Il ragazzo aveva smesso di piangere.
Giaceva sul suo letto stretto, gli occhi chiusi, il volto come una maschera di alabastro nella luce della luna. Ogni tanto un tremore scuoteva tutto il suo corpo.
Si strinse nelle lenzuola, tirandole su, fin sotto il mento. Una pesantezza terribile gli prendeva il corpo, come se nelle vene fluisse piombo liquido; il peso era la sensazione di una perdita, e lo aveva lasciato debole ed esausto.
Il ragazzo giaceva li da molte ore, quante non lo sapeva proprio. Gli ultimi tre giorni erano stati un’eternità senza tempo; ma suo padre gli aveva proibito di muoversi dal letto. E quindi lui giaceva, sopportando la perdita, spaventato dalla nuova solitudine.
Fin quando qualcosa lo costrinse ad aprire di nuovo gli occhi cerchiati di rosso.
La figura era in piedi, gli sorrideva dal fondo del letto. Egli ne sentiva il calore, breve requie dallo strazio. Ma non era possibile. Suo padre gli aveva detto che non era possibile.
«Non puoi… non puoi essere…» disse, la flebile voce appena un tremolio contro la notte. «Lui… dice che… non puoi… essere…».
Il senso della perdita lo invase di nuovo, poiché ora era anche dentro di lei.
D’un tratto il ragazzo sbigottito guardò altrove, in alto, in un angolo della stanza, come se improvvisamente si fosse reso conto di un’altra presenza, di un altro sguardo posato su di lui, invisibile. L’attimo svanì con i passi nel corridoio, ed egli distolse lo sguardo, una paura vera negli occhi. La donna era scomparsa.
Sulla porta, l’ombra fluttuante di un uomo.
«Te l’avevo detto» disse, e alla rabbia e durezza delle parole sembrava mischiarsi la colpevolezza. «Mai più! Mai più…». Aveva il pugno sollevato mentre arrancava verso il ragazzo rannicchiato sotto le coperte.
Fuori, la luna piena era nitida e pura contro il nero della notte.
Finalmente era morta.
Dove c’era stato il terrore, restava solamente il vuoto.
Occhi morti. Come di un pesce su una lastra di ghiaccio.
Il corpo dormiente, l’ultimo spasimo esaurito, l’ultimo lamento soffocato. L’ultima sua espressione dissolta.
Le dita artigliate erano ancora tese verso la forma sopra di lei, uno dei pollici infilato nella bocca come per strapparle il sorriso.
La forma si alzò, mollando la presa sul collo; il respiro era appena affaticato, nonostante la donna che aveva sotto si fosse dibattuta a lungo.
Si sfilò il pollice dalle labbra beffarde e la mano del cadavere cadde, uno schiaffo sulla carne nuda.
Soppesò la vittima, un sorriso sempre fisso sul volto.
Prese le mani senza vita, stringendone i polsi, tirandole in alto. Si sfregò le unghie rotte lungo il viso, posò le dita irrigidite attorno al proprio collo come per canzonarle, in una parodia ai vendetta. Un sogghigno rauco a deriderne l’inerzia.
A cavalcioni del cadavere, lasciò scivolare le mani sul corpo nudo, muovendole perché toccassero dappertutto, carezzassero ogni parte. Le mortali, morbide carezze suscitavano altre sensazioni.
La forma si diede da fare mentre il corpo della donna si raffreddava lentamente.
Dopo poco si alzò dal letto, un leggero sudore ne ricopriva la pelle. Lungi dall’essere sazia.
Un gelido piovasco batteva contro i vetri con improvvise folate, quasi una protesta contro la crudeltà esercitata all’interno. Le tende sbiadite tirate contro la luce ne soffocavano il rumore.
Aprì di scatto la borsa in un angolo della squallida stanza, ne estrasse un involto nero che svolse sul letto, accanto al cadavere. Nella debole luce lampeggiò l’acciaio degli strumenti. Li alzò uno ad uno e dopo averli esaminati tenendoli vicini agli occhi che baluginavano, scelse il primo.
Il corpo fu squartato dallo sterno al pube, quindi da fianco a fianco. Il sangue colò velocemente dalla profonda incisione a croce.
I lembi della carne furono prima separati poi ripiegati. Le dita già rosse vi si immersero.
Rimosse gli organi, tagliando dove era necessario, e li ripose sulle coperte dove rilucevano fumando.
Per ultimo il cuore, strappato via, gettato sul mucchio da dove scivolando sul viscido cumulo si spiaccicò a terra. Un afrore acre riempiva la stanza.
Fatto un vuoto, lo si riempie facilmente.
La forma cercò in giro per la stanza ogni sorta di piccoli oggetti. Finalmente soddisfatta, tirò fuori ago e filo dall’involto sul letto.
Iniziò a cucire assieme i lembi, bucando le carni con punti grossolani, sorridendo sempre. Il sorriso diventò un ghigno ripensando all’ultimo oggetto riposto nel cadavere.
Pinnava con lenti movimenti sopra le rocce verdastre, rilassato, muovendo le mani di tanto in tanto, per cambiare direzione, attento alle escrescenze aguzze che tagliavano facilmente la pelle resa morbida dall’acqua. Fletteva lentamente le gambe, partendo dalle anche con colpi lunghi e aggraziati, le pinne semirigide lo spingevano agevolmente attraverso i flutti.
Le alghe creavano effetti ondulanti e i pesci viravano stretti, sorpresi dalla sua improvvisa intrusione, le anemoni silenziosamente sembravano fargli cenno. La luce del giorno filtrava, i raggi sparsi nel santuario segreto e muto del fondo. Childes sentiva solamente il suono sordo e pesante dei propri gesti.
Una breve onda, un movimento nella sabbia, ne attirò lo sguardo e lui si avvicinò cauto, poggiò delicatamente la mano su una balza di roccia, e si fermò oscillando.
Sotto di lui una stella di mare si era attaccata a una vongola e mentre la teneva immobile ne schiudeva le valve con i peduncoli a tubicino. La stella lavorò pazientemente, i cinque tentacoli impiegati uno alla volta, in modo da stancare la preda, allargando con risolutezza l’apertura fino a scoprire i tessuti molli della vongola. Childes guardo con un misto di fascino e di leggera repulsione mentre il cacciatore estrudeva il proprio stomaco per affondarlo nella sostanza carnosa da succhiare.
Un lieve spostamento tra le guglie e le caverne delle rocce vicine, distolse l’attenzione del nuotatore. Perplesso, studiò gli anfratti per qualche momento prima che un ulteriore movimento attirasse il suo sguardo. Il paguro sgattaiolò attraverso la roccia, la conchiglia e le chele ricoperte di alghe verdi, un camuffamento naturale ed efficace sia in acque basse che profonde, nonostante fosse comunque quasi invisibile.
Childes seguì i passi del granchietto, ammirandone l’agilità e la velocità; il piccolo essere era reso ingrandito dalla lente del vetro della maschera e dall’acqua di mare stessa. Il granchietto si fermò d’un tratto come se si fosse accorto di essere osservato e allungò una chela alla ricerca di un’altra rincorsa.
Il sorriso del nuotatore alla vista di quel panico improvviso e fremente era deformato dal boccaglio infilato tra denti e gengive; quando si rese conto di non avere quasi più aria nei polmoni, senza fretta si apprestò a risalire alla superficie.
La visione arrivò senza preavviso, come le altre tanto tempo prima.
Quasi non sapeva cosa vedeva, poiché era nella sua mente non nei suoi occhi; un miscuglio di colori, odori. Le mani gli prudevano nell’acqua. C’era qualcosa di lungo, viscido, attoreigliato, rosso e fradicio. Del metallo, acciaio acuminato contro qualcosa di molle e tenero. Nuotava nel sangue. Stava nuotando nel sangue. Fu preso dalla nausea e risucchiò acqua salata.
Il corpo gli si incurvò per il dolore e la bile mescolata all’acqua salata che eli correva nella gola, esplose nel tubo del respiratore riempiendolo.
Il boccaglio gli sfuggì ed altra acqua gli entrò in bocca. Il grido che emise fu un gorgoglio soffocato. Scalciò, le braccia tese verso la superficie. Bolle impazzite si univano al folle disordine che aveva negli occhi. La superficie illuminata sembrava lontanissima.
Un’altra visione riempì il suo incubo. Mani crudeli, dita tronche, che si muovevano ritmiche. Un folle pensiero-visione. Qualcuno cuciva qualcosa.
Il corpo di Childes s’inarcò di nuovo.
Tentò istintivamente di serrare la bocca, ma senza più controllo le labbra continuavano a far entrare grandi sorsate di acqua salata, quasi stessero cospirando con il mare contro di lui. I sensi gli si spegnevano, sentiva braccia e gambe deboli. Così veloce, pensò. Si diceva che affogare fosse una cosa molto veloce. Eppure, assurdamente, sentiva il cannello ritorto del respiratore che pendendo dalla fascetta della maschera gli graffiava la guancia. Si agitò sentendosi affondare, alla deriva.
Un braccio snello scivolò sotto la sua spalla, afferrandolo forte. Un corpo si abbracciò alla sua schiena. Ora saliva lento, controllato. Cercò di aiutare, ma sentiva calare su di sé un manto cupo.
Esplose alla superficie dal nero, soffocante abbraccio, la vita gli rifluì dentro dolorosamente, non teneramente restituita.
Il suo stomaco e i polmoni sconvolti espellevano liquido, tossì, sputò, rischiando di trascinarli entrambi sott’acqua. Udì vagamente una voce suadente e cercò di seguirne i consigli, si sforzò di rilassarsi, ordinando ai polmoni di inspirare cautamente, sorso a sorso, sputando i residui, tossendo fuori la bile.
Lei lo trainò verso la riva, tenendogli le braccia da sotto i gomiti, la testa poggiata ad un suo braccio. Nuotava sulla schiena al suo fianco, le pinne davano sicurezza al loro moto tra le piccole onde. Il respiro era ancora affaticato ma dopo poco egli poté aiutarla, piegando le gambe a tempo con quelle di lei.
Raggiunsero il bagnasciuga e la ragazza lo issò in piedi. Gli tolse la maschera dal volto e gli mise un braccio attorno alle spalle ingobbite, colpendogli la schiena ogni qualvolta lui rimetteva ancora acqua di mare, piegandosi con lui, il giovane viso segnato dalla preoccupazione. Inginocchiandosi gli tolse le pinne, poi si tolse le sue. Le spalle di lui sussultavano ancora per lo sforzo di respirare; stava mezzo piegato con le mani appoggiate alle ginocchia. Pian piano si rimise, i sussulti diventarono un tremore. La ragazza attese pazientemente, la maschera tirata fin sulla fronte, i capelli biondi, sciolti, scuriti dall’acqua le cadevano grondanti sulle spalle. Non parlava sapendo bene che per ora sarebbe stato inutile.
Alla fine fu lui ad ansimare: «Amy…».
«Va tutto bene, arriviamo fino alla spiaggia.»
Uscirono dall’acqua, barcollando un po’, il braccio di lei sotto le sue spalle per sostenerlo. Childes si accasciò sulla sabbia: si sentiva nello stesso tempo scioccato, disgustato. Lei si sedette accanto a lui scostandogli i capelli dagli occhi, massaggiandogli la schiena.
Erano soli nella piccola baia lontana; la ripida salita attraverso le rocce erose per molti era troppo impegnativa e una fredda brezzolina di libeccio teneva lontana l’altra gente. Una vegetazione abbondante ricopriva la china bordata al fondo di una cinta di pietra, granito ben dilavato dalle furiose maree. I primi fiori di maggio erano sparsi sul crinale macchiando di giallo, di verde e di blu la vegetazione. Una cascatella sgorgava vicina, il ruscello correva tra ciottoli e sassi fino a raggiungere il mare. Al largo piccole barche da pesca, gozzi per lo più, dondolavano quieti sulla superficie piatta dell’acqua, le corde d’attracco come fili grigi tesi verso un piccolo molo all’altro capo dell’insenatura. Al molo si arrivava attraverso un sentiero stretto, separato dalla spiaggia da una muraglia sparsa di massi rocciosi. La ragazza notò dei visi che scrutavano nella loro direzione dal molo, evidentemente preoccupati della scena veduta; agitò un braccio per segnalare che tutto andava bene e si voltò.
Childes si sedette, si strinse le ginocchia tra le braccia e vi poggiò la testa. Tremava ancora.
«Mi hai spaventata, Jon» disse la ragazza inginocchiandosi davanti a lui.
Lui la guardò, pallido in viso. Si passò la mano sugli occhi come per scacciare un ricordo.
«Grazie per avermi tirato fuori» disse infine.
Lei si chinò in avanti, gli baciò la guancia poi la spalla. Aveva negli occhi una certa curiosità. «Ma cos’è successo là sotto?»
Il suo corpo ebbe un sussulto, e lei si rese conto di quanto freddo avesse. «Prendo la coperta» disse alzandosi.
I piedi nudi non recero caso al ciottolato duro mentre correva verso il mucchio dei loro abiti e delle borse posati su un lastrone piatto poco lontano. Childes ne guardò l’agile figura mentre prendeva una coperta da un borsone e fu grato della sua presenza, non solo perché l’aveva tirato fuori dal mare ma perché c’era. Spostò lo sguardo verso il mare, un nastro bianco all’orizzonte messaggero di tempesta.
Chiuse gli occhi e sentì in gola il sapore di sale. Lasciò cadere la testa e mugolò piano.
Ma perché adesso? Dopo tanto tempo?
Il peso della coperta sulle spalle lo fece riprendere un poco.
«Bevi» disse Amy, tenendogli sotto il naso una fiaschetta d’argento.
Il brandy gli tolse un poco il sapore di sale e ne sentì con piacere l’improvviso calore. Alzò un braccio e lei s’infilò sotto la coperta con lui.
«Stai bene?» chiese accoccolandosi. «Ti ho portato gli occhiali».
Li prese e li inforcò. Il mondo messo a fuoco non pareva più reale di prima.
Quando parlò la voce era malferma. «Sta accadendo di nuovo» disse.
«Domani?» chiese.
Amy scosse la testa. «Papà ha ospiti, tutto il giorno». Roteò gli occhi. «Sono di servizio».
«Affari?»
«Già! Potenziali investitori di Lione. Li ha invitati per il fine settimana, ma grazie a Dio sono potuti venire solo per la domenica. Vanno via lunedì pomeriggio dopo una visita alla società. Papà è dispiaciuto, avrebbe voluto mostrare loro tutta l’isola.»
Paul Sebire, il padre di Amy, era amministratore delegato della Jacarte International, una potente società finanziaria con sede sull’isola che era essa stessa un paradiso fiscale sia per quelli del continente che per quelli del Regno Unito. Nonostante fosse più vicina alla Francia infatti, era decisamente di dominio inglese.
«Peccato.» commentò Childes.
«Mi dispiace Jon». Si sporse all’indietro nella macchina per baciarlo; i lunghi capelli, ora raccolti, attoreigliati attorno al collo gli carezzavano il petto.
Egli restituì il bacio, assaporando l’odore di mare su di lei, assaggiando il sale dalle sue labbra.
«Ma non si rilassa mai?» chiese.
«È rilassante per lui. Ti avrei fatto invitare ma non credo che ti saresti divertito.»
«Mi conosci bene». Si preparò a partire. «Abbracciami tuo padre.»
Lei fece una smorfia. «Dubito che lo apprezzi. A proposito di prima, Jon…»
«Grazie d’avermi tirato fuori.»
«Non intendevo questo.»
«Quello che ho visto?»
Lei annuì. «È così tanto tempo.»
Jon guardò diritto davanti a sé, ma si guardava dentro. Poi rispose: «Non ho mai pensato che fosse veramente finita.»
«Ma sono passati tre anni. Perché deve ricominciare ora?»
Childes si strinse nelle spalle. «Forse è un caso. Può darsi che non succeda più. Forse la mia fantasia mi ha fatto un brutto scherzo.» Sapeva bene che non era così, ma ora non aveva voglia di discuterne. Chiuse gli occhi. Allungandosi sul volante le toccò il collo. «Dai, non guardarmi così. Tu divertiti domani, poi ci vediamo a scuola lunedì. Ne parliamo allora.»
Amy prese il borsone dal sedile posteriore. «Mi chiami stasera?»
«Pensavo che tu volessi correggere dei compiti.»
«Non ho molta scelta vista la domenica così piena. Ma un intervallo me lo sarò meritato no?»
Lui rispose con tono scherzoso: «Okay, prof. Ma non mi maltrattare le ragazze.»
«Dipende da cos’hanno scritto. Non so più se sia più difficile insegnargli il francese o un inglese decente. Per lo meno con i computer sono le vostre macchine a correggere gli errori.»
Lui sbuffò e sorrise. «Vorrei che fosse così facile.» Le baciò la guancia mentre usciva dall’auto. Le prime gocce di pioggia bagnarono i vetri.
«Abbiti cura Jon!». Voleva, doveva dire di più, ma sentiva le resistenze di lui. Imparare a conoscere Jon era stato un lungo lavoro, ancora oggi sapeva che c’erano degli angoli nascosti, bui, dentro di lui, irraggiungibili. Si chiese se la sua ex moglie avesse mai provato a farlo.
Amy guardò la piccola Mini nera allontanarsi, fece un gesto di saluto, pensierosa. Si girò e si affrettò, attraverso la cancellata di ferro battuto, correndo per il breve viale fino alla casa prima che prendesse a piovere sul serio.
Childes lasciò dopo poco la strada principale, svoltando in una delle viuzze che ramificavano l’isola come piccole vene che si dipartono dalle arterie principali; di tanto in tanto rallentava accostandosi alle siepi e ai muri che costeggiavano la strada. Teneva stretto il volante tanto da far risaltare il bianco delle nocche, guidando per riflesso più che coscientemente; nella mente, ora che era solo, si affollavano altri pensieri.
Quando arrivò finalmente al cottage era di nuovo tremante, in bocca di nuovo sentiva il sapore acro della bile.
Guidò la Mini attraverso lo stretto ingresso davanti alla vecchia casa di pietra, uno spiazzo che egli aveva ripulito dagli sterpi e dai rovi quando era arrivato. Spense il motore. Lasciò la borsa con le cose del mare e saltò giù dalla macchina cercando goffamente la chiave del portoncino. La chiave non voleva entrare nella toppa. Finalmente gli riuscì, sospinse la porta e infilò il corridoio, appena in tempo. Lo stomaco gli salì come un ascensore e vomitò nel fondo della tazza del piccolo bagno, ma gli parve di aver rigettato solo una piccola parte della roba che gli torceva le viscere. Si soffiò il naso con della carta e tirò lo sciacquone, guardando la carta morbida avvitarsi fin quando non venne rapidamente risucchiata. Si tolse gli occhiali dalla montatura scura e si lavò il viso con l’acqua fredda tenendo le dita premute sugli occhi, rinfrescandoli. Childes si guardò nello specchio mentre si asciugava il viso: il riflesso era pallido, le occhiaie scure sembravano finte. Allungò le mani tendendo le dita che non riusciva a tenere ferme.
Si rimise gli occhiali, passò nel soggiorno e si chinò per passare attraverso la porta; non era poi tanto alto ma l’edificio era vecchio, i soffitti bassi e ancor di più le porte. La stanza era di dimensioni ridotte, ma lui non vi aveva piazzato troppa roba; un vecchio divano logoro, una TV portatile, un tavolinetto quadrato, le basse scansie che incorniciavano il caminetto erano ricolme di libri; su una di queste, accanto a una lampada c’erano delle bottiglie con dei bicchieri. Jon prese una bottiglia di scotch e se ne versò una robusta dose.
Fuori la pioggia cadeva decisa. Egli rimase accanto alla finestra che dava sul giardinetto posteriore, guardando fuori incupito. Il cottage, in fila con altri appena distaccati tra di loro, sul retro dava su campi aperti. Una volta le case erano state alloggi per braccianti della tenuta, ma la tenuta era stata frazionata e venduta da un pezzo. Childes era stato fortunato a trovarne una in affitto, poiché sull’isola era difficile trovare case libere. Era stata la preside, Estelle Piprelly, ansiosa si avere a disposizione la sua abilità con i computer, ad indicargli quel luogo. Il suo notevole prestigio lo aveva aiutato poi ad ottenere il contratto di locazione.
In lontananza sulla penisola s’intravedeva appena il college, una strana accozzaglia di edifici che si era sviluppata negli anni in tanti stili poco armonici. La struttura principale, con una torre, era bianca. Ma da così lontano era appena una protuberanza grigiastra attraverso il velo della pioggia, contro il cielo abbrunato da nuvoloni rigonfi.
Quando Childes era fuggito dall’Inghilterra, dalla pubblicità perniciosa, dagli sguardi curiosi, non solo di amici e colleghi, ma anche di sconosciuti che avevano visto il suo volto alla televisione o nei giornali, l’isola aveva rappresentato un rifugio sicuro. Qui vi era una comunità chiusa in se stessa, le complicazioni della madrepatria erano tenute volutamente a distanza. Eppure, per quanto raggomitolata su se stessa, quella comunità non aveva avuto difficoltà ad accoglierlo tra i poco più di cinquantamila abitanti. L’interesse morboso, le accuse — il ricordo gli fece stringere forte il bicchiere — erano alle sue spalle, e voleva che rimanesse così.
Childes vuotò il bicchiere e se ne versò un altro; come il brandy di prima anche lo scotch aiutava a far scomparire dalla bocca il sapore amaro che vi ristagnava. Tornò alla finestra ma vide riflesso solo il fantasma di se stesso. La giornata stava già scivolando nell’oscurità.
Ma si trattava della stessa cosa? Le immagini che gli erano apparse sott’acqua potevano ancora avere a che fare con quei terribili incubi e visioni che lo avevano tormentato tanto tempo prima? Non sapeva cosa pensare, l’essere quasi affogato gli aveva alterato la memoria. Eppure per un attimo, mentre giaceva ansimante sulla spiaggia aveva avuto la certezza che le visioni fossero tornate.
Fu preso dal terrore. Aveva freddo eppure il sudore gli bagnava le tempie. L’ansia gli strinse la gola, una nuova angoscia lo colpì.
Uscì nell’ingresso, alzò il telefono e compose un numero. Dopo poco rispose una voce ansimante.
«Fran?», chiese dipingendone il viso sul muro di fronte con la fantasia.
«E chi sennò? Sei tu Jon?»
Seguì una lunga pausa, poi la sua ex moglie disse: «Beh? Mi hai chiamata, avevi qualcosa da dirmi?»
«Dov’è… come sta Gabby?»
«Sta bene tutto sommato. È qui accanto da Annabel, giocando a chi fa più casino. Credo che Melanie avesse intenzione di esiliarle in giardino, ma ci si è messo il tempo, qui sta diluviando. Lì come va?»
«Lo stesso, credo che sia in arrivo un temporale.»
Ancora un silenzio.
«Senti Jonathan, ho un po’ da fare. Devo essere in città per le quattro.»
«Lavori anche di sabato adesso?»
«In un certo senso. Oggi arriva a Londra un nuovo autore. L’editore vuole che lo coccoli un po’, devo spiegargli il programma del giro che farà la prossima settimana.»
«Non poteva pensarci Ashby?»
Rispose secca. «Mandiamo avanti l’agenzia in due, io faccio la mia parte. E poi còs’altro t’aspetti da una carrierista rinata a nuova vita?»
L’accusa, appena velata, colpì nel segno, e lui si chiese se lei sarebbe mai riuscita ad accettare il fatto che lui se ne era andato. Scappato, avrebbe detto lei.
«E di Gabby chi si cura?»
«Cenerà da Melanie, poi passa Janet a prenderla.» Janet era la ragazza che Fran aveva assunto come baby-sitter quotidiana. «Rimarrà con Gabby fin quando non torno. Va bene così?»
«Senti Fran… non volevo dire…»
«Nessuno t’ha costretto, potevi fare a meno di andartene.»
«Potevi fare a meno di restare lì.» rispose quieto.
«Mi chiedevi di rinunciare a troppe cose.»
«Ma l’agenzia era solo part-time, allora.»
«Ma per me era importante. E adesso lo è ancora di più, deve esserlo. È poi c’erano altre ragioni, la nostra vita.»
«Era diventata un inferno.»
«E di chi è stata la colpa?». La voce le si ammorbidi, come se si pentisse delle proprie parole. «Va bene, lo so, le cose sfuggivano al tuo controllo: ho cercato di capire, di affrontarle. Ma sei stato tu a voler scappare.»
«C’era dell’altro, e tu lo sai.»
«Io so che alla fine tutto si sarebbe risolto!». Sapevano entrambi cosa intendeva dire.
«Non ne puoi essere certa.»
«Senti, adesso non ho tempo di discuterne, mi devo sbrigare. Darò i tuoi baci a Gabby e magari ti chiamerà domani.»
«Vorrei vederla presto.»
«Beh, non lo so. Forse a fine trimestre. Vedremo.»
«Fammi un favore Fran.»
Lei sospirò, la rabbia era svanita ormai. «Dimmi.»
«Passa da Gabby prima di andare via. Un salutino, sai! Assicurati che stia bene.»
«Ma che ti piglia, Jon? L’avrei fatto comunque, ma cosa ti viene in mente?»
«Niente, niente, sarà questa vecchia casa vuota. Uno si preoccupa, sai com’è.»
«Mi sembri strano. Sei veramente tanto giù?»
«Passerà! Scusa il disturbo.»
«Non ti preoccupare. Ti serve qualcosa, Jon, vuoi che ti mandi qualcosa?»
Gabby! Mandami mia figlia. «No, grazie, non mi serve niente. Va tutto bene. Grazie lo stesso.»
«Okay. Adesso devo proprio andare.»
«Buona fortuna col tuo autore.»
«Per come vanno gli affari prendiamo tutto quello che capita. Gli faremo una buona promozione. Ci sentiamo, ciao.»
La comunicazione si interruppe. Childes tornò in soggiorno e si accasciò sul sofà; non voleva un altro scotch. Si tolse gli occhiali, e si strofinò gli occhi con le dita irrigidite: l’immagine della figlia gli galleggiò brevemente davanti agli occhi. Gabriel aveva quattro anni quando lui se n’era andato. Sperava che un giorno avrebbe capito il perché.
Riposò a lungo, la testa contro lo schienale del sofà, le gambe stese sul tappetino che ricopriva il pavimento di legno lucido, gli occhiali nella mano tenuta sul petto; ogni tanto fissava il soffitto, o chiudeva gli occhi cercando di ricordare che cosa aveva visto.
Per qualche motivo tutto ciò che riusciva a visualizzare era il rosso. Un rosso spesso, sciropposo. Gli sembrava addirittura di sentire l’odore del sangue.
Il primo degli incubi lo sorprese quella notte stessa.
Si svegliò rigido e impaurito. Solo.
Lo strascico del sogno rimaneva ma non riusciva a metterlo a fuoco. Sentiva solamente una cosa biancastra, tremolante, un fantasma imprendibile. Svanì man mano che la luce della luna riempiva la stanza.
Childes si sedette sul letto, appoggiando la schiena contro il muro fresco. Era gelato, la paura lo sfiorava dandogli brividi di sgomento. E non sapeva perché, non ne trovava il motivo.
Fuori il silenzio immoto della notte argentata venne lacerato dal grido lugubre di un gabbiano solitario.
«No Jeanette, dovrai tornare indietro a verificare. Ricordati che il computer non ha un cervello suo, dipende completamente dal tuo. Una sola istruzione sbagliata e non è che si confonda, fa il broncio. E non ti dà quello che vuoi.»
Childes sorrise alla ragazzina, un po’ stanco dei suoi regolari errori di fondo, ma ben conscio del fatto che non tutte le menti dei giovani erano in sintonia con il rapido avanzare dell’era tecnologica, a dispetto di ciò che i giornali e i supplementi a colori della domenica andavano ripetendo. Ormai fuori dal mondo del commercio dei computer, aveva dovuto rallentare, prendere il passo dei ragazzi a cui insegnava. Alcuni avevano intuito, altri no, ed egli doveva spingerli a superare le loro frustrazioni.
«Forza, ricomincia da RETURN, ripeti ogni fase passo per passo, lentamente questa volta. Se pensi ad ogni mossa non puoi sbagliare.»
L’occhiata era molto poco convinta. Lui pure.
Lasciò Jeanette a mordicchiarsi il labbro inferiore, ogni tasto premuto con eccessiva decisione, come se vi fosse una battaglia di volontà, tra la ragazzina e la macchina.
«Ottimo Kelly, proprio bene!»
La quattordicenne lo guardò raggiante, la luce degli occhi forse troppo intensa. Egli scrutò con approvazione lo schermo.
«È proprio tuo questo grafico?» chiese lui.
Lei annuì guardando di nuovo il display visivo.
«Pare proprio che non ce la farai con le spese.»
«Sì, quando manderò a casa lo stampato, papà non potrà che arrendersi all’evidenza dei fatti.»
Childes rise. Kelly aveva fatto presto a capire il potenziale della microelettronica. C’erano sette di queste macchine poste su tavoli sparsi per la classe, che faceva parte del laboratorio di scienze. I computer erano continuamente utilizzati, anche quando lui non era disponibile alla supervisione delle attività. Era stato fortunato, quando era venuto — fuggito — sull’isola. Tutti i college, molti dei quali privati, erano pronti a dotarsi dei computer per poter rispondere alla domanda dei genitori, che pagavano, e che si aspettavano che la materia facesse parte degli studi dei figli. Fino al suo arrivo nell’isola, Jon era stato consulente di una società di servizi che assisteva le aziende fornendo sistemi di computer adatti alle loro esigenze, qualsiasi esse fossero. Consigliavano l’impianto e il software più adatto, preparavano programmi specifici, spesso installavano i macchinari e gestivano corsi d’addestramento intensivi per l’utenza. Una delle funzioni di Childes era di individuare gli intoppi del sistema, risolvere quei problemi che inevitabilmente sorgono all’inizio di ogni operazione. Aveva un intuito eccezionale, geniale, dicevano alcuni. Riusciva a dipanare l’intrico fino a scoprire qualsiasi errore. Era altamente specializzato, molto ben pagato, e stimato da tutti i suoi colleghi; la sua partenza fu comunque di sollievo a molti.
Kelly sorrideva. «Ho bisogno di un altro programma adesso», disse.
Childes controllò l’orologio. «È un po’ tardi per cominciarne uno nuovo. Te ne darò uno più difficile la prossima volta.»
«Io potrei restare.»
Un’altra delle ragazzine fece un risolino e Childes non riuscì a trattenere un leggero rossore. Ridicolo. Quattordici anni, Cristo!
«Sì, forse tu potresti, ma io no. Metti in ordine il tavolo fino a che non suona la campanella. Anzi meglio ancora, dai una mano a Jeanette, sembra che abbia qualche problema.»
Negli occhi una fiammella di disappunto, ma il sorriso rimase. «Sissignore» fece, un po’ asciutta.
Scivolò verso il monitor di Jeanette e lui criticò mentalmente il suo modo di fare, i movimenti del corpo troppo sapienti per la sua età. I capelli chiari cortissimi e il nasino dispettoso accompagnati dal seno che già sbocciava contrastavano con l’immagine infantile rappresentata dall’uniforme della scuola: gonna blu, camicia bianca e cravatta a righe. In confronto Jeanette era proprio una scolaretta, la donna in lei non si vedeva affatto. Evidentemente le differenze non riguardavano solo i computer.
Passò tra i tavoli, chinandosi di tanto in tanto per dare istruzioni, suggerire procedure corrette; alcune delle ragazze si dividevano una macchina e si comunicavano l’un l’altra il loro entusiasmo. La campanella lo sorprese anche se sapeva che mancava poco.
Si drizzò e vide che Kelly e Jeanette non sembravano andare molto d’accordo. «Spegnete le vostre macchine», disse. «Vediamo, quand’è che ci rivediamo?»
«Giovedì!», risposero in coro.
«Bene, allora vedremo di ripassare tutti i vari tipi di computer, poi parleremo degli sviluppi futuri. Spero che avrete delle domande interessanti da farmi.»
Qualcuna brontolò. «Problemi?»
«Quand’è che passeremo alla grafica?» chiese una ragazza. Il viso tondo, da cherubino, pieno di disappunto.
«Tra poco, Isabel. Quando sarete pronte. Adesso andate e non dimenticatevi nulla, chiudo a chiave quando vado via.»
La corsa alla porta non fu proprio quello che la preside del college La Roche avrebbe apprezzato, ma Childes non si sentiva né insegnante né educatore, ma solo un consulente di computer di questa e di altre due scuole dell’isola. Finché i ragazzi rimanevano sotto controllo e sembravano assorbire buona parte di ciò che lui spiegava, gli piaceva mantenere una atmosfera rilassata in classe; non voleva che le macchine li mettessero in soggezione, e l’atteggiamento informale era d’aiuto. Di fatto trovava gli alunni di tutt’e tre i college estremamente ben educati, persino quelli del college maschile.
Aveva gli occhi irritati dalle lenti a contatto morbide. Pensò di rimettersi gli occhiali che teneva sempre nella ventiquattrore, a portata di mano per i casi di emergenza. Troppa fatica, decise di no. L’irritazione sarebbe passata.
«Toc, toc.»
Si voltò e vide Amy sull’uscio spalancato.
«Il signore viene fuori a giocare?» scherzò.
«E una proposta?»
«Perché no!». Amy entrò nella stanza; i capelli li teneva in una crocchia, un tentativo di sembrare professorale. Per Childes era un tocco di sensualità in più, così come lo era il vestito verde chiaro, tutto abbottonato, poiché sapeva cosa c’era sotto. «Hai gli occhi stanchi» disse, guardandosi alle spalle verso la porta aperta, poi lo baciò brevemente sulla guancia.
Egli si trattenne dall’impulso di stringerla a sé. «Com’è andata la giornata?»
«Lasciamo perdere. Ho fatto recitazione.» Ebbe un fremito. «Sai cosa vogliono rappresentare a fine trimestre?»
Lui lasciò cadere dalle carte nella valigetta e la richiuse di scatto.
«Dimmelo!»
«Dracula! Te la immagini la faccia di Miss Piprelly quando glielo dirò? Mi terrorizza solo l’idea!»
Lui sogghignò. «Mi sembra ottimo! Sempre meglio di quel Nicholas Nickleby, per l’ennesima volta.»
«Bene! Le dirò che Dracula ha la tua approvazione.»
«Ma io sono solo un esterno. Non faccio parte del corpo insegnanti, la mia opinione non conta.»
«Perché, la mia sì? La preside non sarà proprio un ayatollah, ma qualche parentela c’è di sicuro.»
Lui scosse la testa sorridendo. «Non è poi tanto male. Un pò ansiosa forse. Tiene troppo all’immagine della scuola, ma la posso capire, ci andate giù duro con le scuole private in quest’isoletta.»
«Questo succede quando si è un paradiso fiscale. Comunque hai ragione, la concorrenza è spietata, e il consiglio d’amministrazione non perde occasione per ricordarcelo. Un po’ di solidarietà gliela do, ma…»
Si accorsero di una figura sull’uscio.
«Ti sei dimenticata qualcosa Jeanette?» chiese Jon, chiedendosi da quanto era lì.
La ragazzina lo guardò con timidezza. «Mi scusi, prof, credo di essermi dimenticata la stilo sul tavolo.»
«Okay, cercala pure.»
A testa china, Jeanette entrò nella stanza, a piccoli passi frettolosi. Era una fanciulla dall’incarnato olivastro, gli occhi scuri, un giorno forse sarebbe stata carina. Piccola per l’età che aveva, i capelli informi, senza traccia di uno stile. La giacca blu, troppo grande, la rimpiccioliva ancora di più. Aveva poi una timidezza tenerissima che Childes, qualche volta, trovava un tantino esasperante.
Si mise a cercare attorno al computer che aveva adoperato. Amy la guardava con un leggero sorriso mentre Childes si apprestò a staccare le prese dei macchinari. Jeanette sembrò non avere fortuna e finì per fissare avvilita il computer quasi che questi avesse misteriosamente ingoiato l’oggetto mancante.
«Niente?» chiese Childes avvicinandosi e chinandosi a sfilare la spina.
«Nossignore!»
«Certo che no. Eccola qui per terra.» Inginocchiandosi le porse la penna che aveva perduto.
Con un che di solenne, gli occhi bassi, Jeanette la prese. «Grazie» disse, e Childes fu sorpreso di vederla arrossire e fuggire dalla stanza.
Staccò la spina e si drizzò. «Cos’hai da sorridere?», chiese a Amy.
«Quella povera piccola ha una cotta per te.»
«Jeanette? Ma se è una bambina!»
«In una scuola per sole femmine, un maschio appena appena decente attira per forza l’attenzione, non te ne sei accorto?»
Alzò le spalle. «Un paio di loro mi avranno anche guardato strano, ma… e poi come sarebbe a dire appena decente?»
Con un sorriso Amy gli prese il braccio e lo condusse verso la porta. «Dai. La scuola è finita e io ho proprio bisogno di un po’ di pace. Una corsetta in auto e poi un gin and tonic con tanto ghiaccio prima di andare a casa per la cena.»
«Ancora ospiti?»
«No, no. Solo la famiglia stavolta. A proposito, sei stato invitato a cena questo fine settimana.»
Aggrottò la fronte. «Tuo padre ha cambiato idea?»
«Bah, non direi, gli sei comunque antipatico. Diciamo che c’è lo zampino della mamma.»
«Ah! Bene. Sono proprio contento!»
Lei lo guardò e gli fece una smorfia, stringendogli il braccio prima di affrontare il corridoio. Lungo le scale sentiva la scia di commenti sussurrati da numerose allieve, vide qualche gomitata. Lei e Jon si comportavano in modo molto formale quando erano in pubblico a scuola, ma bastava un passaggio in macchina a far correre le parole.
Raggiunsero le grandi porte a vetri dell’edificio, una struttura relativamente nuova che ospitava i laboratori di scienze, le aule di musica e di lingue. Era separata dall’edificio principale da un vialetto circolare con in mezzo un’aiuola. Al centro di quest’ultima una statua del fondatore del La Roche fissava stoico l’edificio primario come se dovesse tenere il conto di quanti passavano per il portone. Le ragazze si affrettavano attraverso il cortile, chi verso il parcheggio alle spalle del palazzo, chi verso i dormitori e le sale comuni nell’ala meridionale, un chiacchiericcio sfrenato dopo la lunga giornata di disciplina. L’aroma salmastro della brezza che saliva dalle scogliere era un piacere dopo il chiuso delle aule. Childes aspirò profondamente scendendo con Amy le scale di calcestruzzo della costruzione.
«Signor Childes, permette un attimo?»
Entrambi mugugnarono piano, la preside faceva cenno dall’altro lato del viale.
«Ti raggiungo» mormorò, accennando con la mano alla preside.
«T’aspetto vicino ai campi da tennis. Ricordati che sei più grosso di lei.»
«Ah sì? E chi lo dice?»
Si separarono. Childes seguì un percorso diritto, attraversò l’aiuola dirigendosi verso la preside che attendeva. La sua smorfia gli suggerì che avrebbe dovuto aggirarla. L’unica parola che ben si adattava alla signorina Piprelly era «diritta»: stava sempre eretta, si rilassava di rado, e aveva il volto particolarmente angoloso, quasi senza una curva, una morbidezza. Persino i corti capelli, tendenti ormai al grigio, erano pettinati in un’unica piega perfettamente parallela al terreno; le labbra sottili, pur senza essere cattive, non rivelavano tracce di umorismo alcuno. La montatura quadrata degli occhiali si sposava coerentemente alla generale linearità della donna. Persino i seni si rifiutavano di cambiare l’aspetto complessivo e Childes si era chiesto spesso se non fossero trattenuti mediante un artifizio. Quando era in vena di cattiverie aveva anche pensato che non li avesse affatto.
Aveva ben presto scoperto che la professoressa Estelle Piprelly, plurilaureata, sempre con lode, era meno severa di quanto sembrasse, anche se ogni tanto si lasciava andare.
«Mi dica signorina Piprelly» fece lui, fermandosi sullo scalino all’ingresso.
«Potrà sembrarle prematuro, ma sto preparando il corso di studi per l’anno prossimo, Childes, ed è necessario poter offrire tali informazioni ai genitori delle ragazze; inoltre il consiglio di amministrazione preme perché sia prima delle vacanze estive. Allora, stavo pensando che lei potrebbe dedicarci un po’ più del suo tempo dall’autunno prossimo. Pare proprio che i computer siano in auge, nonostante io non ne veda il motivo.»
«Beh, non so, lei sa che ho anche i corsi al Kingsley e al de Montfort.»
«Sì, ma so anche che le rimangono comunque parecchie ore libere. Sono sicura che potrebbe farci scappare qualche ora in più per la nostra scuola.»
Come si faceva a spiegare a una persona come lei che viveva solo del e per il proprio lavoro, che per lui non era affatto prioritario. Non più. Era cambiato, dentro, era cambiata la sua vita.
«Un pomeriggio in più, Childes, il martedi magari?». Lo sguardo teso non ammetteva rifiuti.
«Mi ci faccia pensare un poco», rispose lui guardandola irrigidirsi, infastidita.
«Bene, ma devo approntare la bozza del piano entro il fine settimana…»
«Glielo faccio sapere entro giovedì.» Sorrise, ma era seccato della nota di scuse nella propria voce.
«A giovedì allora.» Il sospiro sembrò un lamento esasperato.
Il colloquio era già finito, niente buongiorno, niente, come se lui non ci fosse più. La Piprelly stava richiamando un gruppetto di ragazze che come lui avevano attraversato il prato. Egli sgusciò via quasi di nascosto, ma poi allungò il passo cercando di apparire naturale.
Dopo aver sgridato il gruppo di ragazze (cosa che fece con poche secche parole e senza alzare la voce), Estelle Piprelly posò nuovamente lo sguardo sull’insegnante che si stava allontanando. Camminava con le spalle leggermente curve, studiando il terreno davanti a lui come se pianificasse ogni appoggio del piede, un uomo abbastanza giovane che a volte sembrava particolarmente logorato. No, forse logorato non era il termine giusto. C’era qualche volta un’ombra in quegli occhi, un’angoscia latente che balenava.
Aggrottò la fronte che si riempì di rughe, e con le dita stuzzicò sovrapensiero un filo che le pendeva dalla manica.
Childes la turbava, e lei non poteva spiegarsene la ragione. Era un ottimo professionista, meticoloso e benvoluto dagli allievi, qualche volta un po’ troppo benvoluto. La sua specializzazione era ai certo un’utile aggiunta ai corsi offerti dalla scuola; inoltre alleggeriva sicuramente il carico di lavoro degli altri insegnanti di scienze. Eppure, nonostante la richiesta di altre ore fattale dal consiglio, qualcosa nella sua presenza la rendeva irrequieta.
Tanto, tanto tempo fa, quando era una ragazzina lei stessa e l’isola era stata invasa dai tedeschi che intendevano adoperarla come rampa di lancio per l’attacco finale contro il territorio inglese, lei aveva sentito intorno a sé la distruzione imminente. Non che la cosa fosse imprevedibile con i tempi che correvano, ma alcuni anni dopo si rese conto di possedere un livello di sensibilità più elevato degli altri. Niente di eccezionale, non a livello di medium o di preveggente, semplicemente una sensibilità più percettiva. Si era poi attenuata, ma non era del tutto scomparsa col passare degli anni. Il pragmatismo della professione scelta contribuiva a reprimerla. Ma in quei giorni lontani aveva visto la morte nei visi di quei soldati tedeschi, una naturale premonizione nei loro passi, nei loro sguardi.
In modo diverso e confuso sentiva lo stesso anche in Childes. Benché fosse ormai scomparso alla vista, la signorina Piprelly rabbrividì.
Mentre tornava dal bar con i drink, aggirando tavoli e sedie da giardino, Amy si sciolse i capelli che le caddero sulle spalle in una lunga coda, trasformando una vecchia foggia in qualcosa di chic. C’era una sottile eleganza in Amy, innata, non ricercata, e Childes si trovò di nuovo a pensare che tutto sembrava meno che una insegnante, non di quelle che aveva conosciuto lui per lo meno. La sua pelle appariva dorata sotto l’ombrellone, gli occhi verdi e chiari e qualche ciocca chiara che le incorniciava il volto aumentavano l’effetto. Come sempre era poco truccata; questo vezzo la rendeva simile a qualcuna delle ragazze sue allieve, l’illusione confermata dai piccoli seni, appena un tenero gonfiore. Eppure a ventitré anni, undici meno di lui, aveva una maturità serena, di cui lui spesso si meravigliava; non sempre questa era messa in evidenza, poiché ella possedeva anche una innocenza maliziosa che esaltava ancora di più l’impressione adolescenziale. Ignara delle proprie doti, cambiava facilmente d’umore, lasciandolo sconcertato.
Le dita sottili e scherzosamente febbrili ghermirono il bicchiere che lui porgeva, il sole radente del tardo pomeriggio le colpì la mano bagnandola d’un oro più rosso.
«Però! Se la Piprelly sapesse d’avere un’ubriacona a scuola…» commentò lui allungandole il gin and tonic.
Lei fece tremare la mano tenendo il bicchiere mentre se lo portava alle labbra. «La Pip dovrebbe sapere che la metà dei docenti è alcolizzata, e la colpa è sua!»
Childes si mise dall’altro lato del tavolo per poter meglio godere della sua vista. «La nostra direttrice vuole che io faccia più ore a scuola.» L’improvviso sorriso di Amy lo allietò.
«Sarebbe meraviglioso Jon!»
«Mah. Non lo so. Cioè, sarebbe bello vedere te di più, ma quando sono venuto qui avevo deciso di uscire dal solito tran tran, te lo ricordi no?»
«Ma è diverso, questo è un ambiente diverso da quello da cui provenivi.»
«È vero, un altro pianeta addirittura. Io però mi sono abituato al ritmo che ho preso, passeggiate nel pomeriggio, nuotate, pisolini in riva al mare. Finalmente ho tempo per pensare.»
«Qualche volta pensi troppo, secondo me.» Il tono era diverso ora. Lui allontanò lo sguardo. «Le ho detto che ci avrei pensato.»
«Vigliacco!» rispose Amy, la voce nuovamente allegra.
«Mi fa sentire come se avessi dieci anni!» disse, scuotendo la testa.
«Can che abbaia non morde. Però se fossi in te obbedirei.»
«Bell’aiuto mi dai.»
Lei posò il bicchiere. «Vorrei dartelo, tu passi troppo tempo da solo, un impegno maggiore con il college potrebbe essere un bene per te.»
«Lo sai cosa penso degli impegni.»
Lo guardò negli occhi. «Ne hai uno nei confronti di tua figlia.»
Lui sorseggiò la birra. «Senti, cambiamo discorso, è stata una lunga giornata.»
Amy sorrise, ma gli occhi erano percorsi ancora da una sottile preoccupazione. Gli toccò la mano, carezzandogli le dita, mascherò i pensieri dietro una battuta: «La Pip perderebbe la testa se potesse averti a tempo pieno.»
«Mi vuole solo per un altro pomeriggio!»
«Oggi, due giorni e mezzo; domani, l’anima.»
«Ma tu non dovevi farmi coraggio?»
Lei lo guardò maliziosa. «Ti dicevo solo di arrenderti, altri hanno tentato di resistere.» La voce le si incupì minacciosa, lui storse la bocca.
«Curioso, è vero che mi guarda in modo strano da un po’ di tempo.»
«Fa parte del suo voodoo.»
Lui si lasciò andare contro lo schienale. C’era altra gente nel giardino del bar dell’albergo. Tutti approfittavano della bella serata dopo le settimane di pioggerella gelida. Una grossa ape pelosa ondeggiava sopra le azalee vicine, il suo ronzio annunciava i mesi più caldi a venire. Fino a poco tempo prima aveva pensato di aver trovato la pace su quell’isola. Un modo di vita tranquillo, una natura piacevolissima, Amy, la meravigliosa Amy, le sue temporanee solitudini, avevano portato alla sua vita un equilibrio, una sicurezza lontana dal ritmo frenetico e in continua evoluzione dei microchip, dalla carriera in una città folle, da una moglie che una volta aveva amato, ma poi aveva avuto terrore di… ma di cosa? Qualcosa che nessuno dei due aveva compreso.
Poteri psichici! Una maledizione intangibile, incontrollabile.
«Chi è che fa il serio adesso?»
La domanda interruppe i suoi pensieri, e lui la guardò con uno sguardo vuoto.
«Avevi quello sguardo perso che dovrei conoscere bene ormai, non stavi solo sognando ad occhi aperti.»
«Ricordavo…»
«Il passato è passato, meglio lasciarlo perdere, Jon.»
Egli annuì. Non aveva risposte da darsi. E c’era quella sensazione di irrequietezza che lo agitava da quando aveva avuto l’incubo due settimane prima.
Lei posò le braccia sul tavolino. «Ehi, non mi hai ancora dato una risposta.» Sbuffò per l’espressione di sorpresa che vide sul viso di lui. «L’invito a cena, non hai ancora detto se vieni o no.»
«Ho scelta forse?» I cattivi pensieri fugati dal sorriso innocente e malizioso di Amy.
«Certo! Puoi accettare oppure essere deportato. Papà non sopporta le cattive maniere.»
«E conosciamo bene il suo potere sugli affari di stato.»
«Esattamente!»
«Allora verrò.»
«Ma come sei ragionevole!»
«Quanto ha dovuto brigare tua madre?»
«Non molto, lo ha ricattato.»
«È difficile immaginare tuo padre cedere a qualcuno.»
«Non conosci la mamma. All’apparenza può sembrare tutta dolcezza e soavità, ma sotto sotto c’è una vena d’acciaio che qualche volta intimorisce anche me.»
«Per lo meno fa piacere sapere che a lei piaccio.»
«Non direi proprio così, diciamo che non ti è del tutto contraria.»
Lui rise sottovoce. «Mi divertirò da matti a questa cena.»
«Sai, credo che ti trovi misterioso. Uomo cupo ma attraente con un passato oscuro, e così via.»
Childes abbassò lo sguardo sul bicchiere di birra. «È così che lo vede il mio passato?» chiese.
«La incuriosisce e questo la diverte.»
«E il caro paparino?»
«Non vali sua figlia, tutto lì.»
«Ne sei sicura?»
«No, ma non è molto importante. Lui rispetta i miei sentimenti, e io gliel’ho fatto capire quello che sento per te. Nonostante la testardaggine non mi farebbe mai il torto di darti addosso.»
Childes avrebbe voluto esserne certo. Nelle poche occasioni in cui si erano incontrati l’ostilità del finanziere era stata celata a malapena. Forse non gli piacevano i divorziati, o forse non si fidava di nessuno che non fosse conforme ai suoi standard, al suo concetto di normalità.
Per evitare di diventare nuovamente cupo Childes fece una smorfia e chiese: «Mi serve l’abito da sera?»
«Beh, sono stati invitati anche un paio di soci in affari, compreso un consigliere d’amministrazione del La Roche con la moglie, quindi non sarà proprio informale la cosa. La cravatta è d’obbligo.»
«E io che pensavo che la serata fosse in mio onore!»
«La tua presenza sarà in mio onore» rispose guardandolo intensamente. «A te potrà sembrare strano, ma per me è molto importante averti vicino. Io non so perché c’è questo antagonismo tra te e mio padre, Jon, ma è comunque sciocco e dannoso.»
«Da parte mia non c’è animosità.»
«Lo so. E non ti chiedo di cedergli. Voglio solo che ci veda insieme in una situazione mondana, dimostrargli come stiamo bene insieme.»
Lui fece un sogghigno e lei lo rimproverò con gli occhi. «Lo so a cosa stai pensando tu, ma non intendevo quello, sono sempre la sua bambina, non te lo scordare.»
«Non immagina nemmeno quanto sei donna.»
«Non c’è n’è bisogno, sono sicura che non mi crede ancora candida come neve, comunque.»
«Chissà? Non è facile per un padre così premuroso accettare certe cose.» L’intimità dell’argomento gli aveva trasmesso un gradevole calore, la vicinanza di lei lo emozionava piacevolmente. Anche Amy sorrideva diversamente, non ammiccante ma partecipativa, gli occhi verdi pieni di un luminoso languore. Distolse gli occhi agitando i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, guardandoli attentamente come se nelle tonde palline fosse nascosto chissà quale messaggio. Dagli altri tavolini arrivavano brandelli di conversazione punteggiati da risate, un aereo virava attorno alla punta occidentale dell’isola, già volando sul mare appena pochi secondi dopo il decollo dal minuscolo aereoporto dell’isola, con le ali che riverberavano il rosso del sole. Una leggera brezza mosse una ciocca sul viso di Amy.
«Io dovrei andare» disse dopo una pausa.
Sapevano ambedue cosa volevano veramente. Childes disse: «Ti riporto al La Roche così prendi la macchina.»
Finirono le bevande e si alzarono all’unisono, attraversando il giardino verso il cancello bianco del parcheggio. Lei gli prese la mano, stringendogli le dita in risposta alla stretta di lui.
Montati in macchina si protese e lo baciò sulle labbra, la passione di lui acuita e addolcita al tempo stesso dalla dolcezza di lei. Questa sensazione contraddittoria era come il bacio stesso, leggero e profondo. Quando si separarono, ansimanti, infiammati, lui lasciò scivolare le dita sulla sua guancia sfiorandole le labbra umide. Si rese conto che il loro rapporto aveva raggiunto inaspettatamente e sorprendentemente una nuova vetta. Si era sviluppato lentamente dapprima, ed era emerso con una gradualità attenta, lui timoroso di dare troppo di sé, lei guardinga nei confronti dello straniero, diverso dagli uomini che aveva conosciuto. Ora pareva che avessero superato quel limite oltre il quale un eventuale ritorno non può che essere un cammino lungo e doloroso. Conoscevano tutt’e due questa verità inesorabile, ma erano incapaci di sfuggire agli eventi.
Lui guardò fuori, sconvolto da questa ondata di emozioni, incapace di capire come avessero preso il sopravvento così rapidamente. Mise in moto, ingranò la marcia e infilò fa viuzza dell’albergo.
Childes aprì l’uscio e sostò un attimo nel piccolo atrio, per schiarirsi le idee, riprendere fiato. Chiuse la porta.
La presenza di Amy gli era rimasta addosso, galleggiava impalpabile nell’aria, e di nuovo egli si meravigliò dello stupefacente evolversi dei loro sentimenti. Aveva tenuto a freno le emozioni così a lungo, godendo della sua compagnia, di tutti i suoi pregi, la maturità, l’innocenza, e ceno la sua bellezza fisica, conscio che il loro rapporto era più di un’amicizia, ma sempre controllato, non voleva lasciarsi andare, soccombere, a qualcosa di più profondo. Le ferite del matrimonio distrutto non erano ancora cicatrizzate, c’era ancora un fondo d’amaro in quel ricordo.
Non poté reprimere un sorriso infelice, quasi fosse stato preso dal rimpianto.
Il telefono lo fece sussultare. Si allontanò dalla porta e sollevò la cornetta.
«Jon?». Aveva come il fiato corto.
«Sì, Amy?»
«Cosa ci è accaduto?»
«Anche tu, allora?» rispose lui dopo un attimo.
«E meraviglioso e terribile al tempo stesso. È come una malattia eccitante.»
Lui rise al paragone, rendendosi conto di quanto fosse corretto. «Dovrei dirti che passerà ma non voglio.»
«Mi fa paura ma sto tanto bene.»
Lui capì l’incertezza di lei, che aggiunse poi a mezza voce: «Non voglio soffrirne.»
Chiuse gli occhi e si lasciò andare contro il muro. Lottava con le proprie emozioni. «Diamoci un po’ di tempo per pensarci su!»
«Ma non voglio.»
«Forse sarebbe meglio per tutt’e due.»
«Perché? Cosa abbiamo ancora da sapere l’uno dell’altro? Voglio dire, niente d’importante, no? Abbiamo parlato, m’hai detto di te, del tuo passato, di cosa provi. C’è altro che devo sapere?»
«No, Amy, niente più segreti. Sai tutto di me, molto più di chiunque altro.»
«Allora perché? Hai paura di quello che sentiamo?»
«Pensavo che l’avessi anche tu.»
«Non così, io ho solo paura della mia vulnerabilità.»
«Eccola la risposta, vedi!»
«Pensi che potrei mai fare qualcosa che ti farebbe del male?»
«Possono accadere delle cose su cui non abbiamo potere.»
«Pensavo che fossero già accadute.»
«Non parlavo di quelle. Gli avvenimenti possono interferire con ciò che sentiamo, cambiare i sentimenti, mi è già successo altre volte.»
«Mi avevi detto che il tuo matrimonio traballava prima ancora che ti accadessero quelle terribili cose, che hanno solo allargato la frattura tra te e Fran. Non scappare Jon, non…»
S’interruppe e Childes finì la frase per lei. «Non come l’altra volta.»
«Scusa. Non volevo essere cattiva. Lo so che le circostanze erano insopportabili.» Amy sospirò delusa. «Jon, ma perché questa telefonata si è così trasformata, ero così felice, volevo parlarti, mi mancavi.»
La sua tensione si allentò, ma rimaneva una traccia di disagio, una vena di irrequietezza impalpabile che egli non sapeva dominare. «Spiace anche a me Amy, come un cretino sono ancora qui, a leccarmi delle vecchie ferite.»
«Le esperienze negative passate possono talvolta rovinare quelle nuove.»
«Molto saggio, sì!»
Lei si allietò nel sentire che nella sua voce era tornata una nota serena, eppure si sentiva un pochino meno entusiasta di prima e disse: «Cercherò di tenere a freno le emozioni.»
«Ehi, dai, non dar retta alle lamentele di un vecchio. E così ti mancavo, ma se ci siamo lasciati dieci minuti fa.»
«Quando sono arrivata a casa mi sono sentita così… così… non lo so, eccitata, felice, sottosopra, male. Ti volevo insomma!»
«Brutti sintomi, dev’essere grave.»
«Lo è, Dio m’aiuti, lo è.»
«Ce l’ho anch’io!»
«Ma se…»
«Te l’ho detto, non badarci. Ogni tanto mi prendono le lune, sai.»
«Lo so. Posso invitarti a pranzo domani?»
«Scema!»
«Sì, sì!» La complice affettuosità era tornata.
«Sai che ti dico, perché non mangiamo qui, sempre che tu sopporti la mia cucina?»
«Ma abbiamo solo un’ora.»
«Bene, preparo stasera. Niente di speciale, solo surgelati.»
«Adoro i surgelati.»
«Io adoro te.»
«Jon…»
«Ci vediamo domani a scuola Amy.»
«Sì» rispose lei in un sospiro.
La salutò senza quasi udirne la risposta, si sentì il clic di fine comunicazione ma Childes rimase con la cornetta di plastica levigata tra le dita, lo sguardo fisso sul muro. Non aveva inteso lasciarsi sfuggire quelle ultime parole, non avrebbe voluto infrangere quell’ultima membrana con una ammissione che ambedue conoscevano ormai. Ma che importanza poteva avere? Di cosa aveva ancora paura? Non era poi tanto difficile da capire.
Quella bizzarra visione di due settimane prima, seguita dall’incubo, lo aveva lasciato con quella familiare e deprimente apprensione, un riattizzarsi dell’angoscia che lo aveva quasi distrutto già una volta. Aveva sconvolto la sua vita con Fran e Gabby, non voleva fare del male a Amy. Pregò di essersi sbagliato, che non stava accadendo tutto di nuovo, che era solamente un parto della sua fantasia.
Childes si strofinò gli occhi accorgendosi di quanto fossero indolenziti. Tirò un respiro profondo poi espulse l’aria con forza come se si liberasse dei cattivi pensieri; entrò nel piccolo bagno al pianoterra e aprì l’armadietto. Tirò fuori una bottiglietta di plastica e la custodia delle lenti, richiuse l’armadietto e scrutò la propria immagine riflessa nello specchio. Aveva gli occhi venati di rosso e si accorse di uno strano pallore del volto. Ancora la fantasia, si disse, si stava stupidamente lasciando andare a una morbosa introspezione che poi cresceva e mutava. Diventava un balzo all’indietro, lo scoppio ritardato di un avvenimento vecchio, e basta. Quando era quasi affogato probabilmente era stato troppo a lungo sottacqua, senza accorgersi che i suoi polmoni erano allo stremo. La mancanza di ossigeno aveva provocato le immagini confuse. Poi l’incubo… era solo un incubo, senza significati particolari. Stava dando troppo peso ad una esperienza spiacevole ma senza importanza, forse si poteva giustificare, con quello che era accaduto a pungolare i ricordi. Dimenticare! Le cose erano cambiate. La sua vita era diversa ora.
Sbirciando lo specchio da vicino Childes si spremette delicatamente la lente morbida dall’occhio destro, la lavò nel palmo della mano con il liquido e la infilò nel contenitore pieno di fluido. Ripeté l’operazione con la lente sinistra.
Uscito nell’ingresso infilò la mano nella valigetta e ne estrasse gli occhiali, gli occhi già meno irritati di prima. Stava per entrare in cucina per vedere cosa riusciva a mettere insieme per il pranzo del giorno dopo quando udì un leggero tonfo al piano di sopra. Trattenne il respiro e volse lo sguardo fino all’angolo della stretta scalinata. Attese, con quel miscuglio di sensazioni che si avvertono in piena notte, quando non si vuole sentire più quel rumore sospetto e misterioso, ma di cui, al tempo stesso, si vuole una conferma. Iniziò a salire le cigolanti scale di legno con addosso un irragionevole nervosismo. Girò l’angolo e vide che la stanza da letto era aperta. Niente di strano, l’aveva lasciata aperta quella mattina, lo faceva sempre. Salì gli ultimi gradini e fece i pochi metri del corridoio spalancando la porta della stanza da letto. La stanza era vuota e lui si rimproverò d’essersi comportato come una zitella paurosa. Vi erano due finestre, una di fronte all’altra nella stanza: ad una di queste si vedeva tremolare qualcosa di piccolo e delicato. Egli si avvicinò sentendo vibrare sotto il suo peso le vecchie assi del pavimento. Fece schioccare la lingua quando riconobbe l’oggetto tremolante: era una piuma, di gabbiano o di piccione, non ne era sicuro. Era già accaduto; gli uccelli vedevano oltre le due finestre il cielo e tentavano di volare attraverso la stanza, colpivano il vetro da quel lato ma si procuravano appena un attimo di stordimento e un po’ di mal di testa, lasciando sul vetro qualche piuma attaccata. Mentre guardava un alito di vento mosse la piuma e la fece volteggiare via.
Childes stava per voltarsi quando vide in lontananza la scuola. Il cuore sembrò arrestarsi e le mani abbrancarono il davanzale quando vide il rogo. Ma tirò subito un sospiro di sollievo quando s’accorse che l’edificio bianco rifletteva soltanto il fiammeggiare del sole al tramonto.
Ma l’immagine gli si impresse nella mente e gli tremavano le mani mentre si sedeva sul letto.
Guardava da sotto un albero. L’allegra giornata solatia strideva contro la mestizia del cimitero.
I parenti erano raccolti attorno alla fossa aperta, i vestiti scurì inondati di sole. Le croci bianche macchiate, le lapidi, angioletti sorridenti e crepati, attorniavano apatici il campo pieno di ossa sepolte. Il lento scorrere del traffico si sentiva di lontano; da qualche parte una radiolina venne spenta, un becchino si era accorto della cerimonia in corso. La voce del prete arrivava come una cantilena soffocata nel fossato all’ombra del tasso dove la figura attendeva.
Quando la piccola cassa fu calata nella fossa una donna barcollò in avanti come per fermare quell’ultima violazione del figlio morto. Un uomo al suo fianco la sorresse trattenendola mentre la donna si accasciava. Altri ancora chinarono la testa o allontanarono lo sguardo, il dolore della madre straziante quanto la prematura morte. Le mani salivano ai volti con fazzolettini umidi stretti in pugno. Le facce degli uomini erano come congelate, come stampate in una plastica rigida.
Osservava la scena dal suo nascondiglio, sorridendo segretamente.
La minuscola bara sparì dalla vista, ingoiata dalla terra umida, l’apertura bordata di verde come fauci. Il padre gettò qualcosa dietro alla bara, un oggetto a colori vivaci, un giocattolo, un pupazzo, qualcosa che il bimbo aveva amato, poi la terra ricoprì la tomba. Il gruppo di persone a lutto iniziò ad allontanarsi con apparente riluttanza, ma con intimo sollievo. La madre dovette essere sostenuta da altre due donne, trascinata via, la testa continuamente voltata come se il piccolo la richiamasse, la pregasse di non lasciarlo lì, solo, al freddo, alla putrefazione. Lo strazio ebbe il sopravvento e la donna fu quasi portata di peso alle macchine nere in attesa.
Sotto l’albero la figura attese che la tomba fosse riempita. Per ritornare a notte fonda.
«Grazie Helen. Sparecchia pure ora.» Vivienne Sebire notò con soddisfazione che la cena tanto amorevolmente preparata — mousse di salmone, anatra alle mele e visciole accompagnata da zucchine e broccoli — era stata divorata con gusto e appetito. Notò anche che Jonathan Childes non aveva mostrato altrettanta golosità.
Grace Duxbury, seduta accanto al padrone di casa, Paul Sebire, che era a capotavola, disse con la sua voce squillante: «Meravigliosa Vivienne. Non me ne andrò di qui finché non mi avrai svelato il segreto di quella mousse.»
«Sì!» assentì il marito, «un antipasto veramente eccellente. Com’è Grace, che a te riesce raramente l’avocado con i gamberi se non chiamiamo un cuoco?»
L’avrebbe pagato caro quel commento, pensò Vivienne, se poco poco conosceva Grace. «Il segreto è semplicemente nella quantità di pasta d’acciughe che ci metti, un pochino più di quel che dice la ricetta, ma non troppo.»
«Deliziosa!», commentò nuovamente George Duxbury.
Helen era una donna tarchiata con un viso allegro e le sopracciglia che si univano a punta sul naso; era la governante-cameriera dei Sebire. Iniziò a ritirare i piatti mentre la padrona di casa si beava delle lodi ricevute. Amy, che era seduta di fronte a Childes si alzò dalla sedia. «Ti do una mano» disse a Helen, cercando con lo sguardo Childes con cui scambiò un sorriso complice.
«Ciò che vorrei sapere è come ha fatto un vecchio reprobo come te a sposare una cuoca meravigliosa come Vivienne e a ritrovarsi una figlia affascinante così.». Fu Victor Platnauer a fare la battuta, uno dei consiglieri dell’isola nonché membro del consiglio d’amministrazione del college La Roche. La moglie Tilly, seduta accanto a Childes, lo sgridò scherzosamente ridacchiando come gli altri ospiti.
«Semplicissimo, caro Victor,» rispose Sebire asciutto come sempre, «furono proprio le doti culinarie della mia dolce moglie a farmela sposare, e i miei geni hanno prodotto la nostra bella Aimée». Aveva sempre insistito nel chiamare la figlia con il nome vero.
«No, no! Amy ha preso la bellezza dalla madre non dal padre. Non è vero, Childes, eh, Jonathan?»
«Ha le migliori qualità di entrambi i genitori» disse Childes diplomaticamente, asciugandosi le labbra con un tovagliolo.
Uno a zero, pensò Amy mentre sostava sull’uscio della cucina; qualcuno applaudì e gridò: «Bravo!». Fin qui tutto bene. Aveva osservato attentamente il padre tutta la serata mentre studiava Jon con quello sguardo calcolatore e critico che riservava sempre ai clienti potenziali, ai colleghi o ai rivali. Ciò nonostante era stato un ospite perfetto, cortese e attento, dando a Jon tanto spazio quanto agli altri ospiti, compreso un socio in affari di Marsiglia. Amy aveva il sospetto che Edouard Vigiers non fosse stato invitato solamente perché si trovava sull’isola per discutere certi accordi finanziari, ma anche perché era giovane, brillante, di successo, sicuramente un buon partito. Un genero ideale agli occhi di Paul Sebire. Amy incominciava a pensare che l’unico motivo che il padre aveva di invitare Jon era che così lei, Amy, avrebbe potuto mettere a confronto i due. Le differenze balzavano agli occhi.
Dovette ammettere che il francese era attraente oltre che vivace e simpatico, ma il padre sbagliava ad usare un metro tanto ovvio e superficiale. Sapeva che Paul Sebire era un uomo generoso e giusto nonostante l’astuzia brutale che adoperava negli affari e una certa ostinazione. Lei lo amava, quanto può una figlia. Sfortunatamente la possessività che egli non voleva ammettere lo portava ad imporre l’immagine dell’uomo da destinare a sua figlia: uno della sua razza, se non addirittura una copia più giovane di se stesso. Un tentativo goffo, anche se lui credeva di essere astuto; come sempre sottovalutava gli altri, soprattutto la sua unica figlia.
Amy ripensò sognante al pranzo con Jon quella settimana, il loro primo incontro da soli, nel suo cottage, dopo essersi resi conto di quanta strada aveva fatto il loro rapporto, quanto profondo era diventato e quanto si desideravano. C’era stato poco tempo a disposizione, ma le carezze, il toccarsi, il tenersi, avevano preso un nuovo sapore, una nuova intensità.
«Vorrei quei piatti quando ha finito di origliare, signorina Amy». La voce divertita di Helen, appoggiata al lavandino con una mano sul fianco, interruppe i ricordi di Amy.
«Beh, non stavo origliando.» Sorrise arrossendo. «Stavo sognando ad occhi aperti. Mi ero perduta da qualche parte.»
Victor Platnauer si sporgeva sul tavolo guardando Childes dritto negli occhi. Poco più che sessantenne Platnauer era ancora un uomo robusto, con quella rozzezza del volto così frequente tra i nativi dell’isola, la voce rauca e i modi bruschi. Al contrario la moglie Tilly aveva una voce morbida, quasi un mormorio, l’aspetto e i modi simili a quelli di Vivienne Sebire.
«Mi fa piacere sapere che ha deciso di dedicare un po’ più di tempo al La Roche» disse Platnauer.
«Solo un pomeriggio in più» rispose Childes. «Ho dato conferma proprio questa settimana.»
«Così mi ha detto la signorina Piprelly. Bene, mi fa piacere ma forse riusciremo a convincerla a darcene ancora di più; certo mi rendo conto che lei insegna anche al Kingsley e al de Montfort, ma è importante per noi allargare questo settore del nostro corso di studi. Non è soltanto una esigenza dei genitori, mi si dice che anche gli allievi mostrino molto interesse per l’informatica.»
«Purtroppo non è così per tutti» spiegò Childes. «I ragazzi intendo, ci si illude se si crede che tutti i ragazzini abbiano una propensione naturale al calcolo e all’elaborazione elettronica.»
Tilly Platnauer ebbe un moto di sorpresa. «Io pensavo proprio che fossimo ormai nell’epoca delle guerre stellari, con tutti i ragazzini piccoli geni del micro-chip in confronto agli adulti.»
Childes sorrise. «Vede, siamo solo agli inizi. Poi i giochi elettronici non sono esattamente come l’applicazione pratica dei computer, sono comunque un buon inizio, ma il computer ha una logica assoluta e non tutti i ragazzi sono perfettamente logici.»
«Nemmeno molti adulti lo sono» brontolò Platnauer.
«C’è sempre il rovescio della medaglia, in un certo senso» continuò Childes. «L’industria dei divertimenti ha fatto in modo che il consumatore pensasse ai computer come a oggetti divertenti, e questo va bene, crea interesse. Poi il pubblico, i ragazzi nel caso nostro, scoprono che c’è da faticare prima di poter capire veramente come funzionano, e qui iniziano le defezioni.»
«Allora la risposta è iniziarne l’insegnamento in tenera età, così potranno diventare un fattore quotidiano della loro vita». Era stato Vigiers a parlare, con un accento che addolciva le parole senza deformarle.
«Giusto! Ma quella sarebbe una situazione ideale, dove il computer diventa un oggetto casalingo qualsiasi, un soprammobile, come la TV o lo stereo. Manca ancora un bel pezzo a quel tipo di situazione.»
«Motivo di più perché le nostre scuole diano ai nostri bambini modo di apprendere le nuove tecnologie mentre le loro menti sono ancora tenere e malleabili, non le pare?» insisté Platnauer.
«In linea di principio sì. Ma bisogna capire che non è una scienza alla portata di tutti. E sfortunatamente la microtecnologia diventerà sicuramente un fatto quotidiano tra una ventina d’anni, e ci sarà molta gente e molte aziende che rimarranno indietro.»
«Bisogna quindi assicurarci che i giovani di quest’isola non rimangano indietro» affermò Sebire e Platnauer annuì approvando.
Childes nascose la frustrazione. O non avevano capito o non volevano: la conoscenza della tecnologia si poteva insegnare con le buone o con le cattive ma se non ci si era portati era difficile da digerire.
Vigiers cambiò argomento. «Lei insegna anche scienze al La Roche, Jon?»
Rispose per lui, inaspettatamente, Sebire. «No, nient’affatto. Il signor Childes è un esperto di informatica, Edouard, una specie di genio, mi si dice.»
Childes lo guardò sorpreso. Chi lo dice, si chiese, Amy?
«Ah» fece Vigiers. «Allora sono ancora più curioso di sapere cosa l’ha portato ad insegnare ai giovani, non è quel che dite… dunque… un passo indietro? Giusto, sì? Mi scusi se sono indiscreto, ma un cambiamento netto di attività, une brusque changement de vie, diremmo noi, è sempre interessante, non è d’accordo?». Sorrise amabilmente e Childes si fece guardingo.
«Qualche volta ci si accorge che l’eterno gareggiare non è quel che fa per noi» rispose attento.
A Vivienne Sebire la risposta piacque e quindi aggiunse. «E chi potrebbe resistere alla quiete dell’isola, a dispetto di quello che fate voialtri affaristi per rovinarcela!». Lanciò un’occhiata intensa al marito.
La porta della cucina si aprì ed entrarono Amy e Helen con dei vassoi d’argento pieni di dolci.
«Altre delizie!» fece entusiasta George Duxbury. «In quale tentazione ci induci questa volta Vivienne?»
«C’è da scegliere» rispose, mentre i vassoi venivano posti al centro del tavolo. «Il cioccolato con le albicocche l’ho fatto io, il soufflé di lamponi è una specialità di Amy; naturalmente potete prenderli tutt’e due, se avete ancora posto.»
«Lo trovo, il posto!» l’assicurò Duxbury.
«Alla mia dietologa verrebbe un colpo se mi vedesse» disse la moglie allungando il piatto tra le risate di tutti. «Cioccolato con le albicocche grazie.»
Amy si mise seduta mentre Helen serviva. Vigiers si sporse verso di lei e le bisbigliò in tono confidenziale. «Io assaggerò il soufflé, ha un’aria invitante!»
Lei sorrise fra sé e sé. Edouard aveva una di quelle voci basse adatte alla vendita degli immobili in TV. «La mamma è una vera cuoca, io pasticcio solamente.»
«Sono sicura che lo sa fare molto bene. Suo padre mi diceva che anche lei insegna al La Roche.»
«Sì. Inglese e francese. Assisto anche nei corsi di dizione e recitazione.»
«Allora parla bene la mia lingua? Il vostro nome mi dice che siete di origine francese, sì? E se permette lei ha quel fascino particolare che hanno le donne del mio paese.»
«Fu proprio il vostro Victor Hugo che scrisse che queste isole erano brandelli di Francia raccolti dall’Inghilterra. Una volta facevamo parte del ducato di Normandia quindi molti di noi hanno antenati francesi. Alcuni degli anziani parlano ancora il ‘patois’, e sono sicura che avrà notato che i luoghi conservano il nome originale.»
«Siamo sempre stati un possedimento prezioso, per più di una nazione, Monsieur Vigiers» fece Grace Duxbury, che aveva ascoltato la conversazione.
«Mi auguro che il mio paese non vi abbia mai provocato fastidi» rispose lui con occhi divertiti.
«Fastidi?» rise Sebire. «Avete cercato di invaderci più volte, i vostri pirati hanno fatto scorribande per secoli, persino Napoleone ci provò, ma rimediò solo un occhio nero.»
Vigiers sorseggiò il vino con evidente spasso.
«Abbiamo comunque sempre molto apprezzato le nostre origini francesi,» continuò Sebire, «e devo dire che sono felice che i rapporti non si siano mai interrotti.»
«Mi pare di capire che i tedeschi non suscitano le stesse simpatie?»
«Decisamente no!» ringhiò Platnauer. «L’occupazione in tempo di guerra è ancora fresca nella memoria e poi ci sono tutti quei bunker e le difese costiere a ricordarceli. Devo dire però che non c’è animosità oggigiorno, alcuni veterani delle forze di occupazione tornano come turisti.»
«È curioso quanto quest’isola abbia sempre attratto l’uomo fin da epoche lontane» disse Sebire mentre sceglieva anche lui il soufflé. «Nel Neolitico arrivavano fin qui a seppellire i morti e a pregare i loro dei, vi sono ancora quelle massicce tombe di granito, l’isola è cosparsa di megaliti e menhir, quei massi che essi adoravano. Aimée perché non fai fare il giro dell’isola a Edouard domani? Lunedì deve tornare a Marsiglia e non ha ancora avuto il tempo di dare un’occhiata intorno. Che ne dici, Edouard?»
«Mi farebbe veramente piacere» rispose il francese.
«Mi dispiace ma io e Jon abbiamo altri impegni per domani». Amy sorrise ma lo sguardo che lanciò al padre era di ghiaccio.
«Sciocchezze!» insisté Sebire, cosciente del fastidio della figlia ma inamovibile. «Vi vedete sempre a scuola, e quasi tutte le sere mi pare, sono sicuro che a Jonathan non dispiace lasciarti libera qualche ora visto che il nostro ospite rimane così poco tempo.» Guardò ammiccante Childes in fondo al tavolo, egli stava conversando con Vivienne ma la sua attenzione venne immediatamente attratta dal sentire il proprio nome.
«Eh, sì, certo, cioè, sta a Amy decidere» disse incerto.
«Ecco fatto» fece Sebire sorridendo alla figlia. «Nessun problema!»
Imbarazzato Vigiers disse: «Ma non c’è problema, veramente, se…»
«Non c’è problema Edouard» lo interruppe Sebire. «Aimée è abituata ad intrattenere i miei ospiti d’affari. Ho spesso sperato che scegliesse la mia professione anziché l’insegnamento. Sarebbe stata un vero e proprio fiore all’occhiello per la società.»
«Sai bene che la finanza non mi dice nulla» rispose Amy, nascondendo la rabbia di non poter fare altro che accettare il ruolo impostole di guida turistica. Accidenti a Jon, perché non l’aveva tratta d’impaccio? «Mi piacciono i bambini, sono soddisfatta di fare qualcosa di utile. Non voglio criticare ma il vostro modo di fare soldi non mi gratificherebbe affatto, ho bisogno di un riscontro tangibile dei miei sforzi, non di cifre su un bilancio.»
«E ottiene questo con i suoi studenti?» chiese Vigiers.
«Sì! Con molti.»
«Con tutti, ne sono sicuro, se hanno te come educatrice.»
«Papà, non ho bisogno di uno sponsor!» minacciò lei.
I due uomini risero all’unisono e Grace Duxbury disse: «Non gli dar retta, Amy cara. Sono ambedue di quella razza quasi estinta che crede che gli uomini controllino il mondo. Mi dica, Monsieur Vigiers, ha avuto modo di provare i nostri ristoranti durante la sua sosta qui sull’isola? Come ha trovato la loro cucina in confronto a quelle, ottime, del suo paese?»
Mentre la conversazione proseguiva, Amy guardò Childes cercando di comunicargli il suo disappunto per l’indomani. Egli capì e scuotendo leggermente la testa alzò verso di lei il bicchiere. Alzando il proprio Amy rispose al brindisi.
Helen era tornata in cucina dove stava caricando piatti e posate nella lavastoviglie. Era contenta che la cena fosse andata così bene per la sua padrona. La signorina Amy era fortunata ad avere due cavalieri e Helen si chiese come facesse a resistere a quel francese così perbene, colto, con quei suoi modi francesi, quell’aria francese, e quella voce francese… irresistibile!
Rabbrividì e allungò la mano verso la finestra oltre il lavello. La notte s’era fatta fresca, buia, con solo una sottile falce di luna. Tirò a sé i vetri.
Attorno al tavolo si rideva. Duxbury, che oltre ad importare merci varie forniva di mobili, attrezzature e quant’altro servisse le aziende dell’isola e organizzava anche convegni commerciali per conto di società straniere, stava raccontando ai commensali una delle sue storielle su avvenimenti buffi che accadevano ai convegni, come sempre lunghissima ma divertente.
Childes prese una cucchiaiata di soufflé e fece una smorfia di apprezzamento a Amy, che abbozzò un bacetto di risposta. Si era sentito teso all’inizio della serata, sospettoso di Paul Sebire, guardingo, sicuro che sarebbe stato sottoposto a chissà quale prova di giudizio sul suo carattere, sul suo valore. Invece il finanziere era stato più che corretto, l’asprezza dei precedenti incontri dimenticata o, per lo meno, tenuta a freno. Eppure Childes non si sentiva rilassato; si era reso conto che il giovane francese non era solamente un ospite, ma era stato presentato da Sebire come rivale potenziale e la gita di Amy e Vigiers suggerita da Sebire gli confermava questo sospetto. Era ovvio e ingenuo, ma Childes doveva ammettere di avere l’aspetto un po’ dimesso in confronto a Vigiers.
Al contrario Vivienne Sebire era stata cordiale e premurosa, accogliendolo con calore e, da perfetta padrona di casa, facendolo sentire un ospite gradito. Un perfetto contrappeso alla generale freddezza del marito.
Partecipò alle risate degli altri quando Duxbury raggiunse il culmine del racconto dando a loro a malapena il tempo di tirare un respiro prima di ripiombare in un’altra storia. Childes allungò la mano verso il bicchiere e, mentre se lo portava alle labbra, gli sembrò di intravvedervi un baluginio. Strizzò gli occhi guardando il liquido chiaro. S’era sbagliato, un riflesso forse, sorseggiò il vino riponendo il bicchiere sul tavolo quando di nuovo qualcosa vi si mosse dentro. Guardò ancora, incuriosito più che preoccupato.
No, solo vino, nient’altro, niente che potesse… niente che…
Un’immagine, ma non nel bicchiere, nella sua testa.
Risatine soffocate mentre Duxbury proseguiva il racconto.
L’immagine era irreale, sfocata, come l’incubo, una macchia confusa. Childes ripose il bicchiere accorgendosi che gli tremava la mano. Una strana sensazione gli opprimeva la nuca, come una mano, gelata, che la stringesse. Fissò il vino.
Amy squittì prevedendo il finale piccante a cui stava arrivando Duxbury.
L’immagine si era moltiplicata in tante visioni che lentamente scorrevano mettendosi a fuoco. Il caldo della stanza si era fatto soffocante. La mano libera di Childes corse al colletto come per allentarlo.
Grace Duxbury che aveva sentito il racconto del marito un’infinità di volte, e ne conosceva il finale, già si scherniva imbarazzata.
Childes ormai si guardava dentro, vedendo dentro di sé uno scenario che era oltre i confini della stanza, eppure allo stesso tempo lì, con lui. Gli sembrava di avvicinarsi a quell’azione della fantasia, farne parte integrante, ma anche solo di osservarla. Della terra smossa veniva rimossa.
Il brontolio allegro di Victor Platnauer, quasi un’esplosione, era contagioso, e Vivienne si ritrovò a ridere prima ancora che la storiella fosse finita.
Dita rozze, unghie spezzate, coperte di terriccio umido. Grattavano il legno. Gli sforzi ripresero, frettolosi. Il legno fu scoperto e ne apparve la forma, stretta, rettangolare, piccola. Childes sussultò versando il vino.
Vigiers si era accorto di quel che succedeva e guardò Childes oltre il tavolo.
Il coperchio della bara venne fracassato, i frammenti si sparsero intorno sotto i colpi dell’ascia. Spezzoni aguzzi furono strappati via allargando il foro. Il corpicino fu scoperto, il volto indistinto nella poca luce. La mano di Childes si strinse sul bicchiere. La stanza ondeggiava, respirava a fatica. L’invisibile presa sul collo si faceva più pesante, come una morsa.
Per un attimo le mani, che Childes sentiva, quasi fossero le sue, fecero una pausa, come se il profanatore avesse sentito qualcosa, si fosse accorto di essere osservato, sentisse Childes stesso. Qualcosa nella sua mente fu sfiorata come dal ghiaccio. Poi la sensazione passò.
Tilly Platnauer sapeva che non avrebbe dovuto mostrare di gradire il racconto, ma la faccia di Duxbury era esilarante, le spalle le sussultavano dallo spasso.
Il piccolo cadavere fu strappato dalla cassa foderata di seta. Childes vide gli occhietti aperti senza profondità, senza vita. Il bimbo venne steso sull’erba accanto alla buca, dove la brezza notturna ne smosse i capelli, incorniciandogli il viso, donandogli un’illusione di vita. I vestiti gli vennero strappati via, e fu lasciato nudo nella luce notturna, marmo bianco immobile.
Il metallo luccicò alla luce fioca della luna. Fiondò verso il basso. Penetrò. Affettò.
Il bicchiere si frantumò, il vino si mescolò al sangue che scorreva a fiotti sulla tovaglia di lino bianco. Qualcuno urlò. Childes si era alzato, rovesciando la sedia, ondeggiando, gli occhi fissi al soffitto, le labbra gonfie, la pelle lucida di sudore.
Il corpo gli prese a tremare, si irrigidì, persino i capelli gli si rizzarono in capo, e con un grido disperato crollò sul tavolo.
Addentò con avidità il cuore del bimbo morto.
Amy strinse i pugni e chiuse gli occhi alla vista dell’immagine riflessa del padre.
Erano nella sua stanza, lei con il viso pallido, gli occhi gonfi di pianto, seduta con un’aria derelitta alla specchiera. Paul Sebire, agitato e rabbioso, camminava su e giù alle sue spalle. Lei non riusciva a cancellare dalla mente la vista di Jon accompagnato fuori da Platnauer. Il consigliere lo aveva fatto accomodare nella propria macchina, rifiutandosi di permettergli di guidare, nonostante le proteste; il volto di Jon era tirato, terreo.
Si era rifiutato di far chiamare un medico, aveva insistito che stava bene, che era solo svenuto, il caldo della sala da pranzo lo aveva sopraffatto. Ma la serata era fresca, la casa appena riscaldata, affatto calda, ma non era stato contraddetto. Sarebbe stato bene appena avesse potuto sdraiarsi un poco, aveva detto loro, bastava un po’ di riposo. Rifiutò, assolutamente, l’offerta di Amy e Vivienne di fermarsi lì per la notte, dicendo che aveva solo bisogno di rimanere solo per un poco. Il suo sguardo perso la spaventò quanto il pallore del viso, ma era stato inutile discutere.
Lo aveva abbracciato prima che partisse, sentendolo tremare dentro, desiderando di poterlo acquietare. La mano ferita era stata medicata e fasciata, Amy gli baciò la punta delle dita attenta a non stringerla troppo. Childes le aveva impedito di accompagnarlo.
Paul Sebire smise di camminare. «Aimée,» disse posandole una mano sulla spalla, «non voglio che ti arrabbi, voglio solo che tu ragioni e mi stia a sentire.»
Le carezzò i capelli, stringendole di nuovo le spalle. «Vorrei che tu interrompessi questo rapporto con Childes.» Attese la reazione che però non venne. Amy fissava semplicemente la sua immagine riflessa nello specchio, cosa che era ancor più sconcertante. Continuò cautamente. «Credo che quell’uomo sia squilibrato, dapprima pensavo che fosse un attacco epilettico, ma i sintomi non corrispondevano. Aimée, quell’uomo sta per avere un completo esaurimento nervoso.»
«Non è squilibrato, non è nevrotico, e non sta per avere un esaurimento» disse con calma Amy. «Tu non lo conosci papà, non sai quello che ha passato.»
«Sì che lo so. Mi chiedevo appunto se tu conoscevi i suoi trascorsi.»
«Cosa vorresti dire?». Si girò verso Sebire facendo scivolare via la sua mano dalle spalle.
«Il suo nome mi ricordava qualcosa, fin da quando lo nominasti la prima volta. Ma non riuscivo a ricordare che cosa, anche se continuavo a pensarci. Qualche tempo fa, quando mi resi conto che eri seriamente intenzionata a frequentarlo ho fatto un po’ di indagini» Alzò una mano a mo’ di difesa. «Non mi guardare in quel modo, sei la mia unica figlia, sei la cosa più importante della mia vita, non pensi che abbia il diritto di andare a fondo di una cosa che ti riguarda così da vicino?»
«Non potevi chiederlo a me?»
«Chiederti cosa? Avevo un dubbio, tutto lì! E poi non ero certo che tu sapessi tutto di Childes.»
«E che cosa avresti scoperto?» chiese lei, acida.
«Beh, sapevo più o meno quando era arrivato e che aveva una professione nel settore informatico. Chiesi a Victor Plamauer, che come sai è membro del comitato di polizia, di fare indagini discrete. Discrete davvero, te l’assicuro. Se aveva avuto a che fare con la legge, cose del genere.»
«Pensi che lo avrebbero assunto nei college se avesse avuto la fedina sporca?»
«Certo che no! Ma io cercavo qualcos’altro, te l’ho detto, il nome mi era noto e non sapevo perché.»
«E così hai scoperto perché se ne andò dall’Inghilterra, perché ha dovuto lasciare la famiglia.»
«Non mi avevi mai nascosto il suo divorzio, e quindi quella non fu una sorpresa. Ma lo fu invece sapere che era stato implicato in un omicidio.»
«Papà, se tu avessi fatto fare indagini serie sapresti tutto. Jon aiutò a risolverli quegli omicidi. Fu falsamente accusato e perseguitato dalla stampa, anche molto tempo dopo i fatti.»
«Ufficialmente quegli omicidi non sono mai stati risolti.»
Lei mugugnò tra la disperazione e la rabbia.
Sebire non fece una piega. «Ci furono una serie di omicidi, le vittime erano tutti bambini, e gli indizi indicavano che l’assassino era sempre lo stesso.»
«E Jon fornì alla polizia prove indispensabili.»
«Li portò dove erano stati seppelliti due dei corpi, questo è vero. Ma ci si chiedeva come poteva saperlo, Aimée, e fu questo a provocare lo scandalo.»
«Ma lui glielo disse, glielo spiegò.»
«Disse di aver assistito agli omicidi, non fisicamente, non era sul luogo del delitto, ma che li aveva ‘visti’ accadere. Come puoi pensare che la polizia, la gente, non si meravigliasse?»
«Lui ha… aveva… delle specie di visioni. Non è poi una cosa così insolita, è già successo ad altri, papà. La polizia si rivolge spesso ai sensitivi perché li aiuti a risolvere dei crimini.»
«Ogni volta che si viene a sapere di qualche delitto particolarmente orrendo, la polizia viene tempestata di consigli da pazzoidi vari che affermano che gli spiriti hanno detto loro com’è fatto l’assassino, o dove colpirà ancora. E una cosa ridicola ma frequente, ed è una perdita di tempo per la polizia.»
«Non sempre, non sempre. Alcuni delitti sono stati risolti grazie a queste persone.»
«E tu vorresti dirmi che Childes è uno di questi ‘dotati’?» Sebire pronunciò ‘dotati’ come fosse una parolaccia. «È quello che affermavano i giornali dell’epoca.»
«È proprio questo il punto. Non lo è. Non è un veggente, né è dotato di poteri paranormali nel senso comune. Jon non aveva mai avuto esperienze del genere prima, non in quel modo. Era confuso e smarrito quanto gli altri. E aveva paura».
«La polizia lo fermò perché sospetto.»
«Non riuscivano a spiegarsi quello che sapeva. Certo che lo sospettarono sulle prime, ma ci furono molti testimoni che dissero che lui era altrove quando erano stati compiuti i delitti.»
«Si pensava che fosse comunque coinvolto in qualche modo, le informazioni che dava erano precisissime.»
«Alla fine trovarono l’assassino e dimostrarono che con Jon non c’erano collegamenti.»
«Mi dispiace ma questo non è scritto da nessuna parte. Gli assassinii non furono mai risolti ufficialmente.»
«Ti converrebbe fare una verifica, papà, scopriresti che lo furono, ufficiosamente. Il mostro si tagliò la gola da solo. Ma il caso venne comunque archiviato perché il suicida non lasciò alcun messaggio, niente che provasse che aveva ammazzato lui i bambini. Ma la polizia aveva forti indizi, anzi prove, contro di lui. Lo fecero capire allora, anche i giornali, tuttavia non si poté dichiararlo ufficialmente, era contro la legge. Ma l’assassino si era ucciso proprio perché sapeva di essere sul punto di farsi scoprire; Jon aveva fornito alla polizia informazioni tali da permettere loro di individuare l’uomo, un pregiudicato per molestie a minori, che si era fatto anche un po’ di galera per questo. Non ci furono altre morti da quando si suicidò.»
«Allora perché Childes è fuggito?» Sebire aveva ripreso a discutere deciso a non mollare finché non avesse fatto breccia nella figlia. «Ha abbandonato la moglie e la figlia per venire qui. Perché avrebbe dovuto farlo?»
«Non le ha abbandonate, non è come dici tu.» La voce di Amy si era fatta più acuta. «Jon pregò la moglie di seguirlo ma lei si rifiutò. Era distrutta anche lei dagli avvenimenti. Voleva che né lei né Gabriel, la figlia, dovessero subire altri pettegolezzi, telefonate di maniaci. La stampa, che dapprima sbatteva il mostro in prima pagina, cercò poi di tramutare Jon in una specie di fenomeno da baraccone! Lei sapeva che non ci sarebbe stata pace per loro…»
«Anche se fosse, abbandonarle in quel modo…»
«Il matrimonio era in crisi già da prima. La moglie di Jon era una professionista quando si sposarono, poi quando arrivò la bambina lei non ebbe più tempo per il lavoro. Fran si stufò presto di fare la casalinga, sempre all’ombra di lui. Voleva una propria vita autonoma, prima ancora che iniziassero gli avvenimenti.»
«E la bimba? Come ha…?»
La voce di Amy si abbassò di tono. «Lui ama Gabriel, quasi lo straziò doverla lasciare, ma era cosciente del fatto che se fosse rimasto la tensione li avrebbe distrutti tutti. Non poteva offrire nulla alla figlia da solo, non sapeva ancora come avrebbe vissuto, cosa avrebbe fatto. Aveva appena mandato a monte una carriera brillante, lasciava alla moglie quasi tutto ciò che avevano, tutti i risparmi. Come poteva occuparsi di una bambina di quattro anni?»
«E perché proprio qui? Perché è venuto in quest’isola?» Sebire aveva nuovamente smesso di camminare, la sovrastava, e la collera gli montava dentro.
«Ma perché così è vicino a casa sua, non capisci? È abbastanza lontana da renderlo uno sconosciuto eppure abbastanza vicina da permettergli di rimanere in contatto con la famiglia. Jon non le ha abbandonate, non ha voltato loro le spalle. Era sconvolto quando seppe che la moglie aveva chiesto il divorzio. Forse sperava di poter riaccomodare le cose un giorno. Per amore di Gabriel, sperava che venissero a vivere qui, non lo so! Forse aveva progettato di tornare in Inghilterra tra qualche anno, dopo che i giornali e la gente lo avessero del tutto scordato. Poi sono arrivate le carte per il divorzio.»
«Va bene Aimée, ammettiamo pure che sia tutto vero, che non sia coinvolto in quei delitti terribili, che il divorzio non sia solo colpa sua…»
Amy fece per aprire la bocca, gli occhi chiari fiammeggiavano, ma Sebire la bloccò.
«Stammi a sentire,» disse fermo, non ammettendo repliche, «rimane il fatto che quell’uomo non è normale. Come ti spieghi queste, non so nemmeno come si chiamano, non conosco quel tipo di fenomeno, diciamo ‘intuizioni’? Perché proprio a lui devono accadere?»
«Non lo sa nessuno. Tanto meno Jon. Nessuno può spiegarlo. Peché gliene fai una colpa?»
«Non lo incolpo proprio di niente. Sto soltanto dicendo che c’è qualcosa di strano in lui. Puoi spiegarmi cosa gli è accaduto stasera, cosa lo ha fatto svenire? È mai successo prima? Buon Dio, Aimée, pensa se succedeva mentre guidava la macchina, magari con te dentro?»
«Non so cosa gli è successo, e nemmeno lui. Che sappia io non gli è mai capitato niente di simile.»
«Ma si è rifiutato persino di vedere un medico.»
«Lo farà, ci penserò io.
«Tu te ne starai lontana da lui!»
Amy lo guardò incredula. «Ma tu credi veramente di potermi dire quel che devo e non devo fare, come se fossi una bambina? Credi veramente di potermi proibire di vederlo?». Rise, ma era un riso senza allegria. «Sveglia papà! Siamo nel ventesimo secolo!»
«Io credo che Victor Platnauer non sarà molto contento di avere nel corpo insegnanti un docente che ha questi attacchi di svenimento.»
Le fuggì un ansito. «Ma non dirai sul serio vero?»
«Come no!»
Lo fissò con rabbia appena celata e scosse la testa. «Stava male, poteva succedere a chiunque.»
«Forse. Ma per un altro tipo di persona non ci sarebbe niente di grave.»
«Tu però non hai intenzione di lasciar perdere, vero?»
«Non è questo il punto.»
«E qual’è allora?»
«Mi preoccupa. Ho paura per te.»
«È un uomo gentile e caro.»
«Non voglio che tu sia coinvolta con lui.»
«Lo sono già, e molto anche.»
Sebire fremette, s’avvicinò alla porta e si voltò a guardarla. Amy conosceva bene suo padre, quella sua ferocia quand’era contrariato. Le parole erano semplici e controllate ma negli occhi gli bruciava una decisione irremovibile.
«Penso che sia ora che gli altri sappiano dei misteriosi trascorsi di Childes.» affermò prima di richiudersi dietro la porta.
Il sudore gli scorreva addosso, veri e propri rivoli che inzuppavano le lenzuola. Si girò su un fianco, le lenzuola umide gli si appiccicavano alla pelle, e avevano lo stesso acre odore che emanava il suo corpo.
La visione, l’apparizione, era ancora fresca nella memoria di Childes, tanto era stata reale, l’orrore così tangibile, palpabile. Lo riempiva ancora, potente, vivida.
Egli era stato presente, nel cimitero, tanto vicino al piccolo cadavere da sentirne il contatto umido e freddo. Per alcuni brevi istanti egli era vissuto dentro quell’altro essere, quella cosa, che aveva violato il bimbo defunto. Ne aveva sentito l’oscena esaltazione.
Eppure ne era stato anche distaccato, un osservatore passivo, impotente.
I pensieri continuavano a correre e con essi nella sua mente s’intrufolava come un’informazione viscida. Un’altra angoscia, un concetto inspiegabile, che gli fece emettere un lamento addolorato. Era un pensiero troppo penoso per potercisi soffermare, ma non lo lasciava. Non poteva esserne sicuro, per quanto la mente avesse potuto rimuoverne la coscienza, in qualche recondito angolino lui doveva sapere. Ma lui aveva sentito o no se quelle mani mostruose che estraevano il piccolo corpo dal giaciglio erano le sue?
La visione era in realtà un ricordo? Il mostro era proprio lui? No, non poteva essere, non poteva.
Childes fissò la finestra serrata e ascoltò i rumori della notte.
Sedeva nell’ombra, guardando la sottile lama di luce lunare attraverso le finestre lerce; sogghignò ripensando alla cerimonia svoltasi nel cimitero quella sera stessa.
Ripensò al momento stupendo in cui aveva squarciato quel corpo, allo scempio delle interiora, e si esaltò al ricordo.
Si umettò le labbra con la lingua. Il cuore immobile aveva un buon sapore.
Ma una smorfia ne stravolse il volto.
Nel cimitero, per un attimo appena, mentre estraeva dalla bara il corpicino, una sensazione aveva frenato il suo gesto, la sensazione di essere osservata. Eppure il cimitero era deserto, questo era sicuro, a far da spettatori notturni solo le lapidi e gli angeli congelati.
Eppure c’era stato un contatto con qualcosa, con qualcuno. Una congiunzione di spiriti.
Chi?
E come era possìbile?
La figura si mosse sulla sedia mentre una nube avviluppava la luna; il respiro si fece breve e aspro finché non rivide il debole chiarore. Analizzò l’eventualità che qualcuno sapesse, sforzò la mente alla ricerca dell’intruso, cercò ma non trovò nulla. Non ancora.
Ma c’era tempo, c’era tempo.
«Ha il viso un po’ pallido.» fece Estelle Piprelly mentre Childes, entrato nello studio, si sedeva su una sedia di fronte alla grande scrivania.
«Sto benissimo.» rispose.
«Ma si è fatto male.»
Lui sollevò la mano fasciata a mo’ di difesa. «Ho rotto un bicchiere, niente di serio, qualche taglietto.»
Il soffitto della stanza era alto, le pareti coperte fino a metà altezza di rovere chiaro, poi dipinte di un riposante verde pastello; uno dei muri era invece arredato con scansie piene di libri. Un ritratto del fondatore del la Roche troneggiava sul muro alla destra di Childes: era indubbiamente somigliante, ma, come tanti dipinti dell’epoca vittoriana non esprimeva nulla del carattere del personaggio ritratto. Accanto alla porta un antico orologio ticchettava rumoroso come se ogni secondo che passava fosse di per sé importante. Childes guardò oltre la preside del La Roche, fuori il sole splendeva dalle grandi finestre accendendo d’argento i capelli grigi della donna. La vista dava sui grandi giardini del college, i fiori e gli arbusti risvegliati dal novello tepore, le serre imbiancate che rilucevano nel sole, abbaglianti. Oltre le mura vi erano le scogliere aspre, bastioni a difesa dal mare che andavano lentamente erodendosi. Il blu scuro segnava il confine tra mare e cielo, un segno netto tra i due elementi così simili. Benché la stanza fosse spaziosa e i colori morbidi Childes si sentiva imprigionato, come se i muri reprimessero una energia che lui stesso emanava, una forza che il suo corpo non era capace di racchiudere. Sapeva bene che non era altro che una leggera claustrofobia, niente di più, in gran parte dovuta anche all’imminente confronto con la preside.
«Ho ricevuto una telefonata di Victor Platnauer stamattina,» iniziò la Piprelly, confermando quel che lui si aspettava, «so che vi siete incontrati in casa di amici sabato sera.»
Childes annuì.
«Mi ha parlato del suo, ehm, spiacevole incidente» continuò la preside. «Ha detto che lei ha avuto uno svenimento durante la cena.»
«La cena era appena terminata.»
«Era preoccupato del suo stato di salute» disse lei sbirciandolo con una enorme freddezza. «Del resto lei capisce che abbiamo una enorme responsabilità nell’insegnamento ai giovani, un avvenimento del genere in classe potrebbe provocare chissà quali traumi alle ragazze. In quanto nostro amministratore, il consigliere Platnauer sentiva l’esigenza di verificare che questi avvenimenti non fossero frequenti. Mi pare ragionevole, non le sembra?»
«È stata la prima volta, glielo assicuro!»
«Ha idea del perché è accaduto? È andato da un medico?»
Egli esitò un attimo prima di rispondere. «No, a tutt’e due le domande. Sto bene ora, non ho bisogno di un medico.»
«Sciocchezze! Se è svenuto ci sarà pure un motivo.»
«Forse sì, ecco, ero piuttosto teso sabato. Una questione personale.»
«Abbastanza da farla svenire?» disse lei in tono ironico.
«Posso solo dirle che non era mai accaduto prima. Sono in buona salute attualmente, anzi forse sto meglio di quanto non sia stato da un pezzo. La vita qui sull’isola è per me un grosso cambiamento, un modo diverso di vivere rispetto al mio precedente lavoro, senza stress, senza la concorrenzialità dovuta alla carriera. E devo aggiungere che il mio matrimonio era stato poco sereno negli ultimi anni. Le cose sono cambiate da quando sono venuto qui, mi sento più rilassato, più felice, oserei dire.»
«Sì, posso crederle. Ma come le ho detto prima quando è entrato, lei ha l’aria un tantino tesa.»
«Quel che è successo ha scioccato anche me, oltre agli altri commensali» disse un poco risentito.
Era a disagio di fronte allo sguardo scrutatore della donna; distolse gli occhi spolverandosi un inesistente granello di polvere dai pantaloni di velluto a coste. Per un attimo gli sembrò che lei penetrasse fin dentro la sua anima.
«Va bene, Childes, non intendo insistere in merito. Comunque le suggerisco di vedere un medico al più presto, quello svenimento potrebbe essere il sintomo di qualche malattia di cui lei non sa nulla.»
Lui si sentì sollevato ma non disse niente.
La Piprelly tambureggiò con la stilografica sulla scrivania come se fosse il martelletto di un giudice. «Victor Platnauer mi ha anche informata di qualcosa che ha a che fare con il suo passato, e di cui, e mi spiace dirlo, lei non mi ha mai riferito.»
Egli si drizzò sulla sedia, il corpo teso, le mani strette intorno alle ginocchia, ben sapendo quello che sarebbe seguito.
«Mi riferisco naturalmente alle sue spiacevoli esperienze con la polizia prima che lei arrivasse sull’isola.»
Avrebbe dovuto rendersi conto che certe cose non si dimenticavano facilmente, l’Inghilterra era troppo vicina, troppo accessibile perché certe notizie non filtrassero. Ma Platnauer ne era stato sempre a conoscenza? No, la cosa si sarebbe saputa prima. Qualcuno glielo aveva detto di recente, e Childes sorrise tra sé e sé: Sebire aveva indagato sul suo passato, oppure Amy ne aveva parlato col padre, e questi aveva informato l’amministratore della scuola. In un certo senso era contento che il segreto non fosse più tale, anche se erano solo affari suoi. La rimozione porta alla depressione, non è così? si chiese.
«Tutto vero!» rispose ad alta voce.
«Come dice prego?» la preside aveva l’aria sorpresa.
«Le mie esperienze con la polizia, come dice lei. Li ho solamente informati. Li ho aiutati, sul serio, a risolvere un’indagine.»
«Così mi si dice. Per quanto il modo fu alquanto strano, non crede?»
«Sì. Direi proprio strano. Tanto che il ricordo ancora mi lascia sbalordito. In quanto al non averla informata, non ne vedevo la necessità, non fui coinvolto nella faccenda.»
«Ma certo. Non ne sto facendo un caso, mi creda.» Era la volta di Childes ad essere sorpreso. «La mia posizione qui non è dunque messa in discussione?»
Il ticchettio dell’orologio segnò il tempo della pausa: sei secondi.
«Mi pare giusto dirle che ho chiesto alla nostra polizia di darmi ulteriori delucidazioni in merito. Lei ne può capire i motivi, vero?»
Ella non sorrise e mantenne i soliti modi bruschi ma Childes la vide in una nuova luce quando disse: «Non ne vedo alcun motivo, per ora, sempre che lei non abbia qualcos’altro da dirmi, che comunque verrei a sapere?»
Scosse la testa. «Non ho nulla da nascondere, glielo assicuro.» «Molto bene. Abbiamo molto bisogno delle sue conoscenze specifiche, altrimenti non le avremmo chiesto di dedicare al La Roche una fetta maggiore del suo tempo e tutto questo l’ho spiegato a Victor Platnauer. Devo dirle però che dapprima non era molto convinto delle mie argomentazioni, comunque è un uomo giusto. La terrà d’occhio però, Childes, e anch’io. Siamo d’accordo che la questione rimarrà rigorosamente segreta. Il La Roche non può permettersi la pubblicità collegata a un caso del genere, abbiamo un’ottima reputazione da mantenere e difendere.»
Estelle Piprelly si appoggiò allo schienale, e per quanto il suo corpo rimanesse diritto, l’atteggiamento pareva quasi rilassato. Continuò ad osservare con attenzione Childes, con quello sguardo penetrante e profondo, la stilografica dritta tra le dita come un paletto di confine. Lui si chiese come fosse realmente, cosa pensasse di lui, il perché di quell’improvviso lampo di paura dietro alle spesse lenti degli occhiali.
Lei si riprese subito lasciandolo con il dubbio di aver visto giusto, perché non vi era stato alcun cambiamento nei suoi modi.
«Non la tratterrò più a lungo,» disse asciutta, «sono sicura che abbiamo entrambi molte cose da fare.»
Voglio che se ne vada, pensò tra sé e sé, subito! Non era colpa dell’uomo, non poteva essere incolpato per quell’incredibile sensibilità che possedeva, così come lei stessa non era responsabile delle sue eccezionali facoltà. Non poteva mandarlo via per quello, sarebbe stato troppo ipocrita, e crudele. Ma lo voleva fuori dalla stanza, adesso, subito. Per un attimo aveva avuto la sensazione che lui l’avesse riconosciuta, avesse visto attraverso la sua maschera perenne, avesse presentito quella sua abilità, un dono di natura tanto inaccettabile a lei quanto lo era la cattiva pubblicità per la scuola. Il suo segreto, la sua pena, era privata, da non condividere con nessuno. Troppo a lungo era stato coperto, nascosto, per anni. Avrebbe corso il rischio di continuare ad averlo come insegnante, era giusto in fondo… ma lei si sarebbe tenuta lontano da lui, non gli avrebbe mai dato la possibilità di scoprire la loro somiglianza. Sarebbe stato sciocco, dopo tanto tempo, pericoloso addirittura, per una persona nella sua posizione.
«C’è qualcos’altro che deve dirmi Childes?». Trattenne a stento l’impazienza, anni di ferrea disciplina la assistevano.
«Solamente grazie, sono contento di avere la sua fiducia.»
«La fiducia non c’entra niente. Innanzi tutto se avessi pensato che lei non meritava fiducia non l’avrei assunta. Diciamo che ho bisogno delle sue capacità.»
Lui riuscì a sorriderle mentre si alzava, iniziò a dire qualcosa poi ci ripensò ed uscì dalla stanza.
La preside appoggiò la testa all’alto schienale; il sole sulle spalle non riuscì però a disperdere quel senso di gelo.
Una volta fuori nel corridoio Childes cominciò a tremare. Quella mattina si era convinto di aver ripreso il controllo di se stesso, che buona parte dell’angoscia si fosse dissipata il giorno precedente, espulsa letteralmente dall’organismo, lasciandolo talmente spossato che una volta tornato a casa sarebbe stato subito preda del sonno. E così fu. Un sonno senza sogni, senza quel rigirarsi inquieto, senza lenzuola intrise di sudore; solo alcune ore di oblio. Quella mattina si era svegliato riposato, le immagini viste il sabato sera appena un ricordo sommesso, ancora fastidioso, ma relegato in qualche comparto lontano della memoria, un riflesso inconscio, una specie di autodifesa mentale, ci doveva essere un termine medico preciso per definire quel tipo di reazione.
Il giornale del mattino mandò in frantumi quella fragile difesa.
Aveva comunque compiuto tutti i gesti del vivere quotidiano deciso ad arrivare in fondo alla giornata; poi, nel frattempo, c’era stato l’incontro con la Piprelly. E ora tremava.
«Jon!»
Si voltò allarmato, ed Amy vide la paura sul suo volto. Gli si avvicinò sollecita.
«Jon cos’hai? Hai il viso stravolto.»
Childes si aggrappò a lei brevemente. «Andiamocene da qui,» disse, «puoi allontanarti per un po’?»
«Sì certo, c’è ancora l’intervallo per il pranzo, ho una mezz’ora prima delle lezioni.»
«Facciamo un giro in un posto tranquillo!»
Si separarono nel sentire dei passi lungo il corridoio ed infilarono le scale che portavano all’ingresso principale; non dissero nulla fin quando non furono fuori, al sole, che li scaldò dopo il fresco dell’edificio.
«Dov’eri ieri?» chiese Amy. «Ti ho cercato tutto il giorno.»
«Pensavo che tu stessi facendo vedere l’isola a Edouard Vigiers.» Non c’era critica nel commento.
«L’ho fatto per un’oretta. Ma lui aveva capito che ero in pensiero per te e ha deciso di tagliar corto. Inoltre non ero un granché come compagnia.» Si avviarono verso il parcheggio. «Sono passata dal cottage ma non c’era anima viva, ero preoccupata.»
«Mi dispiace Amy, avrei dovuto pensarci. Ho sentito il bisogno di uscire, non potevo star chiuso lì dentro.»
«Per quello che è successo a cena?»
«Sì, non mi sono certo attirato le simpatie di tuo padre.»
«Non è questo l’importante. Voglio sapere Jon.» Lo prese per il braccio.
«Sta ricominciando tutto daccapo Amy. L’ho capito da quella volta alla spiaggia. Le stesse sensazioni, come se fossi altrove; guardavo, vedevo un qualcosa che accadeva e non avevo alcun potere sugli eventi.»
Erano arrivati alla macchina e lei vide che gli tremavano le mani. «Forse è meglio che guidi io» suggerì.
Egli aprì la portiera e le consegnò le chiavi senza discutere. Presero una stradina che conduceva al mare. Di tanto in tanto lei gli gettava un’occhiata mentre guidava e la tensione di lui ben presto prese anche lei. Si fermarono in uno spiazzo che sovrastava una piccola insenatura, il mare in basso era di un azzurro smagliante, verde a tratti e più chiaro sulle secche. Attraverso i finestrini aperti potevano sentire la risacca infrangersi sui ciottoli della spiaggia. In lontananza il traghetto rollava attraverso le acque placide verso il porto, dal lato orientale dell’isola.
Childes ne seguì il lento avanzare con la mente altrove ed Amy dovette prendergli il viso e girarlo verso di sé. «Siamo qui per parlare, per favore dimmi cosa ti è accaduto sabato sera.» Si sporse in avanti e lo baciò accorgendosi con sollievo che il tremore gli era passato.
«Farò di meglio, ti mostro qualcosa!» disse lui allungando la mano per raccogliere il giornale sul sedile posteriore. «Guarda qui!» disse, indicando il foglio.
«DISSACRATA LA TOMBA DI UN BIMBO» lesse lei ad alta voce, ma poi si zittì continuando a leggere incredula. «Oh, Jon! Ma è terribile. Chi può fare cose del genere, fare a pezzi il corpicino di un bimbo, ma…» Ebbe un fremito e distolse lo sguardo dalla pagina. «È una cosa oscena.»
«È quello che io ho visto Amy!»
Lei lo guardò senza capire, i capelli biondi mossi dalla brezza.
«Ero lì, accanto alla tomba. Ho visto quel corpo mentre veniva violato, ero quasi partecipe in qualche modo.»
«No! Tu non potresti mai…»
Lui le strinse un braccio. «Ho visto tutto, a un certo punto ero in contatto con la mente della persona che lo stava facendo.»
«Ma come?». La domanda rimase sospesa a mezz’aria.
«Come prima. Proprio come l’altra volta. La sensazione di essere dentro l’altra persona, di vedere tutto con i suoi occhi. Ma io non c’entro. Non ho controllo. Non posso fermare quello che succede.»
Amy era spaventata dal suo improvviso sguardo di terrore e lo abbracciò parlandogli dolcemente. «Va tutto bene Jon, non ti può accadere niente, tu non ne fai parte, ciò che succede non ha nulla a che fare con te.»
«Avevo dei dubbi in merito l’altra sera» disse lui riprendendosi. «Mi chiedevo se per caso non stessi ricordando qualche violenza che avevo commesso io, certi fatti che poi il cervello aveva provveduto a cancellare.» Indicò col dito il giornale. «Poi questo mi ha fatto ricredere: è accaduto in Inghilterra la sera che ero a casa vostra. Per lo meno questo è un sollievo.»
«Se solo fossi stata con te, ieri, te l’avrei fatta passare io quella stupida idea.»
«No, parlare non sarebbe servito, avevo bisogno di stare solo.»
«Condividere i problemi serve sempre.»
«Il problema è qui dentro», disse lui toccandosi la fronte.
«Tu non sei pazzo.»
Lui sorrise amaramente. «Questo lo so. Ma riuscirò a rimanere sano di mente se le visioni continuano? Dovresti saperlo, com’è, per capire che cosa vuol dire Amy, per capirne la paura. Quando passa mi sento lacerato dentro, come se mi avessero mangiato un pezzo di cervello.»
«È così che ti sentivi l’altra volta? In Inghilterra, intendo.»
«Già. Forse era peggio, era una cosa completamente nuova allora.»
«Quando trovarono l’uomo che aveva commesso i delitti, che cosa hai provato?»
«Sollievo, un incredibile sollievo. Come se avessero sollevato una coltre nera, come se ad un tratto mi avessero messo degli occhiali da sole dopo un lungo periodo in un deserto assolatissimo. Ma stranamente il sollievo arrivò prima che la polizia rintracciasse l’assassino; vedi, io ho avvertito l’esatto momento in cui lui si tolse la vita, perché in quel momento la mia mente fu come liberata, è stata la sua morte a rendermi libero.»
«Ma perché proprio lui. Perché quell’assassino, solo lui? Te lo sei mai chiesto?»
«Certo, ma non sono mai arrivato ad una risposta soddisfacente. Ho avuto altri presentimenti ma niente di speciale, niente che si potesse definire ESP, percezioni extrasensoriali, niente di quel genere. Tutte cose normali, che tutte le persone hanno: tipo quando suona il telefono sapere chi chiama prima ancora di rispondere, oppure quando ci si perde sapere qual’è la direzione giusta. Cose semplici, che capitano a tutti, niente d’eccezionale.» Si girò sul sedile seguendo con gli occhi un gabbiano librarsi controvento. «I veggenti dicono che la nostra mente è come una radio sintonizzata di continuo sulla stessa lunghezza d’onda di altre menti: ebbene si vede che lui stava trasmettendo su di una frequenza che solamente io potevo ricevere, l’eccitazione che sentiva nell’uccidere esaltava la trasmissione, ne aumentava la potenza al punto che la ricevevo bene.» Il gabbiano ora planava, le ali tese al sole biancheggiavano nel sole.
Childes guardò di nuovo Amy. «È una teoria stupida però. Ma non riesco a trovarne un’altra di migliore.»
«Non è stupida affatto, stranamente mi sembra logica. Una forte emozione, uno shock può indurre ad una comunicazione di tipo telepatico tra le persone, questo è risaputo. Ma adesso cos’è che succede? Cos’è che ha dato il via a queste comunicazioni psichiche, stavolta?»
Childes ripiegò il giornale e lo gettò sul sedile posteriore. «Dev’essere come prima, ho captato un’altra frequenza.»
«Devi andare alla polizia.»
«Stai scherzando! Ciò che è successo l’altra volta ha distrutto il mio matrimonio e mi ha fatto scappare come un coniglio. Pensi veramente che abbia voglia di riprovarci?»
«Non hai alternative.»
«Certo che ne ho, posso starmene zitto e pregare che non succeda più.»
«L’altra volta non fu così!»
«Per quello che ne so non ha ammazzato ancora nessuno.»
«Per quello che ne sai tu! Cos’è successo l’altra settimana quando hai visto qualcosa che ti ha sconvolto al punto tale che quasi annegavi?»
«Era solo un ammasso confuso di cose, non lo so proprio cos’era.»
«Forse era un omicidio?»
«Non posso rovinare tutto andando alla polizia. Che possibilità avrei al La Roche o nelle altre scuole se si venisse a sapere che c’è una specie di pazzoide veggente che insegna sull’isola? Victor Platnauer mi sta già prendendo di mira e non voglio proprio dargli il pretesto per spararmi.»
«Platnauer?»
Lui le spiegò per sommi capi l’incontro con Estelle Piprelly.
«Ho paura che ci sia lo zampino di papà in questa faccenda.» disse lei quando ebbe finito di raccontare.
«E gliene hai parlato tu a tuo padre? Scusa, non volevo essere brusco, non c’è motivo che tu abbia dei segreti in famiglia, non voglio rimproverarti se è così.»
«Ha chiesto alla polizia di indagare sul tuo caso. Io non c’entro per nulla.»
Childes sospirò. «Avrei dovuto saperlo. Purché noi ci separiamo. Vero?»
«No, Jon. È solo preoccupato del mio avvenire, di chi frequento.» rispose lei con una mezza bugia.
«Beh, non posso dargli torto se si preoccupa.»
«Non ti si adatta la parte del mediatore». Gli carezzò il bavero della giacca, una smorfia le indurì l’espressione. «Penso sempre che dovresti andare alla polizia. L’ultima volta hai potuto dimostrare di non essere un mitomane, no?»
Lui le strinse le dita agitate. «Aspettiamo un pochino ancora, eh? Queste visioni… potrebbero non essere nulla, potrebbero scomparire.»
Amy si voltò e mise in moto. «Dobbiamo tornare» disse; poi aggiunse: «E se non andassero via? Se peggiorassero? Jon, e se ammazza qualcuno?»
Lui non trovò alcuna risposta.
Quando sentì la voce squillante di Gabby, Childes assunse nella voce un tono fintamente normale. «Pronto.» disse lei.
«Con chi parlo, scusi?» giocò lui, allontanando i pensieri cupi.
«Ma papàaa!» rispose lei, abituata al gioco. «Indovina che è successo a scuola oggi.»
«Vediamo un po’… avete sparato alla maestra?»
«Noo!»
«La maestra ha sparato a voi?»
«Sii serio, su.»
Lui sorrise della piccola frustrazione, la vedeva in piedi accanto al telefono col ricevitore attaccato all’orecchio, gli occhiali scesi sul naso come sempre.
«Allora dimmelo tu, saputella.»
«Beh! Abbiamo portato le nostre ricerche del trimestre e la signorina Hart ha fatto vedere la mia a tutta la classe perché era proprio bella.»
«Quella sui fiori spontanei?»
«Ma sii, te l’ho detto la settimana scorsa.» rispose la bimba, quasi arrabbiata.
«Ah, sì, me n’ero quasi dimenticato, sai com’è… allora le era proprio piaciuto, eh? Sono proprio contento!»
«Sì! E Annabel ha preso un voto di meno, però l’aveva copiato un po’ dal mio, mi sa! Io ho preso un 10 e lode, lei 10, che però va bene lo stesso, no?»
Lui ridacchiò. «Splendido.»
«Poi la signorina Hart ci ha promesso che la settimana prossima andiamo tutti su un grande autobus al parco dell’amicizia, dove hanno le scimmie nelle gabbie e un lago con le barche e gli scivoli e le robe.»
«Hanno le scimmie sull’autobus?»
«Ma no, al parco, scemo! Mamma ha detto che mi prepara il pranzo al sacco e mi dà dei soldi da spendere.»
«Che bello, e lei viene con te?»
«No, è solo roba per la scuola. Ci sarà tempo buono secondo te?»
«Penso proprio di sì, adesso è già abbastanza caldo, no?»
«Spero proprio di sì, anche Annabel. Vieni a trovarmi presto?»
Come sempre la domanda venne, inserita a sorpresa, senza che lei si rendesse conto di quanto riuscisse a ferirlo.
«Spero di sì, tesoro, forse a metà trimestre, o forse vieni tu a trovarmi qualche giorno se la mamma può.»
«In aereo? La barca mi dà fastidio, ci mette troppo, e poi mi fa male al pancino.»
«Certo, in aereo. Potresti fermarti anche di più, fino al giorno in cui inizia la scuola.»
«Posso portare la mia micia? Sennò soffre di solitudine!» La gatta nera di Gabby le era stata donata per il suo terzo compleanno. Poi lo sviluppo della gatta aveva subito preso il suo ritmo naturale sorpassando in poco tempo la crescita della bambina, i comportamenti da cucciolo avevano ben presto ceduto all’altera presunzione tipica della sua razza molto prima che Childes se ne andasse.
«Non mi pare una buona idea, e poi la mamma si sentirebbe sola senza compagnia, ti pare?». Non vedeva la figlia da sei mesi e si chiedeva quanto potesse essere cresciuta; Gabby sembrava crescere a sbalzi, sorprendendolo ogni volta che la vedeva.
«Sì, forse hai ragione, volevi parlarci con la mamma?»
«Sì grazie!»
«Non c’è. Se vuoi ti passo Janet; è lei che bada a me adesso.»
«Oh, va bene, passami un attimo Janet.»
«Vado a chiamarla. Ciao papà. A proposito, ieri ho spruzzato la micia di porporina per farla luccicosa.»
«Scommetto che si è divertita un mondo.»
«No, invece! S’è incavolata un sacco e starnutisce di continuo e mamma dice che non gliela togliamo più.»
«Chiedi a Janet di passarle l’aspirapolvere addosso, vedrai che il grosso lo toglierete, sempre che riusciate a tenerla ferma.»
Gabby fece una risatina allegra. «Scommetto che si arrabbia da matti, dico a Janet che le vuoi parlare, va bene?»
«Brava!»
«Ciao pà, ti voglio bene!»
«Ti voglio bene anch’io.» rispose, sentendo il ricevitore sbattere prima ancora che avesse finito. Si sentirono i passetti risuonare in lontananza e la vocina gridare.
Altri passi, più pesanti, poi il ricevitore fece di nuovo un fruscio.
«Signor Childes?»
«Ciao Janet, come va?»
«Bene! Fran è al lavoro fino a tardi, quindi l’aspetto. Sono andata a prendere Gabby a scuola come d’accordo.»
«Per il lavoro tuo come va?»
«Niente ancora! Comunque ho un paio di colloqui la settimana prossima, non proprio quello che cerco ma a questo punto mi va bene tutto! Facciamo le corna.»
Lui le espresse la sua solidarietà. Janet era una ragazza sveglia ma con poche qualifiche. Con le difficoltà di impiego che c’erano, lei così giovane e inesperta, figuriamoci!
«Voleva lasciar detto qualcosa a Fran?» chiese Janet.
«No, no. Volevo parlare con Gabby. Chiamerò domani caso mai.»
«Le dirò che ha chiamato.»
«Sì, grazie Janet, e buona fortuna per i colloqui.»
«Mi ci vorrebbe proprio. Arrivederci signor Childes.»
La linea tornò muta e lui si ritrovò da solo nel cottage. C’era sempre una sorta di brutalità nel riattaccare il telefono in quei casi. La mano ferita gli faceva male, pulsava. La gola era estremamente secca. Rimase in piedi accanto al telefono per qualche momento. I suoi pensieri correvano alla bimba poi all’ispettore di polizia che si era occupato del caso dei bambini trucidati anni prima, e che era riuscito con il suo aiuto a rintracciare l’assassino maniaco. Le sue dita presero il ricevitore ma non riuscì a fare il numero. Amy aveva torto, non c’era motivo di chiamare la polizia. Cosa poteva dirgli? Non era ceno in grado di individuare la persona che aveva disseppellito il bimbo morto, non aveva nemmeno un indizio riguardo al dissacratore, né su dove potesse essere. Fin quando non aveva letto il giornale non sapeva nemmeno cosa fosse successo o se fosse accaduto in Inghilterra: aveva, sì, creduto che la visione fosse vera, non una fantasia, ma gli era sembrata più vicina, sull’isola. No, non aveva niente da dire alla polizia, proprio niente. Staccò la mano dal telefono.
La nascita di Gabby era stata difficile, un trauma.
Era uscita dall’utero a piedi in avanti di un colore blu violaceo tanto da aver quasi fatto svenire di paura Childes che era rimasto a fianco di Fran durante l’intero parto. Aveva pensato che un cosino così fragile e raggrinzito e di quel colore poi, non avrebbe mai potuto sopravvivere. L’ostetrica l’aveva capovolta estraendole del muco dalla cavità orale senza avere il tempo di rassicurare i genitori: si curava solo della vita del neonato. Riuscì a liberare la piccola dall’ostruzione, quindi soffiò forte nella piccola gola per stimolarne il respiro. Il primo grido fu appena un flebile lamento quasi impercettibile ma riuscì a dare sollievo a tutti i presenti, medici, infermieri e genitori compresi. Era stata fasciata e posta sul seno della madre, il cordone ombelicale reciso con destrezza. A quel punto Childes, che era mentalmente esausto quanto Fran lo era tìsicamente, sentì crescergli dentro una calda sensazione d’orgoglio e mentre le guardava le stanchezza gli si trasformò in una serena rilassatezza.
Fran aveva i lineamenti stravolti dalla fatica, invecchiati, la bimba ancora sporca e umida di sangue aveva il viso accartocciato e segnato come quello di un vecchio, ma ambedue riposavano dopo la battaglia per la vita. Lui si era chinato su di loro attento a non schiacciarle ma con il bisogno di sentirle vicine. L’odore sterile dell’ospedale si mischiava al puzzo di sudore e in quel momento lui pensò che nulla avrebbe potuto mai distruggere il loro sodalizio, la loro unità.
Durante le settimane successive era come se Gabby emergesse lentamente da un lungo e terribile trauma, ed era in fondo così, una transizione dal semplice esistere alla coscienza dell’essere. Egli iniziò allora a capire quale shock si accompagna sempre alla vita.
Il sonno si prendeva buona parte della sua vita in quei primi giorni, concedendo momenti dolcissimi in cui imparare, assorbire, alimentarsi; la trasformazione che si andava compiendo era meravigliosa ed affascinante da osservare. La sua crescita era per lui un miracolo, passava ore intere semplicemente a guardarla, vederla crescere, diventare una bimbetta che camminava con le gambette incerte, che aveva un grande amore per il proprio pollice e per uno straccio che una volta era stata la copertina della culla. La sua prima parola lo aveva deliziato anche se non era stata ‘papà’, e quel bisogno assoluto di lui e di Fran accompagnato da un amore senza remore aveva influito anche in altri campi della sua vita. Gabby gli aveva insegnato che tutti gli essere viventi sono altrettanto vulnerabili; la carriera inesorabile in un settore asettico fatto di macchine e teorie aveva smorzato in lui questa sensibilità.
Questa riscoperta passione lo aveva quasi distrutto quando aveva visto con la mente l’uccisione di quei poveri bambini.
Dopo tre anni quelle immagini lo sconvolgevano ancora e ora erano più vivide e potenti.
Childes aveva passato la serata preparando esercizi per la lezione del giorno dopo, quel martedì pomeriggio che aveva promesso alla Piprelly e che era già operativo. Tra non molto ci sarebbero stati gli esami e l’informatica ne avrebbe fatto parte. Era irritato dal fatto che i suoi pensieri continuassero ad andare a Gabby, agli anni di felicità che aveva trascorso in famiglia, anche se Fran non aveva mai del tutto rinunciato all’idea di riprendere la sua carriera di PR. Erano avvenute però troppe cose che avevano rovinato quella breve felicità, e gli anni successivi non erano stati sufficienti a disperdere l’angoscia.
Fissò senza vederli i fogli sparsi sul tavolino di fronte a lui, la lampada da tavolo gettava all’intorno ombre cupe. Dormiva Gabby? Con gli occhiali accanto al cuscino per darle sicurezza? Guardò l’orologio, le nove e mezza. Doveva essere a letto. Chissà se Fran leggeva ancora una storiella per farla addormentare, ma forse di questi tempi era troppo impegnata, troppo stanca quando arrivava a casa. Childes raccolse le carte pensando preoccupato al fatto che quando aveva fatto un giro di domande botta e risposta alle ragazze, alcune di loro non avevano ancora capito la differenza tra computer digitali ed analogici, o che ve ne erano di misti. Roba facile, basilare, che non avrebbe dovuto creare problemi. L’idea degli esami era un dramma, confidava comunque che gli esercizi pratici avrebbero sortito risultati migliori della teoria.
Si passò una mano sugli occhi stanchi, le lenti parevano carta vetrata sulle pupille. Cibo, pensò, dicono che il cibo faccia bene. Sono stanco, tanto. Un panino, va’! E un bicchiere di latte, anzi forse un bicchierino di qualcosa di forte.
Stava per alzarsi quando un dolore gelido, lancinante, lo colpì dentro la testa.
Childes si mise entrambe le mani sulle tempie stordito dall’inaspettata sensazione. Strinse gli occhi, cercò di liberarsi dal gelo. Ma invano.
Fuori udiva il vento far frusciare le fronde degli alberi. Da qualche parte scricchiolò una trave che si assestava dopo il tepore della giornata.
Il dolore si attenuò e lui scosse la testa come se avesse avuto le vertigini. Troppo scrivere, pensò, troppa concentrazione, fino a tarda ora. Un concentrarsi disturbato dai pensieri di Gabby. E di altre cose.
Un goccetto potrebbe farmi rilassare un poco. Si alzò, premendo con le mani sulla scrivania. Il gelo gli prese di nuovo i nervi facendolo ondeggiare; si attaccò al bordo della scrivania per sorreggersi.
I pensieri gli si accavallarono nella testa, il gelo ora somigliava a delle dita che gli frugassero nella mente, cercando di carpirgli i pensieri e… e… sembrava… nutrirsene. Le spalle gli si incurvarono, la testa appesantita. Le labbra si ritirarono come per un dolore, ma non vi era dolore, solo quel terribile gelo e la confusione mentale. Gli sfuggì un grugnito.
Poi la mente gli si liberò. Rimase in piedi appoggiato alla scrivania, il respiro pesante, aspettando che passasse del tutto. Sembrò un tempo molto lungo, eppure Childes sapeva che erano stati solamente pochi secondi. Attese che i nervi scossi si quietassero poi attraversò la stanza e si versò un bel po’ di whisky. Stranamente non sapeva di niente.
Il sorso successivo quasi gli andò di traverso, il sapore era tornato forte. Sputando si passò il dorso della mano sulle labbra. Che accidenti gli capitava? Assaggiò di nuovo la bevanda stavolta con attenzione, a piccoli sorsi. Si sentì riscaldare.
Childes si guardò attorno incerto di quel che cercasse, sentendo però un’altra presenza. Sciocco, non c’era nessuno oltre a lui nella stanza, non era entrato nessuno di nascosto mentre lavorava alla scrivania.
Le ombre gettate dal lume lo infastidirono e si diresse verso l’interruttore sul muro accanto alla porta, allungò la mano fasciata per accendere la luce centrale, poi si guardò le dita sorpreso del formicolio improvviso che avvertiva, come se avesse preso una scossa prima ancora di toccare l’interruttore. Guardò poi l’altra mano mano che reggeva il bicchiere di whisky; anche quella ora formicolava, sembrava anzi che fosse il bicchiere stesso a tremare. Quelle invisibili, insidiose dita ripresero a frugare.
Il corpo gli cedette e si lasciò andare sul divano accasciandosi nella sua morbidezza come se portasse un peso. Il bicchiere cadde a terra, il liquido si sparse sul tappeto. Childes chiuse gli occhi sentendo aumentare il senso di intrusione. Tante immagini gli vorticavano nella mente, matrici numeriche, visi, la stanza in cui era ora, numeri, simboli, sparivano e riapparivano, avvenimenti del passato, il suo stesso viso, la sua anima, le paure, sogni dimenticati da tempo venivano richiamati e frugati a fondo.
Fece un lamento, cercò di allontanare quei tentacoli di ghiaccio, imponendosi di rimanere calmo, volendo che la confusione cessasse.
I muscoli di Childes si rilassarono un poco quando il gelo si attenuò di nuovo. Il torace si sollevava e abbassava in modo convulso. Guardò le ombre sull’altra parete. Qualcosa, qualcuno stava cercando, stava cercando di conoscerlo.
Quasi senza intervallo quel frugare riprese, facendogli tendere il corpo, infiltrandosi nella sua coscienza. NO! urlò la sua mente. «No!» urlò lui davvero. Ma era lì, dentro di lui, cercava, gli succhiava i pensieri. Lui ne sentiva la presenza, che gli frugava dentro come una specie di ladro psichico. Lo invase tutto osservandogli i pensieri, dell’isola, delle scuole in cui insegnava, pensieri di Amy, di Fran, di… Gabby. Di GABBY!
Sembrò indugiare interessato.
Childes si tirò su dal divano lottando contro quella coscienza estranea, strappando ognuno dei gelidi tentacoli quasi fossero entità fisiche. Sentì che allentavano la presa e lo sforzo lo fece cadere in ginocchio. Si sforzò di fissare il pensiero su una foschia biancastra, nient’altro, niente che potesse distrarlo o dare un appiglio all’intruso; dopo un poco la testa sembrò sgombrarsi.
Ma prima di sentire un vero e proprio sollievo, che lo lasciò esausto e tremante sul pavimento, sentì un suono così reale che si guardò intorno fin negli angoli più bui della stanza.
Era solo. Ma quella sinistra risata repressa sembrava vicina.
Jeanette era in ritardo. Le altre ragazze della camerata erano già tutte scese e lei era ancora lì in vestaglia a spazzolarsi vigorosamente i denti.
Ma proprio oggi accidenti! Esami! Bleah! Matematica! Jeanette era ormai convinta di essere una capocciona quando si trattava di numeri.
La luce del mattino inondava il bagno facendo luccicare la fila di lavandini di porcellana; l’acqua era sparsa in piccole pozzanghere sul pavimento di piastrelle testimoniando delle abluzioni delle ragazze. Era sola, preferiva così: le altre la mettevano in imbarazzo quando confrontavano dimensioni e forme del loro seno tutte ansiose di primeggiare nella gara verso l’adolescenza compiuta. Jeanette era buona ultima, molto indietro rispetto alle altre tredicenni e quattordicenni della sua classe e non ci teneva affatto a fare confronti. Questo stato di inadeguatezza era aumentato dal fatto che non le erano ancora venute le mestruazioni.
Jeanette si sciacquò la bocca, sputò nel lavandino e si asciugò il viso con un asciugamano. Poi buttò alla rinfusa le cose da toilette nella borsetta di plastica rosa. Saltellò con i piedi nudi fino alla porta e quasi scivolò sul pavimento, poi percorse il corridoio in ombra lasciando impronte umide mentre correva sull’impiantito di legno. Era vietato camminare a piedi nudi a scuola ma non aveva avuto tempo di cercare le pantofole disperse sotto il letto, e poi tutti, compreso il personale, erano giù a fare colazione.
Faceva freddo nella camerata che divideva con altre cinque ragazze, nonostante il sole fuori fosse già alto. Jeanette stese rapidamente sul letto disfatto gli indumenti, mutandine rigorosamente blu, come da regolamento, maglietta bianca. Si lasciò scivolare dalle spalle la vestaglia imbottita, si strappò via il pigiama senza sbottonarlo e lo lanciò sul letto accanto ai vestiti. Si strofinò le braccia per farsi passare l’improvvisa pelle d’oca e allungò il braccio per raccogliere la maglietta. Prima di infilarsela si guardò il torace e sospirò delusa. I capezzoli erano evidenti, ora eretti a causa del freddo, ma quei leggeri gonfiori da cui sporgevano non erano certo soddisfacenti. Si pizzicò i capezzoli per farli indurire di più e massaggiò i gonfiori sperando che ciò favorisse la loro crescita. Una leggera sensazione di caldo piacere la pervase tutta e lei s’immaginò di avere un seno già formato. Si sedette sul letto con ancora indosso i pantaloni del pigiama premendo sotto le mani i due gonfiori. Era piacevole e lei pensò che forse poteva… no, non c’era tempo per quella roba, era già abbastanza in ritardo.
Tirò via il pigiama e si infilò rapidamente le mutandine, la maglietta e le calze bianche recuperate in fondo al cassetto accanto al letto. Dato che il tempo andava facendosi bello le ragazze del La Roche avevano avuto il permesso di indossare le divise estive, vestitino azzurro con maniche corte. Jeanette se lo infilò e poi le scarpe, che avevano bisogno di una buona lucidata. Rimise in ordine il letto nascondendo sotto le lenzuola gli indumenti da notte. Poi prese una spazzola strapazzandosi i capelli ingarbugliati facendo smorfie di dolore. Il piccolo specchio bordato di blu con una farfallina dipinta in un angolo rifletteva il risultato, non del tutto soddisfacente. Nonostante la fretta Jeanette cercò i segni di qualche fioritura notturna. Aveva quasi del tutto eliminato la cioccolata dalla sua dieta, e faceva di tutto per finire tutte le verdure che le venivano date fino a sfiorare quasi la nausea, eppure puntualmente quei maledetti foruncoli apparivano ogni volta che c’era qualche occasione particolare. Ma oggi non era un giorno speciale, solo quegli accidenti di esami, e la sua pelle era pulita, senza un segno. Avrebbe scommesso chissà che cosa che il giorno del suo matrimonio ce ne sarebbero stati in quantità e lei avrebbe dovuto portare il velo per tutta la durata della cerimonia con addosso la paura di baciare il suo sposo a cui lei sarebbe sembrata come un gelato alla crema con dentro pezzi di fragola.
Jeanette avvicinò ancora di più lo specchio guardando i propri occhi scuri, sognando di poterci leggere il suo futuro. Era stata spesso sgridata, sia dai genitori che dai docenti perché, passava troppo tempo a sognare e troppo poco a pensare; aveva tentato di pensare alle cose serie ma dopo qualche minuto i pensieri le sfuggivano e si perdevano in fantasie. Ci provava, ci provava tanto, ma sembrava che i suoi pensieri avessero una volontà tutta loro. Vedere il cielo attraverso una finestra significava immaginare di volare sopra gli alberi, sopra le onde increspate di bianco, non come un uccello ma come uno spirito libero. Il sole sul viso la portava in deserti assolati, spiagge dorate, giornate calde trascorse… e la parola la faceva eccitare terribilmente… con il suo amante. Odorare il profumo di un fiore dava corso a tutta una serie di pensieri sull’origine della vita, animali piccoli e grandi, e di cos’era lei. Vedere la luna…
Un’ombra le passò dietro.
Si girò ma non c’era nessuno, solo lei, la camerata era vuota.
Poster e ritagli di giornale lastricavano i muri con cantanti pop, attori, tennisti, tagli di capelli, modelli di vestiti, e stupidaggini varie. C’erano un paio di orsacchiotti e di bambole rappezzate, tenute più come mascotte che per la tenera compagnia che avevano fatto negli anni precedenti. Delle sculture mobili appese sopra ai letti rotearono come se ci fosse stata una brezza.
Non c’era nessuno, eppure Jeanette sentiva una presenza.
Le tornò la pelle d’oca sulle braccia. Il sole sembrava meno luminoso. Si scostò dall’armadietto e con passi cauti passò tra le file dei letti tenendosi bene al centro, controllando l’ombra sotto ognuno di essi come se dovesse uscirne una mano per agguantarle la caviglia. Poi accelerò il passo verso la porta.
Con un balzo fu fuori, si voltò a guardarsi indietro, ma non vide altro che una camerata vuota piena di poster colorati, imbottite vivaci sui letti vuoti. Il sole riempiva la stanza disperdendo le ombre.
Non c’era proprio nessuno. Lei comunque si allontanò di corsa.
Allargò le gambe sopra di lui scuotendo vigorosamente i capelli, inondandolo di goccioline salate. Lui aprì un occhio schermandolo con la mano dai raggi ancora forti, nonostante fosse pomeriggio inoltrato. La pioggia di gocce sul petto lo rinfrescò gradevolmente.
«Com’è?» chiese Childes.
«Fredda!» rispose Amy inginocchiandosi accanto a lui, mentre strofinava rapidamente i capelli con un grosso asciugamano di spugna. «Ma stupenda. Perché non fai un tuffo anche tu?»
Lui richiuse gli occhi e rispose pigramente. «Troppa fatica togliermi le lenti». Non accennò al fatto che era da quella disgraziata volta quando erano andati a pesca che non nuotava. Quel quasi annegamento di un mese prima lo aveva lasciato piuttosto timoroso dell’acqua.
«Ma dai! Staresti bene dopo una bella rinfrescata.» Gli piazzò una mano umida sulla pancia ridendo della immediata contrazione dei suoi muscoli.
Lui la tirò verso di sé godendo del suo corpo bagnato, del sapore di sale e di mare. «Devo riposarmi, non sforzarmi.»
«Riposarti? Ma se non fai proprio niente da una settimana, grazie agli esami.»
«Giusto, e non intendo che cambi.»
Amy si avvolse nell’asciugamano lasciando cadere i lembi attorno ai loro corpi stesi. Premendogli sul torace gli mordicchiò le labbra. «Bello!» fece lui. «È come baciare un’ostrica.»
«Non ho capito bene se è un complimento o no». I lunghi capelli umidi bagnarono il viso di lui che si allungò a leccarle brevemente il mento.
C’erano poche persone sulla spiaggia a quell’ora, le orde di turisti inglesi ed europei non erano ancora arrivate, e la popolazione dell’isola era ancora alle prese con il lavoro quotidiano. L’insenatura aveva una bella striscia di sabbia dominata a un capo da un bunker tedesco a tre piani, un gigantesco monolite di calcestruzzo a ricordare le terribili e ancora recenti vicende. Rocce aguzze, che sembravano appena cadute dalla scogliera chiudevano l’altro lato.
«Hai fatto la pace con papà?» chiese Childes.
Amy sapeva bene che quell’uso della parola papà era teneramente scherzoso, una presa in giro del suo modo di chiamare il padre, e ormai non si offendeva più. «Beh, io tengo il broncio a lui e lui lo tiene a me. Ma alla fine dovrà accettare i fatti.»
«Non ne sarei troppo convinto, sai.»
«Non è mica un orco, Jon. Non ce l’ha con te personalmente.»
«A me era sembrato proprio di sì la settimana scorsa, quando ha messo la pulce nell’orecchio alla Piprelly.»
«Pip non si lascia dire quello che deve fare da nessuno. E comunque per essere giusti con papà… devi ammettere che qualcosina di strano nel tuo passato c’è.»
Lui sorrise arrotolandosi i capelli di lei attorno a un dito. «Ti turba ancora, eh?»
«Come non potrebbe Jon? Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. Sai quanto ti amo, come posso dimenticarmi certe cose.»
«Non è più successo niente, Amy, più niente dalla cena. Non sono più tanto a disagio, non salto più su per un nonnulla. Non so spiegartelo ma è come se mi fossi tolto un grosso peso, per adesso almeno.» Non le aveva detto niente di quella sera da solo nel cottage quando quella strana tensione nella sua mente lo aveva messo in ginocchio. Nei giorni successivi quella sensazione di angoscia si era andata dissolvendo come se dall’esterno qualcuno alleggerisse un peso, una fattura malefica. Egli sentiva che la minaccia lo aveva scansato. Nonostante ciò l’eco di quella risata maligna gli risuonava ancora nella mente.
«Lo spero Jon» disse Amy per concludere il discorso, allontanando gli ultimi dubbi. «Io preferivo il vecchio Jon, quello che avevo incontrato allora. Tranquillo, senza problemi, alle volte buffo…», gli tirò dolcemente i capelli, «alle volte sexy.» Lui la prese per i capelli tirandola a sé, la baciò sulle labbra teneramente poi con furia crescente, le lingue si cercavano freneticamente rincorrendosi nelle loro bocche umide. Il corpo di lei si avvinghiò al suo con foga.
«Ehi, andiamo piano,» disse lui ansimando, «ho solo il costume addosso e siamo in un luogo pubblico.»
«Non ci vede nessuno» fece lei carezzandogli il collo e premendolo forte con le cosce.
«Non si comporta così una collegiale.»
«La scuola è finita.»
«Anch’io sarò finito se continui così.»
«Uh. Fai vedere se si è svegliato.»
«Amy!» l’ammonì lui.
Lei ridacchiò.
«Che pudico che sei!» disse tornando a spazzolarsi i capelli.
Lui si tirò su accovacciandosi e nascondendo le gambe tra le braccia.
«Vergogna!» lo prese in giro.
«Mi sta venendo un’idea!» disse lui allusivo.
«Ah sì?!» rispose lei ancora scherzosa, ma con la voce leggermente arrochita.
«Perché non vieni da me ad asciugarti per bene. Se non devi andare a casa.»
«In effetti avevo detto che sarei rientrata per la cena.»
«Ah, è così eh? Hai da fare.»
«Io no, ma pensavo che forse tu…?»
«Qualche ideuccia ce l’avrei…»
Andarono in auto fino al cottage, non si curarono di rivestirsi, appena riprendeva a fare caldo sull’isola erano frequenti le scene di persone seminude alla guida di automobili. Arrivarono presto al cottage di pietra grigia.
Amy rabbrividì mentre Childes richiudeva il portoncino. «Fa freschino qui dentro» esclamò.
«Ti prendo la mia vestaglia e ti faccio un drink.»
«Vorrei anche lavarmi di dosso questa salsedine.»
«Ti prendo la vestaglia, ti faccio un drink, e ti preparo il bagno.»
Lei lo abbracciò e lo baciò sulla punta del naso. «Tu pensa solo ai drink.»
La strinse alla vita, tirandola a sé, cercando le sue labbra con le sue.
Amy rispose al bacio con eguale fervore, lo sentì duro contro il suo ventre, ma si liberò prima che le cose si facessero serie. «Lasciami fare il bagno» gli disse con il fiato corto.
«Sei appena uscita dal mare, più pulita di così!»
Lei si voltò. «Prepara i drink e leggiti la posta. Ci metto un attimo.» Sparì nel bagno prima che lui potesse protestare ancora. Lui andò a raccogliere le lettere sullo zerbino dell’ingresso. La busta rosa con su Snoopy attirò la sua attenzione, e sorrise nel riconoscere la scrittura infantile. Si infilò la camicia che era rimasta appesa alla ringhiera delle scale con il resto delle loro cose, entrò nel soggiorno, gettò le altre due buste sul tavolino. Mentre attraversava la stanza aprì la lettera. Gabby gli scriveva almeno una volta la settimana, delle volte lunghe lettere piene di informazioni, altre, come questa, brevi, appena qualche rigo; era il suo modo di tenere aperto il canale di comunicazione, nonostante i molti chilometri di distanza. La micia aveva ancora gli sbrilluccichii, Annabel aveva la vallicella, e la mamma aveva promesso di insegnarle a fare i dolcini delle fate al fine settimana. Childes portò alle labbra la fila di XXXX: era un loro segreto, ad ogni X corrispondeva un bacio sulla carta.
Dal bagno arrivava lo scroscio dell’acqua; egli rimise il foglio nella busta riponendo il tutto in un cassetto. Versò un whisky per sé e un Martini per Amy poi si avviò verso la cucina in cerca di ghiaccio: lei stava giusto entrando nella vasca quando lui entrò nel bagno per darle il Martini. Si fermò sulla porta a guardarla ammirandone la pelle appena abbronzata, la snellezza delle gambe e del corpo, le lunghe dita delicate che stringevano il bordo della vasca. I capelli di lei ancora umidi di acqua di mare pendevano in lunghe ciocche ingarbugliate attorno al viso e sulle spalle. Gli occhi verde chiaro si chiusero quando si lasciò affondare lentamente nell’acqua calda e sospirò di piacere sentendo il calore che la sommergeva. Le punte dei piccoli seni sporgevano dall’acqua.
Childes chiuse l’acqua e le porse il drink. Lei aprì gli occhi e sorrise prendendo il bicchiere. Toccarono i bicchieri e sorseggiarono le bevande mentre la mano di Childes accarezzava la levigatezza della sua pelle a fior d’acqua fino a raggiungere la fine peluria tra le gambe.
Amy trattenne il respiro e si strinse il labbro inferiore tra i denti. «Bello» mormorò appena, mentre la mano di lui si soffermava. Lui si chinò in avanti baciandole un capezzolo mentre lei gli carezzava languidamente i capelli. La mano scivolò lungo la spina dorsale dove senza fretta lo massaggiò sotto la camicia e fu lui ora a mugolare di piacere. Le labbra di lui trovarono il suo collo e mordicchiarono teneramente i rilievi dei tendini costringendola a voltare la testa con un brivido di piacere.
Lui si rilassò volendo ancora protrarre l’attesa. Lei girò la testa per guardarlo e disse semplicemente: «Ti amo!». Nel suo sguardo una luce serena.
Lui la baciò di nuovo, sfiorandola appena, scostandole i capelli dal viso. «C’è un letto bello comodo di sopra» le bisbigliò.
Amy abbassò gli occhi come per un ritorno di timidezza. «Mi piace stare con te». Sorseggiò il Martini godendo del calore del liquido dentro di sé. Lui la aiutò a spargersi lo shampoo nei capelli sciacquandoli poi con l’acqua raccolta nel bicchiere di whisky ormai vuoto. Poi le strofinò la schiena con un asciugamano: tutti i movimenti erano lenti e languidi, senza fretta o vigore. Poi la tirò su dall’acqua e lei gli si mise davanti, una figura dorata e sottile, tanto innocente nella propria nudità quanto sapiente era il suo sorriso. Childes la asciugò strofinandola con il telo da bagno, arrivando alle gambe che si aprirono leggermente per permettergli di passare; lui si fermò per baciarle il ventre, le anche, le cosce e il pube dove era umida ma non solo per il bagno.
«Jon». La voce aveva ora una nota di leggera urgenza. «Andiamo di sopra ora.»
Lui si alzò e le porse l’accappatoio blu scuro appeso dietro la porta, glielo avvolse intorno alle spalle legando la cintura in modo che le braccia rimasero in trappola. «Tu vai avanti, io verso un altro bicchiere.»
Dal soggiorno sentì i passi nudi di lei, poi il cigolio del letto mentre lei ci si adagiava. Rapidamente riempì i bicchieri e salì le poche scale tralasciando questa volta il ghiaccio. Amy era ancora avvolta nell’accappatoio sdraiata sopra le coltri in attesa. Una gamba provocatoriamente nuda fino all’anca, la scollatura appena scostata a mettere in mostra la delicata curva dei seni.
Childes contemplò la scena prima di entrare, posò i bicchieri sul comodino e si sedette accanto a lei sul letto. Non parlarono ma si osservarono con gli occhi fissi uno sulle labbra dell’altro.
Infine Amy lo attrasse a sé togliendogli la camicia mentre cadevano. Le mani di lui si insinuarono sotto l’accappatoio dietro la schiena e le strinsero la carne. Si baciarono senza più controllo, le labbra aperte a cercare l’altro.Le mani di lei instancabili lo cercavano, lo frugavano lungo i fianchi, la schiena, le cosce, graffiavano, stringevano, incitavano. Lui le prese i seni morbidi, con la piccola punta dura e turgida che si strofinava contro le mani di lui.
Lo baciò sul petto con la punta della lingua guizzante provocandogli una piacevole tensione.
La mano di lui scivolò in giù verso le cosce, si infilò sotto il tessuto ruvido a stringerle le natiche rotonde, premendole con un movimento circolare delle dita. Amy mugolò e cadde sulla schiena, le gambe aperte alle sue carezze. La mano frugò in cerca del suo sesso umido e venne accolta con un gridolino. Lui si soffermò e la penetrò con le dita accordandole al movimento delle anche che lo invitavano. Ella si apriva a lui ed egli sondava con le dita quell’umido calore. Il pollice sfregava teneramente le parti esterne sensibili facendola ansimare mentre lo stringeva con tutto il corpo.
Il respiro di Amy si fece corto e rapido e lei grugnì di delusione quando lui la lasciò; voleva continuare, voleva ancora godere di quello sfregamento, ma egli la desiderava con urgenza, aveva bisogno di affondare in lei. Lei capì e lo aiutò a liberarsi degli ultimi vestiti prendendogli il membro da dentro il costume e guidandolo a lei.
Egli entrò senza difficoltà, un caldo scivolare umettato, ed entrambi mormorarono parole indistinte. Childes si fermò per guardarla in viso, per vederne l’amore, per dimostrarle il proprio. Si baciarono di nuovo ma la tenerezza cedette subito il passo a una passione più urgente.
Lui sentiva la calda morbidezza delle sue cosce intorno alle proprie, si chinò a baciarle i seni, si alzò sui gomiti per poterla guardare di nuovo: sotto di lui era magnifica. Accelerò i colpi in accordo alle spinte di lei, poi si accasciò, il mento premuto sul suo collo e lei avvertì la forza con cui la stringeva. I due corpi si muovevano frenetici l’uno nell’altro finché la stanza si riempì di gemiti di piacere e delle frasi spezzate di lei che lo incitavano ancora. L’ultimo grido rimbalzò sui muri seguito dall’ansimare di godimento che si andò poi lentamente spegnendo.
Dopo poco si separarono, ancora baciandosi. Giacquero sul dorso, lasciando calmare l’eccitazione, riprendendo lentamente fiato. Amy si riebbe più velocemente di lui e si voltò a guardarlo. Ne studiò il profilo, la curva del mento, la piccola gobba sul naso. Gli passò un dito sulle labbra socchiuse e lui lo morse dolcemente, il respiro ormai normalizzato.
«Ancora?» chiese lei maliziosamente.
Lui emise un gemito di spossatezza stringendola a sé. Lei appoggiò la testa sul suo petto.
«Qualche volta sembri una quindicenne sai?»
«Adesso?»
Lui annuì. «E qualche minuto fa anche.»
«Ti dispiace?»
«Affatto! Io so qual’è la verità, conosco la donna che è in te.»
«Vuoi dire la puttana che è in me?»
«No, la donna!»
Lo mordicchiò. «Mi fa piacere che ti piaccia.»
«Hai reso felice un vecchio signore.»
«Trentaquattro anni non sono proprio tanti.»
«Ho undici anni più di te.»
«Beh, sì. Ripensandoci undici anni sono parecchi. Forse dovrò cambiare i miei piani.»
«Avevi dei piani?»
«Diciamo dei progetti.»
«Perché non li racconti anche a me questi progetti?»
«Per ora no. Non sei ancora pronto.»
«Mi chiedo se tuo padre sarebbe d’accordo.»
«Cosa c’entra lui?»
«E una persona importante per te, e non credo che saresti contenta di averlo contro.»
«Certo che no. Ma io ho la mia vita da vivere, le mie decisioni da prendere.»
«E i tuoi errori da commettere?»
«Anche quelli. Ma perché sei tanto pessimista? Credi che il nostro amore sia un errore?»
Childes si alzò su un gomito e la fissò. «Oh no, Amy! Non lo credo affatto. È tutto magnifico, tanto che qualche volta mi spaventa, ho paura di perderti.»
Lei lo strinse più forte. «Eri tu che costruivi barriere insormontabili.»
«Eravamo tutti e due piuttosto freddini all’inizio.»
«Quando sei arrivato alla scuola eri un uomo sposato, anche se separato. E poi eri un po’ misterioso, ma forse è stato proprio questo ad attirarmi.»
«Mi ci è voluto un anno per chiederti di uscire.»
«Infatti ti ho invitato io, ricordi? Quella festa sulla spiaggia una domenica? E tu rispondesti che forse saresti venuto.»
Lui sorrise. «Già. Me ne stavo abbastanza appartato allora.»
«Lo fai ancora.»
«Non nei tuoi riguardi.»
Lei fece una smorfia. «Non lo so. C’è qualcosa in te che continua a sfuggirmi.»
«Amy, non vorrei sembrare noioso ma c’è molto di me stesso che perfino io non so. Dentro di me c’è qualcosa, non so bene cosa, nascosto in qualche piega, nell’ombra, qualcosa che dorme. Delle volte mi sembra un mostro in agguato. È una sensazione di disagio e strana, qualche volta mi chiedo se non sono forse un po’ pazzo.»
«Tutti abbiamo angoli nascosti nella nostra personalità. È proprio ciò che rende gli esseri umani così interessanti.»
«Ma questo è diverso. Questo è come… come…» Si rilassò, accorgendosi della crescente tensione del suo corpo. «Non riesco a spiegarlo,» disse alla fine, «posso dirti solo che è come se ci fosse uno strano potere, indefinibile, senza sostanza, quasi irreale. Potrebbe essere anche tutta fantasia. Ma io sento che c’è qualcosa di insondato, ma forse questa è una sensazione diffusa.»
Lei lo guardava attentamente. «In un certo senso sì. Ma questa tua sensazione ha a che fare con queste ‘visioni’, come le chiami tu?»
Lui ci pensò su prima di rispondere. «Mi sembra di sì. In quei momenti è più forte, sì.»
«Non hai mai cercato di capirne di più?»
«Come? Da chi vado? Da un medico? Uno strizzacervelli?»
«Da uno parapsicologo.»
«No, questo proprio no. Non ho intenzione di cadere in una trappola del genere.»
«Jon, è evidente che sei un sensitivo, allora perché non parlarne con un esperto?»
«Se tu solo avessi un’idea delle lettere, delle telefonate che ho ricevuto da sedicenti sensitivi, per non parlare poi di quelli che si sono presentati sulla porta di casa, tormentando la mia famiglia per tre anni.»
«Non intendevo quel tipo di persona. Volevo dire un parapsicologo vero, uno che studia seriamente questi fenomeni.»
«NO!»
Lei fu sorpresa dalla durezza della risposta. Rimase lì disteso, gli occhi rivolti al soffitto. «Non voglio essere analizzato, non voglio andare più a fondo. Voglio lasciare le cose come stanno, Amy, così forse questa faccenda finirà, scomparirà.»
«Perché hai tanta paura?»
Lui rispose con voce sommessa, tenendo gli occhi chiusi. «Perché io sento che se questo potere, questa capacità che io ho, venisse liberata, risvegliata, accadrebbe qualcosa di terribile, di terribile oltre ogni limite.» Aprì di nuovo gli occhi ma non la guardò. «Sì, qualcosa di terribile, e spaventoso» aggiunse.
Amy lo fissò in silenzio.
Più tardi quella stessa sera mentre Amy preparava la cena Childes passeggiò inquieto tra il soggiorno e la cucina. L’umore aveva risentito di quel loro discorso ma non la loro intimità. Lei era allo stesso tempo preoccupata e perplessa dalle affermazioni di Childes, ma decise di non insistere. Jonathan aveva qualche problema, ma Amy era abbastanza sicura che prima o poi glielo avrebbe detto. In un certo senso le dispiaceva che quella conversazione avesse avuto luogo poiché egli era diventato irrequieto e pensoso. Durante la cena fu soprattutto lei a chiacchierare.
Fecero di nuovo all’amore prima che lei se ne andasse, stavolta al pianoterra sul divano. Lo fecero con meno urgenza, più lentamente, trattenendosi, gustando a fondo ogni attimo di piacere. Il legame tra loro era forte, e non vi erano più dubbi riguardo al loro sentimento reciproco. Egli era tenero ed amorevole, pian piano tornando al precedente stato di serenità, e l’amò in modo tale da farla piangere in silenzio. Gli spiegò che era felicità non tristezza, a provocare quelle lacrime e lui la tenne così stretta e così a lungo che lei ebbe quasi paura di soffocare.
Quando infine l’accompagnò a casa era tardi, ed entrambi sentivano come se una cappa di euforia li avvolgesse, ad unire e mescolare le loro anime.
Lo baciò ancora augurandogli la buonanotte, a lungo e teneramente, poi lo lasciò di colpo. Lui attese che avesse raggiunto l’ingresso prima di voltare la macchina e avviarsi per il vialetto, lei infilò le chiavi solo quando vide scomparire le rosse luci posteriori dell’auto.
Prima di entrare Amy si voltò a guardare ancora la notte, il paesaggio aveva un che di magico sotto il chiaro della luna piena.
Il vecchio sentì la porta aprirsi, e chiuse gli occhi fingendo di dormire. Si sentirono i passi di qualcuno che entrava nella stanza, passi strusciati e pesanti che aveva da tempo imparato a odiare e si irrigidì contro le cinghie di contenzione del letto. Un puzzo acre confermò i suoi sospetti e sbottò incapace di trattenersi.
«Sei di nuovo qui a tormentarmi, eh» gracchiò con tono stridulo. «Non riesci a lasciarmi stare, eh? Sempre qui.»
Non ci fu risposta.
Il vecchio allungò il collo nel tentativo di vedere meglio. La lampadina che pendeva dal soffitto, schermata da una rete metallica, dava una debole luce, ma vide comunque la figura scura in attesa accanto alla porta.
«Lo sapevo che eri tu!» gridò l’uomo supino. «Che cosa vuoi stavolta? Non riuscivi a dormire, eh? Non ci riesci, eh, lo sai che lo sanno tutti ormai! Così dicono, di notte va a caccia. Non gli piaci sai, a nessuno piaci. Nemmeno a me! Anzi ti odio. Ma questo lo sai benissimo.» La sua risata chioccia risuonò secca nella stanza.
«Cosa fai lì? Non mi piace essere guardato di nascosto. Ecco, chiudi bene la porta così nessuno può sentirti mentre mi torturi. Non vorrai mica svegliare gli altri matti, eh? Ma io l’ho detto ai dottori, gliel’ho detto cosa mi fai quando siamo soli. Hanno detto che ti avrebbero parlato.» Sogghignò. «Ti manderanno via, e subito anche!»
La figura si allontanò dalla porta dirigendosi verso il lettino.
«Scommetto che pensavi che non mi avrebbero mai creduto» continuò il vecchio. “Ma loro lo sanno che i matti non sono tutti rinchiusi la notte. Ci sono anche quelli che sono liberi di girare quando gli altri dormono, quelli che fanno finta di essere buoni e simpatici durante il giorno. Quelli che sono pazzi quanto quelli a cui badano.»
Gli stava sopra, oscurando la lampadina. In una mano portava una borsa.
«Mi hai portato qualcosa, eh?» disse il vecchio cercando di scorgere il volto nella massa scura che lo sovrastava, «Un altro dei tuoi scherzi infami. Mi hai lasciato i segni l’altra volta. Li ho fatti vederi ai dottori». Ridacchiò soddisfatto. «Adesso mi credono. Stavolta non potevano dire che mi ero fatto male da solo!» Una goccia di saliva gli scivolò lungo il mento incartapecorito. Sentì il peso della borsa sul petto, udì l’aprirsi del lucchetto. Grandi mani che frugavano.
«Che cos’è che hai lì?» domandò il vecchio. «È lucido. Mi piacciono le cose lucide. Mi piacciono affilate. È affilato? Sì, si vede che lo è. Non l’ho detto ai dottori, sai. Volevo solo prenderti in giro, non lo farei mai. Non gli direi di te, davvero. A me piace…». Le parole gli uscivano a stento, «…mi piace quando mi… fai male… noi ci divertiamo.»
Si divincolò sotto le cinghie strette, i muscoli deperiti inutili ormai. Curiosamente il terrore che aveva negli occhi lo rendeva quasi lucido, sano di mente.
«Dimmi, che cos’è?». Ora parlava in fretta, quasi un unico lamento. Le spalle e il torace premevano dolorosamente contro le cinghie di cuoio. La figura si piegò su di lui che ne poté alfine scorgere il volto. «Non mi guardare così, ti prego. Non mi piace quando sorridi in quel modo. No, ti prego… non mi toccare la fronte con quel coso… No! Mi fai male… Lo so che non mi sente nessuno se urlo… Guarda che urlo eh?… mi tagli… ma è sangue… sangue… negli occhi. Ti prego, non ci vedo… Adesso urlo… è troppo…»
L’urlo fu soltanto un gorgoglio soffocato. Un calzino gli era stato infilato in gola.
La figura si chinò ancora sul letto continuando a segare con movimenti lenti e regolari. Il personale e i ricoverati del manicomio dormivano tranquilli.
L’incubo arrivò quella notte stessa, ma Childes non stava dormendo, guidava verso casa.
Dapprima lo assali una sensazione di caldo afoso, l’aria si fece pesante come se fosse piena di densi vapori. Strinse le mani sul volante, e benché umide di sudore le dita gli tremarono. Cercò di concentrarsi sulla strada appena illuminata davanti a sé, cercando di ignorare il pulsare della testa. La pressione aumentò, come una sostanza nebulosa che gli si andava espandendo dentro la testa, i muscoli del collo si tesero, le braccia gli si fecero di piombo.
La prima immagine gli passò davanti come un lampo. Per un attimo la pressione diminuì. Non era sicuro di ciò che aveva visto, l’attimo era troppo fuggente, la pesantezza cupa ritornava a ondate. Sbandò, strappando cespugli e rovi con la fiancata dell’auto. Rallentò, ma senza fermarsi.
Gli sembrava di aver visto delle mani, mani grandi, forti.
La testa ora gli sembrava piena di bambagia putrida che man mano gli sopprimeva la coscienza, crescendo di volume. Non mancava molto a casa e Childes si costrinse a mantenere una velocità costante, anche se prudente, seguendo la linea in mezzo alla strada sapendo che a quell’ora c’era poca gente in giro. Con la mente vide lo strumento lucido nelle grosse mani, un’apparizione brillante che lo colpì come un fulmine abbagliandogli la vista.
Lottò per tenere la carreggiata; la visione sparì così com’era comparsa. Il senso di pesantezza era ora meno incombente, ma il tremore delle dita ora gli si trasmetteva anche al braccio.
Non mancava molto, la strada che conduceva al cottage era già di fronte. Childes staccò il piede dall’acceleratore e iniziò a frenare. Una gocciolina di sudore gli colò dalla fronte fino a un occhio e venne spazzata via dal dorso della mano. Il movimento gli costò fatica. Girò lo sterzo, i fari della Mini illuminarono la schiera di casette poco lontano. Sapeva cosa gli stava capitando e temeva le immagini che sarebbero seguite. Sentiva un disperato bisogno di essere nella sua casa, si sentiva tremendamente esposto lì fuori nella luce notturna, la luna faceva sembrare tutto come congelato, gli alberi curiosamente piatti, come ritagliati nel cartone.
Ancora pochi metri. Calma adesso. La macchina si fermò nello spazio davanti al cottage, Childes spense il motore e si lasciò andare sul volante, senza forze. Tirò dei profondi respiri, la pressione alle tempie ormai insopportabile. Tirò fuori le chiavi dal cruscotto e barcollò verso la casa. La luna gli illuminò d’argento il viso e i capelli. Cincischio con la chiave ma finalmente gli riuscì di infilare la toppa e aprire la porta, per cadere poi in ginocchio quando la visione lo colpì alla mente con pieno fulgore.
Il viso terrorizzato del vecchio era chiarissimo, l’orrore evidentissimo nei suoi occhi. Le labbra sottili e rinsecchite balbettavano parole che Childes non poteva udire, la saliva gli scorreva dalla bocca mentre si divincolava dalle cinghie che lo costringevano sullo stretto lettino. I tendini del collo risaltavano dalla pelle floscia del collo avvizzito, il nodo sporgente del pomo d’Adamo andava su e giù come se ingoiasse l’aria. Aveva le pupille allargate contro lo sfondo giallognolo delle orbite, e Childes vi scorse un riflesso, una forma indefinibile che diventò più grande quando qualcuno si avvicinò al vecchio.
Childes si accasciò contro il muro quando vide un oggetto di metallo appoggiato alla fronte dell’uomo impaurito, urlò quando vide iniziare il movimento della sega, si portò le mani agli occhi come per nasconderli a quella vista. Il sangue sgorgava dalla ferita, fluiva denso lungo la testa della vittima, tingendogli i capelli di rosso, accecandolo.
Il movimento si fermò per un attimo: rimase solo il tremolio del corpo del vecchio, la piccola sega da chirurgo ben piantata ormai nell’osso del cranio. In quell’attimo ci fu come un riconoscersi, una congiunzione delle menti: l’omicida lo identificò.
E gli diede il benvenuto.
«Overoy?»
«Ispettore Overoy, sì.»
«Sono Jonathan Childes, ispettore.»
«Childes?». Qualche secondo di pausa. «Ah sì, Jonathan Childes, è da parecchio che non ci si sente.»
«Tre anni.»
«Davvero? Eh già. Cosa posso fare per lei, Childes?»
«Beh, è difficile. Non so bene da dove cominciare.»
Overoy spinse indietro la sedia e poggiò un piede sull’orlo della scrivania, poi con una mano sfilò una sigaretta dal pacchetto e se la mise in bocca. L’accese con un accendino da quattro soldi, dando così il tempo a Childes di trovare le parole.
«Si ricorda degli omicidi?»
Overoy sbuffò fuori una nuvola di fumo. «Vuol dire i ragazzini? Come non potrei? Lei ci fu di grande aiuto in quell’occasione.»
E ne pagai caro il prezzo, pensò Childes, ma disse: «Credo che mi stia accadendo di nuovo.»
«Come, scusi?»
Overoy non gli stava certo rendendo più facili le cose. «Ho detto che credo mi stia accadendo di nuovo. Le visioni, la precognizione.»
«Scusi un attimo, vuole forse dirmi che ha scoperto degli altri cadaveri?»
«No. Questa volta pare che gli omicidi io li veda mentre avvengono.»
Il piede di Overoy scivolò giù dalla scrivania, e lui si sporse, cercando una penna. Fosse stato un altro al telefono avrebbe lasciato perdere la conversazione credendolo un altro mitomane, ma aveva imparato a prendere sul serio Childes anni prima, anche se gli era stato difficile. «Mi dica esattamente quello che ha, ehm, visto, Childes.»
«Prima voglio che lei accetti una condizione.»
Overoy guardò il ricevitore come se si trattasse di Childes in persona. «Sentiamo» rispose.
«Voglio che tutto quello che le dirò rimanga tra noi due soltanto, niente soffiate alla stampa. Non come l’altra volta.»
«Guardi che quella volta non fu soltanto colpa mia. La stampa ha fiuto per questo tipo di cose, questo non posso evitarlo. Ho cercato di tenerla nell’anonimato ma una volta sguinzagliati quelli non mollano.»
«Voglio che me lo garantisca, Overoy, non posso correre nuovamente il rischio di essere braccato… è stato più che sufficiente l’ultima volta. Inoltre ciò che ho da dirle può non significare proprio niente.»
«Posso solo dirle che farò del mio meglio.»
«Non mi basta.»
«E che cosa s’aspetta da me allora?»
«Un’assicurazione, per ora almeno, che quello che le dirò rimarrà tra noi due soli. Per lo meno fino a quando non avrà trovato qualche riscontro, poi ne parlerà solamente ai suoi capi o a persone comunque coinvolte nei casi.»
«Casi? Quali casi?»
«Solo uno per ora, ma forse ce n’è un altro.»
«Vorrei che mi dicesse di più.»
«Mi dà la sua parola?»
Overoy scrisse il nome di Childes su di un foglietto e lo sottolineò due volte. «Dato che non ho idea di che cosa lei stia parlando, sì. Ha la mia parola.»
Ma l’altro esitava ancora come se non si fidasse dell’investigatore. Overoy attese pazientemente.
«Si ricorda di quella tomba di un bambino che è stata profanata e il corpo del bimbo mutilato? A che punto sono le indagini?»
Overoy sollevò sorpreso le sopracciglia. «Per quello che ne so non c’è un indizio; lei ha delle informazioni?»
«Io l’ho visto fare.»
«Vuol dire come l’altra volta, che se l’è sognato?»
«Non ero lì fisicamente, ma non l’ho nemmeno sognato.»
«Scusi, la parola era sbagliata. Lo ha visto accadere dentro la sua testa?»
«La cassa è stata spaccata con una specie di piccola ascia, il corpicino poggiato sull’erba accanto alla fossa.»
Ci fu di nuovo una pausa. «Vada avanti» sollecitò Overoy.
«Il cadavere è stato squarciato con un coltello, poi hanno strappato via tutte le viscere.»
«Childes, non dico che non le credo, ma questi dettagli erano su tutti i giornali. Lo so che è stata dura convincermi l’altra volta… anzi credevo proprio che lei fosse un pazzoide dapprima… ma poi le ho creduto. Neppure io potevo negare l’evidenza quando lei ci condusse al secondo cadavere. Ma mi servono altri fatti, mi capisce?»
Il tono di Childes divenne piatto, senza espressione. «C’è una cosa che i giornali non hanno detto, quello che ho letto io per lo meno: il cuore del bimbo è stato mangiato.»
La penna che Overoy faceva roteare si fermò a mezz’aria.
«Overoy! Mi ha capito?»
«Sì, sì, ho sentito. Il cuore non era stato mangiato ma era stato sbranato. Il patologo ha trovato dei segni di denti. E c’erano altri morsi su tutto il corpo.»
«Ma che razza di bestia può…?»
«È quello che vorremmo sapere. Cos’altro può dirmi, Childes?»
«Di questo niente. Ho visto quello che succedeva, non chi lo faceva. È come se avessi visto questo sconcio attraverso gli occhi di chi lo compiva.»
Overoy si schiarì la gola. «Mi sembra di ricordare che lei se ne andò nelle Isole della Manica, dopo quell’altro, ehm, affare. È da lì che ci sta chiamando ora?»
«Sì!»
«Può darmi l’indirizzo e il numero di telefono?»
«Vuole dirmi che non avete una mia scheda?»
«Mi risparmia la fatica di cercarla.»
Childes gli diede i dati e poi chiese. «Allora mi prende sul serio?»
«L’altra volta lo feci, no?»
«Alla fine.»
«Solo una domanda di routine, Childes, lei capisce perché gliela devo fare. Lei era sull’isola la notte che fu dissacrata la tomba del bambino?»
La voce all’altro capo suonò stanca. «Sì, ero qui. E le darò i nomi di alcuni testimoni che potranno confermarlo.»
La penna di Overoy scribacchiò altri appunti. «Mi dispiace,» si scusò il poliziotto, «ma certe cose è meglio farle subito.»
«Dovrei esserci abituato, dopo l’ultima volta.»
«Beh, deve ammettere che le circostanze erano piuttosto insolite. Dunque è sicuro di non potermi dire altro di questo… incidente?»
«Ho paura di no!»
L’investigatore lasciò cadere la penna e recuperò la sigaretta dal posacenere. La cenere gli cadde sugli appunti. «Questo è successo due settimane fa, come mai non ci ha chiamati prima?»
«Allora speravo che fosse un caso sporadico, un’apparizione unica, e poi non è che potessi dirvi molto.»
«Come mai ci ha ripensato, allora?»
Childes quasi farfugliò. «Io… io ho avuto un’altra visione ieri sera.» Overoy riprese in mano la penna. «Adesso è tutto un po’ confuso, come… un sogno. Stavo tornando a casa in macchina, era tardi, quando ho avuto un’apparizione mentale. Una sensazione tanto forte che a momenti andavo a sbattere. Sono a malapena riuscito ad arrivare a casa, ad entrare. Poi sono svenuto, sembrava che il mio cervello se ne fosse andato da qualche altra parte.»
«Mi dica che cosa ha visto.»
«Ero in una stanza… non si vedeva molto bene… ma mi sembrava nuda, squallida. E stavo guardando un uomo anziano. Era impaurito, molto spaventato, aveva paura di qualcuno che avanzava verso di lui. Questo qualcuno, qualcosa, ero io! Ma non ero io. Vedevo tutto attraverso gli occhi di un altro. C’era qualcosa di orrido in questo… questo mostro.»
«Mostro?»
«È così che lo sentivo. Era malato, depravato, io lo so, perché sono stato dentro quella mente.»
«Ha idea di chi potesse essere?»
«No, no! E di nuovo come tre anni fa. Aspetti, mi ricordo le mani, mani grandi e brutali. Portavano una borsa… con dentro degli strumenti.»
«Strumenti taglienti» disse Overoy, e non era una domanda.
«Non li ho potuti vedere, ma ho sentito che lo erano.»
«Il vecchio ha detto qualcosa, ha gridato il nome dell’altra persona?»
«Non udivo niente, tutto avveniva in silenzio.»
«Il vecchio cercava di fuggire?»
«Non poteva! Si divincolava, cercava di scappare ma non poteva muoversi. Era una cosa strana; giaceva su un lettino, una specie di branda, ed era legato con delle cinghie, credo. Lottava, ma non poteva muoversi. Non poteva!»
«Va bene, stia calmo Childes. Mi dica solo quello che è successo.»
«Quelle mani, quelle grosse mani hanno preso un seghetto dalla borsa e hanno iniziato a segare il cranio del vecchio…»
Overoy avvertiva l’angoscia dell’altro. Seguì un lungo silenzio. Aspettò alcuni secondi prima di chiedere. «Ha idea di dove sia avvenuto tutto ciò, anche solo un indizio?»
«No, mi dispiace. Non è granché, vero? Ma vede, il motivo per cui ho deciso di chiamarla è che io sono convinto che chi ha fatto questo al vecchio è la stessa persona che ha mutilato il cadavere del bimbo.»
Overoy bestemmiò sottovoce. «Come fa ad esserne sicuro? Lo ha detto lei, che non ha visto chi commetteva i crimini.»
«Io… io lo so e basta. Deve fidarsi. Per alcuni secondi sono stato nella mente di quella creatura, ne ho condiviso i pensieri. Io so che è la stessa persona.»
«Mi diceva che tutto ciò accadeva ieri sera, vero?»
«Sì, era tardi, dopo le undici, forse mezzanotte, non sono ben sicuro. Ho guardato i giornali stamane, ma non c’era scritto niente, allora ho pensato che forse era troppo tardi perché la notizia venisse pubblicata nell’edizione del mattino. Nemmeno la radio ne ha parlato.»
«Per quello che ne so io non è accaduto niente del genere da almeno ventiquattrore, comunque posso fare una verifica in centrale, ma in casi come questi fa presto a circolare la voce.» Raccolse di nuovo la sigaretta dal posacenere e fece una lunga boccata. «Mi dica una cosa,» disse buttando fuori una nuvola di fumo, «sono solo questi due gli… incidenti che ha… visto di recente?» Qualche anno prima la domanda non sarebbe stata posta con altrettanta naturalezza.
«Perché me lo chiede?»
«Beh…» L’esclamazione esprimeva tutti i dubbi che aveva il poliziotto a divulgare certe informazioni. Ma prese una decisione. «Una prostituta è stata ammazzata un mesetto fa, noi siamo convinti che c’è qualche collegamento tra questo delitto e la profanazione della tomba del bimbo.»
«La stessa persona?»
«Ci sono forti indizi. Lo stesso tipo di lesioni, il corpo squartato, le viscere asportate, segni di denti nelle carni, certe…»
«Un mese fa?»
La domanda fu tanto secca da far interrompere Overoy. «Sì, più o meno, perché, vuol dire qualcosa?»
«La prima visione… stavo nuotando… ho visto sangue… budelle…»
«Proprio in quel periodo?» interruppe l’investigatore.
«Sì, ma non c’era niente di chiaro. Non riuscii a capire cosa avevo visto. Ma lei è certo che si tratti della stessa persona?»
«Assolutamente. Abbiamo confrontato dei campioni di saliva trovati sui due corpi e anche i calchi delle dentature che hanno lasciato i segni dei morsi. Per quanto riguarda il movente, beh, i pazzi non ne hanno affatto bisogno. La prostituta era stata violentata e noi siamo convinti che sia stato fatto dopo la morte. Nessuna donna per quanto caduta in basso avrebbe permesso che le si facesse una cosa come questa. Il medico legale dice che non vi era stato alcun rapporto sessuale, non c’erano tracce di sperma. Ma le erano stati infilati nella vagina ogni sorta di oggetti, quindi pensiamo che l’omicida fosse un frustrato, un impotente. Sappiamo che è molto forte, la donna è stata strozzata a mani nude, e non era certo una piuma, anzi! Aveva dei precedenti per aggressione e lesioni, soprattutto contro uomini.»
Overoy diede un’altra boccata alla sigaretta. «C’era anche un’altra cosa che rendeva certo il collegamento tra i due casi. Vorrei che lei pensasse ancora a quello che ha visto. Non ha ‘visto’ qualcos’altro, qualcosa di molto particolare?»
«Gliel’ho detto, nient’altro.»
«Ci pensi bene, con calma.» Overoy studiò il blocco per appunti che aveva di fronte e attese. Dopo poco udì di nuovo la voce di Childes.
«Mi dispiace, non c’è altro. Se cerco di concentrarmi diventa tutto più confuso. Ma perché me lo chiede?»
«Non posso ancora dirglielo. Comunque ecco cosa farò, Childes, controllerò questa faccenda del vecchio, vediamo se è arrivata qualche notizia nel frattempo. Poi mi metterò in contatto con quelli che si occupano del caso della prostituta e con quelli del bambino morto. Dopo di che la richiamo. Va bene?»
«E non ne parlerà con nessuno naturalmente?»
«Per ora sì. Poi non è che io abbia molto da dire in giro, no? Anche se abbiamo ottenuto un risultato l’ultima volta, io sono ancora oggetto di qualche battuta qui al dipartimento, per il fatto che mi lasciai coinvolgere da lei. Quindi può capire che non ho molta voglia di ricominciare da capo. Mi scusi la franchezza, ma le cose stanno proprio così.»
«Perfetto! Anch’io la penso così.»
«La richiamo quando no qualcosa di preciso, d’accordo? Potrei anche metterci parecchio.»
Quando Overoy riappese il ricevitore guardò a lungo il blocco notes. Childes era in buona fede, di questo era sicuro. Strano forse, ma questo si poteva facilmente spiegare, con quello strano sesto senso che si ritrovava. E poi era quel potere ad essere strano, non Childes.
Il poliziotto spense la sigaretta e si studiò le dita macchiate di nicotina. Accese un’altra sigaretta poi prese la pietra pomice che fungeva anche da fermacarte e iniziò a strofinarsi vigorosamente la pelle macchiata. Childes aveva avuto ragione a proposito del bambino morto, però lo aveva dovuto provocare lui a proposito della prostituta, ed era rimasto comunque abbastanza sul vago. E lui, poliziotto cinico e incallito qual’era che cosa doveva dedurne? Forse niente, forse tutto? Ripassò rapidamente gli appunti. Questa storia del vecchio… che accidenti significava? Overoy buttò la pomice e con la penna isolò una parola.
CINGHIE. Childes aveva detto che l’uomo era legato ad un lettino. La stanza era poco ammobiliata, com’è che aveva detto? Squallida. Ecco, squallida. Ma che razza di posto…?
Overoy guardò a lungo la parola evidenziata, poi fissò il muro di fronte. Vedeva i movimenti nell’altro ufficio attraverso il vetro opaco, sentiva le macchine da scrivere, i telefoni suonare, voci, ma non registrò nulla di tutto ciò. C’era qualcosa, un tragico incidente accaduto la notte precedente. Ma ci poteva essere un collegamento?
Indeciso ma curioso, Overoy prese il telefono.
Il poliziotto aspettava presso il cancello degli arrivi, era ben visibile con quella camicia azzurra e con le spalline e i pantaloni scuri. La notevole altezza lo rendeva ancora più appariscente ed un paio di passeggeri appena scesi dal volo proveniente da Londra lo guardarono nervosamente mentre si avvicinava al banco della dogana.
Il piccolo aeroporto era affollato di turisti e di uomini d’affari. Fuori il sole estivo brillava, sciolto ormai ogni residuo di freddo. Un flusso continuo di auto andava e veniva nella corsia del divieto di sosta scaricando passeggeri con i loro bagagli e fagocitando quelli in arrivo. All’interno le me di poltroncine erano colme di viaggiatori, ragazzini annoiati correvano tra le file inciampando spesso nei piedi distesi della gente, madri di famiglia, stanche, fingevano di non accorgersene. Gruppetti di vacanzieri dall’aria florida ridevano e scherzavano decisi a godersi anche gli ultimi minuti della loro vacanza.
L’ispettore Robillard sorrise quando scorse la figura ben nota fendere a grandi falcate il corridoio della zona arrivi. A prima vista Ken Overoy non sembrava cambiato affatto, ma man mano che si avvicinava si notava il diradarsi dei capelli biondastri e il leggero gonfiore dello stomaco.
«Ciao Geoff» disse Overoy cambiando mano alla borsa per poter offrire la destra. Ignorò del tutto i due funzionari di dogana accanto al bancone. «Grazie di essermi venuto incontro.»
«Nessun problema» disse Robillard. «Stai bene Ken?»
«Chi vuoi prendere in giro? Piuttosto la vita da isolano pare che faccia bene a te.»
«Merito di un po’ di vela al fine settimana. Mi fa piacere rivederti dopo tutto questo tempo.» I due ufficiali di polizia si erano conosciuti ai tempi del corso d’addestramento al New Scotland Yard, poi si erano rivisti al corso per ispettori nello Yorkshire. Robillard aveva sempre mantenuto i contatti con Overoy andandolo a cercare ogni volta che capitava in Inghilterra. Lo divertivano sempre le storie di intrighi polizieschi della capitale, così diverse dall’esperienza di poliziotto sull’isola, anche se avevano anche loro una buona dose di crimini. In questo caso era lui a dare con molto piacere una mano al poliziotto londinese. Condusse Overoy fuori dal terminal verso una macchina parcheggiata in attesa, una Ford bianca con lo stemma dell’isola sulle fiancate e una lampada azzurra sul tetto.
«Come vanno gli affari qui da voi?» chiese Overoy buttando la borsa sul sedile posteriore.
«Aumentano di colpo appena inizia la stagione turistica. Perché non ve li tenete lì i vostri scippatori?»
L’altro rise forte. «Anche i ladri hanno diritto a una vacanza, no?»
Robilland mise in moto e si girò a guardare il compagno che si stava accendendo una sigaretta. «Dove si va?»
Overoy guardò l’orologio. «Sono appena passate le tre, a quest’ora dove sarà il nostro uomo? A scuola?»
L’ispettore annuì. «Oggi è martedi, quindi sarà al La Roche.»
«Allora al La Roche… lo beccherò all’uscita.»
«Dovrai aspettare.»
«Non fa niente, ho tempo. Prima comunque potrei trovarmi una stanza in albergo.»
«No, no. Wendy non mi perdonerebbe mai se tu non ti fermassi da noi.»
«Ma… non voglio dare fastidi…»
«Ma figuriamoci, ci fa piacere averti con noi, Ken, e puoi raccontarci tutto dei crimini nella città del peccato. Wendy ne sarà entusiasta.»
Già a suo agio Overoy sorrise. «Okay, dimmi tutto mentre andiamo alla scuola.»
Robillard lasciò ben presto l’intasata strada principale per infilare una delle vie tranquille e ombreggiate che portavano alla costa. I colori vivi delle siepi e l’aria fresca di mare fecero ulteriormente rilassare Overoy. Gettò la sigaretta mezza fumata dal finestrino e si riempì i polmoni d’aria. «Cosa sai di Jonathan Childes?» chiese, tenendo gli occhi sulla stradina che gli snodava davanti.
Robillard rallentò per fare strada a un altro veicolo che proveniva in senso contrario. «Non molto, solo quello che c’era nel nostro rapporto. Abita qui da solo da tre anni, pare che se la prenda abbastanza comoda, anche se è impiegato presso tre college. Quel che si dice di basso profilo. Strana coincidenza: abbiamo fatto anche noi una richiesta di informazioni su di lui qualche settimana fa.»
«Ah sì? E perché?» chiese Overoy curioso.
«Uno dei nostri consiglieri che è membro del comitato di polizia ci chiese di fare delle indagini sul suo conto. Platnauer si chiama, ed è anche membro del Consiglio di amministrazione del La Roche; immagino che sia per questo che aveva chiesto un controllo.»
«Ma perché ora? Childes lavora in quella scuola già da un pezzo.»
«Un paio d’anni pressappoco. Devo ammettere che anch’io sono stato incuriosito dall’improvviso interesse che questo tipo attira. Cos’ha combinato, Ken?»
«Non ti preoccupare, è pulito. Ci sono stati dei casi in cui lui potrebbe darci una mano. Tutto qui»
«Adesso sì che sono curioso. Le informazioni, quello che c’era, furono fornite al consigliere Platnauer che le ha poi passate alla signorina Piprelly che è la preside del La Roche. Da allora tutto tace. L’aiuto che Childes fornì tre anni fa è abbastanza ben documentato, ma è l’unica volta che risulta coinvolto in qualche modo con la polizia. Dato che quel caso era tuo mi è sembrato strano che non avessero chiesto informazioni direttamente a te.»
«Non ce n’era bisogno. È tutto nello schedario.»
«Allora vuoi dirmi cos’è questa storia?»
«Mi dispiace, Geoff, non posso per ora. Potrebbe non essere niente e allora voglio evitare a Childes qualsiasi fastidio, ne ha già avuti abbastanza l’altra volta per colpa mia.» Overoy prese un’altra sigaretta. «Spifferai troppe cose alla stampa e gli piombarono addosso come avvoltoi famelici.»
«Ma cos’è questo tipo, un chiaroveggente?»
«Non esattamente, è un sensitivo, questo sì. Ma non fa premonizioni, non parla con gli spiriti dei morti, quelle robe lì. Tre anni fa ha visto mentalmente dov’erano seppelliti dei corpi e ci fornì abbastanza indizi per poter rintracciare l’assassino. Sfortunatamente arrivammo tardi, si era già ammazzato da sé.»
«Ma come può…?»
«Non ne ho idea. Non cerco nemmeno di capirle certe cose. Chiamala telepatia, se vuoi. Quello che so è che Childes non è di sicuro uno svitato, anzi, il più sconvolto da queste sue capacità è proprio lui.»
Overoy vide il college femminile prima ancora che il collega glielo indicasse. L’edificio principale bianco e imponente si erse di fronte a loro oltre le cime degli alberi, quando la macchina della polizia fece un’ultima svolta. Il sole si rifletteva accecante sui muri quando si fermarono davanti al cancello e l’investigatore fischiò, ammirando il lungo viale.
«Però, che posticino!» commentò. Dietro l’alto palazzo c’erano svariate strutture e quindi il mare, di un colore blu cobalto che sfidava la chiarezza del cielo. Il verde carico degli arbusti delle scogliere e dei boschetti circostanti dava all’insieme un aspetto piacevole; i colori del mare, del cielo e della terra si fondevano armonicamente. Non lontano da dove erano parcheggiati c’erano dei campi da tennis bordati da aiuole di fiori colorati; persino i colori artificiali del parcheggio non disturbavano l’occhio.
«Potrei tranquillamente tornare a scuola, se fosse in un posto come questo» disse Overoy, soffiando fumo dalla bocca.
«Dovresti anche cambiare sesso prima.»
«Farei anche quello.»
L’ispettore rise. «Vuoi che ti porti su fino alla scuola?»
Overoy scosse la testa. «Aspetterò Childes lì su quella panchina accanto ai campi, è inutile dare nell’occhio.»
«Come ti pare, ha una Mini nera, la targa è…», estrasse un foglietto dal taschino della camicia, «…27292, ho controllato prima di venirti a prendere. Vediamo se c’è ancora.» Passò facilmente attraverso i grandi cancelli di ferro e accostò vicino al parcheggio. «Eccola lì,» disse indicandola, «quindi è ancora a scuola.»
Overoy aprì la portiera e si allungò verso la borsa sul sedile posteriore.
«Puoi anche lasciarla lì se vuoi. Tanto devo passare a prenderti più tardi» gli disse Robillard.
«Mi serve solo una cosa» rispose l’investigatore mentre apriva la cerniera di una tasca esterna. Ne tirò fuori una busta gialla. «Non c’è bisogno che tu mi venga a riprendere, Geoff, credo che Childes mi inviterà a casa sua così potremo chiacchierare un poco. Poi chiamerò un taxi.»
«Il nostro indirizzo ce l’hai?»
«Sì, sì, ce l’ho.» Overoy scese dall’auto, stringendo gli occhi contro il bagliore del sole. Poi per un attimo infilò di nuovo la testa dentro la macchina. «Ah, Geoff, se giù alla centrale non dici nulla mi fai un grosso favore. Ho promesso a Childes che avrei tenuto la bocca chiusa.»
«E che cosa potrei raccontare?» rispose Robillard sorridendo. «Ci vediamo più tardi.»
Fece marcia indietro attraverso la cancellata principale e con un ultimo gesto di saluto partì. Overoy si stiracchiò, quindi mise la busta nella tasca interna della giacca. Si diresse verso la panchina dispiacendosi sia di non aver preso anche gli occhiali da sole sia del fatto che non stessero giocando ragazze più grandicelle.
In un vialetto dall’altro lato dei campi da gioco passavano delle macchine dirette verso un altro parcheggio dietro gli edifici scolastici. Overoy pensò che si trattasse di genitori venuti a prendere le figlie. Diede un’occhiata all’orologio, Childes sarebbe arrivato di lì a poco.
Posò la giacca su una panchina accanto, si arrotolò le maniche della camicia fino al gomito e allentò la cravatta. Era piacevole starsene lì al sole a pensare. Ogni tanto aveva una punta d’invidia per l’amico Robillard, per l’atmosfera tranquilla in cui operava. Overoy sapeva però che per quanto attraenti potessero sembrare quelle condizioni di vita, qui un uomo abituato alla città con la sua corruzione, la malavita e il crimine si sarebbe ben presto sentito frustrato come lui, che a trentotto anni godeva ancora dell’attività frenetica della polizia cittadina. Josie però si sarebbe innamorata della calma agiatezza della vita sull’isola; le spiagge, i barbecue, la purezza dell’aria, e naturalmente le poche chiamate notturne e l’assenza di straordinari per lui.