Libro Secondo.

Il Cavaliere della Rosa Nera.

Lord Soth sedeva sul trono sbriciolato e annerito dal fuoco tra le rovine desolate di Dargaard Keep.

I suoi occhi fiammeggiavano nelle loro orbite invisibili, l’unico segno palese della vita maledetta che ardeva dentro l’armatura carbonizzata di un Cavaliere di Solamnia.

Soth sedeva solo.

Il Cavaliere della Morte aveva congedato i suoi assistenti, ex cavalieri come lui, che gli erano rimasti fedeli in vita, per cui erano stati maledetti e costretti a restargli fedeli anche nella morte.

Aveva mandato via anche le banshee, le donne elfe che avevano avuto un molo nella sua caduta e che adesso erano condannate a servirlo in eterno. Per centinaia d’anni, sin dalla terribile notte della sua morte, Lord Soth aveva ordinato a quelle sfortunate donne di rivivere insieme a lui la sua condanna. Ogni notte, mentre sedeva sul suo trono in rovina, le costringeva a esibirsi, intonando una canzone che raccontava la storia della sua disgrazia e della loro.

Quella canzone causava a Lord Soth un amaro dolore, ma lui benediceva quel dolore. Era dieci volte meglio del nulla che pervadeva il suo empio sopravvivere alla morte in tutti gli altri momenti.

Ma questa notte non aveva ascoltato la canzone. Ascoltava invece la sua storia come gli veniva bisbigliata dall’amaro vento della notte che s’insinuava attraverso i grondoni della rocca in rovina.

«Una volta, molto tempo fa, ero un Lord Cavaliere di Solamnia. Allora ero tutto: aitante, affascinante, coraggioso, sposato a una donna che possedeva una grande fortuna, anche se non la bellezza. I miei cavalieri mi erano devoti. Sì, gli uomini mi invidiavano: ero Lord Soth di Dargaard Keep.

La primavera che precedette il Cataclisma, lasciai Dargaard Keep e cavalcai con il mio seguito fino a Palanthas. C’era un Consiglio dei Cavalieri e la mia presenza era stata richiesta. M’importava poco di quell’incontro del Consiglio, che si sarebbe dilungato con interminabili discussioni relative a regole insignificanti. Ma ci sarebbe stato da bere, una buona compagnia, storie di battaglie e di avventure. Era per quello che ci andavo.

Cavalcavamo lentamente, prendendocela con comodo, le nostre giornate erano piene di canti e di lazzi. Durante la notte alloggiavamo nelle locande quando potevamo, e dormivamo sotto le stelle quando non potevamo. Il tempo era bello, era una primavera mite. Il sole era caldo, le brezze della sera ci rinfrescavano. Avevo trentadue anni, quella primavera. Nella mia vita ogni cosa andava per il meglio. Non ricordo di essere mai stato più felice.

E poi, una notte, maledetta la luna d’argento che l’illuminava, eravamo accampati nella selva. Un grido nel buio ci destò dai nostri sonni. Era il grido di una donna, poi sentimmo le grida di molte donne mescolate alle urla aspre degli orchi.

Ghermendo le nostre armi ci precipitammo nella pugna. Fu una facile vittoria: era soltanto una banda errabonda di ladroni. Per la maggior parte fuggirono al nostro avvicinarsi, ma il capo, o più coraggioso o più ubriaco degli altri, si rifiutava di essere privato della sua preda. Personalmente non lo potevo biasimare. Aveva catturato una giovane e adorabile fanciulla elfa. Alla luce della luna la sua bellezza era radiosa, la sua paura dava un risalto ancora maggiore alla sua fragile avvenenza. Da solo lo sfidai. Combattemmo ed io fui il vincitore. E fu la mia ricompensa, ah, quale dolceamara ricompensa, trasportare fra le mie braccia la fanciulla elfa svenuta là dove si trovavano i miei compagni.

Posso ancora vedere i suoi bellissimi capelli dorati risplendere alla luce delle lune. Posso ancora vedere i suoi occhi, quando si ridestò, fissarsi sui miei, e posso vedere perfino adesso, come lo vidi allora, nascervi l’amore per me. E lei vide, nei miei occhi, l’ammirazione che non potevo nascondere. I pensieri di mia moglie, del mio onore, del mio castello, ogni cosa fuggì via mentre fissavo quel bellissimo volto.

Mi ringraziò, e con quanta timidezza mi parlò! La riconsegnai alle donne elfe, erano un gruppo di chierici in viaggio per Palanthas, e da lì fino a Istar in pellegrinaggio. Lei era soltanto una novizia.

E durante quel viaggio sarebbe stata fatta Reverenda Figlia di Paladine. Lasciai lei e le donne e tornai con i miei uomini all’accampamento. Cercai di dormire, ma sentivo ancora quel corpo snello e giovane fra le mie braccia. Mai prima di allora avevo bruciato a tal punto di passione per una donna.

Quando mi addormentai, i miei sogni furono una dolce tortura. Quando mi svegliai, il pensiero che avremmo dovuto separarci fu come una coltellata nel mio cuore. Mi alzai presto, e tornai al campo elfico. Inventandomi una storia di bande di goblin raminghi che si aggiravano fra quel luogo e Palanthas, non mi fu difficile convincere le donne elfe dell’indispensabilità della mia protezione. I miei uomini non erano contrari a una tale piacevole compagnia, e così viaggiammo con loro. Ma questo non servì ad alleviare la mia sofferenza. Al contrario, la intensificò. Giorno dopo giorno l’osservavo cavalcare accanto a me, ma non abbastanza accanto. Notte dopo notte dormivo solo, con i pensieri in subbuglio.

La volevo. La volevo più di quanto avessi mai voluto una qualunque cosa al mondo. Ma ero un Cavaliere impegnato dal più severo giuramento a rispettare il Codice e la Misura, impegnato dai sacri voti a rimanere fedele a mia moglie, impegnato dai giuramenti di comandante a guidare i miei uomini nel nome dell’onore. A lungo combattei con me stesso e, alla fine, credetti di esserne uscito vittorioso. Domani, dissi, partirò, e sentii la pace discendere su di me.

Intendevo davvero partire, e l’avrei fatto. Ma, maledetto destino, presi parte a una partita di caccia nel bosco e là, lontano dal campo, la incontrai. Era stata mandata a raccogliere erbe.

Lei era sola, io ero solo. I nostri compagni erano lontani. L’amore che avevo visto nei suoi occhi vi risplendeva ancora. Lei aveva sciolto i capelli, che le ricadevano fino ai piedi in una nube dorata. Il mio onore, la mia ferma decisione si dissolsero in un istante, bruciati dalla fiamma del desiderio che mi aveva travolto. Fu facile sedurla, povera, piccola creatura. Un bacio, poi un altro. Poi, trascinandola giù nell’erba fresca, accarezzandola con le mani, facendo tacere le sue proteste con la mia bocca sulla sua, e... una volta che l’ebbi fatta mia... le asciugai le lacrime baciandogliele.

Quella notte venne di nuovo da me, nella mia tenda. Ero smarrito nella beatitudine. Le promisi che l’avrei sposata, naturalmente. Che altro potevo fare? Dapprima non parlavo sul serio. Come avrei potuto? Avevo una moglie, una moglie ricca. Avevo bisogno dei suoi soldi. Le mie spese erano alte.

Ma poi una notte, mentre stringevo la fanciulla elfa tra le mie braccia, seppi che non avrei mai potuto rinunciare a lei. E sistemai le cose in modo che mia moglie venisse rimossa in maniera permanente...

Continuammo il nostro viaggio. Ormai le donne elfe avevano cominciato a sospettare. E come non avrebbero potuto? Era difficile per noi nascondere i nostri segreti sorrisi durante il giorno, difficile evitare ogni occasione per rimanere insieme.

Venimmo, di necessità, separati quando raggiungemmo Palanthas. Le donne elfe andarono ad alloggiare in una delle più belle case usate dal Gran Sacerdote quando veniva a visitare la città.

Insieme ai miei uomini, io raggiunsi i nostri acquartieramenti. Ma ero fiducioso che lei avrebbe trovato il modo di venire da me, dal momento che io non potevo andare da lei. Passata la prima notte, non mi preoccupai troppo. Ma poi passò la seconda, e la terza, e ancora nessuna notizia.

Alla fine, udii bussare alla mia porta. Ma non era lei. Era il capo dei Cavalieri di Solamnia, accompagnato dal capo di ciascuno dei tre Ordini dei Cavalieri. Capii, quando li vidi, quello che doveva essere accaduto. Lei aveva scoperto la verità, e mi aveva tradito.

Invece, non era stata lei a tradirmi, bensì le donne elfe. La mia amante si era ammalata, e quando erano venute a curarla, avevano scoperto che aveva in grembo il mio bambino. Non l’aveva detto a nessuno, neppure a me. Le dissero che ero sposato e, cosa ancora peggiore, nello stesso momento arrivò a Palanthas la notizia che mia moglie era “misteriosamente” scomparsa.

Fui arrestato. Trascinato attraverso le strade di Palanthas, pubblicamente umiliato, fui bersaglio delle rozze battute e dei più ignobili nomignoli della plebaglia. Non c’era niente che alla feccia piacesse di più che vedere un Cavaliere ridotto al loro livello. Giurai che un giorno mi sarei vendicato di tutti loro e della loro bella città. Ma questo pareva senza speranza. Il mio processo fu rapido. Venni condannato a morte, come traditore della cavalleria. Spogliato delle mie terre e del mio titolo, sarei stato giustiziato, la gola mi sarebbe stata tagliata con la mia stessa spada. Accettai la mia morte. Giunsi ad aspettarla con impazienza, convinto ancora che fosse stata lei a respingermi.

Ma la notte prima della mia esecuzione, i miei uomini, che mi erano rimasti fedeli, mi liberarono dalla prigione. Lei si trovava con loro. Mi raccontò tutto, mi disse che portava in grembo il mio bambino.

Le donne elfe l’avevano perdonata, disse, e, anche se adesso non avrebbe potuto mai più diventare una Reverenda Figlia di Paladine, avrebbe ancora potuto vivere fra la sua gente, anche se la sua disgrazia l’avrebbe seguita fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma non aveva potuto sopportare il pensiero di andarsene via senza dirmi addio. Mi amava, questo era evidente. Ma capivo che le storie che aveva sentito raccontare su di me la tormentavano.

Inventai alcune bugie su mia moglie alle quali lei credette. Avrebbe creduto che il buio era luce, se gliel’avessi detto. Con l’animo in pace, acconsentì a fuggire con me. Adesso sapevo che era soprattutto per questo che era venuta lì da me. Accompagnato dai miei uomini, fuggii fino a Dargaard Keep.

Avrei dovuto essere soddisfatto di me stesso, della mia vita, della mia nuova sposa... che presa in giro fu quella cerimonia di matrimonio! Ma ero tormentato dal senso di colpa e, cosa ancora peggiore, dalla perdita del mio onore. Mi resi conto di esser fuggito da una prigione soltanto per trovarmi rinchiuso in un’altra... un’altra di mia scelta. Ero sfuggito alla morte soltanto per vivere un’esistenza tenebrosa e sciagurata. Divenni imbronciato, scontroso. Ero sempre pronto agli scatti di collera, pronto a colpire, e adesso le cose andavano peggio. I servitori fuggirono, dopo che ne ebbi colpiti molti. I miei uomini cominciavano a evitarmi. E poi, una notte, picchiai anche lei, lei, l’unica persona a questo mondo che potesse darmi anche soltanto un brandello di conforto.

Guardando nei suoi occhi pieni di lacrime, vidi il mostro che ero diventato. La presi tra le braccia e invocai il suo perdono. I suoi adorabili capelli mi ricaddero intorno. Potei sentire il mio bambino che scalciava nel suo ventre. Inginocchiati là, insieme, pregammo Paladine. Avrei fatto qualsiasi cosa, dissi al dio, per ripristinare il mio onore. Chiesi soltanto che mio figlio, o mia figlia, non crescesse conoscendo la mia vergogna.

E Paladine rispose. Mi parlò del Gran Sacerdote, e di quali arroganti pretese quell’uomo sciocco accampasse nei confronti degli dei. Mi disse che il mondo avrebbe sentito la collera degli dei a meno che, come Huma aveva fatto prima di me, un uomo non fosse stato disposto a sacrificarsi per salvare gli innocenti.

La luce di Paladine sfavillò intorno a me. La mia anima tormentata era colma di pace. Come mi pareva piccolo quel sacrificio di offrire la mia vita, in modo che il mio bambino venisse cresciuto nell’onore e il mondo potesse venire salvato. Cavalcai fino a Istar del tutto intenzionato a fermare il Gran Sacerdote, sapendo che Paladine era con me.

Ma anche un altro cavalcava al mio fianco durante quel viaggio: la Regina delle Tenebre. Così, ella conduce una continua guerra per conquistare le anime che si diletta ad ammaliare. Che cosa usò per sconfiggermi?

Quelle stesse donne elfe, chierici del dio per il quale avevo intrapreso la mia missione.

Quelle donne avevano da tempo dimenticato il nome di Paladine. Come il Gran Sacerdote, esse si trovavano intrappolate nella loro rettitudine e non potevano vedere niente attraverso i veli della loro benignità. Colmato dalla mia ipocrisia, feci saper loro ciò che intendevo compiere. La loro paura fu grande. Non credettero che gli dei avrebbero punito il mondo. Anzi, la loro più grande e convinta aspettativa era il giorno in cui soltanto il bene (intendendo gli elfi) sarebbe esistito su Krynn.

Dovevano fermarmi. Ed ebbero successo.

La Regina è saggia. Conosce le tenebrose regioni del cuore di un uomo. Avrei travolto un esercito, se mi avesse intralciato il cammino. Ma le sommesse parole di quelle donne elfe s’insinuarono nel mio sangue come il veleno. Com’era stato facile per la fanciulla elfa sbarazzarsi di me, dissero.

Adesso aveva il mio castello, la mia ricchezza, tutto per sé, senza l’inconveniente d’un marito umano. Ero certo che quel bambino fosse mio? Era stata vista in compagnia di uno dei giovani del mio seguito. Dov’era andata, dopo aver lasciato la mia tenda durante la notte?

Non mentirono mai una sola volta. Mai una sola volta dissero qualcosa contro di lei. Ma le loro domande divoravano la mia anima, la corrodevano. Ricordai parole, episodi, espressioni. Fui certo di essere stato tradito. Li avrei sorpresi insieme! Avrei ucciso lui! Avrei fatto soffrire lei!

Voltai le spalle a Istar.

Arrivato a casa, abbattei le porte del mio castello. Mia moglie, allarmata, mi venne incontro, stringendo tra le braccia il suo bambino. E c’era un’espressione disperata sul suo volto: la presi per un’ammissione di colpevolezza. La maledissi, maledissi il bambino. E in quel medesimo istante la montagna fiammeggiante colpì Ansalon.

Le stelle caddero dal cielo. Il suolo tremò e si spaccò. Un lampadario illuminato da cento candele venne giù dal soffitto. In un istante, mia moglie fu avvolta dalle fiamme. Sapeva che stava morendo, ma mi porse il bambino perché lo salvassi dal fuoco che la stava divorando. Esitai, poi, con la collera gelosa che ancora mi riempiva il cuore, mi allontanai.

Con il suo ultimo, morente respiro invocò su di me la collera degli dei. “Morirai questa notte tra le fiamme!” gridò. “Proprio come moriamo tuo figlio ed io. Ma vivrai per sempre nella tenebra. Vivrai una vita per ogni altra vita che la tua follia ha condotto alla fine stanotte.” E, con queste parole, morì.

Le fiamme si propagarono. Il mio castello fu ben presto un unico, immenso rogo. Tentammo, ma niente potè spegnere quell’arcano fuoco. Bruciava perfino la roccia. I miei uomini cercarono di fuggire. Ma, mentre guardavo, anch’essi esplosero in fiamme. Non era rimasto in vita nessuno, su quella montagna, nessuno, salvo io. Mi trovavo nella grande sala, solo, circondato da ogni lato dal fuoco che ancora non mi toccava. Ma, mentre mi trovavo là, lo vidi chiudersi su di me, avvicinarsi sempre di più... di più...


Morii lentamente, in una insopportabile agonia. Quando finalmente giunse la morte, non mi portò nessun sollievo, poiché chiusi i miei occhi soltanto per riaprirli di nuovo, contemplando intorno a me un mondo di vuota, desolante disperazione e di eterno tormento. Notte dopo notte, per interminabili anni, sono rimasto seduto su questo trono e ho ascoltato quelle donne elfe che cantavano la mia storia.

Ma questo è finito. È finito con te, Kitiara...

Quando la Regina delle Tenebre mi convocò perché l’aiutassi nella guerra, le dissi che avrei servito il primo Signore dei Draghi che avesse avuto abbastanza coraggio da passare la notte in Dargaard Keep. Ve ne fu uno soltanto, tu, mia bellezza. Tu, Kitiara. Per questo ti ammirai. Ti ammirai per il tuo coraggio, per la tua abilità, per la tua spietata determinazione. In te vedo me stesso. Vedo quello che avrei potuto diventare.

Ti ho aiutato ad assassinare gli altri Signori dei Draghi quando siamo fuggiti da Neraka in subbuglio in seguito alla sconfitta della Regina, ti ho aiutata a raggiungere Sanction, e là ti ho aiutata a consolidare ancora una volta il tuo potere su questo continente. Ti ho aiutato quando hai cercato di ostacolare i piani di tuo fratello, Raistlin, per sfidare la Regina delle Tenebre. No, non mi ha sorpreso il fatto che ti abbia battuto in astuzia. Fra tutti i viventi che ho incontrato, lui è il solo che temo.

Le tue vicende amorose mi hanno perfino divertito, mia Kitiara. Noi morti non possiamo provare istinti erotici. Quella è una passione del sangue, e nessun sangue scorre in queste braccia e in queste gambe di ghiaccio. Ti ho osservato mentre rovesciavi come un guanto quell’imbelle, Tanis mezzelfo, e mi sono goduto ogni istante, tanto quanto te.

Ma adesso, Kitiara, cosa sei diventata? La padrona è diventata la schiava. E per cosa? Per un elfo!

Oh, ho visto brillare i tuoi occhi quando pronunci il suo nome. Ho visto tremare le tue mani quando stringi le sue lettere. Pensi a lui, quando invece dovresti progettare la guerra. Perfino i tuoi generali non riescono più a richiamare la tua attenzione.

No, noi morti non possiamo provare impulsi sessuali. Ma possiamo provare odio, possiamo provare invidia. Possiamo provare gelosia e bramosia di possesso.

Potrei uccidere Dalamar. L’elfo scuro, l’apprendista, è bravo, ma non è in grado di tenermi testa. Il suo maestro? Raistlin? Ah, quella sarebbe una storia diversa.

Oh, mia Regina, nel tuo Abisso tenebroso, guardati da Raistlin! In lui stai per affrontare la tua sfida più grande, e devi, alla fine, affrontarla da sola. Non posso aiutarti su quel piano, Maestà Oscura, ma forse posso aiutarti su questo.

Sì, Dalamar, potrei ucciderti. Ma ho imparato cosa vuol dire morire, e la morte è una cosa scialba e meschina. Il suo dolore è agonia, ma ben presto finisce. Quale dolore assai maggiore è continuare a vivere, morti, nel mondo dei vivi, sentire l’odore del loro sangue caldo, vedere le loro carni morbide, e sapere che non potranno mai più essere tue... sì, mai più. Ma anche tu verrai a conoscere fin troppo bene tutto questo, elfo scuro...

In quanto a te, Kitiara, sappi questo: sopporterò questo dolore, vivrò un altro secolo di esistenza torturata piuttosto che vederti di nuovo fra le braccia di un uomo vivente!»

Il cavaliere morto rifletteva e complottava. La sua mente continuava a girare e a contorcersi come i rami spinosi delle rose nere che coprivano il suo castello. Gli scheletrici guerrieri andavano su e giù per i bastioni in rovina, ognuno librandosi vicino al luogo in cui aveva incontrato la propria morte.

Le donne elfe si torcevano le mani scarnificate gemendo per il loro destino, in preda alla più amara sofferenza.

Soth non sentiva nulla, non era consapevole di nulla. Se ne stava seduto sopra il suo trono annerito, fissando, senza vederla, la chiazza scura e carbonizzata sul pavimento di pietra: una chiazza che per anni aveva tentato di cancellare con tutta la potenza della sua magia, ma quella chiazza rimaneva ancora là, una chiazza che disegnava i contorni di un corpo di donna...

E poi, alla fine, quelle labbra invisibili sorrisero, e la silenziosa vampa di quegli occhi arancione arse vivida nella notte interminabile.

«Tu, Kitiara, sarai mia per sempre...»

Capitolo primo.

La carrozza si arrestò sferragliando. I cavalli sbuffarono, con energiche scrollate, facendo tintinnare le bardature, pestando gli zoccoli sulle lisce pietre del selciato come se avessero fretta di finire quel viaggio e di far ritorno alle loro comode stalle.

Una testa sporse dal finestrino della carrozza.

«Buon giorno, signore. Benvenuto a Palanthas. La prego di dichiarare il suo nome e il motivo della sua visita.» Ciò venne detto con voce squillante e in tono formale da un giovane ufficiale dall’aspetto smagliante, che doveva essere appena entrato in servizio. La guardia sbirciò dentro la carrozza e sbatté gli occhi, cercando di aggiustare lo sguardo per distinguere ciò che si trovava là dentro, nelle fresche ombre. Il tardo sole di primavera risplendeva luminoso quanto il volto del giovane, probabilmente perché anch’esso era entrato in servizio da poco.

«Mi chiamo Tanis Mezzelfo,» dichiarò l’occupante della carrozza, «e sono stato invitato dal Reverendo Figlio Elistan. Ho qui una lettera. Se vuole aspettare un istante, io...»

«Lord Tanis!» Il volto dell’ufficiale che si profilava nel finestrino della carrozza divenne scarlatto come l’uniforme adorna di alamari e di spalline da lui indossata. «Mi scusi, signore, io... io non l’avevo riconosciuta, non potevo veder bene, altrimenti sono sicuro che avrei riconosciuto...»

«Maledizione, uomo,» l’interruppe Tanis, irritato, «non stia a scusarsi per aver fatto il suo dovere.

Ecco qui la lettera...»

«Non lo farò, signore. Vale a dire, lo farò, signore. Vale a dire che sì, mi scuso, signore.

Terribilmente dispiaciuto, signore. La lettera? No, non è proprio necessaria, signore.»

Balbettando, l’ufficiale di guardia lo salutò, scattando sull’attenti, batté la testa contro il piccolo parasole del finestrino della carrozza, facendosi male, s’impigliò nella portiera con il polsino merlettato della manica, scattò di nuovo sull’attenti e alla fine fece ritorno barcollando al suo posto, dando l’impressione di essere appena uscito da un combattimento contro una banda di hobgoblin.

Sogghignando fra sé, ma di un cupo sogghigno, Tanis si lasciò andare contro lo schienale mentre la carrozza proseguiva lungo la sua strada, varcando le porte delle Mura della Città Vecchia. Le sentinelle erano state un’idea sua. C’erano volute moltissime discussioni e una grande dose di persuasione da parte di Tanis per convincere Lord Amothus di Palanthas che le porte della città non soltanto dovevano essere sbarrate, ma anche attentamente sorvegliate.

«Ma la gente potrebbe non sentirsi benvenuta. Potrebbe offendersi,» aveva protestato Amothus, debolmente. «E, dopotutto, la guerra è finita.»

Tanis sospirò di nuovo. Quando avrebbero imparato? Mai, suppose, cupo, contemplando fuori del finestrino la città che, più di ogni altra nel continente di Ansalon, incarnava la compiacenza nella quale il mondo era caduto dalla fine della Guerra delle Lance, due anni prima. Due anni prima a primavera, a esser più precisi.

Ciò strappò a Tanis un altro sospiro. Maledizione! Se n’era dimenticato! Il Giorno della Fine della Guerra! Quand’era? Tra due settimane? Tre? Avrebbe dovuto infilarsi quello stupido costume: l’armatura da cerimonia di un Cavaliere di Solamnia, le insegne elfiche, le bardature nanesche. Ci sarebbero state cene con cibi troppo ricchi che l’avrebbero tenuto sveglio metà della notte, discorsi che l’avrebbero fatto dormire dopo cena, e Laurana...

Tanis gemette. Laurana! Lei se ne sarebbe ricordata! Naturalmente! Come poteva essere stato così stupido? Erano rientrati a casa a Solanthas soltanto poche settimane prima, dopo aver partecipato ai funerali di Solostaran a Qualinesti, e quando lui era tornato a Solace per cercare Dama Crysania, ma senza successo, era arrivato un messaggio a Laurana redatto nella scorrevole scrittura elfica:

Tua presenza richiesta urgentemente a Silvanesti!

«Sarò di ritorno fra quattro settimane, mio caro,» lei gli aveva detto, baciandolo teneramente. Ma c’era stata una risata in quegli occhi... quegli occhi adorabili!

Lei lo aveva lasciato! Lo aveva lasciato perché partecipasse a quella dannata cerimonia! E lei sarebbe tornata nelle terre natie degli elfi che, pur lottando ancora per sfuggire agli orrori a essi inflitti dall’incubo di Lorac, erano infinitamente preferibili a una serata insieme a Lord Amothus...

D’un tratto Tanis si rese conto di ciò che aveva pensato. Un ricordo mentale di Silvanesti riaffiorò in lui, con i suoi alberi orrendamente torturati che piangevano sangue, i volti tormentati e contorti dei guerrieri elfi che guardavano fuori dalle ombre. Un’immagine sorse nella sua mente, di una delle cene di Lord Amothus, a mo’ di paragone...

Tanis cominciò a ridere. Sarebbe stato pronto ad affrontare in qualunque momento i guerrieri nonmorti !

In quanto a Laurana, be’, non poteva biasimarla. Queste cerimonie erano abbastanza ardue per lui, ma Laurana era la prediletta di Palanthas, il loro Generale Dorato, colei che aveva salvato la loro bella città dalle devastazioni della guerra. Non c’era niente che non avrebbero fatto per lei, salvo lasciarle un po’ di tempo per se stessa. Durante l’ultima celebrazione del Giorno della Fine della Guerra, Tanis aveva portato a casa sua moglie tenendola fra le braccia, più esausto di quanto lo sarebbe stata lei dopo tre giorni ininterrotti di battaglia.

La immaginò a Silvanesti, intenta a ripiantare i fiori, a lavorare per alleviare i sogni degli alberi torturati, riportandoli un po’ per volta alla vita, a far visita ad Alhana Starbreeze, adesso sua cognata, che doveva esser tornata anche lei a Silvanesti, ma senza il suo nuovo marito, Porthios.

Finora, il loro matrimonio era stato gelido e senza amore, e Tanis si chiese per un breve istante se Alhana non avesse cercato rifugio a Silvanesti proprio per questo motivo. Il Giorno della Fine della Guerra doveva essere arduo anche per Alhana. I suoi pensieri andarono a Sturm Brightblade, il cavaliere che Alhana aveva amato, il quale giaceva morto nella Torre del Grande Chierico e, di qui, i pensieri di Tanis vagarono su altri amici... e nemici.

Come se fosse stata evocata da quei ricordi, un’ombra scura si allungò sopra la carrozza. Tanis guardò fuori dal finestrino. In fondo a una strada lunga, vuota e deserta, intravide una chiazza di tenebra: il Bosco di Shoikan, la foresta guardiana della Torre della Grande Stregoneria di Raistlin.

Perfino da quella distanza, Tanis poteva percepire il gelo che fluiva da quegli alberi, un gelo che riempiva di freddo il cuore e l’anima. Il suo sguardo andò alla Torre che si levava al di sopra dei bellissimi edifici di Palanthas come una punta di lancia di ferro nero conficcata attraverso il bianco seno della città.

I suoi pensieri andarono alla lettera che l’aveva condotto lì a Palanthas. Abbassò lo sguardo su di essa e ne rilesse le parole: Tanis Mezz’elfo.

Dobbiamo incontrarti subito. Emergenza gravissima. Il Tempio di Paladine. Dopoveglia Nascente 12, Quartigiorno, anno 356.

E questo era tutto. Nessuna firma. Tanis sapeva soltanto che Quartigiorno era oggi e, avendo ricevuto la missiva soltanto due giorni prima, era stato costretto a viaggiare giorno e notte per raggiungere Palanthas in tempo. La lingua di quel breve messaggio era l’elfico, la calligrafia anch’essa elfica. Non era insolito. Elistan aveva molti chierici elfi... ma perché non l’aveva firmata?

Sempre che fosse stata compilata davvero da Elistan. Eppure, chi, altrimenti, avrebbe potuto mandare un tale invito a recarsi nel Tempio di Paladine?

Con una scrollata mentale di spalle, ricordando di essersi posto quelle stesse domande più di una volta senza mai arrivare a una conclusione soddisfacente, Tanis tornò a infilare la lettera nella borsa. Il suo sguardo andò, poco volentieri, alla Torre della Grande Stregoneria.

«Scommetto che ha qualcosa a che fare con te, vecchio amico,» mormorò fra sé, corrugando la fronte e pensando, ancora una volta, alla strana scomparsa di quel chierico, Dama Crysania.

La carrozza tornò a fermarsi, strappando un’altra volta Tanis dai suoi cupi pensieri. Guardò fuori dal finestrino, intravedendo il Tempio, ma si costrinse ad aspettare pazientemente sul suo sedile fino a quando il valletto non venne ad aprirgli la portiera. Sorrise fra sé. Poteva quasi vedere Laurana, seduta davanti a lui, che lo fissava furente, sfidandolo ad allungare la mano verso la maniglia della porta. Laurana aveva impiegato parecchi mesi per eliminare la vecchia, impetuosa abitudine di Tanis di precipitarsi a spalancare la portiera, mandando a ruzzolare per terra il valletto, di lato, proseguendo poi per la sua strada senza un solo pensiero per il conducente, la carrozza, i cavalli e qualunque altra cosa.

Adesso era diventata una battuta privata fra loro. A Tanis piaceva osservare gli occhi di Laurana che si socchiudevano in un finto allarme quando la sua mano si allungava provocante verso la maniglia della portiera. Ma questo non faceva altro che ricordargli quanto sentiva la sua assenza.

Comunque, dov’era finito quel dannato valletto? Per gli dei, lui era solo. Questa volta, tanto per cambiare, avrebbe fatto a modo suo...

La portiera si spalancò. Il valletto stava armeggiando col gradino pieghevole.

«Oh, dimenticatene,» sbottò Tanis, impaziente, balzando a terra. Ignorando la vaga espressione di sensibilità oltraggiata del valletto, Tanis tirò un profondo sospiro, lieto di essere finalmente sfuggito ai soffocanti confini della carrozza.

Si guardò intorno, lasciando che la meravigliosa sensazione di pace e di benessere che s’irradiava dal Tempio di Paladine filtrasse nella sua anima. Nessuna foresta proteggeva quel luogo sacro.

Vasti prati di morbida erba verde, lisci come il velluto, invitavano il viaggiatore a passeggiare, a sedersi e a riposare. Giardini pieni di fiori dai vivaci colori deliziavano l’occhio, con il loro profumo che riempiva l’aria di soavità. Qua e là, boschetti di alberi offrivano la loro ombra come rifugio dall’abbagliante luce del sole. Un’acqua fresca e pura sgorgava dalle fontane. Chierici vestiti di bianco passeggiavano nei giardini, a testa china, impegnati in solenni discussioni.

Levandosi dal sapiente disegno dei giardini e dei boschetti ombreggiati e dal tappeto d’erba, il Tempio di Paladine rifletteva un soffuso chiarore, alla luce del sole mattutino. Costruito con marmo bianco, era una struttura semplice e disadorna che arricchiva quell’impressione di pace e di tranquillità che prevaleva tutt’intorno a esso.

C’erano cancelli, ma non guardie. Tutti erano invitati a entrare, e molti, infatti, lo facevano. Quello era un rifugio per i sofferenti, per gli infelici, gli affaticati. Quando Tanis cominciò a farsi strada attraverso il prato ben tenuto, vide molte persone sedute o distese sull’erba, tutte con un’espressione rilassata sul volto dalla quale, a giudicare dai segni della stanchezza e degli affanni, non erano stati molto spesso confortati.

Tanis aveva fatto soltanto pochi passi quando si ricordò, con un nuovo sospiro, della carrozza. Si fermò e si girò. «Aspettami,» stava per dire, quando una figura emerse dalle ombre di un boschetto di pioppi tremoli che si ergeva proprio sul confine del terreno del Tempio. «Tanis Mezzelfo?» chiese la figura.

Quando la figura uscì in piena luce, Tanis ebbe un sussulto. Era vestita di nero. Numerose borse e altri congegni per lanciare incantesimi erano appesi alla sua cintura, rune d’argento erano abbondantemente ricamate sulle sue maniche e sul cappuccio del suo mantello nero. Raistlin! pensò Tanis all’istante, poiché aveva avuto in mente l’arcimago solo pochi istanti prima.

Ma no, non era lui. Il respiro di Tanis si fece più tranquillo. Quell’usufruitore di magia era più alto di Raistlin, almeno di una testa e delle spalle. Il suo corpo era dritto e ben formato, perfino muscoloso, il suo passo era giovanile e vigoroso. Inoltre, adesso che Tanis lo fissava con maggiore attenzione, si rese conto che la sua voce era ferma e profonda, del tutto diversa dal sussurro malefico e inquietante di Raistlin.

E, se la cosa non fosse stata troppo strana, Tanis avrebbe anche giurato di aver sentito quell’uomo parlare con accento elfico. «Sono Tanis Mezzelfo,» rispose, un po’ in ritardo. Malgrado non potesse vedere il volto della figura, nascosto com’era profondamente nelle ombre del suo cappuccio nero, ebbe l’impressione che l’uomo avesse sorriso.

«Sì, mi era parso di averla riconosciuta. Mi è stato descritto molto spesso. Ora può congedare la sua carrozza. Non ce ne sarà bisogno. Lei passerà molti giorni, perfino settimane, qui a Palanthas.»

Quell’uomo parlava elfico! Elfico di Silvanesti! Per qualche istante Tanis rimase così sorpreso da riuscire soltanto a fissarlo. Il conducente della carrozza scelse quel momento per schiarirsi la gola.

Era stato un viaggio lungo e arduo, e c’erano ottime locande a Palanthas, con della birra che era leggendaria dovunque, su Ansalon...

Ma Tanis non aveva alcuna intenzione di congedare la carrozza basandosi unicamente sulla parola di un mago vestito di nero. Aprì la bocca per fargli altre domande, quando l’usufruitore di magia tirò fuori le mani dalle maniche della sua veste, dove finora le aveva tenute piegate, e fece un rapido cenno di diniego con una, mentre eseguiva un cenno d’invito con l’altra.

«Per favore,» interloquì di nuovo in elfico. «Le spiace camminare con me? Poiché sono diretto anch’io nello stesso luogo. Elistan ci attende.»

Ci attende! Confuso, Tanis si arrovellò il cervello. Da quando in qua Elistan invitava gli usufruitori di magia vestiti di nero nel Tempio di Paladine? E da quando in qua gli usufruitori di magia vestiti di nero mettevano volontariamente il piede su quei terreni sacri?

Be’, era ovvio che l’unico modo di scoprirlo era accompagnare quella strana persona e risparmiarsi le domande fino a quando non fossero rimasti soli. Perciò, un po’ confusamente, Tanis impartì le sue istruzioni al cocchiere. La figura vestita di nero rimase in silenzio accanto a lui, osservando la carrozza che si allontanava. Poi Tanis si rivolse alla Veste Nera.

«Lei è in vantaggio su di me, signore,» disse il mezzelfo in un silvanesti esitante, una lingua che era un elfico più puro del qualinesti che Tanis aveva imparato a parlare fin dalla nascita.

La figura s’inchinò, poi buttò indietro il cappuccio in modo che la luce del mattino cadesse sulla sua faccia, illuminandogliela. «Io sono Dalamar,» dichiarò, tornando a infilare le mani nelle maniche della veste. Su Krynn erano pochi che avrebbero stretto le mani a un mago dalle Vesti Nere.

«Un elfo scuro,» disse Tanis, stupefatto, parlando prima di pensare. Arrossì. «Mi spiace,» aggiunse poi, impacciato. «È soltanto che non ho mai incontrato...»

«Uno della mia razza?» terminò Dalamar con disinvoltura. Un sorriso appena accennato gì’increspò i lineamenti elfici, freddi, ben strutturati e senza espressione. «No, suppongo di no. Noi che siamo stati “cacciati dalla luce”, come dicono, non ci avventuriamo spesso sui piani dell’esistenza illuminati dal sole.» D’un tratto il suo sorriso divenne più caldo, e Tanis vide un’espressione malinconica negli occhi dell’elfo scuro, mentre il suo sguardo si posava sul boschetto di pioppi tremoli dov’era rimasto celato, fino a poco prima, nell’ombra. «Talvolta, però, anche noi proviamo nostalgia di casa.»

Anche Tanis rivolse lo sguardo verso i pioppi, i più amati dagli elfi fra tutti gli alberi. Anche lui sorrise, sentendosi molto più a proprio agio. Tanis... aveva percorso anche lui i propri sentieri tenebrosi, ed era stato molto vicino a cadere in parecchi precipizi che gli si erano spalancati sotto i piedi. Poteva capire.

«L’ora del mio appuntamento si avvicina,» disse. «E, da quello che hai detto, suppongo che tu sia in qualche modo coinvolto in questa faccenda. Forse dovremmo proseguire...»

«Certo.» Dalamar parve riprendersi. Seguì Tanis sul prato verde senza nessuna esitazione. Tanis, nel voltarsi, rimase considerevolmente colpito nel vedere un fugace spasimo di dolore contorcere i delicati lineamenti dell’elfo, insieme a un visibile sussulto.

«Cosa c’è?» Tanis si fermò. «Non ti senti bene? Posso aiutarti...»

Dalamar costrinse i propri lineamenti sprizzanti dolore a trasformarsi in un sorriso contorto. «No, Mezzelfo,» disse. «Non c’è niente che tu possa fare per aiutarmi. Né in realtà io mi sento male.

Assai peggiore sarebbe il tuo aspetto se entrassi nel Bosco di Shoikan che protegge la mia dimora.»

Tanis annuì, mostrando di comprendere. Poi, quasi di malavoglia, lanciò un’occhiata in distanza verso la Torre scura e tetra che si stagliava sopra Palanthas. Mentre la guardava, fu afferrato da una strana impressione. Guardò il Tempio, bianco nella sua semplicità, alle proprie spalle, poi di nuovo la Torre. Vedendoli insieme, fu come se vedesse ognuno di essi per la prima volta. Entrambi avevano un aspetto più completo, finito, intero, di quanto l’avessero quando venivano visti separatamente, staccati l’uno dall’altro. Quella era soltanto un’impressione fugace alla quale non ripensò fino a qualche tempo dopo. Adesso poteva pensare a una cosa soltanto...

«Allora, vive là? Con Rai... Con lui?». Per quanto ci provasse, Tanis sapeva di non poter pronunciare il nome dell’arcimago senza provare una rabbia amara, e così evitava del tutto di farlo.

«È il mio Shalafi, » rispose Dalamar, con la voce tesa per il dolore.

«Così, lei è il suo apprendista,» replicò Tanis, avendo riconosciuto la parola elfica per Maestro.

Inarcò le sopracciglia. «Ma allora, cosa mai fa qui? È lui che l’ha mandata?». Se fosse così, pensò il mezzelfo, lascerò subito questo posto, anche se dovessi tornare a piedi fino a Palanthas.

«No,» rispose Dalamar. Il suo volto si svuotò d’ogni colore. «Ma è di lui che parleremo.» L’elfo scuro si buttò il cappuccio sopra la testa. Quando riprese a parlare, fu ovvio che questo gli costava uno sforzo notevole. «E adesso devo pregarla di affrettarsi a proseguire. Ho un amuleto, datomi da Elistan, che mi aiuterà ad affrontare questa prova. Ma prolungarla non mi fa affatto piacere.»

Elistan che dava amuleti a un usufruitore di magia dalle Vesti Nere? All’apprendista di Raistlin?

Pieno di perplessità, Tanis acconsentì di accelerare il proprio passo.

«Tanis, amico mio!»

Elistan, chierico di Paladine e capo della chiesa del continente di Ansalon, porse la mano al mezzelfo. Tanis la strinse con calore, cercando di non far caso a quanto ora fosse debole, spenta, la stretta un tempo salda e robusta del chierico. Tanis lottò anche per controllare la propria faccia, sforzandosi d’impedire che i sentimenti di sbigottimento e di pietà affiorassero nei suoi lineamenti mentre fissava la figura fragile, quasi scheletrica, adagiata su un letto e sostenuta dai cuscini.

«Elistan...» cominciò a dire Tanis con calore.

Uno dei chierici vestiti di bianco che gravitava vicino al suo capo sollevò lo sguardo sul mezzelfo e corrugò la fronte.

«Intendevo dire, Re... Reverendo Figlio.» Tanis prese a balbettare, su quel titolo ufficiale. «Hai un bell’aspetto.»

«E tu, Tanis Mezzelfo, hai preso l’abitudine di mentire,» osservò Elistan, sorridendo nel vedere l’espressione addolorata che Tanis cercava disperatamente di non far trasparire dalla sua faccia.

Elistan batté sulla mano abbronzata dal sole di Tanis le sue dita bianche e sottili. «E non fare il buffone con quella sciocchezza del “Reverendo Figlio”. Sì, so che è corretto e appropriato, Garad, ma quest’uomo mi conosceva quand’ero uno schiavo nelle miniere di Pax Tharkas. Adesso, andate pure, voi tutti,» disse ai chierici che gli orbitavano intorno. «Portate quello che abbiamo per mettere comodi i nostri ospiti.»

Il suo sguardo andò all’elfo scuro che era crollato su una poltrona accanto al fuoco che ardeva nelle sue stanze private. «Dalamar,» disse Elistan, in tono gentile, «questo viaggio non può essere stato facile per te. Sono in debito nei tuoi confronti per averlo intrapreso. Ma qui, nei miei alloggi, puoi trovare la quiete. Cosa gradisci?»

«Del vino,» riuscì a rispondere l’elfo scuro, attraverso le labbra rigide e cineree. Tanis colse il tremito delle mani dell’elfo sui braccioli della poltrona.

«Portate del vino e del cibo per i nostri ospiti,» disse Elistan ai chierici che stavano uscendo in fila dalla stanza, molti di loro lanciando sguardi di disapprovazione al mago in veste nera.

«Accompagnate subito Astinus qui da me, non appena arriverà, poi fate in modo che nessuno ci disturbi.»

«Astinus?» domandò Tanis, a bocca aperta. «Astinus, il Cronista?».

«Sì, mezzelfo.» Elistan sorrise di nuovo. «La morte ci impartisce un significato tutto speciale.

“Fanno la fila per vedermi, coloro che un tempo non avrebbero neppure girato lo sguardo dalla mia parte.” Non è così che dice la poesia del vecchio? Ecco, Mezzelfo, adesso l’aria è sgombra. Sì, lo so che sto morendo. Lo so da molto tempo. I miei mesi sono ridotti a settimane. Suvvia, Tanis, non è la prima volta che vedi morire degli uomini. Cos’è che mi dicesti, che il Maestro della Foresta ti aveva detto nel Bosco Scuro: “Non piangiamo la perdita di coloro che muoiono realizzando il loro destino.” La mia vita è stata realizzata, Tanis, più di quanto avrei mai potuto immaginare.» Elistan lanciò un’occhiata fuori della finestra, sui prati spaziosi, sui giardini spaziosi e, più lontana, sulla Torre Scura della Grande Stregoneria.

«È stato affidato a me il compito di ridare la speranza al mondo, Mezzelfo,» disse Elistan con voce sommessa. «Speranza e guarigione. Quale uomo può dire di più? Me ne vado sapendo che la chiesa è stata di nuovo saldamente ristabilita. Adesso ci sono chierici di ogni razza. Sì, perfino kender.»

Sorridendo, Elistan si passò una mano tra i bianchi capelli. «Ah,» sospirò, «che momento difficile è stato quello per la nostra fede, Tanis! Ancora oggi siamo incapaci di stabilire con precisione tutto quello che manca. Ma c’è gente dal cuore d’oro, di animo buono. Tutte le volte che sentivo di esser sul punto di perdere la pazienza, pensavo a Fizban, Paladine, come poi si è rivelato a noi, e a tutto l’affetto che manifestava per il tuo piccolo amico, Tasslehoff.»

Il volto di Tanis si oscurò nell’udire il nome del kender, e gli parve che Dalamar distogliesse lo sguardo per un istante dalle fiamme danzanti, dove lo teneva fisso. Ma Elistan non se ne accorse.

«Il mio unico rincrescimento è che non lascio nessuno realmente capace di prendere il mio posto dopo di me.» Elistan scosse la testa. «Garad è un brav’uomo. Troppo bravo. Vedo in lui prendere forma un altro Gran Sacerdote. Ma non capisce ancora che l’equilibrio va mantenuto, che siamo tutti necessari per formare questo mondo. Non è così, Dalamar?»

Con grande sorpresa di Tanis, l’elfo scuro annuì. Aveva buttato all’indietro il suo cappuccio ed era riuscito a bere un po’ del vino rosso che i chierici gli avevano portato. Il colorito era ritornato sul suo volto, e le mani non gli tremavano più. «Sei saggio, Elistan,» gli disse con voce sommessa.

«Vorrei che gli altri fossero altrettanto illuminati.»

«Forse non si tratta di saggezza, quanto della capacità di vedere le cose da ogni lato, e non da uno soltanto.» Elistan tornò a rivolgersi a Tanis. «Tu, Tanis, amico mio, non hai notato e apprezzato il panorama quando sei arrivato?». Indicò con un debole gesto la finestra, attraverso la quale la Torre della Grande Stregoneria era chiaramente visibile.

«Non sono certo di capire quello che vuoi dire,» fu l’evasiva risposta di Tanis, a disagio come sempre quando si trattava di condividere i suoi sentimenti.

«Sì, tu lo capisci, Mezzelfo,» replicò Elistan, tornando alla sua antica vivacità. «Hai guardato la Torre e hai guardato il Tempio e hai pensato quant’era giusto che fossero così vicini. Oh, ci sono molti che hanno dissertato a lungo contro la scelta di questo sito per il tempio. Garad e, naturalmente, Dama Crysania...»

Nel sentire quel nome, Dalamar parve soffocare, tossì, e si affrettò a mettere giù il bicchiere di vino.

Tanis si alzò in piedi, cominciando senz’accorgersene a camminare avanti e indietro per la stanza, com’era sua abitudine, quando, rendendosi conto che ciò poteva disturbare l’uomo morente, tornò a sedersi, agitandosi a disagio. «Ci sono state sue notizie?» chiese a bassa voce. «Mi spiace, Tanis,» disse Elistan con gentilezza. «Non era mia intenzione addolorarti. Davvero, devi smetterla d’incolpare te stesso. Ciò che lei ha fatto, ha scelto di farlo di propria volontà. Né avrei accettato altrimenti. Tu non avresti potuto né fermarla, né salvarla dal suo destino, qualunque questo possa essere. No, non abbiamo avuto nessuna notizia su di lei.»

«Sì, c’è stata,» replicò Dalamar, con voce gelida, del tutto priva d’emozione, che attirò subito l’attenzione di entrambi gli uomini nella stanza. «È questa una ragione per cui vi ho convocati qui, insieme...»

«Lei ci ha convocati!» esclamò Tanis, balzando di nuovo in piedi. «Ero convinto che fosse stato Elistan a chiederci di venire qui. C’è il suo Shalafi dietro a tutto questo? E lui il responsabile della scomparsa di questa donna?». Fece un passo avanti, il suo volto sotto la barba fulva s’imporporò.

Dalamar si alzò a sua volta in piedi, i suoi occhi scintillarono pericolosamente, la sua mano si mosse in maniera quasi impercettibile verso una delle borse che portava alla cintura. «Perché,» continuò impetuosamente Tanis, «per gli dei, se le ha fatto del male, gli torcerò quel suo collo dorato...»

«Astinus di Palanthas,» annunciò un chierico dalla soglia.

Lo storico era immobile nel vano della porta. Il suo volto senza tempo era del tutto privo d’espressione mentre i suoi occhi grigi esaminavano la stanza, assimilando tutto e tutti con una minuta attenzione per i particolari che la sua penna avrebbe ben presto registrato. Il suo sguardo andò dal volto imporporato per la collera di Tanis a quello orgoglioso e spavaldo dell’elfo e, infine, a quello affaticato e paziente del chierico morente.

«Fatemi indovinare,» osservò Astinus, entrando imperturbabile nella stanza e mettendosi a sedere.

Posando su un tavolo un enorme libro, lo aprì su una pagina vuota, sfilò una penna d’oca da un astuccio di legno che portava con sé, esaminandone con attenzione la punta, poi sollevò lo sguardo.

«Inchiostro, amico,» disse rivolto a uno stupefatto chierico che, dopo un cenno del capo di Elistan, si affrettò a lasciare la stanza. Poi, lo storico continuò la sua frase iniziale: «Fatemi indovinare...

Stavate discutendo di Raistlin Majere.»

«E vero,» annuì Dalamar. «Sono stato io a convocarvi qui.» L’elfo scuro aveva ripreso il suo posto accanto al fuoco. Tanis, sempre accigliato, tornò al suo posto accanto a Elistan. Il chierico, Garad, tornando con l’inchiostro per Astinus, chiese se volevano qualcos’altro. Avendo ricevuto una risposta negativa, lasciò la stanza, aggiungendo con severità, a beneficio di tutti i presenti, che Elistan non stava bene e non doveva venire disturbato per molto.

«Vi ho chiamati qui tutti insieme,» ripetè Dalamar, con lo sguardo sul fuoco. Poi sollevò gli occhi guardando direttamente Tanis. «Lei è venuto fin qui affrontando qualche piccola scomodità. Ma io ci sono venuto sapendo che avrei patito il tormento che tutti quelli della mia fede patiscono, calcando questo suolo sacro. Ma è d’importanza assoluta che io parli a voi tutti, insieme. Sapevo che Elistan non poteva venire da me. Sapevo che Tanis Mezzelfo non sarebbe venuto da me. E così, non avevo altra scelta se non quella di...»

«Procedi,» lo sollecitò Astinus con la sua voce fredda e profonda. «Il mondo scorre mentre noi sediamo qui. Ci hai convocati qui tutti insieme. Questo è stabilito. Per quale ragione?».

Dalamar rimase silenzioso per un momento, il suo sguardo tornò di nuovo al fuoco. Quando parlò, continuò a fissarlo.

«I nostri peggiori timori si sono realizzati,» disse con voce sommessa. «Lui ha avuto successo.».

Capitolo secondo.

La voce si attardò nei suoi ricordi. Qualcuno, inginocchiato accanto alla pozza della sua mente, lasciava cadere le parole dentro la superficie calma e limpida. Increspature di consapevolezza lo disturbavano, risvegliandolo dal suo sonno tranquillo e pacifico.

«Torna a casa... Figlio mio, torna a casa.»

Raistlin aprì gli occhi e vide il volto di sua madre.

Sorridendo, lei gli tese la mano, accarezzandogli i capelli che, in ciuffi bianchi, gli ricadevano sulla fronte. «Povero figlio mio,» mormorò; i suoi occhi scuri erano ammorbiditi dal dolore, dalla pietà e dall’amore. «Cosa ti hanno fatto! Ho osservato. Lo faccio da tanto tempo, ormai... E ho pianto. Sì, figlio mio, perfino i morti piangono. È l’unico conforto che abbiamo. Ma adesso tutto questo è finito. Sei con me. Qui puoi riposare...»

Raistlin lottò per rizzarsi a sedere. Abbassando lo sguardo su se stesso vide, con orrore, che era coperto di sangue. Eppure, non sentiva nessun dolore, pareva che non ci fosse nessuna ferita. Trovò difficile respirare, e annaspò per cercare aria.

«Su, lascia che ti aiuti,» disse sua madre. Cominciò a sciogliere il cordone di seta che lui portava alla vita, il cordone al quale erano appese le borse, con i preziosi materiali per i suoi incantesimi. Di riflesso, Raistlin spinse via la sua mano. Il respiro gli venne più facile. Si guardò intorno.

«Cos’è successo? Dove mi trovo?». Era tremendamente confuso. Gli ritornavano alla mente i ricordi della sua infanzia. Gli ritornavano alla mente i ricordi di due infanzie, la sua, e quella di qualcun altro! Guardò sua madre, lei era qualcuno che lui conosceva... e anche un’estranea!

«Cos’è successo?» ripetè irritato, respingendo i ricordi che salivano nella sua mente come un’onda in piena, minacciando di fargli perdere il controllo del suo equilibrio mentale.

«Tu sei morto, figlio mio,» gli disse sua madre con gentilezza. «E adesso sei qui con me.»

«Morto!» ripetè Raistlin, inorridito.

Riordinò freneticamente i propri ricordi. Ricordò di essere stato vicino alla morte... Come mai aveva fallito? Si portò la mano alla fronte e sentì... carne, ossa, calore... E poi ricordò...

Il Portale!

«No!» gridò furibondo, in preda alla collera, fissando sua madre. «È impossibile.»

«Hai perso il controllo della magia, figlio mio,» disse sua madre, tendendo di nuovo la mano per toccarlo. Raistlin si ritrasse da lei. Con il suo sorriso tenue e triste, un sorriso che lui ricordava fin troppo bene, lei lasciò ricadere la mano in grembo. «Il campo si è spostato, le forze ti hanno lacerato. C’è stata una terribile esplosione che ha completamente spianato le Pianure di Dergoth. La magica fortezza di Zhaman è crollata.» La voce di sua madre tremò. «La vista della tua sofferenza era più di quanto potessi sopportare.»

«Me lo ricordo,» bisbigliò Raistlin, portandosi le mani alla testa. «Ricordo il dolore, ma...»

Ricordava anche qualcos’altro: vivide esplosioni di luci multicolori, ricordava una sensazione di esultanza e di estasi che si gonfiava nella sua anima come una marea, ricordava le teste dei draghi poste a guardia del Portale che urlavano furiose, ricordava di aver avvolto le braccia intorno a Crysania.

Alzandosi in piedi, Raistlin si guardò intorno. Si trovava su un terreno piatto, pianeggiante, un qualche tipo di deserto. In lontananza poteva distinguere delle montagne. Gli parevano familiari, naturalmente! Thorbardin! Il regno dei nani. Si girò. C’erano le rovine della fortezza che parevano un cranio intento a divorare la terra con la bocca eternamente sogghignante. Così, si trovava sui Pianori di Dergoth. Riconosceva il paesaggio. Ma, pur riconoscendolo, gli pareva strano. Ogni cosa era tinta di rosso come se stesse guardando tutti gli oggetti attraverso occhi velati dal sangue. E, anche se quegli oggetti sembravano uguali a come lui li ricordava, allo stesso tempo gli apparivano estranei.

Aveva già visto il Teschio durante la Guerra delle Lance, ma non ricordava di averlo visto sogghignare in quella maniera oscena. Anche le montagne erano nitide e si stagliavano con chiarezza contro il cielo... Il cielo! Raistlin tirò un respiro. Era vuoto! Guardò rapidamente in tutte le direzioni. No, non c’era il sole, eppure non era notte. Non c’erano né lune, né stelle, e aveva un colore così strano... una specie di rosa tenue, spento: il riflesso di un tramonto.

Abbassò lo sguardo sulla donna inginocchiata al suolo davanti a lui.

Raistlin sorrise, le sue labbra sottili premute insieme con espressione cupa.

«No,» disse, e questa volta la sua espressione era ferma e fiduciosa. «No, non sono morto! Ho avuto successo.» Fece un gesto. «Questa è la prova del mio successo. Riconosco questo posto. Il kender me l’ha descritto. Mi ha detto che era tutti i posti nei quali era stato. Questo è il luogo in cui ho varcato il Portale, e adesso mi trovo nell’Abisso.»

Chinandosi, Raistlin afferrò la donna per le braccia, trascinandola in piedi. «Demone, apparizione!

Dov’è Crysania? Dimmi, chiunque o qualsiasi cosa tu sia! Dimmi, o per gli dei, io...»

«Raistlin! Fermati, mi stai facendo male!»

Raistlin trasalì, spalancando gli occhi. Era stata Crysania a parlare, ed era di Crysania il braccio che stringeva! Scosso, mollò la presa ma, nel giro di un istante, fu di nuovo padrone di se stesso. Lei cercò di liberarsi, ma lui la tenne salda, attirandola più vicino a sé.

«Crysania?» l’interrogò, studiandola con attenzione.

Crysania sollevò perplessa lo sguardo su di lui. «Sì,» balbettò confusamente. «Cosa c’è che non va, Raistlin? Hai parlato in maniera così strana...»

L’arcimago accentuò ancora di più la stretta. Crysania lanciò un grido per il dolore. Sì, il dolore nei suoi occhi era reale, e così anche la sua paura.

Sorridendo, sospirando, Raistlin la cinse fra le braccia, premendola contro il proprio corpo.

Crysania era carne, calore, profumo, un cuore che batteva...

«Oh, Raistlin!» Crysania si rannicchiò contro di lui. «Avevo tanta paura... Questo orribile posto.

Ero completamente sola.»

La sua mano s’infilò tra i capelli neri di Crysania. La morbidezza e la fragranza del suo corpo lo intossicavano, colmandolo di desiderio. Lei si strinse ancora di più a lui, piegando indietro la testa.

Le sue labbra erano morbide, bramose. Raistlin chinò lo sguardo su di lei e fissò i suoi occhi ardenti.

Così, sei tornato a casa, finalmente, o mio mago!

Una risata calda e soffocante bruciò la sua mente mentre il corpo snello fra le sue braccia si contorceva furiosamente... stava stringendo un collo di un drago a cinque teste... l’acido sgocciolava dalle fauci spalancate sopra di lui... il fuoco ruggiva intorno a lui... nuvolaglie sulfuree gli facevano mancare il respiro. La testa si abbassò con movimenti serpentini...

Disperatamente, furiosamente, Raistlin fece appello alla sua magia. Però, nel medesimo istante in cui formava le parole del canto dell’incantesimo difensivo, nella sua mente avvertì una punta di dubbio. Forse la magia non avrebbe funzionato. Sono debole, il transito attraverso il Portale ha prosciugato le mie forze. La paura, sottile e tagliente come la lama di una spada, ha trafitto la mia anima. Le parole del canto gli scivolarono via dalla mente. Il panico invase il suo corpo. La Regina!

Mi sta facendo questo! Ast takar ist... No, non è giusto! Sentì delle risate, delle risate vittoriose...

Una folgorante luce bianca lo accecò. Stava cadendo, cadendo, cadendo interminabilmente, scendendo a spirale, passando dall’oscurità al giorno.

Quando riaprì gli occhi, Raistlin vide il volto di Crysania.

Il suo volto... ma non era il volto che ricordava. Stava invecchiando, morendo, anche mentre la stava guardando. Stringeva nella mano il medaglione dì platino di Paladine. La sua radiosità bianca e pura risplendeva luminosa nell’arcana luce rosata che li avvolgeva da ogni lato.

Raistlin chiuse gli occhi per escludere la vista del volto del chierico che invecchiava, richiamando alla memoria i ricordi dell’aspetto che aveva avuto in passato: delicata, bella, viva d’amore e di passione. La voce di lei gli giunse agli orecchi, fredda, ferma.

«Ti avevo quasi perduto.»

Alzando le mani, ma senza aprire gli occhi, afferrò le braccia del chierico, aggrappandosi a lei disperatamente. «Che aspetto ho? Dimmelo! Sono cambiato, vero?»

«Sei com’eri quando ti ho incontrato la prima volta nella Grande Biblioteca,» replicò Crysania, con voce ancora ferma, troppo ferma, tesa.

Sì, pensò Raistlin: sono com’ero. Il che significa che sono ritornato al presente. Sentì l’antica fragilità, l’antica debolezza, il dolore bruciante nel petto, e con esso la soffocante asprezza della tosse, come se delle ragnatele venissero intessute nei suoi polmoni. Sapeva che doveva soltanto guardare e avrebbe visto la pelle dalla coloritura dorata, i capelli bianchi, gli occhi a clessidra...

Spingendo via Crysania, si rotolò sullo stomaco, serrando i pugni in preda al furore, singhiozzando per la rabbia e la paura.

«Raistlin!». Adesso nella voce di Crysania c’era autentico terrore. «Cosa succede? Raistlin, dove ci troviamo? Cosa c’è che non va?»

«Ci sono riuscito,» lui ringhiò. Aprendo gli occhi vide il volto della donna, che appassiva a vista d’occhio. «Ci sono riuscito, siamo nell’Abisso.»

Crysania spalancò completamente gli occhi. Le sue labbra si dischiusero. La paura si mischiò alla gioia.

Raistlin ebbe un sorriso amaro. «E la mia magia se n’è andata.»

Sorpresa, Crysania lo fissò. «Non capisco...»

Torcendosi in preda all’agonia, Raistlin le gridò: «La mia magia non c’è più! Qui, nel suo regno, sono debole, impotente!» D’un tratto, ricordandosi che lei poteva essere intenta ad ascoltarlo, osservandolo e godendone, Raistlin s’immobilizzò. Il suo urlo morì in una schiuma color sangue, sulle sue labbra. Si guardò intorno, preoccupato.

«Ma no, non mi hai sconfitto!» bisbigliò. La sua mano si chiuse sul Bastone di Magius, che giaceva al suo fianco. Appoggiandosi pesantemente su di esso, lottò per alzarsi in piedi. Crysania lo cinse col suo braccio robusto, aiutandolo ad alzarsi.

«No,» mormorò, fissando la vastità delle pianure vuote, il cielo rosa e vuoto. «So dove sei! Lo sento! Sei a Godshome. Conosco la configurazione del terreno. So dove andare. Il kender me ne ha dato la chiave durante le sue farneticazioni febbricitanti. La terra sottostante riflette quella sovrastante. Ti scoverò, anche se il viaggio sarà lungo e insidioso.

«Sì,» e si guardò intorno, «sento che stai sondando la mia mente, che stai leggendo i miei pensieri, anticipando tutto ciò che dico e faccio. Tu pensi che sarà facile sconfiggermi! Ma io sento anche la tua confusione. Qui con me c’è qualcuno a cui non puoi toccare la mente! Lei mi difende e mi protegge. Non è vero, Crysania?»

«Sì, Raistlin,» fu la risposta di Crysania, con voce sommessa, mentre sorreggeva l’arcimago.

Raistlin fece un passo, poi un altro, e un altro ancora. Si appoggiò a Crysania, si appoggiò al suo bastone. Ma, anche così, ogni suo passo era uno sforzo, ogni suo respiro sembrava bruciargli i polmoni. Quando guardava quel mondo intorno a sé, tutto quello che vedeva era il vuoto.

Dentro di lui tutto era vuoto. La magia non c’era più.

Raistlin inciampò. Crysania lo afferrò e lo sorresse, stringendolo a sé. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance.

Poteva udire delle risate...

Forse dovrei arrendermi adesso! pensò, con amara disperazione. Sono stanco, così stanco... E senza la mia magia, cosa sono?

Niente. Niente, soltanto un bambino debole e sventurato...

Capitolo terzo.

Per lunghi momenti, dopo la dichiarazione di Dalamar, nella stanza vi fu silenzio. Poi il silenzio venne interrotto dal raschiare di una penna mentre Astinus registrava le parole dell’elfo scuro sul grande libro.

«Possa Paladine essere misericordioso,» mormorò Elistan.

«Lei è con lui?»

«Naturalmente,» esclamò Dalamar, irritato, rivelando un nervosismo che tutta l’abilità della sua Arte era impotente a nascondere. «Come pensi altrimenti che possa aver avuto successo? Il Portale è chiuso per tutti salvo che alle forze unite di uno stregone dalle Vesti Nere, potente come lo è lui, e un chierico dalle Vesti Bianche, con una fede come quella di Crysania.»

Tanis, confuso, fece passare lo sguardo dall’uno all’altro. «Ascoltate,» disse con collera, «non capisco. Cosa sta succedendo? Di chi state parlando? Di Raistlin? Cos’ha fatto? Ha qualcosa a che fare con Crysania? E Caramon? E scomparso anche lui, insieme a Tas! Io...»

«Cerca di controllare quell’impaziente metà umana della tua natura, Mezzelfo,» lo rampognò Astinus, continuando a scrivere con tratti neri e fermi. «E tu, elfo scuro, comincia dall’inizio, invece che dal mezzo.»

«Oppure dalla fine, a seconda del caso,» aggiunse Elistan a bassa voce.

Bagnatesi le labbra con del vino, Dalamar, con lo sguardo ancora fìsso sul fuoco, raccontò la strana storia che Tanis, fino a quel momento, aveva conosciuto soltanto in parte. Molte cose il mezzelfo avrebbe potuto indovinarle, molte altre lo colsero di sorpresa, molte lo riempirono di orrore.

«Dama Crysania è stata ammaliata da Raistlin. E, se dobbiamo dire la verità, anche lui era attirato da lei, credo. Chi può dirlo con certezza, con un individuo come Raistlin? L’acqua gelida è ancora troppo calda per poter scorrere nelle sue vene. Chi può sapere da quanto tempo progettava questo, da quanto lo sognava? Ma, alla fine, era pronto. Aveva programmato un viaggio indietro nel tempo, per cercare quell’unica cosa che gli mancava, le conoscenze del più grande stregone che sia mai vissuto: Fistandantilus.

«Preparò una trappola per Dama Crysania, avendo progettato di attirarla indietro nel tempo insieme a lui, oltre al proprio fratello gemello...»

«Caramon?» chiese Tanis, in preda allo stupore.

Dalamar lo ignorò. «Ma accadde qualcosa d’imprevisto. La sorellastra dello Shalafi, Kitiara, un Signore dei Draghi...»

Il sangue pulsava nella testa di Tanis, offuscando la sua visione e ottundendo il suo udito. Sentì lo stesso sangue pulsargli nel volto. Aveva la sensazione che la sua pelle bruciasse a toccarla, tanto era calda.

Kitiara!

Si ergeva davanti a lui, gli occhi che lampeggiavano, i capelli scuri e riccioluti che le ricadevano sul viso, le sue labbra leggermente dischiuse in quell’incantevole, furfantesco sorriso, la luce che traeva vividi riflessi dalla sua armatura...

Abbassò lo sguardo su di lui dal dorso del suo drago azzurro, circondata dai suoi tirapiedi, altera e possente, forte e spietata...

Giaceva tra le sue braccia, languida, amorosa, sorridente...

Tanis sentì, anche se non poteva vederlo, lo sguardo pieno di comprensione, ma anche di pietà, di Elistan. Si ritrasse davanti all’espressione severa e consapevole di Astinus. Invischiato nel proprio senso di colpa, nella propria vergogna, nella propria infelicità, Tanis non si accorse che anche Dalamar stava avendo problemi con la propria espressione che, dopo essersi imporporata, ora stava impallidendo. Non percepì il tremolio nella voce dell’elfo scuro quando pronunciò il nome della donna.

Dopo aver lottato, Tanis recuperò il controllo di sé e fu in grado di riprendere l’ascolto. Ma sentì, ancora una volta, quell’antico dolore nel suo cuore, il dolore che aveva pensato fosse scomparso per sempre. Era felice con Laurana, l’amava più profondamente e teneramente di quanto fosse possibile per un uomo amare una donna. Era in pace con se stesso. La sua vita era ricca, piena. E adesso era stupito nello scoprire quell’oscurità nelle profondità del suo spirito... quell’oscurità che pensava di aver bandito per sempre.

«A un ordine di Kitiara, il cavaliere della morte, Lord Soth, lanciò un incantesimo su Dama Crysania, un incantesimo che avrebbe dovuto ucciderla. Ma Paladine intervenne: prese la sua anima facendola dimorare con sé, lasciando sulla terra l’involucro vuoto del suo corpo. Credevo che lo Shalafi fosse stato sconfitto. Ma no, tramutò in vantaggio questo tradimento da parte di sua sorella.

Suo fratello gemello, Caramon, e il kender, Tasslehoff, condussero Dama Crysania fino alla Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, sperando che i maghi fossero in grado di curarla. Non potevano farlo, naturalmente. Come Raistlin sapeva benissimo. Potevano soltanto mandarla indietro nel tempo nell’unico periodo della storia di Krynn in cui viveva un Gran Sacerdote abbastanza potente da poter invocare Paladine perché ripristinasse l’anima della donna dentro il suo corpo. E questo, naturalmente, era proprio quello che Raistlin voleva.»

Dalamar strinse il pugno. «Lo dissi ai maghi! Sciocchi! Dissi loro che stavano proprio facendo il suo gioco.»

«Lei gliel’ha detto?». Adesso Tanis si sentiva abbastanza padrone di sé da fare la domanda. «Ha tradito lui, il suo Shalafi». Sbuffò per l’incredulità.

«Quello che faccio è un gioco pericoloso, Mezzelfo.» Adesso Dalamar lo guardò, i suoi occhi ardevano da dentro, come le braci di un fuoco. «Io sono una spia, mandata dal Conclave dei maghi a sorvegliare ogni mossa di Raistlin. Sì, puoi benissimo apparire stupito. Essi lo temono, tutti gli Ordini lo temono, i Bianchi, i Rossi, i Neri. Soprattutto i Neri, poiché sappiamo quale sarà il nostro destino se lui dovesse salire al potere.»

Mentre Tanis lo fissava, l’elfo scuro sollevò la mano e lentamente dischiuse il davanti della sua veste, denudandosi il petto. Cinque ferite purulente deturpavano la superficie liscia della pelle dell’elfo scuro. «Il segno della sua mano,» dichiarò Dalamar con voce priva d’espressione. «La ricompensa per il mio inganno.»

Tanis vide chiaramente, nella sua mente, Raistlin appoggiare le sue sottili dita dorate sul petto del giovane elfo scuro, senza malizia, senza crudeltà, senza il minimo tocco di umanità, e potè vedere quelle dita che penetravano, bruciandole, le carni della sua vittima. Scuotendo la testa, sentendosi nauseato, Tanis tornò a sprofondare nella sua poltrona, con lo sguardo fisso sul pavimento.

«Ma loro non vollero ascoltarmi,» continuò Dalamar. «Si aggrappavano alle pagliuzze. Come Raistlin aveva previsto, la loro più grande speranza stava nella loro più grande paura. Decisero di mandare Dama Crysania indietro nel tempo, in apparenza per permettere che il Gran Sacerdote l’aiutasse. Questo è ciò che dissero a Caramon, poiché sapevano che altrimenti non ci sarebbe andato. Ma, in realtà, la mandarono indietro nel tempo perché morisse, o almeno sparisse com’era accaduto a tutti gli altri chierici prima del Cataclisma. E speravano che Caramon, una volta che fosse tornato indietro nel tempo e avesse appreso la verità sul suo gemello... che Raistlin, in realtà, era Fistandantilus... sarebbe stato spinto a uccidere suo fratello.»

«Caramon?» Tanis dette in un’amara risata, poi corrugò di nuovo la fronte incollerito. «Come hanno potuto fare una cosa del genere? Quell’uomo è malato! E l’unica cosa che adesso Caramon è in grado di ammazzare è una bottiglia di spirito dei nani! Raistlin lo ha già distrutto. Perché non hanno...»

Cogliendo l’occhiata irritata di Astinus, Tanis si calmò. La sua mente vacillò, in preda alla confusione. Niente di tutto questo aveva senso! Lanciò un’occhiata in direzione di Elistan. Il chierico doveva già conoscere la maggior parte di questa storia. Sul suo volto non c’era stata nessuna espressione di sbigottimento o di sorpresa, neppure quando aveva sentito che i maghi avevano mandato Crysania indietro nel tempo perché vi morisse. C’era soltanto un’espressione di profondo dolore.

Dalamar stava continuando. «Ma il kender, Tasslehoff Burrfoot, sconvolse l’incantesimo di Par-Salian e accidentalmente viaggiò indietro nel tempo insieme a Caramon. L’inserimento di un kender dentro il flusso del tempo rese possibile un’alterazione del tempo. Possiamo soltanto supporre ciò che è accaduto là, a Istar. Quello che sappiamo è che Crysania non morì. Caramon non uccise suo fratello. E Raistlin ebbe successo nell’ottenere le conoscenze di Fistandantilus. Portando Crysania e Caramon con sé, si spostò avanti nel tempo, in quell’unico periodo in cui avrebbe posseduto, con Crysania, l’unico vero chierico del paese. Viaggiò fino all’unico periodo della nostra storia in cui la Regina delle Tenebre sarebbe stata più vulnerabile e incapace di fermarlo.

«Come Fistandantilus aveva fatto prima di lui, Raistlin combatté la Guerra della Porta dei Nani, e in questo modo ebbe accesso al Portale che si trovava, allora, nella fortezza magica di Zhaman. Se la storia si fosse ripetuta, Raistlin sarebbe morto davanti a quel Portale, poiché era stato così che Fistandantilus aveva incontrato la sua condanna.»

«Contavamo su questo,» mormorò Elistan, tirando debolmente le coperte che lo coprivano.

«Par-Salian aveva detto che Raistlin non disponeva di nessun modo per cambiare la storia...»

«Quel disgraziato di un kender!» ringhiò Dalamar. «Par-Salian avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto rendersi conto che quella sciagurata creatura avrebbe fatto esattamente quello che fece, cogliendo al balzo l’occasione di una nuova avventura! Avrebbe dovuto accettare il nostro consiglio e strangolare quel piccolo bastardo...»

«Mi dica cos’è accaduto a Tasslehoff e a Caramon,» disse Tanis con freddezza. «Non m’importa cosa sia successo a Raistlin o, me ne scuso con te, Elistan, a Dama Crysania. Lei è stata accecata dalla propria bontà. Mi dispiace per lei, ma si è rifiutata di aprire gli occhi e di vedere la verità.

M’importano i miei amici. Che ne è stato di loro?»

«Non lo sappiamo,» rispose Dalamar. Scrollò le spalle. «Ma se fossi in te, non mi aspetterei di rivederli in questa vita, Mezzelfo... Servirebbero assai poco allo Shalafi»

«Allora mi ha detto tutto quello che mi serve sentire,» replicò Tanis, alzandosi, con la voce tesa per il dolore e il furore. «Anche se dovesse essere l’ultima cosa che farò, scoverò Raistlin e...»

«Siediti, Mezzelfo,» gli ingiunse Dalamar. Non alzò la voce, ma c’era un pericoloso scintillio nei suoi occhi che indusse Tanis a portare la mano all’elsa della spada, ma questo gli ricordò che, dal momento che si trovava in visita nel Tempio di Paladine, non l’aveva con sé. Ancora più furibondo, non fidandosi delle proprie parole, Tanis rivolse un inchino a Elistan, poi ad Astinus, e accennò a dirigersi verso la porta.

«Ti importerà conoscere cosa è stato di Raistlin, Tanis Mezzelfo,» lo intercettò la voce insinuante di Dalamar, «perché riguarda te... Riguarda noi tutti. Dico il vero, Reverendo Figlio?»

«È così, Tanis,» confermò Elistan. «Comprendo i tuoi sentimenti, ma devi metterli da parte.»

Astinus non disse niente, il raschiare della sua penna era l’unica indicazione che lo storico si trovava ancora nella stanza. Allora Tanis strinse il pugno e, lanciando un’imprecazione bestiale che indusse perfino Astinus a sollevare lo sguardo, il mezzelfo si rivolse a Dalamar: «Molto bene, allora. Cosa potrebbe mai fare Raistlin per ferire e danneggiare e distruggere ancora di più coloro che gli stanno intorno?»

«Ho detto, all’inizio, che i nostri peggiori timori si sono concretizzati,» rispose Dalamar, i suoi occhi obliqui da elfo si fissarono su quelli assai meno obliqui del mezzelfo.

«Sì,» sbottò Tanis, in preda all’impazienza, rimanendo in piedi.

Dalamar fece una pausa drammatica. Astinus sollevò lo sguardo e si accigliò, con un’espressione vagamente infastidita.

«Raistlin è entrato nell’Abisso. Lui e Dama Crysania sfideranno la Regina delle Tenebre.»

Tanis fissò Dalamar, incredulo. Poi esplose in una risata. «Be’,» disse infine, scrollando le spalle, «pare che io non debba preoccuparmi poi tanto. Il mago ha firmato la propria condanna.»

Ma la risata di Tanis subito si spense. Dalamar lo fissò con espressione cinica, fredda e divertita, come se si fosse aspettato quell’assurda risposta da un mezzo umano. Astinus sbuffò e continuò a scrivere. Le fragili spalle di Elistan si accasciarono. Chiuse gli occhi e si abbandonò contro i cuscini.

Tanis li fissò tutti. «Ma non potete considerarla una minaccia seria!» esclamò. «Per gli dei, mi sono trovato davanti alla Regina delle Tenebre! Ho sentito la sua potenza e la sua maestà, e questo quand’era soltanto parzialmente su questo piano di esistenza.» Il mezzelfo ebbe un brivido involontario. «Non so immaginare cosa voglia dire incontrarla sul suo... sul suo...»

«Non sei il solo, Tanis,» disse Elistan con voce stanca. «Anch’io ho conversato con la Regina delle Tenebre.» Aprì gli occhi, esibendo un pallido sorriso. «Ti sorprende? Ho affrontato anch’io le mie prove e le mie tentazioni, come hanno fatto tutti gli uomini.»

«Soltanto una volta lei è venuta a me.» Dalamar si sbiancò in volto, e c’era paura nei suoi occhi. Si leccò le labbra. «Ed è stato per portarmi queste notizie.»

Astinus non disse niente. Ma aveva cessato di scrivere. La roccia stessa sarebbe stata più espressiva del volto dello storico.

Tanis scosse la testa per la meraviglia. «Hai incontrato la Regina, Elistan? Ammetti la sua potenza?

Eppure continui a pensare che uno stregone fragile e malato e una invecchiata fanciulla chierico possano in qualche modo farle del male?»

Gli occhi di Elistan lampeggiarono, le sue labbra si strinsero, e Tanis seppe di essersi spinto troppo oltre. Arrossendo, si grattò la barba e fece per scusarsi, poi, cocciutamente, chiuse la bocca. «Non ha senso,» borbottò, tornando indietro e buttandosi sulla poltrona.

«Insomma, in nome dell’Abisso, come possiamo fermarlo?» Rendendosi conto di ciò che aveva detto, il suo rossore divenne ancora più intenso. «Mi spiace,» bofonchiò. «Non intendevo farne una battuta. Sembra che tutto quello che dico venga fuori sbagliato. Ma, maledizione, non capisco!

Dovremmo fermare Raistlin, oppure incitarlo a continuare?»

«Non puoi fermarlo,» interloquì Dalamar, freddamente, quando Elistan parve sul punto di replicare.

«Questo possiamo farlo soltanto noi maghi. A questo fine stiamo portando avanti i nostri piani già da parecchie settimane, sin da quando abbiamo saputo di questa minaccia. Vedi, Mezzelfo, ciò che hai detto è, in parte, giusto. Raistlin sa, tutti noi sappiamo, di non poter sconfiggere la Regina delle Tenebre sul suo stesso piano di esistenza. Perciò il piano consiste nell’attirarla fuori, facendola uscire dal Portale ed entrare in questo mondo...»

Tanis ebbe l’impressione di essere stato colpito da un violento pugno allo stomaco. Per un istante non riuscì neppure a respirare.

«È pura follia,» riuscì finalmente a rantolare, avvolgendo strettamente le mani intorno ai braccioli della poltrona. Le nocche gli divennero bianche per lo sforzo. «A Neraka siamo riusciti a sconfiggerla a stento! E lui vuole riportarla nel mondo?»

«A meno che non si riesca a fermarlo,» continuò Dalamar, «il che è mio dovere, come ho detto.»

«Allora, cos’è che dovremmo fare?» volle sapere Tanis, sporgendosi in avanti. «Perché siamo stati fatti venire qui? Dobbiamo starcene seduti a guardare intorno? Io...»

«Sii paziente, Tanis,» lo interruppe Elistan. «Sei nervoso e spaventato. Condividiamo tutti questi sentimenti.»

Con l’eccezione di quello storico dal cuore di granito che siede laggiù, pensò Tanis con amarezza...

«Ma non c’è nulla da guadagnare con i gesti affrettati o le parole inconsulte.» Elistan guardò in direzione dell’elfo scuro e la sua voce divenne più morbida. «Credo che non abbiamo ancora sentito il peggio, non è vero, Dalamar?»

«Sì, Reverendo Figlio,» annuì Dalamar, e Tanis fu sorpreso nel vedere una traccia d’emozione guizzare negli occhi obliqui dell’elfo. «Ho ricevuto notizia che il Signore dei Draghi, Kitiara...» l’elfo per un istante parve soffocare, si schiarì la gola e continuò parlando con maggior fermezza:

«Kitiara ha in progetto un attacco su grande scala contro Palanthas.»

Tanis tornò a sprofondare nella sua poltrona. Il suo primo pensiero fu di amaro e cinico divertimento: te l’avevo detto, Lord Amothus. Te l’avevo detto, Porthios. Ve l’avevo detto, l’avevo detto a voi tutti che avete voluto tornarvene nei vostri piccoli nidi, belli e caldi, fingendo che la guerra non ci fosse mai stata. Il suo secondo pensiero fu più assennato. I ricordi gli tornarono alla memoria: la città di Tharsis in fiamme, gli eserciti dei draghi che occupavano Solace, i dolori, le sofferenze... la morte. Elistan stava dicendo qualcosa, ma Tanis non poteva sentire. Si abbandonò sullo schienale, chiudendo gli occhi, cercando di pensare. Ricordava che Dalamar aveva parlato di Kitiara, ma cosa mai aveva detto? Si muoveva ai margini della sua coscienza. Aveva pensato a Kit. Non gli aveva prestato attenzione. Le parole erano vaghe...

«Aspetta!» Tanis si rizzò a sedere, all’improvviso se n’era ricordato. «Hai detto che Kitiara era inferocita con Raistlin. Hai detto che lei aveva paura quanto noi che la Regina rientrasse nel mondo.

È per questo che ordinò a Lord Soth di uccidere Crysania. Se è vero, perché mai intende attaccare Palanthas? Non ha senso! Ogni giorno che passa le sue forze, a Sanction, aumentano. I draghi del male si sono riuniti laggiù, e abbiamo ricevuto rapporti secondo i quali i draconici che erano stati dispersi dopo la guerra si sono anch’essi riuniti sotto il suo comando. Ma Sanction si trova a una grande distanza da Palanthas. Nel mezzo si trovano le terre dei Cavalieri di Solamnia. I draghi buoni si desteranno e combatteranno, se i draghi cattivi solcheranno di nuovo i cieli. Perché? Perché dovrebbe rischiare tutto quello che ha guadagnato? E per che cosa...»

«Credo che tu conosca la Signora Kitiara, Mezzelfo!» lo interruppe Dalamar.

Tanis soffocò e borbottò qualcosa. «Scusa?»

«Sì, maledizione, la conosco!» esclamò Tanis con rabbia, colse l’occhiata che Elistan gli aveva scoccato, e riaffondò nella poltrona sentendosi bruciare la pelle.

«Hai ragione,» disse Dalamar con voce melliflua e un luccichio divertito nei suoi chiari occhi di elfo. «Quando Kitiara seppe per la prima volta dei piani di Raistlin, ebbe paura. Non per lui, naturalmente, ma per timore che facesse ricadere su di lei la collera della Regina delle Tenebre.

Ma,» Dalamar scrollò le spalle, «fu allora che Kitiara si convinse che Raistlin dovesse perdere.

Adesso, invece, pare che stia pensando che Raistlin abbia una possibilità di vittoria. E Kit cercherà sempre di trovarsi dalla parte del vincitore. Progetta di conquistare Palanthas per essere pronta ad accogliere lo stregone quando attraverserà il Portale. Kit offrirà a suo fratello la potenza dei suoi eserciti. Se lui sarà abbastanza forte, e a quell’epoca dovrebbe esserlo, potrà facilmente convertire quelle creature malefiche inducendole ad abbandonare la loro fedeltà alla Regina delle Tenebre e a servire la sua causa.»

«Kit?». Ora toccò a Tanis mostrarsi divertito. Dalamar ebbe un leggero sorriso sprezzante.

«Oh, sì, Mezzelfo. Conosco Kitiara in ogni particolare tanto quanto te.»

Ma il tono sarcastico nella voce dell’elfo scuro si fece esitante, trasformandosi inconsciamente in un tono di amarezza. Le sue mani sottili si strinsero. Tanis annuì, comprendendo all’improvviso, e provando, stranamente, una certa simpatia per il giovane elfo.

«Così ha tradito anche te,» mormorò Tanis quasi fra sé. «Ti aveva promesso il suo sostegno, dicendoti che sarebbe stata là, accanto a te. Che quando Raistlin fosse tornato avrebbe combattuto al tuo fianco...»

Dalamar si alzò in piedi, le sue vesti nere frusciarono intorno a lui. «Non mi sono mai fidato di lei,» dichiarò, gelido, ma girò loro la schiena e si mise a fissare intensamente le fiamme, tenendo la faccia voltata dall’altra parte. «Sapevo di quali tradimenti era capace. Non è stata una sorpresa.»

Ma Tanis vide sbiancarsi la mano che stringeva la mensola del caminetto.

«Chi te l’ha detto?» chiese Astinus, all’improvviso. Tanis sussultò. Si era quasi dimenticato della presenza dello storico. «Certamente non la Regina delle Tenebre. A lei non importerebbe nulla di questo.»

«No, no.» Dalamar parve confuso per un attimo. Era ovvio che i suoi pensieri erano stati lontani da lì. Sospirando, levò ancora una volta lo sguardo su di loro. «Me l’ha detto Lord Soth, il Cavaliere della Morte.»

«Lord Soth?» Tanis sentì che stava perdendo la presa sulla realtà.

Freneticamente, il suo cervello cercò un appiglio. Maghi che spiavano altri maghi. Chierici della luce che facevano fronte comune con gli stregoni delle tenebre. La tenebra che si fidava della luce, rivoltandosi contro la tenebra. La luce che diventava tenebra...

«Soth ha promesso fedeltà a Kitiara!» disse Tanis, confuso. «Perché mai dovrebbe tradirla?»

Voltando le spalle al fuoco, Dalamar guardò Tanis negli occhi. Per un intero battito di cuore si stabilì un legame fra i due, un legame forgiato dalla mutua comprensione, da una mutua infelicità, da un mutuo tormento, da una mutua passione. E, tutt’a un tratto, Tanis comprese, e la sua anima si accartocciò su se stessa per l’orrore.

«La vuole morta,» rispose Dalamar.

Capitolo quarto.

Il giovanetto camminava lungo le strade di Solace.

Non era un ragazzino attraente, e lo sapeva, così come sapeva tante cose di sé che spesso ai bambini non veniva dato sapere. Ma, d’altronde, trascorreva moltissimo tempo con se stesso, proprio perché non era attraente e perché sapeva troppo.

Ma oggi non camminava da solo. Suo fratello gemello, Caramon, era con lui. Raistlin si accigliò, stropicciando i piedi in mezzo alla polvere della strada che attraversava il villaggio, osservando come si levasse in nuvole intorno a lui. Poteva anche non essere solo, ma in un certo qual senso era più solo con Caramon che senza di lui. Tutti salutavano a gran voce il suo gemello simpatico e aitante. A lui, invece, nessuno diceva una sola parola. Tutti gridavano perché Caramon si unisse ai loro giochi. Nessuno invitava Raistlin. Le ragazze guardavano Caramon con la coda dell’occhio in quella maniera speciale che hanno le ragazze. Ma quelle stesse ragazze neppure notavano la presenza di Raistlin.

«Ehi, Caramon, vuoi giocare a Re del Castello?» urlò una voce.

«Tu vuoi, Raist?» chiese Caramon, mentre il suo volto s’illuminava per il desiderio. Giovane e atletico com’era, a Caramon piaceva quel gioco rude e faticoso. Ma Raistlin sapeva che, se lui avesse accettato di giocare, si sarebbe ben presto sentito debole e stordito. Sapeva anche che gli altri ragazzi avrebbero litigato per decidere quale squadra, renitente, avrebbe dovuto accoglierlo.

«No. Tu, però, fai pure.»

Caramon fece il muso lungo. Poi, scrollando le spalle, disse: «Oh, non importa, Raist. Preferisco rimanere con te.»

Raistlin sentì che la gola gli si stringeva, insieme allo stomaco. «No, Caramon,» ripetè con voce sommessa, «va tutto bene. Vai pure a giocare.»

«Non hai l’aria di sentirti bene, Raist,» disse Caramon. «Non è un gran gioco, davvero. Su, mostrami quel nuovo trucco di magia che hai imparato, quello con le monetine...»

«Non trattarmi così!» si sentì urlare Raistlin. «Io non ho bisogno di te! Non ti voglio intorno, Vai pure... vai a giocare con quegli sciocchi! Tutti insieme, siete un branco di sciocchi! Non ho bisogno di nessuno di voi!»

Il volto di Caramon si sgretolò. Raistlin ebbe la sensazione di avere appena preso a calci un cane.

Ma questa sensazione servì soltanto a farlo arrabbiare ancora di più. Si allontanò.

«Sicuro, Raist, se è questo che vuoi,» borbottò Caramon. Lanciando un’occhiata dietro le proprie spalle, Raistlin vide il suo gemello che rincorreva gli altri. Con un sospiro, cercando d’ignorare le grida e le risate, Raistlin si sedette in un punto ombreggiato e, tirato fuori uno dei libri d’incantesimi dal suo zaino, cominciò a studiarlo. Ben presto, il fascino della magia lo attirò lontano dalla polvere e dalle risate e dagli occhi feriti del suo gemello. Questo lo condusse in una terra incantata dove era lui a comandare agli elementi, lui a controllare la realtà...

Il libro degli incantesimi gli ruzzolò dalle mani, cadendo nella polvere ai suoi piedi. Raistlin sollevò lo sguardo, sorpreso. Due ragazzi si ergevano sopra di lui. Uno dei due stringeva in mano un bastone. Diede col bastone un colpo al libro, poi, sollevandolo, urtò Raistlin con forza nel petto.

Siete insetti, disse Raistlin in silenzio ai ragazzi. Insetti. Non significate niente, per me. Meno che niente. Ignorando il dolore nel petto, ignorando quegli insetti davanti a lui, Raistlin allungò la mano per raccogliere il suo libro. Il ragazzo gli montò sulle dita.

Spaventato, ma adesso più rabbioso che impaurito, Raistlin si alzò in piedi. Le sue mani erano la sua vita. Con esse manipolava i fragili componenti degli incantesimi, con esse tracciava i delicati simboli arcani della sua Arte nell’aria.

«Lasciatemi in pace,» disse freddamente, e tale fu il modo in cui parlò, e l’espressione dei suoi occhi, che per un istante i due ragazzi furono colti alla sprovvista. Ma adesso si era raccolta una piccola folla. Gli altri ragazzi avevano lasciato il loro gioco ed erano venuti a divertirsi.

Consapevole che altri li stavano guardando, il ragazzo con il bastone si rifiutò di permettere che quel topo di biblioteca frignone, lagnoso, tutto pelle e ossa, avesse la meglio su di lui.

«Cos’hai intenzione di fare?» lo sbeffeggiò il ragazzo. «Vuoi trasformarmi in rana?»

Vi furono risate. Le parole di un incantesimo presero forma nella mente di Raistlin. Era un incantesimo che non avrebbe dovuto ancora imparare, un incantesimo offensivo, un incantesimo che faceva male, un incantesimo da usare quando il pericolo era davvero una minaccia. Il suo Maestro si sarebbe inferocito. Le labbra sottili di Raistlin s’incurvarono in un sorriso. Alla vista di quel sorriso e dell’espressione dei suoi occhi, uno dei ragazzi arretrò.

«Andiamo via,» mormorò, rivolto al compagno.

Ma l’altro ragazzo non cedette. Raistlin poteva vedere, dietro di lui, il suo gemello immobile in mezzo alla folla, un’espressione incollerita sul volto.

Raistlin cominciò a pronunciare le parole...

... e poi s’immobilizzò. No! C’era qualcosa di sbagliato! Se n’era dimenticato! La sua magia non avrebbe funzionato! Non qui! Le parole gli vennero fuori come un borbottio incomprensibile, non avevano alcun senso. Non successe niente! I ragazzi scoppiarono a ridere. Il ragazzo che stringeva il bastone lo sollevò e colpì Raistlin allo stomaco, facendolo cadere al suolo e mozzandogli il fiato.

Raistlin era carponi, boccheggiante. Qualcuno gli sferrò un calcio. Sentì il bastone colpirlo alla schiena. Qualcun altro lo prese a calci. Adesso rotolò sul terreno, soffocando in mezzo alla polvere, cercando disperatamente di coprirsi la testa con le braccia sottili. Fu investito da una gragnuola di colpi e di calci.

«Caramon!» gridò. «Caramon, aiutami!»

Ma in risposta gli giunse una voce severa e profonda: «Non hai bisogno di me... non ricordi?»

Un sasso lo colpì alla testa facendogli un male terribile. E seppe, malgrado non potesse vedere, che era stato Caramon a scagliarlo. Stava perdendo conoscenza. Delle mani lo stavano trascinando lungo la strada polverosa, lo stavano trascinando verso un pozzo tenebroso e d’un gelo abissale.

L’avrebbero buttato là dentro e lui sarebbe caduto interminabilmente, in mezzo all’oscurità e al freddo, e non si sarebbe mai, mai abbattuto sul fondo, poiché non c’era nessun fondo...

Crysania si guardò intorno. Dov’era? Dov’era Raistlin? Si era trovato con lei soltanto pochi istanti prima, appoggiandosi, in tutta la sua debolezza, al suo braccio. E poi d’un tratto era svanito e lei si era trovata sola a camminare in uno strano villaggio.

Ma era poi davvero strano? Le pareva di ricordare di essere già stata là, o per lo meno in un posto come quello. Era circondata da alti vallenwood. Le case erano costruite sopra gli alberi. C’era perfino una locanda su un albero: vide un’insegna. Solace.

Com’era strano... si meravigliò, guardandosi intorno. Era Solace, senza dubbio. Era stata lì di recente insieme a Tanis Mezzelfo, a cercare Caramon. Ma questa Solace era diversa. Ogni cosa pareva tinta di rosso e soltanto lievemente distorta. Avrebbe voluto continuare a sfregarsi gli occhi, fino a schiarirseli.

«Raistlin!» chiamò.

Non vi fu risposta. La gente che le passava accanto si comportava come se non la sentisse e non la vedesse. «Raistlin!» gridò, mentre sentiva il panico impadronirsi di lei. Cosa mai gli era successo?

Dov’era andato? La Regina delle Tenebre aveva...

Udì un tumulto, bambini che gridavano, che schiamazzavano al di sopra di un urlo sottile, acuto, un’implorazione di aiuto.

Voltandosi, Crysania vide una folla di bambini raccolti intorno a una forma rannicchiata al suolo.

Vide pugni che colpivano e calci che venivano sferrati, vide un bastone che veniva alzato e poi calato con forza. Ancora una volta quell’urlo acuto. Crysania lanciò un’occhiata alla gente raccolta intorno a lei, ma parevano tutti inconsapevoli del fatto che stava accadendo qualcosa d’insolito.

Raccogliendo con la mano le sue bianche vesti, Crysania corse verso i bambini. Vide, quando fu più vicina, che la figura al centro del cerchio era quella di un bambino! Un ragazzino! Colta da un improvviso senso di orrore, si rese conto che lo stavano uccidendo! Raggiunta la folla, afferrò uno dei bambini per strapparlo via. Al tocco della sua mano, il bambino si voltò di scatto per affrontarla.

Crysania si ritrasse atterrita.

Il volto del bambino era bianco, cadaverico, simile a un teschio. La pelle era stirata sopra le sue ossa, le sue labbra erano tinte di viola. La fissò e sfoderò i denti, e i denti erano neri e marci. Il bambino le sferrò un colpo con la mano. Le unghie lunghe le lacerarono la pelle facendole provare una sensazione pungente e paralizzante che la percorse tutta. Gemendo, lasciò la presa, e il bambino, con un sogghigno di perverso piacere sul volto, tornò a voltarsi per tormentare il ragazzo accasciato al suolo.

Fissando i segni sanguinanti sul suo braccio, stordita e indebolita dal dolore, Crysania sentì urlare di nuovo il ragazzo.

«Paladine, aiutami,» implorò. «Dammi forza.»

Afferrò risolutamente uno dei bambini-demoni e lo scagliò di lato, poi ne afferrò un altro. Riuscì infine a raggiungere il ragazzo disteso al suolo e, facendo da scudo col proprio corpo all’altro, sanguinante e privo di sensi, cercò disperatamente per tutto il tempo di respingere i bambini.

Più e più volte sentì quelle unghie lunghe e aguzze lacerarle la pelle, mentre il veleno scorreva attraverso il suo corpo. Ma ben presto si avvide che anche i bambini, non appena la toccavano, si ritraevano in preda al dolore. Alla fine, con un’espressione imbronciata sui loro volti da incubo, si allontanarono, lasciandola sola, sanguinante e nauseata, con la loro vittima.

Girò con delicatezza il corpo tormentato del ragazzo. Gli lisciò all’indietro i capelli castani e lo guardò in viso. Le sue mani cominciarono a tremare. Non era possibile sbagliarsi sulla gracile struttura di quel viso, sulle ossa sottili e fragili, il mento sporgente.

«Raistlin!» bisbigliò Crysania, stringendo nella sua la piccola mano.

Il ragazzo aprì gli occhi...

L’ uomo, vestito di nero, si rizzò a sedere.

Crysania lo fissò, mentre lui si guardava intorno con espressione truce.

«Cosa sta succedendo?» domandò Crysania, rabbrividendo, mentre sentiva gli effetti del veleno che si propagavano attraverso il suo corpo.

Raistlin annuì fra sé. «È così che lei mi tormenta,» disse con voce sommessa. «È così che combatte contro di me, colpendomi là dove sa che sono più debole.» Quegli occhi dorati a forma di clessidra si volsero verso Crysania, le sue labbra sottili sorrisero. «Hai combattuto per me, l’hai sconfitta.»

L’attirò vicino a sé, avvolgendola nelle proprie vesti nere. «Ecco, riposati un po’. Il dolore passerà, e poi proseguiremo il nostro viaggio.»

Ancora tremante, Crysania posò la testa sul petto dell’arcimago, sentendo il suo respiro affannoso che gli raschiava nei polmoni, inspirando quella dolce, tenue fragranza di petali di rosa e di morte...

Capitolo quinto.

«E così, ecco cosa rimane delle parole e delle promesse coraggiose,» disse Kitiara a bassa voce.

«Ti aspettavi davvero che succedesse altrimenti?» chiese Lord Soth. Le parole, accompagnate da una scrollata dell’armatura antica, risuonarono noncuranti, quasi retoriche. Ma c’era in esse un’acredine che indusse Kitiara a lanciare un’occhiata penetrante al Cavaliere della Morte.

Vedendo che lui la fissava con i suoi occhi arancione nei quali ardeva una strana intensità, Kitiara arrossì. La constatazione che lei aveva rivelato più emozioni di quanto avesse voluto la fece incollerire, e il suo rossore divenne più intenso. Voltò di scatto le spalle a Lord Soth.

Attraversando la stanza, che era ammobiliata con una strana mescolanza di armi, armature, lenzuola profumate di seta, e spessi tappeti di pelliccia, Kitiara si strinse al petto le pieghe della sua sottile camicia da notte con una mano tremante. Era un gesto che serviva assai poco in termini di modestia, e Kitiara lo sapeva, nello stesso momento in cui si chiedeva perché mai l’avesse fatto. Certamente non si era mai preoccupata della modestia prima di allora, specialmente con intorno una creatura che era stata ridotta a un mucchietto di cenere trecento anni prima. Ma d’un tratto si era sentita a disagio sotto lo sguardo di quegli occhi fiammeggianti, che la fissavano da un volto inesistente. Si sentiva nuda ed esposta.

«No, naturalmente no,» rispose Kitiara con freddezza.

«Dopotutto è un elfo scuro,» proseguì Lord Soth con lo stesso tono di voce uniforme e quasi annoiato. «E non fa segreto del fatto che teme tuo fratello più della morte stessa. Quindi, c’è forse da stupirsi che adesso abbia scelto di lottare a fianco di Raistlin piuttosto che a fianco di un branco di vecchi stregoni rincitrulliti che se la fanno dentro gli stivali?»

«Ma avrebbe avuto la possibilità di guadagnare tanto!» ragionò Kitiara, facendo del suo meglio per parlare con lo stesso tono di voce di Lord Soth. Rabbrividendo, raccolse una vestaglia di pelliccia che giaceva ai piedi del suo letto e se la buttò intorno alle spalle. «Gli avevano promesso- la guida delle Vesti Nere. Dopo di che, era certo di prendere il posto di Par-Salian come Capo del Conclave, indiscusso Maestro della magia su Krynn.»

E tu avresti conosciuto altre ricompense, Elfo Scuro, aggiunse Kitiara in silenzio, versandosi un bicchiere di vino rosso. Una volta che quel folle di mio fratello fosse stato sconfitto, nessuno sarebbe stato in grado di fermarti. E i nostri piani? Tu avresti regnato con lo scettro, io con la spada.

Avremmo potuto mettere in ginocchio i cavalieri! Avremmo cacciato gli elfi dalle loro terre natie, la tua terra natia! Tu saresti tornato da trionfatore, mio caro, ed io sarei stata al tuo fianco!

Il bicchiere di vino le scivolò dalla mano. Cercò di riafferrarlo... Ma la sua stretta fu troppo affrettata, la sua morsa troppo forte. Il fragile bicchiere le si infranse tra le mani, tagliandole la pelle. Il sangue si mischiò al vino che sgocciolò sul tappeto.

Le cicatrici riportate in molte battaglie solcavano il corpo di Kitiara, come le mani dei suoi amanti.

Aveva sopportato le sue ferite senza battere ciglio, la maggior parte senza neanche un sussurro. Ma adesso i suoi occhi si riempirono di lacrime. Il dolore le pareva insopportabile.

Accanto a lei c’era un catino. Kitiara affondò la mano nell’acqua fredda, mordendosi il labbro per impedirsi di urlare. L’acqua divenne subito rossa.

«Fa’ venire uno dei chierici!» ringhiò, rivolta a Lord Soth, il quale era rimasto immobile, fissandola con occhi guizzanti. Il Cavaliere della Morte andò alla porta e chiamò un servitore che subito si allontanò. Imprecando fra i denti, sbattendo le palpebre per ricacciare le lacrime, Kitiara afferrò un asciugamano e se lo avvolse intorno alla mano. Quando finalmente il chierico arrivò inciampando per la fretta nelle lunghe vesti nere, l’asciugamano era completamente inzuppato di sangue, e il volto di Kitiara era cinereo sotto la pelle abbronzata.

Il medaglione del Drago a Cinque Teste sfiorò la mano di Kit quando il chierico si chinò sopra di essa, mormorando una preghiera alla Regina delle Tenebre. Ben presto la pelle ferita tornò a chiudersi, il sangue cessò di sgocciolare.

«I tagli non erano profondi. Non dovrebbe esserci nessun danno permanente,» dichiarò il chierico, sforzandosi di rassicurarla.

«Una buona cosa per te!» ribatté Kitiara, seccamente, sempre lottando contro quell’irragionevole debolezza che l’aveva aggredita. «È la mano con cui reggo la spada!»

«Brandirai la lama con la tua abituale facilità e destrezza, posso assicurarlo a Vossignoria,» rispose il chierico. «Ci sarà...»

«No! Esci!»

«Mia signora,» fece il chierico, inchinandosi. «Signor Cavaliere...» e lasciò la stanza.

Restìa a incontrare gli occhi fiammeggianti di Lord Soth, Kitiara evitò di tenere la testa rivolta verso il Cavaliere della Morte, seguendo con lo sguardo le vesti svolazzanti del chierico che stavano scomparendo oltre il vano della porta, la fronte corrugata.

«Che sciocchi! Detesto averli intorno. Comunque, suppongo che tornino utili di tanto in tanto!»

Nonostante si fosse perfettamente rimarginata, la mano le faceva ancora male. È tutto nella mia mente, si disse amaramente. «Ora... che cosa ti proponi di fare a proposito... a proposito dell’elfo scuro?» Prima che Lord Soth potesse risponderle, Kitiara era in piedi e si mise a chiamare a gran voce il servo.

«Pulisci questo pasticcio. E portami un altro bicchiere!». Colpì in viso l’uomo tremante. «Uno dei calici d’oro, stavolta. Sai che detesto questi oggetti fragili fatti dagli elfi! Falli sparire dalla mia vista! Buttali via!»

«Buttarli via?» Il servo azzardò una protesta. «Ma sono preziosi, signora. Arrivano dalla Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, dono di...»

«Ho detto di sbarazzartene!». Afferrandoli, Kitiara fracassò i calici l’uno dopo l’altro contro la parete della sua stanza. Il servo si fece piccolo, piccolo, chinandosi per evitare i calici di vetro che gli passavano sibilando sopra la testa, andando a frantumarsi contro la pietra. Quando l’ultimo dei calici ebbe lasciato le sue dita, Kitiara si sedette su una poltrona in un angolo tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, senza più muoversi né parlare. Il servo si affrettò a spazzare via i vetri rotti dal pavimento, vuotò l’acqua insanguinata nel bacile per l’acqua sporca, e se ne andò. Quando fece ritorno, Kitiara non si era ancora mossa. E neppure Lord Soth. Il Cavaliere della Morte era rimasto immobile al centro della stanza, con gli occhi che luccicavano nella penombra notturna che si andava addensando nella stanza.

«Devo accendere le candele, signora?» chiese il servo con voce sommessa, posando una bottiglia di vino e un calice d’oro.

«Esci!» gli intimò Kitiara attraverso le labbra irrigidite.

Il servo s’inchinò e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.

Avanzando con passi silenziosi, il Cavaliere della Morte attraversò la stanza. Si fermò accanto a Kitiara, ancora immobile e in apparenza incapace di vedere, le appoggiò una mano sulla spalla.

Kitiara sussultò al tocco di quelle dita invisibili, il loro gelo le penetrò fino al cuore. Ma non si ritrasse.

«Bene,» disse di nuovo, contemplando la stanza, la cui unica fonte di luce era adesso costituita dagli occhi fiammeggianti del Cavaliere della Morte. «Ti ho fatto una domanda. Cosa dobbiamo fare per impedire a Dalamar e a mio fratello di fare questa pazzia? Cosa dobbiamo fare prima che la Regina delle Tenebre ci distrugga tutti?»

«Devi attaccare Palanthas,» disse Lord Soth.

«Credo che sia realizzabile,» mormorò Kitiara, soprappensiero, battendosi l’elsa della spada contro la coscia.

«Davvero ingegnoso, mia signora,» dichiarò il comandante delle sue forze. L’ammirazione espressa dalla sua voce era genuina.

Il comandante, un umano di quasi quarant’anni, si era aperto la strada attraverso i vari gradi artigliando, graffiando e assassinando, fino ad arrivare alla sua attuale posizione, Generale degli Eserciti dei Draghi. Curvo e sgraziato, sfigurato da una cicatrice che gli correva come una sferzata da un lato all’altro del volto, il comandante non aveva mai assaporato i favori goduti nel passato da tanti altri capitani di Kitiara. Ma non era senza speranza. Lanciando un’occhiata in direzione di Kitiara, vide la sua faccia, insolitamente fredda e severa durante quegli ultimi giorni, illuminarsi di piacere a quelle parole di lode. Si degnò perfino di sorridergli, quel sorriso furfantesco che sapeva usare così bene. Il cuore del comandante batté più rapido.

«È bello vedere che non hai perso il tuo tocco,» commentò Lord Soth. La sua voce cavernosa echeggiò nella stanza delle mappe.

Il comandante rabbrividì. Ormai avrebbe dovuto essersi abituato al Cavaliere della Morte. Lo sapeva la Regina Scura, se non aveva combattuto abbastanza battaglie con lui e le sue truppe di guerrieri scheletrici. Ma un gelo di tomba circondava il cavaliere, così come il suo mantello nero avvolgeva la sua armatura carbonizzata e chiazzata di sangue.

Come fa a sopportarlo? si chiese il comandante. Dicono che infesti perfino la sua camera da letto!

Questo pensiero fece tornare rapidamente alla normalità il battito del cuore del comandante. Forse, dopotutto, le schiave non erano poi così male. Per lo meno, quando si era soli con loro al buio, si era soli con loro al buio!

«Naturalmente, non ho perso il mio tocco!» replicò Kitiara, con tanta ferocia rabbiosa che il comandante si guardò intorno inquieto, affrettandosi a inventare una scusa per andarsene.

Fortunatamente, con l’intera città di Sanction che si stava preparando alla guerra, non era difficile trovare delle scuse.

«Se non ha più bisogno di me, mia signora,» disse il comandante inchinandosi, «devo controllare i lavori in armeria. C’è molto da fare, e il tempo scarseggia.»

«Sì, vai pure,» borbottò Kitiara con fare assente, gli occhi sulla gigantesca mappa intarsiata nelle piastrelle del pavimento sotto i suoi piedi. Voltandosi, il comandante fece per andarsene, Io spadone sferragliò contro la sua armatura. Alla porta, tuttavia, la voce della sua signora lo fermò.

«Comandante!»

Si voltò. «Mia signora?»

Kitiara fece per dire qualcosa, si fermò, si morse il labbro, poi riprese: «Mi... mi stavo chiedendo se non ti spiacerebbe cenare con me stasera.» Scrollò le spalle. «Ma è tardi per chiederlo. Suppongo che tu abbia già fatto altri piani.»

Il comandante esitò, confuso. Il palmo delle sue mani cominciò a sudare. «A dire il vero, mia signora, ho un precedente impegno, ma potrei facilmente cambiarlo...»

«No,» disse Kitiara, con un’espressione di sollievo sul volto. «No, non sarà necessario. Qualche altra sera. Puoi andare.»

Il comandante, ancora perplesso, si girò lentamente e ancora una volta fece per lasciare la stanza.

Mentre lo faceva, intravide gli ardenti occhi arancione del Cavaliere della Morte che lo trapassavano da parte a parte con il loro sguardo.

Adesso doveva trovarsi davvero un impegno per la cena, pensò, mentre si affrettava lungo il corridoio. Era abbastanza facile. Avrebbe mandato a chiamare una delle giovani schiave per la notte, la sua favorita...

«Dovresti rilassarti, concederti una serata di piacere,» stava intanto dicendo Lord Soth, mentre i passi del comandante svanivano in fondo al corridoio, lì nel quartier generale di Kitiara.

«C’è molto da fare, e poco tempo per farlo,» rispose Kitiara, fingendo di essere completamente assorta nello studio della mappa sotto i suoi piedi. Era ancora immobile sopra il punto contrassegnato «Sanction», lo sguardo fisso sul lontano angolo di nordovest della stanza, là dove era indicata Palanthas annidata nella fenditura tra le montagne che la proteggevano.

Seguendo il suo sguardo, Lord Soth percorse lentamente la distanza, fermandosi sull’unico passo che attraversava quelle montagne impervie, un punto contrassegnato «Torre del Sommo Chierico».

«I Cavalieri cercheranno di fermarti su questo punto, naturalmente,» disse Lord Soth. «Là dove ti hanno fermato durante l’ultima guerra.»

Kitiara sogghignò, e scosse la testa facendo ricadere intorno a sé i capelli riccioluti, e andò verso Lord Soth. Il suo agile passo era di nuovo spavaldo. «Sarà proprio un bello spettacolo. Tutti quei graziosi cavalieri disposti in fila.» D’un tratto, sentendosi meglio di quanto non si sentisse più da mesi, Kitiara scoppiò a ridere. «T’immagini l’espressione delle loro facce quando vedranno quello che abbiamo in serbo per loro? Varrà quasi quanto aver intrapreso l’intera campagna.»

Calpestò la Torre del Sommo Chierico, sbriciolandola sotto il proprio tacco, poi fece qualche rapido passo, fermandosi accanto a Palanthas.

«Finalmente,» mormorò, «la bella, incantevole signora sentirà la spada della guerra aprirle la pelle morbida e matura...». Sorridendo, tornò a voltarsi verso Lord Soth. «Malgrado tutto, credo proprio di volere il comandante a cena con me, stasera. Fallo chiamare.» Lord Soth eseguì un inchino, mostrando il suo tacito consenso. I suoi occhi arancione fiammeggiarono divertiti. «Abbiamo molte questioni militari da discutere.» Kitiara scoppiò in un’altra risata, mentre cominciava a sfibbiarsi le cinghie dell’armatura. «Questi miei fianchi indifesi, brecce nelle mura, stoccata, e penetrazione...»

«Adesso calmati, Tanis,» disse Lord Gunthar, benevolmente. «Sei sovreccitato.»

Tanis Mezzelfo borbottò qualcosa.

«Cos’hai detto?» Gunthar si voltò, stringendo nella mano un boccale della sua birra migliore (spillata da un barile nell’angolo buio accanto alla scala delle cantine.) Porse la birra a Tanis.

«Ho detto che hai maledettamente ragione a dire che sono sovreccitato!» sbottò il Mezzelfo, il che non era affatto ciò che aveva detto prima, ma certamente era più appropriato, quando si parlava con il capo dei Cavalieri di Solamnia, paragonato a ciò che aveva veramente detto.

Lord Gunthar uth Wistan si accarezzò i lunghi baffi, da secoli simbolo dei Cavalieri e che adesso erano ritornati assai di moda, dissimulando il suo sorriso. Ovviamente, aveva sentito benissimo quello che Tanis aveva detto all’inizio. Gunthar scosse la testa. Perché mai quella faccenda non era stata subito comunicata ai militari? Adesso, oltre a doversi preparare per quell’insignificante riaccendersi di forze nemiche indubbiamente frustrate, doveva trattare con gli apprendisti stregoni dalle Vesti Nere, i chierici dalle Vesti Bianche, eroi nervosi, e perfino un bibliotecario! Gunthar sospirò e si tiro i baffi con aria cupa. Adesso, gli mancava soltanto un kender, e poi...

«Tanis, amico mio, siediti. Riscaldati al fuoco. Hai fatto un lungo viaggio, e fa freddo per essere primavera avanzata. I marinai parlano di venti dominanti o di qualche altra sciocchezza del genere.

Il tuo viaggio è stato buono, spero. Non mi spiace dirti che preferisco i grifoni ai draghi...»

«Lord Gunthar,» esclamò Tanis con voce tesa, rimanendo in piedi, «non ho volato fino a Sancrist per discutere di venti dominanti e neppure dei meriti dei grifoni rispetto a quelli dei draghi! Siamo in pericolo! E non soltanto Palanthas, ma il mondo intero! Se Raistlin dovesse avere successo...»

Tanis strinse il pugno. Le parole gli vennero meno.

Dopo aver riempito il proprio boccale dalla caraffa che Wills, il suo vecchio servitore, aveva portato su dalla cantina, Gunthar si avvicinò, fermandosi accanto al mezzelfo. Appoggiando la mano sulla spalla di Tanis, fece girare l’uomo verso di sé.

«Sturm Brightblade parlava molto bene di te, Tanis. Tu e Laurana eravate gli amici più vicini che avesse.»

A queste parole, Tanis chinò la testa. Perfino adesso, più di due anni dopo la morte di Sturm, non poteva pensare alla scomparsa del suo amico senza provare dolore.

«Ti avrei grandemente stimato sulla base di quella sola raccomandazione, poiché amavo e rispettavo Sturm come uno dei miei figli,» continuò Lord Gunthar con foga. «Ma ho imparato ad ammirarti e ad apprezzarti io stesso, Tanis. Il tuo coraggio in battaglia è indiscusso, il tuo onore e la tua nobiltà degni di un Cavaliere.» Tanis scosse la testa irritato a tutti quei discorsi di onore e nobiltà, ma Gunthar non se ne accorse. «Gli onori che ti sono stati accordati alla fine della guerra li hai più che meritati. Il tuo operare, da quando la guerra è finita, è stato eccellente. Tu e Laurana avete unito nazioni che erano rimaste separate per secoli. Porthios ha firmato il trattato e, una volta che i nani di Thorbardin avranno scelto un nuovo re, firmeranno anche loro.»

«Grazie, Lord Gunthar,» disse Tanis, reggendo in mano il suo boccale di birra ancora intatto e fissando il fuoco. «Grazie per le tue lodi. Vorrei sentire di essermele guadagnate. Adesso, se vuoi dirmi dove conduce questa pista mielata...»

«Vedo che sei molto più umano di quanto tu sia elfo,» dichiarò Lord Gunthar, con un lieve sorriso.

«Molto bene, Tanis: salterò le amenità elfiche e andrò dritto al punto. Credo che le tue passate esperienze ti abbiano reso nervoso... tu ed Elistan, tutti e due. Siamo onesti, amico mio. Tu non sei un guerriero: non sei mai stato addestrato come tale. Sei inciampato per caso in questa guerra.

Adesso vieni con me. Voglio farti vedere qualcosa. Vieni, vieni...»

Tanis appoggiò il boccale ancora pieno sulla mensola del caminetto e si lasciò condurre dalla forte mano di Gunthar. Attraversarono la stanza, che era piena dei mobili solidi, semplici, ma confortevoli preferiti dai Cavalieri. Quella era la stanza da guerra di Gunthar: alle pareti erano montati scudi e spade, insieme agli stendardi dei tre Ordini dei Cavalieri: la Rosa, la Spada, e la Corona. Trofei di battaglie combattute nel corso degli anni luccicavano nelle bacheche dove venivano accuratamente conservati. Al posto d’onore, coprendo l’intera lunghezza della parete, c’era una dragonlance, la prima che Theros Ironfeld aveva forgiato. Intorno a essa erano disposte parecchie spade dei goblin, una lama dai denti di sega, d’un draconico, dall’aspetto malevolo, una gigantesca spada a doppia lama di un orco, e la spada spezzata che era appartenuta allo sventurato cavaliere Derek Crownguard.

Era uno spiegamento di grande effetto, che testimoniava una vita onorata al servizio dei Cavalieri.

Però Gunthar passò oltre senza neanche un’occhiata, diretto a un lato della stanza dov’era un grande tavolo. Delle mappe arrotolate erano infilate in bell’ordine in tanti piccoli scomparti sotto il tavolo e ogni scomparto era diligentemente etichettato. Dopo averli scrutati per qualche istante, Gunthar protese una mano verso il basso, tirò fuori una mappa e la distese sulla superficie del tavolo. Fece segno a Tanis di avvicinarsi. Il mezzelfo si accostò, grattandosi la barba e sforzandosi di apparire interessato.

Gunthar si sfregò le mani soddisfatto. Adesso si trovava nel suo elemento. «È una questione di logistica, Tanis. Pura e semplice. Guarda, qui ci sono gli eserciti della Signora dei Draghi, imbottigliati a Sanction. Ora, ammetto che la Signora dei Draghi è forte: Kitiara dispone di un grande numero di draconici, goblin, e umani, i quali non vedono l’ora che la guerra ricominci. E devo anche ammettere che le nostre spie hanno riferito di un aumento di attività a Sanction. La Signora dei Draghi sta combinando qualcosa. Ma attaccare Palanthas! Nel nome dell’Abisso, Tanis, guarda quanto territorio dovrebbe coprire! E la maggior parte di esso è controllato dai Cavalieri! E anche se avesse le forze sufficienti per superarlo, guarda quanto dovrebbero estendersi le linee per i suoi rifornimenti! Ci vorrebbe il suo intero esercito soltanto per proteggere quelle linee. Potremmo interromperle facilmente in qualsiasi punto.»

Gunthar si tirò di nuovo i baffi. «Tanis, se c’era un Signore in quell’esercito che ho imparato a rispettare, quello era Kitiara. E spietata e ambiziosa, ma è anche intelligente, e certamente non è portata a correre rischi inutili. Ha aspettato due anni, per ricostruire i suoi eserciti, fortificandosi in un luogo dove sa che non osiamo attaccarla. Ha guadagnato troppo, per buttarlo via con un piano avventato come questo.»

«Supponi che non sia questo il suo piano,» borbottò Tanis.

«Quali altri piani potrebbe mai avere, Kitiara?» chiese Gunthar, paziente.

«Non lo so,» sbottò Tanis. «Tu hai detto che la rispetti... ma la rispetti abbastanza? La temi abbastanza? Io la conosco, e ho la netta sensazione che abbia in mente qualcosa...». La sua voce si spense, e puntò gli occhi sulla mappa, inarcando le sopracciglia.

Lord Gunthar rimase in silenzio. Aveva sentito delle strane voci su Tanis Mezzelfo e questa Kitiara.

Non aveva voluto crederci, naturalmente, ma sentiva che sarebbe stato meglio non continuare ulteriormente questo discorso su quanto fosse profonda la conoscenza che il mezzelfo aveva di quella donna.

«Tu non ci credi, vero?» gli chiese Tanis all’improvviso. «Neanche un po’.»

Movendosi a disagio, Gunthar si lisciò i lunghi baffi grigi e, chinandosi sopra il tavolo, cominciò ad arrotolare la mappa usando estrema cautela. «Tanis, figlio mio, tu sai quanto ti rispetti...»

«Ne abbiamo già parlato.»

Gunthar ignorò l’interruzione. «E sai anche che non c’è nessuno al mondo per cui non abbia una reverenza più profonda di quanta ne ho per Elistan. Ma, poi, voi due mi venite a riferire una storia che vi è stata raccontata da una delle Vesti Nere, e un elfo scuro per giunta, una storia su questo stregone Raistlin, il quale entra nell’Abisso e sfida la Regina delle Tenebre! Be’, mi spiace, Tanis.

Non sono più un giovanotto, questo è certo. Ho visto molte cose strane nella mia vita. Ma questa mi sembra una di quelle storie che si raccontano ai bambini la sera per farli addormentare!»

«Così dicevano dei draghi,» mormorò Tanis. Il suo volto s’ imporporò sotto la barba. Si raddrizzò e per un momento rimase a testa china poi, grattandosi la barba, fissò intensamente Gunthar. «Mio signore, ho visto crescere Raistlin. Ho viaggiato con lui, ho combattuto sia con lui sia contro di lui.

So di che cosa è capace quell’uomo!». Tanis afferrò il braccio di Gunthar. «Se non vuoi accettare il mio consiglio, allora accetta quello di Elistan! Abbiamo bisogno di te, Lord Gunthar! Abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno dei Cavalieri. Devi rinforzare la Torre del Sommo Chierico.

Abbiamo poco tempo. Dalamar ci dice che il tempo non ha nessun significato sui piani dell’esistenza della Regina delle Tenebre. Là, Raistlin potrebbe combattere contro di lei per mesi, perfino per anni, ma a noi sembrerebbero soltanto giorni. Dalamar crede che il ritorno del suo Maestro sia imminente. Io gli credo, come pure Elistan. E perché mai gli crediamo, Lord Gunthar?

Perché Dalamar ha paura. E spaventato, e anche noi lo siamo.


«Le tue spie ti hanno detto che c’è un’insolita attività a Sanction. Certamente questa è una prova più che sufficiente! Credimi, Lord Gunthar: Kitiara aiuterà suo fratello. Sa che lui la insedierà come sovrana del mondo, se dovesse aver successo. E lei ama a sufficienza il gioco da rischiare tutto per una simile possibilità! Per favore, Lord Gunthar, se non vuoi ascoltarmi, per lo meno vieni a Palanthas! Parla con Elistan!»

Lord Gunthar studiò il mezzelfo davanti a lui con attenzione. Il capo dei Cavalieri era arrivato a occupare quella posizione perché era, fondamentalmente, un uomo giusto e onesto. Era anche un acuto giudice del carattere di una persona. Aveva ammirato e apprezzato il mezzelfo sin da quando l’aveva incontrato dopo la fine della guerra. Ma non era mai riuscito ad avvicinarsi a lui. Tanis aveva un’aria riservata, poco espansiva, che permetteva a pochi di attraversare la barriera da lui eretta.

Adesso, guardandolo, Gunthar si sentì più vicino a lui di quanto si fosse mai sentito prima. Vedeva saggezza in quegli occhi lievemente obliqui, una saggezza che non era stata conquistata facilmente, una saggezza che veniva dal dolore e dalla sofferenza interiori. Vide paura, la paura di qualcuno il cui coraggio è talmente parte integrante del suo essere, da renderlo pronto ad ammettere di avere paura. Vide in lui un capo di uomini. Non soltanto un uomo che agita una spada e guida una carica in battaglia, ma un vero capo, che comanda in silenzio, tirando fuori il meglio dalla gente, aiutandola a compiere cose che essa stessa non avrebbe mai creduto possibili.

E, finalmente, Gunthar comprese qualcosa che non era mai stato capace di penetrare: la saggezza in quegli occhi obliqui gli fece capire perché

Sturm Brightblade, la cui linea del sangue risaliva immacolata per molte generazioni, aveva scelto di seguire quel bastardo di mezzelfo il quale, se le voci erano vere, era il frutto d’uno stupro brutale.

Ora seppe perché Laurana, una principessa elfa, e una delle più forti e più belle donne che avesse mai conosciuto, aveva rischiato tutto, perfino la sua vita, per amore di quell’uomo.

«Molto bene, Tanis.» Il volto severo di Lord Gunthar si rilassò, i toni freddi e cortesi della sua voce si fecero più caldi. «Tornerò a Palanthas insieme a te. Mobiliterò i Cavalieri e predisporremo le nostre difese alla Torre del Sommo Chierico. Come ti ho già detto, le nostre spie mi hanno informato che a Sanction c’è un’insolita attività. Non farà male ai Cavalieri uscir fuori. È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo fatto un’esercitazione sul campo.»

Presa la decisione, Lord Gunthar procedette subito ad accendere la casa di febbrile attività, chiamando a gran voce Wills, il suo servitore, urlando che gli portassero l’armatura, che affilassero la sua spada, che sellassero il suo grifone. Ben presto i servitori svolazzavano qua e là, la signora sua moglie entrò, mostrandosi rassegnata, e insistette perché Gunthar mettesse nello zaino il suo mantello pesante imbottito di pelliccia, anche se era ormai imminente la festa dell’Alba di Primavera.

Dimenticato da tutti in quella confusione, Tanis tornò accanto al caminetto, raccolse il suo boccale di birra, e si sedette per goderselo. Ma, malgrado tutto, non lo gustò. Fissando le fiamme, vide ancora una volta un sorriso accattivante e furfantesco, dei capelli riccioluti...

Capitolo sesto.

Crysania non aveva nessuna idea di quanto tempo fosse passato da quando Raistlin la faceva viaggiare in quella terra dell’Abisso distorta e tinta di rosso. Il tempo cessava di avere un qualsivoglia significato o rilevanza. Talvolta pareva che si trovassero lì soltanto da pochi istanti, talvolta aveva l’impressione di aver percorso quel terreno estraneo e mutevole per molti, faticosi anni. Aveva guarito se stessa dal veleno, ma si sentiva debole, svuotata. I graffi sulla sua pelle non volevano rimarginarsi. Ogni giorno li fasciava con bende fresche. Alla sera, erano nuovamente inzuppate di sangue.

Aveva fame, ma non era una fame che richiedesse cibo per sostentare la vita, quanto la bramosia famelica di assaporare delle fragole, oppure un boccone di pane appena cotto, oppure una fogliolina di menta. Non sentiva neppure la sete, eppure sognava l’acqua che scorreva limpida e il vino gorgogliante e l’aroma piccante del tè speziato. In quella terra, tutta l’acqua era color rosso-bruno e odorava di sangue.

Eppure, non facevano nessun progresso. Per lo meno così diceva Raistlin, il quale pareva diventare sempre più forte a mano a mano che Crysania diventava più debole. Non erano poche le volte che Raistlin aiutava lei a camminare, adesso. Era lui che la sollecitava a proseguire senza sosta, attraverso una città dopo l’altra, sempre più vicini, così diceva lui, a Godshome. I villaggi di quella terra di sotto che parevano l’uno lo specchio dell’altro si fondevano insieme nella mente di Crysania:

Que-Shu, Xak Tsaroth. Attraversarono il Nuovo Mare dell’Abisso, un viaggio orrendo. Guardando dentro l’acqua, Crysania vide i volti pieni di orrore di tutti i morti nel Cataclisma che la fissavano.

Approdarono in un luogo che secondo Raistlin era Sanction. Qui Crysania si sentì debole al massimo, poiché Raistlin le disse che quello era il centro dell’adorazione dei seguaci della Regina delle Tenebre. I suoi templi erano costruiti molto al di sotto delle montagne conosciute come i Signori del Destino. Raistlin disse che qui, durante la Guerra, erano stati celebrati i riti del male che avevano trasformato i cuccioli non usciti dal guscio dei draghi buoni in draconici... nei fetidi e deformi draconici.

Per un lungo periodo non successe loro nient’altro, o forse si trattò soltanto di un attimo. Nessuno guardava Raistlin con le sue vesti nere più di una volta, e nessuno guardò Crysania, del tutto.

Avrebbe potuto benissimo essere invisibile. Passarono facilmente attraverso Sanction. Raistlin cresceva in forza e in fiducia. Disse a Crysania che adesso erano vicini. Godshome era situata in qualche punto a nord dei monti Khalkist.

Come Raistlin riuscisse a stabilire una qualunque direzione in quella terra arcana e spaventevole, andava al di là delle capacità di comprensione di Crysania. Lì non c’era niente a guidarli, né il sole, né le lune, né le stelle. Non era mai veramente notte né mai veramente giorno, c’era soltanto un desolante colore rossastro intermedio. Crysania stava pensando a questo, trascinandosi a fatica accanto a Raistlin, senza guardare dove stavano andando, dal momento che, comunque, tutto pareva uguale, quando, all’improvviso, l’arcimago si fermò. Percependo l’accelerarsi del suo respiro e il suo irrigidirsi, Crysania sollevò lo sguardo allarmata.

Un uomo di mezza età, dalle vesti bianche d’insegnante, stava venendo verso di loro lungo la strada...

«Ripetete le parole dopo di me, ricordando di dar loro la giusta inflessione.» Lentamente ripetè le parole. Lentamente, anche la classe le ripetè. Tutti, meno uno.

«Raistlin!»

La classe si azzittì.

«Maestro?». Raistlin non si preoccupò di nascondere una nota beffarda nella voce, quando pronunciò la parola.

«Non ti ho visto muovere le labbra.»

«Forse perché non si sono mosse, Maestro,» rispose Raistlin. Se qualcun altro nella classe di giovani usufruitori di magia avesse fatto una simile osservazione, gli allievi si sarebbero messi a ridacchiare. Ma essi sapevano che Raistlin provava per loro l’identico disprezzo che provava il Maestro, e così si limitarono a fissarlo furiosi, agitandosi a disagio ; loro sedie.

«Conosci l’incantesimo, non è vero, apprendista?» Certo che lo conosco,» rispose Raistlin, in tono secco. «Lo conoscevo quando avevo sei anni, Lei, quando l’ha appreso? Stanotte?» Il Maestro lo fissò furente, rosso in faccia per la collera. «Questa volta sei andato troppo in là, apprendista! Mi hai insultato una volta di troppo!» La classe, all’occhiata di Raistlin, si dileguò in un attimo. Rimase solo il Maestro e, mentre Raistlin guardava, le vesti bianche del suo vecchio insegnante diventarono nere! La sua stupida faccia obesa si contorse diventando malevola e astuta. Un ciondolo di ematite comparve, appesa al suo collo. . «Fistandantilus!» rantolò Raistlin.

«C’incontriamo di nuovo, apprendista. Ma adesso, dov’è la tua magia?». Lo stregone scoppiò a ridere. Sollevò una mano rattrappita ed accennò ad afferrare il ciondolo di ematite. Raistlin si sentì afferrare dal panico. Sì, dov’era la sua magia? Era scomparsa. Le mani gli tremarono. Le parole degli incantesimi gli turbinarono nella mente, per scivolargli via prima che riuscisse ad afferrarle.

Una palla di fuoco comparve tra le mani di Fistandantilus. Raistlin soffocò per la paura.

Il Bastone! pensò all’improvviso. Il Bastone di Magius. Certamente la magia del Bastone non poteva venire influenzata! Sollevando il Bastone e tenendolo davanti a sé, lo invocò per farsi proteggere. Ma il Bastone cominciò a contorcersi e a divincolarsi tra le sue mani. «No!» gridò Raistlin, per il terrore e la rabbia. «Obbedisci al mio ordine! Obbedisci!» Il Bastone gli si attorcigliò intorno al braccio, e non era più un bastone, ma un enorme serpente. Zanne luccicanti affondarono nelle sue carni. Urlando, Raistlin cadde in ginocchio, cercando disperatamente di liberarsi dal morso velenoso del Bastone. Ma, combattendo contro un nemico, si era dimenticato dell’altro. Udì delle parole che venivano salmodiate, avvolgendolo come l’intreccio d’una ragnatela, e sollevò lo sguardo intimorito. Fistandantilus era scomparso, ma al suo posto c’era un elfo scuro. L’elfo scuro contro il quale lui aveva combattuto nella battaglia finale della Prova. E poi l’elfo scuro si trasformò in Dalamar che gli scagliava addosso una palla di fuoco, e poi la palla di fuoco si trasformò in una spada con cui un nano privo di barba gli trafiggeva le carni. Le fiamme esplosero tutt’intorno a lui, l’acciaio gli penetrò dentro il corpo, le zanne gli affondarono dentro la pelle. Stava sprofondando... sprofondando nel buio, quando venne all’improvviso inondato da una luce bianca, avvolto da vesti bianche e tenuto stretto a un seno morbido e caldo...

E sorrise, poiché sapeva, dai sussulti del corpo che lo proteggeva e dalle sommesse grida di angoscia, che le armi stavano colpendo lei, e non lui.

Capitolo settimo.

«Lord Gunthar!» esclamò Amothus, Signore di Palanthas, alzandosi in piedi. «Un piacere inaspettato. E anche tu, Tanis Mezzelfo. Suppongo che siate qui entrambi per progettare la celebrazione della Fine dell’Anno. Sono così contento! Potremo, in tal modo, cominciare in anticipo quest’anno. Io, vale a dire il comitato e io, riteniamo...»

«Sciocchezze,» lo interruppe Lord Gunthar con voce squillante, aggirandosi nella sala per le udienze di Amothus e giudicandola con occhio critico, già calcolando, nella sua mente, quello che ci sarebbe voluto per fortificarla, se fosse risultato necessario. «Siamo qui per discutere la difesa della città.»

Lord Amothus guardò il cavaliere, che stava scrutando fuori dalle finestre e borbottava tra sé, sbattendo le palpebre. A un certo punto, Lord Gunthar si voltò e sbottò: «Troppo vetro!». Una dichiarazione che aumentò la confusione di Amothus a un punto tale che riuscì soltanto a balbettare qualche parola di scusa per poi fermarsi, impotente, al centro della sala.

«Ci stanno attaccando?» si azzardò a chiedere, esitante, dopo qualche altro istante di esplorazione da parte di Gunthar.

Lord Gunthar scoccò a Tanis un’occhiata tagliente. Con un sospiro, Tanis ricordò cortesemente a Lord Amothus l’ammonimento dell’elfo scuro, Dalamar... la probabilità che la Signora dei Draghi, Kitiara, progettasse di entrare a Palanthas per aiutare suo fratello Raistlin, Maestro della Torre della Grande Stregoneria, nella sua lotta contro la Regina delle Tenebre.

«Oh, sì!». Il volto di Lord Amothus si schiarì. Agitò una mano delicata, in un gesto deprecatorio, come per cacciare via dei moscerini. «Ma non credo che tu ti debba preoccupare per Palanthas, Lord Gunthar. La Torre del Sommo Chierico...»

«... è presidiata. Raddoppierò le forze che la difendono. È là che verrà sferrato l’attacco principale, naturalmente, non c’è nessun altro modo per accedere a Palanthas salvo per mare, dal nord, e noi dominiamo i mari. Sì, arriverà per via di terra. Però, Amothus, se le cose dovessero andare storte, voglio che Palanthas sia pronta a difendersi. Adesso...»

Essendo balzato in sella al cavallo dell’azione, per così dire, Gunthar si lanciò alla carica.

Scavalcando ogni rimostranza borbottata da Lord Amothus, che forse avrebbe dovuto discuterne con i suoi generali, Gunthar proseguì al galoppo e ben presto lasciò Amothus a soffocare nella polvere, tra la ridistribuzione delle truppe, la requisizione dei rifornimenti, dei depositi segreti di armi, e mille altre cose del genere. Amothus era disorientato. Si sedette, assunse un’espressione di cortese interesse, e subito cominciò a pensare a qualcos’altro. Comunque, erano tutte sciocchezze.

Palanthas non era mai stata toccata da una sola battaglia. Per prima cosa, gli eserciti avrebbero dovuto superare la Torre del Sommo Chierico, e nessuno, neppure i più grandi eserciti dei draghi dell’ultima guerra, c’era riuscito.

Tanis, osservando tutto questo, e sapendo benissimo quello che Amothus stava pensando, dette in un cupo sorriso fra sé e sé, e stava giusto cominciando a pensare a come anche lui avrebbe potuto sfuggire a quell’attacco travolgente quando si udì un sommesso bussare alle grandi porte adorne di sculture. Con l’espressione di qualcuno che sente le trombe della legione inviata in suo soccorso, Amothus balzò in piedi, ma prima che potesse dire una sola parola, le porte si spalancarono ed entrò un anziano servitore.

Charles era stato al servizio della Real Casa di Palanthas per più di mezzo secolo. Non potevano far niente senza di lui, e lui lo sapeva. Sapeva tutto, dall’esatto numero delle bottiglie di vino in cantina a quali elfi dovevano sedersi accanto a quali altri durante la cena, a quando la biancheria era stata arieggiata l’ultima volta. Anche se era sempre dignitoso e rispettoso, c’era un’espressione sulla sua faccia la quale implicava che, quando lui fosse morto, si aspettava che la Real Casa crollasse addosso al suo padrone.

«Mi spiace disturbarla, mio signore...» cominciò Charles.

«Ma niente affatto!» gridò Lord Amothus, irradiando piacere. «Niente affatto. Prego...»

«... ma c’è un messaggio urgente per Tanis Mezzelfo,» terminò Charles, imperturbabile, con soltanto un lieve accenno di rimprovero nei confronti del suo padrone, per averlo interrotto.

«Oh!» Lord Amothus mostrò un’espressione vacua ed estremamente delusa. «Tanis Mezzelfo?»

«Sì, mio signore,» confermò Charles.

«Non per me?» azzardò come ultima risorsa Amothus, vedendo scomparire al di là dell’orizzonte la legione che avrebbe dovuto accorrere a soccorrerlo.

«No, mio signore.»

Amothus sospirò. «Molto bene. Grazie, Charles. Tanis, suppongo che farai meglio a...»

Ma Tanis aveva già attraversato mezza stanza.

«Cos’è? Non da Laurana...»

«Da questa parte, per favore, mio signore,» disse Charles, guidando Tanis fuori dalla porta. Ad un’occhiata di Charles, il mezzelfo si ricordò giusto in tempo di voltarsi e inchinarsi a Lord Amothus e a Gunthar. Il cavaliere sorrise e agitò la mano. Lord Amothus non riuscì ad astenersi dal lanciare a Tanis un’occhiata invidiosa, per ripiombare poi nell’ascolto di una lista di attrezzature indispensabili per l’olio bollente.

Charles, lentamente e con cura, chiuse la porta dietro di sé.

«Cosa c’è?» chiese Tanis, seguendo il servitore lungo il corridoio. «Il messaggero ha detto nient’altro?»

«Sì, mio signore.» Il volto di Charles si ammorbidì in un’espressione di gentile dolore. «Non dovevo rivelarlo, a meno che non fosse assolutamente necessario per liberarti dai tuoi impegni. Il Reverendo Figlio, Elistan, sta morendo. Non ci si aspetta che sopravviva alla notte.»

I preti del Tempio erano tranquilli e sereni alla morente luce del giorno. Il sole stava tramontando, non in un fiammeggiante splendore, ma avvolto in una morbida luminosità perlacea, riempiendo il cielo con un arcobaleno di colori delicati, quasi un’immensa conchiglia capovolta. Tanis, aspettandosi di trovare una folla di gente lì intorno, in attesa di notizie, con chierici vestiti di bianco che correvano avanti e indietro in preda alla confusione, rimase sorpreso nel constatare che tutto era calmo e ordinato. C’era gente che si riposava sul prato, come al solito, chierici vestiti di bianco passeggiavano accanto alle aiuole fiorite, parlando insieme a bassa voce, oppure, se erano soli, parevano immersi in silenziosa meditazione.

Forse il messaggero si sbagliava, o era stato male informato, pensò Tanis. Ma poi, mentre si affrettava ad attraversare quella distesa di vellutata erba verde, passò accanto a una giovane donna chierico che sollevò lo sguardo su di lui, e vide che i suoi occhi erano rossi e gonfi di pianto. Ma nondimeno gli sorrise, asciugando le tracce del suo dolore, mentre proseguiva per la sua strada.

E poi, Tanis ricordò che né Lord Amothus, sovrano di Palanthas, né Lord Gunthar, capo dei Cavalieri, erano stati informati. Il mezzelfo sorrise tristemente, all’improvviso capiva. Elistan moriva com’era vissuto, in tranquilla dignità.

Un giovane accolito incontrò Tanis alla porta del Tempio.

«Entra e sii il benvenuto, Tanis Mezzelfo,» gli disse l’uomo con voce sommessa. «Sei atteso. Vieni da questa parte.»

Le ombre fredde avvilupparono Tanis. All’interno del Tempio i segni del dolore erano evidenti. Un arpista suonava una dolce musica, i chierici si stringevano gli uni agli altri, cercando di consolarsi a vicenda nell’ora della prova. Anche gli occhi di Tanis si riempirono di lacrime.

«Ti siamo grati di essere tornato in tempo,» continuò l’accolito, scortando Tanis ancora più addentro nei recessi di quel Tempio tranquillo. «Temevamo che tu non potessi. Abbiamo dato la notizia dove abbiamo potuto, ma soltanto a coloro sui quali sapevamo di poter contare perché tenessero segreto il nostro grande dolore. È desiderio di Elistan che gli sia concesso di morire nella quiete e nella pace.»

Il mezzelfo annuì brusco, lieto che la sua barba nascondesse le lacrime. Non che ne avesse vergogna. Gli elfi venerano la vita al di sopra di qualunque altra cosa, considerandola il più sacro dei doni degli dei. Gli elfi non nascondono i propri sentimenti come invece fanno gli umani. Ma Tanis temeva che la vista del suo dolore potesse sconvolgere Elistan. Questi sapeva che la consapevolezza della sua morte imminente avrebbe causato un amarissimo dolore a coloro che rimanevano... e sarebbe stato l’unico rincrescimento di quel brav’uomo.

Tanis e la sua guida attraversarono una camera interna in cui si trovavano Garad e altri Reverendi Figli e Figlie, a testa china, rivolgendosi l’un l’altro parole di conforto. Al di là di essi una porta era chiusa. Lo sguardo di tutti era attirato da quella porta, e Tanis non ebbe alcun dubbio su chi si trovasse oltre a essa.

Sollevando lo sguardo nell’udire Tanis che entrava, lo stesso Garad attraversò la stanza per venire ad accogliere il mezzelfo.

«Siamo così contenti che tu sia potuto venire,» lo salutò con cordialità il vecchio elfo. Tanis riconobbe che era di Silvanesti, e doveva essere stato uno dei primi elfi convertiti alla religione che avevano, molto tempo addietro, dimenticato. «Temevamo che non potessi tornare in tempo.»

«Dev’essere stato improvviso,» mormorò Tanis, a disagio nella consapevolezza che la sua spada, che si era dimenticato di togliersi, sferragliava, risuonando aspra e forte in quell’ambiente tranquillo, immerso nel dolore. Vi batté sopra la mano.

«Sì, si è aggravato la notte dopo la tua partenza.» Garad sospirò. «Non so cosa sia stato detto in quella stanza, ma lo sconvolgimento è stato grande. Ha sofferto dolori terribili. Niente di ciò che potevamo fare è stato in grado di aiutarlo. Alla fine, Dalamar, l’apprendista dello Stregone,» Garad non potè fare a meno di corrugare la fronte, «è venuto al Tempio. Ha portato con sé una pozione che, così ha detto, avrebbe alleviato il dolore. Non riesco a immaginare come possa aver saputo ciò che stava accadendo. Strane cose accadono laggiù.» Guardò fuori dalla finestra là dove si ergeva la Torre, un’ombra scura che sfidava la luce sfavillante del sole, negandola.

«L’hai lasciato entrare?» gli chiese Tanis, sorpreso.

«Avrei rifiutato,» disse Garad, cupo, «ma Elistan aveva dato ordine che gli fosse consentito l’accesso. E devo ammettere che la sua pozione ha avuto effetto. Il dolore ha lasciato il nostro Maestro, e gli sarà concesso il diritto di morire in pace.»

«E Dalamar?»

«È dentro. Non si è più mosso né ha parlato da quando è entrato, ma è rimasto seduto, silenzioso, in un angolo. Eppure la sua presenza sembra confortare Elistan, e così gli permettiamo di rimanere.»

Vorrei proprio vedere cosa accadrebbe se tentaste di farlo andar via, pensò Tanis dentro di sé, ma non disse nulla. La porta si aprì. I presenti sollevarono lo sguardo intimoriti, ma era soltanto l’adepto che aveva bussato sommessamente e ora stava conferendo con qualcuno sull’altro lato. Si voltò e fece un gesto a Tanis.

Il mezzelfo entrò nella piccola stanza, ammobiliata con semplicità, così come fecero i chierici con le vesti fruscianti e le pantofole imbottite. Ma la sua spada sferragliò, i suoi stivali sbatacchiarono, e le fibbie della sua armatura di cuoio tintinnarono. Tutto ciò risuonò alle sue orecchie come un esercito di nani. Col volto che gli bruciava, cercò di rimediare al disturbo camminando in punta di piedi. Elistan, girando con fatica la testa sul cuscino, guardò in direzione del mezzelfo, e cominciò a ridere.

«Qualcuno potrebbe pensare che sei venuto qui per derubarmi, amico mio,» osservò Elistan, mentre sollevava una mano scarna e la porgeva a Tanis.

Il mezzelfo cercò di sorridere. Sentì la porta che si chiudeva sommessamente dietro di lui e divenne consapevole di una figura che oscurava un angolo della stanza. Ma ignorò tutto questo.

Inginocchiandosi accanto all’uomo che aveva aiutato a salvare dalle miniere di Pax Tharkas, l’uomo la cui influenza gentile aveva giocato un ruolo così importante nella sua vita e in quella di Laurana, Tanis gli prese la mano e la tenne saldamente.

«Vorrei poter essere in grado di combattere per te contro questo nemico, Elistan,» disse Tanis, fissando la bianca mano rattrappita stretta nella sua, forte e abbronzata.

«Non un nemico, Tanis, non un nemico. Un vecchio amico viene a prendermi.» Elistan ritrasse la mano con delicatezza da quella di Tanis, poi la batté sul braccio del mezzelfo. «No, non capisci. Ma un giorno capirai, te lo prometto. E adesso, non ti ho fatto venire qui per opprimerti con gli addii.

Ho un incarico da darti, amico mio.» Fece un cenno con la mano. Il giovane accolito venne avanti, portando una scatola di legno, e la mise nelle mani di Elistan. Poi si ritirò, fermandosi in silenzio accanto alla porta.

La figura scura nell’angolo non si mosse.

Elistan sollevò il coperchio della scatola ne tolse un frammento di pergamena ripiegato. Presa la mano dì Tanis, mise la pergamena sul palmo, poi chiuse sopra di essa le dita del mezzelfo.

«Dallo a Crysania,» disse con voce sommessa. «Se sopravviverà, sarà lei il prossimo capo della chiesa.» Vedendo l’espressione di dubbio e di disapprovazione sul volto di Tanis, Elistan sorrise.

«Amico mio, hai camminato nel vuoto, nessuno lo sa meglio di me. Ti abbiamo quasi perso, Tanis.

Ma hai sopportato la notte e affrontato la luce del giorno, rafforzato dalla consapevolezza di aver vinto. È questo che spero per Crysania. Lei è forte nella sua fede ma, come tu stesso hai notato, le manca il calore, la compassione, l’umanità. Ha dovuto constatare con i propri occhi ciò che la lezione della caduta del Gran Sacerdote ci ha insegnato. Doveva venire ferita, Tanis, e ferita profondamente, prima di essere in grado di reagire con compassione davanti alle ferite degli altri.

Soprattutto, Tanis, doveva amare.»

Elistan chiuse gli occhi, il volto tirato per la sofferenza, pieno di dolore. «Amico mio, se avessi potuto, avrei fatto una scelta diversa per lei. Ho visto la strada che stava percorrendo. Ma chi può mettere in discussione la via indicata dagli dei? Certamente non io. Anche se,» aprì gli occhi e sollevò lo sguardo su Tanis, e il mezzelfo vide in essi un luccichio di rabbia, «potrei mettermi a discutere un po’ con loro.»

Tanis sentì alle sue spalle il passo felpato dell’assistente. Elistan annuì. «Sì, lo so. Temono che i visitatori mi stanchino. Ed è vero, ma ben presto avrò modo di riposarmi.» Il chierico chiuse gli occhi, sorridendo. «Sì, mi riposerò. Il mio vecchio amico sta per arrivare, per incamminarsi con me, guidando i miei deboli passi.»

Tanis si alzò in piedi e lanciò un’occhiata interrogativa all’adepto, il quale scosse la testa.

«Non sappiamo di chi stia parlando,» mormorò il giovane chierico. «Ha parlato quasi soltanto del suo vecchio amico. Avevamo pensato che, forse, potevi essere tu...»

Ma la voce di Elistan si levò, chiara, dal suo letto. «Addio, Tanis Mezzelfo. Porta il mio amore a Laurana, Garad e gli altri,» indicò con un cenno del capo la porta, «conoscono i miei desideri in questa faccenda della successione. Sanno che l’ho affidata a te. Faranno tutto ciò che potranno per aiutarti. Addio, Tanis. Possa accompagnarti la benedizione di Paladine.»

Tanis non riuscì a dire nulla. Chinandosi, premette la mano del chierico, annuì, lottò per parlare, e alla fine vi rinunciò. Si girò di scatto, passò davanti alla figura scura e silenziosa nell’angolo e lasciò la stanza, lo sguardo accecato dalle lacrime.


Garad lo accompagnò fino all’ingresso del Tempio. «So di che cosa ti ha incaricato Elistan,» disse il chierico. «E, credimi, spero con tutto il mio cuore che i suoi desideri si avverino. Dama Crysania è, a quanto capisco, impegnata in una specie di pellegrinaggio che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso...»

«Sì,» fu tutto ciò che Tanis si fidò di rispondere.

Garad sospirò. «Possa Paladine essere con lei. Noi preghiamo per lei. È una donna forte. La chiesa ha bisogno d’una tale giovinezza e d’una tale forza, se vuole crescere. Se hai bisogno di qualche aiuto, Tanis, ti prego, sappi che puoi contare su di noi.» Il mezzelfo riuscì soltanto a borbottare una risposta. Dopo aver fatto un inchino, Garad si affrettò a tornare indietro per essere al fianco del suo Maestro morente. Tanis si soffermò un attimo accanto alla porta, nello sforzo di recuperare il controllo di sé, prima di uscire fuori. Mentre se ne stava là, ripensando alle parole di Elistan, divenne conscio d’una discussione in corso accanto alla porta del Tempio.

«Mi spiace, signore, ma non posso permetterle di entrare,» stava dicendo con fermezza un giovane accolito.

«Ma ti sto dicendo che sono qui per far visita a Elistan,» replicò una voce querula e bisbetica.

Tanis chiuse gli occhi, appoggiandosi alla parete. Conosceva quella voce. I ricordi lo investirono con un’intensità talmente dolorosa che, per qualche istante, non riuscì né a muoversi né a parlare.

«Forse, se lei mi dicesse il suo nome,» disse l’accolito, pazientemente, «potrei chiedergli...»

«Sono... Il mio nome è...» la voce esitò, alquanto perplessa, poi borbottò: «Ieri lo sapevo...»

Tanis udì il rumore d’un bastone di legno picchiato con viva irritazione sui gradini del Tempio. La voce si levò stridula: «Sono una persona molto importante, giovanotto. E non sono abituato a venire trattato con una simile impertinenza. Adesso togliti di torno prima di costringermi a far qualcosa che mi spiacerà. Voglio dire, che spiacerà a te.»

«Mi spiace terribilmente, signore,» ripetè l’accolito, era ovvio che la sua pazienza si stava assottigliando, «ma senza un nome non posso permettere...»

Si udì il rumore d’una breve zuffa, poi silenzio. Poi Tanis udì un suono davvero sinistro: quello di pagine che venivano sfogliate. Sorridendo in mezzo alle proprie lacrime, il mezzelfo raggiunse la porta. Guardò fuori e vide un vecchio stregone in piedi sugli scalini del Tempio. Abbigliato con vesti color topo, lo sformato cappello da stregone che pareva pronto a cadergli dalla testa alla minima occasione, l’antico stregone era uno spettacolo assolutamente disdicevole. Aveva appoggiato il bastone di legno che aveva con sé contro il muro del Tempio e adesso, ignorando l’accolito imporporato per l’indignazione, stava scorrendo le pagine del suo libro d’incantesimi, borbottando «Palla di fuoco... Palla di fuoco. Com’è che funziona quel dannato incantesimo?...»

Gentilmente, Tanis appoggiò la mano sulla spalla dell’adepto. «È davvero una persona importante,» gli disse il mezzelfo con voce sommessa. «Puoi lasciarlo entrare. Me ne assumo in pieno la responsabilità.»

«Sul serio?» l’accolito pareva dubbioso.

Al suono della voce di Tanis, lo stregone sollevò la testa e si guardò intorno. «Eh? Una persona importante? Dov’è?». Vedendo Tanis, sussultò. «Oh, là! Come sta, signore?». Fece per tendere la mano, s’impigliò nelle vesti e lasciò cadere il libro degli incantesimi ai propri piedi. Chinandosi per raccoglierlo, fece cadere il bastone, facendolo ruzzolare giù per i gradini, sbatacchiando. Nella confusione il cappello gli cadde dalla testa. Ci vollero Tanis e l’accolito insieme per rimettere in piedi il vecchio.

«Accipicchia, il mio piede! Accidenti a lui! Ho perso l’equilibrio. Stupido bastone! Dov’è il mio cappello?»

Alla fine, comunque, si ritrovò più o meno intatto. Ricacciando il libro degli incantesimi in una borsa, si piantò saldamente in testa il cappello. (Dopo aver tentato, sulle prime, di fare queste cose in ordine inverso). Sfortunatamente il cappello gli scivolò subito giù, coprendogli gli occhi.

«Accecato dagli dei!» dichiarò in tono reverenziale il vecchio stregone, annaspando intorno con le mani.

A questo inconveniente fu ben presto posto rimedio. Il giovane accolito, lanciando un’occhiata ancora più dubbiosa a Tanis, sospinse con delicatezza il cappello verso la nuca coperta dai bianchi capelli. Fissando incollerito e irritato l’accolito, il vecchio stregone si rivolse a Tanis. «Una persona importante? Sì, tu lo sei... credo. Ci siamo già incontrati prima d’oggi?»

«Invero, sì,» rispose Tanis. «Ma sei tu la persona importante alla quale mi riferivo, Fizban.»

«Davvero?» Per un attimo il vecchio stregone parve sbalordito. Poi, sbuffando, fissò di nuovo il giovane chierico con espressione incollerita. «Be’, certo. Te l’avevo detto! Fatti da parte, fatti da parte,» ordinò in tono irritato all’adepto.

Mentre varcava la porta del Tempio, il vecchio si voltò per guardare Tanis da sotto la falda del suo tartassato cappello. Fermandosi un attimo, appoggiò la mano sul braccio del mezzelfo.

L’espressione stordita lasciò la faccia del vecchio stregone. Fissò intensamente Tanis.

«Non ti sei mai trovato ad affrontare un’ora più cupa, mezzelfo,» disse il vecchio stregone con voce grave. «C’è speranza, ma l’amore deve trionfare.»

Detto questo, si allontanò trotterellando e, quasi subito, finì dentro uno sgabuzzino. Due chierici vennero prontamente in suo soccorso, e lo scortarono lungo il corridoio.

«Ma chi è?» domandò a Tanis il giovane accolito, seguendo con sguardo perplesso il vecchio stregone.

«È un amico di Elistan,» mormorò Tanis. «Sì, un vecchissimo amico.»

Mentre lasciava il Tempio, Tanis fece in tempo a udire una voce che esclamava: «Il mio cappello!».

Capitolo ottavo.

«Crysania...»

Non vi fu nessuna risposta, solo un gemito sommesso.

«Sst, va tutto bene. Sei rimasta ferita, ma il nemico se n’è andato. Bevi questo, allevierà il dolore.»

Prese alcune erbe da una borsa, Raistlin le mescolò in un boccale d’acqua fumante e, sollevando Crysania dal letto di foglie intrise di sangue sul quale giaceva, le avvicinò il boccale alle labbra.

Mentre beveva, il volto di Crysania si distese, e i suoi occhi si aprirono.

«Sì,» mormorò infine la donna, appoggiandosi a lui. «Va molto meglio.»

«Adesso,» proseguì Raistlin con voce carezzevole, «devi pregare Paladine perché ti guarisca, Reverenda Figlia. Dobbiamo proseguire.»

«Non... non so, Raistlin. Sono così debole e Paladine sembra così lontano!»

«Pregare Paladine?» risuonò all’improvviso una voce severa. «Veste Nera blasfema, taci!»

Inarcando infastidito le sopracciglia, Raistlin sollevò lo sguardo. E sgranò gli occhi. «Sturm!» boccheggiò.

Ma il giovane cavaliere non lo sentì. Stava fissando Crysania, sgomento: le ferite sul suo corpo che si stavano chiudendo, anche se non si rimarginavano del tutto. «Streghe!» gridò il cavaliere, sfoderando la spada. «Streghe!»

«Streghe!» Crysania sollevò la testa. «No, Signor Cavaliere. Non siamo streghe. Io sono un chierico... un chierico di Paladine! Guarda il medaglione che porto!»

«Tu menti!» replicò Sturm con ferocia. «Non ci sono chierici! Sono scomparsi nel Cataclisma. E, se anche ce ne fossero, cosa faresti mai, tu, in compagnia di questa tenebrosa creatura del male?»

«Sturm! Sono io, Raistlin!». L’arcimago si alzò in piedi. «Guardami, non mi riconosci?»

Il giovane cavaliere rivolse la propria spada contro il mago, appoggiando la punta contro la gola di Raistlin. «Non so con quale stregoneria tu abbia evocato il mio nome, Veste Nera, ma, pronuncialo ancora una volta e andrà male per te. A Solace le streghe si uccidono all’istante.»

«Poiché sei un cavaliere santo e virtuoso, legato a un voto di cavalleria e obbedienza, invoco da te giustizia,» disse Crysania, alzandosi lentamente in piedi con l’aiuto di Raistlin.

Il volto severo del giovane si spianò. Fece un inchino e rinfoderò la spada, ma non senza aver lanciato a Raistlin un’occhiata in tralice. «Tu dici il vero, signora. Sono legato da questi voti e ti accorderò giustizia.»

Proprio mentre stava parlando, il letto di foglie divenne un pavimento di legno; gli alberi, panche; il cielo sovrastante, un soffitto; la strada, una corsia fra le panche. Raistlin, momentaneamente stordito da quell’improvviso cambiamento, vide che si trovavano in una Sala del Giudizio. Con il braccio ancora intorno alla vita di Crysania, l’aiutò a a sedersi a un piccolo tavolo che si trovava al centro della stanza. Davanti a loro si ergeva un podio. Lanciando un’occhiata alle proprie spalle, Raistlin vide che la Sala era gremita di gente, tutti che guardavano con interesse e piacere.

Li fissò. Lui conosceva quella gente! C’era Otik, il proprietario della Locanda dell’Ultima Casa intento a mangiare un piatto di patate speziate. C’era Tika, con i riccioli rossi che sobbalzavano intorno alla sua testa mentre indicava Crysania dicendo qualcosa e ridendo. E Kitiara! Appoggiata oziosamente allo stipite della porta, circondata da giovani ammiratori, con la mano sull’elsa della spada, guardò in direzione di Raistlin e gli strizzò l’occhio.

Raistlin si guardò intorno, febbricitante. Suo padre, un povero intagliatore di legno, sedeva in un angolo, le spalle curve, con quell’eterna espressione di perpetua ansia e preoccupazione. Laurana sedeva in disparte, la sua fresca bellezza elfica risplendeva come una vivida stella in una notte buia.

Accanto a lui, Crysania gridò. «Elistan!». Si alzò in piedi e tese la mano, ma il chierico si limitò a fissarla con uno sguardo triste e severo, e scosse la testa.

«Levatevi in piedi e rendete gli onori!» risuonò una voce.

Con un diffuso trepestio e uno strisciare di panche, tutti i presenti nella Sala del Giudizio si alzarono in piedi. Un rispettoso silenzio scese sulla folla quando il giudice entrò. Avvolto nelle vesti grigie di Gilean, il Dio della Neutralità, il giudice prese il suo posto dietro il podio e si girò verso gli accusati.

«Tanis!» gridò Raistlin, facendo un passo avanti.

Ma il mezzelfo barbuto si limitò a corrugare la fronte per quel comportamento sconveniente, mentre un vecchio nano brontolone, un balivo, si avvicinò con passo pesante e urtò Raistlin al fianco con il manico della sua ascia da battaglia. «Siediti, strega, e non dir nulla, a meno che non ti sia stata rivolta la parola.»

«Flint!» Raistlin afferrò il nano per il braccio. «Non mi riconosci?»

«E non toccare il balivo!» ruggì Flint incollerito, scostando il braccio con uno scatto. «Umpf,» brontolò mentre tornava indietro per riprendere il proprio posto accanto al giudice. «Nessun rispetto per la mia età e la mia carica. Pensi forse che io sia un sacco di farina che può essere maneggiato da tutti...»

«Basta così, Flint,» disse Tanis fissando severamente Raistlin e Crysania. «Ora, chi presenta le accuse contro questi due?»

Raistlin cominciò ad alzarsi per rispondere, ma venne interrotto.

«Io! Qui, Tanis... uh, Vostro Onore! Io, sono qui! Aspetta. Pare... pare che mi sia incastrato...»

Le risate riempirono la Sala del Giudizio, la folla si voltò e fissò il kender, stracarico di libri, che lottava per varcare la soglia. Sogghignando, Kitiara lo afferrò per il ciuffo e lo fece passare, con uno strattone, al di qua della porta, scaraventandolo sul pavimento senza tante cerimonie. I libri finirono sparpagliati dappertutto, e la folla scoppiò in un’altra risata fragorosa. Per nulla turbato, il kender si tirò su, si spolverò e, inciampando sui libri, riuscì finalmente ad arrivare in prima fila.

«Sono Tasslehoff Burrfoot,» dichiarò il kender, porgendo la piccola mano a Raistlin per farsela stringere. L’arcimago fissò Tas sbalordito e non si mosse. Con una scrollata di spalle Tas guardò la propria mano, sospirò e poi, voltatosi, fissò il giudice. «Ciao, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot...»

«Siediti!» ruggì il nano. «Non si stringe la mano al giudice, pomolo di porta che non sei altro!».

«Be’,» replicò Tas, indignato, «credo che se lo volessi potrei. Dopotutto sto soltanto cercando di comportarmi con un po’ di cortesia, una parola che voi nani non conoscete per niente. Io...»

«Siediti e chiudi il becco!» urlò il nano, picchiando l’estremità del manico dell’ascia sul pavimento.

Col ciuffo dei capelli che gli rimbalzava sulla spalla, il kender si girò per andarsi a sedere accanto a Raistlin. Ma prima di sedersi si rivolse al pubblico e mimò così bene l’espressione arcigna del nano che la folla urlò di gioia, facendo infuriare il nano più che mai. Ma questa volta il giudice intervenne.

«Silenzio!» gridò Tanis con voce severa. E la folla si azzittì.

Tas si lasciò infine cadere sulla panca accanto a Raistlin. Sentendosi sfiorare da un leggero tocco, il mago abbassò lo sguardo inferocito sul kender e tese la mano.

«Restituiscimela!» gli intimò.

«Restituire cosa? Oh, questa? È tua? Devi averla lasciata cadere,» disse Tas con aria innocente, porgendo una delle borse di Raistlin che conteneva ingredienti per gli incantesimi. «L’ho trovata sul pavimento...»

Strappandola al kender, Raistlin tornò ad agganciarla alla corda che portava intorno alla vita.

«Avresti potuto almeno dire grazie,» osservò Tas con un sussurro stridulo, poi si calmò quando colse l’occhiata severa del giudice.

«Quali sono le accuse contro questi due?» chiese Tanis.

Sturm Brightblade venne avanti. Vi furono qua e là degli applausi. A quanto pareva il giovane cavaliere, con i suoi alti concetti di onore e il suo volto malinconico, godeva di molte simpatie.

«Ho trovato questi due nella desolazione, Vostro Onore. E l’uomo dalle Vesti Nere ha pronunciato il nome di Paladine,» un borbottio rabbioso si levò dalla folla, «e, proprio mentre guardavo, ha preparato un immondo intruglio e l’ha dato da bere alla donna. Lei era gravemente ferita, quando li ho visti la prima volta. Il sangue copriva le sue vesti, e il suo volto era bruciato e coperto di cicatrici, come se fosse stata in mezzo alle fiamme. Ma quando ha bevuto l’intruglio di quello stregone, subito è guarita!»

«No!» gridò Crysania, alzandosi in piedi e barcollando. «È sbagliato. I a pozione che Raistlin mi ha dato è servita soltanto ad alleviare il dolori, Sono state le mie preghiere a guarirmi! Sono un chierico di Paladine...»

«Voglia perdonarci, Vostro Onore,» urlò il kender, balzando in piedi, «la mia cliente non intendeva dire che è un chierico di Paladine. Stava irritando una pantomima, ecco quello che voleva dire. Sì, ecco.» Tas ridacchiò. «Voleva soltanto divertirsi un po’ per alleggerire il viaggio. È un gioco che fanno in continuazione. Ah, ahh.» Rivolgendosi a Crysania, il kender corrugò la fronte e le disse, con un sussurro che fu udibile a tutti, nella stanza: «Cosa stai facendo? Come posso toglierti dai guai, se te ne vai in giro a dire verità del genere? Semplicemente, non sono disposto a tollerare una cosa simile!»

«Silenzio!» ruggì il nano.

Il kender si girò di scatto. «E comincio anche a stufarmi un po’ di te, Flint!» urlò. «Piantala di picchiare quell’ascia sul pavimento, altrimenti te l’annoderò al collo.»

La sala esplose in una risata generale. Perfino il giudice sogghignò.

Crysania ricadde al fianco di Raistlin, il volto mortalmente pallido. «Cos’è questa presa in giro?» mormorò intimorita.

«Non lo so, ma vi metterò fine.» Raistlin si alzò in piedi.

«Fate tutti silenzio.» La sua voce flautata, poco più di un sussurro, fece calare un improvviso silenzio nella sala. «Questa signora è un sacro chierico di Paladine! Io sono uno stregone dalle Vesti Nere, abilitato alle arti della magia...»

«Oh, fai qualcosa di magico!» gridò il kender, balzando di nuovo in piedi. «Spediscimi dentro uno stagno delle anatre...»

«Siediti!» urlò il nano.

«Sì, facci vedere un po’ di magia, stregone,» gridò Tanis, in mezzo all’ilarità dei presenti in sala.

Tutti si azzittirono, e poi la folla cominciò a borbottare. «Sì, stregone, facci vedere un po’ di magia.

Fai qualche magia, stregone!». La voce di Kitiara risuonò sopra quella di tutti gli altri, forte e possente. «Esegui qualche magia, relitto fragile e malato che non sei altro, se ci riesci!»

La lingua di Raistlin rimase appiccicata al palato. Crysania lo stava fissando. C’erano speranza e terrore nel suo sguardo. Le sue mani tremarono. Raistlin prese il Bastone di Magius che era appoggiato al suo fianco, ma ricordando ciò che gli aveva fatto non osò servirsene.

Levandosi in piedi in tutta la sua altezza, lanciò un’occhiata sprezzante alla gente intorno a lui. «Ah, non ho bisogno di dimostrare me stesso a gente come voi...»

«Credo che sarebbe davvero una buona idea,» borbottò Tas, tirando Raistlin per la veste.

«Vedete!» urlò Sturm. «La strega non può farlo! Esigo il giudizio!»

«Giudizio! Giudizio!» intonò la folla. «Bruciate le streghe! Bruciate i loro corpi! Salvate le loro anime!»

«Bene, stregone?» chiese Tanis, severamente. «Puoi dimostrare che sei quello che sostieni di essere?»

Le parole degli incantesimi gli sfuggivano. Le mani di Crysania lo strinsero. Il rumore lo assordava.

Non riusciva a pensare! Avrebbe voluto esser solo, lontano da quelle bocche che ridevano e da quegli occhi imploranti e pieni di terrore. «Io...» esitò, e chinò la testa.

«Bruciateli!»

Mani brutali afferrarono Raistlin. La Sala scomparve davanti ai suoi occhi. Lottò, ma fu inutile.

L’uomo che lo stringeva era grosso e forte, con un volto che un tempo avrebbe potuto essere gioviale ma adesso era serio e assorto.

«Caramon! Fratello!» gridò Raistlin, contorcendosi nella stretta dell’omone, per guardare in faccia il suo gemello.

Ma Caramon lo ignorò. Serrando Raistlin con mano ferma, l’omone trascinò il fragile mago su per una collina. Raistlin si guardò intorno. Davanti a lui, in cima alla collina, vide due alti pali di legno che erano stati conficcati nel terreno. Intorno alla base di ogni palo, gli abitanti della città: i suoi amici, i suoi vicini. Tutti stavano ammucchiando gioiosamente bracciate di legna secca.

«Dov’è Crysania?» chiese a suo fratello, sperando che fosse fuggita, e adesso potesse tornare ad aiutarlo. Poi Raistlin intravide delle vesti bianche. Elistan la stava legando a uno dei pali. Crysania lottava cercando di sfuggire alla sua stretta, ma era indebolita a causa delle sue sofferenze. Alla fine si arrese. Piangendo per la paura e la disperazione, si accasciò contro il palo mentre le mani le venivano legate ad esso, e anche i piedi, con robusti nodi.

Mentre piangeva, i capelli scuri le ricaddero sulla pelle liscia delle spalle nude. Le sue ferite si erano riaperte, il sangue le macchiò di rosso le vesti. A Raistlin parve di sentirle invocare il nome di Paladine, ma se anche l’aveva fatto, le parole si persero nell’ululato della folla. La sua fede si stava indebolendo proprio come si era indebolita lei stessa.

Tanis venne avanti stringendo in pugno una torcia fiammeggiante. Si girò per fissare Raistlin.

«Sii testimone del suo destino e vedi il tuo, strega!» gridò il mezzelfo.

«No!» Raistlin lottò, ma Caramon lo tenne stretto.

Tanis si chinò e conficcò la torcia fiammeggiante in mezzo alla legna secca intrisa d’olio. Le fiamme avvamparono. Il fuoco si propagò rapidamente, avvolgendo ben presto le bianche vesti di Crysania. Raistlin sentì il suo grido angosciato sopra il ruggito della fiamma. Crysania riuscì a sollevare la testa nel tentativo di rivolgere un ultimo sguardo a Raistlin. Vedendo il dolore e il terrore negli occhi di lei, vedendo anche, allo stesso tempo, l’amore per lui, il cuore di Raistlin arse di un fuoco più incandescente di quello che qualsiasi altro uomo poteva creare.

«Vogliono magia! Darò loro magia!» e, prima ancora di pensare, spinse via lo sbalordito Caramon e, liberandosi, sollevò le braccia al cielo.

E in quel momento le parole della magia entrarono nella sua anima, per non lasciarla mai più.

I lampi scaturirono dalle punte delle sue dita, colpendo le nubi nel cielo tinto di rosso. Le nubi risposero con altri lampi, che saettarono giù, colpendo il terreno davanti ai piedi del mago.

Furente, Raistlin si girò verso la folla, ma la gente era svanita, scomparsa, come se non fosse mai esistita.

«Ah, mia Regina!» la risata gorgogliò dalle sue labbra. La gioia gli guizzò attraverso l’anima mentre l’estasi della sua magia gli ardeva nel sangue. E, alla fine, comprese. Percepì la sua grande follia e vide la sua grande speranza.

Era stato ingannato... da se stesso! Tas gli aveva offerto l’indizio a Zhaman, ma lui non si era preoccupato di rifletterci. Ho pensato a qualcosa nella mia mente, aveva detto il kender, ed era là!

Quando volevo andare da qualche parte, non dovevo fare altro che pensarci, e veniva da me, o ci andavo io, non ne sono sicuro. Era tutte le città nelle quali ero stato, eppure nessuna di esse. Così gli aveva detto il kender.

Raistlin si rese conto di avere supposto che l’Abisso fosse un riflesso del mondo... E così, ho viaggiato attraverso di esso. Ma non lo è. Non è altro che il riflesso della mia mente! Non ho fatto altro che viaggiare attraverso la mia stessa mente!

La Regina è a Godshome perché è là che percepisco la sua presenza. E Godshome può essere lontanissima oppure vicina a seconda di quello che sceglierò io! La mia magia non ha funzionato perché ne ho dubitato, non perché lei abbia impedito che funzionasse. C’è mancato poco che sconfiggessi me stesso! Ah, ma adesso lo so, mia Regina! Adesso lo so... e adesso posso trionfare!

Poiché Godshome è soltanto a un passo di distanza e ci vuole soltanto un altro passo per arrivare al Portale...

«Raistlin!»

La voce era bassa, angosciata, stanca, spenta. Raistlin girò la testa. La folla era scomparsa perché non era mai esistita. Era stata una sua creazione. Il villaggio, il paese, il continente, tutto ciò che aveva immaginato era scomparso. Si trovava su un niente piatto e ondulato. Era impossibile distinguere fra il cielo e la terra. Entrambi avevano la stessa arcana, ardente colorazione rosa. La tenue linea dell’orizzonte era come un taglio d’un coltello attraverso il tutto.

Ma un oggetto non era scomparso: il palo di legno. Circondato da legna carbonizzata, si ergeva stagliandosi contro il cielo rosato, sporgendo dal nulla sottostante. Un tempo, quella figura poteva aver indossato vesti bianche, ma adesso erano annerite dal fuoco. La puzza della carne bruciata era intensa.

Raistlin si fece più vicino. Inginocchiandosi sulle ceneri ancora calde, guardò la figura.

«Crysania,» mormorò.

«Raistlin?». Il suo volto era orribilmente bruciato, gli occhi ciechi fissavano il vuoto intorno a lei; tese una mano che era poco più di un artiglio annerito. «Raistlin?» gemette, in preda all’agonia.

La mano di Raistlin si chiuse sulla sua. «Non riesco a vedere,» si lamentò Crysania. «E tutto buio!

Sei tu?»

«Sì,» disse lui.

«Raistlin, ho fallito...»

«No, Crysania, non è vero,» disse lui con voce calma e gelida. «Io sono illeso. Adesso la mia magia è forte, più forte di quanto lo sia mai stata prima, in tutti i tempi in cui sono vissuto. Adesso andrò avanti e sconfiggerò la Regina delle Tenebre.»

Le labbra screpolate e coperte di vesciche si dischiusero in un sorriso. La mano racchiusa in quella di Raistlin si strinse debolmente. «Allora le mie preghiere sono state esaudite.» Soffocò, uno spasimo di dolore contorse il suo corpo. Quando riuscì a respirare di nuovo, bisbigliò qualcosa.

Raistlin si chinò su di lei per udire meglio. «Sto morendo, Raistlin. Sono indebolita al di là di ogni sopportazione. Presto Paladine mi prenderà con sé. Rimani con me, Raistlin. Rimani con me mentre muoio...»

Raistlin abbassò lo sguardo sui resti della sventurata donna davanti a lui. Mentre le reggeva la mano, ebbe all’improvviso una visione di lei, come l’aveva vista nella foresta vicino a Caergoth l’unica volta che era stato vicino a perdere il controllo e a farla sua: la pelle bianca, i serici capelli, gli occhi luccicanti. Ricordò l’amore in quegli occhi, ricordò di averla tenuta stretta fra le sue braccia, ricordò di aver baciato la sua pelle liscia...

Raistlin bruciò ad uno ad uno quei ricordi che si trovavano nella sua mente, incendiandoli con la sua magia, osservandoli mentre si trasformavano in cenere per essere poi soffiati via in forma di fumo.

Allungando l’altra mano, si liberò dalla sua stretta insistente.

«Raistlin!» gridò lei, stringendo l’aria vuota intorno a sé con la mano mutilata, in preda al terrore.

«Hai assolto il mio scopo, Reverenda Figlia,» disse Raistlin, la sua voce liscia e fredda come la lama d’argento del pugnale che portava alla cintura. «Il tempo stringe. Già adesso si stanno avvicinando al Portale di Palanthas quelli che cercheranno di fermarmi. Devo sfidare la Regina, combattere la mia ultima battaglia con i suoi famigli. Poi, una volta che avrò vinto, dovrò tornare al Portale e varcarlo prima che qualcuno abbia la possibilità di fermarmi.»

«Raistlin, non lasciarmi! Per favore, non lasciarmi sola nel buio!»

Appoggiandosi al Bastone di Magius, che adesso irradiava una intensa luminosità, Raistlin si alzò in piedi. «Addio, Reverenda Figlia,» disse con voce sommessa e sibilante. «Non ho più bisogno di te.»

Crysania sentì il fruscio delle sue vesti nere mentre si allontanava. Sentì i leggeri, sordi tonfi del Bastone di Magius. In mezzo all’odore acre e soffocante del fumo, colse un tenuissimo profumo di petali di rosa...

E poi, vi fu soltanto il silenzio. Crysania seppe che Raistlin se n’era andato.

Lei adesso era sola, la vita le si spegneva a poco a poco nelle vene, man mano che le illusioni si spegnevano lentamente nella sua mente.

«La prossima volta che vedrai, Crysania, sarà quando verrai accecata dalla tenebra... la tenebra interminabile.»

Così aveva parlato Larallon, il chierico elfo, alla caduta di Istar. Crysania avrebbe gridato, ma il fuoco aveva bruciato via le lacrime e la loro fonte.

«Adesso vedo,» lei bisbigliò nella tenebra. «Vedo con tanta chiarezza! Mi sono autoingannata! Non sono mai stata nulla per lui, nulla, se non una pedina da muovere sulla scacchiera del suo grande gioco, a seconda di come lui sceglieva di fare. E proprio mentre lui mi usava, io usavo lui!»

Gemette. «L’ho usato per promuovere il mio orgoglio, la mia ambizione! La mia oscurità non è servita ad altro che a rendere ancora più profonda la sua! E perduto, ed io l’ho condotto alla sua caduta. Poiché, se dovesse sconfiggere la Regina delle Tenebre, sarà soltanto per prendere il suo posto!»

Fissando sopra di sé il cielo che non poteva vedere, Crysania urlò la sua angoscia. «Io ho fatto questo, Paladine! Ho causato questo male a me stessa, al mondo! Ma, oh, mio dio, quale male ancora più grande ho causato a lui!»

Giacendo là, nell’eterna oscurità, Crysania pianse nel cuore le lacrime che i suoi occhi non potevano piangere. «Ti amo, Raistlin,» mormorò. «Non sono mai riuscita a dirtelo, non ho mai potuto ammetterlo a me stessa.» Buttò indietro la testa, afferrata da un dolore che la bruciava più profondamente delle fiamme. «Cosa avrebbe potuto cambiare se l’avessi fatto?»

Il dolore si attenuò. Ebbe la sensazione di scivolare via, di perdere il controllo della propria consapevolezza.

«Bene,» pensò, stancamente, «sto morendo. Allora lascia che la morte venga in fretta e ponga fine al mio amaro tormento.»

Esalò un sospiro. «Paladine, perdonami,» mormorò.

Un altro respiro. «Raistlin...»

Un altro respiro, ancora più debole, «... perdonami...»

Il canto di Crysania

Capitolo nono.

L’acqua dalla polvere e la polvere che sorge dall’acqua, continenti che si formano, astratti come il colore e la luce all’occhio che svanisce, al tocco della figlia di Paladine che sa con un tocco che la veste è bianca, da quell’acqua un paese sorge, impossibile quando per la prima volta viene immaginato in preghiera, e il sole e i mari e le stelle invisibili come in un codice d’aria.

La polvere dall’acqua, e l’acqua che sorge dalla polvere, e la veste che contiene tutti i colori assunti nel bianco, nella memoria, nei paesi assunti nella fiducia di un ritorno del colore e della luce, fuori da quella polvere sorge una fontana di lacrime per nutrire il lavoro delle nostre mani nell’avvicinarsi perenne di brama e di anni, nelle terre dovute e immanenti.

Tanis si trovava fuori dal Tempio, e pensava alle parole del vecchio stregone. Poi sbuffò. L’amore deve trionfare!

Asciugandosi le lacrime, Tanis scosse la testa con amarezza. Questa volta la magia di Fizban non avrebbe funzionato. L’amore non recitava neppure una piccola parte in quel gioco. Già molto tempo addietro, Raistlin aveva usato e distorto l’amore del suo gemello per i propri scopi, riducendo alla fine Caramon a una massa di lardo fradicia di spirito dei nani. Il marmo aveva più capacità di amare di quante ne avesse la fanciulla di marmo, Crysania. E in quanto a Kitiara... Aveva mai amato?

Tanis inarcò le sopracciglia. Non aveva avuto intenzione di pensare a lei, non un’altra volta. Ma il tentativo di ricacciare i ricordi di lei nel ripostiglio tenebroso della sua anima servì soltanto a dare l’impressione che la luce risplendesse su di essi ancora più intensa. Si sorprese a ritornare con la memoria all’epoca in cui si erano incontrati per la prima volta nella desolazione vicino a Solace.

Nello scoprire una giovane donna che lottava per la propria vita contro dei goblin, Tanis si era precipitato in suo soccorso per ritrovarsi poi con la stessa donna che gli si rivoltava contro, accusandolo di averle guastato il divertimento!

Tanis era rimasto affascinato. Fino a quel momento aveva dedicato il suo unico interesse amoroso alla delicata fanciulla elfa, Laurana. Ma quello era stato un idillio infantile. Lui e Laurana erano cresciuti insieme. Il padre di lei aveva accolto il mezzelfo bastardo per spirito di carità quando sua madre era morta di parto. In effetti, era stato in parte a causa dell’infatuazione fanciullesca di Laurana per Tanis (un amore che suo padre non avrebbe mai approvato) che il mezzelfo aveva lasciato la sua patria elfica viaggiando per il mondo insieme al vecchio Flint, il fabbro dei nani.

Certamente Tanis non aveva mai incontrato una donna come Kitiara: ardita, coraggiosa, adorabile, sensuale. Sin dal loro primo incontro non aveva affatto tenuto segreto il fatto che trovava attraente il mezzelfo. Una giocosa battaglia fra loro era terminata in una notte di passione fra le coperte di pelliccia di Kitiara. Dopo, i due erano stati spesso insieme, viaggiando per proprio conto o in compagnia dei loro amici, Sturm Brightblade, e i fratellastri di Kitiara, Caramon, e il suo fratello gemello, Raistlin.

Sentendosi sospirare, Tanis scosse la testa con rabbia. No! Riafferrò i pensieri e li scagliò nella tenebra, sbarrando la porta. Kitiara non l’aveva mai amato. Si era divertita con lui, nient’altro. Lui l’aveva intrattenuta. Quando le si era presentata la possibilità di ottenere ciò che veramente voleva, il potere, lo aveva lasciato senza pensarci due volte. Ma proprio mentre girava la chiave della serratura della sua anima, Tanis sentì, ancora una volta, la voce di Kitiara. Aveva udito le parole che lei aveva detto la notte della caduta della Regina delle Tenebre, la notte in cui Kitiara aveva aiutato lui e Laurana a fuggire.

«Addio, Mezzelfo. Ricordati, faccio questo per amor tuo!»

Una figura scura, simile all’incarnazione della propria ombra, comparve accanto a Tanis. Il mezzelfo trasalì, colto dall’improvvisa, irragionevole paura di aver forse evocato un’immagine dal proprio subconscio. Ma la figura pronunciò una parola di saluto, e Tanis si rese conto che era in carne e ossa. Emise un sospiro di sollievo, poi sperò che l’altro non notasse quant’erano stati astratti i suoi pensieri. Schiarendosi burberamente la gola, il mezzelfo lanciò un’occhiata al mago dalle Vesti Nere.

«Elistan è...»

«Morto?» disse Dalamar, freddamente. «No, non ancora. Ma ho sentito l’avvicinarsi di qualcuno la cui presenza avrei trovato molto spiacevole, e così, vedendo che i miei servigi non erano più necessari, me ne sono andato.»

Fermandosi sul prato, Tanis si voltò verso l’elfo scuro. Dalamar non si era calato il cappuccio sulla testa, e i suoi lineamenti erano chiaramente visibili alla pacifica luce del sole. «Perché l’hai fatto?» volle sapere Tanis.

Anche l’elfo scuro smise di camminare e fissò Tanis con un lieve sorriso.

«Fatto cosa?»

«Sei venuto qui da Elistan, ad alleviare il suo dolore.» Tanis agitò una mano. «Da quello che avevo visto la volta scorsa, mettere piede su questo terreno ti fa soffrire i tormenti dei dannati.» Il suo volto s’incupì. «Non posso credere che un allievo di Raistlin possa preoccuparsi tanto per qualcuno!»

«No,» rispose Dalamar con voce calma, «personalmente all’allievo di Raistlin non importa un dannato pezzo di ferro arrugginito di quello che può succedere al chierico. Ma l’allievo di Raistlin è una persona d’onore. Gli è stato insegnato a pagare i suoi debiti, gli è stato insegnato a non dovere niente a nessuno. Questo concorda con quanto sai del mio Shalafi!»

«Sì,» ammise Tanis con rincrescimento, «ma...»

«Stavo ripagando un debito, null’altro,» disse Dalamar. Mentre riprendeva a camminare attraverso il prato, Tanis colse un’espressione di sofferenza sul suo volto. Era ovvio che l’elfo scuro voleva lasciare quel luogo quanto prima possibile. Tanis aveva qualche difficoltà a tenere il passo con lui.

«Vedi,» continuò Dalamar, «Elistan è venuto una volta nella Torre della Grande Stregoneria per aiutare il mio Shalafi.»

«Raistlin?» si fermò di nuovo, stupito. Ma Dalamar non si fermò, e Tanis fu costretto a corrergli dietro.

«Sì,» stava dicendo l’elfo scuro, come se gl’importasse poco che Tanis lo sentisse oppure no,

«nessuno lo sa, neppure Raistlin. Una volta, all’incirca un anno fa, lo Shalafi si ammalò in forma gravissima. Io ero solo, spaventato. Non so niente delle malattie. Disperato, mandai a chiamare Elistan. Lui venne.»

«Gua... guarì Raistlin?» chiese Tanis, con sgomento.

«No.» Dalamar scosse la testa, i lunghi capelli neri gli ricaddero sulle spalle. «La malattia di Raistlin è al di là delle arti guaritrici, un sacrificio fatto per la sua magia. Ma Elistan riuscì ad alleviare le sofferenze dello Shalafi e a permettergli di riposare. E così, non ho fatto altro che ripagare il mio debito.»

«Ti... ti importa di Raistlin fino a questo punto?» domandò Tanis con esitazione.

«Cosa sono questi discorsi, Mezzelfo?» sbottò Dalamar, impaziente. Erano vicini ai confini del prato. Le ombre della sera si stendevano su di esso come dita tranquillizzanti che si stessero delicatamente allungando per chiudere gli occhi dei più stanchi. «Come Raistlin, m’importa una cosa soltanto, e questa è l’arte e il potere che offre. Per questo ho rinunciato al mio popolo, alla mia patria, al mio retaggio. Per questo sono entrato nelle tenebre. Raistlin è lo Shalafi, il mio insegnante, il mio Maestro. È abile nell’Arte, uno dei più abili che siano mai vissuti. Quando mi sono offerto volontario al Conclave per spiarlo, sapevo benissimo che avrei potuto sacrificare la mia vita. Ma quant’era piccolo il prezzo da pagare, per la possibilità di studiare con qualcuno così dotato! Come potevo permettermi di perderlo? Perfino adesso, quando penso a ciò che gli vedo fare, quando penso alle conoscenze da lui acquisite che andranno perse con la sua morte, quasi...»

«Quasi cosa?» chiese Tanis, bruscamente, d’un tratto spaventato. «Quasi gli permetteresti di fargli varcare il Portale? Potrai davvero fermarlo quando tornerà, Dalamar? Lo fermerai?»

Avevano raggiunto l’estremità dei terreni del Tempio. Una vellutata oscurità ricopriva la terra. La notte era calda e colma degli odori della nuova vita. Qua e là fra i pioppi tremoli un uccello cinguettava sonnacchioso. In città le candele accese erano esposte alle finestre per guidare le persone amate fino a casa. Solinari occhieggiava all’orizzonte, come se gli dei avessero acceso la loro candela per illuminare la notte. Lo sguardo di Tanis venne attirato verso l’unico tratto di gelida oscurità nella sera calda e profumata. La Torre della Grande Stregoneria si levava scura e minacciosa. Nessuna candela tremolava alle sue finestre. Tanis si chiese, per un breve momento, chi o cosa fosse in attesa all’interno di quella tenebra per dare il benvenuto al giovane apprendista al suo ritorno a casa.

«Lascia che ti parli dei Portali, Mezzelfo,» replicò Dalamar. «Te ne parlerò come me ne ha parlato il mio Shalafi.» Il suo sguardo seguì quello di Tanis fino alla stanza più alta della Torre. Quando parlò, la sua voce era sommessa. «In quel laboratorio c’è un albero in cui si apre una porta. Una porta senza serratura. Cinque teste metalliche di drago la circondano. Guardando dentro di essa non vedrai nulla, soltanto un vuoto. Le teste di drago sono gelide e immobili. Quello è il Portale. Ne esiste un altro oltre a questo, si trova nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth. L’unico altro esistente, per quanto ne sappiamo, si trovava a Istar e venne distrutto durante il Cataclisma. Quello di Palanthas venne originariamente trasferito nella magica fortezza di Zhaman per proteggerlo, quando la plebaglia del Gran Sacerdote cercò di occupare la Torre che si trovava là. Si spostò di nuovo quando Fistandantilus distrusse Zhaman, tornando a Palanthas. Creati molto tempo fa, da maghi che desideravano comunicare più rapidamente fra loro, i Portali li condussero troppo in là, li condussero su altri piani.»

«L’Abisso,» mormorò Tanis.

«Sì. Troppo tardi i maghi si resero conto di quale pericolosa porta avessero congegnato, poiché, se qualcuno di questo piano fosse entrato nell’Abisso e fosse tornato attraverso un Portale, la Regina avrebbe avuto quell’accesso al mondo che da tanto tempo cercava. Così, con l’aiuto dei santi chierici di Paladine, si assicurarono, così credettero, che nessuno potesse mai usare i Portali. Soltanto qualcuno capace del male più profondo immaginabile, che avesse impegnato la propria stessa anima nella tenebra, poteva sperare di guadagnare il sapere necessario per aprire quella porta spaventosa.

E soltanto qualcuno ammantato di bontà e purezza, con la più assoluta fiducia nell’unica persona sulla faccia di questo mondo che non poteva meritare quella fiducia, poteva tenere aperta la porta.»

«Raistlin e Crysania.»

Dalamar sorrise cinicamente. «Nella loro infinita saggezza, quei vecchi maghi e quei chierici rinsecchiti non avevano in alcun modo previsto che l’amore potesse rovesciare il loro grande disegno. Perciò, vedi Mezzelfo, quando Raistlin tenterà di riattraversare il Portale uscendo dall’Abisso, dovrò fermarlo, poiché la Regina sarà subito alle sue spalle.»

Nessuna di queste spiegazioni servì ad attenuare i dubbi di Tanis. Certamente l’elfo scuro pareva consapevole del grande pericolo. Certamente appariva calmo e fiducioso... «Ma tu riuscirai a fermarlo?» insistè Tanis andando con lo sguardo, senza alcuna intenzione di farlo, a quei cinque fori aperti dal fuoco nella pelle liscia di Dalamar.

Notando l’espressione di Tanis, la mano di Dalamar andò istintivamente al proprio petto. I suoi occhi s’incupirono, diventando ossessionati. «Conosco i miei limiti, Mezzelfo,» dichiarò con voce sommessa. Poi sorrise e scrollò le spalle. «Sarò onesto con te. Se il mio Shalafi fosse nel pieno possesso dei suoi poteri quando cercherà di attraversare il Portale, allora, no, non sarei in grado di fermarlo. Nessuno potrebbe farlo. Ma Raistlin non sarà nel pieno dei suoi poteri. Ne avrà già consumato gran parte per distruggere i famigli della Regina, costringendola ad affrontarlo da sola.

Sarà debole e ferito. È la sua unica speranza, se vuole riuscire ad attirare la Regina delle Tenebre qui fuori, sul suo piano. Qui potrà recuperare le forze. Qui sarà lei la più debole dei due. E così, sì, poiché sarà ferito, potrò fermarlo. E, sì, lo fermerò!»

Notando che Tanis pareva ancora dubbioso, il sorriso di Dalamar si torse. «Vedi, Mezzelfo,» gli disse in tono gelido, «Mi è stato offerto abbastanza da far sì che valga la pena di farlo.» Con queste parole, fece un inchino e, mormorando un incantesimo, scomparve.

Ma, mentre se ne andava, Tanis udì la sommessa voce elfica di Dalamar parlare nella notte. «Hai guardato il sole per l’ultima volta, Mezzelfo. Raistlin e la Regina delle Tenebre si sono incontrati.

Adesso Takhisis sta chiamando a raccolta i suoi famigli. La battaglia comincia. Domani non ci sarà l’alba.».

Capitolo decimo.

«E così, Raistlin, ci incontriamo di nuovo.»

«Mia Regina...»

«Ti inchini davanti a me, stregone?»

«Questa è l’ultima volta che ti rendo omaggio.»

«Ed io m’inchino davanti a te, Raistlin.»

«Mi fai un grande onore, Maestà.»

«Al contrario, ho osservato il tuo gioco con il più vivo interesse. Per ognuna delle mie mosse hai sempre avuto una contromossa.? Più di una volta hai rischiato tutto quello che avevi per vincere una singola mano. Ti sei dimostrato un abile giocatore, e il tuo gioco mi ha divertito molto. Ma adesso è arrivato alla fine, mio degno avversario. Ti rimane un solo pezzo sulla scacchiera: te stesso. Contro di te è schierata tutta la potenza delle mie tenebrose legioni. Ma poiché mi sono divertita con te, Raistlin, ti concederò un unico favore.

Ritorna dal tuo chierico. Essa giace morente, sola, in un tale tormento della mente e del corpo quali io soltanto posso infliggere. Torna da lei, inginocchiati accanto a lei, prendila fra le braccia e stringila a te. Il mantello della morte cadrà su tutti e due. Vi coprirà delicatamente, e tu scivolerai nell’oscurità e troverai l’eterno riposo.»

«Takhisis, Grande Regina, ti ringrazio davvero per questa graziosa offerta. Ma io faccio questo gioco, come tu lo chiami, per vincere. E lo giocherò fino in fondo.»

«E sarà un amaro finale... per te! Ti ho dato la possibilità che ti sei meritato per la tua abilità e il tuo ardimento. La respingeresti?»

«Sua Maestà è troppo graziosa. Non sono degno di una simile attenzione...»

«E adesso ti prendi gioco di me! Sorridi pure del tuo sorriso contorto fino a quando potrai, mago, poiché quando scivolerai, quando cadrai, quando farai quell’unico piccolo errore, metterò le mani su di te. Le mie unghie affonderanno nelle tue carni e mi implorerai di darti la morte. Ma non verrà...

Qui i giorni sono lunghi eoni Raistlin Majere, e ogni giorno verrò a trovarti nella tua prigione: la prigione della tua mente. E poiché mi hai divertito, verrai torturato nella mente e nel corpo. Alla fine di ogni giorno morirai per il dolore. All’inizio di ogni notte ti riporterò in vita. Non potrai dormire, ma giacerai sveglio in tremante aspettativa del giorno che verrà. Al mattino, il mio volto sarà la prima cosa che vedrai.

Cosa? Stai impallidendo, mago. Il tuo fragile corpo trema, le tue mani sono scosse da un tremito. I tuoi occhi si spalancano per la paura. Prostrati davanti a me! Implora il mio perdono!...»

«Mia Regina...»

«Cosa? Non sei ancora in ginocchio?»

«Mia Regina... tocca a te muovere.»

Capitolo undicesimo.

«Maledetto questo cielo coperto! Se dev’esserci un temporale, vorrei che si decidesse e la facesse finita una volta per tutte,» borbottò Lord Gunthar.

I venti dominanti, pensò Tanis con una punta di sarcasmo, ma tenne quei pensieri per sé. E tenne per sé anche le parole di Dalamar, sapendo che Lord Gunthar non vi avrebbe mai creduto. Il mezzelfo era nervoso e sulle spine. Trovava difficile esser paziente con quel cavaliere dall’apparenza compiaciuta. In parte, ciò era dovuto a quel cielo dallo strano aspetto. Quel mattino, come Dalamar aveva predetto, non c’era stata nessuna alba. Invece, nubi azzurre e porpora sfumate di verde, dentro le quali guizzavano arcani lampi multicolori, erano apparse ribollenti e schiumanti sopra di loro. Non c’era vento. Non pioveva. Il giorno diventava sempre più caldo e opprimente.

Facendo i loro turni di guardia sui bastioni della Torre del Sommo Chierico, i cavalieri nelle loro pesanti armature di piastre e cotta di maglia si asciugavano il sudore dalla fronte e borbottavano di tempeste di primavera.

Soltanto due ore prima Tanis si era trovato a Palanthas, ad agitarsi e a rigirarsi fra le lenzuola di seta del letto nella stanza degli ospiti di Lord Amothus, continuando a rimuginare le ermetiche parole finali di Dalamar. Il mezzelfo era rimasto sveglio per la maggior parte della notte ripensando a esse, e pensando anche a Elistan.

Verso mezzanotte, al palazzo era giunta notizia che il chierico di Paladine era passato da questo mondo a un altro e più luminoso regno di esistenza. Era morto in pace, con la testa fra le braccia del vecchio e stordito stregone, così gentile, che era misteriosamente comparso e altrettanto misteriosamente se n’era andato. Preoccupato per gli ammonimenti di Dalamar, piangendo Elistan, e pensando di aver visto morire troppa gente, Tanis era appena piombato in un sonno esausto quand’era arrivato un messaggero per lui.

Il messaggio era stato breve e assai chiaro:

Tua presenza richiesta immediatamente Torre del Sommo Chierico.

Lord Gunthar uth Wistan.

Spruzzandosi acqua fredda sul viso, respingendo i tentativi di uno dei servi di Lord Amothus di aiutarlo ad affibbiarsi intorno al corpo la sua armatura di cuoio, Tanis completò la propria vestizione e uscì incespicando dal Palazzo, rifiutando cortesemente la prima colazione che Charles gli offriva. Fuori, lo aspettava un giovane drago bronzeo, il quale si presentò con il nome di Fireflash, mentre il suo nome segreto di drago era Khirsah.

«Conosco due tuoi amici, Tanis Mezzelfo,» disse il giovane drago mentre le sue forti ali li trasportavano senza sforzo apparente sopra le mura della città addormentata. «Ho avuto l’onore di combattere nella battaglia delle Montagne Vingaard, trasportando il nano Flint Fireforge, e il kender Tasslehoff Burrfoot, nella mischia.»

«Flint è morto,» lo informò Tanis con voce grave, sfregandosi gli occhi. Ne aveva visti morire troppi.

«Così ho sentito,» rispose il giovane drago, rispettosamente. «Mi è assai spiaciuto sentire la notizia.

Comunque, ha condotto una vita ricca e piena. Per qualcuno come lui la morte giunge come l’onore supremo.»

Ma sicuro, pensò tra sé Tanis, più che mai stanco. E Tasslehoff? Quel kender felice, benevolo, di buon cuore, il quale non chiedeva altro alla vita se non un po’ di avventura e una borsa piena di meraviglie? Se era vero, se Raistlin l’aveva ucciso, come Dalamar aveva accennato, quale onore poteva mai esserci nella sua morte? E Caramon, il povero, ubriaco Caramon, la morte per mano del suo gemello era giunta come un onore finale, o invece non era stata l’ultima pugnalata d’un coltello a mettere fine alla sua infelicità?

Con queste riflessioni, Tanis si era addormentato sulla schiena del drago, svegliandosi soltanto quando Khirsah atterrò nei cortile della Torre del Sommo Chierico. Mentre si guardava intorno con espressione cupa, Tanis sentì il suo stato d’animo incupirsi ancora di più. Aveva cavalcato con la morte soltanto per arrivare con la morte, perché proprio qui era sepolto Sturm: sì, un altro orrore finale.

Così, Tanis era tutt’altro che di buon umore, quando venne condotto nelle stanze di Lord Gunthar, che si trovavano in alto, in una delle guglie dal profilo slanciato della Torre del Sommo Chierico. Da qui si godeva un’ eccellente vista del cielo e della terra. Guardando fuori della finestra, osservando le nuvole con una crescente sensazione di sinistra premonizione, Tanis divenne consapevole soltanto gradualmente che Lord Gunthar era entrato e gli stava parlando.

«Scusami, Lord,» gli disse voltandosi.

«Tè speziato?» gli chiese Lord Gunthar, sollevando un boccale fumante della bevanda dal gusto amarognolo.

«Sì, grazie.» Tanis l’accettò e l’inghiotti con rapide sorsate, accogliendo con piacere il calore che si diffuse nel suo corpo, ignorando il fatto che gli aveva scottato la lingua.

Lord Gunthar si avvicinò a Tanis e a sua volta fissò il preludio della tempesta, fuori della finestra, sorseggiando il suo tè con una calma che fece venire voglia al mezzelfo di strappargli via, di colpo, i baffi.

Perché mai mi hai mandato a chiamare? s’infuriò dentro di sé Tanis. Ma sapeva che il cavaliere per nulla al mondo avrebbe desistito dal completare il rituale di cortesia antico di secoli, prima di arrivare al punto.

«Hai sentito di Elistan?» gli chiese Tanis, alla fine.

Lord Gunthar annuì. «Sì, la notizia ci è giunta questa mattina. I cavalieri terranno una cerimonia in suo onore qui nella Torre... se ci sarà concesso.»

Tanis quasi soffocò con il suo tè, e si affrettò a finire la tazza. Una cosa soltanto avrebbe potuto impedire ai cavalieri di tenere una cerimonia in onore di un chierico del loro dio, Paladine: la guerra. «Concesso? Allora, hai avuto informazioni? Sono giunte altre notizie da Sanction? Cosa stanno facendo le spie...»

«Le nostre spie sono state assassinate,» annunciò Lord Gunthar, con calma.

Tanis voltò le spalle alla finestra. «Ma come? Cosa...»

«I loro corpi mutilati sono stati portati nella fortezza di Solanthas da draghi neri e sono stati fatti cadere nel cortile ieri sera. Sono arrivati mentre stava infuriando una strana tempesta, una copertura perfetta per i draghi neri, e...» a questo punto Lord Gunthar rimase silenzioso, guardando fuori dalla finestra e corrugando la fronte.

«Draghi e... cosa?» volle sapere Tanis. Una possibilità cominciava a prendere forma nella sua mente. Il tè bollente gli bagnò la mano tremante, e il mezzelfo si affrettò a posare la tazza sul davanzale della finestra.

Gunthar si tirò i baffi, le rughe nella sua fronte si approfondirono.

«Strani rapporti sono arrivati fino a noi, prima da Solanthas e poi da Vingaard.»

«Quali rapporti? Hanno forse visto qualcosa? E che cosa?

«Non hanno visto niente. Si tratta di quello che hanno sentito. Strani suoni provenienti dalle nubi, o forse perfino da sopra le nubi.»

La mente di Tanis andò alla descrizione che Riverwind gli aveva fatto dell’assedio di Kalaman.

«Draghi?»

Gunthar scosse la testa. «Voci, risate, porte che si aprivano e sbattevano, rimbombi, scricchiolii...»

«Lo sapevo!». La mano stretta a pugno di Tanis colpì il davanzale della finestra. «Sapevo che Kitiara aveva un piano! Certo! Dev’essere questo!» Con espressione cupa fissò le nubi ribollenti.

«Una cittadella volante!»

Accanto a lui Lord Gunthar sospirò pesantemente. «Te l’ho detto che rispettavo questa Signora dei Draghi, Tanis. A quanto pare non l’ho rispettata abbastanza. Con un solo colpo ha risolto i problemi delle truppe e della logistica. Non ha bisogno di linee di rifornimento: porta con sé i propri rifornimenti. La Torre del Sommo Chierico è stata concepita per la difesa contro gli attacchi da terra. Non ho nessuna idea per quanto tempo possiamo resistere contro una cittadella volante. A

Kalaman i draconici balzavano dalla cittadella, fluttuando giù sulle loro ali, portando la morte per le strade. Usufruitori di magia dalle Vesti Nere scagliavano giù palle di fuoco... E con lei, naturalmente, ci sono i draghi malvagi. «Non che abbia qualche dubbio sul fatto che i cavalieri possano difendere la fortezza contro la cittadella, naturalmente,» continuò Gunthar, con durezza.

«Ma sarà una battaglia assai più aspra di quanto avessi previsto a tutta prima. Ho modificato la nostra strategia. Kalaman è sopravvissuta all’attacco di una cittadella aspettando fino a quando la maggior parte delle sue truppe non furono sganciate, poi i draghi buoni, trasportando i soldati sui loro dorsi, s’innalzarono in volo e ne presero il controllo. Ovviamente, lasceremo qui nella fortezza la maggior parte dei draghi, per combattere i draconici che si sganceranno su di noi. Ho circa un centinaio di draghi bronzei pronti a innalzarsi in volo e a dare inizio all’attacco al cuore stesso della cittadella volante.»

La cosa era sensata, dovette ammettere Tanis a se stesso. Riverwind gli aveva raccontato quella parte della battaglia di Kalaman. Ma Tanis sapeva anche che Kalaman non era stata capace, poi, di tenere la cittadella avversaria. Si erano limitati a respingerla. Le truppe di Kitiara, rinunciando alla battaglia per Kalaman, erano state in grado di ristrutturare facilmente la loro cittadella e di riportarla in volo fino a Sanction, dove Kit, a quanto pareva, ne aveva fatto di nuovo buon uso.

Tanis stava per far notare questo a Lord Gunthar, quando venne interrotto.

«Ci aspettiamo che la cittadella ci attacchi da un momento all’altro,» dichiarò Lord Gunthar, guardando con calma fuori della finestra. «In effetti...»

Tanis strinse il braccio di Gunthar. «Là!» e puntò il dito.

Lord Gunthar annuì. Voltandosi verso un attendente accanto alla porta, ordinò: «Suona l’allarme!»

Le trombe squillarono, i tamburi rullarono. I cavalieri presero posto sui bastioni della Torre del Sommo Chierico con ordinata efficienza. «Siamo rimasti vigili per la maggior parte della notte,» aggiunse Gunthar inutilmente.

I cavalieri erano tanto disciplinati che nessuno parlò o gridò quando la fortezza volante scese dalla copertura delle nubi tempestose, comparendo alla vista. I capitani fecero il loro giro impartendo con calma gli ordini. Le trombe strepitarono la loro sfida. Di tanto in tanto Tanis udiva il tintinnio di un’armatura quando, qua e là, un cavaliere si agitava nervoso al suo posto di battaglia. E poi, in alto, udì un battito di ali di drago, quando parecchi stormi di draghi bronzei, guidati da Khirsah, s’involarono dalla Torre.

«Ti sono riconoscente per avermi convinto a fortificare la Torre del Sommo Chierico, Tanis,» disse Lord Gunthar, sempre parlando con studiata calma. «Vista la situazione ho potuto fare appello soltanto a quei cavalieri che sono riuscito a radunare con pochissimo preavviso. Comunque, qui ce ne sono più di duemila. Siamo bene approvvigionati. Sì,» ripetè, «possiamo difendere la Torre, perfino contro una cittadella, non ho dubbi in proposito. Kitiara non può avere più di mille soldati, lassù...». Tanis provò il vivo, amaro desiderio che Lord Gunthar la smettesse di dar enfasi alla cosa.

Cominciava ad avere l’impressione che il capo dei cavalieri cercasse soprattutto di convincere se stesso. Fissando la cittadella mentre si avvicinava sempre più, una voce interiore gli stava gridando, martellando, che qualcosa non quadrava...

Eppure non poteva muoversi. Non poteva pensare. Adesso la cittadella volante era chiaramente visibile, essendo scesa completamente al di sotto delle nubi. La fortezza attirava tutta la sua attenzione. Tanis ricordò la prima volta che l’aveva vista a Kalaman, ricordava lo sbigottimento che aveva provato a una simile vista, allo stesso tempo carica di orrore e di sgomento. E, come la volta precedente, riusciva soltanto a rimanere immobile a fissarla.

Lavorando nelle viscere dei templi tenebrosi della città di Sanction, sotto la supervisione di Lord Ariakas, il comandante degli eserciti dei draghi il cui genio malefico aveva quasi condotto alla vittoria la Regina delle Tenebre, usufruitori di magia dalle Vesti Nere e chierici scuri erano riusciti a strappare magicamente un castello dalle proprie fondamenta e a farlo volare nel cielo. La cittadella volante aveva attaccato parecchie città, nel corso della guerra, l’ultima delle quali era stata Kalaman, proprio durante gli ultimi giorni di combattimenti. Era quasi riuscita a sconfiggere la città, anche se questa, cinta dal mare, si era ben fortificata e si era aspettata l’assalto.

Fluttuando sulle nuvole della magia tenebrosa, illuminata dai lampi delle saette multicolori, la cittadella si avvicinava sempre di più. Tanis poteva scorgere le luci alle finestre delle sue tre torri, poteva udire i suoni che, anche se tutt’altro che insoliti a terra, apparivano sinistri e terrificanti quando si udivano provenire dal cielo: voci che impartivano ordini, armi che cozzavano. Riusciva a udire ancora, almeno così gli pareva, il salmodiare degli usufruitori di magia dalle Vesti Nere che si preparavano a lanciare i loro possenti incantesimi. Poteva vedere i draghi del male che volavano intorno alla città, descrivendo pigri cerchi. Quando la cittadella volante fu ancora più vicina, un cortile si sbriciolò su un lato della fortezza, le sue mura infrante giacquero in rovina là dov’erano state trascinate a forza fuori dalle loro fondamenta.

Tanis contemplava l’intera scena affascinato e impotente, e quella voce interiore continuava ancora a parlargli. Duemila cavalieri! Radunati all’ultimo momento e così mal preparati! Soltanto qualche stormo di draghi. Certo, la Torre del Sommo Chierico avrebbe anche potuto resistere, ma il costo sarebbe stato altissimo. Comunque, sarebbe bastato che resistessero soltanto qualche giorno. A quel punto, Raistlin sarebbe stato sconfitto. Kitiara non avrebbe più avuto nessun bisogno di attaccare Palanthas. Intanto, altri cavalieri avrebbero raggiunto la Torre del Sommo Chierico, insieme ad altri draghi buoni. Forse sarebbero riusciti a sconfiggerla qui, definitivamente, una volta per tutte.

Kitiara aveva infranto la tregua incerta che era in atto fra i Signori dei Draghi e il libero popolo di Ansalon. Kitiara aveva lasciato il rifugio di Sanction, era uscita allo scoperto. Questa era la sua occasione. Potevano sconfiggerla, forse catturarla. Tanis sentì una stretta dolorosa alla gola. Kitiara avrebbe mai consentito a farsi prendere viva? No, naturalmente no. La sua mano si chiuse sopra l’elsa della spada. Si era trovato là, quando i cavalieri avevano tentato d’impadronirsi della cittadella. Forse lui sarebbe riuscito a persuaderla ad arrendersi. Poteva fare in modo che venisse trattata con giustizia, come un nemico onorevole...

Riusciva a vederla con tanta chiarezza nella sua mente! In piedi, con aria di sfida, circondata dai suoi nemici, pronta a vendere cara la propria vita. E poi avrebbe guardato da quella parte e l’avrebbe visto. Forse quegli occhi duri, scuri e luccicanti, si sarebbero addolciti, forse avrebbe lasciato cadere la spada e avrebbe teso le braccia...

Cosa stava mai pensando! Tanis scosse la testa. Stava sognando a occhi aperti come un giovane colpito dalle lune. Comunque, avrebbe fatto in modo di trovarsi con i cavalieri...

Tanis sentì un tumulto dai bastioni sottostanti e si affrettò a guardar fuori, anche se non ne aveva bisogno. Sapeva quello che stava accadendo: la fobia dei draghi. Più distruttiva delle frecce, la paura generata dai draghi malvagi, le cui ali nere e azzurre adesso erano visibili sullo sfondo delle nuvole, aveva colpito i cavalieri in attesa sui bastioni. I cavalieri più anziani, i veterani della Guerra delle Lance, rimanevano saldi ai loro posti, stringendo le proprie armi con espressione cupa, lottando contro il terrore che riempiva i loro cuori. Ma i cavalieri più giovani, che per la prima volta affrontavano in battaglia i draghi, si erano sbiancati in volto, ritraendosi negli angoli, qualcuno piangeva, svergognando se stesso, oppure voltava le spalle allo spaventevole spettacolo che lo sovrastava.

Vedendo alcuni di quei giovani cavalieri in preda alla paura sui bastioni sotto di lui, Tanis digrignò i denti. Anche lui si sentì travolgere da quella nauseante paura, lo stomaco gli si contorse e la bile gli salì alla bocca. Lanciò un’occhiata in direzione di Lord Gunthar, e vide che l’espressione del cavaliere si stava indurendo, e seppe che anche lui stava provando la stessa cosa.

Sollevando lo sguardo, Tanis potè vedere i draghi bronzei che servivano i Cavalieri di Solamnia volare in formazione, in attesa, sopra la Torre. Non avrebbero attaccato fino a quando non fossero stati attaccati, tali erano i termini della tregua che esisteva fra i draghi buoni e quelli malvagi sin dalla fine della guerra. Ma Tanis vide Khirsah, il capo, lanciare indietro la testa con orgoglio, con i suoi artigli taglienti che risplendevano al bagliore dei lampi. Quanto meno, nella mente del drago non c’era nessun dubbio che la battaglia sarebbe scoppiata tra poco.

Ma quella voce interiore continuava a tormentare Tanis. Tutto troppo semplice, troppo facile.

Kitiara doveva aver in mente qualcosa...

La cittadella si avvicinava sempre di più. Pareva la dimora di qualche immonda colonia d’insetti, rifletté Tanis, sempre più cupo. I draconici letteralmente la rivestivano! Aggrappati ad ogni minimo pollice di superficie, le loro ali tozze completamente estese, erano appollaiati sui bastioni e penzolavano dalle guglie. I loro sogghignanti musi da rettili erano visibili alle finestre e sbirciavano fuori dai vani delle porte. Era tale il silenzio carico di sgomento che regnava nella Torre del Sommo Chierico (salvo l’occasionale piagnucolare di qualche cavaliere sopraffatto dalla paura) che era possibile udire il fruscio delle ali delle creature che scendevano dalla cittadella sovrastante e, sopra di esso un vago risuonare di canti, il mescolarsi delle voci degli stregoni e dei chierici, il cui malefico potere faceva librare nell’aria quell’immane congegno.

Si avvicinava sempre più, la tensione dei cavalieri crebbe a livelli insopportabili. Si udirono ordini sommessi, le spade scivolarono fuori dai foderi, le lance vennero puntate, gli arcieri incoccarono le loro frecce, i secchi d’acqua vennero riempiti, pronti a spegnere gli incendi, le compagnie si raccolsero nel cortile per affrontare tutti i draconici che fossero balzati giù dal cielo.

Lassù in alto, Khirsah allineò i suoi draghi in formazione di battaglia, suddividendoli in gruppi di due o tre, che si librarono e poi sostarono immobili, pronti a piombare sul nemico come folgori di bronzo.

«La mia presenza è richiesta là sotto,» disse Lord Gunthar.

Raccolse il proprio elmo e se l’infilò in testa, uscendo a grandi passi dal suo quartiere generale per prendere posto alla torre di osservazione, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi aiutanti.

Ma Tanis non se ne andò, non rispose neppure al tardivo invito di Lord Gunthar di unirsi a loro. La voce dentro di lui si stava facendo sempre più forte e insistente. Chiuse gli occhi e voltò le spalle alla finestra. Bloccando la debilitante fobia dei draghi, escludendo la vista di quella cupa, mortifera fortezza, lottò per concentrarsi sulla voce dentro di lui.

E, finalmente, l’udì.

«In nome degli dei, no!» bisbigliò. «Quanto siamo stati stupidi, ciechi! Abbiamo fatto in pieno il suo gioco!»

D’un tratto, il piano di Kitiara gli apparve chiaro, quasi come se lei si fosse trovata lì, al suo fianco, a spiegarglielo nei particolari. Con il petto stretto nella morsa della paura, Tanis balzò verso la finestra. Batté il pugno sul davanzale di pietra scolpita, tagliandosi le dita. Spinse il boccale di birra, facendolo cadere per terra, dove s’infranse. Ma non si avvide né del sangue che gli scorreva dalla mano ferita, né del liquido rovesciato.

Sollevando gli occhi su quel cielo arcano e oscurato dalle nubi, seguì con lo sguardo la cittadella che si avvicinava sempre di più, sempre di più...

Adesso a portata dell’arco lungo.

Adesso a portata di lancia.

Sollevando lo sguardo, quasi accecato dai lampi, Tanis potè vedere fin nei particolari le armature dei draconici, potè vedere i volti sogghignanti dei mercenari umani che combattevano in quei ranghi, potè vedere le scaglie brillanti dei draghi che volavano sopra di lui.

E poi la cittadella passò oltre.

Non una sola freccia era volata, non un solo incantesimo era stato lanciato. Khirsah e i draghi bronzei giravano in cerchio a disagio, fissando con furore i loro cugini malvagi, costretti però dal loro giuramento a non attaccare coloro che non li avessero attaccati per primi. I cavalieri erano sui bastioni, aguzzando gli occhi sulla gigantesca, spaventevole fortezza che volava sopra di loro sfiorando la guglia più alta della Torre del Sommo Chierico mentre passava, facendo cadere alcune pietre che si schiantarono nel cortile sottostante.

Imprecando fra i denti, Tanis corse alla porta, andando a sbattere contro Lord Gunthar, il quale stava entrando con un’espressione perplessa sul volto.

«Non riesco a capire,» stava dicendo Lord Gunthar ai suoi aiutanti. «Perché non ci ha attaccato?

Cosa sta facendo?»

«Sta per attaccare direttamente la città, amico!» Tanis afferrò Lord Gunthar per le braccia, giungendo a scuoterlo tutto. «È quello che Dalamar ha sempre detto: il piano di Kitiara è quello di attaccare Palanthas! Non ha nessuna intenzione di perdere tempo con noi, e adesso non deve più farlo! Sta passando sopra la Torre del Sommo Chierico.»

Gli occhi di Gunthar, appena visibili dietro le fessure del suo elmo, si strinsero. «È una follia,» disse con freddezza, tirandosi i baffi. Alla fine, vivamente irritato, si strappò via l’elmo dalla testa. «Ma, in nome degli dei, Mezzelfo, che razza di strategia militare è mai questa? In questo modo, lascia scoperte le retroguardie del suo esercito! Anche se dovesse conquistare Palanthas, non ha abbastanza forze per mantenerne il controllo. Si troverà intrappolata fra le mura della città e noi.

No! Dovrà finirci qui, e poi attaccare la città! Altrimenti, la stermineremmo facilmente. Non c’è via di fuga per lei!»

Lord Gunthar si rivolse ai suoi aiutanti. «Forse questa è una finta, per coglierci di sorpresa. Faremo meglio a prepararci a un attacco della cittadella dalla direzione opposta...»

«Ascoltami!» s’infuriò Tanis. «Questa non è affatto una finta. Kitiara andrà a Palanthas! E quando tu e i tuoi cavalieri arriverete alla città, suo fratello Raistlin sarà tornato attraverso il Portale! E lei lo aspetterà, con la città ormai sotto il suo controllo!»

«Sciocchezze!» esclamò Lord Gunthar, corrugando la fronte. «Kitiara non può conquistare Palanthas così in fretta. I draghi buoni sono pronti a levarsi per combattere, maledizione. Tanis, anche se i palanthani non sono dei grandi soldati, possono tenerla a bada, non fosse altro per il loro numero!» Sbuffò. «I cavalieri possono mettersi in marcia immediatamente. Saremo laggiù tra quattro giorni.»

«Ma ti stai dimenticando di una cosa,» esclamò fremente Tanis, facendosi strada a furia di spinte, con fermezza ma sempre con cortesia, in mezzo ai cavalieri. Girando sui tacchi, gridò: «Ci siamo tutti dimenticati di una cosa, l’elemento che pareggia le forze in campo: Lord Soth!».

Capitolo dodicesimo.

Sospinto dalle potenti zampe posteriori, Khirsah balzò verso il cielo levandosi sopra le mura della Torre del Sommo Chierico con elegante disinvoltura. Il battito delle robuste ali fece ben presto superare al drago, insieme al suo cavaliere, la cittadella che procedeva lenta. Eppure, osservò Tanis, cupo, la fortezza si muove con sufficiente rapidità per arrivare a Palanthas entro l’alba dell’indomani.

«Non troppo vicino,» lo ammonì Tanis.

Un drago nero li sorvolò, descrivendo sopra di loro delle ampie, pigre spirali per tenerli d’occhio.

Altri draghi neri si libravano in distanza e, adesso che si trovava alla stessa altezza della cittadella, Tanis poteva vedere anche i draghi azzurri che volavano intorno alle torrette grigie del castello fluttuante nell’aria.

Tanis ebbe modo di riconoscere in un drago azzurro particolarmente grande la cavalcatura personale di Kitiara, Skie.

Dov’è Kit? si chiese Tanis, cercando senza successo di aguzzare lo sguardo dentro le finestre, affollate di draconici vaganti, che se lo stavano indicando l’un l’altro beffardamente. Provò l’improvvisa paura che lei potesse riconoscerlo, se stava guardando, e si calò sulla testa il cappuccio del mantello. Poi, con un mesto sorriso, si grattò la barba. A quella distanza Kit non avrebbe visto altro che un cavaliere solitario sul dorso di un drago, probabilmente un messaggero dei cavalieri.

Poteva immaginarsi vividamente ciò che stava accadendo all’interno della cittadella.

«Possiamo spazzarlo via dal cielo, Signora Kitiara,» certo stava proponendo uno dei suoi comandanti.

Tanis sentì quasi echeggiargli nelle orecchie la risata che ricordava tanto bene. «No, lascia pure che porti la notizia a Palanthas, che dica loro quello che devono aspettarsi. Diamo loro il tempo di sudare freddo.»

Il tempo di sudare freddo. Tanis si asciugò il viso. Anche in quell’aria gelida sopra le montagne, la camicia sotto la sua tunica di cuoio e l’armatura era bagnata e appiccicosa. Tremava per il freddo e si strinse ancora più addosso il mantello. I muscoli gli facevano male; era abituato a viaggiare in carrozza, non sui draghi, e ripensò per un attimo, con intenso desiderio, alla sua calda carrozza. Poi rise sarcasticamente di sé. Scuotendo la testa per schiarirsela (perché mai l’aver perso una notte di sonno doveva fargli un simile effetto?) costrinse la propria mente a scordarsi di quel disagio e ad affrontare l’impossibile problema che gli si parava davanti.

Khirsah stava facendo del suo meglio per ignorare il drago nero che continuava a librarsi accanto a loro. Il drago bronzeo aumentò la propria velocità, e, alla fine, il drago nero, che era stato inviato soltanto per tenerli d’occhio, tornò indietro. La cittadella ben presto rimase lontana alle loro spalle, continuando a volare senza sforzo alcuno sopra i picchi della catena montuosa che avrebbe bloccato un esercito.

Tanis cercò di elaborare dei piani, ma tutto quello che gli venne in mente comportava qualcos’altro di più importante che andava fatto prima, fino a quando non si sentì come uno di quei topolini ammaestrati in fiera che continuavano a correre dentro una piccola ruota come se avessero una fretta infernale, senza arrivare mai da nessuna parte. Per lo meno Lord Gunthar aveva tiranneggiato e tormentato i generali di Lord Amothus (a Palanthas si trattava soltanto d’un titolo onorario, concesso per eccezionali servigi resi alla comunità; nessun generale attualmente in servizio era mai stato in battaglia) inducendoli a mobilitare la milizia locale. Sfortunatamente la mobilitazione era stata considerata soltanto una scusa per fare un po’ di vacanza.

Gunthar e i suoi cavalieri erano rimasti là a ridere e a darsi di gomito nel vedere quei soldati che, impacciati e incespicanti, facevano le esercitazioni. Dopo, Lord Amothus aveva tenuto un discorso di due ore, e la milizia, orgogliosa dei propri eroismi, si era ubriacata fino a stordirsi del tutto, e tutti si erano divertiti un mondo.

Ricreando nella sua mente i grassocci padroni delle taverne, i mercanti sudati, i sarti azzimati e i fabbri dalle mani grosse come prosciutti che inciampavano sulle loro armi e gli uni sugli altri, eseguendo ordini che non erano mai stati dati, e omettendo quelli che avrebbero dovuto eseguire, Tanis fu sul punto di mettersi a piangere per la frustrazione. Sono costoro, pensò, angosciato, che domani affronteranno un cavaliere della morte e i suoi scheletrici seguaci alle porte di Palanthas.

«Dov’è Lord Amothus?» volle sapere Tanis, spingendo la gigantesca porta del palazzo reale ancora prima che venisse aperta, facendo quasi ruzzolare a terra lo stupefatto valletto.

«Sta dor... dormendo,» cominciò a farfugliare il valletto. «Siamo soltanto a metà mattinata...»

«Fallo alzare. Chi comanda i Cavalieri?»

Il valletto, strabuzzando gli occhi, farfugliò qualcosa d’incomprensibile.

«Dannazione!» ringhiò Tanis. «Chi è il cavaliere di rango più alto, testa di legno!»

«Sarebbe sir Markham, sir, Cavaliere della Rosa,» disse Charles con la sua voce calma e dignitosa, emergendo da una delle anticamere. «Devo mandare a...»

«Sì!» urlò Tanis. Poi, vedendo che tutti nel grande atrio del palazzo lo fissavano come si guarda un pazzo, e ricordando che il panico non avrebbe certo contribuito a migliorare la situazione, il mezzelfo si mise la mano sugli occhi, tirò un profondo respiro per calmarsi, e si costrinse a parlare razionalmente.

«Sì,» ripetè con voce tranquilla, «manda a chiamare sir Markham, e anche il mago, Dalamar.»

Quest’ultima richiesta parve confondere perfino Charles. La valutò per un momento, poi, con un’espressione di sofferenza sul volto, si azzardò a protestare: «Mi spiace enormemente, mio signore, ma non ho alcun mezzo per inviare un messaggio alla... alla Torre della Grande Stregoneria. Nessun essere vivente può mettere piede in quel bosco maledetto, nel folto di quegli alberi... neppure un kender!»

«Maledizione!» s’infuriò Tanis. «Io devo parlargli!» Un’idea gli balenò nella mente. «Certamente avrete dei goblin fra i vostri prigionieri, non è così? Uno della loro razza può passare attraverso il Bosco. Vai a prendere una di quelle creature, promettigli la libertà, il denaro, la metà del regno, lo stesso Lord Amothus, qualsiasi cosa! Basta che entri in quel dannato Bosco...»

«Non sarà necessario, Mezzelfo,» si fece udire una voce vellutata. Una figura abbigliata di nero si materializzò nel corridoio del palazzo, cogliendo Tanis di sorpresa, traumatizzando i valletti, e inducendo perfino Charles a inarcare le sopracciglia.

«Tu sei potente, » commentò Tanis avvicinandosi all’elfo scuro usufruitore di magia. Charles stava impartendo ordini a vari servitori, mandandone uno a svegliare Lord Amothus e un altro a convocare sir Markham, dovunque si trovasse. «Ho bisogno di parlarti in privato. Vieni con me.»

Dalamar seguì Tanis, con un freddo sorriso. «Vorrei poter accettare il complimento, Mezzelfo, ma è stato solo osservando che ho intuito il tuo arrivo, non già grazie a qualche magica lettura del pensiero. Dalla finestra del laboratorio ho visto il drago bronzeo toccare terra nel cortile del palazzo. Ti ho visto smontare dal drago ed entrare nel palazzo. Ho bisogno di parlare con te almeno quanto tu ne hai di parlare con me. Perciò, eccomi qui.»

Tanis chiuse la porta. «Presto, prima che arrivino gli altri. Sai cosa si sta dirigendo verso Palanthas?»

«L’ho saputo la scorsa notte. Ti ho mandato ad avvertire, ma tu eri già partito.» Il sorriso di Dalamar si mutò in una smorfia. «Le ali delle mie spie sono veloci.»

«Sempre che usino le ali,» borbottò Tanis. Si grattò la barba con un sospiro, poi sollevò la testa e fissò intensamente Dalamar. L’elfo scuro se ne stava lì immobile, le mani congiunte nelle vesti nere, calmo e chiuso in sé. Il giovane elfo aveva, fuor di dubbio, l’aspetto di qualcuno su cui si poteva fare affidamento in una situazione difficile, grazie al suo sangue freddo. Sfortunatamente, rimaneva il dubbio per chi avrebbe agito.

Tanis si sfregò la fronte. Com’era sconcertante quella situazione! Ai vecchi tempi tutto era stato assai più facile, quando il bene e il male erano chiaramente definiti e tutti sapevano per chi stavano combattendo. Adesso, lui era alleato con il male per combattere il male. Com’era possibile? Il male che si rivoltava contro se stesso, così Elistan aveva letto sui Dischi di Mishakal. Scuotendo rabbiosamente la testa, Tanis si rese conto che stava sprecando tempo. Doveva fidarsi di quel Dalamar. Quanto meno, doveva fidarsi della sua ambizione.

«C’è qualche maniera per fermare Lord Soth?»

Dalamar annuì lentamente. «Tu pensi in fretta, Mezzelfo. Così, sei convinto anche tu che il cavaliere della morte attaccherà Palanthas?»

«Ma è ovvio, no?» esclamò Tanis, veemente. «Dev’essere questo il piano di Kitiara. È questo che pareggia le probabilità.»

L’elfo scuro scrollò le spalle. «Per rispondere alla tua domanda, no, non c’è niente che si possa fare.

Non adesso, in ogni caso.»

«E tu? Potresti fermarlo?»

«Non oso lasciare il mio posto accanto al Portale. Adesso sono venuto perché so che Raistlin è ancora lontano da esso. Ma a ogni nostro respiro, Raistlin si trova più vicino. Questa sarà la mia ultima possibilità di lasciare la Torre. È per questo che sono venuto a parlare con te, per avvertirti.

C’è poco tempo.»

«Sta vincendo!» Tanis fissò Dalamar incredulo.

«L’hai sempre sottovalutato,» replicò Dalamar con un sogghigno. «Te l’ho detto, adesso è forte, potente, il più grande stregone che sia mai vissuto. Certo che sta vincendo! Ma a quale costo... un altissimo costo.»

Tanis corrugò la fronte. Non gli piaceva la nota d’orgoglio che sentiva nella voce di Dalamar quando parlava di Raistlin. Certo non dava l’impressione di essere un apprendista pronto a uccidere il suo Shalafi se se ne fosse presentata la necessità.

«Ma per tornare a Lord Soth,» riprese Dalamar con freddezza, leggendo più pensieri sul volto di Tanis di quanti il mezzelfo avrebbe voluto rivelare, «quando per la prima volta mi sono reso conto che avrebbe indubbiamente utilizzato questa occasione per vendicarsi di una città e di un popolo che ha odiato a lungo (se si presta fede alle leggende sulla sua caduta) ho preso contatto con la Torre della Grande Stregoneria nella Foresta di Wayreth...»

«Certo,» bofonchiò Tanis, sollevato. «Par-Salian! Il Conclave. Loro potrebbero...»

«Non c’è stata nessuna risposta al mio messaggio,» proseguì Dalamar, ignorando l’interruzione.

«Laggiù sta accadendo qualcosa di strano. Non so cosa. Il mio messaggero ha trovato la strada sbarrata, e per uno della sua... diciamo... natura leggera ed eterea, non è facile.»

«Ma... »

«Oh,» Dalamar scrollò le spalle ammantate di nero, «continuerò a tentare. Ma non possiamo contare su di loro, e sono loro gli unici usufruitori di magia abbastanza potenti da fermare un cavaliere della morte.»

«I chierici di Paladine...»

«Sono troppo nuovi in questa loro fede. Si dice che ai tempi di Huma i chierici davvero potenti fossero in grado d’invocare l’aiuto di Paladine e di usare certe parole sacre contro i cavalieri della morte. Ma, se un tempo era così, oggi non c’è più nessuno su Krynn con quel potere.»

Tanis rifletté per qualche istante.

«La destinazione di Kit sarà la Torre della Grande Stregoneria, per incontrare ed aiutare suo fratello, giusto?»

«E per cercare di fermarmi,» aggiunse Dalamar con voce tesa, impallidendo.

«Può Kitiara attraversare il Bosco di Shoikan?»

Dalamar scrollò un’altra volta le spalle, ma Tanis notò che, d’un tratto, la sua freddezza si era fatta tesa e forzata. «Il Bosco di Shoikan è sotto il mio controllo. Terrà fuori tutte le creature, vive e morte.» Dalamar sorrise di nuovo, ma questa volta senza alcuna allegria. «A proposito, il tuo goblin non sarebbe sopravvissuto più di cinque secondi. Tuttavia, Kitiara possiede un amuleto, che Raistlin le ha dato. Se è ancora in suo possesso e ha il coraggio di usarlo, e se Lord Soth si trova con lei, potrebbe farcela. Però, una volta dentro, dovrà affrontare i guardiani della Torre, che non sono meno formidabili di quelli del Bosco. Comunque, questa è una cosa di cui devo preoccuparmi io, non tu...»

«Troppe sono le cose di cui ti devi preoccupare!» esplose Tanis. «Dai anche a me un amuleto!

Fammi entrare nella Torre! Io posso affrontarla...»

«Oh, sì,» replicò Dalamar, divertito, «so quanto bene ti sei arrangiato in passato. Ascolta, Mezzelfo: ne avrai già fin sopra i capelli soltanto per tentare di mantenere il controllo della città. Inoltre, hai dimenticato una cosa: il vero scopo di Lord Soth in questa faccenda. Lui vuole Kitiara morta. La vuole per sé. Questo me l’ha detto lui stesso. Se riuscirà a ottenere la sua morte e a vendicarsi di Palanthas, avrà raggiunto il suo obbiettivo. A Lord Soth, di Raistlin non importa proprio un bel niente.»

Sentendosi d’un tratto gelare fin nell’anima, Tanis fu incapace di rispondere. Si era davvero dimenticato dello scopo di Lord Soth. Il mezzelfo rabbrividì. Kitiara si era resa responsabile di molte cose malvagie. Sturm era morto sulla punta della sua lancia, innumerevoli persone avevano perduto la vita per ordine suo, innumerevoli altre avevano sofferto e soffrivano ancora. Ma si meritava questo? Un’ interminabile esistenza di gelidi e oscuri tormenti, legata per sempre in un qualche tipo di empio matrimonio con quella creatura dell’Abisso?

Una cortina di tenebra oscurò la vista di Tanis. Debole, stordito, si vide barcollare sull’orlo spalancato di un baratro e si sentì cadere...

Provò la vaga sensazione di venire avvolto in un tessuto morbido e nero, sentì delle mani robuste che lo sorreggevano, lo guidavano...

Poi, più niente.

L’orlo freddo e liscio d’un bicchiere toccò le labbra di Tanis, il brandy gli punse la lingua e gli scaldò la gola. Intontito, sollevò lo sguardo e vide Charles accanto a lui.

«Hai cavalcato lontano senza cibo o bevande, così mi ha detto l’elfo scuro.» Dietro a Charles pareva fluttuare il volto pallido e ansioso di Lord Amothus. Avvolto in una veste da camera bianca, Amothus assomigliava moltissimo a uno spettro sconvolto.

«Sì,» riuscì a biascicare Tanis, spingendo via il bicchiere e cercando di alzarsi. Però, sentendo che la stanza ondeggiava sotto i suoi piedi, decise che era meglio rimanere seduto. «Hai ragione, sarà meglio che mangi qualcosa.» Si guardò intorno, cercando l’elfo scuro. «Dov’è Dalamar?»

Il volto di Charles si fece severo. «E chi lo sa, mio signore? È tornato di corsa alla sua dimora di tenebra, suppongo. Ha dichiarato che con te aveva finito. Col tuo permesso, mio signore, ora dirò al cuoco di prepararti la colazione.» Con un inchino, Charles si ritirò, facendosi prima da parte per permettere al giovane sir Markham di entrare.

«Hai fatto colazione, sir Markham?» chiese Lord Amothus, con voce esitante, per nulla certo di ciò che stava accadendo e decisamente innervosito dal fatto che un elfo scuro usufruitore di magia si sentisse libero di apparire e scomparire in casa sua. «No? Allora faremo proprio un bel terzetto.

Come preferisci le tue uova?»

«Forse non dovremmo star qui a parlare di uova in questo momento, mio signore,» disse sir Markham, lanciando un’occhiata a Tanis, con un fuggevole sorriso. Le sopracciglia del mezzelfo si erano intrecciate in maniera allarmante e il suo aspetto scarmigliato ed esausto indicava che aveva qualche spaventevole notizia da dare. Lord Amothus sospirò e Tanis vide che il signore della città aveva semplicemente cercato di rimandare l’inevitabile.

«Sono tornato questa mattina dalla Torre del Sommo Chierico...» cominciò Tanis.

«Ah,» fece sir Markham, e prese posto, quasi distrattamente, su una sedia, versandosi un bicchiere di brandy. «Ho ricevuto un messaggio da Lord Gunthar in cui mi diceva che si aspettava d’impegnare il nemico questa mattina. Come sta andando la battaglia?». Sir Markham era un giovane ricco e nobile, aitante, generoso, spensierato, e di buon carattere. Si era distinto nella Guerra delle Lance, combattendo agli ordini di Laurana, ed era stato fatto Cavaliere della Rosa. Ma Tanis ricordò ciò che Laurana gli aveva detto: che l’ardimento del giovane era noncurante, labile, e del tutto inaffidabile. («Ho sempre avuto la sensazione,» aveva detto Laurana, soprappensiero, «che combattesse in battaglia semplicemente perché non c’era in quel momento niente di più interessante da fare.»)

Ricordando il giudizio di Laurana sul giovane cavaliere, e sentendo il suo tono di voce allegro e distaccato, Tanis corrugò la fronte.

«Non c’è stata nessuna battaglia,» dichiarò Tanis all’improvviso. Un’espressione quasi comica di speranza e di sollievo spuntò sul volto di Lord Amothus. A quella vista, Tanis fu sul punto di scoppiare a ridere ma, temendo che fosse una risata isterica, riuscì a controllarsi. Lanciò un’occhiata a sir Markham, il quale aveva sollevato un sopracciglio.

«Nessuna battaglia? Allora il nemico non è arrivato...»

«Oh, certo che è arrivato,» lo interruppe Tanis, amaro. «È arrivato e se n’è andato, passandoci sopra.» Fece un gesto nell’aria. «Uùsh!»

«Uùsh?» Lord Amothus impallidì. «Non capisco.»

«Una cittadella volante!»

«In nome dell’Abisso!» Sir Markham sibilò basso. «Una cittadella volante.» Divenne pensieroso, lisciandosi con fare assente gli eleganti indumenti da cavallerizzo. «Non hanno attaccato la Torre del Sommo Chierico. Volano sopra le montagne. Questo allora significa...»

«Hanno l’intenzione di scagliarsi direttamente addosso a Palanthas con tutti i mezzi di cui dispongono,» terminò Tanis.

«Ma... non capisco!». Lord Amothus pareva disorientato. «I cavalieri non li hanno fermati?»

«Sarebbe stato impossibile, mio signore,» replicò sir Markham con una negligente scrollata di spalle. «C’è soltanto un modo per attaccare una cittadella volante, che offra qualche possibilità di riuscita... Stormi di draghi.»

«E, stando ai termini del trattato di resa, i draghi buoni non attaccheranno, a meno che non vengano attaccati per primi. Alla Torre del Sommo Chierico avevamo soltanto uno stormo di draghi bronzei.

Per fermare la cittadella sarebbe necessario un numero assai maggiore di draghi, anche d’argento e d’oro,» spiegò Tanis con voce stanca.

Abbandonandosi contro lo schienale, sir Markham rifletté: «Ci sono alcuni draghi d’argento qui vicino, i quali, naturalmente, si leveranno in volo non appena i draghi cattivi saranno stati avvistati.

Ma non sono molti. Forse potremmo mandarne a chiamare altri...»

«Non è la cittadella il nostro pericolo più grave,» esclamò Tanis. Chiuse gli occhi, per impedire che la stanza gli girasse intorno. Cosa mai gli stava succedendo? Stava diventando vecchio, suppose.

Troppo vecchio per questo.

«Non lo è?». Lord Amothus parve sul punto di crollare sotto quell’ulteriore colpo ma, da quell’uomo nobile che era, stava facendo del suo meglio per recuperare la sua compostezza infranta.

«Certamente Lord Soth viaggia insieme alla Signora dei Draghi, Kitiara.»

«Un cavaliere della morte!» mormorò sir Markham, con un lieve sorriso. Lord Amothus impallidì in maniera così visibile che Charles, di ritorno con le pietanze, le mise giù subito e si affrettò al fianco del suo padrone.

«Grazie, Charles,» disse Amothus, con voce rigida e innaturale. «Un po’ di brandy, forse.»

«Molto brandy sarebbe più adeguato al momento,» dichiarò sir Markham con allegria, vuotando il proprio bicchiere. «Tanto vale che ci ubriachiamo. Non serve a molto restare sobri. Non contro un cavaliere della morte e le sue legioni...». La voce del giovane cavaliere si smorzò.

«Adesso voi gentiluomini dovreste mangiare,» s’intromise Charles con fermezza, dopo aver messo più comodo il proprio padrone. Un sorso di liquore fece ricomparire un po’ di colorito sulla faccia di Amothus. L’odore del cibo indusse Tanis a rendersi conto di aver fame, e così non protestò quando Charles, dandosi da fare li intorno con misurata efficienza, portò un tavolo e servì il pasto.

«Co... cosa significa tutto questo?» balbettò Amothus, dispiegando automaticamente sulle ginocchia il tovagliolo. «Ho... ho sentito parlare altre volte di questo cavaliere della morte. Il mio bis-bis-bis-bisnonno è stato uno di quei nobili che ha assistito al processo a Soth, qui a Palanthas. E questo Soth è colui che ha rapito Laurana, non è vero, Tanis?»

Il volto del mezzelfo si oscurò. Non rispose.

Amothus sollevò le mani, implorante. «Ma cosa può fare contro una città?»

Ancora una volta, nessuna risposta. Tuttavia, non ce n’era bisogno. Lord Amothus fissò il volto incupito ed esausto del mezzelfo, poi quello del giovane cavaliere, sul quale si era disegnato un sorriso amaro, mentre praticava tanti piccoli fori, col suo pugnale, nella tovaglia di merletto. Il Lord aveva avuto la sua risposta.

Alzandosi in piedi, senza aver toccato cibo, col tovagliolo che gli scivolava dalle ginocchia sul pavimento senza che se ne accorgesse, Lord Amothus attraversò la stanza sontuosamente arredata per fermarsi davanti a un’altra finestra adorna d’un ampio vetro lavorato a mano in un complicato disegno. Un largo pannello ovale al centro incorniciava un panorama della bella città di Palanthas.

Il cielo sopra di essa era scuro e colmo di quelle strane nubi ribollenti. Ma la tempesta, lassù in alto, pareva soltanto esaltare ancora di più la bellezza e l’apparente serenità della città sottostante.

Lord Amothus rimase là immobile, con la mano appoggiata sulla tenda di raso, guardando fuori, verso la città. Era giorno di mercato. La gente passava davanti al palazzo diretta alla piazza del mercato, scambiandosi domande su quel cielo minaccioso, portando le loro ceste, rimproverando i bambini un po’ troppo discoli.

«So cosa stai pensando, Tanis,» disse alla fine Lord Amothus con voce rauca e rotta. «Stai pensando a Tharsis e a Solace, a Silvanesti, a Kalaman. Stai pensando ai tuoi amici che sono morti nella Torre del Sommo Chierico. Stai pensando a tutti quelli che sono morti e hanno sofferto durante l’ultima guerra, mentre noi a Palanthas rimanevamo indenni, illesi.»

Tanis continuò a non rispondere. Mangiò in silenzio.

«E tu, sir Markham...» sospirò Amothus. «L’altro giorno ti ho sentito ridere insieme ai tuoi cavalieri. Ho sentito i vostri commenti sulla gente di Palanthas che avrebbe portato i propri borsellini in battaglia, progettando di sconfiggere il nemico lanciandogli monetine addosso ed urlando: “Andate via, andate via!”.»

«Contro Lord Soth andrebbero bene tanto quanto le spade!» Con una scrollata di spalle e una breve risata sardonica, sir Markham porse a Charles il suo bicchiere perché tornasse a riempirglielo di brandy.

Lord Amothus appoggiò la testa contro il vetro della finestra. «Non avremmo mai pensato che la guerra potesse arrivare fino a noi! Durante tutte le epoche, Palanthas è rimasta una città di pace, una città di bellezza e di luce. Gli dei ci hanno risparmiato, perfino durante il Cataclisma. E adesso... adesso che c’è la pace nel mondo, ci capita questo!». Si girò, il suo pallido volto era teso e colmo d’angoscia. «Perché? Non capisco!»

Tanis spinse da parte il suo piatto. Appoggiandosi contro lo schienale, si stiracchiò, nel tentativo di alleviare i crampi dei suoi muscoli. Sto diventando vecchio, pensò... vecchio e rammollito. Non posso fare a meno di dormire alla notte. Se salto un pasto mi sento debole. Sento la nostalgia dei vecchi tempi. Sento la mancanza degli amici da tempo scomparsi. E sono arcistufo di veder morire la gente in qualche guerra stupida e insensata! Tirando un sospiro, si sfregò gli occhi annebbiati e poi, appoggiando i gomiti sul tavolo, si prese la testa fra le mani.

«Tu parli di pace. Quale pace?» chiese. «Ci siamo comportati come bambini in una casa dove padre e madre hanno litigato in continuazione per giorni e giorni e adesso, finalmente, sono tranquilli e si comportano in maniera civile. Sorridiamo molto e cerchiamo di essere allegri e mangiamo tutta la nostra verdura e giriamo in punta di piedi, timorosi di far rumore. Perché sappiamo che, se lo faremo, il litigio ricomincerà. E noi la chiamiamo pace!» Tanis rise amaramente. «Di’ una sola parola sbagliata, mio signore, e Porthios ti scatenerà addosso gli elfi. Accarezzati la barba in maniera sbagliata, e i nani sbarreranno ancora una volta la porta che conduce alla montagna.»

Lanciando un’occhiata a Lord Amothus, Tanis vide il signore di Palanthas chinare la testa, lo vide sfregarsi gli occhi con la mano delicata, le sue spalle si afflosciarono visibilmente. La rabbia di Tanis in parte svanì. Comunque, con chi mai era arrabbiato? Il fato? Gli dei?

Si alzò in piedi, sentendo gravare su di sé tutta la sua stanchezza, e si avvicinò alla finestra, spaziando con lo sguardo verso quella città pacifica, bella e condannata.

«Non ho la risposta, mio signore,» disse infine con calma. «Se io l’avessi, farei erigere un Tempio alla mia persona, e mi farei seguire da tutta una sfilza di chierici, suppongo. Tutto quello che so, è che non possiamo arrenderci. Dobbiamo continuare, e tentare.»

«Un altro brandy, Charles,» disse sir Markham, e tese un’altra volta la mano che reggeva il bicchiere. «Un brindisi, signori.» E alzò il bicchiere che Charles gli aveva riempito. «Tentiamo... fa rima con moriamo.».

Capitolo tredicesimo.

Si udì un sommesso bussare alla porta. Assorto nel suo lavoro, Tanis sussultò. «Sì, cosa c’è?» chiese.

La porta si aprì. «Sono Charles, signore. Mi ha chiesto di chiamarla durante il cambio della guardia.»

Tanis voltò la testa e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra. L’aveva lasciata aperta perché passasse un po’ d’aria. Ma la notte primaverile era calda e afosa e non c’era il più piccolo alito di vento. Il cielo era scuro, salvo per le occasionali fiammate di quei lampi arcani tinti di rosa che guizzavano da una nube all’altra. Adesso che la sua attenzione era stata attirata dal cielo, potè udire i rintocchi che indicavano Vegliafonda, poteva udire le voci delle guardie appena montate in servizio, poteva udire il passo misurato di coloro che se ne andavano a riposare.

Il loro riposo sarebbe stato breve.

«Grazie, Charles,» disse Tanis. «Vorresti entrare un momento?»

«Certamente, mio signore.»

Il servitore entrò, chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Tanis fissò per qualche altro istante il foglio che aveva sulla scrivania. Poi, stringendo risolutamente le labbra, vi aggiunse altre due righe nella sua chiara scrittura elfica. Vi spruzzò sopra un po’ di talco per farlo asciugare, e cominciò a rileggere attentamente la lettera. Ma i suoi occhi si annebbiarono e la calligrafia si offuscò alla sua vista. Alla fine si arrese, e firmò con il proprio nome, arrotolò la pergamena, e rimase seduto, immobile, stringendola in mano.

«Signore,» intervenne Charles, «si sente bene?»

«Charles...» cominciò Tanis, girando un anello d’acciaio e d’oro che portava al dito. La sua voce si spense.

«Mio signore?» lo sollecitò Charles.

«Questa è una lettera per mia moglie, Charles,» proseguì Tanis a bassa voce, senza alzare lo sguardo sul servitore. «Si trova a Silvanesti. Questa lettera deve partire stanotte, prima...»

«Capisco benissimo, signore,» annuì Charles, facendosi avanti e prendendo la lettera.

Tanis arrossì, provando un senso di colpa. «So che ci sono documenti assai più importanti di questo che devono esser fatti uscire dalla città, dispacci di cavalieri e altre cose del genere, ma...»

«Ho proprio il messaggero che ci vuole, mio signore. È un elfo, proprio di Silvanesti. È leale e, ad essere onesti, signore, sarà più che contento di lasciare la città per un incarico onorevole.»

«Grazie, Charles.» Tanis si passò una mano tra i capelli. «Se dovesse accadere qualcosa, vorrei che lei sapesse...»

«Certamente, mio signore. E perfettamente comprensibile. Non ci pensi più. Però, forse, il suo sigillo?»

«Oh, sì, certo.» Tanis si sfilò l’anello e lo premette sulla cera calda che Charles stava facendo cadere sulla pergamena, imprimendovi sopra l’immagine della foglia d’un pioppo tremolo.

«Mio signore, è arrivato Lord Gunthar. In questo momento è a colloquio con sir Markham.»

«Lord Gunthar!». L’espressione di Tanis s’illuminò. «Eccellente. Sono...»

«Hanno chiesto di poterla incontrare, se la cosa l’aggrada, mio signore,» disse Charles imperturbabile.

«Oh, mi aggrada, eccome,» dichiarò Tanis, alzandosi in piedi. «Suppongo non ci sia stato alcun segno della città...»

«Non ancora, mio signore. Troverà i Lord nel salotto d’estate della prima colazione... adesso, ufficialmente, la stanza della guerra.»

«Grazie, Charles,» disse Tanis, stupito di essere finalmente riuscito a completare una frase.

«Null’altro, mio signore?»

«No, grazie, conosco il...»

«Molto bene, mio signore.» Inchinandosi, con la lettera in mano, Charles tenne aperta la porta per Tanis, poi la chiuse alle proprie spalle. Dopo aver aspettato un momento per vedere se Tanis poteva esprimere qualche desiderio dell’ultimo istante, s’inchinò di nuovo e se ne andò.

Con la mente ancora alla sua lettera, Tanis rimase solo, grato per la quiete ombreggiata del corridoio fiocamente illuminato. Poi, esalando un tremulo sospiro, si allontanò con fermezza, alla ricerca del salotto per la colazione mattutina, adesso divenuto sala della guerra.

Tanis aveva appoggiato la mano sulla maniglia della porta e stava giusto per entrare nella stanza quando con la coda dell’occhio intravide un movimento. Girò la testa, e vide una figura di tenebra materializzarsi dall’aria.

«Dalamar?» esclamò Tanis, stupefatto, lasciando la porta non ancora aperta della sala della guerra e incamminandosi lungo il corridoio in direzione dell’elfo scuro. «Pensavo...»

«Tanis, sei colui che cercavo.»

«Hai notizie?»

«Nessuna che ti possa far piacere sentire,» rispose Dalamar, scrollando le spalle. «Non posso restare a lungo, il nostro destino vacilla sulla lama di un coltello. Ma ti ho portato questo.» Affondò la mano in una borsa di velluto nero appesa al fianco, tirò fuori un braccialetto d’argento e lo porse a Tanis.

Tanis prese in mano il braccialetto e lo esaminò con curiosità. Era largo all’incirca cinque pollici, ed era fatto d’argento massiccio. Tanis giudicò dalla sua larghezza e dal suo peso che fosse stato realizzato per il polso di un uomo. Leggermente imbrunito, vi erano incastonate delle pietre nere, la cui liscia superficie luccicava al tremulo bagliore delle torce, lì nel corridoio. E proveniva dalla Torre della Grande Stregoneria.

Tanis lo tenne in mano con cautela. «È...» esitò, per nulla sicuro di volerlo sapere.

«Magico? Sì,» rispose Dalamar.

«E di Raistlin?». Tanis si “accigliò.

«No.» Dalamar sorrise sardonico. «Lo Shalafi non ha bisogno di difese magiche come questa. Fa parte della collezione di oggetti simili a questo che si trova nella Torre. Questo è molto antico, senza alcun dubbio risale all’epoca di Huma.»

«A cosa serve?» Tanis continuò a studiare il braccialetto con aria dubbiosa, sempre corrugando la fronte.

«Rende resistente alla magia colui che lo porta.»

Tanis sollevò la testa. «La magia di Lord Soth?»

«Qualsiasi magia. Ma, sì, protegge colui che lo porta dal potere della parola del cavaliere della morte: “uccidi”, “stordisci”, “acceca”. Impedirà che colui che lo porta provi gli effetti della paura generata dal cavaliere della morte. E lo difenderà sia dai suoi incantesimi del fuoco sia da quelli del ghiaccio.»

Tanis gratificò Dalamar d’uno sguardo intenso. «Questo è davvero un dono prezioso. Ci offre una possibilità.»

«Colui che lo porterà potrà ringraziarmi quando, e se, tornerà vivo!» Dalamar intrecciò le mani all’interno delle maniche. «Anche senza la sua magia, Lord Soth è un avversario formidabile, per non parlare di quelli che lo seguono e gli hanno promesso fedeltà con un giuramento che neppure la morte potrebbe annullare. Sì, Mezzelfo, ringraziami al tuo ritorno.»

«Io!» esclamò Tanis, stupito. «Ma... sono due anni che non impugno una spada!». Puntò gli occhi su Dalamar, all’improvviso era divenuto sospettoso. «Perché io?»

Il sorriso di Dalamar si allargò. I suoi occhi obliqui luccicarono divertiti. «Dallo a uno dei cavalieri, Mezzelfo. Lascia che uno di loro lo tenga. Capirai. Ricordati, è giunto da un luogo di tenebra. Sa riconoscere uno dei suoi.»

«Aspetta!». Vedendo che l’elfo scuro si preparava ad andarsene, Tanis afferrò il braccio nero di Dalamar. «Soltanto un momento, ancora. Hai detto che c’erano notizie...»

«Non riguardano te.»

«Dimmele.»

Dalamar tacque per qualche istante, le sue sopracciglia si congiunsero per l’irritazione causata da quel ritardo. Tanis sentì il braccio del giovane elfo farsi teso. È spaventato... Tanis se ne rese conto all’improvviso. Ma proprio mentre quel pensiero gli attraversava la mente, vide Dalamar recuperare il controllo di se stesso. I suoi lineamenti decisi divennero calmi, privi di qualsiasi espressione.

«Il chierico, Dama Crysania, è stata mortalmente ferita. Però è riuscita a proteggere Raistlin. Lui è illeso, ed è andato a trovare la Regina. Così mi dice Sua Maestà Tenebrosa.»

Tanis sentì stringerglisi la gola. «E Crysania?» domandò con asprezza. «Lui l’ha lasciata morire?»

«Naturalmente.» Dalamar si mostrò un po’ sorpreso a quest’ultima domanda. «Lei non poteva più essergli di alcuna utilità.»

Abbassando lo sguardo sul braccialetto che teneva in mano, Tanis arse dal desiderio di scagliarlo contro i denti luccicanti dell’elfo scuro. Ma ricordò in tempo che, lui, non poteva permettersi il lusso della collera. Quale situazione folle e contorta! Incongruamente, si ricordò di Elistan che andava alla Torre per portare conforto all’arcimago...

Girando sui tacchi, Tanis si allontanò a grandi passi rabbiosi. Ma strinse con forza il braccialetto che aveva in mano.

«La magia viene attivata quando te lo infili...» la voce sommessa di Dalamar galleggiò attraverso l’alone di furore di Tanis. Avrebbe potuto giurare che l’elfo scuro stava ridendo.

«Cosa succede, Tanis?» chiese Lord Gunthar, quando il mezzelfo fece il suo ingresso nella sala della guerra. «Mio caro amico, sei pallido come la morte...»

«Niente. Ho... ho appena ascoltato delle notizie inquietanti. Sarò a posto fra pochi istanti.» Tanis tirò un profondo respiro, poi lanciò un’occhiata ai cavalieri. «Neppure voi avete un gran bell’aspetto.»

«Un altro brindisi?» intervenne sir Markham, alzando il suo bicchiere di brandy.

Lord Gunthar gli scoccò una severa occhiata di disapprovazione, che il giovane cavaliere ignorò mentre, come se niente fosse, mandava giù il brandy in un sol sorso.

«La cittadella è stata avvistata. Ha superato le montagne. Sarà qui all’alba.»

Tanis annuì. «Press’a poco quello che avevo calcolato.» Si grattò la barba, poi si sfregò gli occhi per la stanchezza. Lanciò un’occhiata alla bottiglia di brandy, ma scosse la testa. No, probabilmente sarebbe servito soltanto a farlo piombare subito nel sonno.

«Che hai lì?» gli chiese Lord Gunthar, allungando la mano per prendere il braccialetto. «Una specie di portafortuna elfico?»

«Non lo toccherei...» cominciò a dire Tanis.

«Dannazione!» Lord Gunthar cacciò un rantolo, allontanando di scatto la mano. Il braccialetto cadde sul pavimento, finendo sul lussuoso tappeto intessuto a mano. Il cavaliere si strinse la mano, in preda al dolore.

Tanis si chinò e raccolse il braccialetto. Gunthar lo fissò con occhi increduli. Sir Markham stava cercando di soffocare le risate.

«Me l’ha portato il mago, Dalamar. Viene dalla Torre della Grande Stregoneria,» spiegò Tanis, ignorando il cipiglio di Lord Gunthar. «Proteggerà colui che lo porta dagli effetti della magia: l’unica cosa che darà a qualcuno la possibilità di avvicinarsi a Lord Soth.»

«Qualcuno!» ripetè Gunthar. Si fissò la mano. Le dita, nei punti in cui avevano toccato il braccialetto, erano bruciate. «Non soltanto questo, ma sono stato attraversato da una scossa che mi ha quasi fermato il cuore! In nome dell’Abisso, chi mai può portare una cosa del genere?»

«Io posso farlo,» replicò Tanis. E giunto da un luogo di tenebra, sa riconoscere uno dei suoi. «Ha qualcosa a che fare con voi cavalieri e i vostri sacri voti a Paladine,» borbottò poi, sentendosi arrossire.

«Seppelliscilo!» ringhiò Lord Gunthar. «Non ci servono gli aiuti che possono darci quelli delle Vesti Nere!»

«A me pare che sia imperativo, per noi, usare tutti gli aiuti che possiamo ottenere, mio signore!» esclamò Tanis, fremente. «Vorrei anche ricordarti che, per quanto possa sembrare strano, siamo tutti sulla stessa sponda! E adesso, sir Markham, cos’hai da dirmi circa i piani per difendere la città?»

Tanis finse di non notare l’occhiataccia di Lord Gunthar, e infilò il braccialetto in una borsa. Quindi, si voltò verso sir Markham il quale, per quanto sorpreso da quell’improvviso appello, si affrettò a venire in aiuto del mezzelfo con il suo rapporto.

I Cavalieri di Solamnia si erano messi in marcia, uscendo dalla Torre del Sommo Chierico. Ci sarebbero voluti, come minimo, dei giorni, prima che potessero raggiungere Palanthas. Aveva inviato dei messaggeri per avvertire i draghi buoni, ma pareva assai improbabile che anche loro fossero in grado di raggiungere in tempo Palanthas.

La città stessa era in allarme. Con un discorso breve e sobrio, Lord Amothus aveva detto ai cittadini ciò che li aspettava. Non c’era stato nessun panico, cosa che Gunthar aveva trovato difficile credere.

Oh, qualche riccone aveva cercato di corrompere i capitani delle navi perché li portassero lontani da lì, ma i capitani, come un sol uomo, si erano rifiutati di salpare sotto la minaccia di quelle sinistre nubi tempestose. Le porte della Vecchia Città erano state aperte. Coloro che volevano fuggire dalla città per trovare rifugio nelle terre incolte avevano naturalmente ricevuto il permesso di farlo. Ma non erano molti quelli che avevano accettato di correre questo rischio. A Palanthas, quantomeno, le mura della città e i cavalieri offrivano una certa protezione.

Personalmente, Tanis pensava che se i cittadini avessero saputo quali oirori si sarebbero trovati ad affrontare, avrebbero corso volentieri il rischio. Comunque, le donne avevano messo da parte i loro ricchi indumenti, cominciando a riempire d’acqua ogni contenitore disponibile, per esser pronte a combattere gli incendi. Quelli che vivevano nella Città Nuova, non protetta dalle mura, vennero evacuati e trasferiti dentro la Vecchia Città, le cui mura venivano fortificate nel miglior modo possibile, nel poco tempo che rimaneva. I bambini vennero messi a letto nelle cantine e nei rifugi antitemporale. I mercanti aprirono i negozi dispensando le scorte necessarie. Gli armaioli distribuirono armi e le forge continuarono ad avvampare per tutta la notte, riparando freneticamente spade, scudi e armature.

Spaziando con lo sguardo sopra la città, Tanis vide luci accese nella maggior parte di Palanthas, la gente si stava preparando per un mattino al quale, l’esperienza glielo diceva, non avrebbe mai potuto essere preparata.

Con un sospiro, ripensando alla sua lettera a Laurana, Tanis prese la sua amara decisione. Ma sapeva che ciò avrebbe comportato una discussione. Doveva preparare il terreno. Voltandosi di scatto, interruppe Markham. «Quale pensi sarà il loro piano di attacco?» chiese a Lord Gunthar.

«Penso sia piuttosto semplice.» Gunthar si tirò i baffi. «Faranno quello che hanno fatto a Kalaman.

Porteranno la cittadella il più vicino possibile. A Kalaman non sono arrivati molto vicini. I draghi li hanno tenuti indietro. Ma,» scrollò le spalle, «noi non disponiamo, qui, di un numero di draghi comparabile al loro. Una volta che la cittadella avrà superato le mura, i draconici si lasceranno cadere giù e cercheranno di conquistare la città dall’interno. I draghi malvagi attaccheranno...»

«E Lord Soth c’invaderà dalle porte,» terminò per lui Tanis.

«Per lo meno i cavalieri dovrebbero arrivare in tempo per impedirgli di depredare i nostri corpi,» disse sir Markham, svuotando di nuovo il suo bicchiere.

«E Kitiara,» rifletté Tanis, «cercherà di raggiungere la Torre della Grande Stregoneria. Dalamar dice che nessun essere vivente può attraversare il Bosco di Shoikan, ma ha anche detto che Kit è in possesso di un talismano donatole da Raistlin. Potrebbe aspettare Soth, prima di andare, calcolando che anche lui potrebbe aiutarla.»

«Sempre che la Torre sia il suo obbiettivo,» replicò Lord Gunthar, dando enfasi al sempre. Era ovvio che non era ancora del tutto disposto a credere alla storia su Raistlin. «Secondo me userà la battaglia come copertura per sorvolare con il suo drago le mura e atterrare quanto più possibile vicino alla Torre. Forse potremmo appostare dei cavalieri intorno al Bosco per cercare di fermarla...»

«Non riuscirebbero mai ad avvicinarsi abbastanza,» lo interruppe sir Markham, aggiungendo un tardivo «mio signore... Il Bosco esercita un effetto scoraggiante su chiunque si avvicini a qualche miglio da esso.»

«Inoltre, avremo bisogno dei cavalieri per affrontare le legioni di Soth,» disse Tanis. Emise un profondo sospiro: «Ho un piano, se mi è permesso proporlo...»

«Ma certamente, Mezzelfo.»

«Tu credi che la cittadella attaccherà dall’alto e che Lord Soth penetrerà dalle porte principali, creando una diversione che darà a Kit la possibilità di raggiungere la Torre. Giusto?»

Gunthar annuì.

«Allora, metti in sella ai draghi di bronzo quanti più cavalieri possibile. Lasciami Fireflash. Dal momento che il braccialetto mi offre la miglior difesa contro Lord Soth, mi occuperò io di lui. Il resto dei cavalieri potrà concentrarsi sui suoi seguaci. Comunque, ho un conto personale da saldare con Lord Soth,» aggiunse Tanis, vedendo che Gunthar già scuoteva la testa.

«Assolutamente no. Te la sei cavata molto bene durante l’ultima guerra, ma non sei mai stato addestrato! Affrontare in volo un Cavaliere di Solamnia...»

«Perfino un Cavaliere di Solamnia morto!» intervenne sir Markham, con una risatina ebbra.

I baffi di Lord Gunthar fremettero per la collera, ma si trattenne, e continuò con voce gelida: «... un cavaliere addestrato, come lo è Soth, non ti darebbe nessuna via di scampo... braccialetto o non braccialetto.»

«Però, mio signore, senza il braccialetto l’addestramento nell’uso della spada conta assai poco,» gli fece notare sir Markham, concedendosi un altro brandy. «Un tizio che ti può puntare addosso un dito e dire “muori” dispone di un chiaro vantaggio.»

«Per favore, signore,» intervenne Tanis, «ammetto che il mio addestramento formale è assai limitato, ma gli anni che ho trascorso con una spada al fianco sono più numerosi dei tuoi... quasi del doppio. Il mio sangue elfico...»

«All’Abisso il tuo sangue elfico!» borbottò Gunthar, fissando inferocito sir Markham, il quale ignorò risolutamente il suo superiore, tornando a sollevare la bottiglia del brandy.

«Mio signore, se sarò costretto farò valere il mio rango,» dichiarò Tanis con calma.

Lord Gunthar s’imporporò. «Maledizione, quello è solo un titolo onorario...»

Tanis sorrise. «Il Codice non fa nessuna distinzione del genere. Onorario o no, sono un Cavaliere della Rosa, e la mia età, ben oltre i cento, mio signore, mi dà tutta l’anzianità necessaria.»

Sir Markham stava ridendo apertamente. «Oh, per l’amor del cielo, Gunthar, dagli il permesso di morire. Non fa poi tanta differenza, per l’Abisso!»

«È completamente ubriaco,» borbottò Lord Gunthar, lanciando un’occhiata rovente a sir Markham.

«E giovane,» replicò Tanis, a mo’ di giustificazione. «Allora, mio signore?»

Gli occhi di Lord Gunthar lampeggiarono per la collera. Mentre fissava inferocito il mezzelfo, delle parole di tagliente rimprovero gli affiorarono alle labbra. Ma non vennero pronunciate. Lord Gunthar sapeva fin troppo bene che chiunque affrontasse Lord Soth rischiava praticamente la morte certa, braccialetto magico o non braccialetto magico. A tutta prima aveva supposto che Tanis fosse troppo ingenuo per rendersene conto. Ma, fissando il mezzelfo negli occhi scuri avvolti nelle ombre, constatò ancora una volta di averlo giudicato male.

Inghiottendo le parole con un burbero colpo di tosse, Lord Gunthar indicò con un gesto sir Markham. «Vedi un po’ tu se riesci a farlo rinsavire, Mezzelfo. Poi, immagino che farai meglio a prendere posizione. Dirò ai cavalieri di aspettare.»

«Grazie, mio signore,» mormorò Tanis.

«E gli dei siano con te,» aggiunse Gunthar con voce bassa e soffocata. Afferrò una mano di Tanis, diede un’energica stretta, poi si girò e uscì a grandi passi dalla stanza.

Tanis lanciò un’occhiata a sir Markham, il quale stava fissando assorto la bottiglia del brandy vuota, con un sorriso sarcastico. Non è così ubriaco quanto vuol far credere, decise Tanis. O come desidererebbe essere.

Voltando le spalle al giovane cavaliere, il mezzelfo si avvicinò alla finestra. Guardando fuori, aspettò l’alba.


Laurana.

Quando ci siamo accomiatati, una settimana fa, certamente non pensavamo che questo commiato potesse prolungarsi tanto nel tempo. Siamo rimasti separati per la maggior parte della nostra vita.

Ma, devo ammetterlo, non rimpiango la nostra attuale separazione. Mi conforta sapere che sei al sicuro, anche se temo che, qualora Raistlin riuscisse nei suoi disegni, non rimarrà un solo rifugio sicuro in tutto Krynn.

Devo essere onesto, mia carissima. Non ho nessuna speranza che qualcuno di noi riesca a sopravvivere. Guardo in faccia, senza nessuna paura, la consapevolezza che probabilmente morirò, credo di poterlo onestamente dire. Ma non posso guardarla in faccia senza una collera amara.

Durante l’ultima guerra potevo permettermi di essere coraggioso. Non possedevo nulla, perciò non avevo nulla da perdere. Ma non ho mai voluto vivere come vivo adesso. Sono come un taccagno che si pasce della gioia e della felicità che ha trovato, e odia l’idea di doverle cedere. Penso ai nostri piani, ai bambini che speravamo di avere. Penso a te, mia amata, e al dolore che la mia morte provocherà in te, e non riesco quasi più a distinguere questa pagina a causa delle lacrime che sto versando per il dolore e il furore.

Posso soltanto chiederti che questa consolazione sia tua come è mia, questo commiato sarà l’ultimo per noi. Il mondo non potrà più separarci. Ti aspetterò, Laurana, in quel regno dove il tempo medesimo muore.

E una sera, in quel regno di eterna primavera, di eterno crepuscolo, guarderò infondo al sentiero e ti vedrò venire verso di me. Riesco già ora a vederti con tanta chiarezza, amore mio. Gli ultimi raggi del sole al tramonto che risplendono sui tuoi capelli dorati, i tuoi occhi sfolgoranti per l’amore che riempie il mio cuore.

Tu verrai da me.

Ti stringerò fra le braccia.

Chiuderemo gli occhi e cominceremo a sognare il nostro sogno eterno.

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