viene per una cosa soltanto.»

Quel serpentino sguardo fiammeggiante guizzò oltre Tanis. La luce delle candele traeva riflessi dall’antica armatura, consunta e decorata sulla quale era ancora visibile, sotto i segni anneriti delle bruciature e del suo stesso sangue (da moltissimo tempo divenuto polvere) il tenue profilo della Rosa, il simbolo dei Cavalieri di Solamnia. Piedi che calzavano stivali ma che non producevano nessun suono attraversarono la stanza. Gli occhi arancione avevano trovato il loro oggetto in un angolo in ombra: la forma rannicchiata che giaceva sotto il mantello di Tanis.

Tienilo lontano! Tanis sentì la voce spasmodica di Kitiara. Ti ho sempre amato, mezzelfo!

Lord Soth si fermò e s’inginocchiò accanto al corpo. Ma parve incapace di toccarlo, come se fosse stato trattenuto da qualche forza invisibile. Alzandosi in piedi, si voltò, i suoi occhi arancione fiammeggiarono nella vuota oscurità sotto l’elmo che indossava.

«Lasciala libera per me, Tanis Mezzelfo,» disse quella voce cavernosa. «Il tuo amore la vincola a questo piano. Rinuncia a lei.»

Tanis, stringendo la spada, fece un passo avanti.

«Ti ucciderà, Tanis,» lo ammonì Dalamar. «Ti ucciderà senza nessuna esitazione. Lasciala libera per lui. Dopotutto, penso che forse è lui l’unico fra noi ad averla veramente capita.»

Gli occhi arancione lampeggiarono. «Capita? Ammirata! Come per me, il suo destino era quello di regnare, di conquistare! Ma lei era più forte di me. Poteva gettare via l’amore che minacciava d’incatenarla. Se non fosse stato per uno scherzo del fato, avrebbe dominato tutto Ansalon!»

La voce cavernosa risuonò per la stanza, sorprendendo Tanis per la sua passione, il suo odio.

«Ed era là!». Strinse il pugno racchiuso nel guanto di cotta. «Intrappolata a Sanction come una bestia in gabbia, intenta a far piani per una guerra che non poteva sperare di vincere. Il suo coraggio e la sua risolutezza cominciavano a indebolirsi. Si era perfino lasciata incatenare come una schiava a un elfo scuro suo amante! Sarebbe stato meglio che fosse morta combattendo, piuttosto che la sua vita si spegnesse come una candela sgocciolante.»

«No!» borbottò Tanis, stringendo la mano sulla spada. «No...»

Le dita di Dalamar si chiusero sul suo polso. «Non ti ha mai amato, Tanis,» gli disse, gelido. «Ti ha usato, come ha usato noi tutti, perfino lui.» L’elfo scuro lanciò un’occhiata a Lord Soth. Tanis parve sul punto di parlare, ma Dalamar l’interruppe. «Ti ha usato fino in fondo, Mezzelfo. Perfino adesso, si protende dall’aldilà, sperando che tu la salvi.»

Tanis esitò ancora. Nella sua mente ardeva l’immagine del suo volto pieno di orrore. L’immagine ardeva, le fiamme si levavano...

Le fiamme riempirono la vista di Tanis. Fissandole, vide un castello, un tempo orgoglioso e nobile, adesso nero e sgretolato, che crollava in mezzo alle fiamme. Vide una fanciulla elfa adorabile e delicata, con un bambino tra le braccia, che cadeva in mezzo alle fiamme. Vide guerrieri che correvano, morendo, precipitando in mezzo alle fiamme. E dalle fiamme sentì giungere la voce di Lord Soth.

«Tu hai la vita, Mezzelfo. E hai molto per cui vivere. E tra i vivi, c’è chi dipende da te. Lo so, poiché tutto ciò che possiedi un tempo era mio. L’ho gettato via, scegliendo di vivere nelle tenebre invece che nella luce. Vuoi seguirmi? Vuoi buttare via tutto ciò che possiedi per qualcuno che, tempo addietro, ha scelto di percorrere i sentieri della notte?»

Ho il mondo. Tanis udì le sue stesse parole. Il volto di Laurana gli sorrideva.

Chiuse gli occhi... Il volto di Laurana, bello, saggio, adorabile. La luce splendeva tra i suoi capelli dorati, traeva scintille dai suoi limpidi occhi elfici. La luce divenne più luminosa, come una stella.

Risplendeva pura e brillante, irradiandosi su di lui con una tale intensità da impedirgli di distinguere, ancora, nella sua memoria, l’altra gelida faccia sotto il mantello.

Lentamente, Tanis ritrasse la mano dalla spada.

Lord Soth si voltò. S’inginocchiò, sollevò il corpo avvolto nel mantello, adesso imbrattato da macchie scure di sangue, fra le sue braccia invisibili. Pronunciò una parola magica. Tanis ebbe l’improvvisa visione di un abisso tenebroso che si spalancava ai piedi del Cavaliere della Morte. Un gelo capace di trafiggere l’anima spazzò la stanza, la raffica lo costrinse a girare la testa, come per proteggersi da un vento sferzante.

Quando infine potè nuovamente guardare, l’angolo in ombra era vuoto.

«Se ne sono andati!» la mano di Dalamar gli lasciò libero il polso. «E anche Caramon.»

«Andati?». Voltandosi, con movimenti incerti, vacillanti, rabbrividendo, il corpo intriso d’un gelido sudore, Tanis guardò ancora una volta il Portale. Il paesaggio ardente era vuoto.

Una voce cavernosa echeggiò: Vuoi buttare via tutto ciò che possiedi per qualcuno che ha scelto, tempo addietro, di percorrere i sentieri della notte?

La canzone di Lord Soth

Capitolo decimo

Metti da parte la luce sepolta

della candela, della torcia, e del legno marcio,

e ascolta il virare della notte

intrappolata nel tuo sangue nascente.

Quanto è tranquilla la mezzanotte, amore, quanto è caldo il vento dove volano i corvi, dove tutta la luce mutevole della luna, amore, impallidisce nel tuo occhio scolorito.

Quanto forte mi chiama il tuo cuore, amore, quanto è vicina l’oscurità al tuo petto, quanto tumultuosi sono i fiumi, amore, risucchiati attraverso il tuo polso morente.

E, amore, quale calore nasconde la tua fragile pelle, puro come il sale, dolce come la morte, e nel buio la luna rossa cavalca la volpe di fuoco del tuo alito.

Davanti a lui, il Portale.

Dietro di lui, la Regina. Dietro di lui, il dolore, la sofferenza.

Davanti a lui: la vittoria.

Appoggiandosi al Bastone di Magius, talmente debole da riuscire a stento a tenersi in piedi, Raistlin tenacemente continuò a far campeggiare l’immagine del Portale nella sua mente. Gli pareva di aver camminato, incespicato, strisciato un interminabile miglio dopo l’altro per raggiungerlo.

Adesso era vicino. Poteva vedere i suoi vividi, meravigliosi colori, i colori della vita, il verde dell’erba, l’azzurro del cielo, il bianco delle nubi, il nero della notte, il rosso del sangue...

Il sangue. Guardò le proprie mani, macchiate di sangue, il suo stesso sangue. Le sue ferite erano troppo numerose per poterle contare. Colpito dalle mazze, trafitto dalle spade, riarso dal fulmine, ustionato dal fuoco, era stato attaccato da chierici scuri, da stregoni scuri, da legioni di spettri e di demoni, tutti al servizio della Regina delle Tenebre. Le vesti nere gli penzolavano intorno ridotte a brandelli chiazzati. Ogni singolo respiro era una straziante agonia. Già da molto tempo aveva smesso di vomitare sangue. E malgrado fosse colto da lunghi accessi di tosse, al punto da non riuscire più a rimanere in piedi, era costretto ad accasciarsi sulle ginocchia in preda a conati di vomito, ma non c’era niente... non c’era più niente dentro di lui.

E aveva resistito a tutto questo.

L’esultanza scorreva come febbre nelle sue vene. Aveva resistito, era sopravvissuto. Viveva... a malapena. Ma pur sempre viveva. Il furore della Regina pulsava dietro di lui. E poteva sentire il suolo e il cielo palpitare insieme ad esso. Aveva sconfitto i migliori dei suoi e adesso non rimaneva nessuno che potesse sfidarlo.

Nessuno, salvo lei stessa.

Il Portale tremolò in un turbinio di colori nella sua visione a clessidra. Si avvicinò, si avvicinò sempre più. Dietro di lui la Regina... la rabbia la rendeva incauta, imprudente. Sarebbe fuggito dall’Abisso, adesso lei non poteva più fermarlo.

Un’ombra passò sopra di lui, raggelandolo. Sollevò lo sguardo, vide le dita di una mano gigantesca oscurare il cielo, con le unghie che luccicavano rosse di sangue.

Raistlin sorrise, e continuò ad avanzare. Era un’ombra, nient’altro. La mano che proiettava quell’ombra cercò di ghermirlo, ma invano. Lui era troppo vicino al Portale e lei, certa che i suoi famigli l’avrebbero fermato, era troppo lontana. La sua mano avrebbe afferrato gli orli delle sue lacere vesti nere, quando avesse varcato la soglia del Portale e, con le sue ultime forze, lui l’avrebbe trascinata attraverso il varco.

E poi, una volta arrivati sul suo piano, chi si sarebbe rivelato il più forte?

Raistlin tossì, ma già mentre tossiva, già mentre il dolore lo straziava, sorrise... no, sogghignò, un sogghigno intriso di sangue.

Stringendosi il petto con una mano e serrando nell’altra il Bastone di Magius, Raistlin avanzò, centellinando con estrema attenzione la propria vita a seconda dei propri bisogni, assaporando, l’uno dopo l’altro, ognuno dei suoi respiri brucianti, come un usuraio che gioisce davanti a una moneta di rame. L’imminente battaglia sarebbe stata gloriosa. Adesso sarebbe stato il suo turno di chiamare a sé le legioni perché combattessero per lui. Gli stessi dei avrebbero risposto alla chiamata, poiché la Regina, comparendo nel mondo con tutta la sua potenza e la sua maestosità, avrebbe fatto precipitare su di esso l’ira dei cieli. Le lune sarebbero cadute, i pianeti sarebbero usciti dalle loro orbite, cambiando i loro percorsi. Gli elementi avrebbero obbedito alla sua volontà: il vento, l’aria, l’acqua, il fuoco, ogni cosa sarebbe stata sotto il suo comando.

E adesso, davanti a lui, il Portale, con le teste di drago che lanciavano urla stridenti d’impotenza e furore, sapendo di non avere il potere di fermarlo.

Soltanto un altro respiro, un altro sussultante battito del cuore, un altro passo...

Sollevò la testa incappucciata, e si arrestò.

Una figura, prima non visibile, oscurata da una nebbia di dolore e di sangue e dalle ombre della morte, si levò davanti a lui, ritta in piedi sullo sfondo del Portale, con una spada luccicante in pugno. Raistlin la fissò, in un momento di completa e totale incomprensione. Poi la gioia salì come una marea nel suo corpo infranto.

«Caramon!»

Tese una mano tremante. Non sapeva che miracolo fosse mai quello. Ma il suo gemello era là, come lo era sempre stato, che lo aspettava, che aspettava di combattere al suo fianco...

«Caramon!» ansimò Raistlin. «Aiutami, fratello mio.»

La fatica lo stava sopraffacendo, il dolore stava avendo la meglio su di lui. Stava rapidamente perdendo la facoltà di pensare, di concentrarsi. La sua magia non sfavillava più come il mercurio nel suo corpo, ma si muoveva pigramente, coagulandosi come il sangue sulle sue ferite.

«Caramon, vieni da me. Non posso camminare da solo...»

Ma Caramon non si muoveva. Rimaneva là, fermo, con la spada in pugno, fissandolo con un misto di amore e di dolore nello sguardo, un dolore profondo, bruciante. Un dolore che penetrava come la lama di un coltello attraverso quella nebbia di sofferenza, esponendo l’anima spoglia e vuota di Raistlin. Ma poi seppe. Seppe perché il suo gemello si trovava là.

«Mi blocchi la strada, fratello,» disse Raistlin freddamente.

«Lo so.»

«Fatti da parte, allora, se non intendi aiutarmi!». La voce di Raistlin, proveniente dalla sua gola martoriata, crepitava di furore.

«No.»

«Pazzo! Morirai!». Era soltanto un sussurro, sommesso... e letale.

Caramon emise un profondo sospiro. «Sì,» disse con voce ferma. «E questa volta morirai anche tu.»

Il cielo si oscurò sopra le loro teste. Le ombre si addensarono tutt’intorno, come se la luce venisse lentamente risucchiata via. L’aria divenne sempre più gelida a mano a mano che la luce si faceva più fioca. Ma Raistlin poteva percepire uno sconfinato calore fiammeggiante alle sue spalle, la collera della sua Regina.

La paura gli torse le budella, la rabbia gli strappò lo stomaco. Le parole magiche gli salirono alla bocca, sulle sue labbra avevano il sapore del sangue. Fece per scagliarle contro il suo gemello, ma soffocò e tossì e cadde sui ginocchi. Tuttavia, le parole erano ancora là, la magia era al suo comando. Avrebbe visto il suo gemello bruciare tra le fiamme, così come aveva visto, molto tempo addietro, l’immagine illusoria del suo gemello bruciare nella Torre della Grande Stregoneria. Se soltanto... se soltanto avesse potuto riprendere fiato...

Lo spasimo passò, le parole magiche ribollirono nel suo cervello. Sollevò lo sguardo, un ringhio grottesco gli contorceva il volto, sollevò la mano...

Caramon era immobile davanti a lui, la spada in pugno, e lo fissava con occhi colmi di pietà.

Pietà! Quell’espressione si abbatté su Raistlin con la violenza di cento spade. Sì, il suo gemello sarebbe morto, ma non con quell’espressione sul viso!

Appoggiandosi al Bastone, Raistlin si tirò in piedi. Sollevò la mano e si scostò il cappuccio nero dalla testa, in modo che suo fratello potesse vedere se stesso, condannato, riflesso nei suoi occhi dorati.

«Così, provi pietà per me, Caramon,» Raistlin sibilò. «Cialtrone scervellato e beota. Sei incapace di comprendere il potere che sono riuscito a raggiungere, il dolore che ho vinto, le vittorie che sono state mie. Osi provare pietà per me? Prima che ti uccida, e io ti ucciderò, fratello mio, voglio che ti sia ben conscio nel cuore che io uscirò fuori nel mondo per diventare un dio!»

«Lo so, Raistlin,» rispose Caramon con voce ferma. La pietà non svanì dai suoi occhi, anzi si fece ancora più intensa. «Ed è per questo che provo pietà per te, perché ho visto il futuro. Conosco il risultato.»

Raistlin fissò suo fratello, sospettando un espediente ingannevole. Sopra di lui il cielo tinto di rosso divenne ancora più scuro, ma la mano protesa in alto si era adesso fermata. Poteva sentire la Regina che esitava. Aveva scoperto la presenza di Caramon. Raistlin percepiva la sua confusione, la sua paura. Il dubbio perdurante che Caramon potesse essere una qualche apparizione evocata per fermarlo, svanì. Raistlin si avvicinò di un altro passo a suo fratello.

«Hai visto il futuro? Come?»

«Quando hai attraversato il Portale, il campo magico ha influenzato il congegno, scagliando me e Tas nel futuro.»

Raistlin divorò suo fratello con gli occhi, avidamente. «E... cosa accadrà?»

«Vincerai,» rispose Caramon, in tutta semplicità. «Sarai vittorioso, non soltanto contro la Regina delle Tenebre, ma contro tutti gli altri dei. Soltanto la tua costellazione risplenderà nei cieli... per un po’...»

«Per un po’?» Gli occhi di Raistlin si restrinsero. «Dimmelo! Cosa accadrà? Chi mi minaccerà? Chi mi deporrà?»

«Tu stesso,» rispose Caramon, la voce piena di tristezza. «Tu regnerai su un mondo morto, Raistlin, un mondo di ceneri grigie, di rovine fumanti e di cadaveri gonfi. Sarai solo in quei cieli, Raistlin. Cercherai di creare, ma non è rimasto niente dentro di te a cui tu possa attingere, e così succhierai la vita direttamente dalle stelle, fino a farle esplodere e morire. E poi non ci sarà più niente intorno a te, più niente dentro di te.»

«No!» ringhiò Raistlin. «Tu menti, dannazione a te! Menti!». Raistlin scagliò il Bastone di Magius lontano da sé e si lanciò in avanti, afferrando suo fratello con le mani artigliate. Colto di sorpresa, Caramon sollevò la spada, ma cadde sul terreno mutevole a una parola di Raistlin. La stretta dell’omone si chiuse convulsa sulle braccia del suo gemello. Potrebbe spezzarmi in due, pensò Raistlin, con un sorriso di scherno. Ma non lo farà. È debole. È smarrito. E saprò la verità!

Raistlin sollevò la mano bruciante, chiazzata di sangue, e la premette sulla fronte di suo fratello, trascinando fuori le visioni dalla mente di Caramon e trasferendole nella propria.

E Raistlin vide.

Vide le ossa del mondo, i moncherini degli alberi, il fango e le ceneri grigie, le rocce flagellate dai fulmini, il fumo che si levava, i corpi in putrefazione dei morti...

Vide se stesso, sospeso nel gelido vuoto, con nulla intorno, con nulla dentro. Il vuoto premeva su di lui, lo schiacciava. Lo rodeva, lo divorava. Lui si contorceva su se stesso, cercando nutrimento: una goccia di sangue, un frammento di dolore. Ma là non c’era niente. Là non ci sarebbe mai stato niente. E lui avrebbe continuato a contorcersi, a strisciare dentro se stesso, per non trovare niente... niente... niente.

Raistlin lasciò ricadere la testa sul petto, la sua mano scivolò giù dalla testa di suo fratello, stringendosi per il dolore. Sapeva che sarebbe avvenuto, lo sapeva con ogni fibra del proprio corpo infranto. Lo sapeva perché il vuoto era già là. Era dentro di lui da tanto tempo... da così tante tempo.

Oh, non l’aveva consumato completamente, non ancora. Ma poteva quasi vedere la propria anima, spaventata, sola, rannicchiata in un angolo buio e vuoto.

Con un grido di dolore Raistlin spinse suo fratello lontano da sé. Si guardò intorno. Le ombre s’incupivano ancora. La sua Regina non esitava più. Stava raccogliendo le proprie forze.

Raistlin abbassò lo sguardo, cercando di pensare, cercando di trovare la rabbia dentro di sé, cercando di attizzare la fiamma ardente della sua magia... Ma anche questa stava morendo. Preso nella morsa della paura cercò di correre, ma era troppo debole. Fece un passo, incespicò e cadde carponi. La paura lo scuoteva. Cercò aiuto, tendendo la mano...

Udì un suono, un gemito, un pianto. La sua mano si chiuse sopra un tessuto bianco. Sentì una pelle calda!

«Bupu,» bisbigliò Raistlin. Avanzò strisciando con un singhiozzo soffocato.

Il corpo della nana dei fossi giaceva davanti a lui, il volto tirato e affamato, gli occhi spalancati per il terrore. Sventurata, terrorizzata, la nana si ritrasse piena di terrore.

«Bupu!» gridò Raistlin afferrandola, in preda alla disperazione, «Bupu, non ti ricordi di me? Mi hai dato un libro, una volta. Un libro e uno smeraldo.» Rovistando in una delle sue borse, tirò fuori la vivida, scintillante gemma verde. «Ecco, Bupu. Guarda, “il bel sasso”. Prendilo. Tienilo! Ti proteggerà!»

La nana allungò la mano verso lo smeraldo ma, mentre lo faceva, le sue dita s’irrigidirono nella morte.

«No!» gridò Raistlin, e sentì la mano di Caramon sul suo braccio.

«Lasciala stare!» gridò Caramon, aspro, afferrando il suo gemello e scagliandolo indietro. «Non le hai già fatto male abbastanza?»

Caramon impugnava ancora una volta la spada. La sua luce sfolgorante feriva gli occhi di Raistlin.

E alla sua luce Raistlin vide non Bupu, ma Crysania, con la pelle annerita e coperta di vesciche, con gli occhi che lo fissavano senza vederlo.

Vuoto... vuoto. Non c’era nulla dentro di lui? Sì... c’era qualcosa. Non molto, ma pur sempre qualcosa. La sua anima gli tese la mano. E la sua stessa mano rispose, protendendosi a toccare la pelle coperta di vesciche di Crysania. «Non è morta, non ancora,» disse.

«No, non ancora,» rispose Caramon, sollevando la spada. «Lasciala stare! Lascia almeno che muoia in pace!»

«Vivrà, se la porterai al di là del Portale.»

«Sì, vivrà,» disse Caramon, amaro, «e anche tu, vero, Raistlin? La porterò al di là del Portale, e tu subito ci seguirai...»

«Portala con te.»

«No!» Caramon scosse la testa. Anche se i suoi occhi luccicavano di lacrime e il suo volto era pallido per il dolore e l’angoscia, avanzò verso suo fratello tenendo pronta la spada.

Raistlin alzò la mano. Caramon si trovò incapace di muoversi, la sua spada era sospesa in quell’aria calda e in movimento.

«Portala con te, e prendi anche questo.»

Allungando il braccio, la fragile mano di Raistlin si chiuse intorno al Bastone di Magius che giaceva al suo fianco. La luce del suo cristallo ardeva limpida e intensa nell’oscurità che si andava infittendo, diffondendo su tutti e tre il suo magico bagliore. Raistlin sollevò il Bastone e lo porse al suo gemello.

Caramon esitò, inarcò le sopracciglia.

«Prendilo!» gli intimò Raistlin, brusco, sentendo che le forze gli venivano meno. Tossì.

«Prendilo!» ripetè, ansimando per respirare. «Prendilo e varca il Portale insieme a Crysania. Usa il Bastone per chiuderlo alle tue spalle.»

Caramon lo fissò senza comprendere, poi i suoi occhi diventarono due fessure sottili.

«No, non sto mentendo,» ringhiò Raistlin. «Ti ho mentito altre volte, ma non adesso. Prova. Vedi tu stesso. Guarda, ti libero dall’incantesimo. Non posso lanciare un altro incantesimo. Se scoprirai che sto mentendo potrai uccidermi. Non sarò in grado di fermarti.»

Il braccio con cui Caramon impugnava la spada venne liberato. Potè muoverlo. Sempre impugnando la spada, gli occhi fissi sul suo gemello, tese l’altra mano, esitante. Le sue dita toccarono il Bastone: fissò intimorito la luce nel cristallo, aspettandosi che si spegnesse, lasciandoli tutti nell’oscurità gelida che si stava addensando intorno a loro.

Ma la luce non ebbe alcun fremito. La mano di Caramon si chiuse intorno al Bastone, sopra la mano di suo fratello. La luce sfolgorava, diffondendo la sua radiosità sulle vesti nere lacere e insanguinate, sull’armatura resa opaca da uno strato di fango.

Raistlin liberò lentamente il Bastone, quasi cadde ma si risollevò barcollando, mettendosi dritto senza nessun aiuto, da solo. Il Bastone in mano a Caramon continuò a sfolgorare.

«Spicciati,» lo sollecitò Raistlin con freddezza. «Impedirò alla Regina di seguirvi. Ma le mie forze non dureranno a lungo.»

Caramon lo fissò per un momento, poi guardò il Bastone, la sua luce che continuava a brillare. Alla fine, con un sospiro affannoso, rinfoderò la spada.

«Cosa sarà... di te?» chiese con voce aspra, inginocchiandosi per prendere Crysania tra le braccia.

Verrai torturato nella mente e nel corpo. Alla fine di ogni giorno morirai per il dolore. All’inizio di ogni notte ti riporterò alla vita. Non sarai in grado di dormire ma giacerai sveglio in tremante attesa del giorno a venire. Al mattino la mia faccia sarà la prima cosa che vedrai.

Queste parole si avvolsero intorno al cervello di Raistlin come un serpente. Dietro di sé, poteva sentire una soffocante risata di scherno.

«Vattene, Caramon,» disse, «lei sta arrivando.»

La testa di Crysania era appoggiata contro l’ampio petto di Caramon. I capelli scuri le ricadevano sul volto pallido. La sua mano stringeva ancora il medaglione di Paladine. Mentre la guardava, Raistlin vide svanire le devastazioni del fuoco, lasciando il suo volto privo di cicatrici, raddolcito in un’espressione di tranquillo riposo.

Raistlin sollevò lo sguardo sul volto di suo fratello, e vide quell’eterna espressione stupida, quell’espressione di sconcerto, di perplessità ferita.

«Sciocco rincretinito! Cosa t’importa di ciò che mi accadrà? Vattene fuori da qui!»

L’espressione di Caramon cambiò, o forse non cambiò. Forse era stata sempre così. Le forze gli stavano venendo meno molto rapidamente, e la sua vista era offuscata. Ma gli parve di cogliere la comprensione negli occhi di Caramon...

«Addio... fratello mio,» disse Caramon. Stringendo Crysania fra le braccia, con il Bastone di Magius in una mano, Caramon si voltò e si allontanò. La luce del Bastone creava un cerchio intorno a lui, un cerchio d’argento che risplendeva nell’oscurità come i raggi di Solinari, quando la luna creava scintillanti riflessi sulle calme acque del lago Crystalmir. I raggi argentei colpirono le teste di drago, immobilizzandole, tramutandole anch’esse in argento, azzittendo le loro urla.

Caramon varcò il Portale. Raistlin, osservandolo con la sua anima, intravide una confusione di colori e di vita e sentì un breve alito di calore toccargli la guancia infossata.

Dietro di sé udì la risata di scherno gorgogliare, trasformandosi in un respiro aspro e sibilante. Potè udire il viscido rumore d’una gigantesca coda scagliosa, il crepitare dei tendini delle ali. Là dietro, cinque teste bisbigliavano parole di tormento e di terrore.

Raistlin rimase là, risoluto, con lo sguardo fisso sul Portale. Vide Tanis che accorreva ad aiutare Caramon, lo vide prendere Crysania fra le braccia. Le lacrime offuscarono la vista di Raistlin.

Voleva seguirli! Voleva che Tanis gli toccasse la mano! Voleva stringere Crysania tra le sue braccia... Fece un passo avanti.

Vide Caramon che si voltava verso di lui, con il Bastone in mano.

Caramon guardò l’interno del Portale, guardò il suo gemello, guardò al di là del suo gemello.

Raistlin vide gli occhi di suo fratello spalancarsi per la paura.

Raistlin non ebbe bisogno di voltarsi per sapere quello che suo fratello aveva visto. Takhisis rannicchiata dietro di lui. Poteva sentire il gelo del suo ripugnante corpo da rettile scorrergli intorno, facendogli svolazzare le vesti. La sentì alle proprie spalle, eppure la Regina delle Tenebre non pensava a lui, vedeva spalancata la via che conduceva al mondo.

«Chiudila!» urlò Raistlin.

Una vampa bruciò la pelle di Raistlin. Un artiglio gli trafisse la schiena. Incespicò, cadde in ginocchio. Ma non tolse mai gli occhi dal Portale e vide Caramon, il volto del suo gemello in preda all’angoscia, fare un passo verso di lui.

«Chiudila, pazzo!» stridette Raistlin, stringendo i pugni. «Lasciami solo! Non ho più bisogno di te!

Non ho bisogno di te!»

E poi la luce scomparve. Il Portale si chiuse di colpo e l’oscurità gli piombò addosso con furore inarrestabile, travolgente. Gli artigli gli lacerarono la pelle, i denti gli penetrarono nei muscoli e gli schiacciarono le ossa. Il sangue gli colò dal petto, ma senza portarsi via la sua vita.

Urlò, e avrebbe urlato, e avrebbe continuato a urlare, all’infinito.

Qualcosa lo toccò... una mano... L’afferrò, stringendola, mentre la mano lo scuoteva delicatamente.

Una voce chiamò: «Raist! Svegliati! E stato soltanto un sogno. Non aver timore. Non permetterò che ti facciano del male! Ecco, guarda... ti faccio ridere!»

Le spire del drago si strinsero, mozzandogli il respiro. Luccicanti zanne nere gli divorarono gli organi vitali, gli mangiarono il cuore. Lacerandogli il corpo, cercarono la sua anima.

Un braccio robusto lo cinse, tenendolo stretto a sé. Una mano si levò, rilucente d’argento, formando immagini infantili nella notte, e la voce, appena udibile, bisbigliò: «Guarda, Raist, i coniglietti... »

Lui sorrise. Non aveva più paura. Caramon era là.

Il dolore si alleviò. Il sogno venne ricacciato indietro. Sentì, molto lontano, un gemito di amaro disappunto e di collera. Non aveva importanza. Niente aveva più importanza. Adesso si sentiva soltanto stanco, così stanco... molto stanco...

Appoggiando la testa sul braccio di suo fratello, Raistlin chiuse gli occhi e si lasciò trasportare da un sonno buio, interminabile, senza sogni.

Capitolo undicesimo.

Le gocce dell’orologio ad acqua colavano costanti, incessanti, echeggiando nel laboratorio silenzioso. Guardando dentro il Portale con gli occhi che gli bruciavano per lo sforzo, Tanis quasi si convinse che le gocce stessero cadendo, ad una ad una, sui suoi nervi spasmodicamente tesi.

Sfregandosi gli occhi, voltò le spalle al Portale con un ringhio amareggiato, e si mosse per dare un’occhiata fuori dalla finestra. Dopo tutto quello che aveva vissuto, sarebbe rimasto assai poco sorpreso se avesse scoperto che la primavera era giunta e trascorsa, che l’estate era sbocciata e morta, e l’autunno stava iniziando.

Il fumo denso non passava più turbinando davanti alla finestra. Gli incendi, avendo divorato tutto ciò di cui potevano nutrirsi, si stavano spegnendo. Alzò lo sguardo al cielo. I draghi erano scomparsi alla vista sia i buoni sia i cattivi. Tese l’orecchio. Nessun suono proveniva dalla città sotto di lui. La foschia nebbiosa, la tempesta e il fumo gravavano ancora su di essa, incupiti ancora di più dall’oscurità del Bosco di Shoikan.

La battaglia è finita. Se ne rese conto, sia pure intontito. È finita. E noi abbiamo vinto... La vittoria.

Una vittoria vuota e sciagurata.

E poi, un palpito di luce azzurra attirò il suo sguardo. Spaziando con gli occhi sulla città, Tanis gemette.

La cittadella volante era improvvisamente comparsa alla vista. Piombando giù dalle nubi tempestose, stava allegramente sbandando, essendosi procurata da qualche parte uno stendardo di un azzurro brillante che sbatteva al vento. Tanis guardò con un po’ più di attenzione, pensando di riconoscere non soltanto lo stendardo ma anche il grazioso minareto dal quale sventolava, adesso appollaiato come un ubriaco su una torre della cittadella.

Scuotendo la testa, il mezzelfo non potè fare a meno di sorridere. Lo stendardo e il minareto, fino a poco tempo prima avevano fatto parte entrambi del palazzo di Lord Amothus.

Appoggiandosi contro la finestra, Tanis continuò a osservare la cittadella, la quale aveva acquisito un drago bronzeo come guardia d’onore. Sentì rilassarsi un po’ la sua tetraggine, il dolore, la paura e la tensione che l’avevano assillato. Non aveva importanza ciò che sarebbe accaduto al mondo o sugli altri piani d’esistenza; alcune cose, e fra queste i kender, non cambiavano mai.

Tanis seguì con lo sguardo il castello che si dirigeva ondeggiando ;, sopra la baia, poi, però, rimase considerevolmente sorpreso di vedere la cittadella rovesciarsi tutt’a un tratto, rimanendo sospesa in aria a testa in giù.

«Cosa sta combinando, Tas?»

E poi Tanis lo seppe: la cittadella cominciò a ballonzolare pittorescamente ! su e giù come una saliera. Forme nere con ali coriacee ruzzolarono fuori dalle finestre e dalle porte. Su e giù, su e giù, ballonzolò la cittadella , mentre, sempre più numerose, le forme nere ne cadevano fuori. Tanis sogghignò. Tas faceva sgomberare le guardie! Poi, quando i draconici cessarono di traboccare fuori per cadere in acqua, la cittadella tornò , a raddrizzarsi e continuò per la sua strada... e mentre guizzava via allegramente, con lo stendardo azzurro che sbatteva al vento, come impazzita eseguì un tuffo sconsiderato e infelice nell’oceano!

Tanis trattenne il respiro, ma la cittadella ricomparve quasi subito, schizzando fuori dall’acqua come un delfino che avesse issato la bandiera azzurra, per levarsi ancora una volta nel cielo (adesso l’acqua scorreva fuori da ogni apertura concepibile) e sparire fra le nubi tempestose. Scuotendo la testa, sorridendo, Tanis si voltò e vide Dalamar che indicava il Portale. «Eccolo. Caramon è tornato nella sua posizione.»

Rapidamente il mezzelfo attraversò la stanza e tornò a fermarsi davanti al Portale.

Poteva vedere Caramon, ancora una minuscola figura rivestita da una sfolgorante armatura. Ma adesso stava portando qualcuno tra le braccia. «Raistlin?» chiese Tanis, perplesso. «Dama Crysania,» rispose Dalamar. «Forse è ancora viva!» «Sarebbe meglio per lei se non lo fosse,» replicò Dalamar freddamente.

L’amarezza indurì ancora di più la sua voce e la sua espressione. «Meglio per tutti noi! Adesso Caramon dovrà fare una difficile scelta.»

«Cosa vuoi dire?»

«Si renderà conto, inevitabilmente, che potrebbe salvarla riportandola lui stesso attraverso il Portale. Il che ci lascerebbe tutti alla mercé di suo fratello, o della Regina, o di entrambi!»

Tanis rimase silenzioso, limitandosi a osservare. Caramon si stava avvicinando sempre di più al Portale, con il corpo abbigliato di bianco della donna tra le braccia.

«Cosa sai di lui?» chiese Dalamar d’un tratto. «Che decisione prenderà? L’ultima volta che l’ho visto era un buffone sbronzo, ma le sue esperienze sembrano averlo cambiato.»

«Non lo so,» disse Tanis, turbato, parlando più a se stesso che a Dalamar. «Il Caramon che conoscevo un tempo era soltanto una mezza persona, l’altra metà apparteneva a suo fratello. Adesso è diverso. È cambiato.» Tanis si grattò la barba, corrugando la fronte. «Poveretto, davvero non so...»

«Ah, sembra che la scelta sia stata fatta a suo vantaggio,» disse Dalamar. Nella sua voce il sollievo si mescolava alla paura.

Tanis guardò dentro il Portale e vide Raistlin. Vide l’incontro finale tra i gemelli.

Tanis non parlò mai a nessuno di quell’incontro, nonostante quanto aveva visto e sentito fosse inciso indelebilmente nella sua memoria, scoprì di non poterne parlare. Dare voce a quei fatti, sarebbe parso degradarli, privarli del loro splendido orrore, della loro terribile bellezza.

Ma spesso, se era depresso o infelice, avrebbe ricordato l’ultimo dono di un’anima ottenebrata e ringraziato gli dei per la loro benedizione.

Caramon trasportò Dama Crysania attraverso il Portale. Tanis si precipitò avanti per aiutarlo, e prese Crysania tra le braccia, fissando con meraviglia l’omone che impugnava il Bastone magico, la cui luce risplendeva ancora viva.

«Rimani con lei, Tanis,» disse Caramon. «Devo chiudere il Portale.»

«Affrettati!» Tanis sentì il brusco respiro di Dalamar. Vide l’elfo scuro che fissava il Portale in preda all’orrore. «Chiudilo!» gridò.

Reggendo Crysania fra le braccia, Tanis abbassò lo sguardo su di lei e si rese conto che stava morendo. Il suo respiro s’interrompeva, la sua pelle era color cenere, le labbra azzurrognole. Ma non poteva far niente per lei, salvo portarla in un luogo sicuro.

Un luogo sicuro! Si guardò intorno, il suo sguardo andò a un angolo in ombra dov’era giaciuta un’altra donna. Era il punto più lontano dal Portale. Là, Crysania sarebbe stata al sicuro... al sicuro come avrebbe potuto esserlo in qualunque altro luogo, pensò con dolore. La mise giù, nella posizione più comoda possibile, poi si affrettò a tornare indietro, davanti a quell’apertura sul vuoto.

Qui, Tanis si fermò, ipnotizzato dallo spettacolo che gli si apriva davanti agli occhi.

L’ombra del male riempiva il Portale, le teste metalliche dei draghi Che formavano l’accesso ululavano trionfanti. Le teste vive dei draghi al di là del Portale si agitavano sopra il corpo della loro vittima mentre l’arcimago cadeva sotto i loro artigli.


«No, Raistlin!». Il volto di Caramon si contorse per l’angoscia. Fece ;un passo verso il Portale.

«Fermalo!» urlò furente Dalamar. «Fermalo, Mezzelfo! Uccidilo, se è necessario! Chiudi il Portale!»

La mano di una donna si avventò verso l’apertura e, mentre essi guardavano storditi per l’orrore, quella mano divenne l’artiglio di un drago, le Unghie coronate di rosso, chiazzate di sangue. La mano della Regina si avvicinava sempre di più al Portale, con l’intenzione di tenere aperto quel varco sul mondo così da poter, ancora una volta, conquistarsi l’ingresso. «Caramon!» gridò Tanis, balzando avanti. Ma cosa poteva fare? Non era abbastanza forte per sopraffare fisicamente l’omone.

Andrà da lui, pensò Tanis angosciato. Non lascerà morire suo fratello...

No, disse una voce dentro il mezzelfo. Non lo farà... e là sta la salvezza del mondo.

Caramon si fermò, trattenuto dal potere di quella mano macchiata di sangue. L’adunco artiglio di drago era vicino, e dietro di esso luccicavano occhi malevoli e trionfanti. Lentamente, lottando contro quella forza malefica, Caramon sollevò il Bastone di Magius.

Non accadde nulla!

Le teste di drago dell’ingresso ovale ruppero l’aria con grida simili a squilli di tromba, salutando l’ingresso della loro Regina nel mondo.

Poi, una forma d’ombra comparve accanto a Caramon. Abbigliato di I nero, con i capelli bianchi che ricadevano giù dalle spalle, Raistlin sollevò una mano dalla pelle dorata e afferrò il Bastone di Magius, giusto accanto a dov’era stretto dalla mano del suo gemello.

Il Bastone avvampò di una luce pura e argentea.

La luminosità multicolore all’interno del Portale turbinò e roteò e lottò né tenebre né luce, né movimento né immobilità, né calore ne luce. C’era semplicemente il nulla

Caramon era immobile, tutto solo, davanti al Portale col Bastone di Magiustretto nella mano. La luce del potente talismano avvampò ancora una volta

Poi vacillò. E si spense.

Tutto era immobile, poi dalla tenebra giunse un sussurro: «Addio, fratello mio».

Capitolo dodicesimo.

Astinus di Palanthas sedeva nella Grande Biblioteca, intento a scrivere la sua storia con quei tratti neri e nitidi che avevano registrato tutte le vicende di Krynn dal primo giorno in cui gli dei avevano contemplato il mondo, fino all’ultimo, quando il grande libro si sarebbe concluso per sempre.

Astinus scriveva, ignorando il caos che lo circondava, o meglio, tale era la presenza di quell’uomo, che sembrava esser lui a costringere il caos a ignorarlo.

Erano passati soltanto due giorni dalla fine di quella cui Astinus si era riferito, nelle sue Cronache, come “La sfida dei Gemelli” (ma che chiunque altro chiamava «La Battaglia di Palanthas»). La città era in rovina. I soli edifici ancora in piedi erano la Torre della Grande Stregoneria e la Grande Biblioteca, e la Biblioteca non era rimasta illesa.

Il fatto che fosse ancora in piedi era dovuto, in larga parte, all’eroismo degli Estetici. Guidati dal tondo Bertrem, il cui coraggio era stato attizzato, così si diceva, dalla vista di un draconico che aveva osato porre una mano artigliata su uno dei libri sacri, gli Estetici avevano attaccato il nemico con tale ardore e con un tale selvaggio e incurante disprezzo per la vita che pochi di quei rettili erano riusciti a salvarsi.

Ma, come il resto di Palanthas, gli Estetici avevano pagato un prezzo assai pesante per la vittoria.

Molti del loro ordine erano periti in battaglia. Essi erano stati pianti dai loro confratelli, alle loro ceneri era stato dato un onorato riposo fra quei libri per proteggere i quali avevano sacrificato la vita. Il prode Bertrem non era morto. Soltanto leggermente ferito, aveva visto il suo nome riportato in uno dei grandi libri accanto a quelli degli altri Eroi di Palanthas. La vita non poteva più offrire nessun’altra ricompensa a Bertrem. Non passava mai accanto a quel particolare libro senza tirarlo giù furtivamente dallo scaffale, aprendolo alla Pagina e crogiolandosi alla luce della sua gloria.

La bella città di Palanthas adesso non era altro che un ricordo e qualche riga di descrizione nei libri di Astinus. Cumuli di pietre carbonizzate e annerite segnavano le tombe dei palazzi nobiliari. I ricchi depositi, con le loro botti di vino e di birra di ottima qualità, i loro magazzini colmi di cotone e di grano, le casse rigurgitanti di meraviglie provenienti da ogni parte di Krynn giacevano su montagne di ceneri. Gli scafi bruciati delle navi galleggiavano nei porti, anch’essi soffocati dalla cenere. I mercanti frugavano in mezzo alle macerie dei loro negozi, recuperando quello che potevano. Le famiglie fissavano le loro case in rovina, sorreggendosi a vicenda, e ringraziando gli dei di avere, per lo meno, salvato la vita.

Molti non c’erano riusciti. I Cavalieri di Solamnia all’interno della città erano periti quasi tutti, combattendo la loro battaglia senza speranza contro Lord Soth e le sue micidiali legioni. Uno dei primi a cadere era stato il focoso sir Markham. Fedele al giuramento fatto a Tanis, il cavaliere non aveva combattuto contro Lord Soth, ma aveva invece radunato i compagni guidandoli in una carica contro i suoi guerrieri scheletrici. Anche dopo essere stato trafitto molte volte, aveva continuato a combattere coraggiosamente, conducendo più e più volte i suoi uomini insanguinati ed esausti in furibondi assalti contro il nemico finché non era caduto, morto, dal suo cavallo.

Molti erano coloro che a Palanthas, grazie al coraggio dei cavalieri, erano sopravvissuti invece di perire sotto le lame fredde come il ghiaccio dei nonmorti che, così si diceva, erano misteriosamente svaniti, quando il loro condottiero era comparso in mezzo a loro reggendo fra le braccia un corpo avvolto in un sudario.

I corpi dei Cavalieri di Solamnia, pianti come eroi, erano stati portati dai loro compagni nella Torre del Sommo Chierico. E qui erano stati sepolti, in una tomba dove già giaceva il corpo di Sturm Brightblade, Eroe della Guerra delle Dragonlance.

Nell’aprire il sepolcro, che non era più stato disturbato sin dalla Battaglia della Torre del Sommo Chierico, i cavalieri erano rimasti stupiti nel trovare intatto il corpo di Sturm, senza che il tempo l’avesse devastato. Un gioiello elfico luccicava sul suo petto e si pensò che questo fosse la causa del miracolo. Tutti quelli che entrarono, quel giorno, nel sepolcro per piangere i loro cari caduti in battaglia fissarono quel gioiello che irradiava una costante luminosità e provarono una sensazione di pace che alleviava l’amaro tormento del loro dolore.

I cavalieri non furono i soli a essere rimpianti. A Palanthas erano morti anche molti cittadini comuni, uomini che avevano difeso la città e la famiglia, donne che avevano difeso la casa e i figli.

I cittadini di Palanthas bruciarono i loro morti seguendo un’usanza antica di secoli, disperdendo in mare le ceneri dei loro cari, là dove si mischiarono alle ceneri della loro amata città.

Astinus aveva registrato tutto a mano a mano che accadeva. Aveva continuato a scrivere, così riferirono gli Estetici con reverenziale timore, perfino mentre Bertrem, da solo, percuoteva a morte con un randello un draconico che aveva osato invadere lo studio del Maestro. Astinus stava ancora scrivendo quando era divenuto gradualmente consapevole, al di sopra del trepestio delle scope, dei colpi di martello, del vociare, che Bertrem gli stava facendo ombra. Sollevò la fronte e si accigliò.

Bertrem, che non una sola volta era impallidito davanti al nemico, divenne d’un pallore mortale e arretrò all’istante, lasciando che la luce del sole tornasse a cadere sulla pagina.

Astinus riprese a scrivere. «Allora?» disse.

«Caramon Majere e un... un kender sono qui a farti visita, Maestro.» Se Bertrem avesse detto che un demone dell’Abisso era giunto per incontrare Astinus, non sarebbe riuscito a infondere più orrore nella sua voce di quando aveva pronunciato la parola «kender». «Falli entrare,» lo sollecitò Astinus.

«Loro, Maestro?» non potè fare a meno di balbettare Bertrem in preda allo sbigottimento.

Astinus sollevò lo sguardo, tornando ad accigliarsi. «Quel draconico non ha danneggiato il tuo udito, non è vero, Bertrem? Non hai ricevuto, magari, una botta in testa?»

«N... no, Maestro.» Bertrem arrossì e si affrettò a uscire dalla stanza, inciampando nelle sue vesti.

«Caramon Majere e... e Tassle... f... foot B... Burr... hoof,» annunciò Bertrem in preda alla confusione, qualche istante più tardi.

«Tasslehoff Burrfoot,» lo corresse il kender, porgendo una piccola mano ad Astinus, il quale la strinse con solennità. «E tu sei Astinus di Palanthas,» continuò Tas, con il ciuffo che gli sobbalzava per l’eccitazione. «Ti ho già incontrato, ma non puoi ricordarlo, perché non è ancora successo. O piuttosto, a pensarci bene, non accadrà mai, vero, Caramon?»

«No,» rispose l’omone. Astinus girò lo sguardo su Caramon, fissandolo intensamente.

«Non assomigli al tuo gemello,» gli disse, freddamente, «ma d’altra parte Raistlin aveva subito molte prove che l’avevano segnato fisicamente e mentalmente. Però c’è qualcosa di lui nei tuoi occhi...»

Lo storico corrugò la fronte, perplesso. Non capiva, e non c’era mai stato niente sulla faccia di Krynn che non capisse. Di conseguenza, s’incollerì.

Era molto raro che Astinus s’incollerisse. Quando accadeva, la sua irritazione si trasmetteva come un’ondata di terrore fra gli Estetici.

Sì, era proprio incollerito. Le sue sopracciglia grigie si rizzarono, le labbra si strinsero, e c’era un’espressione nei suoi occhi che indusse il kender a guardarsi intorno nervosamente, chiedendosi se non avesse lasciato qualcosa fuori in corridoio di cui aveva urgente bisogno... adesso!

«Cosa sta succedendo?» chiese lo storico, alla fine, picchiando la mano sul suo libro, facendo saltare in aria la penna, versando fuori l’inchiostro, e costringendo alla fuga Bertrem, il quale stava aspettando fuori in corridoio, con tutta la velocità concessa dai sandali sbatacchianti.

«C’è un mistero intorno a te, Caramon Majere, e per me non ci sono misteri! Conosco tutto ciò che accade sulla faccia di Krynn. Conosco il pensiero di ogni creatura vivente! Vedo le loro azioni!

Leggo i desideri nei loro cuori! Eppure non posso leggere i tuoi occhi!»

«Tas te l’ha detto,» disse Caramon imperturbabile. Affondando la mano nello zaino che aveva addosso, l’omone tirò fuori un enorme libro rilegato in cuoio che depose delicatamente davanti allo storico.

«È uno dei miei!» esclamò Astinus, dopo avergli lanciato un’occhiata. Le rughe sulla sua fronte si accentuarono. Alzò la voce fino a urlare. «Da dove è venuto? Nessuno dei miei libri esce di qui senza che io lo sappia! Bertrem...»

«Guarda la data.»

Astinus fissò furioso Caramon per un attimo, poi spostò lo sguardo rabbioso sul libro. Guardò la data sul volume, preparandosi a gridare di nuovo per chiamare Bertrem. Ma il grido gli morì in gola. Fissò la data, spalancando gli occhi. Sprofondò sulla sedia, facendo passare lo sguardo dal volume a Caramon, poi lo riportò sul volume.

«E il futuro quello che vedo nei tuoi occhi!»

«Il futuro che si trova in questo libro,» disse Caramon, fissandolo con solenne gravità.

«Noi ci siamo stati!» esclamò Tas, sollevando fremente lo sguardo. «Vuoi che te lo racconti? È la storia più meravigliosa che ci sia. Vedi, siamo tornati a Solace. Soltanto, non sembrava Solace.

Infatti, ero convinto che ci trovassimo su una luna, perché avevo pensato ad una luna quando abbiamo usato il congegno magico, e...» «Zitto, Tas,» gli intimò Caramon, gentilmente. Si alzò in piedi, mise la mano sulla spalla del kender e lasciò la stanza in silenzio. » Tas, trascinato con fermezza fuori dalla porta, lanciò un’occhiata dietro di sé. «Addio,» gridò, agitando la mano. «È stato un piacere rivederti ehm, prima, uh, dopo... insomma, qualunque cosa sia.»

Ma Astinus non lo sentì. Quel giorno, in cui ricevette il libro da Caramon Majere, fu l’unico dell’intera storia di Palanthas in cui non registrò nulla, soltanto un’annotazione:

Questo giorno, come sopra. Dopoveglia ascendente 14, Caramon Majere mi ha portato le Cronache di Krynn, volume 2000. Un volume scritto da me che non scriverò mai.

I funerali di Elistan rappresentarono, per la gente di Palanthas, anche i funerali della loro amata città. La cerimonia venne tenuta allo spuntare del giorno, come Elistan aveva richiesto, e tutti a Palanthas vi parteciparono: vecchi, giovani, ricchi e poveri. I feriti che potevano venire mossi venirono trasportati fuori dalle loro case, i loro giacigli vennero disposti all’erba bruciacchiata e annerita dei prati, un tempo bellissimi, del Tempio.

Fra questi c’era Dalamar. Nessuno mormorò quando l’elfo scuro venne aiutato ad attraversare il prato da Tanis e Caramon, per prendere il suo posto sotto un boschetto di pioppi tremoli bruciati e carbonizzati, poiché correva voce che il giovane apprendista usufruitore di magia avesse combattuto contro la Signora Scura, come veniva chiamata Kitiara, sconfiggendola, causando in tal modo la distruzione delle sue forze.

Elistan aveva chiesto d’essere seppellito nel suo Tempio, ma adesso questo era impossibile: del Tempio non c’era più nulla, salvo un guscio sventrato di marmo. Lord Amothus aveva offerto la tomba di famiglia, ma Crysania aveva rifiutato. Ricordando che Elistan aveva trovato la sua fede nelle miniere degli schiavi di Pax Tharkas, la Reverenda Figlia, ora capo della chiesa, decretò che venisse messo a riposare sotto il Tempio, in una delle caverne sotterranee che adesso venivano usate come magazzini.

Anche se qualcuno ne fu sconcertato, nessuno mise in discussione gli ordini di Crysania. Le caverne vennero pulite e santificate, e con i resti del Tempio venne costruita una tomba di marmo. E da quel giorno, perfino durante i grandi tempi della chiesa che sarebbero venuti, tutti i sacerdoti vennero posti a riposare in quell’umile luogo, che ben presto fu conosciuto come uno dei luoghi più sacri di Krynn.

La gente si sedette sul prato in silenzio. Gli uccelli, non sapendo niente di guerra, di morte o di dolore, ma consci soltanto che il sole si levava e che essi erano vivi nella chiara luminosità del mattino, riempirono l’aria con i loro canti. I raggi del sole coronavano d’oro le montagne, ricacciando le tenebre della notte, portando la luce in quei cuori gravidi di dolore.

Soltanto una persona si levò per pronunciare l’elogio funebre di Elistan, e tutti giudicarono giusto che fosse lei a farlo. Non soltanto perché adesso prendeva il suo posto, come lui aveva richiesto, come capo della chiesa, ma perché lei pareva riassumere per tutto il popolo di Palanthas la loro perdita e il loro dolore.

Si diceva, tra la gente, che quella mattina era la prima volta che si era alzata dal letto da quando Tanis Mezzelfo l’aveva condotta giù dalla Torre della Grande Stregoneria fino ai gradini della Grande Biblioteca, dove i chierici erano all’opera tra i feriti e i morenti. Lei stessa era stata prossima alla morte. Ma la sua fede e le preghiere dei chierici l’avevano riportata alla vita. Non avevano potuto, però, restituirle la vista.

Quella mattina Crysania era davanti a loro, con gli occhi fissi sul sole che non avrebbe mai più rivisto. I suoi raggi traevano riflessi dai neri capelli che incorniciavano il volto reso bello da un’espressione di profonda e perenne compassione e fede.

«Mentre mi trovo qui nel buio,» disse con una voce che s’innalzava dolce e pura tra i canti delle allodole, «sento il calore della luce sulla mia pelle, e so che il mio viso è rivolto verso il sole. Posso guardare in faccia il sole perché i miei occhi sono per sempre velati dalla tenebra. Ma se voi che potete vedere guarderete troppo a lungo il sole, perderete la vista, proprio come quelli che vivendo troppo nella tenebra perderanno un po’ per volta la loro.

«Questo ci ha insegnato Elistan, che i mortali non sono stati creati per vivere solamente alla luce del sole o nell’ombra, ma in entrambi. Entrambi presentano i loro pericoli, se vengono usati male, ed entrambi concedono i loro premi. Noi abbiamo superato le nostre prove di sangue, di tenebra e di fuoco...» la sua voce tremò e s’interruppe. Quelli più vicini a lei videro le lacrime rigarle le guance.

Ma quando continuò, la sua voce era forte e ferma, anche se le lacrime luccicavano alla luce del sole. «Abbiamo superato queste prove come Huma superò le sue, con grandi perdite, con grandi sacrifici, ma forti nella consapevolezza che il nostro spirito risplende e che noi, forse, risplendiamo più luminosi fra tutte le Stelle del firmamento.

«Perché, anche se qualcuno dovesse scegliere di percorrere i sentieri della notte, fissando la luna nera per farsi guidare, mentre altri percorrono i sentieri del giorno, i sentieri impervi di entrambi, cosparsi di rocce, possono diventare più facili grazie al tocco di una mano, alla voce di un amico.

La capacità di amare, di prendersi cura degli altri, è data a noi tutti: il più grande dono degli dei a tutte le specie. La nostra bella città è perita tra le fiamme.» La sua voce si addolcì. «Abbiamo perduto molti di coloro che amavamo, e forse può sembrarci che la vita sia un fardello troppo difficile perché possiamo sopportarla. Ma tendete la mano, e questa toccherà la mano di qualcuno protesa verso la vostra ed, insieme, troverete la forza e la speranza necessarie per andare avanti.»

Dopo la cerimonia, quando i chierici ebbero trasportato il corpo di Elistan nel luogo del suo definitivo riposo, Caramon e Tas cercarono Dama Crysania. La trovarono tra i chierici, con il braccio appoggiato a quello della giovane donna che le faceva da guida.

«Ci sono due persone che vorrebbero parlare con te, Reverenda Figlia,» l’informò la giovane chierica.

Dama Crysania si voltò, porgendo la mano. «Lasciate che vi tocchi,» disse.

«Sono Caramon,» cominciò l’omone, impacciato, «e...»

«... e Tas,» aggiunse il kender, con voce docile e sottomessa. «Siete venuti per dirmi addio,» sorrise Dama Crysania. «Sì. Partiamo oggi stesso,» confermò Caramon, tenendole la mano nella propria.

«Andrete direttamente a casa a Solace?»

«No, non ancora,» disse Caramon a bassa voce. «Torniamo a Solanthas con Tanis. Poi, quando mi sentirò un po’ più me stesso, userò il congegno magico per tornare a Solace.»

Crysania gli strinse la mano, attirandolo vicino a sé. «Raistlin è in pace, Caramon,» gli disse con voce sommessa. «E tu?»

«Sì, mia signora,» rispose Caramon, con voce ferma e risoluta. «Sono in pace. Finalmente.»

Sospirò. «Ho soltanto bisogno di parlare con Tanis e di districare le faccende della mia vita, di rimetterle in ordine. Tanto per incominciare,» aggiunse arrossendo e con un sorriso di vergogna,

«ho bisogno di sapere come si fa a costruire una casa! Ero ubriaco per la maggior parte del tempo quando ho lavorato alla nostra, e non avevo e non ho la più pallida idea di ciò che stavo facendo.»

La guardò e lei, conscia che lui la stava fissando, anche se non poteva vederlo, sorrise, e la sua pelle pallida si tinse d’un rosa lievissimo. Vedendo quel sorriso, e vedendo le lacrime che cadevano intorno ad esso, Caramon l’attirò a sé a sua volta. «Mi spiace. Vorrei averti potuto risparmiare questo...»

«No, Caramon,» replicò lei con voce sommessa. «Poiché adesso vedo, vedo chiaramente, come Loralon mi aveva promesso.» Gli baciò la mano, premendosela sulla guancia. «Addio, Caramon.

Paladine sia con te.»

Tasslehoff tirò su col naso.

«Addio, Crysania... voglio dire, Re... Reverenda Figlia,» disse Tas con una vocina sottile sottile, sentendosi d’un tratto solo, e corto. «Mi... mi dispiace di aver combinato tanti pasticci...»

Ma Dama Crysania lo interruppe. Voltando le spalle a Caramon, allungò la mano e gli lisciò il ciuffo. «La maggior parte di noi cammina nella luce e nell’ombra, Tasslehoff,» disse, «ma ci sono pochissimi prescelti che percorrono questo mondo portando la propria luce per illuminare sia il giorno sia la notte.»

«Davvero? Devono affaticarsi terribilmente, trascinandosi appresso una luce del genere! Si tratta di una torcia? Non può essere una candela. La cera gli si fonderebbe addosso, sgocciolandogli dentro le scarpe e... senti... pensi che potrò incontrare qualcuno del genere?» chiese Tas, con vivo interesse.

«Tu sei qualcuno del genere,» rispose Dama Crysania. «E non credo che dovrai mai preoccuparti che la cera ti coli nelle scarpe. Addio, Tasslehoff Burrfoot. Non c’è bisogno che chieda la benedizione di Paladine su di te, perché so che sei uno dei suoi più intimi amici...»

«Be’» chiese Caramon d’un tratto, mentre lui e Tas si facevano strada tra la folla, «hai deciso quello che farai adesso? Hai la cittadella volante, Lord Amothus te l’ha concessa. Puoi andare dovunque su Krynn. Forse perfino su una delle lune, se lo vorrai.»

«Oh, quella.» Tas, ancora un po’ sconvolto dopo il suo colloquio con Crysania, parve avere qualche difficoltà a ricordare ciò di cui Caramon stava parlando. «Non ho più la cittadella. Non appena mi sono messo a esplorarla, ho scoperto che è spaventosamente grande e noiosa. E che non poteva arrivare fino alla luna. Ci ho provato. Sai,» aggiunse guardando Caramon con occhi spalancati, «che se sali abbastanza in alto, il naso comincia a sanguinarti? E inoltre fa un freddo tremendo, e tutto diventa molto scomodo. Inoltre, sembra che le due lune siano molto più lontane di quanto avessi immaginato. Ora, se avessi il congegno magico...» lanciò un’occhiata di traverso a Caramon.

«No,» ribatté Caramon, con severità. «Assolutamente no. Quello tornerà a Par-Salian.»

«Potrei portarglielo io,» si offrì Tas, servizievole. «Mi darebbe la possibilità di spiegargli come Gnimsh era riuscito a ripararlo, e come io ho scombussolato l’incantesimo e... No?». Tirò un sospiro. «Immagino di no. Be’, comunque ho deciso di rimanere insieme a te e a Tanis... se mi volete, s’intende.» Fissò Caramon con un po’ d’ansia.

Caramon rispose allungando le mani e stringendo il kender in un abbraccio che schiacciò parecchi oggetti interessanti d’incerto valore che aveva nelle borse.

«A proposito,» aggiunse Caramon dopo un ripensamento, «cosa ne hai fatto della cittadella volante?»

«Oh,» Tas agitò le mani con noncuranza, «l’ho data a Rounce.»

«Il nano dei fossi!» Caramon si fermò, sgomento.

«Non può farla volare, non da solo!» gli garantì Tas. «Anche se,» aggiunse dopo un attimo di profonda riflessione, «suppongo che potrebbe riuscirci, se riuscisse a farsi aiutare da qualche altro nano dei fossi. Non ci avevo pensato...»

Caramon gemette. «Dov’è?»

«L’ho fatta adagiare al suolo per lui in un bel posto. Un posto molto bello. Il quartiere più ricco di una città che abbiamo sorvolato. A Rounce piaceva, la cittadella, non la città. Be’, a pensarci bene, credo che gli sia piaciuta anche la città. Comunque, mi è stato di grande aiuto e tutto il resto, così gli ho chiesto se voleva la cittadella, e lui ha detto di sì, e così ho messo giù quell’affare in quel posto libero...

«Ha causato una notevole sensazione,» aggiunse Tas tutto felice. «Un uomo è uscito di corsa da quel grande castello in cima a una collina, proprio accanto a dove avevo fatto scendere la cittadella, e ha cominciato a urlare che quel terreno era proprietà sua e che diritto avevamo di farci cadere sopra un altro castello, dando il via a una bellissima lite. Gli ho fatto notare che il suo castello non copriva certo tutta la proprietà, e sono sicuro di avergli citato parecchi vantaggi che gli sarebbero venuti da questa condivisione di proprietà... se soltanto fosse stato ad ascoltarmi. Poi Rounce ha cominciato a dire che avrebbe condotto là tutto il clan dei Burp o qualcosa del genere, e che sarebbero andati a vivere nella cittadella, e all’uomo è venuto un attacco di qualche tipo e l’hanno portato via e ben presto l’intera città era lì intorno. Per un po’ è stato proprio eccitante, ma poi la cosa è diventata noiosa. Sono lieto che Fireflash avesse deciso di accompagnarci. Mi ha riportato indietro.»

«Non mi avevi raccontato niente di tutto questo!» esclamò Caramon fissando il kender e facendo del suo meglio per apparire truce.

«Cre... credo che mi sia uscito di mente,» borbottò Tas. «Durante queste giornate ho avuto un sacco di cose a cui pensare, sai.»

«Lo so, Tas,» convenne Caramon. «Mi sono preoccupato per te. Ieri ti ho visto parlare a qualche altro kender. Potresti tornare a casa, sai. Una volta mi confidasti che avevi pensato di ritornare a Kendermore.»

Il volto di Tas assunse un’espressione insolitamente seria. Facendo scivolare la mano in quella di Caramon si avvicinò, sollevando lo sguardo su di lui... uno sguardo estremamente grave. «No, Caramon,» disse con voce sommessa. «Non è la stessa cosa. Sem... sembra che io non riesca più a parlare con gli altri kender.» Scosse la testa, il suo ciuffo frusciò avanti e indietro. «Ho cercato di dire loro di Fizban e del suo cappello, di Flint e del suo albero, e... e di Raistlin e del povero Gnimsh.» Tas deglutì e, tirato fuori un fazzoletto, si asciugò gli occhi. «Non sembrano capire.

Semplicemente non... be’... non gl’importa un bel niente! è difficile prendere a cuore qualcosa, non... non è vero, Caramon? Qualche volta fa male.»

«Sì, Tas,» replicò Caramon con calma. Erano entrati in un boschetto ombreggiato. Tanis li stava aspettando sotto un pioppo tremolo alto e grazioso, le cui piccole foglie primaverili luccicavano dorate al bagliore del . sole mattutino. «Fa male la maggior parte delle volte, ma il dolore è sempre meglio che esser vuoti dentro.»

Tanis si avvicinò e mise un braccio intorno alle ampie spalle di Caramon, l’altro braccio intorno a quelle di Tas. «Pronti?» chiese.

«Pronti,» rispose Caramon.

«Bene. I cavalli sono da questa parte. Ho pensato di cavalcare. Avremmo potuto prendere la carrozza ma, a essere onesti, mi sono sempre sentito imprigionato in quel dannato affare. E anche Laurana, anche se non lo ammetterà mai. La campagna è bellissima in questo periodo dell’anno.

Prenderemo tutto il nostro tempo e ce la godremo.»

«Tu vivi a Solanthas, non è vero, Tanis?» disse Tas, mentre salivano in sella ai cavalli e si avviavano lungo la strada annerita e in rovina. La gente che aveva lasciato il funerale e adesso tornava a raccogliere i frammenti superstiti della propria vita, udì la voce allegra del kender echeggiare pei le strade ancora molto tempo dopo che se n’era andato.

«Sono stato a Solanthas, una volta. Hanno una prigione incredibilmente bella. Una delle più belle in cui sia stato. Mi ci mandarono per errore, naturalmente. Un equivoco a proposito d’una teiera d’argento che era ruzzolata giù finendo, per puro caso, in una delle mie borse...»

Dalamar salì la ripida scala a chiocciola che conduceva su nel laboratorio in cima alla Torre della Grande Stregoneria. Saliva i gradini, invece di spostarsi magicamente, poiché quella notte aveva un lungo viaggio davanti a sé. Anche se i chierici di Elistan gli avevano curato le ferite, era ancora debole e non voleva sprecare le proprie forze. Più tardi, quando la luna nera fosse stata nel cielo, avrebbe viaggiato traverso l’etere fino alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth per partecipare a un Conclave degli Stregoni, uno dei più importanti mai tenutisi in quell’era. Par-Salian stava per lasciare il posto di Capo del Conclave. Si doveva scegliere il suo successore.

Probabilmente si sarebbe trattato della Veste Rossa, Justarius. Dalamar non aveva nulla in contrario.

Sapeva di non essere ancora abbastanza potente per diventare il nuovo arcimago. Non ancora, comunque. Ma serpeggiava anche la sensazione che si dovesse anche scegliere un nuovo Capo dell’Ordine delle Vesti Nere. Dalamar sorrise. Non aveva alcun dubbio su chi sarebbe stato. Aveva fatto tutti i suoi preparativi per partire. I guardiani avevano ricevuto le loro istruzioni: nessuno, vivo o morto, doveva venire ammesso alla Torre durante la sua assenza. Non che fosse probabile. Il Bosco di Shoikan manteneva la propria truce vigilanza, indenne alle fiamme che avevano spazzato il resto di Palanthas. Ma la tenebrosa solitudine che la Torre aveva conosciuto per tanto tempo sarebbe presto finita.

Per ordine di Dalamar, parecchie stanze all’interno della Torre erano state pulite e rimesse a nuovo.

Dalamar aveva l’intenzione di ritornare portando con sé parecchi apprendisti: Vesti Nere, certo, ma forse una o due Vesti Rosse, se ne avesse trovato qualcuna di adatta. Sperava di poter trasmettere le capacità che aveva acquisito, il sapere che aveva imparato. E, lo ammise a se stesso, desiderava compagnia. Ma, prima, c’era qualcosa che doveva fare.

Prima di entrare nel laboratorio, si fermò sulla soglia. Non era più tornato in quella stanza da quando Caramon lo aveva trasportato fuori di lì, nell’ultimo, fatidico giorno. Adesso era notte. La stanza era al buio. Ad una sua parola le candele si accesero guizzando, riscaldando la stanza con la loro morbida luminosità. Ma le ombre rimasero sospese negli angoli come creature viventi.

Tenendo alto il candelabro che stringeva in mano, Dalamar compì un lento giro della stanza, scegliendo diversi oggetti, pergamene, una bacchetta magica, diversi anelli, e li mandò, pronunciando una semplice parola, giù, nel suo studio.

Passò davanti all’angolo scuro dove Kitiara era morta. Il suo sangue ancora macchiava il pavimento. Quel punto della stanza era freddo, ghiacciato, e Dalamar non vi si attardò. Passò davanti al tavolo di legno con i suoi becher e le sue bottiglie, gli occhi lo fissarono ancora imploranti dal loro interno. Con una parola li chiuse... per sempre.

Infine giunse davanti al Portale. Le cinque teste di drago, eternamente rivolte verso il vuoto, urlavano ancora il loro silenzioso, pietrificato peana alla Regina delle Tenebre. L’unica luce che risplendeva sopra quelle teste scure, metalliche, senza vita era il riflesso delle sue candele. Dalamar guardò dentro il Portale. Non c’era niente. Dalamar lo fissò per lunghi momenti. Poi, allungando la mano, tirò un cordone di seta dorata che pendeva dal soffitto. Una pesante tenda scese giù, avvolgendo il Portale in uno strato di denso velluto purpureo.

Voltandosi dall’altra parte, Dalamar si trovò a guardare gli scaffali che si trovavano proprio in fondo al laboratorio. La luce delle candele illuminava file di volumi rilegati in azzurro-notte, decorati di rune d’argento. Un freddo intenso s’irradiava da essi.

I libri degli incantesimi di Fistandantilus, adesso suoi. E là dove quelle file di libri terminavano, cominciava una nuova fila di libri: volumi rilegati in nero decorati con rune d’argento. Ognuno di quei volumi, Dalamar lo constatò toccandone uno con la mano, bruciava d’un calore interiore che faceva sembrare stranamente vivi quei libri al tocco. Dalamar guardò con attenzione ogni libro.

Tutti, non uno escluso, contenevano le proprie meraviglie, i propri misteri e... il proprio potere.

L’elfo scuro percorse gli scaffali in tutta la loro lunghezza. Quando giunse là dove finivano, accanto alla porta, mandò il candelabro a posarsi sul grande tavolo di pietra. Con una mano già sulla maniglia, tese l’altra verso un ultimo oggetto.

In un angolo oscuro c’era il Bastone di Magius, appoggiato alla parete. Per un attimo Dalamar trattenne il respiro, pensando di aver visto una luce scaturire dal cristallo in cima al Bastone... il cristallo che era rimasto freddo e scuro sin da quel giorno. Ma poi si rese conto, con una sensazione di sollievo, che era soltanto il riflesso della luce delle candele. Con una parola estinse le fiamme, facendo piombare la stanza nell’oscurità.

Guardò da vicino l’angolo in cui si trovava il Bastone. Era smarrito nella notte, non c’era nessun luccichio.

Inspirando a fondo, e poi esalando un lungo sospiro, Dalamar uscì dal laboratorio. Chiuse con decisione la porta alle proprie spalle. Affondò la mano in una scatola di legno, sulla quale erano incise rune potenti, ne estrasse una chiave d’argento e l’infilò in una serratura d’argento decorata, una serratura nuova, una serratura che non era stata fatta da nessun fabbro su Krynn. Bisbigliando parole magiche, Dalamar girò la chiave nella serratura. Si udì uno scatto. Ne seguì un secondo. La trappola mortale era predisposta.

Dalamar si voltò e chiamò a sé uno dei guardiani. Al suo ordine, quegli occhi disincarnati galleggiarono fino a lui.

«Prendi questa chiave,» gli disse Dalamar, «e tienila con te per tutta l’eternità. Non consegnarla a nessuno, neppure a me. E da questo momento in avanti, il tuo posto è a guardia di questa porta.

Nessuno deve entrare, e che la morte sia rapida per coloro che lo tenteranno.»

Gli occhi del guardiano si chiusero per assentire. Mentre Dalamar ridiscendeva le scale, vide gli occhi, riaperti, incorniciati dalla porta, che rivolgevano alla notte il loro gelido bagliore.

L’elfo scuro annuì fra sé, soddisfatto, e proseguì per la sua strada.

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