Si piegò in due per evitare il fumo più denso e corse lungo il corridoio sbirciando nei dormitori mentre passava. Un attacco di tosse lo costrinse ad inginocchiarsi. Si accorse di essere accanto a uno dei bagni e vi si trascinò dentro trovando un’aria più respirabile.

Barcollò tossendo fino a uno dei lavandini, aprì il rubinetto, si tolse gli occhiali e si sciacquò il viso, poi prese un asciugamano, lo inzuppò nel lavandino e se lo mise attorno al collo come una sciarpa coprendosi naso e bocca con i lembi di stoffa bagnata.

Prima di uscire controllò i gabinetti, poi tornò nel corridoio, l’asciugamano a mo’ di maschera. Il rumore del fuoco era diventato un brontolio cupo e il calore era rovente, aumentava man mano che lui si avvicinava alla scalinata. Stava per entrare in un altro dormitorio quando udì un suono diverso dagli altri; appena percepibile nel frastuono dei campanelli, del fuoco e del legno che si schiantava, ma ben distinte, sentì delle grida che sembravano venire dal centro dell’incendio.

Tirandosi l’asciugamano sopra la testa e tenendone un angolo sopra il viso Childes proseguì accostato al muro per sapere in che direzione andare.

Dalla tromba delle scale salì un getto di scintille come da un vulcano, lingue di fiamma salivano lungo i muri, lambivano i legni, sfioravano il soffitto. Il pianerottolo non era ancora bruciato ma iniziava già a fumare, le assi cominciavano a piegarsi.

Childes andò alla balaustra, ritirando subito la mano appena la poggiò sul legno ardente.

Le ragazze erano assiepate in un angolo appena sotto di lui, le scale davanti a loro erano in fiamme e anche quelle dietro. Avevano tentato di allontanarsi per quella strada ed erano state arrestate da un muro di fuoco. Quando erano risalite avevano scoperto che la via del ritorno era già invasa dalle fiamme, che le avevano precedute sospinte da turbinanti correnti d’aria.

Molte delle ragazze sembravano svenute, le altre si stringevano assieme con le mani alzate a coprirsi il viso dal calore. Erano in sei o sette (era impossibile vederle bene tanto erano vicine), e la governante era con loro con la schiena rivolta alle fiamme, le braccia tese come per proteggere le sue ragazze.

Childes scese alcuni gradini ma il calore lo fece ben presto arretrare. Una barriera di fuoco sbarrava l’ampia scalinata. Forse avrebbe potuto saltare attraverso le fiamme, raggiungerle, ma a cosa poteva servire? Cosa avrebbe potuto fare per loro? Tornò frettolosamente sul pianerottolo.

«Signora Bates!» chiamò. «Sono qui.»

Vide la governante alzare la testa e urlò di nuovo. Lei girò il viso dalla sua parte, lo vide. A Childes sembrò di scorgere un lampo di speranza nel suo sguardo ma il calore e il fumo deformavano tutto.

La governante si allontanò dalle ragazze appena pochi passi. «È… è lei, Signor Childes? Che Dio sia lodato! Ci aiuti, per favore. Ci aiuti a uscire di qui!»

Alcune delle ragazze lo guardavano adesso, pur rimanendo rannicchiate nell’angolo. Aiutarle! Ma come? Come poteva tirarle fuori di lì? Lui non poteva scendere, e loro non potevano salire.

La governante era in ginocchio, tossiva e vomitava, l’aria ribolliva. Tornò indietro barcollando, allontanandosi dall’inferno. Un’improvvisa vampata costrinse Childes a indietreggiare. Le fiamme salirono verso il soffitto mordendo le travi per poi scomparire di nuovo nel pozzo di fuoco. Ma le travi non erano rimaste illese, ardevano furiosamente. Mancava poco ormai.

Con una scala forse avrebbe potuto fare qualcosa, poggiandola tra il pianerottolo di sotto e la balaustra. Ma non c’era il tempo di andare a cercarne una. Forse con una corda. Potevano legarsela attorno alla vita così lui avrebbe potuto issarle fin lì, una alla volta. Quante ne avrebbe salvate prima di non avere più forze? E comunque, dove accidenti la trovava una fune?

«Aiuto!» sentì di nuovo. Anche le ragazze avevano preso a chiamarlo.

«State lontane dalle scale!» gridò lui, vedendo che alcune di loro si erano avvicinate alla governante.

Childes riconobbe il viso di Kelly nel gruppo, era annerito dalla fuliggine e segnato dalle lacrime. Tese verso di lui una mano implorante, una bambina vulnerabile e piangente, il ricordo della visione del suo braccio carbonizzato lo colpì, raggelandolo e impedendogli ogni altro movimento.

Diede un gemito scrollando la testa, l’asciugamano, ormai prosciugato dal calore eli cadde intorno alle spalle. Il fumo denso e soffocante lo circondava, dalle assi del pavimento si sprigionavano fiammelle. Delle urla stridule lo fecero tornare in sé, udì uno schianto di legno frantumato e si affacciò alla balaustra.

Un altro pezzo di scalinata era crollato cadendo nell’abisso fiammeggiante di fronte alle ragazze che si rannicchiarono di nuovo nell’angolo più lontano assieme alla governante. Quelle che erano più all’esterno dimenavano le mani come se potessero allontanare il terrificante calore, altre ancora erano cadute a terra o addosso alle loro compagne.

«Vado a cercare qualcosa con cui tirarvi fuori!» urlò loro. «Torno subito!» Non sapeva se lo avessero sentito, e inoltre non sapeva assolutamente cosa fare. Sarebbe stato capace di tirarle fuori veramente? Childes respinse quelle domande angosciose e si allontanò.

Sentiva il calore rovente del pavimento attraverso le suole delle scarpe. Una nebbia densa e asfissiante riempiva il corridoio. Gli sembrò di sentire la pressione che montava, come del vapore trattenuto in una caldaia dalle valvole difettose; l’aria stessa sembrava pronta a prendere fuoco. Aspirò una boccata senza ossigeno e fu preso da un attacco di tosse, aveva i polmoni inariditi.

Ma non si fermò. Si trascinò carponi, le spalle e il torace doloranti, con le mani che si scottavano sul legno, finché non trovò una porta aperta. Entrò e la richiuse con un calcio rotolando sulla schiena e concedendosi appena un attimo di sosta. Il fumo non era tanto denso nella stanza anche se vedeva i lettini attraverso una spessa nebbia. Raggiunse il letto più vicino e ne strappò via le lenzuola.

Sempre inginocchiato prese a legarle insieme, poi si avvicinò a un altro letto e ne prese delle altre; si rifiutava di ammettere che quegli sforzi fossero inutili. Mentre annodava un terzo lenzuolo con gli occhi brucianti e il petto dolorante come se vi fosse stato piantato un coltello, sentì un singhiozzare soffocato. Si guardò intorno senza riuscire a capire da dove provenissero i suoni. Scrutò la stanza. Udiva solo il crepitare delle fiamme. Si piegò per guardare sotto i letti ma non c’era nessuno. Finì di annodare le lenzuola e si diresse di nuovo verso la porta. Ancora quei singhiozzi.

Si voltò di nuovo, osservando la stanza, i letti sfatti, le bambole gettate in terra, abiti abbandonati, poster che cominciavano ad accartocciarsi. Tese l’orecchio, cercando l’origine del rumore. Era appena udibile, ma ora ben distinto dagli altri rumori. Il suo sguardo fu attratto da un armadio in fondo alla stanza.

Non c’era tempo, non c’era più tempo. Doveva ritornare dalle ragazze sulle scale. Gettò a terra le lenzuola e correndo raggiunse l’armadietto.

Aprì gli sportelli e vide le due bambine piagnucolanti, accovacciate sul fondo tra le mazze da hockey e le racchette da tennis, seminascoste da alcuni impermeabili appesi. Urlarono rannicchiandosi ancora di più.

Childes raggiunse con una mano la più vicina, la tirò a sé, voltandole il viso perché lo potesse vedere; ebbe appena il tempo di riconoscere una delle bambine delle primarie quando si spensero le luci.

La smarrì nel buio e le loro urla lo assordarono. Childes si mise carponi e le cercò a tastoni, ne trovò i corpicini tremanti e le abbracciò entrambe. «Non dovete avere paura» disse loro con tono calmo, cosciente del terrore che invadeva anche lui. «Il fuoco ha bruciato i cavi, per questo si sono spente le luci.» Le bambine continuavano a divincolarsi. «Su, mi conoscete no? Sono il signor Childes. Vi porto via di qui, d’accordo?» Cercò di tirarle fuori ma resistevano ancora. «Le vostre amiche sono tutte fuori che vi aspettano. Saranno preoccupate, non credete?» Dio mio! Doveva tornare da loro prima che fosse troppo tardi. «Forza adesso! Scendiamo per le scale, poi potrete dire alle altre quanto è stato emozionante. Una corsetta per le scale e saremo fuori di qui!»

Una vocina spaventata riuscì a malapena a superare i singulti. «Le… le scale… sono tutte bruciate.»

Le accarezzò sui capelli stringendole a sé. «Usiamo l’altra scala. Non vi ricordate più delle altre scale, delle esercitazioni antincendio? Le scale sono di cemento, non possono bruciare. Non c’è niente di cui avere paura. Vi ricordate di me? Sono il signor Childes, sarete venute di sicuro a dare un’occhiata all’aula dei computer!»

Si gettarono tra le sue braccia e lui le strinse a sé, tremanti. Senza dire altro le sollevò e si diresse di nuovo verso l’uscita, una bambina per braccio, quasi senza sforzo. Inciampò ma riuscì a rimanere in piedi. Vedeva filtrare da sotto la porta un filo di luce rossastra.

Un altro rumore si fondeva con gli altri, ancora lontano, all’esterno, ma cresceva di secondo in secondo. Sirene spiegate.

Le due bambine, una in pigiama, l’altra con un camicione che le arrivava fino alle caviglie erano sconvolte da attacchi di tosse violenta. «Cercate di non respirare a fondo» disse, inghiottendo con difficoltà. L’asciugamano gli era caduto dalle spalle.

Quando arrivarono alla porta Childes posò le ragazzine in terra e raccolse la fune di lenzuola annodate, gettandosela su una spalla.

Cercò di parlare con calma, nascondendo il proprio panico. «Vi conosco tutt’e due, sono sicuro, ma porca miseria adesso non riesco a ricordare i vostri nomi. Perché non me li dite voi?»

«Sandy!» mormorò una voce tremula vicino al suo orecchio.

«Oh, bene. E tu? Non me lo vuoi dire il tuo?» chiese, tirando l’altra bambina verso di sé.

«R… Rachel!» balbettò la bimba.

«Brava! Adesso ascoltatemi bene Sandy e Rachel. Io adesso aprirò la porta e uscirò, ma voi dovete aspettarmi qui».

Le piccole dita lo strinsero forte. «Non vi preoccupate, torno subito.»

«Non ci lasciare qui da sole!»

Non sapeva quale delle due avesse gridato. «Devo andare ad aiutare delle altre ragazze. Non sono lontane ma sono nei guai. Devo andare a prenderle.» Si liberò delle loro braccia, odiava doverlo fare ma non aveva scelta. Cercarono di trattenerlo ma lui si alzò e girò la maniglia. Era la sua mano ad essere calda o era il metallo? Spalancò la porta. Dietro un bagliore torrido, la pelle si raggricciò dal calore rovente che spazzava tutto. Schermandosi gli occhi scrutò il corridoio e vide che l’incendio si era esteso.

Il terribile fracasso di legno schiantato lo raggiunse proprio mentre usciva in corridoio. Non udì né grida né altro, ma sapeva cos’era stato, lui sapeva esattamente cos’era accaduto.

Doveva comunque accertarsene. Esserne sicuro. Se c’era anche la minima possibilità che …

«State lì!» gridò alle due bambine terrorizzate. Corse, tenendosi basso, ignorando la sensazione di pelle che si bruciava, sapeva che era solo una sensazione, che non si stava staccando veramente. Sbatté contro il muro, le lenzuola si svolsero strusciando in terra.

Arrivò alla balaustra che sormontava la scalinata, del pavimento ormai solo poche zone non erano state invase dalle fiamme; in alto lingue di fuoco sfioravano il soffitto.

La balaustra era intoccabile, ridotta ormai ad un trave fiammeggiante davanti al baratro di fuoco. Ma attraverso le fiamme si scorgevano tratti delle scale. Soltanto che non c’erano più scale, erano rimasti solamente degli spuntoni di legno in fiamme sporgenti dal muro. Non c’era neanche più il pianerottolo. Era tutto crollato nel cratere di quel vulcano terrificante.


Childes ritornò verso il dormitorio troppo scosso per riuscire a piangere; i suoi occhi lacrimavano, ma per il fumo. Le tre lenzuola annodate giacevano nel corridoio dove erano cadute e già iniziavano ad ardere. Barcollò, appoggiò un braccio al muro ma continuò a camminare, sapeva che fermarsi significava la fine. Affrettò il passo quando vide che le bambine non erano più accanto alla porta dove le aveva lasciate. Pregò in silenzio che non si fossero allontanate, che non fossero fuggite dal fuoco, perdendosi nel fumo sempre più denso.

La porta era ancora socchiusa, la spinse. La sua figura si stagliava nera contro il bagliore rosso e arancione. Rachel e Sandy lo guardavano terrorizzate da un lettino sul quale si erano accovacciate.

«Forza!» disse, e sentì mestizia nella propria voce. «Vi porto fuori!»

Si precipitarono verso di lui che le prese in braccio. Ora sembravano più pesanti, ma ce l’avrebbe fatta. Qualsiasi cosa succedesse le avrebbe portate fuori, doveva salvare almeno loro. Uscì dirigendosi lungo il corridoio, allontanandosi dalle fiamme più alte. Intorno tutto bruciava; pavimenti, muri, soffitti, sembravano sul punto di incendiarsi. Lui riusciva appena a vedere dove andava, e sentiva crescere nella testa un senso di stordimento, la gola gli si era quasi chiusa. Dal pavimento schizzarono fuori delle fiamme lambendo il muro, costringendolo a voltarsi per passare. Le bambine non fiatavano, perfettamente immobili con le braccia strette attorno al suo collo, tremendamente impaurite ma fiduciose. Forse avevano ormai esaurito tutte le lacrime.

Per un po’ camminarono al buio, il fumo oscurava persino il bagliore alle loro spalle, ma poi un’altra luce apparve dalla direzione in cui procedevano. Nonostante gli servisse da guida non fu affatto contento; aveva sperato che il fuoco non avesse ancora raggiunto le scale di cemento.

Arrivarono finalmente sul pianerottolo dopo aver strisciato lungo il muro, quasi accecati. Childes quasi crollò a terra. Si lasciò andare carponi; Sandy e Rachel gli si accovacciarono a fianco aspettando che la tosse squassante gli passasse, anche loro tossivano quasi asfissiate.

Si riprese e si tirò su affacciandosi alla ringhiera di ferro. La tromba delle scale agiva da camino incanalando il fumo denso nel corridoio da cui erano appena giunti.

Potevano ancora farcela, se non morivano soffocati prima. Si avvicinò alle due bambine e cercò di rassicurarle: «Andrà tutto bene. Adesso scendiamo per le scale e saremo fuori prestissimo. Le scale sono di cemento quindi non possono bruciare. Ma dobbiamo stare attenti ai corridoi.» Sentiva che la sua voce era gracchiante e tremula. Infilò una mano in tasca. «Rachel, prendi questo fazzoletto e copriti la bocca e il naso.» La bimba obbedì. «Sandy, ho paura che dovremo rovinare questo camicione.» Strappò una striscia di stoffa legandogliela attorno al collo in modo da coprirle la parte inferiore del viso. Si rimise in piedi. «OK. Si parte!»

Le prese per le mani e le condusse lungo la prima rampa di scale, tenendosi accostato al muro, lontano dal fumo; più scendevano più si faceva denso, e più era rovente l’aria.

Sandy e Rachel lo tiravano indietro e Childes dovette strattonarle per continuare a farle scendere. Quando raggiunsero un angolo tra il primo e il secondo piano le coprì con il proprio corpo. A Rachel si piegavano le gambe e si appoggiò a lui: nella luce rossastra vide che la bambina non ce l’avrebbe mai fatta. Si tolse la giacca, gliela avvolse intorno al corpo e la sollevò. Lei gli si accasciò contro la spalla, semisvenuta. Meglio così, non avrebbe creato problemi muovendosi. Prese di nuovo la mano di Sandy e riprese la discesa cercando di coprirla come meglio poteva.

«Manca poco adesso!» disse, per farle coraggio.

Lei rispose aggrappandosi ancora di più al suo braccio. Per un istante gli balenò davanti il viso di Gabby con i suoi occhiali sempre storti. Quasi gridò il suo nome. Ora fu lui a scivolare, e cadde seduto sui gradini, con Rachel in grembo, completamente avvolta nella giacca. Fu Sandy che lo tirò per un braccio, costringendolo ad alzarsi di nuovo, rifiutandosi di lasciarlo riposare.

Lo guardò, il visino sporco, rigato dalle lacrime, illuminato da un vago chiarore mentre lei ripeteva le sue parole. «Manca poco adesso.»

Manca poco si disse, manca poco, solo un’altra rampa di scale. Ma si stava sempre più indebolendo, le ultime riserve di energia esaurite da una tosse nauseante, ogni boccata d’aria era piena di fumo asfissiante, e quasi non ci vedeva più; aveva gli occhi pieni di lacrime brucianti, tanto che non riusciva più a chiuderli per il dolore…

… e Sandy lo tirava ancora, il corpicino esausto che non reggeva più, le piccole gambe nude si piegavano, ormai era quasi appesa al suo braccio e si lasciava trascinare lungo i gradini…

… perdeva i sensi, la testa piena di immagini di Gabby e di corpi mutilati e offesi, e occhi malvagi che lo fissavano attraverso le fiamme, e Amy, ferita e sanguinante, e la pietra di luna luminosa e bianca, liscia e brillante attraverso il fumo, era la luna che colava sangue denso…

… stava svenendo, scivolava lungo i gradini, perdeva la presa sulla bambina, la mano gli si posò sul gradino, si sosteneva per non cadere, il corpo gli si piegò in due, e si lasciò sopraffare dal caldo soffocante, ma mancava così poco, appena qualche gradino ancora…

Una parte della sua mente ancora cosciente si accorse di qualcosa, qualcosa che avveniva in basso. Cercò di alzare la testa.

Voci. Sentiva delle voci. Grida. Ombre scure contro le fiamme gialle che uscivano dal corridoio del pianterreno. Ombre lungo le scale, che si avvicinavano…


* * *

PIETRA DI LUNA

(silicato di potassio e alluminio — KA 1Si3O8)

DENSITÀ: 2,57

DUREZZA: 6

INDICE DI RIFRAZIONE: 1,519 — 1,526 (basso)


Una varietà di feldspato ortoclasio; la pietra di luna emette una leggera e caratteristica fluorescenza quando sottoposta a raggi X.

E detta pietra di luna perché presenta alla luce una colorazione argentea simile a quella della luna. Colore bianco, definito come schillerizzato, dal tedesco ‘schiller’, iridescenza. Estratto in Madagascar, Sri Lanka, e Burma.


Overoy spense un’altra sigaretta e poi si strofinò gli occhi stanchi. Era seduto al tavolo da pranzo, una luce appesa si rifletteva nel cristallo brunito. La stanza da pranzo era separata dal soggiorno da un arco, due stanze piccole erano così state unite. Un lavoretto che aveva fatto da solo, quando con Jpsie erano venuti a vivere lì, un tempo in cui aveva ancora l’energia per affrontare sia i lavori domestici che quelli professionali. La televisione nell’angolo era spenta, le tende tirate contro la notte estiva, l’unica lampada accesa era la sua. Nulla! Riguardò gli appunti. «Nulla!», disse con disgusto.

La piccola gemma era soltanto un folle biglietto da visita. Ma i biglietti da visita di solito dicevano qualcosa.

E allora cosa significava quella pietra?

Un riferimento alla luna?

Con la mano distese davanti a sé gli appunti, disponendoli ad arco come un punto vincente a carte. Amy Sebire aveva pensato alla parola MOON come a un nome. Ma Childes aveva visto la luna come un simbolo. Un simbolo che rappresentava un nome?

Overoy prese il pacchetto di sigarette, scoprì che era vuoto e lo gettò in fondo al tavolo. Si alzò e per sgranchirsi le gambe fece il giro del tavolo. Tornò a sedersi incrociando le mani dietro la nuca.

Cosa stava combinando Childes? Contro ogni regola Overoy aveva lasciato a Childes la prova trovata sulla scena del delitto. Una prova minuscola, la pietra. Childes l’aveva voluta ad ogni costo. Perché no? La polizia non ci faceva nulla. Ma quella pietra aveva pure un briciola di importanza per l’assassino. Le verifiche fatte presso i gioiellieri di Londra e dintorni non avevano prodotto alcun indizio nonostante le pietre non montate non si vendessero molto frequentemente. La persona che cercavano cambiava spesso luogo d’acquisto, per non farsi notare.

Gli occhi stanchi osservarono la pila di libri ammucchiati sul tavolo, la maggior parte inutili, perché per le informazioni che gli servivano ne erano stati a malapena sufficienti un paio. Erano informazioni che riguardavano principalmente la luna nei suoi aspetti mistici. Follia lunare: Josie lo aveva sgridato prima di lasciarlo per andare a dormire. Ma non mia, Josie, quella di un altro.

Bastava chiedere a un qualsiasi poliziotto, con la luna piena il numero dei crimini aumentava, inspiegabile ma vero. Anche gli strizzacervelli pensavano che la luna potesse influenzare gli squilibrati. Overoy aveva sottolineato un appunto che aveva preso in proposito: “se la luna può agire sulle maree, allora perché non sul cervello che è composto in gran parte di acqua?”. Era una cosa da tenere presente.

Due lune piene nello stesso mese erano considerate una calamità da coloro che credevano in queste cose. C’erano state due lune piene in maggio quando erano iniziate quelle atrocità. Anche questo era stato sottolineato negli appunti.

Un’altra credenza popolare era quella che l’influenza malefica della luna (nonostante la stanchezza sorrise pensando alla storia del vecchio uomo sulla luna e alle sue maniere eccentriche), si potesse manifestare sulla terra come una funesta emanazione di coloro che avevano poteri occulti. Interessante ma non certo un argomento da portare al commissario.

Raccolse un pennarello rosso e cerchiò una parola scritta a stampatello: MUTILAZIONI, poi tirò una riga fino a un’altra parola: RITO. Accanto scrisse: SACRIFICI??? Forse una parola migliore era: OFFERTE.

Ma offerte a che cosa? Alla luna? No, c’era qualche genere di ragionamento, anche se folle! Ad una divinità lunare allora? Erano quasi tutte divinità femminili. Dio, se lo avessero visto i suoi colleghi! Bene ce n’erano parecchie di dee lunari da analizzare:


Diana

Artemide

Selene


Poi ce n’erano tre che erano in realtà la stessa:


Agriope (greca)

Sheol (ebraica)

Nephys (egizia)


Ecate. Il nome gli ricordava qualcosa, un ricordo sfumato. Questo nome lo aveva spinto ad approfondire le ricerche sui riti lunari e su dei e dee particolarmente significativi. (Questa sembrava però essere la più popolare, ma cosa poteva significare? Vediamo!)

Ecate: dea dei morti. A lei erano dedicati riti negromantici. Era figlia del titano Perse e di Asteria. Protettrice e Maestra delle streghe. (Ma davvero prendeva sul serio queste scemenze?)

Ecate: guardiana degli Inferi. Condottiera di una schiera di demoni. Di notte usciva dall’Ade e si aggirava sulla terra accompagnata da cani feroci e dagli spiriti dei morti. Aveva i capelli fatti di serpenti brulicanti e la voce di una belva. Di notte amava ritirarsi vicino a un luogo chiamato Armarantiam Phasis, il ‘lago degli assassina’. (Carina!)

Ecate: padrona di tutti i segreti oscuri, madre delle streghe. (Cosa aveva quel nome che …)

Ecate: come la luna era mutevole di carattere. Alle volte benigna e materna, faceva da levatrice, e da madre putativa, proteggeva i raccolti e le greggi. Poi prendeva il sopravvento l’altro lato del suo carattere, quello oscuro. Diveniva allora una dea infernale, una dea serpente con tre teste: di cane, di cavallo, e di leone. (Cristo! Non poteva credere di aver scritto tutto ciò, meno male che aveva deciso di fare questa ricerca in casa!)

Overoy prese la tazza di caffè nascosta dietro la pila di libri, facendo una smorfia di disgusto per i resti ormai freddi. Posò di nuovo la tazza e si lasciò andare contro lo schienale. Ma dove conduceva tutto ciò? Stava solo perdendo tempo? O c’era forse qualche traccia? Ma quale? Avevano a che fare con una mente sconvolta, malata, qualcuno che mutilava e smembrava i cadaveri delle sue vittime. Una persona che lasciava come biglietto da visita una pietra di luna, che godeva nel torturare le menti degli altri. Un adoratore della luna? O forse più precisamente un adoratore di qualche divinità lunare?

Non aveva proprio senso. Ma del resto la sua preda era completamente pazza.

Ma perché Ecate gli era rimasto in testa? Cosa aveva di familiare quel nome? Qualcosa visto da qualche parte.

Emise un gemito. Non ne posso più, pensò. Sono troppo stanco per poter pensare ancora. Gli ronzava la testa, e non riusciva più a connettere. A letto. Dormici sopra. Parlane con Josie, che ore erano? Beh, le avrebbe parlato al mattino, lei riusciva sempre a chiarirgli le idee. Ma forse aveva sbagliato tutto. Divinità lunari, adoratori, pietre. Sensitivi. La vita era molto più semplice quand’era di ronda.

Si alzò dalla sedia e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni diede un’ultima occhiata agli appunti. Poi scrollò le spalle, spense la luce e andò a letto…


… Si svegliò all’alba: la risposta era fi, davanti ai suoi occhi, come un neon lontano nella nebbia. Non era un granché, anzi un barlume, ma comunque un’idea.

Il sonno era scomparso del tutto, e lui si alzò di corsa…


* * *

Luna piena…


* * *

«Con chi parlo?»

«Ciao papà!»

«Ciao passerotto!»

«Sai papà, ho cominciato la scuola nuova.»

«Sì lo so. Me lo ha detto adesso la mamma. Hai già fatto amicizia con qualcuno?»

«Beh sì, una, anzi due. Però non sono molto sicura se mi piace Lucy. Devo restarci tanto in questa scuola papà? Mi manca un po’ quella vera.»

«Solo per un po’ Gabby, fino alle vacanze estive.»

«Poi torniamo nella nostra casa?»

«Perché, non ti piace lì dalla nonna?»

«Oooh sì! Ma a casa è meglio. La nonna mi vizia. Pensa che io sia ancora una bambina piccola.»

«Non capisce che sei cresciuta ormai?»

«No. Ma non è colpa sua, lei ce la mette tutta.»

Lui ridacchiò divertito. «Goditela allora, piccola. Non capita tutti i giorni.»

«Tutti i ‘grandi’ lo dicono. Vieni presto a trovarmi papà? Ho fatto dei disegni per te, proprio con le mani. La nonna si è arrabbiata perché ho sporcato tutti i muri, però non mi ha sculacciato, non lo fa mai. Ma vieni a trovarmi, papà?»

Childes non sapeva cosa risponderle. «Non lo so Gabby. Sai che mi piacerebbe, no?»

«Hai tanto da fare a scuola? Io l’ho detto alle mie amiche nuove che tu insegni ma Lucy non ci crede, dice che i maestri non insegnano mica i video giochi. Io ho cercato di spiegarglielo papà, ma lo sai come sono stupidi certi bambini. Quando cominciano le vacanze posso venire a trovarti papà?

Lui acconsentì anche se le incertezze erano tante.

«Però stavolta non voglio venire con la barca», disse con una vocina disgustata.

«No, certo, verrai in aereo.»

«Voglio dire quando sono lì. Non voglio andare in barca come l’altra volta».

«Vuoi dire quella volta in giro in motoscafo quando siamo andati in tutte quelle spiaggette? Mi sembrava che ti fossi divertita».

«Non mi piace più l’acqua.»

«Come mai Gabby? Ti piaceva tanto prima».

Non disse altro. Rimasero un attimo in silenzio. «Può venire anche la mamma?»

«Sì certo, se vuole. Forse ti lascia stare anche un mese con me.» Dimentica le incertezze, si disse. Lascia che queste promesse alla piccola ti facciano vedere il lato bello della vita. Considerale delle armi… contro quello che sarebbe avvenuto tra non molto.

«Veramente? Dici sul serio? Posso stare con te più di due settimane?»

«Dipende dalla mamma.»

«Glielo chiedi tu? Adesso, ti prego.»

«Beh, no Gabby, non adesso. Devo prima vedere di risolvere alcuni problemi. Poi potrò essere più sicuro.»

«Ma non ti dimentichi la promessa, vero?»

«Non mi dimenticherò, sta tranquilla.»

«OK, papà. C’è la micia che vuole salutarti.»

«Dille miao da parte mia.»

«Miao anche a te. Beh, non lo ha proprio detto ma si vede che lo pensa. La nonna le ha comprato una cesta ma lei preferisce dormire sul frigorifero.»

«La nonna dorme sopra il frigo?»

«Scemo! Vuoi parlare con la mamma? Ha detto che poi mi legge una storia a letto.»

No, avrebbe voluto invece chiederle di quella storia dell’acqua. I bambini sviluppavano spesso delle fobie improvvise e irrazionali che dopo un po’ di tempo scomparivano. Ma Childes era rimasto sconcertato da quel che aveva detto Gabby. Forse era stato un brutto film in TV, oppure uno dei bambini aveva raccontato qualche storia di annegamenti. In ogni caso nemmeno lui era stato molto amante dell’acqua. «OK. Passami la mamma. Ascolta… ti richiamo presto, va bene?»

«Sì papà, ciao ciao, ti voglio tanto bene.»

Per un attimo terribile ebbe paura di non poter più sentirsi dire quelle parole dalla figlia, ma scacciò il pensiero e rispose: «Anch’io ti voglio bene Gabby, tanto tanto».

Lei gli schioccò sei bacetti rapidi e depose il telefono prima che lui riuscisse a restituirli, ma riprese subito il telefono e aggiunse: «Ah papà, dì a Annabel che mi manca tanto e dille anche della nuova scuola.»

Poi si sentì il tonfo del ricevitore e la vocina di Gabby che chiamava la madre.

«Gabby …». Era andata. Forse aveva capito male, o forse si era sbagliata, volendo dire Amy. Dì a Amy che mi manca … La sua amichetta Annabel era morta, Gabby questo lo aveva capito ormai. Fran le aveva spiegato che Annabel non sarebbe più tornata.

«Eccomi qui Jon». La voce di Fran era come sempre frettolosa.

Childes scosse la testa per schiarirsi le idee. «Senti Fran, Gabby è sempre stata bene ultimamente?»

«Beh non proprio, non ha preso molto bene il trasferimento e poi cambiare scuola è sempre un po’ un trauma, lo sai.» Cambiò tono. «Jon, quando mi chiedi di Gabby mi preoccupi.»

«No, niente premonizioni Fran. Te lo assicuro. Ha mai chiesto di Annabel?»

«Sì, spesso, ma non è disperata come m’aspettavo. Perché me lo chiedi?»

«Mah. Ho l’impressione che creda che la sua amichetta sia ancora viva.»

Fran non rispose subito. Alla fine disse. «Ha cominciato a sognare molto da qualche giorno. Niente sogni brutti, o incubi, però parla nel sonno.»

«Ma ha fatto il nome di Annabel?»

«Sì, un paio di volte all’inizio, ma adesso ha smesso. Credo che abbia accettato l’idea che non la vedrà mai più.»

«Come mai ha improvvisamente paura dell’acqua?»

«Cosa?»

«Pare che non le piacciano più le barche né l’acqua.»

«Questa è nuova. Il fuoco potrei capirlo, dopo quello che ti è capitato, ma l’acqua! Non capisco!»

«Le hai raccontato del La Roche?»

«Certo. Il suo papà è un eroe.»

«Eroe proprio non direi.»

«Troppo modesto!»

«Molti da queste parti vorrebbero sapere come ho fatto ad arrivare a scuola così presto, prima ancora che venissero avvertiti i pompieri.»

«Sei sicuro che la polizia non ti sospetti?»

«Non proprio, ma fino ad ora nessuno è venuto a farmi i complimenti.»

«Oh Jon, non ci posso credere. Non possono essere così stupidi! A momenti ci rimanevi anche tu lì dentro. E poi hai salvato la vita di quelle due bambine e …»

«Ne ho lasciate morire altre sette!»

«Hai cercato di salvarle! Lo hai detto tu, hai fatto del tuo meglio.»

«È successo tutto per causa mia.»

«Smettila di fare il martire e cerca di pensare a te stesso. Solo perché un qualche psicopatico ha scelto te per una sua vendetta personale non puoi incolpare te stesso. Niente di quello che è successo dipende da te. Adesso spiegami cosa fanno quei cretini di poliziotti.»

«Bisogna cercare di vedere le cose dal loro punto di vista.»

«Col cavolo!»

«Volevano sapere come mai ero andato alla scuola prima ancora che scoppiasse l’incendio.»

«Questo deve essere stato difficile da giustificare. Spiegamelo di nuovo.»

«Te l’ho già detto, non facciamo il bis. Comunque mi hanno fatto un casino di domande, persino in ospedale quando ancora mi stavano dando l’ossigeno.»

«Che disgraziati!»

«Cosa t’aspetti con una scuola incendiata, parecchi morti e un poliziotto assassinato? Quella era la seconda volta che arrivavo sul luogo del delitto prima di chiunque altro.»

«E quindi ti sospettano di omicidio e incendio doloso. Fantastico! Jon che cavolo aspetti a scappare di lì? Torna qui, subito! Prendi il volo di mezzanotte oppure il primo di domani mattina. Perché sopportare tutto questo?»

«Non credo che sarebbero molto contenti qui.»

«Non possono mica trattenerti!»

«Potrebbero anche. Comunque non parto, Fran. Non ancora.»

Lei era esasperata. «E perché?»

«Perché è qui Fran. E finché rimane qui non può fare del male a te e a Gabby. Questo lo capisci, vero?»

Sì, lo capiva. E lo disse. Sottovoce.


Childes passò nel soggiorno dirigendosi verso un vassoio di bottiglie su una delle mensole della libreria. Prese la bottiglia di whisky, svitò il tappo, poi si fermò. Non serve a niente, si disse, non stanotte.

Ripose la bottiglia.

La stanza era in ombra, unica luce accesa una lampada da tavolo. Ai due lati della stanza le tende erano aperte e lasciavano penetrare una fredda luce notturna. Il cielo era di un colore metallico e scuro. La luna piena ancora bassa nel cielo terso assomigliava a un’ostia, sottile e candida. Chiuse le tende, lasciando fuori la notte.

Infilò le mani nelle tasche dei jeans e andò verso il tavolino accanto al divano, lentamente, ma con un fare deciso. Una barba vecchia di due giorni gli ingrigiva il mento e aveva lo sguardo fisso e intenso, stanco eppure desto. Si adagiò sul divano, i gomiti sulle ginocchia, e studiò il piccolo oggetto tondo sulla superficie di legno lucido del tavolino accanto. Negli occhi una volontà incrollabile.

La luce della lampada donava alla freddezza traslucida della pietra un certo calore: il blu liquido, cangiante in viola, ricordava i colori dell’inverno.

Scrutò nelle profondità della pietra, come una specie di chiaroveggente con la sua sfera di cristallo, affascinato dalle tenui sfumature di colore ma guardava molto più a fondo, cercando forse dentro se stesso, in realtà cercando altro, un nesso, un collegamento: un codice d’accesso!

Trovò solo nomi. E volti morti. Kelly, Patricia, Adele, Caroline, Isobel, Sarah-Jane. E Kathryn Bates, la governante. Tutte morte. Estelle Piprelly, cenere.

Annabel. Morta.

Ma Jeanette era viva. Amy, la dolce Amy, viva. E Gabby. Stranamente queste ultime tre non erano così chiare nelle sue visioni; il pensiero di esse non aveva profondità, era superficiale, come se non avessero a che fare con questa nuova cosa.

I suoi pensieri si aggiravano tra i morti. Persino quelli che non aveva mai conosciuto.

La prostituta. Il bambino violato nella tomba. Il vecchio con la testa segata via. Gli altri del manicomio. Non voleva vederli, né sentirne le voci, perché cercava qualcosa, qualcun altro. Ma le loro immagini e i loro suoni gli pulsavano davanti, pulsavano dentro la sua mente… palpitavano… crescevano, svanivano… crescevano, svanivano… si espandevano, si contraevano… un pallone prima gonfio, poi sgonfio, incorporeo… una palla di foschia bianca… La luna…

Sussultò e si portò la mano alla fronte, un dolore improvviso e acuto si fece strada attraverso quel sordo risentimento che lo aveva tormentato tutto il giorno. Cadde all’indietro sul divano.

La sua mente aveva quasi toccato…


«Vivienne?»

«Sì»

«Sono Jonathan Childes. Mi dispiace disturbare a quest’ora.»

Un breve silenzio all’altro capo del filo. «Scusa, ho chiuso la porta» disse Vivienne. Childes pensò che doveva esserci Paul Sebire nei pressi. «Come stai Jonathan? Sei riuscito a riprenderti da quella tremenda esperienza?»

«Sì. Sto bene grazie». Fisicamente almeno, pensò tra sé e sé.

«Amy è molto fiera di ciò che hai fatto. E anch’io.»

«Vorrei…»

«Lo so. Vorresti aver salvato anche le altre. Ma hai fatto quello che potevi. Spero solo che catturino presto il pazzo che ha fatto questa cosa orrenda. Dunque, non credo che tu voglia perdere tempo con me. Amy sta riposando nella sua stanza, ora te la passo. So che non dorme perché sono passata da lei poco fa. Sarà contenta di sentirti.»

«Sei sicura che non ci sono problemi?»

Vivienne rise piano. «Sicurissima. Comunque… beh, dovrò andare ad avvertirla invece di chiamarla da qui.»

«Il padre?»

«Il padre. Non è cattivo come pensi, Jon. È solo che gli piace dare un’impressione di durezza. Alla fine capirà, vedrai. Adesso riattacco e vado ad avvertire Amy.»

Attese, la testa ancora gli doleva, la stesso sordo pulsare di prima. Un clic, Amy era in linea.

«Jon, che succede?»

«Niente, niente Amy. Volevo solo sentire la tua voce. Ne avevo bisogno.»

«Sono contenta che hai chiamato.»

«Come ti senti?»

«Come l’ultima volta che mi hai chiamata. Ho sonno, ma devono essere le pastiglie. Non ci sono problemi, è passato il dottore prima, ha detto che i tagli sono molto meno gravi di quanto non sembrasse a prima vista. ‘Belle cicatrici’ ha detto. Potrò alzarmi e uscire già domani, e indovina dove vado?»

«No Amy, non qui. Non è il momento.»

«È lì che voglio essere. Sono in grado di superare qualsiasi problema di gelosia per te e Fran. Non è una cosa facile ma ce la farò. Io voglio stare con te. È inutile discutere.»

«Amy, non devi venire!»

«Spiegami perché?»

«Lo sai il motivo.»

«Tu pensi di rappresentare un pericolo per me.»

«Io sono un pericolo per chiunque in questo momento. Ho persino pensato ai rischi che facevo correre a Gabby chiamandola questa sera. Cerco perfino di evitare di pensare a lei, per paura che questo mostro scopra dov’è.»

«La polizia lo troverà. Non ha modo di andarsene dall’isola.»

«Non credo che gliene importi più niente di andarsene.»

Un dolore lancinante, di nuovo. Childes annaspò.

«Jon?»

«Adesso ti lascio riposare Amy.»

«Ho riposato più che abbastanza. Adesso è il momento di parlare.»

«Domani.» C’era un che di spiacevolmente indeterminato in quella parola. «C’è qualcosa che non vuoi dirmi?» chiese lei quasi con cautela.

«No!» mentì lui. «È solo che sono stanco di stare in disparte a guardare tutte queste atrocità senza fare niente.»

«Non c’è niente che tu possa fare. È compito della polizia sistemare la cosa.»

«Forse.»

Lei avvertì di nuovo quel tono nella sua voce; era solenne ma c’era un fondo di rabbia, un’ira contenuta ma nervosa, l’aveva captata appena aveva alzato il telefono, forse persino prima che parlasse, come se la potenza di quell’energia fluisse lungo i fili. Era impossibile, lei lo sapeva, ma allora perché si sentiva così a disagio, così indebolita da questa… immaginaria?… forza?

«Dormi Amy. Riposati», le disse Jon.

Improvvisamente si sentì stanchissima, quasi lui avesse dato un ordine direttamente al suo corpo. Doveva dormire!

«Jon…»

«A domani Amy.»

La sua voce era vuota, sembrava l’ultimo rimbalzare di un’eco. Il ricevitore le sembrò incredibilmente pesante.

«Sì, a domani Jon», disse lentamente. Le palpebre erano stranamente pesanti. Ma cos’era, un’ipnosi per telefono? «Jon…» tentò di protestare, ma non trovò l’energia necessaria per finire la frase.

«Ti amo tanto Amy.»

«Anch’io…»

Di nuovo un clic, la linea fu interrotta. Un’improvviso profondo senso di perdita quasi la ridestò. Ma lui aveva detto di riposare, di dormire.

Il ricevitore le scivolò dalle dita.


Childes posò il telefono e si chiese se le pillole che Amy prendeva non contenessero anche un sedativo oltre all’analgesico. Andò nel bagno per sciacquarsi la faccia, anche lui si sentiva spossato… e paradossalmente, anche straordinariamente all’erta. Riempì il lavabo d’acqua fredda e si spruzzò ripetutamente il viso premendovi gli occhi chiusi con le dita bagnate. Infine si rialzò scrutandosi nello specchio; si guardò negli occhi notando le pupille arrossate attorno alle lenti a contatto. Se lo specchio avesse potuto rifletterlo, avrebbe notato anche l’alone di brevi raggi bianco-violetti di energia eterea irradiata dal suo corpo.

Si asciugò il viso e le mani, poi tornò nel soggiorno. Di nuovo sprofondò nel divano, resistendo alla tentazione di versarsi un bel bicchiere di whisky. Doveva mantenersi lucido, non poteva rischiare di intorpidire i sensi bevendo. La pietra sembrava più luminosa, la fiammella azzurra era quasi scomparsa.

Di nuovo quel dolore nella testa, piccole staffilate ripetute stavolta. Ma lui sopportò. Solo il desiderio urgente di parlare con Amy aveva interrotto quel lungo esercizio della mente e prima ancora il bisogno di sentire la voce di Gabby. Ora non ci sarebbero state altre interruzioni. Amy e Gabby erano al sicuro, lontane dal pericolo. Poteva concentrarsi liberamente. Ma era doloroso, incredibilmente doloroso. Chiuse gli occhi. E continuava a vedere la pietra.

Li riaprì quando gli parve di sentir bisbigliare. Si guardò attorno. Il bisbigliare cessò. Era solo nella stanza. Richiuse gli occhi.

E di nuovo sentì il sommesso bisbigliare.

Permise alla sua mente di inseguire quei suoni, di assorbirli ed esserne assorbita, e tutto avvenne velocemente. (La ricerca era stata lentissima, ore e ore di sondaggi, di esplorazioni). Fu come una valanga di neve in alta montagna, una massa bianca, soffice e cedevole, che precipitava quasi senza scosse, sprofondando in se stessa.

Bisbigli.

Voci.

Alcune le riconobbe. Erano delle ragazze del La Roche, quelle che si erano fuse in un’unica massa ardente quando erano precipitate nel vortice di fiamme. Incenerite, cremate in un unico cumulo di polvere.

Altre.

Una vocina stridula come quella di Gabby, ma non era la sua.

Altre ancora. Impazzite anche da morte. Quasi ne sentiva la presenza.

Voci che lo mettevano in guardia. Altre che gli davano il benvenuto.

La testa gli girava. Ora la pietra era diventata la luna, una luna palpitante e che si espandeva, incombeva… minacciava…

… Raggiunse, stavolta in modo completo, la mente malata e maligna dell’altro…


* * *

Se l’agente Donnelly non avesse considerato sacra ogni forma di vita persino quella dei conigli che si bloccavano in mezzo alla strada paralizzati dai fari delle macchine, probabilmente non avrebbe perso le tracce della macchina che aveva l’ordine di pedinare.

Sta di fatto che aveva visto Childes uscire dal cottage, ben visibile illuminato com’era dalla luna, salire in macchina e allontanarsi lungo il viale. Dopo averne dato comunicazione alla centrale il poliziotto si era messo in moto, rimanendo a una distanza discreta ma sufficiente.

Il coniglio (ma forse era una lepre? Dicono che le lepri hanno una morbosa soggezione della luna e corrono all’impazzata le notti in cui brilla) era apparso a una curva e Donnelly aveva frenato appena in tempo, sterzando verso sinistra, fermandosi sul ciglio con il muso dell’auto nella siepe.

Il coniglio (o la lepre, come si faceva a riconoscerli?) era rimasto lì, accucciato in mezzo alla strada, tremante di terrore, gli occhioni neri e lucidi che fissavano tremebondi il buio. Il poliziotto era dovuto scendere per scacciare quella stupida bestiola. Quando l’agente Donnelly aveva ripreso l’inseguimento i fanalini di coda della Renault erano scomparsi.

Pareva che la macchina e il suo autista fossero svaniti nel nulla, ingoiati dal paesaggio imbiancato dal chiaro di luna.


* * *

Prima fu lo scampanellio alla porta a scuoterla dal sonno, poi il suono delle voci la risvegliò del tutto. Una era sicuramente quella del padre, ed era arrabbiato. Tirò via il lenzuolo, con un leggero sforzo si mise in piedi, si avvicinò alla porta della stanza zoppicando un poco e socchiuse la porta quanto bastava per sentire.

Le voci le giungevano comunque soffocate, ma il padre evidentemente stava reclamando per l’ora tarda a cui avveniva la visita. Le sembrò di riconoscere anche le altre due voci. Amy si unì alla madre che si trovava accanto alle scale e guardava l’atrio in basso dove i tre uomini stavano discutendo. Uno era appunto Paul Sebire, ancora vestito perché stava lavorando nello studio. Gli altri due erano l’ispettore Robillard e Overpy. Amy si domandò come mai Overoy fosse di nuovo sull’isola. Rimase accanto alla madre e ascoltò.

«È assolutamente ridicolo Robillard,» stava dicendo Sebire, «perché mai dovrei sapere dov’è? In tutta franchezza, se anche non lo vedessi mai più non mi dispiacerebbe affatto.»

Fu Overoy a rispondergli. «Voglio sapere se la signorina Sebire ha parlato con lui oggi.»

«Può darsi che mia figlia e lui si siano sentiti in questi giorni, ma Aimée non ha idea di dove possa essere a quest’ora di notte.»

Amy e la madre si scambiarono uno sguardo d’intesa. «Vai a prendere la vestaglia e vieni giù» disse Vivienne alla figlia, e si diresse verso le scale. «Ispettore!» lo chiamò scendendo. «Amy ha ricevuto una telefonata da Jonathan stasera.»

Paul Sebire guardò la moglie prima sorpreso quindi infastidito.

«Ah!» fece Overoy, e attese che fosse scesa. «Potremmo scambiare qualche parola con la signorina? È una cosa molto urgente.»

«State a sentire!» esclamò Sebire. «Mia figlia sta dormendo e non deve essere disturbata. Non si è ancora rimessa dall’incidente.»

«Non c’è nessun problema, sono qui.»

Sebire si voltò di scatto e vide la figlia sulle scale. Amy non lo guardò nemmeno; non gli aveva quasi più rivolto la parola da quando aveva saputo che aveva aggredito Jon all’ospedale.

Overoy guardò con dispiacere la benda sull’occhio di Amy e il suo braccio ingessato. Camminava rigida e zoppicava. I segni delle ferite deturpavano un poco il volto levigato e abbronzato che ricordava dai loro precedenti incontri.

«Ci dispiace darle disturbo a quest’ora, signorina» si scusò Robillard, decisamente a disagio in quell’atrio con la porta d’ingresso ancora aperta alile loro spalle. «Ma come abbiamo già spiegato al signor Sebire si tratta di una cosa molto importante.»

«Non si preoccupi ispettore, se si tratta di Jon sono prontissima ad essere d’aiuto. Cosa è successo?»

«Dovresti essere a letto a riposare, Amy» fece Paul Sebire quasi supplicandola.

«Falla finita papà! Sai benissimo che il medico ha detto che domani posso alzarmi e anche uscire, se voglio.»

Overoy intervenne: «Mi dispiace molto del suo incidente, signorina. Jon mi ha detto tutto. E il suo occhio…?»

Nonostante l’ansia di sentire cos’era successo a Jon, Amy sorrise. «Niente di grave a quanto pare, non avrò problemi alla vista. La benda serve solo ad evitare infezioni all’occhio e per farlo riposare per qualche giorno. Ma mi dica tutto, per favore».

Vivienne si avvicinò alla figlia e le passò un braccio attorno alla vita.

«Il signor Childes è scomparso dal suo cottage» disse l’ispettore Robillard. Oltre la sua spalla all’esterno Amy notò che erano parcheggiate molte auto della polizia, non solamente la loro. Le venne un nodo alla gola. «Uno dei nostri agenti che lo sorvegliava… ha perso le sue tracce mentre lo seguiva in campagna.»

«Non capisco.»

«Ci chiedevamo se Jon non avesse telefonato a lei per dirle dove intendeva andare» le spiegò Overoy, grattandosi la tempia con un dito macchiato di nicotina.

Amy guardò prima uno poi l’altro poliziotto. «Sì, mi ha chiamato prima ma non ha detto che usciva. Semmai sembrava stanco. Ma perché lo volete sapere? Non sarà mica sospettato di qualcosa?»

«Non lo è mai stato per quello che mi riguarda» affermò Overoy, guardando con una punta di disprezzo il collega. «Io ho preso il primo volo perché volevo parlare con lui. Spero anche di poter aiutare la polizia locale ad effettuare un arresto.»

Fece una pausa guardandoli entrambi e aggiunse: «Abbiamo identificato la persona responsabile di queste follie. Abbiamo fatto accertamenti e sappiamo che è sull’isola. Ma potrebbe arrivare a Jonathan Childes prima di noi.»


* * *

Childes rimase dentro la macchina, improvvisamente preso da una paura terribile. L’aveva attirato in quel luogo, inducendogli nella mente l’immagine di un grande lago illuminato dalla luna. Ma non esisteva un lago di quelle dimensioni sull’isola. C’era solo questa distesa di acqua, una valle che era stata sbarrata da una grande diga, formando ora una riserva di acqua alimentata dai torrenti che scendevano verso il mare.

Una voce, era stata proprio una voce, forse un pensiero, lo aveva invitato, attirato con una promessa.

Chi istigava quel pensiero non aveva sostanza, o forma. Quando Childes cercava di concentrarsi, la sua coscienza si richiudeva in se stessa. Dietro gli occhi Childes vedeva una sorgente di luce, una luna che si stagliava netta contro gli abissi della sua mente e impediva ogni raziocinio.

Lo voleva lì, e Childes non aveva opposto resistenza.

La promessa! Un movente?

La fine delle morti. La fine della tortura. E, forse, una risposta ai suoi stessi misteri.

Questo pensiero lo spinse ad aprire lo sportello, così come lo aveva guidato attraverso i viottoli di campagna fino a lì. Era sicuro di essere seguito quando era partito dal cottage. Una macchina della polizia, sicuramente, sapeva di essere sorvegliato giorno e notte, ma le luci dietro a sé erano scomparse, l’altro aveva probabilmente preso una svolta diversa nell’intrico di viuzze. Stava diventando anche paranoico? Beh, si poteva anche capire.

La notte era fresca malgrado la stagione, una brezza soffiava dal mare dando sollievo alla terra dopo la calura diurna. I jeans e il maglione non erano sufficienti per scaldarlo, aveva continui brividi lungo la schiena; si tirò su il bavero della giacca attorno al collo. La luna piena era sempre tersa, non offuscata da nuvole, e il suo freddo chiarore illuminava la campagna; sembrava stranamente piatta, e le ombre erano nere e insondabili. Il cielo era tanto luminoso da rendere invisibili i milioni di stelle che lo costellavano. Mentre Childes si avvicinava alla diga gli parve che il paesaggio si fosse congelato intorno a sé.

Era teso e all’erta, con gli occhi scrutava il terreno attorno. Una figura immobile si sarebbe confusa facilmente con le ombre scure e le forme strane dell’ambiente. Quel cespuglio poteva essere una belva in agguato; quel tronco con le radici tese che affioravano in superficie sembrava un uomo seduto; quel boschetto poteva nascondere un predatore notturno.

Si disse che sarebbe stato meglio farsi seguire da una pattuglia della polizia. Avrebbe dovuto chiamare Robillard prima di uscire. Ma come faceva a spiegare all’ispettore, che era piuttosto scettico nei suoi confronti, che quella sera la sua mente si era fusa con quella di un altro? Questa volta però la comunione era stata completa, con Childes all’offensiva, cercando e sondando, sorprendendo l’altro con la propria forza, e poi, gradualmente lasciandosene assorbire.

Da quell’essere!

Come spiegare la silenziosa, tormentosa battaglia delle menti che ne era seguita? La creatura lo derideva insultandolo con gli orrori delle morti avvenute rivelandogliele come in un disordinato montaggio di immagini, ogni inquadratura contenendo le sensazioni, gli odori, il dolore e la paura dell’avvenimento reale, come in una nuova, incredibile dimensione cinematografica.

Il vecchio che si lamentava debolmente mentre la sega intaccava l’osso.

Il terrore folle di Jeanette, appesa alla balaustra, strozzata da una cravatta annodata, salva ma non risparmiata dall’esperienza della morte.

La prostituta, la prima visione di Childes, le sue viscere strappate, allora non sapeva che sarebbe stata la prima di un torrente di macabre apparizioni, un incubo continuo.

La mano carbonizzata di Kelly. La scuola in fiamme prima ancora che venisse appiccato il fuoco.

Il bimbo morto, il suo corpo dissacrato e dilaniato, gli organi putrescenti sparsi sull’erba accanto alla fossa.

Annabel. Povera piccola Annabel, scambiata per Gabby, le sue povere piccole dita smembrate e avvolte in un pacchetto.

E aveva visto l’orrenda morte di Estelle Piprelly, immobilizzata a terra, con il collo spezzato, un rivolo di fuoco che correva verso il suo povero corpo.

Come spiegare questa macabra sequenza a un ispettore di polizia pragmatico, per non dire cocciuto? Spiegargli come sapeva dove sarebbe andato, che l’immagine del lago argentato si era srotolata nella sua mente come un’onda sulla risacca. E che in questo luogo tutto sarebbe arrivato alla conclusione. Non erano cose che si potevano spiegare in modo logico. Potevano solo essere sentite, o credute sulla fiducia. Non erano in molti ad avere quel tipo di fede. Lui stesso per buona parte della vita non l’aveva avuta.

Alle spalle aveva la stradina che correva attorno al lago per poi scendere verso la valle. Salì i larghi pietroni posti a formare una scalinata che conduceva in cima alla diga e sostò ad osservare la lunga passerella di cemento con i parapetti in ferro. Robusti pali di cemento posti a rinforzare ad intervalli regolari i parapetti da ambo i lati, erano ricoperti di firme graffiate sulla superficie da turisti di passaggio; dagli interstizi delle pietre che lastricavano il passaggio sbucavano fasci d’erba. Dall’altro lato si ergeva una torretta ottagonale dove erano alloggiati i meccanismi di controllo della diga.

Childes avanzò. Si sentiva vulnerabile sulla diga, e si guardava continuamente davanti e dietro. La luce biancastra aveva un effetto surreale e incolore sull’ambiente. La superficie del lago pareva una lastra di alluminio appena ruvida, tanto appariva solida; ma sotto si avvertiva la profondità minacciosa dell’enorme massa d’acqua. Cadervi significava venire risucchiato in un’oscurità senza fondo, in cui schiantarsi più che annegare.

Contò i gradini, sette in tutto, il corridoio si prolungava in un ponte sospeso nel vuoto. Lui si portò al centro e attese, solitario e spaventato ma deciso.

Childes sentiva il mare da quel punto, riusciva addirittura a distinguere le creste bianche delle onde che s’infrangevano incessanti contro la scogliera lontana. La notte era limpidissima, spazzata da una brezza pungente che gli scompigliava i capelli mentre guardava oltre il parapetto, in basso verso valle. Il muraglione s’incurvava verso l’esterno terminando alla base in un bacino di drenaggio. Da lì un condotto convogliava l’acqua sottoterra verso il mare. Non lontano dal bacino c’era la grande stazione di pompaggio e inoltre la centrale elettrica circondata da depuratori. Luci lontane s’intravedevano all’altro lato della valle. Gente che si godeva la notte, egli ne invidiò la tranquillità.

Un animale svolazzò sopra la sua testa, troppo erratico il volo per poter essere un uccello; probabilmente un pipistrello che, in perfetta sintonia con quella notte, sparì nel buio. Il battere delle sue ali come lo sfarfallio di un cuore impaurito.

Mentre aspettava, le apparizioni tornarono ad invadergli la mente, assalendolo con rinnovata intensità; per l’ennesima volta si chiese quanta malvagità albergasse nella mente di colui che aveva commesso quei crimini. Childes si era sforzato la niente per giorni interi, guidato ora dall’accettazione di ciò che aveva rimosso dalla coscienza per anni; la sicurezza era diventata più forte e dava vigore al suo potere misterioso.

Ricordava ora altre occasioni in cui aveva respinto le apparizioni, le premonizioni valutandole semplici intuizioni, coincidenze casuali; aveva talmente rifiutato quella dote psichica da riuscire a dimenticare completamente quegli episodi fino a quel momento.

Si ricordò di un amico d’infanzia che egli aveva visto morire investito da un’auto pirata. L’incidente era poi realmente avvenuto molte settimane dopo. Aveva visto uno zio colpito da un attacco cardiaco. Alcuni mesi dopo l’uomo era in coma con una sclerosi coronarica acuta. E aveva visto la morte della madre molto tempo prima che il suo corpo fosse consumato dal cancro.

Suo padre era stato crudele con lui quando gli aveva rivelato queste sensazioni in seguito, dopo la morte di sua madre. Lo aveva picchiato per averla predetta incolpandolo di averla causata. Lo aveva picchiato così tanto da rompergli il naso e tre costole e lo aveva costretto poi a confermare con i medici che lo avevano curato la versione di essersi ferito cadendo dalle scale.

Ma peggio ancora, nei giorni che erano seguiti lui aveva cominciato a credere alla versione del padre. Aveva creduto veramente di aver provocato la morte della madre. La colpa annullava quasi il dolore delle ossa rotte e quando la febbre, che nasceva più dal rimorso che dalle lesioni, era passata, lui aveva ormai eretto un muro incrollabile attorno alle sue capacità sensitive, chiudendovi dentro anche il senso di colpa che ad esse si accompagnavano.

L’assassinio dei bambini tre anni prima aveva in qualche modo forzato un’apertura in questa barriera, aveva scatenato nuovamente i procedimenti precognitivi.

E ora il nuovo mostro aveva abbattuto definitivamente l’argine allagando la sua mente di sensazioni. Il suo subconscio era tornato indietro a riconsiderare la sua misera infanzia. E il bimbo che era stato, aveva allora visto il suo se stesso futuro in quegli occhi che lo guardavano dal soffitto.

Queste risposte ovviamente comportavano altri misteri, ma questi appartenevano alla sfera psicologica, segreti che riguardavano la psiche dell’uomo, i segreti della mente.

Questi pensieri gli si affollavano dentro mentre attendeva in alto sulla diga. Facevano sorgere in lui un’esaltazione spossante, come se si trovasse sull’orlo di una nuova esperienza sensoriale. Osservò la luna e vide che era straordinariamente luminosa, potente e glaciale, dominava il cielo notturno con una vitalità liquida. Il corpo di Childes vibrò di tensione.

Sentì di non essere più solo.

Si guardò alle spalle, da dove era arrivato.

Nulla si muoveva.

Guardò davanti a sé dall’altro lato della diga dove c’erano altri gruppi di alberi, altre ombre scure tra i cespugli, un altro sentiero che si diramava dalla stradina.

Lì, qualcosa si muoveva.


* * *

Lo aveva atteso nel buio rifugio e sorrideva, un ghigno satanico. Così finalmente era arrivato!

Era un bene poiché si avvicinava il loro momento. Ora, sotto la luna piena. Molto appropriato.

Uscì da sotto gli alberi e avanzò verso la diga.


* * *

Se la paura aveva dei confini Childes pensava di averne raggiunto il limite. Dovette appoggiarsi al parapetto per sostenersi, Te gambe improvvisamente deboli. Lo stomaco gli sembrava pieno di piume agitate, il torace rigido faticava a respirare. Persino le braccia gli sembrarono inerti e pesanti, come senza muscoli.

Era sulla diga, una figura nera e goffa illuminata dalla luna che avanzava verso di lui, il corpo basso e tarchiato dondolava leggermente ad ogni passo, arrancando in modo sgraziato, senza alcuna fluidità.

Mentre la figura avanzava lui sentiva la risata malvagia nella sua mente. Una risata rapace che lo raggelò, lo catturò.

Childes strinse più forte il parapetto. Oh Dio, è dentro la mia mente, più forte che mai!

Riuscì ben presto a scorgere il profilo del corpo grossolano. Le spalle larghe ma cadenti, coperte da una massa di capelli ricci e spessi. Il naso e il mento. Le superfici della fronte e delle guance. E il taglio largo e scuro della bocca sogghignante.

Si avvicinò di più, oltrepassò la torretta, il corpo scomparve per un attimo dietro al muretto. Poi riapparve, prima la testa poi le spalle, mentre saliva i gradini. Aveva ancora gli occhi in ombra, pozzi bui che contenevano una minaccia scura e insondabile come l’acqua del lago.

Il corpo sembrava sorgere da una tomba, una testa grossa, con i capelli disordinati, gli occhi nascosti, il ghigno sempre più vicino, la mente protesa, verso di lui. E c’era un’altra cosa che lo disturbava di questo corpo che si trascinava più che camminare, qualcosa che diventava sempre più evidente mentre avanzava, fin quando non si fermò a poco più di tre metri da lui.

Fu solo allora, quando alla fine poté guardare quel volto ora illuminato dalla luna, e vide le fessure degli occhi, piccoli e neri, che capì; quando parlò la voce non rivelava nulla del suo sesso, tanto era bassa e gracchiante.

«Mi sono… molto… divertita» disse, scandendo le parole. Il gorgoglio della risata era orribile quanto la voce e lo colpì come una mazzata. Si aggrappò ancora di più al parapetto.

La donna si avvicinò di un altro metro e lui notò che le sue caviglie sotto una gonnellona larga erano gonfie e fuoriuscivano dagli scarponi allacciati come se la carne si stesse sciogliendo. Una giacca a vento enorme e laida le ricopriva la parte superiore del corpo.

Childes si costrinse a stare diritto. Nella testa gli ronzavano pensieri confusi, la nausea gli otturava la gola. Sentiva l’odore di questa donna, sentiva il puzzo della sua follia! Deglutì, cercando disperatamente di ritrovare le forze.

L’unica domanda che gli venne in mente fu: «Perché?»

La parola fu solo un rantolo, ma lei capì. Sentì, vide, che cambiava atteggiamento, non più divertita.

«Per Lei!», rispose con quella voce afona e allungò il collo per rivolgersi verso la luna. «Per la Mia Signora!»

Aprì la bocca e lui vide i denti storti e anneriti. Sembrò bere la luce della luna e quando voltò di nuovo la testa per un attimo sembrò che la luce bianca che si rifletteva nei suoi occhi piccoli e crudeli provenisse dal suo interno, la luna era dentro di lei e gli occhi non erano che finestrelle attraverso cui filtrava la luce. L’illusione durò poco, ma l’immagine si fissò nella mente di Childes.

«Dimmi… dimmi, chi sei?» chiese Childes balbettando, dubitando della propria sanità di mente.

La donna grossolana lo guardò a lungo prima di rispondergli ancora. I suoi occhi ora erano spenti ma aveva uno sguardo più cupo, più maligno. «Non lo sai?» gli chiese sempre scandendo le parole. «Non hai imparato niente di me? Io ho saputo tante cose di te, bello mio.»

Lui si staccò dal parapetto. «Non capisco» riuscì a dire, cercando di mantenere ferma la voce, e tentando di far smettere il tremolio delle gambe. È solo una donna, si disse, non è un mostro, è solo una donna. Ma era una donna pazza, gli disse una vocina stridula nella testa. Una pazza eccezionalmente forte, disse ancora. E sa che tu sei terribilmente spaventato, bello mio!

«Ti ho rubato la bambina». La donna ridacchiò. Aveva cambiato di nuovo umore, anche Childes ne subiva l’influenza, come se i loro sentimenti fossero collegati.

«Non la tua bambina…» disse maliziosa, «… per sfortuna. L’altra bambinella. Come si dimenava la piccola, quanto lottava!»

Un inizio di rabbia gli fiammeggiò dentro, una fiammella persa nel buio della paura. La fiamma si dilatò disperdendo una parte delle tenebre.

«Tu … hai ammazzato Annabel» disse secco.

«Anche le altre». La sua voce era un ruggito cupo, un ruggito quasi divertito. «Non ti dimenticare le altre. Anche quelle ragazze erano per la Mia Signora.»

La brezza che soffiava sulla diga si era fatta più fredda, più intensa, e portava con sé l’odore salmastro del mare.

«Le hai assassinate.»

«Il fuoco le ha assassinate, bello mio. E anche la donna che ha cercato di fermarmi. Il fuoco ha ammazzato anche quei ritardati nel manicomio. Oh, come mi sono divertita in quel posto lì.» Sporse in avanti la testa con fare confidenziale, gli occhi di nuovo in ombra. «Sì, come mi sono divertita!» ripeté sottovoce. «Il mio manicomio. Nessuno credeva a quegli imbecilli, alle loro storie pietose. Chi avrebbe mai creduto a quello che facevo loro quando li beccavo da soli? Chi può credere a dei pazzi? Era così divertente, così piacevole! Che peccato che sia tutto finito, ma tu ti stavi avvicinando, non è vero, bello mio? E tu mi avresti denunciata, vero? Hai fatto infuriare la Mia Signora.»

Ora Childes si era leggermente avvicinato a lei. «Continuo a non capire, quale signora?»

Fece una smorfia, o forse era una sorta di sorriso malvagio. «Ma come, non lo sai? Non hai sentito il suo potere divino dentro di te? Il potere della Dea della Luna che cala e che cresce con i cicli del pianeta? Non senti la sua forza nelle nostre menti? Hai anche tu il ‘potere’, bello mio. Non capisci?»

«Le visioni…»

Diventò impaziente, Childes sentiva la sua irritazione. «Chiamala come ti pare, non ha alcuna importanza. Quando il ‘potere’ è in comunione, quando le nostre menti sono unite … come adesso, la sua forza è meravigliosa, così… potente.» Il pensiero la lasciò senza fiato e dondolò sui piedi, ammirando di nuovo la sfera bianca nel cielo.

Il puzzo della sua follia era rancido.

Si immobilizzò e abbassò la testa. «Non ti ricordi più del nostro giochino con le macchine?»

«I computer?» Scosse la testa perplesso. «Tu hai fatto apparire la parola MOON sugli schermi!»

Rise, e il suono era minaccioso. «Tu hai fatto apparire la parola nelle loro teste! Non sulle macchine, caro il mio sciocco. Lo abbiamo fatto insieme, tu e io, abbiamo fatto vedere alle tue brave ragazzine quello che volevamo! E io ho fatto vedere a te ciò che volevo.»

Illusioni! Erano tutte illusioni. E forse era meglio così, era più normale, più logico, sapere che niente di tutto ciò era vero.

«Ma perché?» la pregò. «In nome di Dio perché sono dovute morire?»

«Non per Dio, ma per la nostra Dea. Agnelli sacrificali, bello mio. Per la loro energia spirituale, che non era un granché, comunque. Era interessante nella donna invece, quella a cui ho rotto il collo.»

«La signorina Piprelly?»

Scrollò le spalle immense. «Se è così che si chiamava. Hai capito di che energia parlo, vero? La chiameresti forza psichica, o qualche altra parolona così. L’energia che è racchiusa qui dentro.» Si toccò la fronte con un grosso dito e Childes rabbrividì nel constatare quanto fossero grandi le sue mani. Mani potenti, gonfie come il suo corpo.

«Ma quella della donna era niente in confronto alla tua, bello mio. Oh no, la tua è speciale. Ti ho guardato dentro, ho toccato il tuo spirito. Tanta forza, e trattenuta così a lungo! Ma ora appartiene a me.»

Sogghignò ancora e si avvicinò.

«E tutti gli altri?» chiese Childes, che aveva bisogno di tempo affinché la rabbia gli prestasse forza. «Perché li hai mutilati in quel modo?»

«Ho assaggiato le loro anime attraverso le loro carni interne. Era il solo modo, capisci bello mio? Li ho svuotati e poi riempiti di nuovo, ma non con i loro stessi organi … no, no, altrimenti gli organi si sarebbero ripresi l’anima, e la loro anima apparteneva alla Dea. Ma ho lasciato loro una pietra, la Sua presenza materiale sulla terra. L’hai conosciuto il suo spirito terrestre, vero? Quella fiammella azzurra che è la sua essenza. Era il mio dono a quegli sfortunati che dovevano morire per lei.»

Pazza. Era completamente pazza. E si era avvicinata molto, troppo.

Un terrore muto e gelido lo serrava con dita d’acciaio, immobilizzandolo mentre lei tendeva una di quelle grosse mani verso di lui. Le dita si schiusero lentamente, il palmo rivolto in su in modo che la luna ne illuminasse la superficie.

«Ne ho una anche per te» sibilò, sorridendo per tutto quanto era implicito nell’offerta.

Una minuscola pietra di luna giaceva nella sua mano aperta, ma forse era la mente di quella donna folle ad agire sulla sua, impiantandovene il pensiero, l’illusione. Era indubbio che la donna possedeva una forza mentale incredibile. Dentro la gemma un fulgore, una fosforescenza azzurra che la luce della luna rendeva ancora più vivida. E in quella luce egli ripercorse nuovamente tutte le morti.

Con un grido di rabbia Childes colpì la mano protesa e la pietra volò in aria, una minuscola stella cadente che sparì subito nel vuoto della valle.

La folle donna che aveva in sé quella temibile energia rimase immobile in silenzio, la mano sempre protesa, il volto dagli occhi in ombra insondabile. Anche Childes rimase inchiodato, l’aria tra di loro sembrava pericolosamente carica, una corrente insidiosa pareva scorrere dall’uno all’altro. I peli gli si drizzarono sulla pelle. Un pensiero gli esplose nella mente e lo fece barcollare.

Amy era riversa a terra dietro il basso muretto accanto alla strada, con il viso pieno di frammenti taglienti di vetro, il collo ritorto in modo strano, la testa contro un tronco d’albero, la bocca aperta da cui colava sangue schiumoso.

«Noo!» urlò. Il pensiero svanì.

La scura fessura sul viso della donna era un ghigno.

Si coprì il volto con le mani appena lo colpì un’altra visione.

Jeanette appesa sulle scale, il collo strozzato dal cappio della cravatta, la carne tumefatta che premeva sui bordi. La lingua gonfia le usciva dalla bocca allungandosi come un orrido verme violaceo che le strisciava lungo il mento. Gli occhi sporgevano dalle orbite, prima uno poi l’altro uscirono dalle cavità e rimasero appesi per i nervi contro le guance. Un rivolo di liquido giallastro le colò tra le gambe macchiandole un calzino bianco, poi cadde gocciolando nella tromba delle scale.

«Non è reale!» urlò ancora.

Gabby sdraiata, il piccolo corpo bianco, nudo e immobile, come la morte stessa. Lo stomaco squarciato, le viscere appiccicose penzolanti, palpitanti e sguscianti come orrendi parassiti. La bocca si aprì e ne uscirono altre cose striscianti, portandosi dietro la sua piccola esistenza. Le dita erano state mozzate, anche i piedi erano senza dita. Lo chiamava. Papaaà!

Papaaà! Papaaà!

«ILLUSIONE!» gridò forte.

Ma quella cosa che lo sfidava su quella diga rideva, una risata profonda e malefica quanto la mente sconvolta che la emetteva.

La testa gli fu scagliata all’indietro colpita da una forza invisibile. Si toccò la guancia bruciante e sentì caldo. Eppure non si era mossa. Il suo ridacchiare lo tormentò come le fredde dita d’acciaio che lo toccavano stringendogli forte i testicoli. Il dolore lancinante lo fece piegare in due.

«Illusione, bello mio?» disse l’orrenda voce.

Strillò e cadde a terra quando la mano invisibile diventò rovente e gli penetrò nell’ano, bruciandolo su fino alle viscere, stringendogli gli intestini in una morsa di fuoco.

«Illusione?» ripeté.

Malgrado il dolore fosse sovrumano Childes capì che non era realtà; la terrificante intensità del dolore scacciava persino la paura, e con essa quello spaventoso controllo che la donna esercitava su di lui.

Il dolore cessò appena ebbe compreso questa verità. Ma era spossato e accasciato contro il parapetto. Fissò la forma immobile e nera della donna.

«Illusione» ribadì senza più fiato.

La sua ira lo avvolse come una raffica di vento, schiacciandolo al suolo. Ebbe una sensazione pungente agli occhi e vedeva sfocato, si strappò via le lenti a contatto che caddero a terra, due frammenti di plastica accartocciati. Cercò di alzarsi in piedi aggrappandosi al parapetto, gli occhi lacrimavano.

Una pressione sconosciuta lo teneva inchiodato, ma Childes lottò, agguantando l’orlo del parapetto con una mano. Non è reale, non è reale, continuava a ripetere. Poi fece un tentativo per colpire quel mostro. Non con il corpo. Non con i pugni. Con la mente, le tirò un colpo con la mente. Fu sorpreso di vederla oscillare per un attimo.

Lei lo aggredì di nuovo e Childes indietreggiò, sbattendo la schiena contro il parapetto. Ma stavolta gli attacchi non erano così duri, erano meno efficaci.

Sentiva delle voci, distanti e un po’ vaghe. Erano dentro la sua testa, irreali come i pensieri brutali che lei gli inviava. Childes la colpì di nuovo, mentalmente, e la sentì accusare il colpo. Era impossibile, lui sapeva che era impossibile, ma le stava facendo male.

Le voci si fecero più forti, ma venivano sempre da dentro e non avevano a che fare con quella notte.

Sembrava che anche lei ascoltasse, ma lo colpì di nuovo, torturandolo con la mente. Dita crudeli e graffianti, che non erano vere, gli scavavano il volto, gli strappavano le carni. Ne sentiva la pressione ma non il dolore. Una strana vibrazione gli si propagava per tutto il corpo, come se gli scorresse nelle vene e nei nervi al tempo stesso. Le voci aumentavano e diminuivano d’intensità.

«Adesso basta, bello mio.» Udì il suo brontolio gracchiante. «Hai finito di giocare!»

Avanzò verso di lui, le grosse mani protese come morse.

La rabbia lo salvò. Serrò il pugno e colpì forte quel grosso viso carnoso. La prese sul naso ma lei voltò la testa attutendo il colpo. Sgorgò sangue dal suo labbro superiore.

Una delle grosse mani scansò facilmente la sua e poi lei gli fu sopra, schiacciandogli il corpo con il suo peso ingombrante. Il respiro le raschiava in gola. Una manaccia gli premette contro il mento spingendogli la testa all’indietro tanto che era certo che gli si sarebbero spezzate le ossa del collo. La colpì di nuovo al viso ma lei pareva non sentire i colpi. Cercò di divincolarsi, ma lei era troppo forte. La sua schiena fece un arco all’indietro, oltre il parapetto e lui sentì il vuoto aprirglisi sotto.

Tentò di prendere inutilmente a calci l’obeso corpaccio della donna. La mente gli si raggelò. Stava per morire.

Curiosamente si accorse della brezza che gli sfiorava una guancia, ed era conscio dell’abisso alle sue spalle. Aveva gli occhi pieni di immagini della bianca luna sopra di lui, i cui contorni ora gli sembravano sfuocati mentre impassibile illuminava la scena. Sentì il puzzo fetido del suo alito, caldo e amaro per lo sforzo, e l’odore del suo corpo, rancido e sporco. I suoi sensi erano così acutamente scoperti che i suoi pensieri si mescolavano a quelli di lei, le loro psiche individuali quasi fuse in una, e lui la conobbe allora, riconobbe la sua follia, si ritrasse quando gli parve quasi di caderci anche lui. E facendo retrocedere la mente si accorse che le voci stridule erano anche nella sua mente, le udiva anche lei.

Aveva quasi perso l’equilibrio. Lei lo teneva sollevato contro il muretto. Ma si era distratta, cercava con lo sguardo le voci. Scrutò in fondo alla diga, bianca struttura massiccia contro il buio.

Childes riuscì a toccare terra con la punta dei piedi, girò la testa nella stessa direzione, ne seguì lo sguardo.

Vide delle forme annebbiate che si avvicinavano.


* * *

Arrivavano dalla notte come lembi di foschia, nebulosi e vaghi, appena un accenno di fisicità che attraversava l’aria, sottili forme eteree senza sostanza.

Ma le voci che Childes sentiva gemere dentro la propria coscienza erano le loro.

Dapprima sembravano un unico essere, un delicato banco di nebbia che si muoveva lentamente lungo la cresta della diga, ma poi avevano preso a separarsi, a dipanarsi in strutture plastiche individuali, entità separate. Ognuna con una propria forma distinta dalle altre.

La presa della donna si allentò, e sul volto grasso e gonfio si dipinse un’espressione perplessa. Ma era assai più che un’incertezza sorpresa, le sue reazioni erano diverse. Childes lo sentiva attraverso la sua mente; era un tremore, una vena di paura. Si liberò della presa e scivolò sul cemento, i polsi stremati dalla fatica, le spalle addossate pesantemente al muretto.

Lei non si era nemmeno accorta del suo divincolarsi, tanto era assorta nell’osservazione di quegli spettri trasparenti. Aveva le ciglia aggrottate che formavano profonde fenditure nella pelle grassa. Teneva le mani chiuse davanti a sé come se stringesse ancora Childes. Fece un passo all’indietro, il corpo obeso posto ad angolo rispetto ai fantasmi avanzanti, solo la testa era sempre voltata nella loro direzione.

Erano sempre più vicini. Childes era indebolito, come se quelle forme incorporee gli succhiassero le forze, sfruttassero la sua energia: ma anche la pazza stava indebolendosi poiché quegli esseri suggevano anche la sua forza.

Cominciò a capire che cosa aveva voluto dire quando aveva descritto il loro potere come meraviglioso. Ma aveva capito veramente quanto poteva essere meraviglioso? Ormai diventava chiaro che cosa fossero queste apparizioni che si andavano lentamente consolidando. Brividi elettrici gli percorsero il corpo e si lasciò andare contro il parapetto.

La donna, la creatura oscena che gli stava di fronte, era in piedi al centro del passaggio come un monolite basso e largo; la luce della luna illuminava le forme pallide che avanzavano, sempre meno incorporee, sempre più vicine.

Il primo era un ragazzo, poco più di un bambino. Un bambino pallido ed emaciato. Un bambino le cui carni erano esangui, gli occhi senza vita e che tremava di freddo. Un piccolo bambino cui era stato squartato lo stomaco, lembi di pelle penzolavano nel vuoto. Aveva la bocca spalancata e dentro c’era della terra, e delle pallide larve che sempre si nutrono di cadaveri. Le labbra decomposte si muovevano senza emettere suoni eppure si udivano le parole.

«I ammeo» disse il ragazzo, le parole smozzicate nella testa di Childes e della donna, come se i vermi che mangiavano la sua lingua rosicchiassero annche i suoi irreali pensieri.

«I ammeo.» (Ridammelo.)

«O oio iietro.» (Lo voglio indietro.)

La mano scheletrica si protese cercando il cuore che gli era stato rubato.

La donna barcollò e stavolta fu lei ad aggrapparsi al parapetto. Ma un’altra figura eterea si fece avanti dietro al bimbo; era una donna, aveva il rossetto sulle guance come se una mano violenta glielo avesse spalmato sul viso. Il mascara le scorreva giù in grossi rivoli nerastri, dandole l’aspetto di un pagliaccio miserabile, buono solo per spaventare dei bambini. Come il bimbo era nuda, il busto aperto dallo sterno al pube; non aveva seni, al loro posto solo due ferite sanguinolenti. Dei punti di sutura grossolani si erano lacerati e lasciavano uscire vari oggetti, oggetti ridicoli, ma di cui nessuno era in vena di ridere: una spazzola, una sveglietta, uno specchietto, persino una radiolina a transistor. Si tirò i lembi della ferita come fa una donna con un cardigan quando ha freddo.

Negli occhi dal trucco sbavato un odio terribile per quella donna che le aveva torturato il corpo in quel modo, senza averne ancora pagato il prezzo.

La donna infagottata nella giacca a vento alzò una delle sue orrende, grasse mani come per allontanarli.

Ma ecco giungere un vecchio a inserirsi tra la prostituta grottesca e il bimbo tremante. Un sogghigno laido sul suo viso avvizzito. Un pigiama gli pendeva addosso dal corpo smunto, un bagliore negli occhi folli, ma uno sguardo pieno di una sorta di vitalità perversa. Sangue seccato gli macchiava il viso pallido, e la testa gli terminava un paio di centimetri al di sopra delle ciglia, segata via anch’essa, e piena di piccoli esseri che succhiavano e si nutrivano dell’ammasso gelatinoso. Balbettava continuamente cose senza senso come se quei parassiti gli avessero già messo fuori uso il cervello così esposto.

La donna gridò, un suono folle come il borbottio del vecchio, e Childes si ritrasse, rifiutandosi di credere ma sapendo che cosa stava accadendo.

Ora toccava alla donna gridare. «Non può essere vero!»

Le figure nebulose la accerchiarono, strappandole i vestiti, graffiandole la faccia con le unghie. Il bambino si mise in punta di piedi allungando una mano verso le nere cavità degli occhi come se gliene volesse strappare uno.

Lei lo respinse, ma lui si rifece sotto, e rideva dell’osceno gioco. La trascinarono in ginocchio, o forse cadde lei per la paura, e agitò le braccia gridando continuamente. «Non siete veri! Non potete esserlo!»

Si fermarono osservando quell’ammasso informe che era il suo corpo, l’uomo sogghignava sempre, la prostituta si reggeva il ventre e il bambino con la mano tesa reclamava il suo cuore.

«Illusione!» sospirò Childes, e la donna, o meglio quella cosa, gli gridò: «Falli andare via. Falli andare via!»

Per un attimo sembrò veramente che quelle forme svanissero, tornassero nel nulla, appena delle proiezioni mentali, incorporee e irreali.

Finché non apparve una figura minuta che si intrufolò tra il gruppo fino ad arrivare davanti all’obesa donna accucciata per terra.

La bambina indossava un vestitino verde e non aveva né scarpe né calze, né un maglione o una giacca per ripararsi dal freddo della notte. Una metà dei capelli erano raccolti in una lunga treccia, trattenuta da un fiocco. L’altra metà era slegata e in disordine, il fiocco si era perso. Aveva le guance umide, e con una mano cercava di asciugare le lacrime. Ma quelle manine non avevano dita: terminavano in cinque piccoli moncherini insanguinati.

«Annabel» chiamò Childes, con la voce rotta dalla tristezza.

«Voglio andare a casa adesso» disse la bimba, con una voce fina e acuta che gli ricordò quella di Gabby.

La donna alzò la testa e ululò, un lungo lamento di angoscia che si amplificò sulle distese di acqua e si trasformò in un pianto prolungato.

Il bambino affondò le dita nell’orbita dell’occhio fino quasi al polso, almeno così sembrò a Childes. Impossibile, si disse, era solo un incubo! Ma quando la mano scheletrita si ritirò ci fu un rumore come di risucchio e uno sgorgare di liquido scuro; le dita serravano qualcosa di tondo e lucido, un oggetto trattenuto da filamenti elastici che infine si spezzarono rimanendo a penzolare nel liquido vischioso.

La donna si mise in piedi brancolando con la mano per tamponare il sangue che le scorreva lungo la faccia. Urlò, pianse e pregò di essere lasciata in pace.

Ma non la volevano lasciare in pace anzi, l’assalirono con le mani protese.

Riuscì a divincolarsi, colpendo all’impazzata, fece cadere il vecchio cosicché l’ammasso putrescente nel suo cranio scoperchiato si riversò come un liquido da un buffo boccale. Lui si chinò sempre ghignante, sempre emettendo quella risata demenziale, raccolse il cervello semisfatto e lo rimise al suo posto nel cranio come ci si mette un cappello, come un vecchio che si rimette in posizione un parrucchino.

Childes si chiese se alla fine non era del tutto impazzito.

La donna indietreggiava, inciampò nelle gambe distese di Childes, agguantò il bordo del parapetto per rimanere in piedi, si ritirò verso il fondo della diga, verso la torretta, gli alberi fra i quali aveva sostato e si era nascosta prima. Le figure bianche illuminate dalla luna la inseguirono, gli occhi spenti fissi sul suo corpo, le braccia sempre tese in avanti, a ghermirla.

Solo la figurina che era stata Annabel rimase accanto a lui.

La donna fuggiva sempre, barcollando, e Childes la seguì con lo sguardo, detestandola per le atrocità che aveva commesso con quella sua mente perversa e straordinaria, ma non poté godere della macabra vendetta. Si teneva premuta una mano contro l’orbita svuotata, le dita macchiate di sangue nero, ma non smetteva di indietreggiare, di allontanarsi da quegli spettri. Infine voltò la schiena accelerando il passo, un terrore folle la spingeva a continuare, le gambe tozze dalle caviglie lardose quasi correvano.

Ma si arrestò dopo poco. Prese a rinculare sui gradini da cui poco prima era sorta come un demone dalla tomba infernale.

Cadde nelle braccia tese di coloro che la seguivano.

Childes vide allora cosa l’aveva spinta a retrocedere. Dai gradini altre figure spettrali salivano le scale. Prima erano apparse le teste, poi le spalle, i petti, non indossavano le camicie da notte in cui erano morte bruciate ma le divise della scuola. I colori vivaci del La Roche sui corpi anneriti, senza capelli, i crani carbonizzati e infossati; i denti esposti ghignavano, la carne pendeva in orridi lembi. Kelly indicava la donna con un braccio bruciato, mentre le compagne ridacchiavano come se la ragazza avesse appena raccontato una barzelletta sconcia…

… E la signorina Piprelly le guidava, la testa carbonizzata poggiata su una spalla come se dovesse cadere da un momento all’altro; gli occhi rivoltati in modo strano ardevano bianchi dalle ossa annerite, ed erano colmi di infinita tristezza, di pianto…

… e dietro la governante, che sospingeva le sue ragazze, e controllava che nessuna si smarrisse, che stessero tutte bene, che la carne a brandelli e le ossa offese non dolessero; il male era ormai dimenticato, sia per lei che per le ragazze…

Childes aveva la vista annebbiata senza le lenti, eppure tutto nella sua mente gli sembrava terso e chiaro come un cristallo. Persino quando gli occhi si riempirono di lacrime nel vedere, per un attimo fugace, tutti i loro corpi riprendere vita, nuovamente interi, le loro carni intatte e vitali: la testa di Estelle Piprelly eretta come il fiero busto, Kelly vivacissima ed impudente come sempre, il braccio teso snello e levigato. Ma giunte in cima ai gradini erano di nuovo carbonizzati e sfigurati cadaveri.

Le grida della donna si fecero stridule quando le figure la circondarono, i loro corpi esangui le stavano addosso, abbrancando, graffiando, picchiando, una pioggia di colpi che non avrebbe dovuto avere alcun effetto, ma che invece ferivano a sangue, facendo cadere la donna, quella bestia, a terra. Con un grosso braccio si riparava il volto, con l’altro continuava a coprire l’orbita svuotata. Childes si accorse che nella foschia alle spalle del gruppo inferocito, quasi una foschia egli stesso, c’era un uomo in uniforme, lo sfregio sanguinante aperto nella gola una ripetizione del suo mesto sorriso. Childes riconobbe il poliziotto che aveva trovato riverso nella sua auto nel parco del La Roche. Altre forme ancora si agitavano sullo sfondo dei boschi, ma queste davvero era informi, poco più che veli di nebbia sorgenti dalla superficie del lago. Ma tra quelle foschie provenivano risate e gemiti e un pianto dirotto.

Sempre prostrato contro il muro Childes guardò la scena, troppo spaventato per muoversi, per gridare, senza più un briciolo di forza. Accanto a lui la figurina silenziosa di Annabel.

La donna era appoggiata al parapetto, le enormi spalle piegate all’indietro nello sforzo di tenere lontane quella mani spettrali. Si voltò per coprirsi il volto e un fiotto di sangue le passò tra le dita scorrendo lungo il muretto, allargandosi in una macchia scura sulle lastre di cemento.

Avvenne tutto così rapidamente che Childes non sapeva bene cosa avesse visto, o forse sentito, il suo cervello insisteva che nulla di tutto questo era reale, che non stava accadendo proprio niente.

Forse era salita sul parapetto per sfuggire quelle figure.

Forse resa ancora più pazza dal dolore aveva deciso di buttarsi.

Oppure le figure che la circondavano avevano sollevato le sue gambe grosse come tronchi e l’avevano buttata giù.

Di fatto Childes vide la sua mole enorme scomparire e udì il suo grido echeggiare nella notte.

Chiuse gli occhi per non vedere quella follia, ma dietro alle palpebre chiuse vedeva ancora tutto. Era tutto ancora fi, nella sua mente assediata.

«Dio, Dio mio…» mormorò e riaprì gli occhi.

Le forme erano leggermente evanescenti, nebulose e tremule, raggruppate al centro del passaggio, ondulanti e trasparenti, come mosse, pareva, dalla brezza. Gli sembrò di udire altri suoni lontani, e delle luci. Annabel era sempre immobile al suo fianco, minuta e triste, il viso un’immagine fievole di infinita solitudine.

Childes esalò un respiro a lungo trattenuto. Chinò la testa sulle ginocchia, le braccia molli ai fianchi, le mani appoggiate sul cemento, le dita gelide e immobili. Era finita. Era esausto, si chiese se avrebbe mai saputo quale era stata la vera natura di quella donna deviata, demente, che aveva rappresentato per lui una tortura senza fine.

Una mente maniacale, sicuramente un mostro. Ma con uno straordinario potere, una forza psichica che aveva del demoniaco. Pregò che quel potere si fosse estinto, finito con la sua vita.

Ma sentì un formicolio insidioso e minaccioso sulla nuca.

Childes alzò la testa e scrutò le nebbie, lì dove era caduta la donna. La sua bocca si spalancò lentamente, gli occhi sbarrati, e presa a tremare come e più di prima.

Vide la grossa mano, le dita spesse che si aggrappavano all’orlo del muretto in una morsa carnosa. E la tenevano sospesa.

«No!» esclamò sottovoce, appena un sospiro sommesso. «No, no!»

Negli occhi spenti di Annabel non era forse apparsa una fiammella, un accenno di preghiera?

Childes si issò sulle gambe, cercò brancolante l’appoggio del muro, sembrava proprio che le gambe si rifiutassero di sostenerlo, ma la forza rifluì con il sangue negli arti intirizziti, quasi con dolore.

Rimase un attimo appoggiato al muretto poi barcollò verso la mano, le nebbie riprendevano le loro forme distinte, si aprivano per lasciarlo passare. Lo guardarono remote e impassibili; il ragazzino nudo stringeva qualcosa di bianco e di viscido nel fragile pugno, e tentava di ficcarselo in petto come se potesse sostituire il suo cuore perduto. La donna dipinta si teneva il ventre in cui si intravedevano strani oggetti angolosi, il torace smembrato era macchiato da due grossi ovali di sangue. Le ragazze e la governante erano corpi carbonizzati con le ossa esposte tra le carni annerite. L’uomo in divisa con i suoi due sorrisi, uno sopra al mento, l’altro sotto. Estelle Piprelly, intera, senza un segno, che guardò Childes negli occhi, comunicandogli una improvvisa emozione. Lo guardavano tutti, attendevano qualcosa.

Arrivò dove la mano artigliava la sporgenza del muro. Le dita sembravano funi oscillanti che sopportavano tutto il peso di quel grosso corpo. Vide il polso carnoso, la manica della giacca rimboccata sul braccio gonfio, che spariva nel buio all’altezza del gomito. Childes si sporse dal parapetto. La luna illuminava il viso tondo appena sotto di lui, coperto di liquido scuro e denso che le colava lungo le guance e il mento. Uno degli occhi un foro nero e vuoto che lo fissava orribilmente. L’altro braccio le pendeva lungo un fianco come se fosse inutilizzabile.

«Aiuta… mi!» disse, con la sua voce aspra e gracchiante, e non era un’implorazione.

La guardò, vide la follia in quel viso largo, i capelli grigi sparpagliati nel vento. Ne toccò nuovamente la pazzia, ne sentì il laidume, l’ossessione maniacale e demenziale dell’adorazione della luna, una malsana giustificazione del male che essa amava perpetrare; un’anima malata e crudele, uno spirito maligno e rancoroso. Quella parola ‘aiutami’ era piena di sarcasmo. Childes lo capì e lo sentì poiché ancora una volta era dentro quella mente, che lo riempì di immagini mostruose e aberranti, malate e schifose; ancora la divertiva quel gioco. Il suo gioco, la sua tortura.

Ma un nuovo sentimento si affacciò nella sua mente depravata quando lui le prese la grossa mano.

La paura attraversò quei pensieri tormentati come una lama in una piaga purulenta, quando lui le scalzò il primo dito.

Un gemito terrorizzato al secondo.

Uno strillo disperato quando spinse le ultime due dita e lei cadde, cadde, cadde giù nella valle, il suo corpaccio rimbalzò contro il calcestruzzo del bacino scivolando fino in fondo alla diga.

Childes udì i tonfi sordi del corpo che si sfracellava. Cadde a terra sui lastroni di cemento. Sentì un improvviso sollievo inondargli i sensi, l’anima di colpo liberata da un’opprimente oscura pressione, una rabbia confusa e disperata. Era troppo stordito per piangere, troppo spossato per essere felice. Osservò le nebbie diradarsi e scompanre.

Una sola rimase.

Annabel si chinò e gli accarezzò il viso con le piccole dita gelide. Dita che non c’erano prima. Una luce l’attraversò e divenne poco più di una foschia, poi scomparve nel nulla.

«Illusione!» mormorò parlando a se stesso.


* * *

La luce proveniva dai fari di alcune macchine e dalle torce in fondo al sentiero. Childes la fissò schermandosi gli occhi con una mano. Sentì le portiere delle auto che sbattevano, delle voci, vide apparire delle ombre. Era stranamente curioso di sapere come lo avessero trovato, ma non sorpreso; quella notte niente poteva più sorprenderlo.

Childes non voleva più restare sulla diga, anche ora che le nebbie illusorie si erano disperse e quella rozza mano non stringeva più l’orlo del parapetto. La notte era stata troppo convulsa per non desiderare ora una pace più personale, più solitària. Aveva la testa leggera, e nonostante la confusione mentale, la perplessità acuta, si sentiva quietamente euforico. Aveva bisogno di pensare, di valutare i fatti, ma l’accettazione delle sue capacità straordinarie era totale e completa. Era sicuro che si potessero controllare, utilizzare sotto controllo. Era stata lei a dimostrarglielo, anche se le sue intenzioni erano state malvagie, e la sua follia aveva portato a un uso distorto del potere. Si alzò in piedi e guardò verso la valle, guardò oltre il bacino immobile illuminato dalla luna che non aveva più una luce sinistra e minacciosa, ma tersa e pura. Respirò l’aria fresca e leggermente salmastra; sembrava pulita ora e pareva anche ripulirlo dentro. Si voltò e s’incamminò verso le luci. Overoy fu il primo a raggiungerlo, seguito da Robillard e da due altri poliziotti in divisa.

«Jon!», chiamò il poliziotto. «Stai bene? Abbiamo visto tutto». Sorresse Childes per un braccio.

Lui sbatté gli occhi abbagliato dalle torce.

«Puntatele in basso», ordinò Overoy.

I due agenti li superarono puntando il fascio di luce verso la diga, mentre Robillard ordinava alle auto di abbassare i fari. Il sollievo fu immediato. «Avete visto?» farfugliò Childes incredulo.

«Non molto bene. Un banco di nebbia vi ha parzialmente coperti» rispose Robillard.

Un banco di nebbia! Childes non disse nulla.

Overoy parlò rapidamente, come se volesse anticipare Robillard. «Ti abbiamo visto cercare di salvare quell’altra persona Jon.» Fissò negli occhi Childes con un’espressione severa. Robillard aveva invece un dubbio dipinto in volto ma non fece commenti.

Quasi senza interruzioni Overoy proseguì: «Immagino che avesse tentato di ucciderti prima di cadere. Peccato che fosse troppo pesante, che tu non sia riuscito a trattenerla!» Le parole erano state scelte con cura, come se fosse una deposizione da imparare a memoria.

«Sapevate che era una donna?», chiese Childes.

Overoy annuì. «Avevamo scoperto la sua casa in Inghilterra. Ti ho telefonato un paio di volte ma era sempre occupato. Poi ho preso il volo di mezzanotte, appena in tempo.»

I due agenti illuminavano dall’alto il corpo sfracellato in fondo alla diga.

«Quello che abbiamo trovato in quella casa era un vero arsenale di orrori. Ma c’erano tutte le prove che ci servivano. Era la donna il mostro che cercavamo.» Overoy si fece scuro in volto e aggiunse: «Il cadavere della bambina era sotto il pavimento. Metterla lì era stata una pazzia, prima o poi l’odore della decomposizione l’avrebbe fatta scoprire da qualche inquilino del palazzo. Ma forse non gliene importava più. Forse aveva già capito che non poteva andare avanti così quando è venuta qui. Era pazza furiosa, è questa forse l’ironia della cosa.»

Childes guardò l’ispettore con curiosità.

«È così che l’abbiamo scovata. Il suo nome era nella lista di pazienti e inservienti del manicomio. Era un’infermiera, ma doveva essere più pazza dei matti a cui doveva badare. Cristo! Avresti dovuto vedere la roba che abbiamo trovato nella sua stanza; roba sull’occulto, la mitologia; simboli, amuleti. Ah, e un mucchietto di pietre di luna, le saranno costate un patrimonio. Se ognuna di quelle era per un’altra vittima…». Overoy scrollò le spalle.

«Ha detto che adorava…»

«La luna? Sì, una dea in particolare. C’era tutto lì, nei suoi libri, nei simboli. Pazza, completamente pazza.»

C’erano altre persone sulla diga che procedevano verso di loro. Robillard disse. «Quando l’ispettore Overoy ci ha comunicato l’identità della donna è stato facile scoprire che era qui da un paio di settimane; era arrivata con uno dei traghetti. Poi non ci è voluto molto a scoprire dove alloggiava. Una locanda in campagna. Lontano dai centri abitati. Non era rientrata da ieri, abbiamo perquisito la stanza. È stato fortunato stanotte, signor Childes: aveva lasciato lì i suoi ferri del mestiere. In una borsa nera sotto al suo letto abbiamo trovato degli strumenti chirurgici. Si vede che era sicura di liberarsi di lei a mani nude.»

«Era molto forte» affermò Overoy. «I suoi superiori alla clinica ce lo hanno confermato. Pare che la adoperassero per immobilizzare i pazienti più violenti. Secondo i medici ci riusciva con estrema facilità.»

«Non si sono chiesti come mai era scomparsa dopo l’incendio?»

«Non era scomparsa. Fu persino interrogata dalla polizia, come tutti gli altri sopravvissuti. Poi si prese delle ferie, appena si erano calmate le acque. Era pazza, non stupida.»

Forse avrebbe capito più tardi. Per ora Childes non riusciva a mettere a fuoco quanto gli stavano raccontando. Si scosse nell’udire un’altra voce, una voce familiare e amata.

«Jon!», chiamò Amy.

Guardò dietro ai due ispettori e la vide a pochi metri. Paul Sebire la sorreggeva per un braccio, il viso segnato da un’ansia che non gli era propria.

Childes le andò incontro e lei alzò le braccia, il gesso su un braccio bianco come la luna stessa. La strinse a sé, rattristato dalle bende che le coprivano il viso. La lasciò subito per non farle del male.

«Va tutto bene, Jon». Rideva e piangeva, le guance bagnate di lacrime. «Va tutto bene, ho avuto tanta paura, Jon.»

Dietro a lei vide Sebire con una smorfia sul volto stanco. L’uomo non disse niente ma si voltò e tornò verso le automobili parcheggiate sulla strada.

Childes le accarezzò i capelli, baciandole via le lacrime dal viso. Lei sentiva il cambiamento avvenuto in lui, quell’ombra scura che lo aveva oppresso era scomparsa. «Come avete fatto a trovarmi?»

Amy sorrise e gli restituì i baci. «Ce lo ha detto Gabby» gli spiegò.

«Gabby?»

Overoy li raggiunse e fu lui a dire: «Siamo andati a casa della signorina Sebire per cercarti dopo che l’agente di guardia alla tua casa ti aveva perso di vista. Lei non aveva idea di dove tu fossi andato…»

«Però mi sono ricordata che tu avevi chiamato anche Gabby, prima» lo interruppe Amy. «Era solo un tentativo, ma ho pensato che forse avevi detto a Fran dove avevi intenzione di andare. L’ispettore Overoy era d’accordo e così ha chiamato Fran dalla madre. Avevano dei guai con Gabby!»

«Tua figlia era isterica a causa di un incubo che aveva appena avuto» continuò Overoy. «Ti aveva sognato in riva a un grande lago, e c’era una donna mostro che ti voleva buttare di sotto. Tua moglie ha detto che Gabby non smetteva di piangere e di urlare, era sconvolta.»

«E da questo siete riusciti a capire dov’ero?» chiese Childes incredulo.

«Beh, sono abituato alle tue precognizioni, perché non dovevo credere a quelle di tua figlia?»

Anche Gabby. Childes era attonito. Si ricordò di quando lei gli aveva chiesto di salutargli Annabel.

Amy lo scosse da quei pensieri. «Non ci sono grandi laghi sull’isola Jon. C’è solo questo bacino.»

«Non avevamo niente da perdere!» aggiunse Overoy con una smorfia.

«Dovevano solo riuscire a convincere me!» commentò Robillard. «Ma accidenti! Tutta questa storia è un rebus per me. E allora perché avrei dovuto oppormi a correre qui in mezzo alla valle, di notte?» Scosse la testa sempre più confuso. «Sta di fatto che avevano ragione. L’unica cosa che mi dispiace è che non siamo arrivati prima. Lei ha passato un brutto quarto d’ora.»

«È tutto finito Jon?» chiese Amy. Con la mano sana gli accarezzò il viso e ripeté: «È veramente finita questa storia?»

Lui annuì, ma la luna dietro la sua testa gli teneva in ombra il viso. Si voltò e guardò Overoy. «Chi era?» chiese all’ispettore. «Come si chiamava?»

«Aveva un falso nome, abbiamo scoperto che lo adoperava da anni. Si faceva chiamare Heckatty!». Per qualche motivo c’era una nota soddisfatta nel tono della sua voce.

Heckatty! Il nome non diceva proprio niente a Childes. Non che se lo aspettasse. Non era nemmeno troppo sicuro di ciò che era accaduto quella notte. Cosa aveva a che fare questo nome così banale con quella battaglia di spiriti? Forse la fusione delle menti era stata soltanto una proiezione della sua follia, un’illusione creata dalla mente depravata di quella donna.

«Illusione!» mormorò ancora una volta e Amy lo guardò senza capire.

«Dio mio!» esclamò una voce sul passaggio pedonale della diga.

Si voltarono in direzione dei due poliziotti che scrutavano un angolo del passaggio illuminandolo con le torce. Uno degli agenti si chinò e sfilandosi qualcosa dalla tasca l’avvicinò all’oggetto biancastro che giaceva in terra. Poi si rialzò e s’incamminò verso il gruppetto di persone in attesa. Il compagno lo seguì a una certa distanza.

Nonostante la luna conferisse a tutti lo stesso colore cereo, si vedeva che l’agente era teso e più pallido del normale. «Non credo che lei debba vedere signorina!» disse ad Amy, coprendo con la mano il sacchetto di plastica in cui teneva l’oggetto.

Curiosi Overoy e Robillard si avvicinarono.

«Ohh…» fece Robillard. Childes lasciò Amy e si avvicinò a sua volta. L’altro poliziotto illuminava con la torcia le mani del collega. Overoy si era voltato con un moto di ribrezzo.

«Bella lotta dev’essere stata» disse a Childes con solidarietà evidente.

L’occhio insanguinato sembrava enorme, troppo grosso per poter essere contenuto in un viso. I filamenti pendevano dal sacchetto e mentre Childes guardava un raggio di luce colpì l’occhio che parve avvampare, per un attimo, una scintilla di luce sembrò riempire il globo tra le mani dell’uomo. A Childes sembrò la fosforescenza bluastra che splendeva nelle profondità delle pietre di luna.

Childes rabbrividì e si volse, respirò profondamente e si schiarì la mente. Passò il braccio attorno alla vita di Amy e l’attirò dolcemente a sé, allontanandosi dal lago inondato di luce argentea.


* * *

Nella mente di Childes un punto di domanda. Dove lo avrebbe portato questo potere che ormai sapeva di possedere…?


FINE
Загрузка...