Si udì la campanella lontana e ben presto le ragazzine cominciarono a uscire dai vari edifici e il loro chiacchiericcio ruppe la tranquillità che regnava. Passò ancora un po’ di tempo prima che l’investigatore scorgesse Childes camminare verso di lui con a fianco una ragazza bionda e snella vestita di giallo. Vide la ragazza portarsi una mano dietro alla testa; i capelli le caddero giù in una lunga coda. Overoy la studiò attentamente: era giovane, abbronzata e molto carina. Si chiese se tra lei e Childes ci fosse qualcosa e quando le dita della ragazza sfiorarono il braccio di Childes ebbe la risposta. Overoy si alzò in piedi buttandosi la giacca su una spalla e infilando l’altra mano in tasca.
Childes stava per entrare nel parcheggio quando intravvide il poliziotto. Si arrestò e la ragazza lo guardò sorpresa. Lei seguì la direzione del suo sguardo e vide Overoy avvicinarsi.
«Salve Childes,» disse, «mi riconosce?»
«E difficile dimenticarsi di lei.» Arrivò la risposta e Overoy vi sentì un certo rancore. I due si strinsero la mano. Childes con una certa riluttanza.
«Mi scusi per la sorpresa,» fece l’investigatore, «ma ho, ehm, approfondito quella questione di cui abbiamo accennato al telefono la settimana scorsa, e ho pensato che fosse meglio venirla a trovare.» Fece un cenno con il capo alla ragazza, s’accorse dei suoi occhi verde pallido, e si rese conto che vista da vicino era notevolmente carina.
«Amy ti presento l’ispettore investigativo Overoy» disse Childes. «È il poliziotto di cui ti ho parlato.»
Amy strinse la mano di Overoy con occhi ora sospettosi.
«Possiamo parlare a quattr’occhi?» chiese l’investigatore tornando a guardare Childes.
Amy disse subito. «Ci sentiamo più tardi Jon» e si girò per andarsene.
«Ma non c’è bisogno che…»
«Non c’è problema» lo rassicurò. «Io ho da fare quindi ci sentiamo dopo. Arrivederci ispettore.» Esitò un attimo come se volesse dire ancora qualcosa, ma poi si allontanò verso una MG rossa voltandosi a guardare Jon con uno sguardo preoccupato prima di montare in macchina. Childes la seguì con gli occhi finché non fu uscita dai cancelli, poi si rivolse al poliziotto.
«Non se ne poteva parlare al telefono, accidenti?» Ormai non nascose più la propria irritazione.
«Credo proprio di no. Se ne renderà conto anche lei. Possiamo andare a casa sua?»
Childes scrollò le spalle. «D’accordo. Le è stato assegnato questo caso?» chiese al poliziotto mentre si dirigevano verso la macchina.
«Non del tutto. Diciamo che mi sto occupando di quest’aspetto della questione solo perché ho già avuto modo di fare la sua conoscenza.»
«Allora c’è un collegamento.»
«Può darsi.»
«Allora un uomo è stato ucciso nelle circostanze da me descritte.»
«Ne parleremo a casa sua.»
Uscirono dal La Roche e Overoy si meravigliò del breve percorso che li portò nel viottolo stretto in cui si trovava la casa di Childes. Certo, pensò, l’isola è larga solo pochi chilometri. La casa, appena un piccolo cottage, era l’ultima di una schiera, e guardandola capì meglio il disappunto di Childes per questa sua intrusione. Il cottage aveva un fascino antico, del genere per cui la gente ricca in Inghilterra darebbe un occhio della testa per averlo come seconda casa.
Faceva piacevolmente fresco all’interno. Overoy si lasciò cadere su di un divanetto, Childes si tolse la giacca e l’appese nell’ingresso.
«Vuole qualcosa da bere, un tè, un caffè?» chiese Childes con un tono meno ostile di prima.
«Grazie, se ha una birra andrebbe benissimo.»
«Birra allora.»
Childes sparì in cucina e ritornò dopo poco portando un cartone da sei lattine e due bicchieri. Strappò via il coperchio a una lattina e la porse ad Overoy che già ne assaporava la freschezza dopo tutto il caldo preso. Si versò la birra e alzò il bicchiere verso Childes in un gesto amichevole. Childes sedette su una sedia di fronte a lui senza rispondere al brindisi.
«Allora, cos’aveva da dirmi?» chiese mentre si versava la birra a sua volta. Poggiò le lattine su un tavolino basso tra di loro come in una specie di terra di nessuno.
«Può darsi che lei abbia ragione a proposito di quel vecchio» disse Overoy e Childes si sporse in avanti sulla sedia.
«Avete trovato il corpo?»
L’investigatore buttò giù un sorso di birra poi scosse la testa. «Quando mi ha detto che era legato al letto, un lettino con delle cinghie, mi pare abbia detto, e che la stanza era squallida, senza mobili, mi è venuto in mente qualcosa. Quella mattina era arrivato un rapporto che riguardava un incendio in un ospedale psichiatrico.»
Childes stava fissando il fondo della stanza, il bicchiere a mezz’aria. «È quello!» disse piano.
«Beh, noi non ne siamo sicuri. Sono morte venticinque persone nell’incendio, anche tra il personale c’erano vittime, parecchi erano uomini anziani, la maggior parte affetti da demenza senile, altri con disturbi più gravi. Uno di questi potrebbe essere il suo ma i corpi erano quasi tutti talmente bruciati che non è stato possibile verificare se fossero stati mutilati prima della morte.»
«Il fuoco, come…»
«Non è stato un incidente, gli esperti hanno stabilito che l’incendio è stato appiccato in due punti, ai piani superiori e nelle cantine, c’erano delle taniche di benzina vuote. Non abbiamo idea di chi sia il piromane ma si pensa che ci fosse uno dei ricoverati in giro e che abbia trovato le taniche. Quelli che se ne stanno occupando ritengono probabile che sia morto anche lui nell’incendio.»
«Come fanno ad esserne sicuri?»
«Non lo sono. Ma i sopravvissuti sono stati interrogati e non c’è nulla che indica la responsabilità di uno di loro; certo, alcuni sono pazzi del tutto, è impossibile esserni certi. Può darsi che sia stato qualcuno venuto da fuori.»
Childes si accomodò sulla sedia, i pensieri persi dentro se stesso. Overoy attese senza fretta. Lontano si sentiva il ronzio di un aereo.
«E ora, che succede?»
«Evidentemente se c’è un collegamento tra tutti questi delitti abbiamo bisogno anche del più piccolo frammento che ci aiuti a ricostruire l’identità dell’assassino. In tutta sincerità non c’è nessuno che abbia ancora collegato l’incendio con gli altri due casi, tranne me naturalmente, ma abbiamo le prove che gli altri due lo sono. Le dispiace se fumo?»
Childes fece segno di no, Overoy prese una sigaretta dalla giacca e l’accese utilizzando una lattina vuota come posacenere.
«Che prove avete?» chiese Childes.
«Le mutilazioni dei due corpi erano molto simili, tanto per cominciare. Inequivocabilmente i segni di un sacrificio rituale: gli organi interni strappati via, il cuore dilaniato, oggetti vari riposti dentro il corpo; nel caso della donna soprammobili presi nella stanza in cui abitava; per il bimbo erba, terra, fiori secchi anche. Dopodiché lo squarcio viene ricucito. Solo un pazzo fa certe cose, ma questo ha un certo metodo.»
«Potrebbero essere più di una persona, forse una setta o qualcosa del genere.»
«Sono state trovate le impronte digitali di una sola persona in entrambi i luoghi del delitto, sul coperchio della bara del bimbo e sugli oggetti estratti dalla prostituta; chiunque sia non gliene frega niente di lasciare in giro le sue impronte. Al manicomio invece non c’era una sola impronta grazie al fuoco.»
«E sulle taniche di benzina?»
«Carbonizzate anche quelle. Mi dica della faccenda del vecchio, cos’altro ha visto?»
Childes impallidì. «Mi dispiace, sono svenuto quasi subito. L’immagine era così intensa, la tortura… non ce l’ho fatta più.»
«La capisco. Però lei è convinto che sia la stessa persona?»
«Ne sono certo. Ma è difficile spiegare come. Quando uno è nella mente di un altro lo riconosce come se non lo vedesse, anzi meglio, non ci possono essere contraffazioni.»
«Ha detto di aver visto due grosse mani.»
«Sì, le guardavo come se le vedessi con gli occhi dell’altro. Erano mani grosse, rozze, da operaio, direi. Mani molto forti, sembravano.»
«C’erano gioielli, voglio dire anelli, un bracciale, un orologio?»
«No, niente del genere.»
Overoy aveva studiato l’uomo che gli sedeva di fronte mentre parlava, ne aveva notato il volto stanco, i movimenti tesi. Se mai la vita sull’isola gli aveva fatto bene, ormai non si vedeva più. Overoy sentì compassione per Childes, ma sapeva di non poter fare altro che insistere ancora. Quando parlò aveva preso un tono quasi suadente. «Si ricorda come lo prendemmo, alla fine, l’assassino l’altra volta?»
«Sì, lasciò qualcosa sul luogo dell’ultimo omicidio.»
«Esatto, un bigliettino. Un biglietto in cui dichiarava che avrebbe ucciso un altro bimbo, che non poteva resistere all’impulso. All’epoca uno psichiatra dichiarò che l’uomo voleva esser preso, voleva che gli si impedisse di commettere quegli orrendi crimini, e che questo era il vero senso del messaggio. Quando le mostrammo quel biglietto lei riuscì a descrivere l’assassino, dove abitava e che tipo di lavoro faceva. Noi non dovemmo fare altro che controllare gli schedari alla ricerca di maniaci sessuali che corrispondessero alla descrizione.»
«Ancora non so spiegarmi come facevo a saperlo.»
«Perché è fuggito da tutto questo?»
«Parecchia gente si mise in contatto con me per spiegarmi cos’era accaduto, e non riuscivano a capire perché non mi interessasse saperlo. L’istituto di ricerche psichiche voleva pubblicare un saggio sul mio caso; un paio di università americane volevano che tenessi delle conferenze, e Dio solo sa quante persone mi hanno chiesto di trovare parenti scomparsi. Io non avevo idea di quello che mi stava succedendo e francamente non volevo saperlo. Volevo solo essere lasciato in pace. Ha idea di come ci si può sentire?»
«Sì, come un fenomeno da baraccone. Io credo però che lei prenda le cose troppo sul serio.»
«Lei ha ragione, forse, ma io avevo paura, ero scosso. Lei non ha idea di ciò che ho dovuto vedere a causa di questo mio strano potere.»
«Ma ha deciso lo stesso di telefonarmi la settimana scorsa, nonostante i guai dell’altra volta.»
Childes stappò un’altra lattina di birra, aveva ancora il bicchiere mezzo pieno. Lo riempì fino all’orlo e ne prese un sorso, poi rispose: «Dovevo farlo. Chiunque sia deve essere fermato. Sto pregando che sia finito nell’incendio.»
«Oltre ad aspettare che si verifichi un altro caso, ci potrebbe essere un altro sistema per scoprirlo.»
Childes lo guardò con sospetto. «E quale?»
Il poliziotto poggiò il bicchiere sul tavolino, prese la giacca e dalla tasca interna tirò fuori una busta gialla. «Le avevo detto che avevamo un’altra prova del collegamento tra i primi due casi e che c’era qualcosa di rituale in entrambi». Allungò la busta verso Childes e aggiunse. «Dentro c’è un oggetto identico a un altro che è ancora in mano al medico legale. Tutt’e due provengono dai delitti, uno da dentro il corpo della prostituta e l’altro da quello del bambino. C’è voluto un po’ per potergliene portare uno, ma ci sono riuscito.»
Childes fissò la busta, non voleva toccarla.
«La prenda» insisté l’investigatore.
Childes allungò la mano indeciso, poi la ritrasse. «Non credo di volerlo fare.»
Overoy si alzò e gli portò la busta. «Questa tortura mentale finì solo quando trovammo l’assassino, l’ultima volta.»
«No. Quando si è ucciso. Io seppi che era finita esattamente in quel momento.»
«E adesso cosa sente? Il maniaco è morto nell’incendio?»
«Io… io credo di no.»
«Allora prenda la busta, tocchi quello che c’è dentro.»
Ancora titubante Childes prese la busta. Rabbrividì, come sfiorato da una leggera scarica elettrica. L’oggetto sembrava leggerissimo.
Aprì la busta e vi frugò dentro col pollice e l’indice. Sentiva qualcosa di piccolo, piccolo e tondo, e liscio.
Childes estrasse una piccola pietra chiara e ovale. Mentre la teneva sul palmo della mano vide un lampo azzurro dentro la forma argentea, un fuoco azzurro dentro l’oggetto iridescente.
Childes ondeggiò e Overoy lo prese per una spalla, ritraendo immediatamente la mano come se avesse preso la scossa. L’ispettore fece un passo indietro e vide i capelli di Childes rizzarsi e muoversi come se fossero percorsi da una scarica elettrica.
Un formicolio pervase completamente il corpo di Childes, scuotendolo, facendogli scoppiare i nervi. Tremava senza più controllo. Un fulmine di luce fredda gli toccò la mente. Si sentì sorpreso, ma non era solo sua la sorpresa, era anche di un altro. Qualcosa di putrido sembrò insinuarglisi in testa. Degli occhi lo guardavano, ma come da dentro se stesso. La mano si chiuse attorno alla pietra fino a farsi penetrare le unghie nella pelle.
Sentiva LA COSA…
…e LA COSA sentì lui…
«Era una pietra di luna» disse Childes a Amy. «Una minuscola pietra di luna che era stata messa nel corpo della prostituta. Overoy mi ha detto che ce n’era un’altra nel corpo del bimbo.»
Amy era seduta in terra ai piedi di Childes con un braccio poggiato sulle sue ginocchia, il viso ansioso sollevato verso di lui. Lui si adagiò sullo schienale del divano, un bicchiere di whisky posato in grembo. Aveva bevuto di continuo da quando il poliziotto se n’era andato due ore prima. L’alcool però non aveva avuto alcun effetto cablante, tanto che si chiedeva se il cervello non fosse tanto sconvolto dall’esperienza avuta da non sentire più nulla.
«E non ne è stata trovata un’altra all’ospedale dopo l’incendio?»
«C’erano troppi danni per poter trovare un oggetto tanto piccolo.»
«Eppure questo Overoy ti ha creduto quando gli hai detto che si trattava sempre della stessa persona.»
«Ha imparato a fidarsi già dall’altra volta, anche se non gli è stato facile.»
Childes sorseggiò il whisky; il sapore era amaro, ma il liquido ardente aiutava a sciogliere quel gelo che sentiva ancora dentro di sé. «È sempre la stessa immagine che ogni tanto mi appare, Amy, un biancore tremolante, come una luna che passa dietro le nubi. C’era anche in un incubo che ho avuto.»
«E non hai idea di che cosa significhi?»
«Nessuna, no.»
«La pietra ha provocato in te una reazione molto forte?»
Il sorriso di lui non era affatto divertito. «Ho fatto prendere a Overoy una paura fottuta, e anche a me stesso. Questa creatura, chiunque sia, qualsiasi cosa sia, mi conosce. Era qui, in questa stanza, dentro la mia testa, Amy, si cibava dei miei pensieri come un verme, un parassita. Io ho cercato di resistergli, di tenere la mente sgombra, ma era troppo potente. Mi era già avvenuta la stessa cosa un’altra volta, ma non era così irresistibile.»
«Non me lo avevi detto.»
«Cosa potevo dire? Pensavo di diventare pazzo, poi per un po’ ha smesso, mi sentivo bene, non più minacciato. Oggi è tornata, come una furia.»
«Ancora non riesco a capire perché te, Jon. Tu non sembri essere un sensitivo, a parte questi casi, anzi, non te ne importa niente di queste cose, proprio il contrario, caso mai. Scansi qualsiasi discorso sui fenomeni paranormali come se fossero tabù.»
«Abbiamo parlato altre volte di ciò che mi è accaduto.»
«Non intendevo questo. Parlavo in termini generali, dell’occulto, del sovrannaturale, cose di cui si parla abbastanza spesso ormai. Tu hai sempre cambiato discorso ogni volta che ho accennato a vampiri, fantasmi o cose del genere.»
«Roba da favole per bambini, dai!»
«Ecco, vedi, di nuovo rifiuti qualsiasi dialogo. Sembra che tu ne abbia paura!»
«Stupidaggini!»
«Davvero? Perché non mi hai mai parlato dei tuoi genitori?»
«E che razza di domanda sarebbe questa?»
«Dimmelo.»
«Sono morti tutti e due, questo lo sai, no?»
«Sì, ma perché non mi hai mai parlato di loro?»
«Mia madre quasi non me la ricordo. E morta quand’ero bambino.»
«Quando avevi sette anni, ed è morta di cancro. E tuo padre, perché non ne parli mai?»
Childes strinse le labbra. «Amy, ho già subito un interrogatorio oggi, non vorrai mica continuarlo tu? Cosa credi che sia io, il settimo figlio di un settimo figlio, una specie di stregone? Ma non vedi che è ridicolo?»
«Certo, ma io sto solamente cercando di farti aprire, Jon, di andare un po’ più a fondo. Da quando ti ho conosciuto ho sentito che stavi nascondendo qualcosa, non solo a me ma soprattutto a te stesso!» Amy adesso era arrabbiata, era la sua testardaggine sorda ad irritarla. Vedeva negli occhi di lui di aver colpito nel segno, che c’era qualcosa di vero nelle sue accuse.
«Va bene, se ti interessa così tanto, sta’ a sentire. Mio padre era un uomo pragmatico e razionale, ha lavorato per 26 anni nella stessa ditta come contabile nell’ufficio paghe e contributi, nel tempo libero faceva il predicatore laico…»
«Questo me l’avevi detto già.»
«…ed è morto alcolizzato.»
Lei si irrigidì sorpresa, ma era ancor più insistente. «D’accordo, ma non è tutto, c’è qualcosa d’altro.»
«Ma santo Dio, Amy, cosa vuoi da me?»
«Solo la verità!»
«Il mio passato non ha nulla a che fare con quello che mi sta succedendo adesso.»
«Ma tu che ne sai?»
«Odiava qualsiasi cosa avesse a che fare col misticismo o lo spirituale. Quando è morta mia madre non parlò mai di morti, non mi permetteva di andare sulla sua tomba.»
«Ed era un predicatore…!» esclamò lei incredula.
«Era un ubriacone. È morto soffocato dal vomito quando avevo diciassette anni. E vuoi sapere una cosa? Mi sono sentito liberato. Ero contento di essermi liberato di lui! Adesso cosa pensi di me? Eh?»
Lei si inginocchiò e gli mise le braccia attorno alle spalle, lo sentì irrigidirsi, cercare di sfuggire, e lo strinse più forte. Lentamente la rigidezza del corpo sembrò sciogliersi.
«Mi si sta rovesciando il bicchiere» disse sottovoce. Amy lo scosse un poco finché lui esclamò: «Ehi!»
Lei lo lasciò andare mettendosi seduta accanto a lui di traverso in modo da potergli vedere il viso. «E tu ne hai avuto un senso di colpa tale da non riuscire a dirmelo? Ma non vedi che non può influire minimamente nel nostro rapporto?»
«Amy, lasciami spiegare, io non avevo nessun senso di colpa, ero rattristato forse, in colpa no! Si è ammazzato da solo.»
«Per via di tua madre.»
«Sì, forse. Ma aveva un altro dovere, verso suo figlio. Fino a un certo punto ci ha pensato a me, ma c’erano altre cose che non gli perdonerò mai.»
«Era cattivo?»
«Secondo lui no!»
«Ti picchiava?»
Un’ombra passò sul viso di Childes. «Mi ha cresciuto secondo le sue regole. Ma lasciamo perdere ora Amy, non ce la faccio più.» Lui s’accorse che aveva gli occhi lucidi e si sporse in avanti per baciarla. «Volevi aiutarmi, no? Però non è servito a molto, vero?»
«Chi può dirlo? Per lo meno adesso di te so qualcosa di più.»
«A cosa ti serve?»
«Mi aiuta a capirti.»
«Ma cosa vuoi che ti aiuti!»
«Mi aiuta a capire il tuo riserbo. Perché ti sei tenuto stretto certe cose. Io credo che la tua emotività sia stata repressa dopo che è morta tua madre. Non potevi amare liberamente tuo padre, hai detto che era un pragmatico, un razionale, è difficile scambiare affetto con una persona così.»
«Lui era fatto così.»
«E tu hai preso un po’ da lui.»
Lui aggrottò la fronte. Lei proseguì. «Ma non ti rendi conto di quanto sei assolutamente logico, quanto maledettamente noioso, qualche volta. Si capisce bene perché la prima percezione psichica che hai avuto ti ha tanto sconvolto.»
«Non ho mai negato che ci siano fenomeni paranormali.»
«Ma tanto meno lo hai accettato.»
«Perché sei così aggressiva Amy?»
La domanda la scosse. «Oh Jon, non volevo. Volevo solo aiutarti a scavare dentro di te. Ci deve essere un nesso tra te e quest’altra persona, qualcosa che attira la tua mente alla sua.»
«O viceversa!»
«Quel che è. Sarà anche reciproco.»
L’idea lo fece rabbrividire. «Non è una persona Amy, è una creatura malvagia, un essere corrotto.»
Lei gli prese una mano tra le sue. «Dopo tutto quel che ho detto, adesso sono io che ti chiedo di essere logico. L’assassino è un essere umano, Jon. Un individuo molto forte, stando al tuo amico poliziotto, ma comunque una persona con una mente sconvolta.»
«No, no. Io ero dentro quella mente, sono stato testimone di quell’orrore.»
«E allora perché non puoi vedere chi è?»
«E… è… troppo forte, troppo potente, mi schiaccia la mente, me la sbrana, la devasta, questa… cosa… sembra che mi divori la psiche, mi rubi ogni pensiero. Io assisto a questi atti osceni solo perché me lo permette, anzi lo vuole. Questa bestia si sta prendendo gioco di me, Amy.»
Lei gli prese il bicchiere e lo pose in terra, gli strinse le mani tra le sue. «Stasera rimango qui con te.»
«E tuo padre…?»
«Buon Dio Jon, ho ventitré anni! Telefono a mia madre e le dico che stanotte dormo fuori!». Fece per alzarsi ma Childes la trattenne per un braccio.
«Non sono molto d’accordo.»
«Non importa, io rimango lo stesso.»
Lui si riprese un poco. «Non vorrei vedere arrivare tuo padre con una doppietta carica. Non credo che ce la farei stasera.»
«Dirò alla mamma di nascondergli le cartucce». Si alzò in piedi e gli accarezzò ancora il viso prima di avviarsi all’ingresso. Childes ascoltò la sua voce soffocata buttando giù l’ultimo sorso di whisky. Chiuse gli occhi abbandonandosi contro lo schienale e si chiese se Amy poteva capire quanto fosse felice di non rimanere solo quella notte.
Il suo borbottare la fece svegliare. Giacque accanto a lui in ascolto. Parlava nel sonno.
«…non è vero… lui dice che non… non puoi… essere… lui dice che tu non…». Amy non lo svegliò. Cercava di capire il significato di quelle parole che Jon andava ripetendo.
«… non puoi essere…»
Aveva frugato nella mente di quell’uomo, dapprima con perplessità ma poi eccitata dal contatto. Chi era? Qual’era il suo potere? Poteva essere pericoloso?
Sorrise godendo del nuovo gioco.
Erano passate tante immagini tra di loro, qualche volta la loro rapidità e forza erano state preoccupanti, ma ben presto le accettò e poi ne trasse piacere. Aveva sondato e inseguito, scatenando la propria coscienza alla ricerca di questa persona spaventata, non sempre aveva avuto successo. Eppure quel legame sensitivo quasi intangibile si stava rafforzando. Aveva sentito e assorbito il suo panico, persino i ricordi non erano stati risparmiati.
Gli altri omicidi, l’omicidio dei bambini erano seppelliti, nei recessi più profondi della memoria dell’uomo, ma li aveva scoperti e osservati con una certa sorpresa che si trasformò subito in un piacere sadico. Più che visti, poiché non si manifestavano visivamente in senso letterale, venivano percepiti e vissuti. Goduti a fondo. E capiva anche quale legame ci fosse tra l’uomo e questi assassinii.
C’erano altre sensazioni evocate da questa persona da contemplare: era un divertimento, una nuova forma di tortura da sfruttare. Poteva essere scoperto poiché il passato era sempre presente nella sua mente, una gran parte anche in modo determinante, e benché non si potesse individuare lui fisicamente, coloro che conosceva si potevano tenuamente percepire. La Pietra di Luna, chissà in quale modo misterioso, era giunta fino a lui, ma era stata proprio quella gemma a fornire il ponte, l’elemento catalizzatore nell’unione delle loro menti, e la breccia che si era creata era stata così improvvisa da essere devastante, mentre prima c’erano stati solo dei tentativi di sondaggio. Quando scoprì gli omicidi dei bambini capì anche il collegamento con la polizia e quindi con la pietra. Comprese allora le capacità parapsicologiche dell’uomo. Erano quegli altri omicidi la chiave.
Era facile rintracciare notizie a proposito, i giornali dell’epoca avevano ampiamente riportato le varie atrocità commesse nonché il modo strano in cui si era conclusa la vicenda; un archivio pubblico fornì tutte le informazioni che servivano.
Era passata ormai una settimana, compose il numero successivo dell’elenco, tutti gli altri avevano lo stesso prefìsso ed erano stati cancellati con un tratto di penna.
Sogghignò quando all’altro capo si sentì una vocina rispondere: «Pronto?»
Il caldo le avvolse piacevolmente quando uscirono dal palazzo Rothschild e dall’aria condizionata: nel sole sembravano tanti angioletti cinguettanti. Le dodici ragazze erano tutte vestite con la divisa azzurra del La Roche, e chiacchieravano di continuo, approfittando di ogni momento passato fuori dal college. Si riunirono sul marciapiede davanti al moderno palazzo di uffici mentre Childes le contava, assicurandosi che non se ne fosse persa nessuna. Sentiva che la visita fatta alla grande sala dei computer della società era stata più che positiva, anche se la maggior parte delle allieve non aveva capito un’acca del discorso molto tecnico del funzionario (Childes aveva sorriso vedendo lo sguardo delle ragazze perso nel vuoto). Comunque si erano fatte un’idea di che tipo di servizi i computer fornivano in una grande società.
Tutti presenti, nessuno smarrito, nessun ferito. Era stata una mattinata soddisfacente. Childes guardò l’orologio: le 11.47.
Da dove stavano si vedeva il largo viale del lungomare che costeggiava il porto dove, ondeggiavano le cime degli alberi degli yatch allineati.
«Manca ancora un po’ all’ora di pranzo» disse alle ragazze, «perché non facciamo un giro giù al porto?»
Strillarono di contentezza e si misero ordinatamente su due file. Childes si mise alla testa, chiedendo soltanto che chiacchierassero facendo meno rumore. Per la prima volta quella settimana sentiva un ritorno di equilibrio mentale. Il sole, le chiacchiere delle ragazze, la normalità dei dintorni contribuivano all’effetto. Dopo l’esperienza con la pietra gli era rimasto addosso uno strano senso di inutilità, e dopo la conversazione con Amy erano venuti a galla dei ricordi che sarebbe stato meglio lasciare sepolti. I giorni seguenti gli episodi oscuri e la rigidità della sua educazione erano tornati a tormentarlo, anche se capiva di non avere più odio per il padre. Aveva rimosso da un pezzo quel sentimento, insieme ad altri purtroppo. Stranamente proprio il padre lo aveva costretto a quell’esercizio di autocensura. Ed era per questo che adesso teneva testa alle situazioni, con un autocontrollo che nasceva da quell’antica abitudine a reprimere. Persino gli ultimi macabri eventi e il nuovo manifestarsi del suo potere potevano essere sconfitti con l’aiuto del sole e della normalità. Erano le notti, le notti buie che erano alleate dell’orrore.
Childes adocchiò una panchina libera di fronte a uno degli stabilimenti balneari e sei delle ragazze ci si lanciarono sopra quando lui la indicò, stringendosi a spintoni nel poco spazio. Le altre si appoggiarono alla ringhiera di fronte.
Il porto era gremito di turisti e residenti, macchine e autobus bianchi circolavano lentamente lungo il perimetro, le banchine erano affollate di auto parcheggiate. Due stabilimenti racchiusi da moli di cemento erano pieni di yatch e motoscafi di ogni tipo e misura, i pescherecci dell’isola erano ancorati a moli più isolati e tranquilli dall’altro lato del porto. Dall’estremità di una delle banchine si ergeva un faro dipinto di bianco mentre sull’altro un fortino era a guardia del porto. Negozi e bistrò si affacciavano sul mare con le facciate a colori vivaci. All’intorno alcune gradinate sfociavano in ripidi vicoli che tagliavano la collina a terrazze e come freschi corridoi in ombra conducevano verso la cittadina in alto.
«Due di voi oggi faranno la loro buona azione quotidiana a favore di un anziano» disse Childes avvicinandosi. Lo guardarono con curiosità e lui indicò con il pollice. «Su, fate sedere il professore.»
«Isobel conta per due, professore?» chiese Kelly con allegra malizia indicando la compagna grassottella seduta all’altro capo della panchina. Si udirono altre risate e una protesta indignata.
«Penso che prenderò il tuo di posto, Kelly. Così potrai fare anche tu una buona azione.»
Lei si alzò senza una smorfia, ma negli occhi c’era sempre un lampo di sfida. «Tutto ciò che desidera, signore.»
Lui tirò fuori il portafoglio. «Potete scegliere crema o fragola, niente frutti misti, cioccolato doppio con le mandorle, niente triplo mango o mandarino o kiwi. Niente che ci possa complicare la vita, OK? E poi ci vogliono altre due volontarie che vadano con Kelly.»
Con un’espressione golosa e con sospetta rapidità Isobel si alzò mentre le altre gongolavano e si offrì. «Vado io, signore.»
«Oh, no!» si lamentò qualcuna. «Non ci rimarrà più niente ora che torna.» Vi furono altre risate e un’occhiataccia da parte della ragazzina grassoccia.
«Va bene» disse Childes, sedendosi nel posto lasciato da Kelly e porgendo due biglietti estratti dal portafoglio. «Perché non vai anche tu Jeanette?». Sorrise alla ragazzina appoggiata alla ringhiera e la vide mettersi sull’attenti. «Penso di poterti affidare la grana, no?». Lei prese i soldi quasi con timidezza evitando di guardarlo negli occhi. «Tu prendi le ordinazioni Einstein,» disse rivolto a Kelly, «il mio alla vaniglia, e state attente alla strada, la signorina Piprelly non me la perdonerebbe mai se tornassi con la combriccola decimata.»
Si avviarono, Kelly e Isobel che ridacchiavano insieme mentre Jeanette le seguiva più lentamente. Childes le tenne d’occhio fin quando non ebbero attraversato il viale pieno di traffico, poi spostò l’attenzione sul porto per guardare il traghetto dall’Inghilterra avvicinarsi cautamente al molo. Più al largo alcune vele bianche punteggiavano il mare calmo come piccoli coni rovesciati; sopra di loro un Trislander giallo, un velivolo a dodici posti che faceva la spola tra le isole quasi come un autobus, iniziò la discesa con il suo ronzio sordo, monotono quanto quello delle api.
Si ricordò che per fortuna il traffico e il caos che lo circondavano erano solo una parentesi stagionale, una breve interruzione alla pace e alla calma dell’isola, e anche ora bastava guardare al largo, i gabbiani in picchiata sul mare leggermente increspato, per sentirsi pervadere da una calma serenità.
Si rilassò, felice di vedere che anche le ragazze stavano bene in sua compagnia; queste gite divertivano loro tanto quanto lui. Incominciò a fare delle domande relative alla sala dei computer della Rothschild per appurare quanto avessero capito e assorbito, ma presto la conversazione andò oltre i limiti scolastici: egli trovò i commenti delle ragazze interessanti e qualche volta anche divertenti, e si ricordò che spesso queste gite favorivano una maggiore conoscenza tra docente e alunni. Childes decise di pianificare una sortita simile anche con i ragazzi del Kingsley; non sarebbe stata forse una mattina così piacevole, Childes già anticipava di dover applicare una maggiore disciplina per poter tenere a freno la maggiore aggressività dei maschi.
Kelly, Isobel e Jeanette tornarono cariche di coni gelato tra l’entusiasmo delle compagne. Childes fece un sorriso a Jeanette che, infilatasi una mano in tasca, ne trasse il resto.
«Grazie» le disse.
«Grazie a lei, signore» rispose, una parte di timidezza scomparsa.
«Hai capito qualcosa di ciò che hai visto stamattina?» le chiese.
«Oh sì, credo di sì… beh… qualcosa per lo meno.»
«Non è difficile come sembra, una volta che ci fai l’abitudine tutto va al suo posto, una volta che hai capito bene le cose basilari. Vedrai!» aggiunse consolante. Poi rivolto alle altre esclamò: «Ehi, chi l’ha preso il mio?»
«Oohh. Mi scusi» disse Kelly ridendo. «Non lo mangiavo mica sa.»
Il gelato si andava già sciogliendo, scivolando in rivoli bianchi lungo la mano che lo reggeva.
Lui prese il gelato e lei si portò subito la mano alla bocca per leccarsi via la crema sciolta.
In quel mentre gli arrivò alle narici l’odore di bruciato. Un odore singolare. Come di carne che cuoce, no peggio, molto peggio. Come di carne bruciata.
Guardò Kelly: la mano che teneva alla bocca era annerita, pelle bruciacchiata appesa all’osso nudo. Una mano deforme, un artiglio carbonizzato.
Sentiva le risate delle ragazze attorno a sé, ma parevano giungere da lontano. Sentì qualcosa di appiccicoso sulla coscia, abbassò lo sguardo e vide una goccia di crema bianca scivolargli lungo i pantaloni.
Quando guardò di nuovo Kelly, stava mangiando il gelato con tutte le altre e si leccava la mano sana, integra.
La strada era ampia e tranquilla, scarso il traffico.
Le case erano tutte indipendenti, con garage privati e piccoli giardini sul davanti, tutti molto ben tenuti. I giardini sul retro dovevano essere grandi: il tipo di zona, benestante senza essere ricca, lo indicava chiaramente. La macchina si muoveva lentamente, l’autista alla ricerca di un numero, una casa particolare. L’auto si arrestò dolcemente davanti a quella casa e il suo occupante la osservò attentamente.
Sapeva che lui non ci sarebbe stato: la bambina con la vocina buffa come lo erano spesso le voci infantili, aveva detto al telefono che papà era andato a vivere su un’isola, certo che ricordava il nome dell’isola, aveva sette anni e mezzo, no?
Attese in macchina, guardando inosservato, era un sabato mattina presto, un’ora in cui gli abitanti delle case riposavano dopo le fatiche quotidiane della settimana. Ora che aveva trovato la casa l’autista sarebbe ritornato con il buio, la notte lo avrebbe protetto.
Ma d’un tratto si fece più attento: una bambina aveva girato l’angolo della casa correndo dietro a un gatto nero. Un fremito percorse tutto il suo laido corpo.
Il gatto saltò sopra un muretto che delimitava il giardino e si arrestò quando fissò la forma oscura raggomitolata nella macchina parcheggiata. Il pelo dell’animale si arruffò, la coda si irrigidì e gli occhi gialli fiammeggiarono. Poi sparì, costretto alla fuga dalla paura.
Al suo posto apparve il visetto di una bimba, che sbirciava oltre il muretto.
La figura nella macchina guardò ancora un attimo, poi aprì la portiera dell’auto.
Fran si stiracchiò, spalancando la bocca in un gigantesco sbadiglio, assaporando il languore del risveglio, mugolando di piacere. Si girò su un fianco e i capelli chiari le caddero sul cuscino.
Un fine settimana da sola, finalmente. Niente impegni, niente clienti a cui badare, niente incontri, niente telefonate. E nemmeno giornalisti starnazzanti e produttori televisivi che chiedevano interviste a clienti che comunque rifiutavano all’ultimo momento per un capriccio qualsiasi. Neanche quel continuo dover tenere a bada soci in affari e clienti, anzi, soprattutto clienti. Credevano tutti che qualsiasi divorziata anche solo belloccia fosse a disposizione di tutti. Un’occasione per poter passare un po’ di tempo con Gabby, povera piccola abbandonata, la più brava bambina del mondo. Dio dammi t forza di alzarmi a prepararle una colazione come si deve, pensò. Ancora dieci minuti a letto, però.
Gabby era già entrata prima per il bacino del risveglio e per un fugace abbraccio sotto le coperte. Dopo aver promesso alla sua mammina una buona tazza di tè, era poi scomparsa; si erano solo sentiti gli strilli per chiamare a sé l’adorata micia.
Fran era contenta che Douglas non si fosse fermato per la notte. Non che fosse implicito, ci teneva alla famiglia lui. Douglas Ashby era un ottimo socio in affari, e un amante splendido e fantasioso; sfortunatamente per lei era anche un bravo marito (con una sola infedeltà, lei) e non stava mai via di casa più del necessario. Mah, forse era meglio così, gliene era bastato uno di uomo importante nella vita. Sapeva che a Gabby il padre mancava molto, e negli ultimi due anni c’erano state delle volte in cui aveva rimpianto di essere stata così intollerante nei suoi confronti, ma il troppo è troppo. Avevano dovuto affrontare entrambi la verità, che non erano fatti l’uno per l’altra.
Però sarebbe stato bello avere un uomo accanto nel letto adesso. Strano come una nottata di splendido amore le facesse l’effetto di svegliarsi ancora vogliosa. Il lamento soffocato questa volta era segnato da un accenno di frustrazione. Il tè Gabby, il tè. Salva tua madre dalla vergogna.
Fran si alzò a sedere sul letto ammucchiando i cuscini dietro la schiena. Contemplò la propria immagine nello specchio di fronte al letto dall’altro lato della stanza. Niente male, si disse. Seni sodi e poca ciccia da pizzicare. I capelli lunghi e folti senza ombra di tintura. Lo specchio, troppo lontano, pietosamente non rifletteva quelle rughette fastidiose attorno agli occhi e al collo. Alzò il lenzuolo per guardarsi la pancia. Beh, qualche esercizio ci vuole prima che ciò che per ora si può definire un po’ rilassato diventi ‘flaccido’. Le cosce erano OK invece: snelle e ben tornite come sempre. Peccato che un corpicino così venisse poco adoperato. Fran lasciò cadere il lenzuolo.
Sollevò la testa a guardare il soffitto; bisogna che faccia qualcosa con la piccola oggi, pensò. Potremmo andare a fare shopping, poi a pranzo fuori in qualche posto. Sì, le piacerebbe. Forse anche al cinema stasera, si potrebbe invitare anche Annabel. Anche questo le piacerà. Devo passare più tempo con Gabby, accidenti al lavoro! La figlia stava diventando precocemente matura, forse un po’ troppo responsabile per una bambina della sua età. Gli anni dell’innocenza sono troppo preziosi per bruciarli così. Era sorprendente, considerando quanto poco si vedessero, quanto incominciava a somigliare al padre. Erano entrambi miopi, ma la somiglianzà andava al di là dei tratti somatici. Fran udì il rumore di una macchina fuori che partiva allontanandosi lungo la strada.
Chiuse gli occhi, ma era inutile: anche se era stanca il sonno se n’era andato, la testa ormai le ronzava, piena di pensieri, la maggior parte inutili. Ma perché, perché, quando poteva rilassarsi, il cervello non glielo permetteva? E dov’era Gabby con quella benedetta tazza dite?
Si alzò dal letto e raccolta una finissima sottoveste dalla sedia, se l’infilò andando verso la porta. Sporgendosi oltre la balaustra chiamò: «Gabby! Sto morendo di sete, io! Arriva questo tè?»
Non ci fu risposta.
Lei si girò nel letto, Childes rimase immobile per non svegliarla.
Aveva un seno scoperto, le curve delicate lo tentarono. Ma resistette. Il desiderio di assaggiare quelle labbra appena schiuse nel sonno era però irresistibile.
La baciò leggermente e gli occhi le vibrarono un attimo prima di aprirsi.
La baciò di nuovo a questa volta lei rispose al bacio; lo strinse a sé cingendogli le spalle con le braccia. Le labbra si separarono ma i corpi rimasero avvinghiati, ognuno godendo del tepore del corpo dell’altro, della sensazione di pienezza che avvertivano dentro di sé. Lei allargò le cosce dove lui la stava premendo facendola sospirare e fece scorrere la punta delle dita lungo la sua spina dorsale.
Cambiarono posizione per guardarsi negli occhi fianco a fianco; lui giocherellò con i suoi capezzoli che si ergevano fieri ed eretti, lei abbassò la mano per carezzarlo con gesti teneri e sapienti. Fecero l’amore con calma, lentamente, tutta la frenesia si era spenta la sera prima. Ora era un momento per distendersi, per un’unione serena, un’eccitazione quieta.
Lui l’accarezzò con la lingua ed ella lottò per controllare l’eccitazione montante, provocata dai suoi tocchi squisiti, irresistibili; sentendola giungere al culmine la penetrò rapidamente, con un movimento tanto facile che quasi non s’accorse di essere entrato in lei completamente. Alzò le gambe avvolgendolo e stringendolo freneticamente per attirarlo ancora più a fondo.
Non ci volle molto perché si rompessero gli argini e l’orgasmo li investisse entrambi in lunghe ondate di piacere lasciandoli esausti e ansimanti. Rimasero aggrappati l’una all’altro fin quando non ritornò la calma dei sensi.
Finalmente si separarono e giacquero fianco a fianco a riprendere fiato.
«Hai dormito bene stanotte?» chiese Amy.
«Sì, non me l’aspettavo, ma invece sì, profondamente.»
«Niente sogni?»
«Non mi pare, no, non me ne ricordo.»
Gli carezzò il viso e i capelli e lui sentì l’odore dei loro corpi sulla punta delle sue dita. «Avevi una bruna faccia ieri.»
«Avevo paura Amy e ne ho ancora. Come mai ho visto la mano di Kelly in quel modo? Per fortuna le ragazze ridevano tanto che non si sono accorte della paura che mi ero preso». Le strinse un braccio. «E se fosse una premonizione?»
«Hai sempre detto di non avere premonizioni.»
«C’è qualcosa che sta cambiando dentro di me, lo sento.»
«No, Jon, no. Tu sei solo confuso e scioccato da questa faccenda della pietra. Qualcuno sta manipolando la tua mente, ti sta tormentando, lo hai detto tu stesso.»
«Vuoi dire che mi mette nella testa questi pensieri?»
«Forse!»
«Ma no! E ridicolo. Queste cose non succedono veramente.»
«Cristo!» esplose lei. «Come fai a dirlo! Perché continui a non voler vedere la realtà delle cose?»
«E questa sarebbe realtà secondo te?»
«E quello che sta succedendo, no? Jon, tu devi venire a patti con te stesso, devi smettere di opporti a ciò che per un altro è innaturale, ma per te non lo è! Accetta il fatto di avere questo sesto senso, o quel che è, e impara a controllarlo. Hai già ammesso che c’è un potere esterno a te che ti succhia i pensieri, allora tu devi capire i tuoi poteri per riuscire ad impedirglielo.»
«Non è mica così facile…»
«Non dico che lo è, ma non può essere che qualcun altro decida ciò che vedi o pensi.»
«Sì, certo, hai ragione. Vorrei tanto riuscire a dominarmi, ma di questi tempi ogni volta che mi sembra di riprendere il controllo delle cose arriva un altro episodio a mettermi KO. È sfibrante, io ho bisogno di riflettere, Amy. C’è qualcosa che tu hai detto che mi sta girando nella mente da un pezzo, solo che ho bisogno di un po’ più di tempo per rimuginarci sopra. C’è una porta che va aperta dentro di me, mi manca solo la chiave.»
«Non potremmo lavorarci insieme?»
«Non ora. Sono certo che c’è qualcosa che solo io posso fare, ti prego, sii paziente ancora un poco.»
«Purché tu prometta di non nascondermi nulla e tantomeno a te stesso.»
«È una promessa facile da mantenere.»
«Staremo a vedere.»
«Hai fame?»
«Sei abilissimo a cambiare discorso.»
«C’è altro da dire?»
«Un sacco di cose»
«Più tardi però. Che cosa vuoi per colazione?»
«Se non hai un bue intero, m’accontento di toast e caffè.»
«Se hai fame, c’è anche dell’altro.»
«Lascio a te decidere. Ma se preferisci preparo io qualcosa.»
«Sei tu l’ospite.»
«Spero di non esserti già di peso, sono qui da ben due giorni.»
«Non preoccuparti. Piuttosto come l’ha presa papà?»
«Non ha fatto una piega. Devo farmi un bagno, Jon.»
«Okay. Tu ti fai il bagno e io cucino.»
«Facciamolo insieme, dai!»
«Ancora non ti basta?»
«Mmm. D’accordo, tanto la tua vasca è troppo piccola.»
Lui si alzò dal letto e si mise l’accappatoio. «Faccio in due minuti», le gridò scendendo le scale.
Amy chiuse gli occhi, subito un espressione tesa le segnò i dolci lineamenti.
Al piano inferiore Childes si rasò e lavò velocemente dopo aver aperto i rubinetti del bagno per Amy. Aprì l’armadietto, prese l’astuccio e si applicò le lenti morbide davanti allo specchio che si andava già coprendo di vapore. Rifece le scale di corsa, a due a due, indossò dei jeans sbiaditi, scarpe scamosciate e una felpa grigia mentre Amy lo guardava dal letto.
«Hai bisogno di essere messo all’ingrasso» commentò.
«Ah sì? E per quand’è la macellazione?» rispose lui, ma nessuno trovò la battuta divertente. «Il bagno è quasi pronto» aggiunse, passandosi le dita tra i capelli folti e scuri.
«Mi sento una mantenuta.»
«Anch’io vorrei sentirmi così qualche volta, ma non a tutte riesce!»
«Sei di nuovo allegro.»
«È una mia buona abitudine». Si rese conto che in fondo la risposta era vera: la rimozione come allontanamento dell’irrisolvibile.
«Se mi dai un bacio mi alzo.»
«Ah sì? E per farti scendere le scale cosa ci vuole?»
«Vedi tu.»
«L’acqua sta per traboccare.»
«Qualche volta non sei affatto carino.»
«E tu non sei certo una professoressa zitellona». Le lanciò l’accappatoio. «Tra dieci minuti si mangia» Childes però non poté resistere alla tentazione di avvicinarsi al letto e baciarle labbra, collo e seno prima di scendere in cucina.
Più tardi, seduti al tavolo della cucina, lei aveva di nuovo un’aria più da scolaretta che da maestra; i capelli bagnati e l’accappatoio blu aumentavano l’effetto. Decisero il programma della giornata.
«Dovrò fare un salto a casa a prendere un po’ di roba» gli disse, mentre si dava da fare con appetito attorno a un piatto di uova strapazzate con bacon e pomodori.
«Ti accompagno se vuoi». Sorrise della sua voracità, non lo sorprendeva più che nonostante tutto quello che mangiava non perdesse mai la sua snellezza. Morse il proprio misero toast.
«Forse è meglio se vado da sola» disse Amy scuotendo la testa.
«Prima o poi dovremo affrontarci» disse lui alludendo a Paul Sebire.
«Meglio dopo che prima. Hai già abbastanza da sopportare senza aggiungerci altre grane.»
«Mi sto abituando ad averti qui.»
Lei smise di mangiare. «È… è bello… non è vero?»
«Sì. Bello, sì.»
Lei gli fece una boccaccia e riprese a mangiare. «Voglio dire che è piacevole. Tranquillo ed eccitante al tempo stesso.»
«Sì, credo di sì.»
«Tu ‘credi’ di sì?» borbottò lei continuando a masticare.
«Beh, sì. Oddio, potrebbe anche piacermi del tutto prima o poi.»
«Allora vengo a stare qui?»
Lui rimase di stucco, ma lei sembrò non accorrersene. «Potremmo fare una prova,» continuò, «vedere come va.»
«Se non ti preoccupi di tuo padre per lo meno pensa alla Piprelly: cosa pensi che farebbe se venisse a sapere che due dei suoi insegnanti vivono insieme nel peccato?»
«Almeno siamo una coppia eterosessuale, che è già un punto a nostro vantaggio. Eppoi Pip non lo saprà mai.»
«Ma come, se su quest’isola quando uno starnutisce ad un capo dell’isola dall’altro la gente prende il raffreddore. Stai scherzando, probabilmente sa già tutto di noi due.»
«Tanto meglio allora.»
Lui fece un sospiro allegro. «Beh, una differenza c’è…»
Lei posò la forchetta. «Senti, se stai cercando altre scuse…»
Lui rise. «No, no, l’idea mi sembra ottima. Solo che…»
Si bloccò. La fissava senza vederla, aveva gli occhi spalancati.
«Jon… ?» Lei si allungò oltre il tavolo per toccargli una mano. Sul fornello la macchina del caffè borbottava. Sul vetro di una finestra ronzava una mosca. Ma tutto sembrava immobile. «Cos’hai?» chiese nervosamente Amy.
Childes sbatté gli occhi. Tentò di alzarsi ma si fermò a metà e mugolò. «Oh no… no, questo no…».
Le nocche erano bianche mentre stringeva spasmodicamente il tavolo, le spalle incurvate, la testa penzoloni. Amy rabbrividì nel vedergli negli occhi un’angoscia disperata.
Urlò: «Jon!» vedendolo inciampare verso la porta sbattendo a terra la tazza piena di caffè. Amy spinse indietro la sedia e lo seguì nell’ingresso. Era accanto al telefono: con un dito tremante cercava di comporre un numero. Invano, tremava troppo. La guardò implorante.
Lei lo raggiunse e lo prese per una spalla. «Cos’hai visto Jon, dimmelo!» lo pregò.
«Aiutami Amy, ti prego aiutami!»
Restò colpita nel vedere le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. «Chi vuoi chiamare? Chi, Jon?»
«Fran. Presto, è successo qualcosa a Gabby!»
Il cuore le balzò in petto, ma prese il ricevitore sforzandosi di tenere a bada l’emozione. Gli chiese di dirle il numero e dapprima lui non lo ricordava, assurdamente, in modo quasi perverso. Poi le cifre vennero dette con impeto confusamente e lei dovette farsele ripetere più lentamente.
«Sta suonando» disse, restituendogli la cornetta e avvicinandosi a lui. Sentiva tutto il suo corpo vibrare.
Il telefono all’altro capo venne alzato e lei udì una voce lontana rispondere.
«Fran?»
«Sei tu Jonathan? Oh Dio, come sono contenta che hai chiamato!» C’era una sorta di angosciata fragilità nella sua voce che fece quasi svenire Childes, la paura angosciosa quasi ebbe il sopravvento. «Gabby… sta…?» iniziò a dire.
«È accaduta una cosa tremenda Jon. Tremenda!»
«Fran…?». Le lacrime ormai lo accecavano.
«L’amica di Gabby, Annabel. È scomparsa Jon. È venuta a giocare con Gabby prima, ma non è mai arrivata qui. C’è la polizia adesso da Melanie e Tony, Melanie è sul punto di avere una crisi isterica. Nessuno ha visto Annabel, è sparita nel nulla. Gabby è distrutta e non fa altro che piangere. Jonathan, mi senti?»
Solo l’aiuto di Amy gli impedì di scivolare a terra.
Mentre accompagnava Childes all’aeroporto Amy gli lanciava frequenti sguardi pieni d’ansia, studiava il suo volto pallido e teso. Lui non aprì bocca durante il breve percorso.
Il sollievo provato si univa alla tristezza per la bimba scomparsa. Egli conosceva il destino di Annabel. Aveva commesso un errore, era sua figlia la vittima predestinata, ma ormai anche l’altro sapeva dell’errore.
Amy parcheggiò la MG mentre Childes faceva il check-in al banco. Lo raggiunse nella sala d’attesa, nessuno dei due parlò molto mentre aspettavano che venisse annunciato il volo. Poi lei lo accompagnò al cancello tenendolo abbracciato.
Amy lo baciò teneramente prima di passare il varco e stringendolo a sé brevemente gli disse: «Chiamami se puoi.»
Lui annuì col volto tirato. Poi sparì attraverso il varco con altri passeggeri, la borsa da viaggio buttata dietro la spalla. Amy uscì dal terminal e rimase in macchina fin quando non vide decollare l’aereo. Aveva il volto coperto di lacrime.
Childes suonò il campanello e vide subito un movimento dietro i vetri. La porta si aprì e Fran lo guardò con un misto di contentezza e di mestizia negli occhi.
«Jonathan!» esclamò, facendo un passo come se volesse abbracciarlo; esitò, notando l’uomo accanto a Childes, e l’occasione del gesto si perse lì.
«Ciao Fran» disse Childes girandosi per presentare il suo compagno. «Ti ricordi l’ispettore Overoy vero?»
Prima confusa, poi ostile, Fran cambiò espressione mentre rispondeva. «Come non potrei?» digrignando i denti, interrogando con lo sguardo l’ex marito.
«Ti spiego poi» disse Childes.
Lei si scansò per lasciarli passare. Overoy le augurò la buonasera senza ricevere risposta.
«Andiamo nel soggiorno» disse Fran ma i passettini affrettati dal pianerottolo di sopra impedirono loro di fare come suggerito.
«Papà, papà» si udì gridare con gioia ed eccola arrivare lanciandosi dagli ultimi tre scalini verso le braccia protese di Childes. Lo strinse tutto bagnandogli le guance con le lacrime, gli occhiali spinti indietro sul viso. Lui chiuse gli occhi e la tenne stretta a lungo.
Singhiozzava mentre gli diceva. «Papà, hanno preso Annabel.»
«Lo so, amore, lo so.»
«Ma perché papà, perché l’uomo cattivo l’ha portata via?»
«Non lo sappiamo ancora. Vedrai, ci penserà la polizia a trovarla.»
«Ma perché non la lascia andare? La sua mamma piange, e io pure, è la mia migliore amica, lei.» Aveva il visino arrossato dal gran piangere, gli occhi gonfi sotto le lenti degli occhiali.
Posò la figlia in terra e si mise seduto sugli scalini accanto a lei, tirò fuori il fazzoletto e le asciugò le lacrime, poi le tolse gli occhiali e li pulì parlandole dolcemente. Le piccole dita rimasero strette attorno al suo braccio.
Overoy li interruppe. «Vado a fare una visita a questi signori… ehm…»
«Berridge!» suggerì Fran.
«Sì, vada pure!» gli disse Childes mettendo un braccio attorno a Gabby. «Ci vediamo quando ha finito.»
Con un cenno a Fran Overoy si voltò chiudendosi alle spalle la porta d’ingresso. Lei si alzò per girare la chiave.
«Che accidenti ci fa quello?» chiese adirata.
«Gli ho telefonato prima di partire» spiegò Childes. «È venuto a prendermi all’aeroporto e mi ha accompagnato.»
«Sì, ma cos’ha a che fare con tutto questo?»
Childes carezzò la testa della figlia e Gabby guardò prima lui poi la madre con una nuova ansia dipinta in viso. Lui non voleva una discussione di fronte a lei.
«Gabby, vai di sopra, io arrivo subito. Io e la mamma dobbiamo parlare.»
«Non vi strillerete mica però?»
Se lo ricordava ancora. «Ma no, certo che no. Solo che dobbiamo parlare di una cosa a quattr’occhi.»
«Sei occhi. Dovete parlare di Annabel?»
«Sì!»
«Ma è amica mia, anch’io voglio parlare.»
«Quando vengo su parliamo quanto vuoi.»
La bimba si alzò e prima di avviarsi si strinse forte al collo del padre. «Prometti di venire presto?»
«Prometto.»
«Mi manchi tanto papà.»
«Anche tu a me, passerottino»
Salì le scale voltandosi in cima per salutare prima di correre nella sua stanza.
«Gabriel!» chiamò Fran, «credo che sia ora che tu ti prepari per la nanna. Il pigiama rosa è nel primo cassetto.» Udirono quel che poteva essere una protesta, poi il silenzio.
«E stata una brutta giornata per lei oggi» commentò quando Childes si alzò in piedi.
«Brutta anche per te si direbbe.»
«Ma capisci l’inferno che stanno vivendo Melanie e Tony?». Si tenne ancora lontana per un attimo guardandolo incerta, poi si precipitò tra le sue braccia, la testa abbandonata sulle sue spalle. «Oh Jon, ma che bestialità orrenda.»
Lui la tranquillizzò accarezzandole i capelli. «Poteva essere Gabby, capisci?» ribadì lei. Lui rimase zitto.
«Strano, avevo sentito che c’era qualcosa che non andava stamattina. Gabby era giù a preparare il tè e io mi sono alzata per vedere perché ci metteva tanto». Rise stancamente. «Non ci crederai, aveva versato lo zucchero e lo stava pazientemente spazzando fino all’ultimo granello perché io non me ne accorgessi. Annabel dev’essere passata per il viale, non lo sa nessuno, nessuno l’ha vista, solo quello che l’ha portata via. Dio mio, quante volte glielo abbiamo detto di non uscire dal cancello.»
«Perché non beviamo tutt’e due qualcosa. Ci farebbe bene.»
«Avevo paura di bere il primo, non so se sarei capace di smettere, sbronza non sarei di molto aiuto a Melanie. Comunque adesso che ci sei tu va bene, sei sempre stato bravo a frenare i miei eccessi.»
Andarono nel salotto tenendosi come se fossero ancora amanti. Tutto era piacevolmente familiare a Childes, nonostante qualche oggetto d’arredamento fosse stato acquistato dopo che se n’era andato. Era difficile dimenticare cinque anni di vita lì; allo stesso tempo era una cosa lontana, non faceva più parte della sua vita, del suo mondo. Era un sentimento strano e non piacevole.
«Tu mettiti seduta, i drink li preparo io» le disse. «Sempre gin and tonic per te?»
«Sempre,» annuì Fran «fammelo bello lungo.» Si lasciò andare sul divano togliendosi le scarpe per raccogliere i piedi sotto di sé. «Jon, quando hai chiamato stamattina io non ti ho dato il tempo di parlare, però poi ripensandoci mi è sembrato che tu avessi già una voce angosciata, da come hai pronunciato il mio nome persino!»
«Vuoi ghiaccio?»
«No, va bene liscio. C’era qualcosa che non andava quando hai chiamato?»
Versò una buona dose di gin poi cercò l’acqua tonica nel mobiletto. «Credevo fosse successo qualcosa a Gabby!» rispose.
«A Gabby? Ma perché, cosa… ?» La voce le si spense e chiuse gli occhi. «No, oh no, di nuovo!» sospirò.
Lui le porse il gin and tonic mentre lei lo seguiva con lo sguardo. «Spiegami!» gli ordinò con un filo di voce mentre prendeva il bicchiere.
Childes si versò uno scotch poi tornò verso il divano sedendosi vicino a lei. «Sono ricominciate le visioni.»
«Jon…»
«Stamattina ho avuto la precisa sensazione che Gabby fosse in pericolo.» Come poteva dirle che lui aveva saputo che la loro figlia era in pericolo, e che Annabel era stata presa per errore! Per tutta la giornata era stato sbeffeggiato da quell’altra mente perversa, aveva avuto attimi di percezione delle prolungate atrocità compiute, la creatura, chiunque fosse, lo aveva tormentato cercando la sua mente per infliggergli quelle dolorose visioni. Stranamente dopo un poco Childes si era accorto di essersi assuefatto alle immagini. Aveva capito che ormai il peggio era avvenuto. Annabel non soffriva più le torture. Fin quasi dall’inizio. Questo però doveva pur dirlo a Fran.
«Ma non era Gabby, era la sua amichetta Annabel, vero?» aveva già risposto Fran al posto suo.
«Sì, in qualche modo non ho visto bene, mi ero confuso.» Era da vigliacchi, ma era meglio dire la verità un po’ alla volta, Fran comunque stava per subire un altro brutto colpo. «Fran, devo dirti un’altra cosa…»
Lei prese un sorso di gin come per prepararsi; le sue ‘intuizioni’ erano sempre negative, mai buone. Poi lo disse lei per lui incapace di frenarsi. «E morta vero? Annabel è morta?»
Egli abbassò la testa evitandone lo sguardo.
Il viso di Fran ebbe un crollo e il bicchiere le si rovesciò sull’abito. Childes lo raccolse poggiandolo sul tavolino accanto al divano. Le passò una mano attorno alle spalle e l’attirò verso di sé.
«E così atroce, così vile!» si lamentò lei. «Come faremo a dirlo a Tony e a Melanie. Come?»
«Non possiamo dire niente, Fran, c’è la polizia per questo… quando troveranno il corpo.»
«Ma come posso guardare in faccia Melanie, come faccio ad aiutarla quando io so? Sei sicuro Jon, proprio sicuro?»
«È tutto come prima.»
«E non ti sei mai sbagliato!»
«No.»
La sentì irrigidirsi. «Perché hai creduto che fosse stata presa Gabby allora?» Si scostò per poterlo guardare bene in viso. Fran non era una stupida. «Non lo so, forse ho fatto confusione perché è avvenuto così lontano da me.»
Lei fece una smorfia, arricciò il naso poco convinta, stava per insistere quando suonò il campanello. «Sarà Overoy» disse Childes sollevato. «Vado ad aprirgli.»
La faccia dell’ispettore era scura mentre seguiva Childes in salotto. «La stanno prendendo piuttosto male.»
«Cosa s’aspettava?» rispose Fran tagliente.
«Mi scusi, non era un’espressione molto azzeccata» si scusò Overoy. Annuì quando Childes gli indicò la bottiglia di whisky. «Posso fare a lei la stessa domanda che ho fatto ai genitori di Annabel, signora… Childes sempre, o sbaglio?»
«Childes suona sempre meglio del mio nome da ragazza sulla carta intestata e non ho mai pensato di cambiarlo, poi è meglio anche per Gabby, meno confusione. Mi faccia le sue domande allora, su. Intanto posso ripeterle ciò che ho detto più volte ai suoi colleghi oggi, non ho visto nessuno di sospetto nei paraggi da almeno una settimana, anzi da mesi, se è per questo. E adesso rispondete voi due ad una domanda.»
Overoy prese il whisky che Childes gli porgeva e si scambiarono un’occhiata.
«S’accomodi ispettore, ha l’aria di stare scomodo lì in piedi.» Fran riprese il gin and tonic notando che le tremava ancora la mano. Ma era anche curiosa ora, le stava prendendo forma nella testa un nuovo sospetto. Childes le si avvicinò e si sedette.
«Trovo strano che Jonathan l’abbia chiamata subito appena avuta un’altra delle sue tremende visioni, e che lei vada immediatamente a prenderlo all’aeroporto per portarlo qui. Voglio dire, perché tutto ciò quando sono, vediamo, almeno tre anni che non vi sentite?»
«Io conosco i suoi precedenti, signora, la sua particolare abilità.»
«Sì, questo lo so. So che adesso gli crede. Ma mollare tutto quel che fa solo per andare a prelevarlo? Mi chiedo persino se era di servizio oggi, dopo tutto è sabato, no?»
Stavolta rispose Childes. «Veramente ho chiamato l’ispettore a casa.»
«Addirittura a casa.»
«Senti Fran, non avevamo intenzione di nasconderti nulla. È solo che abbiamo… ho pensato che saresti già stata abbastanza sconvolta per la scomparsa di Annabel senza stare a cercare altre preoccupazioni per ora.»
Negli occhi di lei una paura nuova. Usò entrambi le mani per portarsi il bicchiere alle labbra, sorseggiò piano e riportò le mani col bicchiere in grembo. Teneva la schiena diritta e aveva una voce incerta quando disse: «Penso sia ora che mi diciate tutto.»
S’era fatto tardi.
Childes e Fran erano soli, seduti attorno al tavolo di cucina davanti a una cena cucinata malvolentieri, e mangiata con ancora minore entusiasmo. Nella stanza di Gabby era tutto tranquillo e silenzioso.
«Dovrei andare a vedere come sta Melanie.» Fran si morse il labbro inferiore con un gesto ansioso che lui aveva spesso criticato quando ancora vivevano insieme.
«Sono le dieci passate Fran, io non andrei a disturbarla adesso. E poi può darsi che il medico le abbia dato qualche tranquillante per aiutarla a dormire.»
Le spalle di Fran s’ingobbirono. «E cosa potrei dirle poi, dopo quello che tu hai detto a me! Ma sei proprio sicuro?»
Lui sapeva cosa intendeva. «Vorrei tanto avere qualche dubbio.»
«No, come ti ho detto non hai mai sbagliato in queste… queste occasioni.» Non c’era nessuna critica in questa sua affermazione, solo una nota di immensa tristezza. «Ma questa volta c’è qualcosa di diverso, non è vero? Questa volta non è come prima.»
Lui sorseggiò il caffè ormai tiepido prima di rispondere. «Non ho una spiegazione valida. Solo che stavolta questo mostro mi conosce, riesce a penetrare nella mia mente: come e perché è un mistero.»
«Forse ha trovato per caso il tuo codice d’accesso.»
La guardò sorpreso. «Non ti seguo.»
Fran respinse in avanti il piatto e poggiò i gomiti sul tavolo. «Mettila così, tanto per citare i tuoi beneamati computer. Quando vuoi accedere a un altro sistema devi avere il codice particolare di quel sistema per potervi entrare, non è così? Una volta che hai il codice sei dentro la memoria, la banca dati di quell’altro sistema. Tanto è vero che poi si ha un dialogo tra le due macchine, giusto? Bene, forse quest’altra mente ha trovato fortuitamente il tuo codice d’accesso, o forse nel tuo subconscio tu hai il suo.»
«Non sapevo che ti interessassi di certe faccende.»
«Di solito no, infatti. Ma dopo l’altra volta sono rimasta per lo meno incuriosita. Ho fatto qualche ricerca, non molto, abbastanza per cominciare a capire. Molto ancora non è chiaro, ma almeno so qualcosa delle varie teorie a proposito dei fenomeni psichici. Ti dirò, molti sono fatti ridicoli, altri invece hanno una loro logica affascinante. Mi sorprende che proprio tu non abbia cercato di capirci qualcosa!»
Si sentì a disagio nel rispondere. «Io volevo scordarmi di tutto, non cercare di approfondire.»
«Strano!»
«Cosa?»
«Mah, niente» Sorrise come distratta. «Non ti sono mai piaciute le storie di fantasmi, io ho sempre pensato che fosse per la tua mania dei microchip; in quella tua testa tecnologica non c’è posto per certi romanticismi. Che ironia della sorte, che proprio uno come te dovesse ricevere dei messaggi psichici. Se non fosse così orrendo ci sarebbe quasi da ridere.»
«In qualche cosa sono cambiato, comunque.»
«Ah sì? E in che cosa sentiamo?»
«Intanto i computer sono diventati secondari nella mia vita. Sono solo un lavoro, part-time oltretutto.»
«Allora sei cambiato davvero. Altri miracoli?»
«Un ritmo di vita diversa, più tranquilla, più tempo dedicato al riposo, godendo di ciò che mi circonda.»
«Non è che tu fossi un mostro di laboriosità quand’eri qui, Jon, anche se in effetti facevi troppe ore; comunque trovavi sempre del tempo da dedicare a me e a Gabby quando potevi.»
«Oggi mi rendo conto che comunque non era sufficiente.»
«Anch’io ero in colpa. Facevo troppe richieste ingiuste. Ma è acqua passata ormai, è inutile stare qui a rivangare.»
«No, infatti, è acqua passata come dici tu.» Pose la tazza sul tavolo. «Fran, mi preoccupa che rimaniate qui da sole.»
«Allora credi davvero che questo mostro volesse rapire Gabby?»
«Voleva colpire me attraverso di lei.»
«Come fai a sapere che si tratta della stessa persona? E perché ne parli come se fosse un mostro, un animale? È un mostro ma è umano». Ora la sua voce era adirata.
«Non riesco a credere che sia un uomo. Quella sensazione di malvagità è così potente, così ‘sovrumana’! Quando i suoi pensieri penetrano i miei, riesco quasi a sentire l’odore della corruzione, ne vedo la depravazione.»
«Sei proprio cambiato, sì!»
Lui scosse la testa stancamente. «Cerco di descrivere l’impressione che mi rimane dopo. Una malvagità purulenta, terrificante che mi viene imposta ed è oscena Fran.»
«Sì, credo di capire. Jon, io non metto in dubbio le tue visioni, e che tu soffra realmente quando accadono, ma sei certo di non aver perso la testa?»
Lui sorrise. «Non sei mai stata una con i peli sulla lingua, eh? Vuoi dire se sto diventando pazzo?»
«No, non era questo che intendevo. Ma queste tremende esperienze non potrebbero provocarti delle allucinazioni? Parliamoci chiaro, ci sono milioni di funzioni poco conosciute della mente, chi ci dice quando uno va fuori fase e in che modo?»
«Devi credermi: questa persona, se è così che vuoi chiamare questo essere, che ha ucciso la prostituta e il vecchio, che ha profanato il corpo del bimbo è la stessa che ha rapito per errore Annabel. Mi conosce, e vuole farmi del male, per questo tu e Gabby dovete essere protette.»
«Ma come poteva sapere dove abitavamo? Ha letto l’indirizzo nella tua testa? È completamente folle questa storia.»
«Non riesco a nascondere il mio passato, non capisci?»
«No, non capisco un maledetto niente.»
«Come con il computer, è tutto nella mia memoria, una volta che si ha il codice diventa facile. Forse ha scoperto cosa mi era già successo, come ho visto quegli altri omicidi». Gli venne un’idea. «Fran, hai fatto rimettere il numero nell’elenco?»
«Non quello vecchio, dopo tutte quelle telefonate di pazzi che sono arrivate. Ma io ho bisogno di essere sull’elenco con il lavoro che faccio, e allora mi sono fatta dare un nuovo numero.»
Childes si accasciò sulla sedia. «Ecco la risposta, è così che ha fatto.»
«Insomma, non è umano ma riesce a consultare l’elenco telefonico». Il piede le batteva nervosamente in terra.
«Ho cercato di spiegartelo. È una persona, ma dentro è disumana. È intelligente, altrimenti la polizia l’avrebbe già presa, e poi è sensibilissima.»
«Non abbastanza da rapire la persona giusta, però!» esclamò lei.
«No, grazie a…». Si fermò senza finire la frase, e quel comune senso di colpa ruppe la tensione. «Il punto è,» disse Childes più gentilmente, «che si accorgerà presto dell’errore se non lo ha già capito grazie ad Annabel.»
«I giornali!»
«Tutti i mezzi di comunicazione.»
Lei spalancò gli occhi. «Jon, se scoprono il nesso…»
Lui finse di studiare la tovaglia. «Si ricomincerebbe da capo. È una coincidenza troppo forte: una bambina viene rapita alla porta accanto all’uomo che aveva aiutato la polizia nelle indagini di tre anni fa.»
«Non potrei sopportarlo un’altra volta.»
«Un’altra buona ragione per andarsene un po’. Overoy ha provveduto a far sorvegliare la casa ma non può tenere lontana la stampa. Adesso hanno come pretesto di tenere d’occhio Melanie e Tony, ma i giornalisti capiranno al volo. Sarà una giornata campale quando scopriranno la verità. Io penso che potreste venire tutt’e due da me per un poco.» Quest’ultima frase la disse con una certa cautela.
«Non è proprio possibile Jon» rispose subito lei. «Io ho un lavoro, ricordi? e Gabby deve andare a scuola.»
«Un paio di settimane non farebbero male a nessuna delle due, tu avrai pure delle ferie!»
Lei scosse la testa. «No, no. L’agenzia ha troppo lavoro di questi tempi, e non possiamo permetterci di mandare via i clienti. E poi Gabby e io prima o poi dovremmo pur tornare, e allora cosa succederebbe?»
«La speranza è che nel frattempo questo assassino venga beccato.»
«Mi piacerebbe sapere come! No, Jon, non si può fare, arriviamo a un compromesso, andremo a stare da mia madre. Le piacerebbe tanto avere Gabby tra i piedi per un po’. Non è molto lontana così potrei arrivare in città abbastanza facilmente.»
«Perché non permetti a Gabby di venire da me da sola?»
«Il giudice ne ha affidato a me la tutela!» rispose lei con tono duro.
«Lo so, io non ho contestato niente.»
«Hai fatto bene a non farlo. E comunque non ti è venuto in mente che sei tu in pericolo in questa situazione? Non credi che questo tuo tormentatore possa essere venuto qui a cercare proprio te?»
L’ipotesi era stata discussa con Overoy mentre venivano dall’aeroporto. «Può darsi che tu abbia ragione Fran, non c’è modo di esserne sicuri. Ma ciò dimostrerebbe che non sa dove vivo attualmente.»
«Più lui ti fruga nella mente e più cose saprà di te.» Continuava a definire ‘lui’ il rapitore di Annabel.
«Il potere non funziona in quel modo. I pensieri non sono così sicuri, potrà sapere com’è l’ambiente in cui mi trovo, ma non dov’è! Ti ricordi che anch’io ero in grado solo di descrivere il luogo dov’erano sepolti i bambini.»
«Eri piuttosto preciso però; comunque ho capito quello che vuoi dire. Rimane il fatto che tu rappresenti un pericolo.»
Lui fu costretto ad accettare. «Anche da tua madre dovrete essere comunque protette.»
«Chissà come si divertirà, sai com’è fatta, no?»
«Sì, certo. E Gabby, la tieni a casa allora?»
«Se credi, altrimenti potremmo trovargli una scuola vicino a casa di mia mamma.»
«Meglio ancora.»
«D’accordo allora!» Fran si passò la mano tra i capelli castani e sembrò rilassarsi un poco. «Vuoi un altro caffè?»
«No grazie. Sto crollando. Ti crea problemi se rimango qui stanotte?»
«Era previsto. Nonostante gli screzi che ci sono stati sei sempre il benvenuto qui.» Gli toccò la mano con un gesto un po’ incerto e lui rispose premendole la punta delle dita, brevemente. «Forse non è andata a finire troppo bene la nostra storia, ma c’è stato qualcosa di buono, no?»
Malgrado la stanchezza Childes sorrìse. «Sono stati anni belli Fran.»
«All’inizio.»
«Siamo cambiati, non ci si riconosceva più.»
«Quando…» iniziò a dire, ma lui l’interruppe.
«Acqua passata Fran.»
Lei abbassò lo sguardo. «Ti sistemo il lettino nella stanza degli ospiti, se è lì che vuoi dormire…» La frase rimase volutamente sospesa a mezz’aria.
Era tentato. Fran non era ceno meno desiderabile ora di quanto non lo fosse stata prima e le tetre emozioni della giornata li avevano lasciati entrambi bisognosi di affetto fisico. Passò qualche attimo prima che rispondesse: «Ho un buon rapporto sentimentale con un’altra persona da un po’ di tempo.»
Forse c’era una punta di risentimento nella voce di Fran. «Una collega, un’insegnante?»
«Come fai a saperlo?»
«Quando è tornata dall’ultima vacanza con te, Gabby non parlava d’altro che di questa maestra tanto simpatica che aveva incontrato. E da parecchio che andate avanti no? Non ti preoccupare, parla pure tranquillo, non sono più gelosa, oltretutto non potrei neanche permettermelo.»
«Si chiama Aimée Sebire.»
«Francese?»
«No, solo il nome. La conosco da un paio d’anni ormai.»
«Una cosa seria.»
Lui non rispose. «Io invece m’innamoro sempre di uomini sposati,» sospirò Fran, «non sono mai stata brava a scegliere.»
«Sei sempre molto bella Fran.»
«Ma non irresistibile!»
«In altre circostanze io…»
«Sì, non ti preoccupare, lo faccio apposta per metterti a disagio, l’indipendenza per una donna non è poi quella gran cosa di cui si dice, anche in quest’epoca. Avere un corpo caldo contro cui accoccolarsi nel letto, una forte spalla maschile su cui addormentarsi, sono ancora bisogni primari per noi sedicenti donne emancipate.» Si alzò lentamente dal tavolo e lui si accorse per la prima volta delle ombre scure che aveva sotto gli occhi. «Ci penso io alle lenzuola. Ancora non mi hai detto cosa pensate di farne del nostro amico orco, tu e il tuo compare Overoy». Si fermò sulla porta della cucina in attesa della risposta.
Egli si voltò sulla sedia per guardarla meglio e la risposta la raggelò.
«Finora mi ha sempre cercato ‘lui’, mi ha frugato nella mente ‘lui’: Overoy pensa che sia giunto il momento di invertire i fattori.»
Si svegliò all’improvviso sentendo la presenza di qualcuno lì nella stanza. Per alcuni secondi rimase disorientato, la poca luce dall’esterno era estranea, le forme nella stanza buia sconosciute. In un attimo ripercorse gli avvenimenti della giornata. Era a casa. No, non era a casa. Era temporaneamente tornato nella sua vecchia casa con Fran e Gabby. La luce veniva dal lampione sulla strada.
Un’ombra si avvicinò.
Childes si mise seduto di scatto, irrigidito dalla paura improvvisa.
Si sentì un peso sul letto e la voce bassa di Fran. «Scusa Jon, non ce la faccio a dormire da sola stanotte. Non arrabbiarti.»
Lui alzò le coperte e lei gli scivolò accanto avvicinandogli. La sottoveste era morbidissima contro la sua pelle.
«Mica dobbiamo fare l’amore per forza» bisbigliò. «Non è per questo. Basta che mi metti un braccio intorno e mi tieni stretta per un po’.»
Lui obbedì… e fecero l’amore.
Si svegliò di nuovo molto più tardi; era notte fonda, il sonno gli ottundeva la mente.
Una mano gli strinse la spalla, anche Fran si era svegliata. «Cos’è?» mormorò.
«Non lo so…»
Si udì di nuovo un suono.
«Gabby!» dissero all’unisono.
Childes si precipitò giù dal letto con Fran alle spalle, dirìgendosi di corsa verso la porta. Un freddo terrore gli faceva accapponare la pelle nuda. Cercò a tastoni l’interruttore della luce del corridoio, preso da una improvvisa vertigine, la luce gli fece strizzare gli occhi.
Videro la gatta nera fuori della porta aperta della stanza di Gabby, aveva la schiena arcuata, il pelo irto come tanti spilli. Fissava davanti a sé, gli occhi furenti, la mascella vibrante di rabbia con i dentini aguzzi.
Gabby gridò ancora, uno strillo acuto.
Il pelo della gatta si mosse come sfiorato dalla brezza, poi sparì lungo le scale.
Si affrettarono lungo il corridoio e quando entrarono nella stanza videro Gabby seduta sul letto. Guardava diritto davanti a sé fissando un angolo buio della stanza, la lampada da notte gettava lugubri ombre sul suo viso. Non li guardò affatto quando si avvicinarono al letto ma continuò a fissare sempre quello stesso angolo in ombra, dove sembrava vedere qualcosa. Qualcosa che né il padre né la madre potevano scorgere.
Quando Fran la prese tra le braccia, sbatté gli occhi come se si risvegliasse da un sogno. Childes la guardò preoccupato mentre si divincolava per cercare qualcosa dietro al comodino. Trovò gli occhiali e li inforcò scrutando nuovamente l’angolo della stanza.
«Dov’è?» chiese con la vocina piena di lacrime.
«Chi amore, chi?» chiese Fran stringendola a sé.
«È andata via un’altra volta, mamma? Era così triste!»
Childes sentì i capelli drizzarglisi sulla nuca, aveva la fronte e le mani madide di sudore.
«Dimmi chi Gabriel,» disse sua madre, «dimmi chi hai visto.»
«Mi ha toccata ed era tanto fredda, ghiacciata, mamma. Annabel era così triste.»
Nelle profondità della mente di Childes qualcosa si mosse, un ricordo dimenticato da tempo.
Il pacchetto arrivò il lunedì mattina con la prima posta ed era indirizzato a JONATHAN CHILDES. Sia il suo nome che l’indirizzo di Fran erano scritti in stampatello con una grafia minuta e ordinata. La busta era gialla e di formato normale.
Dentro c’era una scatoletta di dieci centimetri per dieci.
Dentro la scatola c’era della carta velina arrotolata.
Avvolti nella carta c’erano sei oggetti.
Cinque erano le piccole dita di una mano.
L’ultimo era una liscia, bianca pietra di luna.
La vita continuò, come al solito.
Childes fece ritorno all’isola dopo due giorni di interrogativi estenuanti da parte della polizia, e non prima di aver visto la figlia e l’ex moglie al sicuro in casa della nonna, che abitava in un tranquillo villaggio alle porte di Londra. Non le aveva accompagnate per evitare che qualsiasi dettaglio del viaggio gli rimanesse impresso nella memoria.
Nonostante non avesse potuto fornire alla polizia alcun indizio in più, era sicuro che soltanto le rassicurazioni dell’ispettore Overoy li avevano convinti a lasciarlo partire. Né il timbro postale, di un quartiere periferico di Londra, né la meticolosa calligrafia dell’indirizzo sul macabro pacchetto avevano fornito indizi utili alle indagini. Non c’erano tracce di saliva sull’involucro, la busta era del tipo autoadesivo, e non c’erano impronte chiare sulla busta o sulla scatola. Alla stampa non era stato fatto cenno della pietra di luna che era assieme alle dita mutilate; la polizia evitava sempre di provocare delitti di mitomani che imitavano gli altri. Che ci potesse essere un collegamento con altri casi non fu negato, anche se gli inquirenti si rifiutarono di spiegare il perché.
Childes beneficiò della discrezione delle autorità e riuscì a lasciare il paese prima che certe ovvie conclusioni venissero fatte dai mass media. Il suo contatto psichico con l’assassino era rimasto segreto. Il rapporto del medico legale dichiarò che le dita erano state mozzate quando la vittima era già morta, una magra consolazione dall’orrore.
Il corpo di Annabel non fu mai trovato e a lui non venne alcuna visione, malgrado cercasse più volte di scrutare nella propria mente.
Non doveva accadere più nulla per alcune settimane.
Nel sogno guardava il bambino dai capelli scuri e sapeva che quel bimbo era lui stesso.
Era seduto diritto sul piccolo letto con le lenzuola ammucchiate all’intorno, ed era piccolo, tanto piccolo. Parlava, ripeteva sempre le stesse parole come in una litania senza senso.
«…non puoi… non puoi essere…»
Ai piedi del letto una figura di donna, una statua d’avorio immobile nella luce della luna. Emanava una tristezza inconsolabile, e così come l’osservatore dormiente sapeva di essere quel bimbo, sapeva anche che la donna era sua madre. Ma era morta.
«…lui dice che… non puoi… non puoi essere…» mormorava il ragazzino, e la tristezza tra la donna e il bambino, tra madre e figlio, si fece immensa.
Poi il figlio si accorse dell’osservatore, i suoi occhi sorpresi guardarono in alto verso l’angolo più buio del soffitto, guardò se stesso dritto negli occhi.
Ma l’attimo svanì appena si sentirono dei passi pesanti nel corridoio. Svanì anche la visione spettrale della madre.
L’ombra scura e ondeggiante di un uomo si stagliò contro la porta; Childes fu colpito dalla sensazione di disperazione e di rabbia che fluiva dal padre in ondate minacciose, una furia carica di colpe che saturava l’aria. Childes si ritrasse, così come fece il se stesso bambino, quando l’uomo ubriaco avanzò con i pugni alzati.
«Te l’avevo detto,» urlò il padre, «mai più! Mai più…» Il ragazzino gridò sotto le coperte mentre cadevano i colpi.
Childes cercò di gridare, di dire al padre di lasciar stare quel bambino che non poteva fare a meno di evocare il fantasma, lo spirito della madre; che lei era tornata per rassicurarlo, per fargli sapere che l’amore non era morto con il suo corpo minato dal cancro, che l’amore vive sempre, che la tomba non era una prigione, che lei lo avrebbe amato sempre e che lui avrebbe potuto sempre saperlo grazie a questo suo dono particolare che gli permetteva di vederla… Ma il padre non ascoltava, non udiva, l’ira superava ogni sentimento, ogni emozione. Aveva detto al figlio che non vi era vita dopo la morte, che i morti non potevano fare ritorno per tormentare i vivi, che la madre era morta piena di odio e che aveva meritato la lunga sofferenza perché Dio condannava coloro che avevano l’animo corrotto dall’odio, e che non poteva risorgere per parlare d’amore quando era colma di rancore per lui, per il marito, il padre del suo bimbo, e che non esistevano gli spiriti o i fantasmi perché persino la chiesa negava la loro esistenza, e non c’era niente del genere, niente, niente…!
Le urla del bambino si erano trasformate in singhiozzi, la punizione stavolta era stata peggiore di tutte le altre. Ben presto la coscienza iniziò a svanire mentre il bimbo chiudeva la propria mente, rigettando volutamente ciò che stava accadendo, ciò che era accaduto. Childes, l’uomo, il testimone dormiente si rese conto che rigettava anche ciò che sarebbe accaduto in futuro.
Si svegliò piagnucolando, come aveva fatto tanti anni prima, da bambino.
«Jon, che cos’hai?»
Amy si sporgeva su di lui, i suoi capelli gli carezzavano la guancia. «Avevi un incubo, come l’altra volta, ripetevi sempre le stesse parole, poi hai gridato a qualcuno di smetterla, di fermarsi.»
Aveva il fiato corto, rapido, il torace gli pompava come un mantice. Lei aveva acceso la lampada sul comodino e il suo dolce viso era un sollievo dopo l’incubo, nonostante l’angoscia evidente.
«Mi… mi ha costretto lui…» mormorò.
«Chi, Jon? Cosa?»
Si stava riprendendo velocemente. Childes rimase sdraiato ancora qualche momento, raccogliendo le idee. Poi si tirò su in modo da poggiare la schiena contro il muro. Amy era accoccolata al suo fianco, le ombre accentuavano le curve del suo corpo sinuoso e il lenzuolo le cadde attorno ai fianchi. Con la mano gli tolse i capelli scuri davanti agli occhi.
«Cosa ho detto nel sonno?» le chiese.
«Borbottavi qualcosa come ‘non può essere’, anzi no, ‘non puoi essere’. Continuavi a ripetere la stessa frase, poi hai iniziato a gridare.»
Malgrado l’ora tarda non c’era un filo di vento, non una brezza passava attraverso la finestra spalancata a rinfrescare l’aria.
«Oh Amy, Amy. Adesso comincio a capire.» Le parole suonarono quasi come un lamento.
Lei lo abbracciò e gli posò la testa sul petto. «Mi spaventi Jon. parlami, spiegami tutto, non nascondermi niente.»
Lui le accarezzò la schiena assorbendo con piacere il suo calore attraverso le dita sensibili. Iniziò a parlare, con voce bassa, esitante dapprima, come se dovesse lui stesso capire ciò che diceva.
«Quando Gabby… quando ha visto… ha creduto di vedere… Annabel… quella notte… dopo che era stata rapita, qualcosa in me si è risvegliato: un pensiero, una sensazione, un ricordo. Qualcosa che avevo tenuto nascosto per tanto tempo. È difficile, non so se riuscirò a spiegartelo completamente, ma ci devo provare.»
Amy si staccò da lui per poterlo guardare meglio.
«Nessuno, credo, vuole odiare il proprio padre,» continuò, «e poi ricordati che per anni è stato il mio unico genitore, quindi possono essere intervenuti anche dei sensi di colpa nel mio non accettare certe verità sul mio conto. Non sono sicuro di niente, sto solo cercando delle risposte, un filo logico, capisci Amy?»
Rimase silenzioso, come se cercasse nei suoi pensieri, come se tentasse di mettervi ordine. Amy suggerì. «Il sogno Jon, perché non parti da lì?»
Childes si passò le dita sugli occhi chiusi. «Sì!» disse. «Il sogno, deve essere quello la chiave di tutto. Solo che non credo che sia stato solo un sogno, Amy.» Le prese la mano tenendosela in grembo e guardando la finestra sull’altro lato della stanza. «Ho visto me stesso bambino, avevo più o meno l’età di Gabby, mi sembrava di guardarlo dal soffitto, guardavo me stesso, come se fossi seduto su in alto in un angolo della mia stanza. Il bambino era seduto nel letto, aveva paura, eppure a me sembrava che fosse felice. C’era qualcun altro nella stanza, illuminata dalla luna, era una donna, guardava il ragazzo come facevo io. Io so che era mia madre.»
Childes tirò un respiro profondo mentre Amy aspettava in silenzio. Aveva il viso teso e gli occhi lucidi di emozione per la scoperta fatta e di tristezza al tempo stesso. Lei si irrigidì quando lui disse. «Ma mia madre era morta da almeno una settimana.»
«Jon…»
«No, ascoltami fino in fondo Amy. Gabby non ha sognato quella notte che ha visto Annabel. Non capisci? Gabby ha il mio stesso potere, è una sensitiva, una medium… io non so come accidenti definirla perché ho evitato queste cose per tutta la vita. Gabby e io siamo uguali, ha ereditato da me questo ‘dono’. Ma mio padre, che Dio lo aiuti, mi ha picchiato tanto da farmele scordare certe idee; lui si rifiutava di ammettere che ci potesse essere un potere del genere, e ha fatto in modo che neanche io lo accettassi. Nel sogno l’ho visto entrare nella stanza e picchiare il bambino, picchiare me fin quando non ho perso conoscenza. E non era la prima volta, e nemmeno l’ultima. Mi ha costretto a rimuovere queste capacità, questo extra-senso dalla mia mente.»
Fece una pausa, per riprendere fiato; le ultime parole erano state come un torrente in piena. «Non credo che saprò mai tutta la verità Amy. Posso solo raccontarti quello che ho sentito. Ho sempre rifiutato razionalmente tutto ciò che ha a che fare col sovrannaturale, come tutti i ragazzini a cui viene detto per anni, di continuo, che una cosa è sbagliata o contro natura. Eppure il potere è rimasto racchiuso dentro di me tutto questo tempo. Ma ti immagini che razza di conflitto deve esserci stato nel mio cervello di bambino? Io amavo mia madre e mi mancava, avevo bisogno del suo conforto, del suo amore, e mio padre è riuscito a costringermi a rifiutarla, e con lei, quel mio particolare potere. Probabilmente alla fine il raziocinio ha vinto la battaglia, ma non poteva durare in eterno.»
Amy ritrasse la mano per carezzargli il viso. «Spiegherebbe tante cose di te. Anche il perché hai scelto una professione così razionale e logica per esempio. L’unica sorpresa è che tu non sia pieno di nevrosi.»
«E chi lo dice?» Si spostò sul letto per allentare la tensione del corpo. «Ma perché adesso Amy? Perché tutto questo è venuto fuori adesso?»
«Ma non è appena successo. Non capisci? Questi avvenimenti sono iniziati tre anni fa.»
«L’omicidio di quei bambini?»
«Non è stato allora che sono riprese le visioni? Eppoi chissà quante altre volte ti era successo, e tu l’hai imputato a una semplice intuizione.»
Lui ci pensò su poi disse lentamente. «Forse c’è voluta un’altra mente per dargli il via.» E aggiunse sottovoce. «Qualcuno che ha trovato per caso il mio codice.»
«Cosa?»
«Una cosa che mi ha detto Fran, un paragone tra la mente e i computer con i loro codici d’accesso. Il paragone non è importante ma il principio potrebbe esserlo.» Tirò su le ginocchia improvvisamente. «Mi sono ricordato di un’altra cosa del sogno, se così si può definire. Il bambino mi ha visto. Si era accorto della mia presenza.»
Lei scosse la testa. «Non capisco.»
«Mi ha guardato dal letto. Io ho guardato me stesso. Amy! No, non ho sognato stanotte, è stato un ricordo. Io mi ricordo dello spirito di mia madre che veniva da me. Mi parlava del suo amore, del fatto che la morte non è la fine, e mi ricordo di altri occhi che mi guardavano quella notte. Ti giuro Amy, io ricordo quella notte dal punto di vista del bambino. Quegli occhi appartenevano a qualcuno che mi voleva bene, come mia madre. Amy, capisci adesso? Io avevo allora il potere di vedere il me stesso futuro! Sono pazzo Amy? O è questa la verità? Io ho avuto allora il potere di vedere me stesso nel futuro e oggi ho visto me stesso nel passato.»
Tremò e lei lo strinse forte. «Lo sento Amy, sento forte il potere in me. E… e…»
Davanti a lui c’era un bagliore, un vago baluginio, ma lui sapeva che era solo nella sua testa, non nella stanza. Prima piccolo poi sempre più grande, arrotondato, prendeva forma.
Una pietra di luna.
Ma no. Cresceva ancora, cambiava consistenza. Non era più una pietra.
Fessure e crateri ne segnavano la superficie. Catene di montagne gettavano ombre sulla sua superficie bianca.
Vedeva la luna.
E con quell’immagine lo colpì una sensazione di terribile paura.
Jeanette arrivò di volata attraverso l’aiuola circolare diretta al laboratorio di scienze, sperando che nessuno dei docenti la vedesse mentre calpestava quel sacro terreno. Girò attorno alla statua del fondatore della scuola, i capelli scuri al vento, i libri per la lezione successiva sotto il braccio. Fortuna che c’era informatica e che il professor Childes non si incavolava quasi mai, anche se ogni tanto diventava piuttosto severo quando le ragazze facevano troppo casino.
Con sollievo superò l’aiuola e arrivò sull’acciottolato dell’ingresso. Imboccò gli scalini a due a due, spinse il portone di cristallo e piombò su per le scale che portavano al primo piano dov’era l’aula di informatica che faceva parte dei laboratori di scienze. Quando fu quasi in cima inciampò lasciando cadere i libri, così dovette ridiscendere per raccoglierli tutti.
Fuori della porta dell’aula sostò un attimo per tirare il respiro e riassettarsi i capelli con le dita, poi entrò.
«Ciao Jeanette» l’accolse Childes con una smorfia. «Sei un po’ in ritardo.»
«Sì, mi scusi signore» disse lei, ancora trafelata nonostante la sosta. «Ho lasciato nel dormitorio il foglio del mio programma e non ho avuto tempo per andarlo a prendere prima.» Lo guardò un po’ preoccupata.
«OK,» le disse, «vediamo un po’, dovrai dividere una macchina con Nicole e Isobel. Poi toccherà a te. Spero che tu abbia un buon programma da sperimentare!»
«È un test di ortografia.»
Qualcuno ridacchiò. «Beh, certo che è un pochino elementare, Jeanette, comunque andrà benissimo» disse Childes e poi aggiunse a beneficio delle altre: «Ognuno ha i suoi tempi con i computer, non ci sono scorciatoie. Ci vuole un po’ prima che la logica della macchina diventi chiara a tutti; poi fila tutto liscio.»
Jeanette si mise su una sedia alle spalle di Nicole e di Isobel e vide che stavano facendo un gioco di anagrammi.
Childes passò di apparecchio in apparecchio, dando consigli o suggerimenti per migliorare i programmi delle alunne in modo da renderli più interessanti.
Sostò alle spalle di Kelly e sorrise con evidente piacere. Stava simulando i tempi di ingresso e uscita dal porticciolo turistico, sia delle barche a motore che di quelle a vela. Si era presa la briga di far visita alla locale capitaneria di porto per raccogliere i dati riguardanti le maree, i venti, i regolamenti portuali ed altro. Kelly si accorse del suo interesse e lo guardò con un sorriso.
Come al solito, pensò lui, sei sempre un po’ troppo presuntuosa Kelly, ma non c’è dubbio che sei la più brava. «Non c’è male Kelly, vedo che pensi al tuo futuro.»
«Proprio così, ma il mio yacht spero che sia alle Bahamas.»
Lui riuscì a trattenere una risata. «Sono sicuro che sarà così Kelly.»
Lei tornò a guardare lo schermo muovendo le dita agili e sicure sulla tastiera. L’unica macchia che aveva sulla mano era di inchiostro e lui si chiese, e non era la prima volta, cosa mai avesse provocato quella visione della sua mano bruciata qualche giorno prima. Le premonizioni non facevano parte del suo strano potere. Eppure da ragazzo aveva visto se stesso nel futuro. Era confuso e spaventato, ma non aveva più intenzione di soggiacere a questa maledizione, né al mostro che lo tormentava attraverso la mente. Childes aveva iniziato a sondare se stesso, una tattica che gli aveva suggerito Overoy. Cercare la mente pervertita del criminale. L’incendio del manicomio era ancora ufficialmente opera di ignoti, ma né lui né Overoy avevano dubbi; era opera dello stesso che aveva ucciso e mutilato prima. Forse avrebbe dovuto essere grato della fiducia che l’ispettore aveva in lui, e non c’erano dubbi che Overoy aveva fatto del suo meglio per evitare che Childes venisse collegato alla sparizione di Annabel. Overoy lo stava ripagando del fatto di non aver gestito molto bene la precedente vicenda. Ma Childes non si fidava comunque di quell’uomo. L’ultima volta che si erano parlati, appena tre giorni prima, Overoy lo aveva informato che gli era stato assegnato il coordinamento delle indagini riguardanti tutti e quattro i casi. Il suo coinvolgimento con Childes era il motivo principale dell’incarico; sfortunatamente non c’erano stati ulteriori sviluppi. Lui non poteva dirgli proprio niente altro, qualcosa che gli evitasse di fare la figura del cretino con i suoi superiori. No, non aveva altre informazioni, comunque gli aveva detto della strana apparizione della pietra che era poi diventata la luna stessa. Cosa significava? E che accidenti ne sapeva! No, non c’era stato nessun contatto con l’altra niente. Anzi, dopo aver accettato la realtà di questo suo potere extra-sensoriale Childes si chiedeva se il potere non lo avesse abbandonato, come un fantasma che scompare appena uno cerca di metterlo a fuoco.
Si chiese se non fosse tutto finito. Che quella creatura, come l’infanticida anni prima, non si fosse per caso tolta la vita, non avesse forse cessato di esistere? Erano finite le orrende visioni e gli incubi?
«Signore, signore!»
La voce di Kelly aveva interrotto i suoi pensieri. Lui la guardò e vide che si era di nuovo girata verso di lui, ma stavolta aveva uno sguardo perplesso.
«Cosa c’è Kelly?» le chiese alzandosi dalla cattedra.
«Il mio computer sta dando i numeri». Si voltò e pigiò con forza un tasto.
«Ehi, buona! Non te la prendere con il computer. Ricominciamo da capo con logica» le disse avvicinandosi.
Si sporse in avanti e si sentì gelare, ogni altra parola gli rimase in gola. Strinse la mano sullo schienale della sedia sentendo una leggera pressione alla mente.
«Perché hai scritto quella roba Kelly?» chiese, cercando di mantenere la calma.
«Io non ho fatto niente,» rispose lei indignata, «è apparsa senza preavviso e il resto è scomparso.»
«Lo sai benissimo che non è possibile!»
«Ma davvero, io non ho fatto niente!»
«OK! Cancella lo schermo e ricominciamo daccapo.»
La ragazza premette il tasto RETURN. Non accadde niente.
Childes pensando ancora che si prendesse gioco di lui si allungò e premette la stessa chiave. Non ebbe alcun effetto.
«Kelly, cos’hai…»
«Ma come facevo, io non so fare queste cose…»
«Va bene, va bene, cedimi il posto.» Childes si inserì al posto della ragazza, gii occhi fissi sul monitor. Stentava a credere ai propri occhi. Altre ragazze si erano avvicinate incuriosite. «Proviamo con il RESET» mormorò mantenendo calma la voce. Ma non poteva nascondere il sudore che gli imperlava la fronte. Premette il tasto. Lo schermo si cancellò e mi tirò un sospiro di sollievo.
Poi la parola riapparve.
«Ma perché fa così, signore?» chiese Kelly che sbirciava sorpresa e affascinata da sopra la sua spalla.
«Non ne ho idea,» rispose, «non dovrebbe poterlo fare. Potrebbe essere qualcuno che dall’esterno si è inserito nel nostro sistema.» Ma era poco probabile, pensò tra sé. Poi ripensò all’analogia di Fran. Sciocchezze, non c’entrava niente! Premette di nuovo il RESET.
La parola scomparve; poi riapparve.
«Non vorrei cancellarti il programma,» disse Childes a Kelly con la voce falsamente tranquilla, «ma ho paura di non avere altre soluzioni». Stavolta premette HOME. Lo schermo si cancellò, diventò grigio, vuoto. Lui si abbandonò sulla sedia.
Poi si irrigidì nuovamente quando vide risplendere dal buio la parola. Fissò Io schermo con gli occhi sbarrati. Era a lettere verdi:
Alcune delle ragazze si erano radunate attorno a loro ma da quelle rimaste al posto arrivavano gridolini sorpresi. Childes si alzò e andò di monitor in monitor. Su ognuno era stampata la stessa incredibile parola.
Con una disperazione che spaventò le ragazze, passò di banco in banco strappando le prese, togliendo corrente a ogni macchina, finché tutti gli schermi non furono grigi. Le ragazze si assieparono da un lato come se fosse impazzito.
Cautamente si avvicinò al computer dove aveva lavorato Kelly, si chinò e infilò la spina.
Lo schermo si accese, ma adesso la parola che lo aveva spaventato non c’era più.
Trovò Amy dopo la lezione, durante la quale era a malapena riuscito a mantenere una facciata di tranquillità davanti alle ragazze. Aveva spiegato che probabilmente il fenomeno era dovuto a qualche strana interferenza di qualche computer esterno al sistema. La spiegazione era poco credibile ma le ragazze sembrarono accettarla.
Childes fece salire Amy in macchina ringraziando il cielo che la lezione fosse finita subito prima dell’intervallo del pranzo, dandogli modo di allontanarsi. Non si fermò finché non arrivarono in un punto isolato sulla scogliera.
Spense il motore e si girò a guardare il mare. Dopo qualche secondo, quando ebbe ripreso a respirare normalmente, si voltò verso di lei e disse: «È qui Amy. È qui sull’isola.»
La giornata era perfetta. Appena qualche piccola nuvola bianca immobile contro lo sfondo azzurro limpido del cielo. Non si sentiva un alito di vento. Il sole come una palla di fuoco brillava dominando il mondo. Una leggera foschia si andava diradando sul mare rendendo altre isolette lontane appena delle macchioline indistinte.
Decine di motoscafi segnavano il mare con le loro scie spumeggiami mentre le vele cercavano invano una brezzolina con cui gonfiarsi. Sotto riva dei surfisti stavano cavalcioni delle loro tavole con le vele colorate pigramente adagiate sull’acqua. Le spiagge erano affollate mentre le insenature isolate rimanevano tranquille, rifugi ideali per coloro che ambivano alla tranquillità tanto da affrontare le impervie discese.
Sulla cima di una scogliera che dominava una di queste piccole baie si ergeva il collegio femminile La Roche, bianco edificio come un faro illuminato dal sole.
Un sabato ideale per il giorno delle premiazioni: tutti, docenti, studentesse e classi erano agghindati pronti per le ispezioni ufficiali. Era un giorno importante per la scuola, venivano assegnati premi e onorificenze, certificati di merito e attestati per i risultati raggiunti individualmente e in gruppi o squadre. Poi c’erano i discorsi, quello della preside, la signorina Estelle Piprelly, e quello di uno dei consiglieri, Victor Platnauer; poi ci sarebbe stata la recita della capoclasse, un resoconto in versi baciati (come voleva la tradizione) degli avvenimenti dell’anno. Era questa una prova di ingegno e costanza per la ragazza prescelta (e di grande pazienza da parte dell’uditorio), tutto per conquistare altri genitori paganti. Un giorno di grandi divertimenti anche: una serie di lotterie, giochi vari, una rivendita di divise di seconda mano, un banco di dolci e pasticcini, un altro di gelati e di fragole e panna, marmellata e caramelle, un banco di hot-dog e una grande grigliata di salsicce, un distributore di vino e bevande varie; vi sarebbe stato anche il saggio di ginnastica e il coro, poi un balletto popolare, il tutto tra i magnifici prati e le aiuole fiorite.
Una giornata in cui niente doveva andare storto, insomma.
Arrivavano frotte di genitori, nei parcheggi quasi al completo le auto manovravano per entrare in spazi angusti, le ragazze giravano tra la gente eccitate e nervose ma tutte cercando di mostrarsi a loro agio, molte civettavano nonostante la raccomandazione di comportarsi bene. Childes aveva abbandonato la sala dei computer appena era terminata l’ora obbligatoria messa a disposizione per i colloqui con i genitori. Scrutava con irrequieta attenzione il mulinio delle attività attorno a lui. Cercava di non farsi scorgere mentre fissava ogni viso che passava, ma più d’uno aveva mostrato un leggero imbarazzo nell’incontrare il suo sguardo indagatore.
A un certo punto anche lui si sentì osservato. Voltandosi si accorse che la signorina Piprelly, verosimilmente in conversazione con alcuni ospiti a pochi metri da lui, lo guardava intensamente.
I loro occhi si incontrarono e vi fu una sorta di riconoscimento, una comunicazione che non aveva mai sentito prima. Un velo di ansia passò negli occhi della preside e Childes la osservò mentre prendeva congedo dalle persone che aveva vicine, avviandosi verso di lui con quel fare impettito che la caratterizzava.
Rispose brevemente al saluto di altri visitatori con sorrisi gentili ma che non ammettevano ulteriori scambi, poi gli fu dinanzi e lo guardò in volto. Lui sbatté gli occhi colpito dall’energia che emanava, un’aura di vitalità piena di colori tenui. Era uno straordinario fenomeno che aveva più volte vissuto in questi ultimi tempi, sembrava una radiazione cangiante che fiammeggiava appena, poi scompariva nel momento in cui si tentava di osservarla meglio. Lui ne era affascinato e incuriosito assieme. Lo strano effetto svanì appena la Piprelly parlò.
«Gradirei che lei non rimanesse lì impalato a guardare la gente in quel modo, Childes. C’è forse qualcosa che non va?»
Quell’incredibile sapienza che aveva negli occhi! Egli cominciava a guardare la preside con occhi diversi, ne presentiva nuove e maggiori sensibilità sotto quella scorza apparentemente rude. Eppure il loro rapporto era sempre uguale, si chiedeva se per caso quel nuovo modo di vedere la donna non fosse dovuto a confusi sviluppi dentro se stesso.
«Signor Childes?». Attendeva ancora una risposta. Il bisogno di dirle tutto era irresistibile, ma quando mai gli avrebbe creduto? Estelle Piprelly era una preside razionale e con i piedi ben piantati per terra, energica e tenace nella sua ricerca della perfezione in campo didattico. Eppure c’era qualcosa in lei che smentiva questa immagine, qualcosa di impalpabile, di mimetizzato, che lui non riusciva a cogliere.
Sospirò spazientita. «Signor Childes!?»
«Mi scusi, ero sovrapensiero.»
«Sì, questo l’ho capito. Se permette si direbbe che lei sta poco bene. Ha un’aria un po’ esaurita, è qualche tempo ormai che l’ho notato. Da quando si è preso quei giorni di ferie, mi pare.»
Una breve malattia, aveva detto per giustificare il viaggio a Londra quando era sparita Annabel. «Niente di grave,» rispose con una scrollata di spalle, «ormai il trimestre è finito quindi avrò tutto il tempo di riposarmi.»
«Non si può certo dire che lei abbia lavorato a tempo pieno, comunque!»
«No, forse no.»
«Ma ha qualche preoccupazione» insisté lei. Lui tentennò, ma questo non era né il luogo né il momento per parlare in tutta franchezza. Probabilmente lo avrebbe allontanato dalla festa se l’avesse fatto.
«No, no. Stavo solo facendo una specie di giochino, con i genitori. Cercavo di accoppiarli ai loro figli. Ha mai notato come alcuni padri o madri sono identici alle ragazze mentre altri sono completamente diversi? È curioso no?»
Non sembrò molto soddisfatta della risposta ma aveva troppo da fare per poter perdere tempo. «Non lo trovo affatto curioso. Comunque le suggerisco di lasciar perdere il suo ‘giochino’ e di frequentare di più i nostri ospiti.» La preside si voltò e fece per avviarsi ma si fermò ancora e aggiunse: «Signor Childes, se ci fosse qualche problema me ne parli, sono sempre a disposizione per lei.»
Lui evitò il suo sguardo sentendosi a disagio. L’invito non era stato tanto casuale. Ma quante cose sapeva di lui?
«Me lo ricorderò» le disse e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava.
Amy vide Overoy che tentava di sembrare un genitore in visita, ma appariva solo un poliziotto in borghese a caccia di borseggiatori, lo sguardo attento e l’aspetto lo tradivano subito. Non riuscì a trattenere un sorriso, ma forse lei lo vedeva così, perché sapeva chi era e cosa faceva lì. Riuscì a frenare l’impulso malizioso di chiamarlo ad alta voce «ispettore Overoy!». Decise invece di lasciare per un attimo il banco delle fragole e panna alle due tredicenni che le stavano accanto. «Fate da sole per un po’ e ricordatevi, solo quattro fragole per ogni coppetta altrimenti le finiamo subito e non ci guadagnamo niente. E attente al resto!»
«Sì signorina Sebire» risposero all’unisono felicissime di tanta autonomia.
Amy attraversò il prato salutando tutti i genitori che conosceva. Overoy era sotto un albero e sorseggiava vino da un bicchiere di plastica, con le maniche della camicia arrotolate e la giacca su un braccio.
«Fa caldo vero, ispettore?» lo salutò Amy avvicinandosi.
Lui si voltò con fare sorpreso. «Salve signorina Sebire, c’è parecchio lavoro a quel suo banco.»
«Fragole e panna vanno molto con una giornata così. Vuole una coppetta?»
«Molto gentile ma grazie, no.»
«Migliorerebbe il suo travestimento.»
«Sono molto ovvio, vero?», sorrise della presa in giro.
«Sarà perché io so chi è lei e perché è qui. Comunque gli altri non li ho notati.»
Lui scosse la testa facendo una smorfia. «Lo credo, sono solo qui, e sono fuori servizio. Non sono riuscito a convincere i miei capi ad affidarmi una squadra. Oltretutto non siamo competenti per il territorio dell’isola. Per fortuna l’ispettore Robillard è un vecchio amico, e così sono qui per un week-end di vacanza.»
«Mi pareva d’averlo visto insieme a sua moglie.»
«È qui anche lui fuori servizio, dà un’occhiata in giro.»
«Cercate il mostro?»
«È un po’ difficile quando non sappiamo come è fatto il nostro uomo.»
«Jon si rifiuta di ammettere che si possa trattare di un essere umano.»
«Me ne sono accorto.» Overoy si grattò la guancia e per poco non versò il vino. «Childes è un uomo strano per certi versi, signorina Sebire.»
«Non lo sarebbe anche lei se avesse passato quello che ha passato lui?», commentò Amy con dolcezza.
«Io starei molto peggio, sarei diventato completamente pazzo.»
«Lui non lo è di certo!» disse lei con improvvisa durezza.
Lui alzò il bicchiere come per scusarsi. «Non volevo dire niente del genere, signorina. Anzi, lo trovo eccezionalmente sano di mente, tutto considerato. Volevo dire che questa faccenda della percezione extra-sensoriale è strana.»
«Pensavo che ci fosse abituato ormai.»
«Non lo è lui, come potrei esserlo io?»
«Jon inizia ad accettarla questa dote.»
«Io è da molto tempo che l’ho accettata in lui, ma ciò non significa che mi ci sia abituato.»
Un gruppo di genitori la salutarono da lontano e lei ricambiò, poi si rivolse di nuovo al poliziotto. «Lei crede veramente che questa persona sia qui sull’isola?»
Overoy finì il vino prima di rispondere. «Sa che Childes è qui, quindi potrebbe essere. Ho paura che questa storia si sia trasformata in una vendetta contro di lui.»
«Ma lei crede veramente che possa leggere nel cervello di Jon in quel modo?»
«Per scoprire dove trovarlo, vuol dire? Non ce n’era bisogno. La figlia di Childes, Gabby, aveva ricevuto una strana telefonata un paio di giorni prima della sparizione di Annabel, ma non si ricordava il giorno preciso; noi crediamo che fosse il rapitore.»
«Jon me ne ha accennato.»
«Non lo abbiamo saputo che qualche tempo dopo. Quando abbiamo nuovamente interrogato Gabriel, le abbiamo chiesto se lei o Annabel erano state avvicinate o avevano parlato con sconosciuti nei giorni precedenti il rapimento. Solo allora si è ricordata della telefonata.» Con lo sguardo scrutò la folla, sempre attento e vigile. «Gabriel non sapeva come descrivere la voce, ma ci fece una specie di imitazione. Mi fece quasi accapponare la pelle.» Cercò in giro un posto dove buttare il bicchiere ormai vuoto. Amy glielo prese di mano. «Continui la prego!»
«Era una voce strana, una specie di brontolio, senza accenti particolari, niente che ci potesse aiutare. Certo Gabriel è solo una bambina e la persona può aver mascherato la voce, quindi serve a ben poco. Purtroppo quando ha chiesto di parlare con il papà Gabby gli ha detto che non abitava più lì ma in un’isola… questa.»
«Quindi quando è andato a casa loro…»
«È andato lì apposta per Gabby, o comunque con cattive intenzioni. Non lo abbiamo detto ai genitori di Annabel, al punto in cui sono le cose sarebbe inutile; noi comunque siamo convinti che ha scambiato Annabel per la figlia di Childes. La piccola aveva detto ai genitori che andava a giocare da Gabby, e noi crediamo che sia stata presa mentre era nel giardino di casa Childes.»
«Il corpo non è ancora stato trovato, vero?»
Overoy scosse la testa dispiaciuto. «Niente, nemmeno una traccia. E poi stavolta l’assassino non ha bisogno di far trovare il cadavere, ci ha già mandato le dita e la pietra di luna.»
Nonostante il caldo Amy ebbe un brivido. «Ma perché agisce in questo modo?»
«Allude alla pietra? O alle mutilazioni? Lo scempio dei corpi ha tutta l’aria di essere un rito, e la pietra si inserisce in questo contesto.»
«Jon le ha detto del suo sogno?»
«Quello della pietra che si trasforma in luna? Sì, me l’ha detto, ma che cosa significa? Perché la parola ‘MOON’, luna, è apparsa sullo schermo dei computer? E poi, sarà apparsa davvero?»
«Cosa intende dire?» chiese Amy scossa.
«La mente è una ben strana cosa e quella di Childes è apparentemente diversa dalle altre. Non potrebbe essersi immaginato tutto?»
«Ma l’hanno vista anche le ragazze della sua classe!»
«Ragazze in età puberale, un’età molto impressionabile come lei certo saprà. Sto pensando alla possibilità di una ipnosi, un’allucinazione in massa. Queste cose accadono, signorina Sebire.»
«Ma le circostanze non erano…»
Lui alzò la mano. «Sto solamente avanzando un’ipotesi di tipo razionale. Non sarei qui se non credessi a Childes, e sto lavorando a una teoria che potrebbe darci qualche lume. Ma devo ancora verificarla.»
«MOON non potrebbe essere il nome di qualcuno?»
«E stata una delle prime cose che ho pensato, ho fatto controllare tra i clienti della prostituta, tra gli amici. Finora niente, ho fatto ricerche su tutti i pazienti e il personale del manicomio, ma anche lì niente. Qualcosa salterà fuori prima o poi, succede sempre, in tutte le indagini.»
«C’è un modo in cui io possa darle una mano?» si offrì Amy.
«Non saprei proprio, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile, ma come? Tenga ben aperti gli occhi comunque, se nota qualcosa di sospetto, qualcuno che osserva Childes. E in ogni caso, stia attenta anche lei. Non dimentichiamoci che l’assassino ha cercato di colpirlo attraverso la figlia, potrebbe provare anche con lei.»
«Ma lei… lei crede che sia qui oggi?»
«E chi può dirlo? In fondo cosa abbiamo? Una parolina su un computer. Non dice molto. Ma se è qui, sa dove abita Childes, non deve far altro che guardare l’elenco telefonico, c’è un solo Childes.»
«Ma starete sorvegliando il cottage spero!» esclamò Amy preoccupata.
«Io non ho alcuna autorità qui, signorina.»
«L’Ispettore Robillard…»
«Cosa può fare? Io ho avuto un sacco di storie con i miei, cosa vuole che dica Robillard ai suoi superiori: lui stesso pensa che io sia un po’ fuori di testa.»
«Ma allora Jon è indifeso.»
«Può darsi che oggi si riesca a concludere qualche cosa. Childes ha delle sensazioni che riguardano la sicurezza delle bambine. È per questo che sono qui, e mi sono portato dietro Geoff Robillard. Non è una grande unità operativa, lo devo ammettere, ma date le circostanze non possiamo fare di meglio. Avevamo intenzione di far sapere alla preside questo nostro segreto, ma che accidenti di ragione potevamo darle! Non sono sicuro nemmeno io del perché sono qui! Ma qualche precauzione bisogna pur prenderla!»
Amy sentì di dover rivalutare Overoy mentre lo ascoltava. «Credo proprio che Jon abbia avuto fortuna nel trovare un alleato come lei,» gli disse, «non credo che ce ne siano tanti di poliziotti disposti a credergli.»
Overoy guardò altrove, imbarazzato. «Gli devo molto, e comunque è un aggancio reale. Altrimenti perché questo pazzo avrebbe mandato una pietra? In tutta sincerità Jonathan è l’unica traccia che abbiamo in tutti questi casi.» Rivolse lo sguardo verso la folla cercando qualcosa, pur indefinibile: uno sguardo diverso, un movimento, qualsiasi gesto che tradisse un individuo sospetto al suo sguardo allenato. Finora sembrava tutto tranquillo, ma la giornata era appena agli inizi.
Amy stava per salutarlo quando Overoy aggiunse. «Le ha raccontato del sogno fatto da sua figlia?»
«Quando Gabby ha sognato di Annabel dopo che era morta?»
Lui annuì.
«Sì, me lo ha detto.»
«Non era solamente un sogno, vero?»
«Non glielo ha detto Jon?»
«È rimasto sul vago. Mi ha detto che lui e la signora Childes hanno udito Gabby chiamare di notte e che quando sono arrivati nella stanza l’hanno trovata seduta sul letto piuttosto sconvolta e che asseriva di aver sognato Annabel. Io però vorrei sapere se si è trattato di un sogno, non è importante, signorina Sebire, sono solo curioso. Gabby ha ereditato la stessa dote del padre?» Non si accorse che qualcosa di ciò che aveva detto aveva scosso Amy.
«Jon non crede che fosse solo un sogno» rispose distratta. «Può darsi che a lei abbia detto così per proteggerla.»
«Da me?»
«L’altra volta si lasciò sfuggire di mano la situazione, non permetterebbe a Gabby di rivivere un’esperienza del genere. Anzi, mi sorprende che glielo abbia detto.»
«Non è stato lui, è stata la signora Childes; lui me l’ha riferito come un incubo.»
«Forse allora non avrei dovuto dirle niente.»
Stavolta si accorse che l’allegria di lei era svanita, e credette che si fosse pentita della rivelazione fatta. «Come ho detto, niente di importante. Lasciamo perdere, soltanto mi dispiace che ancora non si fidi di me. Sarebbe un brutto colpo se Childes mi nascondesse qualcosa di importante.»
«Sono sicura che non lo farebbe mai ispettore. Jon è un uomo molto spaventato in questo periodo.»
«Ad essere sinceri non è l’unico; ho visto le foto dell’obitorio, ho visto di che cosa è capace questo maniaco.»
«Credo proprio di non voler sapere niente altro, ispettore.» Diede un’occhiata al banco delle fragole. «Devo tornare dai miei clienti adesso, le ragazze sono sommerse di lavoro.»
«Io e l’ispettore Robillard saremo sempre in giro. Se nota qualcosa di sospetto lo faccia sapere a uno di noi. Non credo che possa accadere nulla con tutta questa gente, ma non si sa mai. E, signorina, se dovesse incontrarmi di nuovo, non mi chiami ispettore.» Le sorrise, ma lei pensava evidentemente ad altro e si allontanò senza ricambiare il saluto. «Me lo ricorderò» disse semplicemente, e scomparve nella folla attorno al banco.
Controllò l’ora: tra poco sarebbero iniziati il saggio di ginnastica e il balletto.
Childes tenne d’occhio i passanti mentre affluivano lentamente verso lo spiazzo sul retro. Continuava a sentirsi a disagio malgrado non fosse accaduto proprio nulla che potesse far pensare male. Non aveva incrociato nessuno che gli provocasse un brivido, o gli facesse drizzare i capelli sulla nuca, reazione che lui era sicuro avrebbe avuto solo vedendo quella persona, la creatura, che cercava. La creatura che cercava lui. Ma forse si sbagliava. Forse non era affatto sull’isola. No, ne era sicuro, la sensazione era troppo forte, troppo intensa.
Childes seguì gli ospiti e notò tra di loro il poliziotto dell’isola, Robillard; anche Overoy doveva essere poco lontano.
Intorno a lui la gente chiacchierava allegra, sorrideva, passeggiava colorata e festosa. L’atmosfera era di totale normalità. Ma perché lui si sentiva tanto a disagio? Non c’erano state premonizioni, nessuna vibrazione interna, nessuna sensazione di ansia nel cervello. Solamente una pesante coltre di preoccupazione, indefinita e sfumata. Sentì che qualcuno lo guardava ed ebbe quasi paura a voltarsi, ma si costrinse.
Paul Sebire era a pochi metri da lui apparentemente in conversazione con Victor Platnauer, ma in realtà fissava Childes. Il finanziere si scusò bruscamente e si diresse verso di lui. «Non intendo fare scenate qui, Childes, ma credo che sia giunta l’ora che io e lei facciamo una chiacchierata seria.»
Per un attimo Childes dimenticò il suo interesse contingente. «Sono pronto a parlare di Amy quando vuole» rispose con una calma che lo sorprese.
«È di lei che voglio parlare, non di mia figlia.»
Si affrontarono tra la folla, che passava loro accanto evitandoli come fossero stati due massi in un fiume.
«Ho scoperto certe cose di lei che non mi sono piaciute» continuò Sebire.
«Avevo immaginato che fosse stato lei a dare il via alle indagini sul mio conto. Deve essere rimasto sorpreso di scoprire che Amy sapeva già tutto.»
«Che lei l’avesse informata o meno non mi riguarda. Quello che mi interessa è che la polizia ha indagato sul suo conto.»
«Bene, allora sa di che cosa si trattava e non devo spiegarglielo io.»
«Sì, sì. L’hanno rilasciata perché non vi era nessun indizio contro di lei. Ma rimane il fatto che lei non mi sembra affatto una persona equilibrata, lo ha dimostrato quella sera a cena.»
«Guardi, non ho intenzione di discutere con lei adesso. Pensi come le pare, l’unico fatto importante è che io amo sua figlia e ormai dovrebbe aver capito che Amy ricambia il mio amore.»
«È accecata per ora, anche se non ne vedo il motivo. Si rende conto che non ho più visto mia figlia da quando è venuta a stare con lei?»
«Questo è un problema vostro, non sono certo io a costringerla a non vedere suo padre.»
«Non è fatta per uno come lei!» Aveva alzato la voce e alcune persone nei pressi si erano voltate a guardare.
«Questo sta ad Amy deciderlo.»
«No, non può decidere lei, io…»
«Ma non sia ridicolo!»
«Come si permette…!»
In quel momento un altro uomo si insinuò tra i due. «Paul, credo che dovremmo avviarci,» disse Victor Platnauer in tono suadente, «stanno per iniziare i saggi ed io devo tenere il solito discorsetto.» Ridacchiò. «Cercherò di non farlo troppo lungo viste le tue lamentele dell’anno scorso. Ci scusi, Childes. Dunque c’era quella questione del…». Condusse docilmente il finanziere lungo il vialetto continuando a parlargli pacatamente, evidentemente ansioso di evitare scenate che potessero disturbare l’andamento della giornata.
Childes li guardò mentre si allontanavano, si rammaricava di aver avuto uno scontro tanto aspro con Sebire ed era insoddisfatto. Non si era risolto niente. Non aveva inteso innamorarsi così tanto di Amy, ma chi non era vulnerabile in amore? Comunque ormai era successo e aveva intenzione di non lasciarla più. Certo che litigare in pubblico con il padre non serviva a molto. E nemmeno andare a letto con Fran. Rimosse quest’ultimo pensiero ma il senso di colpa rimase.
Non c’era più tanta gente attorno a lui, la maggior parte si era affollata sul campo dietro alla scuola. Childes fece un lungo giro controllando le zone meno frequentate dei giardini, scrutò attento i cespugli e i boschetti, guardò nei portoni e nelle rientranze delle palazzine.
In alto i gabbiani volavano pigramente, tuffandosi all’improvviso verso il basso sotto la linea della scogliera. Udì il rumore della risacca in lontananza infrangersi sotto sulle rocce. Un grosso calabrone svolazzava appesantito, vittima forse del gran caldo anch’esso. Il sole batteva forte provocando una leggera caligine all’orizzonte.
Childes continuò a camminare seguendo il calabrone. Un leggero fruscio da qualche parte vicino a lui lo turbò fin quando non si rese conto con un certo sollievo che i cespugli erano tanto bassi da non poter nascondere altro che un uccello o qualche animaletto.
Quando girò l’angolo fu colpito dal clamore delle voci, la vista formicolante del prato in netto contrasto con la quiete che si era lasciato dietro. C’erano lunghe file di panche e di sedie allineate davanti all’edificio con in mezzo uno spiazzo abbastanza grande da consentire lo svolgimento dello spettacolo e la successiva premiazione e i discorsi. Ospiti e alunne riempivano le sedie con i loro vestiti a colori vivaci sullo sfondo verde del prato. Un aereo giallo del servizio delle isole sorvolò l’adunata e quindi sparì dietro le chiome di un folto di alberi che si stagliava sulla cima della scogliera.
Childes s’incamminò lungo il vialetto di ghiaia ma quando vide che tutti i posti riservati agli insegnanti erano stati occupati proseguì verso le ultime file. Appena vide un posto libero si sedette ed attese che iniziassero i saggi.
Sulla terrazza la signorina Piprelly era seduta, con altri membri del consiglio della scuola, dell’associazione dei genitori, e alcuni insegnanti scelti, davanti a un lungo tavolo pieno di trofei, certificati, premi delle lotterie e di un microfono dall’aspetto piuttosto antiquato. Per accedere al terrazzo si doveva percorrere una breve scalinata in pietra. Alle spalle della stessa si ergeva l’antico edificio di pietra grigia, e subito dietro svettava la torre bianca dell’edificio costruito più di recente, dov’erano alloggiati i dormitori, il refettorio e la palestra.
La folla prese posto, quando la preside si alzò per prendere la parola, e Childes, che sentiva la calda carezza del sole sulle spalle, cominciò a pensare che forse aveva avuto torto a preoccuparsi.
Jeanette era distesa sul letto, appoggiata a una pila di cuscini con le ginocchia alzate e l’orlo del vestitino azzurro tirato a coprire le gambe. I piedi calzati di bianco erano infilati sotto la coperta. Teneva seduto sulla pancia un Pierrot bianco e nero non proprio immacolato; la schiena del pupazzo era appoggiata alle sue gambe, il cappellino nero inamidato ne incorniciava il volto melanconico che aveva visto tempi migliori. La ragazza giocherellava oziosamente con i bottoni di stoffa del suo panciotto.
Jeanette avrebbe dovuto essere insieme alle compagne di classe, ma era riuscita a svignarsela perché aveva solo voglia di star sola. Tutte avevano lì parenti e genitori, fratelli e sorelle, mentre lei non aveva nessuno, stare con loro voleva dire solo farle sentire maggiormente la mancanza dei genitori. Eppoi non era stata scelta né per il balletto né tantomeno per il saggio ginnico dove sapeva bene di non avere alcuna possibilità. Sapeva anche che non c’erano premi o certificati di merito ad aspettarla sul tavolone. Non ce n’erano mai! Una volta aveva vinto un premio di ricamo ma non le aveva certo cambiato la vita. Forse era un bene che i genitori non avessero affrontato il lungo viaggio dal Sudafrica soltanto per stare seduti a guardare le altre ragazze ricevere premi vari. Suo padre faceva l’ingegnere di qualche tipo, anche se non aveva mai capito bene esattamente di cosa. Utilizzava l’isola come base di partenza per i suoi viaggi, e la madre l’accompagnava spesso. Stavolta stavano via diciotto mesi. Diciotto mesi! Ma poi avrebbe passato due interi mesi con loro, tutta l’estate. Loro le mancavano terribilmente ma non era così sicura di mancare altrettanto a loro. Loro dicevano di sì, ma questo era normale no? “Ma certo che ti vogliamo bene cara, ma non è il caso che tu venga in giro per il mondo interrompendo di continuo il tuo corso di studi. Certo che ti vorremmo con noi, ma bisogna dare la precedenza all’educazione”. Jeanette lasciò cadere il Pierrot che le scivolò di dosso finendo in terra. La sua aria triste l’aveva ormai contagiata.
Chiuse gli occhi, il viso rivolto verso il soffitto, l’unica treccia (era convinta così di assomigliare alla signorina Sebire) stesa attraverso il cuscino. Se qualcuno la beccava nel dormitorio erano guai; per fortuna gli insegnanti erano tutti troppo indaffarati con i genitori per avere il tempo di venire a controllare i piani superiori, altrimenti non avrebbe corso il rischio. Le piaceva ogni tanto rimanere da sola, l’unico guaio era che dopo un po’ si sentiva sola.
Janette sospirò e si immaginò Kelly che marciava sicura a ritirare i propri trofei; migliore oratrice nei dibattiti, voto più alto in matematica e fisica, premio per i migliori progressi nel campo dei computer, ecc, ecc, ecc. Quanto le sarebbe piaciuto essere come lei! Ed era anche tanto bella. Non bisogna essere invidiose, si disse Jeanette, ma qualche volta, qualche volta avrebbe voluto essere come la sua compagna. Non lo sarebbe mai stata però, questo era un dato di fatto, ma tutti avevano per lo meno un pregio, qualcosa che li rendeva uguali agli altri; per quanto la riguardava era solo un po’ difficile scovarlo. Ma un giorno si sarebbe rivelata al mondo, forse tra non molto, forse quando le sarebbero cominciati i cicli sarebbero scomparsi quegli orrendi brufoli, e magari le sarebbe cresciuto anche il seno. E forse avrebbe sognato un po’ meno e forse sarebbe anche diventata più alta e…
… le sculture mobili si stavano muovendo.
Ma certo, le finestre erano spalancate per lasciar passare un po’ d’aria, una brezzolina muoveva le figure di carta. Jeanette si arrabbiò con se stessa. Le altre la canzonavano spesso perché dicevano che aveva paura della sua stessa ombra, e qualche volta era vero. Non le piacevano gli angoli bui, i film paurosi, odiava tutto ciò che strisciava, i cigolii della vecchia palazzina, lo sbattere delle imposte che la tenevano sveglia mentre attorno a lei tutte dormivano tranquillamente. E le ombre soprattutto, anche sotto ai letti.
Jeanette si drizzò sul letto ma non posò subito le gambe a terra; prima si chinò a controllare sotto il letto.
Soddisfatta del fatto che non vi fossero bestie strane che la potessero trascinare nel loro antro oscuro Jeanette posò i piedi per terra. Rimase ancora seduta sul letto ascoltando attentamente, senza sapere bene che cosa stesse ascoltando. Forse era il rumore del parquet nelle stanze vicine, oppure quel misterioso grattare che poteva sì essere un topolino, ma forse no, poteva essere una cosa immonda che vagava per i corridoi trascinando il proprio corpo viscido, oppure una figura gigantesca ammantata di nero in agguato dietro alla porta, che attendeva con le unghie protese, aguzze…
Smettila! Di nuovo si stava mettendo paura da sola. C’erano delle volte in cui Jeanette odiava quella sua sciocca fantasia che le faceva vedere fantasmi di sua pura invenzione. Era pieno giorno, la scuola era piena di gente, e lei si stava tormentando apposta con queste lugubri fantasie. Jeanette allungò i piedi infilandoli dentro le scarpe, aveva deciso che era ora di raggiungere gli altri.
Aveva calzato una scarpa tenendola ferma con l’altro piede quando udì dei passi avvicinarsi. Guardò con curiosità i peli del braccio drizzarsi, la sensazione di paura le prese anche la schiena facendola rabbrividire.
Si tese tutta. Ascoltò. Guardò la porta spalancata del dormitorio.
I passi erano lenti, pesanti. Si avvicinavano. Il suono la ipnotizzava.
Sentiva il cuore che le batteva forte, molto forte.
I passi si fermarono, e per un attimo ebbe l’impressione che le si fosse fermato anche il cuore.
Ma sentiva davvero qualcuno respirare dietro la porta?
Si alzò lentamente, sfilandosi la scarpa. Rimase immobile accanto al letto, quasi senza respirare, il Pierrot la fissava con il pianto congelato sul viso.
Non avrebbe voluto avvicinarsi alla porta, ma forse per vincere la paura si diresse piano piano verso l’uscita. I piedi con le sole calze erano silenziosi sul legno lucido mentre avanzava con circospczione. Aveva le mani chiuse a pugno.
Ebbe ancora un’esitazione prima di varcare la soglia. Non era mai stata tanto spaventata in vita sua.
Dietro alla porta qualcosa aspettava.
I saggi di ginnastica e di ballo erano terminati, la signorina Piprelly aveva fatto il suo discorso breve e succinto prima di presentare il consigliere Platnauer. Il discorso di questi fu più pacato e aveva per lo meno un accenno di umorismo. Nonostante ciò Childes ebbe difficoltà a concentrarsi su quel che veniva detto perché stava osservando senza sosta la folla riunita davanti a sé, cercando il pur minimo segnale che qualcuno non fosse quello che sembrava.
Non solo non aveva veduto niente di sospetto, ma non sentiva niente di strano. Era tutto a posto, spettatori attenti, tempo splendido, anche se forse un po’ troppo caldo. Ottimi i saggi delle alunne, e i discorsi erano stati meno noiosi del solito.
Era appena iniziata la distribuzione dei premi quando un movimento attirò il suo sguardo. Sbatté gli occhi, non era sicuro che non fosse solo un gioco di luce, un riflesso in uno dei vetri della palazzina dall’altro lato del prato. Eppure c’era qualcosa che prima non aveva notato, qualcosa che aveva sentito più che visto. Gli occhi gli caddero in un punto su in alto dell’edificio davanti a lui.
C’era un viso, affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.
Troppo lontano per poter vedere bene, ma per istinto sapeva a chi apparteneva quel volto.
Il sangue gli si gelò nelle vene.
Childes era stordito, non riusciva a muoversi, incollato alla sedia da una paura di piombo. Aprì la bocca per parlare, gridare, ma sembrava che la sua gola fosse stretta in una morsa d’acciaio, gelida, che gli bloccava la laringe.
Il volto era immobile, pareva che avesse gli occhi fissi su di lui.
Poi la macchia bianca scomparve.
Childes si alzò barcollando, le gambe sembravano pesargli troppo per riuscire a muoverle, riuscì comunque a scavalcare la panca. Si guardò attorno cercando Overoy, la semiparalisi dovuta allo shock stava passando, ma non riuscì comunque a vederlo. Non poteva aspettare. Qualcosa di grave accadeva dentro la scuola, qualcosa di terribile che lo faceva rabbrividire di terrore.
Costeggiò le file di sedie e si affrettò lungo il vialetto inghiaiato verso l’edificio. Dietro di lui scrosciarono applausi mentre una delle ragazze saliva le scale per andare a ritirare il suo premio. In pochi notarono la sua figura frettolosa, tra questi Overoy che si era fermato sotto un albero ai margini del prato da dove aveva goduto di una posizione dominante. Sfortunatamente era dall’altro lato del pubblico, a una certa distanza dal sentiero che stava seguendo Childes; il poliziotto decise di aggirare l’ostacolo per poi raggiungere Childes sul retro dell’edificio. Overoy si infilò velocemente la giacca e s’incamminò verso l’ingresso principale della scuola.
Childes imboccò la prima porta che trovò, e rabbrividì involontariamente, all’interno l’aria era più fresca. Salì una breve rampa di scale e si trovò nell’atrio che occupava la parte anteriore dell’edificio. Il volto si era affacciato a una finestra del terzo piano dove si trovavano i dormitori delle ragazze più grandi. Si avviò verso la scalinata principale, i suoi passi risuonavano sul legno lucido del parquet.
Passò davanti alla biblioteca, alla saletta docenti e alla sala d’attesa per i genitori prima di raggiungere l’ampia scalinata. Allungò il collo come se si fosse aspettato di vedere qualcuno affacciarsi su in alto. Le scale erano deserte.
Overoy imprecò, sottovoce. Aveva dimenticato che il collegio non aveva una pianta regolare, nel tempo vi erano state varie aggiunte e modifiche ed egli si trovò separato da Childes dalla bianca struttura della torre che si univa ad angolo retto all’edificio principale. Poteva scegliere di girarci intorno oppure di entrare. Vide una porta e l’aprì.
Primo piano. Childes scrutò i corridoi a destra e a sinistra. Niente. Dall’alto si udì un rumore.
Si sporse oltre il corrimano. Rumori secchi, qualcosa veniva trascinato. Guardò in alto.
«No!» urlò. «Non farlo!»
Salì le scale a tre alla volta aiutandosi con il corrimano, il viso di un pallore mortale, non solo per lo sforzo della corsa.
Secondo piano. Non si udivano più rumori di sopra. Proseguì la rincorsa e avvertì uno scalpiccio.
Continuò a salire: un rumore come di un respiro strangolato.
Terzo piano, quasi. Un’ombra — che si muoveva in modo goffo e impacciato — sembrò scivolare nell’ombra dietro un angolo. Gli parve di udire dei passi ma tutta la sua attenzione era rivolta a quel piccolo corpo che penzolava e si dibatteva nella tromba delle scale.
Quando roteò verso di lui poté vederne il viso che già diventava paonazzo. Aveva gli occhi fuori delle orbite e cercava disperatamente di sciogliere il cappio che aveva attorno al collo. Le gambe scalciavano furiosamente.
«Jeanette!» gridò Childes.
Era quasi in cima quando inciampò cadendo sul pianerottolo, ma si rimise subito in movimento fingendo di non sentire il dolore lancinante al ginocchio sbattuto malamente in terra. Non tentò nemmeno di alzarsi ma proseguì carponi verso la balaustra sporgendosi in basso verso quel corpo che si contorceva. Trovò le sue braccia e le strinse forte cercando di sostenerla.
Gli sembrò di percepire un movimento dietro di sé ma era tutto concentrato nel tentativo di sollevare la ragazza impiccata. Fece forza ma era in una posizione scomoda. Poteva solo rimanere lì, supino e ansimante, proteso all’infuori con le mani serrate attorno ai polsi della ragazzina.
La sentiva scivolare.
«Non ti dimenare, Jeanette. Cerca di stare ferma… dai… lascia fare a me!»
Ma non poteva resistere, ormai il suo respiro era ridotto ad un sibilo strozzato. Con le dita cercava di sciogliere il nodo attorno alla sua gola graffiandosi a sangue nella frenesia disperata.
Childes sentì che la ragazza gli stava sfuggendo.
Passi di corsa lungo le scale. Overoy che fi fissava con gli occhi sbarrati, correndo con tutta la forza che possedeva.
Childes serrò ancor più le dita, distendendo le gambe lungo il pavimento per fare da contrappeso e appoggiò il viso alla ringhiera di ferro. Si sforzò di tenere duro, sentendosi via via indebolire, e con la coda dell’occhio scorse un oggetto vicino sul pavimento.
Era piccolo. Era tondo. Era una pietra di luna.
Il traffico nella zona del porto era intenso e Childes guidava con molta cautela, ancora con i nervi a fior di pelle e le mani che tremavano. Accanto a lui Amy era pensosa, evidentemente scossa dagli avvenimenti, eppure stranamente riservata.
Si fermò al semaforo di un incrocio vicino ai moli. Dei turisti passeggiavano nel tepore della sera; in basso, nel porticciolo, gli equipaggi degli yacht sorseggiavano vino discutendo oziosamente sulla mancanza di vento. Altri turisti di ritorno da qualche altra isoletta sbarcavano dall’aliscafo attraccato in fondo alla lunga banchina centrale. Le gru di colore verde chiaro utilizzate per merci varie erano piegate ad angoli strani, dando l’impressione di essere in segreta conversazione.
Diede un’occhiata ad Amy. «Stai bene?»
«Sono spaventata Jon.» Lo guardò brevemente, poi si voltò di nuovo.
«Anch’io lo sono. Adesso la polizia dovrà aumentare la sorveglianza.»
«Povera piccola Jeanette.»
«Ce la farà! Aveva la gola contusa e una compressione della laringe e della trachea. Quel pazzo ha usato una cravatta, ma ce la farà.»
«Sto pensando al trauma che ha subito. Riuscirà mai a dimenticare quello che è successo?»
Il semaforo scattò e Childes premette l’acceleratore svoltando a destra per costeggiare il porto.
«E giovane, Amy, e il tempo riesce ad attenuare anche i traumi più brutti.»
«Mi auguro che sia così.»
«C’è da ringraziare il cielo che Overoy sia arrivato in tempo, non avrei resistito molto.»
«Non ha visto nessun altro, Overoy?»
«No, ma del resto ha dovuto pensare prima a Jeanette e a me. La polizia crede che abbia usato le scale antincendio per la fuga, da lì è abbastanza facile scomparire nel bosco e allontanarsi dalla zona della scuola. Il La Roche non è quel che si dice una fortezza.»
Dopo aver costeggiato il porto la strada saliva in ripidi tornanti e furono ben presto fuori dai sobborghi della cittadina.
«Avrei voluto che il tuo ispettore riuscisse per lo meno a vederlo» disse Amy in tono brusco.
Childes le lanciò un’occhiata sorpresa.
«Non hai visto come ti guardavano i poliziotti mentre ti interrogavano?» aggiunse lei.
«Sì, con sospetto. Ma ormai mi ci sono abituato. Nessuno è riuscito a vederlo, quel pazzo. Neanche Jeanette. Da quello che siamo riusciti a capire, e ricordati che è ancora sotto shock, e che le ferite alla gola le impediscono di parlare bene, lei è uscita dal dormitorio e qualcuno l’ha aggredita da dietro, stringendole il cappio attorno al collo prima che riuscisse a gridare. Lei si è divincolata con tutte le sue forze ma è stata trascinata lungo il corridoio, gettata nella tromba delle scale e poi legata appesa alla ringhiera. Ti rendi conto della forza che ci vuole per fare una cosa del genere? Jeanette sarà anche piccolina per gli anni che ha, ma ci vuole comunque una forza incredibile per riuscirci. Se ci avesse trovato chiunque altro, a parte Overoy, sarebbe stato difficile convincerli che non ero stato io a impiccarla. Ma anche così sarebbe difficile credere che con il mio fisico riuscirei a fare una cosa del genere.»
Svoltò nella viuzza di campagna che conduceva al suo cottage; ai lati le alti siepi e i muretti li nascondevano alla vista.
«Ma perché è venuto qui?» Amy si era girata verso di lui con una espressione corrucciata. «E perché se la prende con i bambini?»
«Per tormentarmi» rispose lui tetro. «Sta giocando, sa che prima o poi lo beccheranno, soprattutto adesso che è intrappolato sull’isola, ma non gliene importa niente. Fin quando non sarà preso si può divertire alle mie spalle.»
«Ma dov’è il collegamento, perché proprio te?» La sua voce aveva un tono disperato.
«Che Dio mi aiuti Amy, non lo so proprio. Le nostre menti si sono incrociate e questo è stato sufficiente. Forse rappresento una sfida, qualcuno per cui esibirsi oltre che da prendere in giro.»
«Tu hai bisogno di protezione, devono sorvegliarti.»
«Può darsi che Overoy riesca a convincerli ma dubito che possa ottenere molto di più di un controllo sporadico da parte di qualche pattuglia. Credo che la polizia dell’isola sarà più che altro impegnata a sorvegliare il La Roche fino alla fine del trimestre.»
Gli alberi s’incurvavano sopra la strada formando un arco al loro passaggio e gettando ombre scure sulla macchina. Childes si massaggiò una tempia come per lenire un mal di testa.
«Sono sicura che Overoy insisterà perché tu sia adeguatamente protetto.» Le macchioline di luce infrante dal tetto di foglie disegnavano come lentiggini luminose sul viso di Amy mentre correvano lungo la via.
«Farà del suo meglio, ma all’ospedale Robillard mi ha detto che i suoi uomini sono già oberati di lavoro a causa della stagione turistica, sai anche tu come aumentano di numero i crimini durante l’estate.»
Lei rimase di nuovo silenziosa.
Childes accostò di lato per permettere a un’altra macchina di passare nella direzione contraria. L’autista fece loro un cenno di saluto; quindi riprese il viaggio.
Amy ruppe il silenzio. «Ho parlato con Overoy stamattina, prima degli interrogatori. Si chiedeva se per caso Gabby non fosse come te Jon, una sensitiva.»
«Me lo sono chiesto anch’io. Certo Gabby potrebbe essersi sognata la sua amica, era rimasta così sconvolta. Però con noi ha molto insistito sul fatto di averla proprio vista.»
«Con te e con Fran?»
«Sì.»
«Dove eravate quando Gabby ha gridato, Jon?» Aveva la voce ferma, gli occhi fissavano la strada, ma Childes sentì che nella domanda si celava una nota polemica. «Non ne avevamo accennato prima, ma tu e Fran siete arrivati insieme nella stanza di Gabby, da quanto ho capito.»
«Amy…»
«Voglio saperlo Jon.»
Lui sterzò bruscamente per evitare un ramo sporgente da un cespuglio. «Ho dormito da solo nella stanzetta degli ospiti quella notte.» Sarebbe stato molto più facile mentire, ma non con Amy, non doveva. «Fran era spaventata, ed è venuta da me.»
«Quindi avete dormito insieme?»
«È successo per caso Amy. Senza volerlo, io non volevo. Credimi, è stato solo un caso.»
«Solo perché lei era sconvolta?»
«Fran aveva bisogno di affetto. Ne aveva passate tante quel giorno.»
Diede un’occhiata ad Amy. Piangeva. Childes le prese una mano. «Non significa niente Amy, solo un po’ di conforto, niente di più.»
«Non crederai mica che adesso sia tutto a posto, no?»
«No, ho sbagliato, lo so, e me ne dispiace. Solo non voglio che tu pensi che sia stata una cosa intenzionale…»
«Io non so più cosa pensare. Certo che capisco… siete stati sposati tanti anni. Ma questo non rende meno acuta la ferita.» Liberò la mano dalla sua. «Io credevo che tu amassi me, Jon.»
«Lo sai che è così.» Dentro la testa sentiva crescere una tensione che non aveva nulla a che fare con la discussione con Amy. «Io… io non potevo mandarla via quella sera.»
«Quasi come fare un piacere a un vecchio amico, eh?»
«Sì, proprio così, in un certo senso.»
«Mi auguro che Fran non se ne sia resa conto.»
La strada scendeva diventando più buia. «Non lasciare che questo incrini quello che c’è tra noi Amy.»
«Potrà essere tutto come prima?»
Una sensazione, un formicolio alla nuca, simile a quello che aveva avvertito prima nel parco della scuola, quando aveva visto quel viso alla finestra.
«Non… non è… una cosa importante…» balbettò, le dita sul volante cominciavano ad irrigidirsi. Sentì che le scapole gli si bloccavano.
«Non lo so Jon. Se solo tu me lo avessi detto prima…»
«Ma come facevo, cosa potevo dirti?» Una mano pesante e fredda gli si posò su una spalla uscendo dal buio del sedile posteriore. Ma non c’era niente dietro di lui.
«Amy…»
Vide quegli occhi guardarlo dallo specchietto retrovisore. Occhi malvagi, crudeli. E con un’espressione soddisfatta.
Amy lo guardò sentendone la tensione, vide l’orrore che lo invadeva. «Jon, cosa c’è…»
Childes vide gli occhi avvicinarsi, mentre la cosa, quell’orrenda cosa ghignante, allungava la mano con le dita forti, omicide, le unghie protese verso il suo collo, a lacerargli le carni.
L’auto sbandò di lato, strisciando contro una siepe. «Jon!!!» urlò Amy.
Gli occhi avidi. Dita d’acciaio gli strinsero la gola. Sentì un respiro fetido sulla guancia. Cercò di afferrare quella mano ma toccò solo il proprio collo.
La macchina sbandò ancora, colpendo un muretto basso. Un getto di scintille si levò dal cofano quando la Mini strusciò lungo i sassi. Rami e cespugli frustavano la carrozzeria.
Amy agguantò lo sterzo cercando di girarlo verso sinistra ma le mani di Childes erano arpionate al volante, rigide, il metallo lacerato stridette ancora.
Riusciva a malapena a respirare tanto gli stringeva la gola. Il piede destro era premuto a fondo sull’acceleratore nel tentativo di sfuggire al mostro ghignante sul sedile posteriore. Ma come poteva sfuggirgli se era lì in macchina con lui?
La strada faceva una curva. Lui girò un poco il volante ma non abbastanza per imboccarla. Inchiodò, spingendo il piede sul freno; ma era ormai troppo tardi. La macchina sbandò ancora, il muro sembrava balzarle incontro.
Dopo aver sbattuto in un angolo, l’auto si arrestò con un botto assordante. Childes si resse al volante e attuti il colpo tenendo le braccia leggermente piegate.
Ma Amy non aveva niente a cui reggersi.
Venne scagliata in avanti, il parabrezza le esplose intorno, urlava mentre volava oltre il muso della Mini. Cadde dolorante e insanguinata al di là del muretto.
Childes si piegò in avanti e si prese la testa tra le mani; il sordo pulsare gli provocava nausea. Sentiva anche un dolore nel petto, sapeva che aveva sbattuto contro lo sterzo della macchina. Ma lui era stato fortunato. Amy no.
Una porta in fondo al lungo corridoio si aprì e ne uscì un uomo in camice bianco. Il medico scorse Childes adagiato su un divanetto e allungò il passo verso di lui fermandosi a parlare con un’infermiera. L’infermiera proseguì entrando nella stanza da dove il medico era uscito. Childes fece per alzarsi.
«Non si muova Childes.» Il dottor Poulain si avvicinò e aggiunse: «Mi siedo volentieri anch’io, proprio una bella giornatina, non c’è che dire.» Si sedette con un sospiro di sollievo. «Anche per lei la si direbbe una giornata intensa.» Osservò Childes con occhio professionale. «È ora che dia un’occhiata anche a lei.»
«Mi dica come sta dottore.»
Poulain si passò una mano tra i capelli precocemente ingrigiti e sorrise all’uomo che gli sedeva davanti. «La signorina Sebire ha subito escoriazioni profonde al viso, al collo e alle braccia, un paio purtroppo lasceranno qualche piccola cicatrice. Ho dovuto toglierle dei frammenti di cristallo da un occhio, niente di cui preoccuparsi, erano rimasti in superficie, non è stata danneggiata né l’iride né la pupilla, quindi non dovrebbero esserci conseguenze. Danni solo superficiali, insomma.»
«Dio mio…»
«Sì, Dio deve averci messo lo zampino. Vorrei tanto che il governo dell’isola applicasse la norma ormai vigente in Inghilterra, di rendere obbligatorie le cinture di sicurezza, ma tanto continueranno a discuterne per anni.» Fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione. «Comunque la signorina ha anche un polso fratturato e parecchie contusioni al torace e alle gambe. Nonostante tutto direi che è un ragazza molto fortunata.»
Childes tirò un sospiro di sollievo prendendosi nuovamente la testa tra le mani. «Posso vederla?» chiese, guardando di nuovo il medico.
«Mi dispiace, ma deve riposare, le ho fatto somministrare un sedativo, ormai sarà addormentata. Ha chiesto di lei prima, le ho detto che stava bene. Mi è sembrata molto contenta di saperlo.»
All’improvviso Childes si sentì totalmente esausto, le mani gli presero a tremare in modo irrefrenabile.
«Vorrei vederla in ambulatorio» suggerì Poulain. «Ha un brutto ematoma sulla guancia e anche il labbro mi sembra molto gonfio.»
Childes si toccò il viso e fece una smorfia quando trovò il gonfiore. «Devo aver girato la testa quando ho colpito il volante» disse premendosi leggermente il labbro gonfio.
«Faccia un respiro profondo e mi dica se fa male.»
Childes obbedì. «Un po’ indolenzito, ma nient’altro.»
«Mmm. Niente dolore, sicuro?»
«No, no.»
«Comunque è meglio controllare.»
«Sto bene, un po’ scosso, tutto qui.»
Il medico rise. «Un po’! I suoi nervi sono a pezzi, altro che scosso. Quando oggi pomeriggio è arrivato qui con quella ragazzina… Jeanette? Sì, Jeanette. Avevo suggerito che prendesse un sedativo leggero, ma lei si è rifiutato. Bene, adesso le consiglio qualche cosa di più forte, qualcosa da prendere quando arriva a casa, che la faccia dormire a lungo.»
«Credo che dormirò bene comunque.»
«Io non ne sarei tanto sicuro.»
«Quanto deve rimanere qui Amy?»
«Dipende molto da che aspetto avrà il suo occhio domani mattina. Ci vorranno un paio di giorni sotto osservazione, anche se non ci sono problemi.»
«Ma lei aveva detto…»
«Glielo confermo. Sono quasi certo che non ci saranno problemi per l’occhio, ma dobbiamo comunque essere cauti. A proposito, non ho ancora capito com’è avvenuto l’incidente.» Notò con sorpresa la paura alterare i lineamenti del viso dell’altro.
«Non glielo so dire dottore» disse lentamente Childes evitando lo sguardo del medico. «È successo tutto così rapidamente. Devo essermi distratto proprio mentre imboccavo quella curva.» Cosa poteva dire a Poulain di credibile? Che aveva visto degli occhi riflessi nello specchietto retrovisore, occhi osceni e malvagi che lo guardavano? Che nel sedile posteriore aveva visto qualcuno che non c’era affatto?
«Distratto da che cosa?»
Childes guardò il medico senza capire. «Da che cosa è stato distratto?» insisté Poulain.
«Non… non lo ricordo. Forse ha ragione lei, avevo i nervi scossi.»
«Adesso ha i nervi a pezzi non prima, prima era solo un po’ scosso. Mi scusi l’insistenza, Childes, ma conosco la famiglia Sebire da molti anni, e conosco Amy da quand’era una bimba, è qualcosa di più di un semplice interesse professionale. Stavate per caso litigando?»
Childes non riuscì a rispondergli subito. Il dottor Poulain continuò. «Vede, credo che lei dovrà probabilmente spiegare alla polizia quelle chiazze che ha sulla gola, che hanno tutta l’aria di essere delle contusioni e sembrerebbero indicare un tentativo di strangolamento; sono evidenti i segni della compressione.»
Per un attimo Childes fu colto da un panico selvaggio e terribile. Come poteva esserci un potere del genere? Non era possibile! Egli aveva sentito la mano, sentito stringersi le dita intorno al collo, ma in macchina c’era solamente Amy. Scacciò il panico. Nessuno, niente poteva lasciare dei segni semplicemente con il potere della propria mente. A meno che la vittima non fosse stata complice infliggendosi le ferite da sé.
Ma non ebbe il tempo di continuare nelle sue elucubrazioni, né il medico poté fare altre domande. Le porte dell’ascensore si aprirono per lasciar passare Paul Sebire e la moglie. Childes aveva chiamato casa Sebire al telefono appena giunto in ospedale. Aveva parlato con Vivienne Sebire, le aveva detto dell’incidente. La preoccupazione di Paul Sebire diventò immediatamente rabbia quando scorse Childes che si era alzato dal divano assieme al dottore.
«Dov’è mia figlia?», chiese il finanziere a Poulain, facendo finta di non vedere Childes.
«Sta riposando» rispose il medico, poi proseguì informandoli delle condizioni della figlia.
Sebire aveva il volto teso quando Poulain ebbe finito di parlare. «Vogliamo vederla.»
«Non è il caso adesso, Paul» disse il medico. «Starà dormendo, inoltre non vi aiuterebbe affatto, in questo tipo di incidente le lesioni sembrano spesso molto più gravi di quel che sono. Ho appena consigliato al signor Childes di evitare di darle disturbo.»
Sebire trasudava odio allo stato puro quando si girò a guardare il giovane. Vivienne prese velocemente il braccio di Childes. «Tu come stai Jonathan? Non mi hai detto molto per telefono.»
«Sto bene, è Amy che mi preoccupa.»
«Tutto questo non sarebbe mai accaduto se non avesse perso la testa per lei» ringhiò Sebire. «Io l’avevo avvertita che avrebbe avuto solo guai da questa storia.»
La moglie intervenne di nuovo. «Adesso basta Paul, Jonathan ha già avuto abbastanza guai oggi. Poi il dottore ci ha detto che non avrà alcuna lesione permanente…»
«Nessuna lesione! Avrebbe potuto rimanere deturpata per il resto della vita, nessuna lesione davvero…»
Poulain lo interruppe. «Non vi saranno segni, niente comunque che non possa essere sistemato con un po’ di chinirgia plastica.»
Childes si massaggiò la schiena, aveva qualche difficoltà a causa del dolore al petto. «Signor Sebire, vorrei dirle quanto mi dispiace…»
«Le dispiace! E crede veramente che questo possa bastare?»
«È stato un incidente, poteva capitare a…». A chiunque? Non riuscì a finire la frase.
«Stia lontano da mia figlia, ha capito? Prima di farle ancora del male!»
«Paul» Vivienne lo prese per un braccio cercando di impedirgli di avanzare su Childes.
«Ti prego Paul,» aggiunse Poulain, «ci sono altri pazienti in questo piano.»
«Quest’uomo non è quello che sembra» disse Sebire indicandolo con la mano protesa. «Io me n’ero accorto subito. Guardate quello che è successo oggi alla scuola.»
«Come puoi dire così?» protestò la moglie. «Lui ha salvato quella bambina!»
«Ma davvero? E chi ha visto cos’è successo veramente? Forse è il contrario, era lui che la voleva ammazzare!»
«Sebire, lei sta dicendo scemenze come al solito» replicò Childes sottovoce.
«Ah sì? Lei è sospettato Childes, non solo da me, ma anche dalla polizia. Non credo che tornerà a far danni al La Roche, o in qualsiasi altra scuola, a far del male a dei poveri bambini innocenti.»
Childes avrebbe voluto picchiare il finanziere, sfogare la frustrazione su qualcuno, su chiunque, e Sebire sarebbe stato l’ideale, per poter restituire il colpo in qualche modo. Ma non aveva più energie. Si voltò e fece per allontanarsi.
Sebire gli afferrò un braccio e lo costrinse a voltarsi. «Mi ha sentito Childes? Lei ha chiuso qui sull’isola, le consiglio di sparire finché è in tempo.»
Childes liberò stancamente il braccio. «Ma vada all’inferno!» gli disse.
Il pugno di Sebire lo colpì alla guancia dove aveva già l’ematoma. Barcollò, colto di sorpresa, un ginocchio gli si piegò a terra. Attorno a lui sentì una confusione di voci, di grida, prima di riprendersi. Ma rimettersi in piedi fu un’impresa stranamente difficile. Qualcuno lo aiutò mettendogli una mano sotto l’ascella. In piedi si sentiva stordito ma la persona al suo fianco lo sorreggeva ancora. Si rese conto che era Overoy e che l’ispettore Robillard tratteneva Sebire impedendogli di aggredirlo ancora.
«Avevi un gran brutto oroscopo stamattina» gli sussurrò Overoy all’orecchio.
Childes riusciva a reggersi in piedi da solo ormai, sebbene non resistesse all’impulso di accasciarsi sul divano vicino. Le gambe sembravano di piombo come se il sangue non vi fluisse più. Vivienne Sebire era accanto al marito, pallida, negli occhi uno sguardo di scuse. Sebire continuava a dimenarsi, ma i suoi sforzi si facevano sempre meno convinti, senza vigore, sembrava aver esaurito la rabbia in quell’unico pugno. E forse anche una traccia di vergogna si nascondeva dietro la sua rabbia.
«Dai Jon, andiamocene» disse Overoy chiamandolo per la prima volta con il suo nome di battesimo. «Usciamo di qui. Hai l’aria di uno che ha bisogno di un buon bicchiere di qualcosa di forte. Offro io.»
«Il signor Childes non è stato ancora visitato» disse ansioso il medico.
«A me sembra che stia benone» rispose il poliziotto tirando la manica di Childes. «Forse un po’ ammaccato ma sopravviverà. Caso mai glielo riporto più tardi.»
«Come crede» disse Poulain, poi si rivolse a Sebire tentando di sdrammatizzare la situazione. «Forse potreste dare un’occhiata a Amy, se promettete di non fare rumore e di non distrurbarla.»
Il finanziere sbatté gli occhi un paio di volte, il viso ancora rosso di rabbia, poi distolse lo sguardo da Childes e annuì con la testa. Robillard io lasciò andare.
«Andiamo!» disse Overoy a Childes. Lui esitò, aprì la bocca per dire qualcosa alla madre di Amy ma non riuscì a trovare le parole giuste. Si incamminò con il poliziotto al fianco.
Una volta nell’ascensore Overoy premette il pulsante e disse: «La guardia che sta con la ragazzina ci ha chiamati per dirci che lei era di nuovo qui in ospedale. Le deve piacere proprio questo posto.»
Childes si appoggiò alla parete con gli occhi chiusi.
«Ci hanno detto che è andato fuori strada.»
«Già» fu tutto quel che Childes riuscì a rispondere.
L’ascensore si fermò dolcemente, la porta scorrevole si aprì per lasciar entrare un inserviente che spingeva una sedia a rotelle. Una donna anziana si contemplava mestamente le mani deformate dall’artrite, e quasi non si accorse degli altri uomini tanto era presa dalla propria malattia. Nessuno parlò fin quando non si riaprì la porta del piano terreno. L’inserviente uscì con la sedia a rotelle ed il suo carico di tristezza, fischiettando allegramente. «Ho preso una macchina in affitto per il fine settimana, possiamo andarcene in un posto tranquillo a chiacchierare» gli disse Overoy, tenendo aperte le porte che già iniziavano a rinchiudersi. «Anche se la sua macchina andasse ancora non credo che lei sarebbe in grado di guidarla. Ehi, siamo arrivati, sa?»
Childes si scosse. «Cosa?»
«Siamo arrivati.»
«Mi scusi.»
«È sicuro di star bene?»
«Sì, sono solo stanco.»
«In che condizioni era la sua macchina?»
«Pessime.»
«Da buttare?»
«Oh, l’aggiusteranno prima o poi.»
«Allora prendiamo la mia.»
«Può portarmi a casa?»
«Certo. Bisogna che parliamo un poco però.»
«Parleremo, sì.»
Lasciarono l’ospedale e trovarono la macchina noleggiata da Overoy nel parcheggio riservato ai medici. Montarono e Childes si accasciò sul sedile con un sospiro di sollievo. Prima di mettere in moto Overoy disse: «Lei sa che devo partire domani sera,» Childes annuì con gli occhi chiusi, «quindi se ha ancora qualcosa da dirmi…»
«Mi ha costretto ad andare fuori strada.»
«Come sarebbe a dire?»
«L’ho visto che mi guardava, Overoy. Era sul sedile posteriore. Ma non c’era veramente!»
«Aspetti un attimo. Lei crede di aver visto qualcuno sul sedile posteriore e questo è il motivo per cui è andato fuori strada?»
«Era lì! Ha cercato di strozzarmi!»
«E la signorina Sebire può confermarlo? Lo ha visto anche lei?»
«Non lo so. No, non può averlo visto, era solo nel mio cervello. Ma io sentivo quelle mani strozzarmi, le sentivo!»
«Non è possibile!»
«Posso mostrarle i segni. Li ha visti anche il dottor Poulain». Si allentò il colletto e Overoy accese la lucetta interna. «Li vede?» chiese Childes.
«No Jon. Solo qualche graffio, niente ematomi.»
Childes girò lo specchietto e allungò il collo per guardarsi. Era vero, non aveva alcun segno sul collo.
«Mi porti a casa» disse esausto. «Facciamo questa chiacchierata!»
Era in piedi, nel buio dell’antica e solitaria torre. Era immobile, in silenzio, si godeva il vuoto. Il buio oblio.
Il suono delle onde che si infrangevano contro le scogliere più in basso entrava dalle aperture, echeggiando contro le pareti circolari, come tanti sospiri. La cosa nel buio si immaginò che fossero le voci sommesse di coloro che erano morti in mare, che si lamentavano in eterno dal loro limbo senza stelle. Il pensiero era divertente!
Un puzzo nauseante ristagnava tra le mura cadenti della torre, urina, feci e marciume, i rifiuti di coloro che non avevano interesse per i monumenti nè per la loro storia. Ma quegli odori non infastidivano la figura in agguato nel buio accogliente. Anzi, godeva di quel putridume.
Da qualche parte nella notte una bestiolina cadde vittima di un altro essere più veloce e più mortale.
Sorrise.
Le forze stavano crescendo. Quell’uomo era parte di questa costruzione. Ma non lo sapeva.
Ancora no. Ma ben presto lo avrebbe saputo.
E per lui sarebbe stato troppo tardi!
Estelle Piprelly scrutava il buio dalla sua finestra. La luna ammantata di nuvole dense rendeva tutto invisibile. I viali, gli alberi erano ancora lì, anche il mare che batteva contro la scogliera, ma per quanto la riguardava il mondo finiva dietro a quella finestra. Si sentiva così sola da riuscire quasi a credere che la vita fosse solamente un’illusione, un parto creativo della sua mente.
Ma non era la solitudine il problema, era abituata alla solitudine, quando non era impegnata in affollate riunioni di lavoro; no, era questo senso di vuoto minaccioso che risvegliava un’angoscia profonda, insopportabile. Gli umori della notte presagivano calamità.
Voltò la schiena alla sua immagine riflessa, la nota schiena diritta ora leggermente incurvata la faceva sembrare più fragile. Passeggiò per la stanza senza uno scopo preciso, senza un pensiero chiaro. Il viso era solcato da rughe di preoccupazione, le mani dentro le maniche del cardigan chiuse a pugno. Le labbra erano meno tirate, meno decise del solito.
Non era soltanto la notte tetra a turbare la preside del La Roche, nè tantomeno il silenzio inquietante. Proprio quella mattina aveva visto la morte affacciarsi nella sua scuola. Quel volto dissacrante era apparso nel viso di alcune ragazze. Così come da bambina, pur senza capire, aveva visto sui volti dei soldati che occupavano l’isola l’imminente massacro, oggi aveva visto la maschera della morte sul volto delle sue alunne.
L’agitazione montante la costrinse a sedersi. Sopra il camino un orologio a cupola con il quadrante di legno laccato scandiva il tempo. Lei si strinse addosso il cardigan coprendosi anche il collo. Il gelo le saliva da dentro.
La signorina Piprelly sembrava improvvisamente più vecchia, addirittura tremante sulla poltroncina. Rivolse la mente all’esterno, cercando disperatamente di percepire qualcosa, ma sapendo che le forze non le bastavano, che le sue capacità non arrivavano oltre un certo limite, non erano assolutamente paragonabili a quelle di Jonathan Childes. Era strano che proprio lui non sapesse quanto potere possedeva. Quell’uomo era un enigma preoccupante. Si voltò quando la finestra fu sfiorata da un ramo. S’aspettava quasi di vedere la Morte in persona.
La signorina Piprelly si chiese quanto fosse sicura la scuola; all’ingresso c’era un poliziotto di guardia, ogni tanto scendeva dall’auto accanto al cancello principale per pattugliare il parco; controllava tutte le porte e le finestre, e illuminava con la torcia i cespugli tutto intorno. Ma come poteva un poliziotto solo impedire a qualcuno di entrare in uno degli edifici con tutte le entrate che c’erano? La disposizione stessa del complesso della scuola rendeva difficile una sorveglianza accurata e offriva nascondigli a qualsiasi malintenzionato. Aveva parlato con l’ispettore Robillard proprio quel pomeriggio, pregandolo di provvedere (ma senza riuscir a spiegare le cause della sua preoccupazione), e lui l’aveva assicurata che la zona sarebbe stata ben sorvegliata e controllata. Che lo era stata da quando era stata aggredita Jeanette. Aveva detto di capire la sua preoccupazione ma di non condividerla, poiché era improbabile che il delinquente tornasse al La Roche adesso che sapeva che la polizia era all’erta. La preside sperava tanto che la calma sicurezza del poliziotto fosse giustificata.
Tornò a pensare a Jonathan Childes, come aveva fatto spesso negli ultimi giorni. Suo malgrado lei aveva dovuto chiedergli di allontanarsi dalla scuola, spiegando che non era sospeso dal posto, nè tantomeno sospettato di niente, soltanto che la sua presenza al La Roche sembrava aver messo in pericolo le ragazze e lei doveva innanzitutto pensare al loro benessere. Lei stessa, Victor Platnauer, e gli altri membri del consiglio avevano discusso il problema con l’ispettore Robillard ed avevano convenuto che sarebbe stato saggio tenerlo lontano dalla scuola per un po’ (evitò di dire che Platnauer aveva chiesto il suo immediato licenziamento). Dato che mancavano appena due settimane alla fine dell’anno scolastico, sperava che lui accettasse senza far difficoltà. E così fece, senza la minima esitazione.
Quando lo aveva ricevuto nel suo studio quel lunedì mattina, appena tre giorni prima, l’intensità del suo potere era sconcertante. Sembrava udire appena le sue parole, eppure non era distratto. Era evidentemente alle prese con una confusione interiore ma perfettamente conscio di ciò che succedeva intorno a lui. Era sicuramente scosso da quanto gli era capitato, la terribile esperienza di Jeanette e l’incidente con la signorina Sebire, tutto nello stesso giorno; sentiva comunque che il suo stato di evidente confusione non riguardava questi episodi. Quest’uomo stava sondando, lei lo aveva sentito dentro la sua mente, ma la ricerca era casuale, senza una precisa direzione. Lui aveva riconosciuto in lei il potere, ma non aveva detto nulla. In certi momenti lei aveva sentito una vibrazione circondarlo, un campo di energia psichica che si contraeva e si espandeva di continuo. La fluttuazione la turbava profondamente ma lui sembrava non accorgersi di queste invisibili emanazioni.
Il suo corpo sussultò violentemente quando la terribile violenza che si stava per scatenare la colpì, attraversandole il cervello come una lama di coltello rovente. Non pensava più al passato, il vero incubo era presente, in quel preciso istante.
Nella scuola si aggirava una presenza malvagia.
Le ombre nella stanza si fecero più cupe, i rintocchi dell’orologio più forti, e sembravano volerla intimidire, impedirle di ragionare.
La signorina Piprelly pensò di chiamare subito la centrale di polizia. Si alzò della sedia: dovette sforzarsi perché le ombre e il frastuono dell’orologio la sconvolgevano. Si avviò barcollando verso il telefono, ma non alzò il ricevitore, la mano sospesa a mezz’aria.
Cosa poteva dirgli, “per favore venite, sono sola e spaventata, c’è qualcuno nella scuola, qualcuno che vuole farci del male, le ragazze stanno dormendo e io ho visto la morte sui loro volti e sono così giovani, così innocenti, non hanno ancora vissuto, e non sanno di essere in pericolo…”: poteva dire così alla polizia?
Le avrebbero subito chiesto se aveva visto qualcuno. Il loro uomo non aveva comunicato niente di anormale, l’avrebbero chiamato via radio, ordinandogli di controllare di nuovo, e di fare rapporto. “Nessun problema signorina,” avrebbero detto — una vecchia zitella che aveva paura delle ombre —, “tutto a posto, il loro uomo era di guardia, poteva richiamare quando voleva!”.
Poteva mentire forse, dire che aveva sentito dei rumori. E se poi arrivavano in forze e non c’era segno di intrusi, allora cosa sarebbe successo? Sorrisetti ironici, sguardi di commiserazione? Risate divertite sulla via del ritorno?
Quest’ultimo pensiero la fece rinsavire. Drizzò la schiena e atteggiò il viso a maggiore durezza. Non poteva cedere così alla preoccupazione. La signorina Piprelly si diresse verso la porta. Avrebbe guardato in giro lei prima; poi, se trovava qualche traccia avrebbe chiamato la polizia. La minima traccia…
Ma quando aprì la porta per un attimo si perse di coraggio. Gli sembrò di essere stata sfiorata da una mano scheletrica.
Childes si svegliò.
Non c’era stato alcun incubo, nè demoni notturni, nessun orrore lo aveva destato. Aveva semplicemente aperto gli occhi di colpo ed era perfettamente sveglio.
Rimase steso al buio ascoltando la notte. Non c’era nulla che lo disturbasse, solo il vento, una brezza, un sussurro nell’aria.
Si alzò comunque dal letto, era nudo e sentì subito freddo. Rimase seduto sulla sponda incerto, indeciso, sentiva un’inquietudine strana roderlo dentro. La finestra era una macchia grigiastra nell’oscurità. Attraverso il vetro le ombre scure delle nubi si spostavano lentamente.
Cercò a tastoni gli occhiali, li inforcò e andò verso la finestra. Strinse forte il davanzale sentendo una morsa gelida e cattiva stringergli il petto.
Lontano, sulla scogliera, il La Roche era illuminato di rosso.
Ma non era come prima, stavolta non era il sole calante a illuminare gli edifici della scuola. Stavolta erano fiamme, che si alzavano lungo i muri uscendo dalle finestre in lunghe lingue di fuoco.
Mentre Estelle Piprelly scendeva, i passi insolitamente rumorosi nel silenzio dei corridoi e delle scale, colse un odore inaspettato. Un odore insolito perché fuori contesto rispetto all’odore del legno stagionato, della cera e dei corpi umani che vi regnava quotidianamente.
Questo odore non faceva parte di questa normalità. Sostò, poggiando la mano sul robusto corrimano, ascoltò quel silenzio spaventoso. Il puzzo, ancora indistinto poiché la fonte era lontana, era dolciastro e acidulo al tempo stesso, e le faceva venire alla mente una baracca in fondo al parco dove venivano riposti gli attrezzi da giardinaggio. Una vecchia baracca di mattoni piena di utensili, di tosaerba, di motoseghe e cose simili, che odorava sempre di terriccio, di grassi, e… di benzina.
Ora che l’aveva identificato l’ansia si moltiplicò; quel puzzo significava che forse le sua angosciose intuizioni non erano ingiustificate. Sentì improvvisa l’urgenza di ritornare sui suoi passi, risalire le scale fino all’ultimo piano dove dormivano le sue protette, svegliarle e condurle lontano. Ma una forza irresistibile la spingeva in basso costringendola a rinunciare al suo intento.
La curiosità si opponeva al raziocinio. Sentiva il bisogno di dare fondamento ai suoi sospetti. Non voleva essere accusata di aver gridato al lupo. Ma una vocina, appena un sussurro, sepolta nelle profondità della sua coscienza le suggeriva altrimenti, di seguire il morboso impulso di trovarsi faccia a faccia con quel fantasma che l’aveva costantemente ossessionata nei volti sconosciuti di coloro che sarebbero morti.
Proseguì la discesa.
Arrivata all’ultimo gradino, dove si apriva l’atrio con corridoi che si allungavano d’ambo i lati, sostò di nuovo e annusò l’aria arricciando il naso: l’odore ora era pungente. Le tavole del pavimento erano umide di un liquido appiccicoso. Dalle scale sullo sfondo arrivava della luce che rendeva più cupe le ombre in fondo ai lunghi corridoi. A una decina di metri davanti a lei le grandi porte doppie erano chiuse, sul muro accanto tutta una serie di interruttori.
Dieci metri non erano molti. E allora perché quello spazio le sembrava insormontabile? E perché il buio le pareva pieno di oscure minacce?
Perché era diventata una sciocca zitellona che tra non molto avrebbe controllato sotto il letto tutte le sere. No, si disse, non era questa la ragione. Quel buio era minaccioso, quello spazio era davvero incolmabile.
Ma non aveva alternative. Ritornare di sopra significava che sarebbe stato dato fuoco alla benzina. Accendere le luci poteva far uscire allo scoperto l’intruso, forse spaventarlo. Comunque le luci avrebbero attirato l’attenzione del poliziotto di guardia.
Un passo dopo l’altro sul pavimento viscido, e iniziò il lungo viaggio verso l’entrata. Si fermò di nuovo, a metà strada. Aveva udito qualcosa, o lo aveva piuttosto sentito? C’era qualcuno nel corridoio di sinistra? Non c’era un’ombra che si spostava nel buio? Riprese il cammino, il sottile strato di liquido era appiccicoso contro le suole. Allungò il passo nell’avvicinarsi alle porte.
C’era qualcuno in agguato nel buio, qualcuno che desiderava il male della scuola e suo. La sensazione di questa presenza era intensa, le opprimeva il petto facendola respirare a fatica. Il cuore aveva accelerato i battiti, le gambe tremavano così come le mani tese verso gli interruttori. La presenza era vicina, sempre di più, ancora invisibile ma protesa verso di lei, quasi la toccava.
Fuori! Doveva uscire di lì.
Avrebbe trovato la guardia, l’avrebbe chiamata, avvertita. Lui avrebbe saputo cosa fare, prima che la benzina prendesse fuoco! Li avrebbe salvati!
Era alle porte, quasi ci sbatté contro, cercò le maniglie, il catenaccio, piangendo di sollievo, quasi libera.
Si chiese brevemente come mai non fossero chiuse a chiave poi girò le maniglie e fu fuori, con un piccolo grido di trionfo e di paura. L’aria fredda le scompigliò i capelli.
Era lì, una forma indistinta sullo sfondo della notte, immobile e impassibile sulla soglia.
Le gambe della signorina Piprelly cedettero di colpo e le uscì appena un gemito quando la figura si protese verso di lei.
Childes frenò bruscamente la macchina davanti ai cancelli del La Roche, le mani irrigidite attorno al volante. Spalancò gli occhi quando guardò in fondo al viale illuminato dai fari. Gli edifici del college erano immersi nell’oscurità, la facciata bianca dell’edificio principale era ora di un grigio plumbeo contro il cielo denso di nuvole. Non vi erano fiamme alle finestre, nessun fuoco bruciava.
Non aveva udito sirene durante il percorso. Non aveva incrociato altri veicoli lanciati come lui disperatamente verso la scuola. Le strade erano vuote. E perché mai avrebbe dovuto accorrere qualcuno se non c’era nessun incendio? Scosse la testa, perplesso. Poi si accorse della macchina della polizia accanto ai cancelli, con le luci spente. Childes innestò la marcia e guidò la macchina lentamente avvicinandosi, quasi non volesse disturbare. L’auto era vuota.
O no?
Perché quel bisogno improvviso di scendere dalla sua auto a dare un’occhiata? E perché nello stesso tempo l’impulso di fuggire da questo luogo temibile appena illuminato dalla luna nascosta dietro i nuvoloni immobili e minacciosi?
Già… perché? rispose una voce cupa proveniente da un altro mondo.
Un fulmine lampeggiò brevemente, illuminando la massa densa delle nubi, una brezza vivace soffiò dal mare agitando le foglie e i rami, i fari della macchina formavano un solco luminoso verso la palazzina imponente sul fondo. Childes non aveva più dubbi, avrebbe guardato nell’auto poi sarebbe andato alla scuola; la storia era già stata scritta, aveva uno svolgimento predeterminato. Lui era ancora libero di scegliere, poteva cambiare idea quando voleva, eppure il destino gli intimava di andare. Lui lo avrebbe fatto, ma senza soccombere. Pregò di non soccombere.
Scese dalla Renault girandole attorno verso l’altra auto. Guardò attraverso il finestrino aperto. Il poliziotto era scivolato verso il basso, le ginocchia sospinte in alto dietro lo sterzo. In un attimo di panico isterico Childes credette che stesse dormendo, ma la macchia scura che gli si allargava sulla camicia bianca come uno sparato nero indicava diversamente. Allungò la mano e lo toccò stando attento ad evitare la viscida sostanza che defluiva dal collo. Non ci fu alcuna reazione, come del resto si aspettava. Prese la maniglia della portiera e tirò, aprendo lo sportello quel tanto che bastava per far accendere la lucina interna.
Il mento dell’uomo in divisa era appoggiato al torace e nascondeva alla vista la ferita sul collo. Era un po’ grosso come poliziotto, la lucina sul soffitto si rifletteva sulla sua calvizie. Aveva gli occhi mezzi aperti come se stesse guardando in basso verso la macchia cremisi sulla camicia. Le braccia serenamente distese lungo i fianchi, le mani aperte, rilassate; evidentemente la morte era sopraggiunta così rapida da inibire l’opportunità di una lotta. Appariva sereno, ignaro del proprio fato.
Childes richiuse la portiera, il tonfo sordo suonò come il coperchio di una bara. Si appoggiò al tetto della macchina con la testa tra le braccia incrociate. La vittima non si era minimamente resa conto di quello che le stava per accadere, poco abituata forse a una violenza siffatta. Stava sorvegliando la scuola, il gruppo di edifici, e forse i cespugli vicini attraverso il finestrino aperto in modo da poter udire anche eventuali suoni anomali. Non aveva quindi tenuto d’occhio la strada dietro a sé. Un coltello, un rasoio, una lama d’acciaio affilato, era sbucata attraverso il finestrino per recidergli la gola di netto, un movimento veloce, due, tre secondi appena. Se il poliziotto avesse tentato di gridare non sarebbe uscito altro che un gorgoglio strozzato da quel taglio profondo.
Era qui, nella scuola, l’essere che conosceva con il nome di MOON.
La coscienza di ciò gli crebbe dentro bloccandogli lo stomaco e i polmoni, che quasi non riuscivano più a pompare ana. Alzò la testa e osservò gli edifici in fondo al viale; i fari illuminavano solo la ghiaia, non riuscivano a penetrare fino in fondo quel buio tetro e pauroso.
Nella sua testa risuonò un gemito non suo. Era sfuggito a qualcuno che era dentro il college: dietro quelle mura austere qualcuno era terrorizzato a morte.
E qualcosa, lì dentro, godeva di quel terrore.
In quel momento dietro le finestre del pianterreno dell’edificio principale un bagliore arancione si propagò. L’incendio non era più soltanto una precognizione visiva della sua mente, era una terribile realtà.
La signorina Piprelly giaceva sul pavimento, incapace di muoversi, la testa piegata a un angolo grottesco. Era cosciente ma terrorizzata. Sapeva, ma in modo stranamente distaccato — poiché non c’era dolore, solo paralisi — di avere il collo rotto, le ossa spezzate facilmente da quelle mani rudi e robuste che l’avevano aggredita quando le gambe avevano ceduto. In quell’attimo terrificante la preside aveva compreso che l’intruso si era nascosto proprio dietro la porta d’ingresso quando l’aveva sentita arrivare.
La donna non aveva scorto il suo assalitore, ne aveva avuto solo un’impressione di pesantezza, una pesante massa inarrestabile che avanzava su di lei per ghermirla. Il respiro maleodorante, fetido, un grugnire soddisfatto; la torsione, lo schiocco delle sue vertebre quando la sua testa, serrata tra le grosse mani dai palmi duri come la roccia, era stata completamente girata all’indietro. La forma nera si era poi allontanata goffamente, un tonfo dietro l’altro dei passi sul pavimento. Poi era ritornata, le aveva versato addosso il liquido sui vestiti, tra i capelli, e lei aveva chiuso gli occhi. Giaceva lì, gli arti inutili, la voce appena un mormorio incomprensibile. Le pungevano gli occhi bagnati dal fluido che le scorreva giù dalla fronte. Li batté cercando di schiarirsi la vista ma la sensazione di buciore permaneva impedendole di vedere. Riusciva appena a intravedere la goffa figura in fondo al corridoio, urlò di paura, ma il suono rimase dentro di lei. Aveva intravisto un leggero bagliore. Un fiammifero acceso. Lo vide cadere a terra, e la fiammella sprizzare verso l’alto quando la benzina esplose.
Quella creatura illuminata dalle fiamme sorrideva… sogghignava… verso di lei!
Le fiamme serpeggiarono velocemente — così velocemente! — lungo il corridoio, verso il suo corpo disteso e inzuppato, e immobile…
L’incendio aveva invaso quasi tutto il pianterreno e si stava propagando ancora mentre Childes correva verso l’edificio. Le fiamme erano alimentate dai vecchi legni stagionati delle travi e dei pavimenti. Le finestre riflettevano una alla volta una vampa arancione, rossastra e vicino al nucleo del fuoco scoppiavano verso l’esterno gonfiate dal calore. Ormai vicino Childes si accorse che le fiamme già lambivano il primo piano. Si sentiva lo scampanellio degli allarmi antifumo. Quando arrivò sull’erba bagnata di rugiada quasi perse l’equilibrio; riuscì a rimanere in piedi quasi senza cambiare passo, passando attraverso l’aiuola circolare davanti all’ingresso dove la statua del fondatore del La Roche osservava impassibile l’incendio riflettendo anch’essa il rosso delle fiamme.
Childes salì gli scalini dell’ingresso sempre di corsa, aspettandosi di trovare il portone chiuso a chiave. Spinse una della maniglie di ferro e con sorpresa sentì che la porta cedeva. Una vampata di calore bruciante lo investì ricacciandolo all’indietro.
Schermandosi gli occhi contro il bagliore accecante, diede un’occhiata veloce all’interno. La pelle delle mani e del viso gli si ustionò leggermente, il respiro sembrava dita di fuoco cacciate in gola. Tornò fuori, la vernice della porta già iniziava a gonfiarsi e a spaccarsi, a sua volta prossima a prender fuoco.
La scalinata era in fiamme, e lì accanto alla porta intravide una massa annerita che ancora bruciava. Non perse tempo a chiedersi di chi fosse stato quel corpo.
Childes voleva scappare, andarsene dalla scuola, andarsene via, dovunque. Temeva per sé, ma si rendeva conto del pericolo che correvano gli altri, quelli che erano ai piani superiori: le ragazze del college e qualche membro del personale che era alloggiato al La Roche. Ormai i segnali di allarme dovevano averli sicuramente destati, sarebbero stati in preda al panico, spaventati a morte; avrebbero subito pensato alla scalinata principale che era la via di fuga più vicina, ma l’avrebbero trovata già invasa dalle fiamme; forse la paura avrebbe fatto loro scordare le procedure di emergenza tante volte eseguite con disciplina estrema.
Prima di dirigersi verso il retro dell’edificio dove si trovava la scala antincendio, Childes allungò il braccio nell’inferno di fuoco tirando a sé il grande portone, e urlò dal dolore nel toccare il metallo rovente. Tenendo duro richiuse la porta, appena un tentativo per evitare che il risucchio d’aria alimentasse le fiamme che minacciavano le scale. La porta rimbalzò contro gli stipiti, il legno ormai deformato. Childes lasciò perdere e scese di corsa le scale, correndo lungo un lato della scuola, passando sotto le finestre illuminate, curvandosi per evitare i vetri che andavano in frantumi.
Quando girò l’angolo venne investito da un freddo intenso, come se si fosse improvvisamente aperto lo sportello di un congelatore. Il sudore gli si gelò addosso. Era al buio, da quel lato non c’erano bagliori di fiamme, non ancora. Sul prato si riflettevano macchie di luce provenienti dalle finestre dei corridoi e dei dormitori. Tenendosi radente al muro Childes corse fino all’angolo successivo e scorse poco lontano la scala antincendio. Trovò la porta già aperta. Il vetro era già stato rotto all’altezza del lucchetto.
Childes non perse tempo a chiedersi chi fosse stato e perché; spinse la porta e cercò l’interruttore che sapeva essere lì a fianco.
Il fumo acre erano già penetrato fin lì, anche se non così tanto da essere preoccupante. I campanelli d’allarme, che all’interno erano molto più forti, non facevano altro che aumentare la sua paura con il loro suono stridulo e incessante. Affrontò comunque gli scalini di pietra a tre a tre, i suoi nervi scoperti lo rimandavano a un ricordo analogo appena tre giorni prima.
Stavolta però le vite in pericolo erano molte.
Il fumo si fece più denso mentre saliva e si poteva udire il frastuono scoppiettante delle fiamme. Poi delle voci, passi che scendevano, si avvicinavano, luci dall’alto. Intravide dei movimenti lungo le scale. Grazie a Dio stavano scendendo!
Sostò al primo piano scrutando il corridoio che si apriva alla sua destra. In fondo c’era l’inferno, il fuoco divorava tutto dal soffitto al pavimento. Il calore rovente rombava lungo il passaggio lambendolo.
Avanti, era sciocco fermarsi, anche un solo secondo. Era sciocco fermarsi per valutare il pericolo.
Le voci erano ormai vicine, forse solo un piano sopra di lui. Childes continuò a salire, il fumo gli bruciava gli occhi, l’aria stessa sembrava bruciare, inaridita, malgrado le fiamme fossero ancora lontane. Si chiese quanto si fosse propagato il fuoco. Poi vide apparire le prime figure barcollanti e corse loro incontro.
Una bambina di non più di dieci anni in camicia da notte e a piedi nudi, gli cadde tra le braccia, con il viso rigato di lacrime.
«Sei in salvo» le disse, guardando le altre assieparsi alle sue spalle. «Tra poco sarai fuori.»
«Signor Childes, Signor Childes, è proprio lei?». Si sentì chiamare da qualche parte. Un’altra figura si avvicinò. Come le ragazze era anche lei vestita da notte, e si stringeva addosso la vestaglia come se questa potesse difenderla dal calore montante. Portava un paio di scarpe da passeggio senza tacchi, tanto che per un attimo la scambiò per la preside, ma riconobbe subito Harriet Vallois, l’insegnante di storia che era anche una delle tutrici interne.
«Sono tutte uscite dai dormitori le ragazze?» urlò, per superare il clamore dei campanelli d’allarme e delle bambine terrorizzate. Alcune di loro tossivano, l’aria si faceva sempre più irrespirabile.
«La governante e la signorina Todd stanno controllando.» Il tremore delle labbra suggeriva che anche lei era ormai sull’orlo delle lacrime. «Mi hanno mandata avanti con questo gruppo.»
La prese per le spalle per sostenerla. «La signorina Piprelly è con loro?»
«No, no. Sono passata dalla sua stanza, ho bussato ma non c’era nessuno. Ho pensato che fosse andata direttamente nei dormitori… ma non era neanche lì.»
Quel corpo carbonizzato nell’ingresso!
Childes rabbrividì. Il corpo poteva anche essere quello del piromane, morto nell’appiccare il fuoco, chiuso nella sua stessa trappola. Non poteva essere certo che fosse Estelle Piprelly quel corpo annerito, non poteva essere! Eppure lui ne era sicuro, non aveva il minimo dubbio.
Harriet Vallois guardava disperata le scale, gli occhi sbarrati. «Porti fuori le ragazze!» le ordinò, stringendole forte il braccio. Il dolore la fece riprendere.
«Le porti fuori!» ripeté, sospingendola verso le scale e consegnandole la bambina che era rimasta aggrappata alle sue gambe. «State unite e non fermatevi per nessun motivo.» Poi sottovoce aggiunse. «Non ci rimane molto tempo».
Lei si spaventò ancora di più. «Ma lei non ci aiuta?» lo pregò.
Oh sì! Lui avrebbe tanto voluto aiutarle, scendere insieme a loro, uscire da quel luogo di morte in cui già un cadavere giaceva carbonizzato nell’atrio principale, dove chissà chi o cosa si aggirava per i corridoi e dove fiamme terrificanti divoravano tutto.
«Andrà tutto bene» la rassicurò. «Siete quasi arrivate. Io devo andare ad aiutare le altre di sopra.»
La sospinse verso le scale e prendendo per le spalle la ragazza più vicina la invitò a seguirla; le altre si accodarono e lui le consigliò di stare attente e non inciampare, tranquillizzandole una a una man mano che passavano. Stimò che ne erano passate per lo meno una trentina e altre ancora continuavano ad arrivare. Cnildes non aveva idea quante delle trecento e più allieve del La Roche fossero a convitto, ma stimò che dovevano essere almeno una sessantina. A parte Estelle Piprelly solo due delle insegnanti e la governante erano interne nel colle|e a badare alle ragazze. Aumentò l’andatura nonostante la risalita diventasse sempre più dura, l’aria più irrespirabile. Più saliva e più denso si faceva il fumo. I vapori fuligginosi parevano l’avanguardia velenosa dell’incendio che li creava. Era più forte ora anche il rumore dell’incendio, le travi si schiantavano come colpi di fucile all’interno della fornace. E sopra a tutto si sentiva il suono impazzito degli allarmi.
Cominciava a soffocare: tirò fuori il fazzoletto e se lo portò alla bocca. Arrivavano altre ragazze, annunciate da grida strozzate. «Andate avanti!» gridò loro, anche se non sembravano avere bisogno di incitamenti. Apparvero due delle ragazze più grandi che ne sorreggevano un’altra in preda a un attacco isterico paralizzante. Childes fu tentato di prendere in consegna la ragazzina e di portarla giù lui stesso, ma comprese che il terzetto ce l’avrebbe fatta anche da solo.
Qualcuno gli cadde addosso e lui tese le braccia per evitare che cadesse.
«Eloise!» esclamò, riconoscendo l’altra insegnante che era alloggiata nella scuola.
La signorina Todd spalancò la bocca, spaventata e incerta. Ansimava rumorosamente succhiando l’aria malsana.
«Quante ce ne sono lassù?» le urlò da vicino.
Lei scosse la testa cercando di sfuggirgli.
«Perdio cerca di stare calma!»
«Lasciami andare, ti prego, lasciami andare.»
«Quante?»insisté lui, trattenendola per un braccio.
«Abbiamo cercato dappertutto, abbiamo… Alcune avevano tanta paura che si sono nascoste nei bagni. Altre urlavano affacciate alle finestre.»
«L’avete fatte uscire tutte?»
«Lasciami, lasciami andare.»
La trattenne. «L’avete fatte uscire tutte?»
Alcune ragazze li scansavano aggrappate alla ringhiera per sostenersi, le loro spalle sussultavano e piangevano tutte. Le loro urla si fondevano in un unico lamento. L’insegnante si liberò di lui e le raggiunse nella fuga sfiorando le spalle di una, carezzandone un’altra facendo loro coraggio nonostante la sua paura disperata.
Si voltò e gli gridò: «Alcune delle ragazze sono fuggite dalla porta sbagliata, verso la scala principale. La governante è andata a cercarle!». Poi riprese la discesa, sospinta anche da quelle che arrivavano.
Childes non perse altro tempo. Si coprì la bocca con il fazzoletto e salì gli ultimi gradini. Non passò nessun altro. Aveva perso il conto, ma gli sembrava che dovessero essere ormai passate quasi tutte.
Arrivò all’ultimo piano dove il fumo era insopportabile. Aveva gli occhi brucianti, la gola dolorosamente secca. Con terrore vide che le fiamme erano arrivate fino a quel piano; in fondo al corridoio si intravedeva un baluginio appena percepibile attraverso il fumo denso, ma lui era sicuro che provenisse dall’altra scannata.