Duefiori, la torre, il cielo rosso, tutto svanì. Il tempo trascorreva lento, e si fermò.

Scuotivento azzannò un tentacolo che cercava di portargli via la faccia e che, dal dolore insopportabile, lasciò la presa. Lui lanciò in avanti una mano e sentì spezzarsi qualcosa calda e molliccia.

Loro stavano osservando. Scuotivento girò la testa e vide che stava ora lottando sul pavimento di un enorme anfiteatro. Su ciascun lato, file e file di creature lo fissavano, creature i cui corpi e i cui volti sembravano essere il risultato di orribili incubi. Ebbe appena il tempo d’intravedere dietro a sé esseri ancora peggiori, ombre enormi che si allungavano nel ciclo velato, prima che Trymon il mostro cercasse di colpirlo con un aculeo uncinato delle dimensioni di una lancia.

Scuotivento fece uno scarto di lato e poi si rigirò con le due mani allacciate in un pugno che colse l’essere nello stomaco, o forse il torace, con un colpo che terminò nel gratificante scricchiolio della dura corazza di chitina.

Si scagliò in avanti e lottò, spinto dai terrore di ciò che sarebbe accaduto se si fosse fermato. L’arena spettrale risuonava del pigolio delle creature Sotterranee, un muro di suono frusciante che gli martellava le orecchie mentre combatteva. S’immaginò quel suono riempire il Disco, e sferrò colpo su colpo per salvare il mondo degli uomini, per preservare il piccolo cerchio di luce nella nera notte del caos e chiudere il varco attraverso il quale l’incubo stava avanzando. Ma soprattutto colpiva l’essere mostruoso per evitare di essere colpito a sua volta.

Unghioni o artigli gli disegnarono solchi roventi sulla schiena e qualcosa gli morse una spalla, ma lui trovò un groviglio di tubi molli in mezzo al pelame e alle scaglie e lo serrò con forza.

Venne spazzato via da un braccio armato di aculei e rotolò nella polvere nera e granulosa.

Istintivamente si raggomitolò a palla, ma non accadde nulla. Invece dell’attacco furioso che si aspettava, aprì gli occhi e vide la creatura allontanarsi da lui zoppicando e sgocciolante liquidi vari.

Era la prima volta che qualcosa fosse mai fuggita da Scuotivento.

Lui si tuffò, afferrò una gamba squamosa e la torse. La creatura gli pigolò contro e batté disperatamente l’aria con le appendici che ancora funzionavano, senza riuscire a liberarsi della presa di Scuotivento. Questi si raddrizzò e piazzò un ultimo colpo nell’occhio che le restava. Quella urlò e corse via. E c’era un unico luogo verso il quale potesse correre.

Un clic e il tempo fu ripristinato, riportando indietro e la torre e il cielo rosso.

Non appena si sentì sotto i piedi le lastre di pietra, Scuotivento spostò il proprio peso da un lato e si rotolò sulla schiena, tenendo a distanza la creatura che si dimenava frenetica.

— Ora! — gridò.

— Ora che cosa? — disse Duefiori. — Oh, sì. Giusto!

Roteò la spada con mano inesperta ma con una certa forza, mancò di poco l’amico, e la conficcò dentro la Cosa. Un ronzio stridente, come se avesse fracassato un vespaio, un agitarsi confuso di braccia, zampe, tentacoli nel parossismo del dolore. La creatura rotolò ancora, urlando e sferzando le pietre. Continuò ancora a sferzare, ma a vuoto ormai, perché ruzzolò giù per la scala, portando con sé Scuotivento.

Rimbalzò prima con un tonfo giù per pochi gradini di pietra, quindi si udì in distanza un urlo che si andava via via affievolendo, mentre precipitava nelle profondità della torre.

Alla fine seguì un’esplosione soffocata e il lampo di luce dell’ottarino.

Duefiori ormai era solo in cima alla torre… solo, cioè, salvo che per i sette maghi tuttora immobili come congelati sul posto.

L’ometto, seduto, contemplava stupefatto sette palle di fuoco levarsi dall’oscurità e immergersi nell’Octavo, che giaceva abbandonato, e che improvvisamente ritornò quello di un tempo e assai più interessante.

— Oh, povero me — esclamò il turista. — Suppongo che siano gli Incantesimi.

— Duefiori. — La voce risuonava cavernosa, appena riconoscibile per quella di Scuotivento.

La mano di Duefiori, che stava per prendere il libro, s’immobilizzò.

— Sì? Sei… sei tu, Scuotivento?

— Sì — rispose la voce, che pareva provenire dalla tomba. — E desidero che tu faccia per me una cosa molto importante, Duefiori.

Questi si guardò intorno e riprese animo. Così, dopo tutto, il fato del Disco sarebbe dipeso da lui.

— Sono pronto — affermò con la voce vibrante d’orgoglio. — Che vuoi che faccia?

— Anzitutto, voglio che mi ascolti con grande attenzione — rispose pazientemente la voce disincarnata del mago.

— Ti ascolto.

— È molto importante che, quando ti dico cosa fare, tu non mi rispondi "Cosa intendi?" o ti metti a discutere o altro, capito?

Duefiori si mise sull’attenti. Almeno, la sua mente si mise sull’attenti, perché al suo corpo era impossibile. Sporse in fuori diversi dei suoi doppi menti.

— Sono pronto — dichiarò.

— Bene. Ora, ciò che desidero tu faccia è…

— Sì?

La voce di Scuotivento veniva su dalla tromba della scala.

— Voglio che vieni ad aiutarmi prima che io perda la presa su questa pietra.

Duefiori aprì la bocca e subito la richiuse. Corse a guardare giù dall’apertura quadrata. Alla luce rossastra della stella, riuscì a vedere soltanto gli occhi dell’amico alzati verso di lui.

Duefiori si sdraiò a terra bocconi e allungò una mano. Quella di Scuotivento gli afferrò il polso con tanta forza da fargli capire che, se l’amico non veniva tirato su, allora in nessun modo la sua presa si sarebbe allentata.

— Sono contento che sei vivo — gli disse.

— Bene. Io pure — replicò Scuotivento.

Rimase per un po’ a penzolare nel buio. Dopo gli ultimi pochi minuti era una sensazione quasi piacevole, ma soltanto quasi.

— Allora tirami su — gli consigliò.

— Secondo me, potrebbe essere un po’ difficile — borbottò Duefiori. — In realtà, non credo di farcela.

— Allora che cosa stai reggendo?

— Te.

— Intendo, oltre me.

— Che vuoi dire, oltre te? — chiese l’ometto.

Scuotivento pronunciò una parola.

— Be’, guarda — ribatté Duefiori. — I gradini formano una spirale, esatto? Se io ti faccio dondolare e poi tu ti lasci andare…

— Se mi suggerisci che io tenti di lasciarmi cadere da sei metri giù in una torre nera come la pece nella speranza di atterrare su un paio di gradini piccoli e scivolosi, che potrebbero anche non esserci, te lo puoi scordare — protestò seccamente il mago.

— Allora c’è un’alternativa.

— Tirala fuori.

— Potresti precipitare da centocinquanta metri giù in una torre nera come la pece e andare a schiantarti su delle pietre che certamente ci sarebbero — disse Duefiori.

Un silenzio mortale. Poi: — Questo era sarcasmo — lo accusò Scuotivento.

— Per me era semplicemente affermare una cosa ovvia. Da parte di Scuotivento venne un brontolio.

— Immagino che non potresti fare un po’ di magia… — cominciò l’amico.

— No.

— Era solo un’idea.

Giù in basso si produsse un lampo di luce, grida confuse, quindi altre luci, altre grida, e una fila di torce che saliva su per la lunga spirale.

— C’è gente che sta venendo su per la scala — annunciò Duefiori, il quale amava sempre dare informazioni.

— Spero che stiano correndo. Non mi sento più il braccio.

— Sei fortunato — replicò l’ometto. — Io il mio lo sento.

La torcia che guidava la fila si fermò e si fece udire una voce, che riempì di echi indecifrabili la cavità della torre.

Duefiori si rendeva conto di stare gradatamente scivolando in avanti verso il buco. Disse: — Credo che ci stiano dicendo di tenere duro.

Scuotivento pronunciò un’altra parola.

Subito dopo disse, in tono più basso e pieno di angoscia: — Il fatto è che non credo di reggere più a lungo.

— Tenta.

— Non serve. Sento che la mano mi sta scivolando!

Duefiori sospirò. Era arrivato il momento di prendere misure drastiche. — Benissimo, allora. Lasciati andare. Guarda se me ne importa.

— Cosa? — Scuotivento era talmente sorpreso che si dimenticò di lasciarsi cadere.

— Forza, muori. Scegli la via più facile.

— Facile?

— Non devi fare altro che gettarti a capofitto giù e romperti ogni osso che hai in corpo… Chiunque può farlo. Forza. Non voglio ricordarti che forse dovresti restare in vita perché abbiamo bisogno che tu pronunci gli Incantesimi e salvi il Disco. Oh, no. A chi interessa se finiamo tutti bruciati. Dai, pensa soltanto a te stesso. Lasciati andare.

Seguì un lungo silenzio imbarazzato.

Alla fine Scuotivento disse, a voce più alta del necessario: — Non so come sia, ma da quando ti ho conosciuto, mi sembra di avere trascorso un sacco di tempo appeso per le dita sopra un qualche abisso. Lo hai notato?

— Morte — lo corresse Duefiori.

— Come, morte?

Duefiori cercava d’ignorare il fatto che il suo corpo stava scivolando, adagio ma inesorabilmente, sulle lastre di pietra. — Appeso sopra una qualche morte. A te i luoghi alti non piacciono.

— Dei luoghi alti non m’importa — replicò dall’oscurità la voce del mago. — Posso viverci con i luoghi alti. In questo momento sono le profondità che mi preoccupano. Sai che farò quando usciamo di qui?

— No. — Duefiori puntò le dita dei piedi in una fessura tra due lastre di pietra e cercò di restare immobile con la pura forza della volontà.

— Mi costruirò una casa nel paese più piatto che riesco a trovare, avrà solo il pianterreno e non porterò nemmeno dei sandali con le suole spesse…

La prima torcia comparve all’ultimo tornante della spirale e Duefiori si ritrovò a guardare la faccia sorridente di Cohen. Dietro a lui, ancora saltellante goffamente su per gli scalini, distinse la sagoma rassicurante del Bagaglio.

— Tutto bene? — chiese Cohen. — Posso fare niente? Scuotivento tirò un gran sospiro.

Duefiori riconobbe i segni. L’amico stava per dire una frase come "Sì, sento un prurito dietro il collo, potresti darci una grattatina, mentre passi?" oppure "No, ci godo a stare appeso sopra un baratro". E decise che in nessun modo avrebbe potuto tollerarlo. Si affrettò a prevenirlo.

— Spingi Scuotivento di nuovo sulla scala — ordinò.

Scuotivento, in procinto di fare la sua battuta, si sgonfiò.

Cohen lo afferrò per la vita e lo depositò sui gradini senza tante cerimonie.

— Sul pavimento laggiù c’è un bel macello — annunciò in tono discorsivo. — Chi era?

— Aveva — Scuotivento deglutì — aveva… sai… tentacoli e roba del genere?

— No. Solo i resti normali — rispose Cohen. — Un po’ spiaccicati, naturalmente.

Scuotivento guardò Duefiori, che scosse la testa.

— È solo un mago che si è lasciato prendere la mano — disse.

Scuotivento, con passo incerto e le braccia doloranti, si lasciò aiutare a risalire in cima alla torre.

— Come sei arrivato qui? — aggiunse.

Cohen additò il Bagaglio che si era avvicinato a Duefiori trotterellando e aveva spalancato il coperchio, come un cane che sa di essersi comportato male e spera di evitarsi la giusta punizione con un rapido sfoggio di affettuosità.

— Un po’ sobbalzante ma veloce — disse con ammirazione il vecchio eroe, rivolto a Duefiori. — Nessuno ci prova a fermarlo, te lo dico io.

Scuotivento guardò il cielo. Era pieno di lune, enormi dischi bucherellati di crateri, divenuti ormai dieci volte più grandi del piccolo satellite del Disco. Li fissò senza grande interesse. Si sentiva esausto e teso ben oltre il punto di rottura, fragile come un vecchio elastico.

Notò che Duefiori stava cercando di mettere a punto la sua scatola a immagini.

Cohen invece osservava i sette maghi.

— Un posto curioso per metterci delle statue — osservò. — Nessuno può vederle. Bada bene, non posso dire che siano un granché. Un’opera assai scadente.

Barcollando, Scuotivento andò vicino a Wert e gli batté con precauzione sul petto. Il mago era di solida pietra.

"A questo punto, voglio soltanto andarmene a casa" pensò.

"Aspetta un momento, sono a casa. Più o meno. Così ho soltanto bisogno di un buon sonno e forse domattina tutto andrà meglio."

Lo sguardo gli cadde sull’Octavo, delineato da minuscole scintille di ottarino. "Oh sì" pensò.

Lo raccolse e ne sfogliò distrattamente le pagine. Erano coperte da una scrittura complessa e ondeggiante che cambiava e si riformava sotto i suoi occhi. Come indecisa su ciò che avrebbe dovuto essere. Un momento erano caratteri ordinati e pratici, e subito dopo una serie di geroglifici angolosi. Quindi le misteriose lettere a spirale della lingua kythiana. E ancora gli ideogrammi di una scrittura antica, una scrittura malvagia e dimenticata, consistente esclusivamente di creature serpentine in movenze complicate intese a farsi reciprocamente del male…

L’ultima pagina era vuota. Scuotivento sospirò e guardò nella profondità della sua mente. L’Incantesimo gli restituì lo sguardo.

Scuotivento aveva sognato il momento in cui finalmente avrebbe espulso l’Incantesimo e, ripreso possesso della propria testa, avrebbe appreso tutti quei sortilegi minori che, fino allora, avevano avuto troppa paura per rimanere nella sua mente. In certo modo, quel momento lo aveva immaginato molto più eccitante.

Invece, completamente esausto e senza nessuna voglia di mettersi a discutere, fissò freddamente l’Incantesimo e metaforicamente fece un gesto significativo col pollice sopra la spalla.

"Tu. Fuori."

Per un momento sembrò che l’Incantesimo volesse protestare, ma saggiamente ci ripensò.

Scuotivento provò un formicolio, un lampo azzurro dietro gli occhi e un senso improvviso di vuoto.

Quando abbassò lo sguardo sulla pagina, era piena di parole. Ancora geroglifici. Lui ne fu contento. Non solo gli ideogrammi serpentini non erano profferibili, ma probabilmente anche impronunciabili e gli rammentavano cose che gli sarebbe stato assai difficile dimenticare.

Fissò il libro senza vederlo mentre Duefiori si muoveva inosservato e Cohen tentava invano di sfilare gli anelli dalle dita dei maghi pietrificati.

Doveva fare qualcosa, si ricordò Scuotivento, ma che cosa?

Aprì il libro alla prima pagina e cominciò a leggere, muovendo le labbra e seguendo col dito ogni lettera. Mentre la pronunciava, ogni parola appariva senza suono nell’aria accanto a lui, a colori vivaci che si perdevano nel vento della notte.

Girò la pagina.

Altre persone stavano arrivando su per la scala, adepti della stella, cittadini, perfino alcuni componenti della guardia personale del Patrizio. Due di quelli della stella tentarono senza troppa convinzione di avvicinarsi a Scuotivento, il quale era adesso circondato da un turbine di lettere di tutti i colori dell’arcobaleno e non prestò loro alcuna attenzione. Ma Cohen, sguainata la spada, li guardò con aria indifferente e quelli ci ripensarono.

Dalla figura china di Scuotivento il silenzio si propagava come le increspature dell’acqua in una pozzanghera. Si riversò giù dalla torre, si disperse tra la folla in basso, aleggiò sopra le mura, scivolò attraverso le tenebre della città e si richiuse sulle terre più in là.

La massa della stella incombeva silente sul Disco. Nel cielo intorno ad essa le nuove stelle ruotavano adagio e senza rumore.

L’unico suono era il mormorio rauco di Scuotivento mentre voltava pagina su pagina.

— Non è eccitante? — esclamò Duefiori. Cohen, che si stava arrotolando una sigaretta con i resti catramosi delle sue antenate, lo guardò senza comprendere, con la mano a mezz’aria.

Che cosa non è eccitante? — domandò.

— Tutta questa magia.

— Sono solo luci — ribatté l’altro in tono critico. — Non ha nemmeno tirato fuori delle colombe dalle maniche.

— Si, ma non riesci a sentire l’occulta potenzialità?

Cohen estrasse dalle profondità della sua borsa di tabacco un grosso fiammifero giallo, guardò per un momento Wert e glielo accese risoluto sul naso fossilizzato.

— Ascolta — disse a Duefiori, cercando di essere il più cortese possibile. — Cosa ti aspetti? Io sono stato in giro a lungo, ho assistito a tutta questa faccenda della magia. E posso assicurarti che se continui ad andartene a spasso a bocca spalancata, qualcuno ti darà un bel pugno sulla mascella. Comunque, i maghi muoiono come chiunque altro quando li infilzi…

Scuotivento chiuse il libro rumorosamente. Si rialzò e si guardò intorno.

Che accadde allora?

Nulla.

Alla gente ci volle un po’ di tempo per rendersene conto. Ognuno istintivamente si era abbassato, aspettandosi l’esplosione di una luce bianca o di una palla di fuoco scintillante. Oppure, nel caso di Cohen le cui aspettative erano assai modeste, qualche piccione bianco, possibilmente un coniglio un po’ malconcio.

Non fu nemmeno un nulla interessante. È vero, a volte le cose non accadono, però, in maniera assai impressionante. Ma, in fatto di non-avvenimenti, quello lì non era all’altezza.

— È tutto qui? — commentò Cohen. Dalla folla venne un borbottio di protesta e parecchi adepti della stella guardarono incolleriti Scuotivento.

Il mago fissò confuso il vecchio eroe. — Suppongo di sì — disse.

— Ma non è accaduto niente.

Scuotivento allora guardò con aria vacua l’Octavo.

— Forse — disse in tono speranzoso — ha un effetto misterioso? Dopo tutto, non sappiamo esattamente che cosa dovrebbe accadere.

— Noi lo sapevamo! — gridò un seguace della stella. — La magia non funziona! È tutta un’illusione!

Una pietra, scagliata da sopra il tetto, colpì Scuotivento su una spalla.

— Sì! — esclamò un altro della setta della stella. — Prendiamolo!

— Buttiamolo giù dalla torre!

— Sì, prendiamolo e buttiamolo giù dalla torre!

La folla si fece avanti minacciosa. Duefiori alzò le mani.

— Sono sicuro che si è trattato soltanto di un piccolo errore… — cominciò, prima che un calcio gli facesse piegare le gambe.

— Oh, accidenti! — Cohen lasciò cadere il suo mozzicone e lo spense sotto il piede calzato di sandalo. Tirò fuori la spada e si guardò intorno in cerca del Bagaglio.

Questi non si era precipitato in soccorso di Duefiori. Ma se ne stava davanti a Scuotivento che, l’Octavo stretto al petto come una borsa dell’acqua calda, era spaventato a morte.

Uno della stella si lanciò contro di lui. Il Bagaglio sollevò minacciosamente il coperchio.

— Io lo so perché non ha funzionato — disse una voce alle spalle della folla. Era Bethan.

— Ah, sì? — ribatté il cittadino più vicino. — E perché dovremmo ascoltarti?

Un attimo più tardi la spada di Cohen era puntata contro il suo collo.

— D’altra parte — disse allora quello con voce piatta — forse dovremmo fare attenzione a quanto ha da dire questa giovane donna.

Cohen si voltò adagio, sempre con la spada in posizione. Bethan si fece avanti e puntò il dito alle forme turbinanti degli incantesimi, ancora sospese nell’aria attorno a Scuotivento.

— Quella deve essere sbagliata — affermò e indicò una macchia brunastra tra le fiammelle pulsanti, dai vivaci colori. — Devi avere pronunciato male una parola. Fammi dare un’occhiata.

Scuotivento le passò l’Octavo senza dire niente. Lei lo aprì ed esaminò le pagine.

— Che scrittura strana — disse. — Non fa che cambiare. Che sta facendo alla piovra quella cosa che somiglia a un coccodrillo?

Scuotivento guardò da sopra la sua spalla e. senza pensarci, glielo disse. Lei restò un momento in silenzio.

— Oh, non sapevo che i coccodrilli potessero farlo — disse senza scomporsi.

— Si tratta semplicemente di un’antica scrittura per immagini — si affrettò a spiegare il mago. — Se aspetti, vedrai che cambierà. Gli Incantesimi possono apparire in ogni lingua conosciuta.

— Ti ricordi che cosa hai detto quando è comparso il colore sbagliato?

Scuotivento fece scorrere il dito sulla pagina.

— Lì, credo. Dove la lucertola a due teste sta facendo… qualsiasi cosa stia facendo.

Duefiori si sporse dietro l’altra spalla della ragazza. L’Incantesimo si tramutò in un’altra scrittura.

— Non so nemmeno pronunciarla — disse Bethan. — Circonflesso, circonflesso, punto, linea.

— Sono i geroglifici nevosi del Cupumuguk — dichiarò Scuotivento. — Credo che si dovrebbe pronunciare "zcr".

— Però non ha funzionato. Che ne dici di "scr"? Guardarono la parola. Che rimase del medesimo colore.

— Oppure "scc" — suggerì Bethan.

— Potrebbe essere "csff" — disse dubbioso il mago. Se mai, il colore brunastro si accentuò.

Fu la volta di Duefiori: — E se fosse "rsff"?

— Non essere sciocco — lo rimbeccò l’amico. — Con i geroglifi nevosi il…

Bethan gli allentò una gomitata nello stomaco e puntò il dito.

Nell’aria la forma brunastra era diventata di un rosso brillante.

Il libro tremò nelle mani della ragazza. Scuotivento l’afferrò per la vita, acchiappò Duefiori per il colletto e fece un salto indietro.

L’Octavo sfuggì dalle dita di Bethan e cadde. Ma non giunse a terra.


L’aria intorno all’Octavo si fece luminosa. Il libro s’innalzò lentamente, battendo le pagine come fossero ali.

Con un suono musicale, dolcemente vibrante, sembrò esplodere in un intricato, silenzioso fiore di luce, che si mosse rapido in avanti, impallidì, scomparve.

Ma qualcosa stava accadendo molto più in alto nel cielo…


Giù nelle profondità geologiche dell’enorme cervello della Grande A’Tuin nuovi pensieri si formavano lungo percorsi neurali grandi come arterie stradali. Sebbene impossibile per una tartaruga celeste cambiare di espressione, in qualche modo indefinibile la sua faccia squamosa bucherellata da crateri di meteore aveva assunto un’aria di aspettativa.

Guardava fisso le otto sfere orbitanti senza posa intorno alla stella, sulle rive dello spazio.

Le sfere s’incrinarono.

Se ne staccarono grossi segmenti rocciosi che cominciarono la loro lunga discesa verso la stella. Il cielo si riempì di frammenti scintillanti.

Un uovo si schiuse e una piccolissima tartaruga celeste prese a nuotare nella luce rossa. Era appena più grande di un asteroide, il guscio ancora luccicante del tuorlo liquefatto.

E sul suo guscio c’erano anche quattro piccoli elefantini. Che sostenevano sulle loro schiene un mondo-Disco, ancora minuscolo, coperto di polvere e di vulcani.

La Grande A’Tuin attese finché tutte le otto tartarughine, liberatesi dei loro gusci, si furono avviate, ancora incerte, per lo spazio. Solo allora, con cautela per non spostare nulla, la vecchia tartaruga si girò e si accinse con grande sollievo alla lunga nuotata che l’avrebbe ricondotta alle profondità infinite, deliziosamente fredde, dello spazio.

Le giovani tartarughe tenevano dietro, nell’orbita della loro genitrice.


Duefiori contemplava rapito la scena che si svolgeva in alto. Godeva probabilmente della vista migliore che chiunque potesse avere sul Disco.

All’improvviso fu colto da un pensiero terribile.

— Dov’è la scatola a immagini? — chiese con ansia.

— Che cosa? — gli rispose Scuotivento con gli occhi fissi al cielo.

— La mia scatola a immagini. Devo ritrarre questa scena!

— Non ti basterebbe ricordarla? — ribatté Bethan senza guardarlo.

— Potrei dimenticarmene.

Io non la dimenticherò mai — esclamò lei. — È la cosa più bella che abbia mai visto.

Cohen fu d’accordo. — Molto meglio dei piccioni e delle palle da biliardo. Lo ammetto, Scuotivento. Come è successo?

— Non lo so.

— La stella sta diventando più piccola — disse Bethan.

Scuotivento si rendeva vagamente conto della voce di Duefiori che discuteva con il demone che albergava nella scatola e dipingeva le immagini. L’argomento era tecnico e riguardava la profondità di campo e se l’omuncolo avesse o no ancora abbastanza colore rosso.

Occorre far presente che generalmente la Grande A’Tuin era molto contenta e soddisfatta. E sensazioni simili, in un cervello delle dimensioni di parecchie grandi città, sono destinate a irradiarsi. E infatti la maggioranza degli abitanti del Disco erano di uno stato d’animo quale normalmente si raggiunge solo con una vita di meditazione o con una fumatina d’erba.

"Quello è il vecchio Duefiori" pensò Scuotivento. "Non che sia incapace di apprezzare la bellezza, semplicemente l’apprezza a modo suo. Voglio dire, se un poeta vede un asfodelo, lo guarda e ci scrive su una poesia. Invece Duefiori se ne va a cercare un libro di botanica. E il fiore lo calpesta. Cohen ha detto giusto. Il nostro amico guarda le cose, ma nulla di ciò che guarda è più lo stesso. Incluso me, sospetto."

Il sole del Disco si levò. La stella stava già scemando e non era più in grado di competere. La buona, fidata luce del Disco bagnava, simile a un mare d’oro, il paesaggio incantato.

O, come sostenevano generalmente gli osservatori più qualificati, simile a uno sciroppo dorato.


Un bel finale drammatico. Ma la vita non funziona così. C’erano altre cose destinate ad accadere.

C’era l’Octavo, per esempio.

Non appena fu toccato dalla luce del sole, il libro si richiuse e cominciò la sua discesa verso la torre. Molti dei presenti si resero allora conto che su di loro stava venendo giù l’unica cosa veramente magica di tutto il mondo-Disco.

Il sentimento di beatitudine e di fratellanza evaporò insieme con la rugiada mattutina. Scuotivento e Duefiori furono spinti da parte a gomitate dalla folla delle persone che si precipitavano in avanti, lottando e travolgendosi, le mani tese.

L’Octavo cadde in mezzo alla massa urlante. Vi fu uno scatto. Uno scatto deciso, il genere di scatto prodotto da un coperchio che non ha nessuna fretta di aprirsi.

Scuotivento lanciò un’occhiata a Duefiori, sbirciando tra le gambe della gente.

— Sai che cosa credo stia per accadere? — gli chiese con una smorfia divertita.

— Cosa?

— Credo che quando aprirai il Bagaglio, dentro ci sarà semplicemente la tua biancheria, ecco che cosa credo.

— Oh, povero me!

— Penso che l’Octavo sa come badare a se stesso. Quello è il posto migliore per lui, davvero.

— Suppongo di sì. Sai, qualche volta ho la sensazione che il Bagaglio sappia esattamente quello che fa.

— So che vuoi dire.

Strisciarono fuori dalla folla in tumulto, si rialzarono, si tolsero via la polvere e si diressero verso la scala. Nessuno prestò loro attenzione.

— Cosa stanno facendo? — domandò Duefiori, che si sforzava di guardare sopra le teste della calca.

— Pare che stiano cercando di forzare il coperchio — rispose il mago.

Si udì uno scatto e un urlo.

— Secondo me, il Bagaglio è molto compiaciuto dell’attenzione che riscuote — osservò Duefiori, mentre scendevano con precauzione giù per la scala a chiocciola.

— Sì, probabilmente gli fa bene uscire e incontrare gente. E adesso — concluse Scuotivento — credo che mi farebbe bene andare a ordinare un paio di bicchieri.

— Buona idea — approvò Duefiori. — Ne berrò un paio anch’io.


Duefiori si svegliò che era quasi mezzogiorno. Non ricordava perché si trovasse in un fienile o perché indossasse una giacca non sua. Ma si svegliò con un’idea ben precisa in mente.

Decise che era di vitale importanza parlarne a Scuotivento.

Cadde dalia paglia e atterrò sui Bagaglio.

— Oh, sei qui, tu? Spero ti vergognerai di te stesso — gli disse.

Il Bagaglio sembrò sconcertato.

— Comunque, voglio pettinarmi. Apri — ordinò l’ometto.

Il Bagaglio, compiacente, spalancò il coperchio. Duefiori frugò tra le borse e le scatole finché trovò un pettine e uno specchio e mise riparo ai danni della notte. Poi guardò severamente il Bagaglio.

— Immagino che non hai intenzione di dirmi cosa hai fatto con l’Octavo?

Per descrivere l’espressione del Bagaglio l’unico aggettivo sarebbe "legnoso".

— Benissimo. Vieni via, allora.

Duefiori uscì nella luce del sole, un po’ troppo vivida per i suoi gusti, e camminò senza meta per la strada. Ogni cosa aveva un aspetto fresco e nuovo, perfino gli odori, ma in giro c’era poca gente. Era stata una lunga notte.

Trovò Scuotivento ai piedi della Torre dell’Arte a dirigere una squadra di operai. Questi avevano innalzato sul tetto una specie di cavalletto e stavano calando a terra i maghi di pietra. Gli parve che fosse assistito da una scimmia, ma Duefiori non era di umore da sorprendersi di nulla.

— Potranno tornare com’erano? — chiese.

Scuotivento si voltò. — Cosa? Ah, sei tu. No, probabilmente no. A ogni modo, temo che abbiano fatto cadere il povero Wert. Sul selciato da centocinquanta metri.

— Potrai rimediare?

— Farci un bel giardino roccioso.

— Sei molto allegro. — Nella voce di Duefiori vibrò una nota di rimprovero. — Non sei andato a letto?

— Strano, non riuscivo a dormire — rispose Scuotivento. — Sono uscito a prendere una boccata d’aria e nessuno sembrava sapesse cosa fare. Così mi sono messo a radunare la gente — indicò il bibliotecario, che cercava di tenergli la mano — e ho cominciato a organizzare un po’ le cose. Bella giornata, vero? L’aria è come il vino.

— Scuotivento, ho deciso che…

— Sai, sto pensando che potrei iscrivermi di nuovo — rispose tutto allegro l’amico. — Credo che questa volta potrei veramente farcela. Mi sento in grado di padroneggiare la magia e laurearmi a pieni voti. Dicono che, se si ottiene il summa cum laude, dopo uno se la passa bene…

— Ottimo, perché…

— E poi, ora al vertice c’è molto spazio, dato che tutti i pezzi grossi serviranno da fermaporta, e…

— Io me ne torno a casa.

— …un ragazzo sveglio con un po’ di esperienza del mondo potrebbe… che cosa?

— Oook?

— Ho detto che torno a casa — ripeté Duefiori, che tentava cortesemente di scuotersi di dosso il bibliotecario, il quale cercava di togliergli i pidocchi.

— Quale casa? — Scuotivento era meravigliato.

— Casa, casa. Casa mia. Dove vivo — spiegò pazientemente l’ometto. — Al di là del mare. Sai. da dove sono venuto. Vorrebbe per piacere smetterla? — (rivolto al bibliotecario).

— Oh! — fece il mago.

— Oook? — fece il bibliotecario.

Dopo una pausa. Duefiori riprese: — Vedi, mi è venuto in mente la notte scorsa. Ho pensato, be’, il fatto è, tutto quel viaggiare e vedere le cose è bello. Ma ci si può anche divertire un sacco dall’esserci stato. Sai, incollare tutte le immagini in un libro e ricordarsi le cose.

— Davvero?

— Oook?

— Oh, sì. L’importante del fatto di avere un sacco di cose da ricordare è che dopo si deve andare in qualche posto dove potersene ricordare, capisci? Non si è stati mai realmente da nessuna parte, finché non si è tornati a casa. È così che la intendo io.

Scuotivento si ripeté mentalmente la frase. Che non gli parve migliore nemmeno la seconda volta.

— Oh! — esclamò ancora. — Be’, giusto. Se è così che la vedi tu. Allora, quando parti?

— Oggi, penso. Ci dev’essere una nave che fa una parte del viaggio.

— Suppongo di sì. — Scuotivento era imbarazzato. Si guardò i piedi. Guardò il cielo. Si schiarì la gola.

— Ne abbiamo passate delle belle insieme, eh? — disse Duefiori, dandogli una gomitata nelle costole.

— Già — approvò l’amico e contorse la faccia in una specie di sorriso.

— Non sei inquieto, vero?

— Chi, io? No, perdinci. Ho cento e più cose da fare.

— Benissimo, allora. Ascolta, andiamo a fare colazione e dopo possiamo scendere al molo.

Scuotivento annuì con aria lugubre, si girò verso il suo assistente e tirò fuori una banana dalla tasca.

— Adesso che sai come si fa, prendi tu il comando — borbottò.

— Oook.


In realtà non c’era nemmeno una nave in partenza verso l’Impero Agateo. Ma il fatto era irrilevante perché Duefiori contò semplicemente qualche moneta d’oro nella mano del primo capitano di un veliero in procinto di salpare, finché l’uomo vide improvvisamente il vantaggio di cambiare i propri piani.

Scuotivento aspettò sul molo finché Duefiori non ebbe finito di pagare il capitano quaranta volte il valore della sua nave.

— Ecco sistemata la faccenda — annunciò l’ometto. — Mi sbarcherà alle Isole Scure e da lì troverò facilmente un’altra nave.

— Splendido — commentò Scuotivento.

Duefiori rimase un momento soprappensiero. Poi aprì il Bagaglio e ne estrasse una borsa d’oro.

— Hai visto Cohen e Bethan? — domandò.

— Credo che siano andati a sposarsi — rispose il mago. — Ho sentito Bethan dire che sarebbe stato ora o mai.

— Bene, quando li vedi dagli questa. — Duefiori gli tese la borsa. — So che mettere su casa per la prima volta costa parecchio.

L’ometto non aveva mai capito bene l’enorme differenza nel tasso di cambio. La borsa avrebbe facilmente procurato a Cohen un piccolo regno.

— Gliela darò alla prima occasione — lo assicurò Scuotivento e si accorse con sua sorpresa che intendeva farlo.

— Bene. Ho pensato di dare qualcosa anche a te.

— Oh, non c’è…

Duefiori frugò nel Bagaglio e ne estrasse un grosso sacco. Prese a riempirlo con indumenti e denaro e la scatola a immagini fino a vuotarlo del tutto. L’ultima cosa che ci mise fu il souvenir della scatola di sigarette musicale dal coperchio incrostato di conchiglie, accuratamente avvolta in carta velina.

— È tutto tuo — disse, richiudendo il coperchio del Bagaglio. — Io non ne avrò più bisogno e comunque non ci starebbe nel mio armadio.

— Cosa?

— Non lo vuoi?

— Be’, io… naturalmente, ma… è tuo. Segue te, non me.

— Bagaglio — disse Duefiori — questo è Scuotivento. Tu sei suo, va bene?

Il Bagaglio tirò fuori adagio le sue gambette e si voltò deciso a guardare il mago.

— In realtà, sono convinto che lui non appartenga ad altri che a se stesso — dichiarò Duefiori.

— Sì — approvò incerto Scuotivento.

— Be’, ecco fatto, allora. — L’ometto tese la mano.

— Addio, Scuotivento. Ti manderò una cartolina quando arrivo a casa. O qualche cosa.

— Sì. Ogni volta che passi di qua, c’è sempre qualcuno che sa dove mi trovo.

— Sì. Bene. Questo è quanto, allora.

— Questo è quanto, giusto.

— Giusto.

— Già.

Duefiori si avviò su per la passerella d’imbarco, che la ciurma della nave ritirò subito dopo.

Il tamburo cominciò a scandire il ritmo della voga e la nave venne spinta lentamente fuori nelle torbide acque dell’Ankh, ritornato al suo vecchio livello, s’immise nella marea e si diresse in mare aperto.

Scuotivento restò a fissarla finché non fu più che un puntino. Allora abbassò gli occhi sul Bagaglio, che gli ricambiò lo sguardo.

— Senti — gli disse — vattene. Ti restituisco a te stesso, mi capisci?

Gli girò le spalle e si allontanò. Pochi secondi dopo udì dei passetti che lo seguivano. Si voltò di scatto.

— Ho detto che non ti voglio. — E gli allungò un calcio.

Il Bagaglio si afflosciò. Scuotivento seguitò per la sua strada.

Dopo qualche metro si fermò, in ascolto. Non sentì nulla. Si girò a guardare. Il Bagaglio era dove lo aveva lasciato. Sembrava come ripiegato su se stesso. Il mago ci pensò un po’ su.

— Va bene, allora — disse. — Vieni.

Gli voltò le spalle e si diresse all’Università. Pochi minuti più tardi, giunto a una decisione, il Bagaglio allungò le gambe e lo seguì. Non gli pareva di avere una grande scelta.

Proseguirono lungo la banchina e poi in città. Due puntini in un paesaggio che si andava rimpiccolendo e che comprendeva, mano a mano che la prospettiva si allargava, una minuscola nave in mezzo a un vasto mare verde. A sua volta, solo una parte di un oceano che cingeva un Disco spazzato dalle nuvole, sostenuto da quattro giganteschi elefanti, poggiati essi stessi sul carapace di un’enorme tartaruga.

Che presto non fu più che un bagliore tra le stelle, e scomparve.

FINE
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