In effetti, non avrebbe dovuto preoccuparsi. Il Bagaglio lo raggiunse senza difficoltà, le sue gambette in un turbine di movimento. Al mago diede l’impressione di essere tutto concentrato sulla corsa, come se avesse qualche indizio di ciò che lo inseguiva e l’idea non gli piacesse affatto.
"Non guardarti indietro" si disse Scuotivento. "Probabilmente non è una vista molto piacevole."
Il Bagaglio s’infilò dentro un cespuglio e sparì.
Un momento dopo il mago vide perché. Aveva sbandato sull’orlo del pianoro e stava precipitando verso la grande cavità sottostante, in fondo alla quale scorgeva un chiarore rosso. Due baluginanti linee azzurre si dispartivano da Scuotivento e sparivano da sopra le rocce giù nella cavità.
Lui si fermò incerto. Benché questo non sìa precisamente vero, visto che di diverse cose era invece certissimo. Per esempio, di non volere affatto saltare giù; di non volere affrontare qualunque cosa fosse che lo seguiva; e che, per essere nel mondo degli spiriti. Duefiori era davvero pesante. E che c’erano cose peggiori dell’essere morti.
— Nominane due — borbottò e si buttò giù.
Pochi secondi dopo i cavalieri arrivarono e, giunti sul bordo delle rocce, non si arrestarono ma proseguirono semplicemente nell’aria e trattennero i loro cavalli sopra il nulla.
La Morte guardò giù.
— QUESTO FATTO MI IRRITA SEMPRE. — disse. — TANTO VARREBBE CHE INSTALLASSI UNA PORTA GIREVOLE.
— Mi chiedo che cosa volessero? - domandò la Pestilenza.
— Non chiederlo a me — disse la Guerra. — Un gioco simpatico, però.
— Giusto — convenne la Fame. — Coinvolgente, direi.
— ABBIAMO TEMPO PFR UN’ALTRA PASSATINA — disse la Morte.
— Mano — corresse la Guerra.
— CHE?
— Si chiamano mani — spiegò la Guerra.
— VA BENE, MANI — dichiarò la Morte. Guardò in alto la nuova stella, incerta del suo significato.
— PENSO CHE ABBIAMO TUTTO IL TEMPO — ripeté, un po’ dubbiosa.
Si è già accennato al tentativo d’introdurre un po’ di onestà nella storia del Disco e come a poeti e bardi fosse proibito, pena la… oh. be’ pena la… di blaterare di ruscelli e albe rosee. E come gli fosse soltanto permesso di dire, per esempio, che una delle sue due facce aveva varato un migliaio di navi purché fossero in grado di esibire la bolletta quietanzata del cantiere navale.
E pertanto, in osservanza di tale tradizione, non diremo di Scuotivento e Duefiori che divennero un’onda sinusoidale spaziante nelle dimensioni buie o un rumore simile allo strofinio di una zanna mostruosa o che videro la loro vita passargli davanti agli occhi. (In ogni caso, Scuotivento aveva visto scorrergli davanti così tante volte la sua vita passata da poter dormire durante gli episodi noiosi.) O ancora che l’universo si riversò addosso ai due come una massa gelatinosa.
Diremo, perché l’esperimento ha dimostrato che è vero, che vi fu un rumore come se un regolo di legno venisse percosso con un diapason in do diesis, forse anche in si bemolle, seguito da una subitanea impressione di immobilità assoluta.
E ciò perché loro erano assolutamente immobili in un buio assoluto.
Scuotivento immaginò che qualcosa fosse andata storta.
Poi vide davanti a sé la debole traccia azzurra.
Si trovava di nuovo dentro l’Octavo. Che sarebbe accaduto, si chiese, se qualcuno avesse aperto il libro; lui e Duefiori sarebbero apparsi come una tavola a colori?
Probabilmente no, decise. L’Octavo in cui sì trovavano era alquanto diverso dal libro incatenato al suo leggio nelle profondità dell’Università Invisibile, libro che era puramente la rappresentazione tridimensionale di una realtà multidimensionale, e…".
"Un momento" pensò. "Non sono io che penso così. Chi è che sta pensando per me?"
— Scuotivento — disse una voce simile al fruscio di vecchie pagine.
— Chi? Io?
Nel cuore messo a dura prova del mago guizzò per un attimo un sussulto di sfida.
Disse in tono maligno: — Siete poi riusciti a ricordare qual è stato l’inizio dell’Universo? Non era lo Schiarirsi la Gola, o Tirare il Fiato o Grattarsi la Testa e Cercare di Rammentarlo? Oppure era Sulla Punta della Lingua?
Un’altra voce, arida come il legno secco, sibilò: — Faresti bene a ricordarti dove ti trovi. — Dovrebbe essere impossibile sibilare una frase senza le sibilanti, ma la voce ci riuscì ottimamente.
— Ricordarmi dove sono? Ricordarmi dove sono? — urlò Scuotivento. — Certo che mi ricordo dove sono. Mi trovo dentro a un maledetto libro a parlare con un sacco di voci che non posso vedere. Perché credi che stia gridando?
— Immagino ti chiederai perché ti abbiamo riportato qui — gli disse all’orecchio una voce.
— No.
— No?
— Che ha detto? — chiese un’altra voce disincarnata.
— Ha detto di no.
— Ha veramente detto no?
— Sì.
— Oh!
— Perché?
— Cose del genere mi accadono tutto il tempo — affermò Scuotivento. — Un minuto prima cado fuori del mondo, poi mi trovo dentro un libro, quindi su un masso volante, poi osservo la Morte giocare a Chiusa o Diga o che altro fosse. Perché dunque dovrei meravigliarmi?
— Be’, noi supponiamo che ti chiederai perché non vogliamo che nessuno ci pronunci — spiegò la prima voce, conscia di stare perdendo l’iniziativa.
Il mago esitò. Quel pensiero gli era passato per la mente, solo in gran fretta e guardandosi nervosamente a destra e a sinistra nel caso lo mettessero k.o.
— Perché qualcuno dovrebbe desiderare di pronunciarvi?
— È la stella. La stella rossa. I maghi ti stanno già cercando; quando ti trovano, vogliono pronunciare tutti gli Otto Incantesimi insieme per cambiare il futuro. Pensano che il Disco sta per scontrarsi con la stella.
Scuotivento ci pensò su. — È così?
— Non esattamente, ma in… e questo cos’è?
Scuotivento abbassò gli occhi. Il Bagaglio sbucò dall’oscurità. Dal suo coperchio spuntava il lungo frammento di una lama di falce.
— È solo il Bagaglio — disse il mago.
— Ma non lo abbiamo chiamato qui!
— Nessuno lo convoca — ribatté Scuotivento. — Si presenta e basta. Non preoccupatevi.
— Oh! Di che stavamo parlando?
— La faccenda di quella stella rossa.
— Giusto. È molto importante che tu…
— Salve? Ehi! C’è qualcuno là?
Era una vocetta acuta proveniente dalla scatola a immagini che pendeva ancora dal collo inerte di Duefiori.
Il demonietto aprì la porticina e guardò Scuotivento.
— Dove sarebbe questo posto, egregio?
— Non ne sono sicuro.
— Siamo sempre morti?
— Forse.
— Be’, speriamo di andare da qualche parte dove non ci occorra troppo colore nero, perché l’ho finito. — La porticina si richiuse.
Scuotivento ebbe la fuggevole visione di Duefiori che faceva circolare le immagini e pronunciava frasi del genere "Questo sono io tormentato da un milione di demoni" e "Questo sono io con quello strano paio che abbiamo incontrato sui pendii gelati dell’Oltretomba". Il mago non sapeva per certo cosa succedeva dopo che uno era morto per davvero, le autorità non erano molto chiare in proposito. Un marinaio dalla pelle scura che veniva dalle terre del Bordo si era detto fiducioso di andare in un paradiso dove c’erano succo di frutta e uri. Scuotivento non sapeva bene che cosa fossero le uri, ma dopo averci riflettuto era giunto alla conclusione che doveva trattarsi di un tubetto di liquerizia per succhiare il succo di frutta. A lui, comunque, il succo di frutta lo faceva sternutire.
— Ora che l’interruzione è finita — dichiarò una voce — forse possiamo proseguire. È della massima importanza che tu non permetta ai maghi di portati via l’Incantesimo. Se tutti gli Otto Incantesimi saranno pronunciati troppo presto, accadranno cose terribili.
— Voglio soltanto essere lasciato in pace — protestò Scuotivento.
— Bene, bene, sapevamo di poterci fidare di te fin dal giorno in cui hai aperto l’Octavo.
Il nostro esitò. — Aspettate un minuto. Volete che io me ne vada in giro a impedire ai maghi d’impadronirsi di tutti quanti gli incantesimi?
— Esatto.
— È per questo che uno di voi mi è entrato nella testa?
— Precisamente.
— Voi avete distrutto completamente la mia vita, lo sapete questo? — ribatté con veemenza Scuotivento. — Come mago avrei potuto farcela, se voi non aveste deciso di usarmi come una specie di libro degli incantesimi portatile. Non sono capace di ricordare nessun altro incantesimo perché sono troppo spaventati di stare nella mia testa insieme a voi!
— Ci rincresce.
— Voglio soltanto tornarmene a casa! Voglio ritornare dove… — gli occhi del mago s’inumidirono — dove uno sente il selciato sotto i piedi e la birra non è troppo cattiva e di sera si può mangiare dell’ottimo pesce fritto forse con contorno di grossi cetrioli. E anche un pasticcio di anguilla e un piatto di vongole. E dove si trova sempre una stalla per dormirci al calduccio. E la mattina uno si sveglia nello stesso posto della sera prima, senza preoccuparsi del tempo che fa. Voglio dire, non m’importa della magia. Sapete, probabilmente non ho la stoffa giusta per fare un mago. Voglio soltanto tornarmene a casa!
— Ma tu devi… — cominciò uno degli Incantesimi.
Troppo tardi. La nostalgia, quel piccolo elastico del subconscio capace di dare la carica al salmone e spingerlo a tremila miglia di distanza attraverso strani mari. O capace di sospingere un milione di lemming a correre gioiosi verso la loro terra ancestrale la quale, a seguito di un lieve scarto della deriva continentale non è più là… La nostalgia invase Scuotivento come un gambero, fluì lungo i fragili fili che tenevano insieme la sua anima torturata al corpo, affondò le pinze e tirò…
Gli Incantesimi si ritrovarono soli dentro l’Octavo.
Soli, in ogni caso, a prescindere dal Bagaglio.
Lo fissarono, non con gli occhi, ma con la consapevolezza antica come lo stesso mondo-Disco.
— E anche tu puoi toglierti dalle scatole — dissero.
— …male.
Scuotivento sapeva che era lui che parlava, riconosceva la voce. Per un momento guardò attraverso i propri occhi, ma non in modo normale. Piuttosto come una spia che sbircia attraverso le fessure ritagliate negli occhi di una fotografia. Un attimo dopo era tornato.
— Stai bene, Scuotivento? — gli chiese Cohen. — Sembrava che non fosci qui.
— Eri piuttosto pallido — aggiunse Bethan. — Come se qualcuno avesse camminato sulla tua tomba.
— Uhm, già, probabilmente ero io. — Alzò una mano e si contò le dita. Pareva che fossero del numero giusto.
— Ehm, mi sono mosso? — domandò.
— Fissavi il fuoco come se vedessi un fantasma — disse Bethan.
Udirono un gemito alle loro spalle. Duefiori si era messo seduto e si teneva la testa nelle mani.
I suoi occhi li misero a fuoco, le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono.
— È stato veramente… un sogno strano — disse. — Cos’è questo posto? Perché sono qui?
— Be’ — cominciò Cohen — scerti dicono che il Creatore ha prescio una mansciata di creta e…
— No, io voglio dire qui. Sei tu. Scuotivento?
— Sì — rispose il mago, con il beneficio del dubbio.
— C’era questa… un orologio che… e quelle persone che… — balbettò Duefiori e scosse la testa. — Perché ogni cosa odora di cavallo?
— Sei stato malato — lo informò l’amico. — Allucinazioni.
— Già… suppongo di sì. — Duefiori si guardò il petto. — Ma in questo caso, perché ho…
Scuotivento balzò in piedi.
— Scusatemi, qui dentro manca l’aria, devo andare fuori a respirare un po’. — Sfilò dal collo di Duefiori la cinghia della scatola a immagini e si precipitò verso l’apertura della tenda.
— Non avevo notato quell’oggetto quando lui è entrato — osservò Bethan. Cohen alzò le spalle.
Scuotivento era riuscito ad allontanarsi qualche metro dalla tenda prima che la rotellina della scatola a immagini si mettesse a scattare. Molto adagio venne fuori l’ultima immagine presa dal demonietto.
Scuotivento fu pronto a tirarla via.
Ciò che mostrava sarebbe stato orribile anche alla piena luce del giorno. Ancora peggio, alla gelida luce stellare, tinta di rosso dai fuochi della nuova stella di cattivo augurio.
— No — disse il mago sottovoce. — No, non era così. C’era una casa e quella ragazza e…
Dal suo sportellino, l’omuncolo gli disse: — Tu vedi ciò che vedi e io dipingo ciò che vedo. Ciò che vedo è reale. Sono stato addestrato per questo. Vedo soltanto ciò che c’è realmente.
Una sagoma scura avanzò sulla neve gelata verso il mago. Era il Bagaglio. A Scuotivento, che di solito l’odiava e non si fidava di lui, parve a un tratto la cosa più piacevolmente normale che avesse mai visto.
— Dunque, vedo che ce l’hai fatta — gli disse. Il Bagaglio scosse il coperchio.
— Okay, ma tu che cosa hai visto? — gli domandò Scuotivento. — Ti sei guardato dietro?
Il Bagaglio non rispose. Per un momento rimasero in silenzio, come due guerrieri che, fuggiti dalla scena del massacro, fanno una pausa per riprendere fiato e ritrovare il proprio equilibrio.
Quindi il mago gli disse: — Vieni, là dentro c’è un fuoco — e tese una mano per battergli amichevolmente sul coperchio. Poco mancò, invece, che questo gli azzannasse le dita. La vita era tornata alla normalità.
Il giorno seguente si levò brillante, limpido e freddo. Il cielo era una volta azzurra sulla bianca distesa del mondo. L’effetto generale era fresco e pulito come la pubblicità di una pasta dentifricia, se non fosse stato per il punto rosso all’orizzonte.
— Adescio lo puoi vedere bene alla lusce del giorno — disse Cohen. — Che cosc’è?
Fissò intento Scuotivento, che arrossì.
— Perché tutti mi guardano? — protestò. — Non so che cos’è, forse è una cometa o roba del genere.
— Verremo bruciati tutti? — chiese Bethan.
— Come faccio a saperlo? Non sono mai stato colpito da una cometa prima d’ora.
Cavalcavano in fila indiana per il campo brillante di neve. Il popolo dei Cavalli, che evidentemente teneva Cohen in grande stima, gli aveva fornito le cavalcature e gli aveva dato le indicazioni per raggiungere il fiume Smarl, a centosessanta chilometri verso il Bordo, dove, secondo Cohen, Scuotivento e Duefiori avrebbero potuto trovare un’imbarcazione che li portasse al Mare Circolare. Aveva annunciato che li avrebbe accompagnati, per via dei suoi geloni.
Subito Bethan aveva dichiarato che sarebbe andata anche lei, nel caso Cohen avesse bisogno di un massaggio.
Scuotivento aveva la vaga impressione che qualcosa bollisse in pentola. Tanto per cominciare, Cohen aveva fatto uno sforzo per pettinarsi la barba.
— Credo che lei abbia molta simpatia per te — gli disse. Cohen sospirò.
— Se fosci venti anni più giovane — esclamò in tono nostalgico.
— Sì?
— Avrei sesciantascette anni.
— E questo che c’entra?
— Be’… come dire? Quando ero un giovanotto, che mi fascevo un nome nel mondo, be’, allora le mie donne mi piascevano rosce di capelli e ardite.
— Ah!
— E dopo sono diventato un po’ più vecchio, e di preferenza scercavo una donna dai capelli biondi e negli occhi il luscicchio del mondo.
— Oh? Sì?
— Ma poi, ancora un po’ più vecchio, ho capito i vantaggi delle donne brune e appascionate di natura.
Tacque. Il mago aspettava.
— E? — lo incalzò. — E poi? Cosa cerchi adesso in una donna? Cohen volse verso di lui i suoi azzurri occhi acquosi.
— La pazienza.
— Non riesco a crederci! — disse una voce dietro di loro. — Io cavalcare con Cohen il Barbaro?
Era Duefiori. Fin dal primo mattino, dopo avere scoperto di respirare la stessa aria del più grande eroe di tutti i tempi, era come una scimmia che ha la chiave di una piantagione di banane.
— Sta forse fascendo del sarcasmo? — domandò Cohen al mago.
— No. Fa sempre così.
Cohen si girò sulla sella. L’ometto gli fece un gran sorriso e agitò la mano, tutto fiero. Cohen si rigirò con un brontolio.
— Ha occhi per vedere, eh?
— Già, ma non gli funzionano come a tutti gli altri, te lo garantisco. Voglio dire… be’, ricordi la tenda del popolo dei Cavalli, dove abbiamo passato la notte?
— Scì.
— Non diresti che era piuttosto scura e unta e puzzava come un cavallo molto malato?
— Una descrizione molto accurata, direi.
— Lui non sarebbe d’accordo. Direbbe che era una splendida tenda barbara, tappezzata con le pelli dei grandi animali cacciati dai guerrieri con gli occhi a mandorla fin dai primordi della civiltà; e che odorava di aromi curiosi e rari derubati alle carovane che attraversano i deserti… be’ e via così. Parlo sul serio — aggiunse.
— È matto?
— In un certo senso. Ma un matto con un sacco di quattrini.
— Ah, allora non può essere matto. Io ho girato molto. Sce un uomo ha un sciacco di quattrini, è sciolo un escentrico.
Cohen si girò di nuovo sulla sella. Duefiori stava raccontando a Bethan come l’eroe avesse sconfitto da solo i guerrieri del serpente dello stregone di S’belinde e rubato il diamante sacro dalla gigantesca statua di Offler, il Dio Coccodrillo.
Sulla faccia grinzosa di Cohen si disegnò un sorriso bizzarro.
— Se vuoi, potrei dirgli di piantarla — gli disse Scuotivento.
— Lo farebbe?
— No, non proprio.
— Allora lascialo sciansciare. — L’eroe portò la mano all’elsa della spada, levigata da decenni di uso.
— A ogni modo — disse — i suoi occhi mi piacciono. Sono capasci di vedere per scinquanta anni.
A una decina di metri di distanza, il Bagaglio li seguiva saltellando goffamente nella neve soffice. Nessuno chiedeva mai la sua opinione su qualsiasi argomento.
A sera erano arrivati al limite degli altipiani e scesero attraverso le cupe foreste di pini, appena spruzzate dalla tempesta di neve. Era un paesaggio di enormi massi frastagliati e di valli così strette e profonde che la luce del giorno durava appena una ventina di minuti. Una terra ventosa e selvaggia, del tipo dove uno si aspetterebbe di trovare…
Cohen annusò l’aria. — Troll — affermò.
Scuotivento si guardò intorno nella luce rossastra della sera. A un tratto, rocce che erano apparse perfettamente normali, gli sembrarono prendere vita. Ombre, che lui non avrebbe guardato due volte, ora cominciarono a parergli non più semplicemente tali.
— I troll mi piacciono — annunciò Duefiori.
— Non è vero — lo rimbeccò l’amico. — Non è possibile. Sono grossi e bitorzoluti e mangiano le persone.
— No, non lo fanno — dichiarò Cohen, che scivolò giù da cavallo con una certa fatica e prese a massaggiarsi le ginocchia. — È un equivoco ben noto. I troll non hanno mai mangiato nesciuno.
— No?
— No. sputano scempre fuori i pezzetti. Non digeriscono le perscione, capisci? Un troll normale non chiede altro alla vita che un bel tocco di granito, magari con una fetta di calcare per finire. Ho sentito qualcuno dire che è cosci perché sciono un scilicash… un scilisceo… — Cohen fece una pausa per asciugarsi la barba — perché sciono fatti di rosce.
Scuotivento annuì. Naturalmente i troll non erano sconosciuti a Ankh-Morpork, dove trovavano spesso da impiegarsi come guardie del corpo. Mantenerli era un po’ dispendioso, finché loro non imparavano che esistevano le porte e smettevano di uscire di casa passando a casaccio attraverso la parete più vicina.
Mentre raccoglievano la legna per accendere il fuoco, Cohen continuò: — I denti dei troll, ecco cosc’è.
— Perché? — domandò Bcthan.
— Diamanti. Devono escerlo, capissci. La sciola coscia che può farscela con le rosce eppure deve crescergli una nuova scerie ogni anno.
— Parlando di denti… — cominciò Duefiori.
— Scì?
— Non posso fare a meno di notare…
— Scì?
— Oh, nulla.
— Scì? Oh! Ascendiamo queshto fuoco prima che fascia buio. E poi — Cohen fece la faccia afflitta — sciuppongo sciarà meglio fare un po’ di minestra.
— In questo Scuotivento è molto bravo — disse Duefiori con entusiasmo. — Sa tutto delle erbe, radici e via di seguito.
Cohen diede al mago un’occhiata eloquente per fargli capire che non ci credeva.
— Scenti — disse — il popolo dei Cavalli sci ha dato della carne di cavallo scecca. Se riesci a trovare delle scipolle scelvatiche e altra roba, potrebbe avere un sciapore migliore.
— Ma io… — cominciò il mago e poi ci rinunciò. "So com’è fatta una cipolla" pensò "un affare bianco arrotondato e dalla cima gli spunta un pezzetto verde; dovrebbe essere facilmente riconoscibile."
— Andrò a dare un’occhiata, va bene? — disse.
— Scì.
— Laggiù, dove il sottobosco è più fitto e ombroso?
— Ottima idea, scì.
— Vuoi dire dove ci sono tutte quelle forre profonde, ecc.?
— Un poshto ideale, direi.
— Già, ne ero sicuro — fu l’amaro commento del mago. Si avviò e intanto si chiedeva come si facesse ad attrarre le cipolle. Dopo tutto, benché uno le vedesse pendere a grappoli sulle bancarelle del mercato, forse i contadini o altri usano cani da cipolle o cantano delle canzoni per attirarle.
In cielo apparivano le prime stelle mentre lui si mise a frugare a casaccio tra le foglie e l’erba. Funghi luminosi, sgradevolmente simili a certi organi e con l’aspetto di protesi coniugali a uso degli gnomi, si spappolavano sotto i suoi piedi. Piccole creature volanti lo pungevano. Altre, per fortuna invisibili, saltellavano o scivolavano sotto i cespugli gracchiando come volessero rimproverarlo.
— Cipolle? — sussurrò Scuotivento. — Ci sono delle cipolle qui?
Una voce accanto a lui gli rispose: — Ce n’è una buona quantità sotto quel vecchio tasso.
— Ah, bene.
Seguì un lungo silenzio, interrotto soltanto dal ronzio delle zanzare intorno alle sue orecchie.
Scuotivento era rimasto immobile, senza nemmeno muovere gli occhi.
Alla fine disse: — Scusami.
— Sì?
— Oual è il tasso?
— Quello piccolo e contorto con gli aghi piccoli verde scuro.
— Ah, sì, lo vedo. Grazie ancora.
Ma non si mosse. Dopo un po’, la voce riprese in tono cordiale: — C’è altro che posso fare per te?
— Tu non sei un albero, vero? — chiese il mago, sempre guardando dritto davanti a sé.
— Non dire sciocchezze. Gli alberi non sanno parlare.
— Scusami. È solo che di recente ho incontrato qualche difficoltà con gli alberi, sai com’è.
— In verità no, io sono una roccia.
Il tono di voce di Scuotivento cambiò appena. — Bene, bene — disse adagio. — Bene, allora, vado a prendere quelle cipolle.
— Goditele.
Il mago avanzò con andatura cauta e dignitosa, scorse un ciuffo di cose bianche e filamentose confuse nel sottobosco, le sradicò con attenzione e si voltò.
Un po’ più in là c’era una roccia. Ma c’erano rocce dappertutto, in quel luogo affioravano alla superficie le ossa stesse del Disco.
Scuotivento fissò ben bene l’albero di tasso, nel caso stesse parlando. Ma quello, essendo una pianta solitaria, non aveva sentito parlare di Scuotivento, il salvatore degli alberi, e in ogni caso dormiva.
— Se eri tu, Duefiori, lo sapevo benissimo che eri tu — disse il mago. La sua voce risuonò d’improvviso chiara e molto solitaria nella penombra che scendeva.
Si rammentò il solo fatto che conosceva con sicurezza a proposito dei troll. Il fatto che, esposti alla luce del sole, si tramutavano in pietra. Per tale ragione, chi impiegava ì troll per lavorare di giorno, doveva spendere una fortuna in creme filtranti.
Ma a ripensarci, non si diceva da nessuna parte cosa gli accadeva quando il sole tramontava di nuovo…
L’ultima parvenza di luce si ritirò dal paesaggio. E sembrò a un tratto che tutto intorno ci fossero tantissime rocce.
— Ci mette un sacco di tempo con quelle cipolle — osservò Duefiori. — Pensi che faremmo meglio ad andare a cercarlo?
— I maghi scianno badare a sce stessi — affermò Cohen. — Non preoccuparti. — Bethan gli stava tagliando le unghie dei piedi.
— In realtà, lui non è un mago molto bravo — disse Duefiori avvicinandosi al fuoco. — Non glielo direi in faccia, ma… — si chinò verso Cohen — non l’ho mai visto compiere davvero nessuna magia.
— Bene, dammi l’altro piede — disse Bethan.
— Scei molto gentile.
— Avresti dei piedi niente male, se soltanto ne avessi cura.
— Non poscio chinarmi come usciavo fare — disse Cohen con aria abbattuta. — Scerto, nel mio mestiere non sci incontrano molti chiropodishti. Buffo. Ho conosciuto una quantità di sciacerdoti dei scerpenti, di dei folli, di scignori della guerra, mai un chiropodishta. Sciuppongo che non shtarebbe bene… Cohen Contro i Chiropodishti.
— O Cohen E I Chiropraticanti del Destino — suggerì la fanciulla. L’eroe ridacchiò.
— O Cohen E I Dentisti Folli — rise Duefiori.
Cohen serrò le labbra.
— Coscia sc’è di tanto divertente? — domandò in tono minaccioso.
— Oh, ehm, be’ — farfugliò l’ometto. — I tuoi denti, capisci…
— Che cosc’hanno? — scattò l’altro.
Duefiori deglutì. — Non posso fare a meno di notare che, ehm, non sono nella stessa collocazione geografica della tua bocca.
L’eroe gli lanciò un’occhiataccia. Poi si curvò e si fece molto piccolo e vecchio.
— È vero, naturalmente — borbottò. — Non ti biascimo. È duro escere un eroe scenza denti. Non importa che altro sci perde, sci può tirare avanti anche con un occhio sciolo, ma bashta moshtrare una bocca piena di gengive e nesciuno ha più rishpetto.
— Io sì — dichiarò lealmente Bethan.
— Perché non te ne procuri degli altri? — gli chiese Duefiori.
— Scì, be’, se fosci un pescecane o altro, scì, me ne crescerebbero ancora — replicò sarcastico il vecchio eroe.
— Oh, no, li compri — ribatté Duefiori. — Guarda, te lo mostro. Ehm, Bethan, ti dispiacerebbe guardare da un’altra parte? — Attese che lei si fosse voltata e poi si portò la mano alla bocca.
— Vedi?
La ragazza sentì Cohen trattenere il fiato.
— Tu sei capasce di levarti i tuoi?
— Oh, scì. Ne ho diversce scerie. Scusciami… — Sembrò inghiottire e poi continuò in una voce più normale. — È molto conveniente, naturalmente.
La voce di Cohen era piena di timore reverenziale, per quanto sia possibile senza denti, il che è più o meno lo stesso che se uno i denti ce l’ha. Solo che è di minor effetto.
— Fammi pensciare — disse Cohen. — Quando ti dolgono, te li togli e lasci che sce la sbrighino, è cosci? Gli dai una lezione a quei piccoli rompishcatole e vedi quanto gli piasce di scioffrire tutti da scioli.
— Non è proprio esatto — rispose cauto Duefiori. — Loro non sono i miei, semplicemente mi appartengono.
— Ti metti in bocca i denti di un’altra persciona?
— No, qualcuno li fa e, da dove vengo io, un sacco di gente li porta. È una…
Ma la conferenza di Duefiori sulle protesi dentarie restò in sospeso, perché qualcuno lo colpì.
La piccola luna del Disco viaggiava laboriosa nel cielo. Lei brillava di luce propria, a causa dei limitati e piuttosto inefficienti arrangiamenti astronomici del Creatore. Inoltre era affollata da un assortimento di dee lunari le quali, in quel particolare momento, non prestavano molta attenzione a quanto succedeva sul Disco, ma si occupavano di una petizione riguardante i Giganti del Ghiaccio.
Se avessero guardato in basso, avrebbero visto Scuotivento parlare concitato con un ammasso di rocce.
Nel multiverso i troll sono le più antiche forme di vita e risalgono al primo tentativo di dare il via a tutta la faccenda della vita senza tutto quel protoplasma molliccio. I troll vivono a lungo, sono ibernati durante l’estate e dormono durante il giorno, dato che patiscono il caldo che li intorpidisce. La loro geologia è affascinante. Si potrebbe parlare di tribologia, degli effetti semiconduttori del silicone impuro, dei troll giganti della preistoria che componevano quasi tutte le maggiori catene montuose del Disco e che causerebbero dei problemi molto gravi se mai si risvegliassero. Ma la nuda verità è che, senza il possente e diffuso campo magico del Disco, i troll si sarebbero estinti molto tempo fa.
Nel Disco non era mai stata inventata la psichiatria. Nessuno mai aveva messo una macchia d’inchiostro sotto il naso di Scuotivento per vedere se aveva dei giocattoli rimasti in soffitta. Pertanto il solo modo in cui lui sarebbe stato capace di descrivere le rocce che tornavano a essere dei troll, era evocare vagamente come si formano a un tratto delle immagini quando si guarda il fuoco o le nuvole.
Un momento c’era una comunissima roccia e un momento dopo normali crepacci assumevano l’esatta apparenza di una bocca o di un orecchio appuntito. Subito dopo, senza che in realtà nulla cambiasse, c’era lì seduto un troll che gli sorrideva con la bocca piena di diamanti.
"Ma loro non potrebbero digerirmi" si disse il mago "li farei sentire malissimo."
Non era una grande consolazione.
— Così, tu sei Scuotivento il mago — gli disse il più vicino; la sua voce ricordava il rumore di passi che corressero sulla ghiaia. — Non so, ti immaginavo più alto.
— Forse si è eroso un po’ — aggiunse un’altra voce. — La leggenda è antichissima.
Scuotivento si dimenò a disagio. Era quasi certo che la roccia su cui sedeva stava cambiando forma. Ed ecco un minuscolo troll, poco più di un ciottolo, sedere con aria socievole sul suo piede e fissarlo con interesse.
— Leggenda? Quale leggenda? — domandò il mago.
— È una leggenda tramandata dalla montagna alla ghiaia fin dal tramonto dei tempi [Metafora interessante. Per i troll notturni, naturalmente, l’alba dei tempi si situa nel futuro.] — spiegò il primo troll. — "Quando la stella rossa illumina il cielo, Scuotivento il mago verrà a cercare le cipolle. Non mordetelo. Aiutarlo a restare in vita è della massima importanza."
Vi fu una pausa.
— È così? — chiese il mago.
— Sì. Questa leggenda ci ha sempre intrigati. La maggior parte delle altre sono molto più eccitanti. Essere una roccia nei vecchi tempi era più interessante.
— Davvero? — disse debolmente Scuotivento.
— Oh sì. Uno spasso senza fine. Vulcani dappertutto. Essere una roccia allora voleva dire veramente qualcosa. Nulla di tutte queste sciocchezze della sedimentazione. O si era ignei o niente. Ora, tutto ciò è finito. Oggi, certi che si chiamano troll, be’, sono poco più che ardesia. Perfino gesso. Io non mi darei delle arie se tu potessi usarmi per disegnare, non credi?
— No — si affrettò a rispondere Scuotivento. — Assolutamente no. Questo, ehm, quest’affare della leggenda. Diceva che non dovevate mordermi?
— È esatto — disse il piccolo troll seduto sul suo piede — e sono stato io a dirti dov’erano le cipolle!
— Siamo contenti che tu sia venuto — affermò il primo troll, il più grosso di tutti, notò il mago. — Siamo un po’ preoccupati per questa nuova stella. Che significa?
— Non lo so — rispose Scuotivento. — Pare che tutti pensino che io lo sappia, invece no…
— Non che ci importerebbe di venire liquefatti — osservò il grosso troll. — È così, comunque, che abbiamo cominciato tutti. Ma pensavamo che, forse, potrebbe significare la fine di tutto, il che non sembra una buona cosa.
— Diventa sempre più grande — disse un altro troll. — Guardala adesso. Più grande della notte scorsa.
Scuotivento guardò. Era decisamente più grande della notte scorsa.
— Così credevamo che tu potessi darci qualche indicazione — osservò il capo dei troll, in tono mite quanto può esserlo il suono di una voce simile a un gargarismo di granito.
— Potreste saltare giù dal Bordo — suggerì il mago. — Nell’universo dovrebbero esserci un sacco di posti dove farebbero comodo delle rocce in più.
— Ne abbiamo sentito parlare. Abbiamo conosciuto delle rocce che ci hanno provato. Dicono che si fluttua nell’aria per milioni di anni, finché non si diventa bollenti e ci si consuma per finire poi in fondo a un grosso buco nello scenario. Non sembra una prospettiva molto allegra.
Il troll si alzò con il rumore del carbone scaricato in uno scivolo e si stiracchiò le grosse braccia bitorzolute.
— Be’, s’intende che dovremmo aiutarti — disse. — C’è qualcosa che vuoi fare?
— Avrei dovuto fare una zuppa. — Scuotivento agitò il mazzo di cipolle. Probabilmente non il gesto più eroico e significativo che fosse mai stato fatto.
— Zuppa? Questo è tutto?
— Se’, forse anche dei biscotti.
I troll si guardarono, mettendo in mostra nelle bocche spalancate gioielleria sufficiente a comperare una città di media grandezza.
Alla fine, il troll più grosso decretò: — E zuppa sia, allora. — Scrollò le spalle con un cigolio. — È solo che noi immaginavamo che la leggenda sarebbe stata un po’ più… be’, non so… credevo… tuttavia, suppongo che non abbia importanza.
Tese una mano come un grappolo di banane fossili.
— Io sono Kwartz — si presentò. — Quello laggiù è Krysoprase, e poi Breccia e Jasper e mia moglie Beryl. Lei è un po’ metamorfica. ma chi non lo è oggigiorno? Jasper, levati dal suo piede.
Scuotivento prese la mano con precauzione, preparandosi a sentire il rumore di ossa spezzate. Che non ci fu. La mano del troll era ruvida e un tantino lichenosa intorno alle unghie.
— Scusatemi — disse Scuotivento. — Non ho mai incontrato dei troll finora.
— Siamo una razza in estinzione — disse Kwartz in tono triste mentre si avviavano sotto le stelle. — Il giovane Jasper è l’unico ciottolo della nostra tribù. Soffriamo di filosofia, sai.
— Sì? — Scuotivento si sforzava di tenere il passo. La banda dei troll si muoveva molto in fretta, ma anche silenziosamente, grosse sagome scure come fantasmi nella notte. Di quando in quando soltanto lo squittio di una creatura notturna che non li aveva uditi avvicinarsi indicava il loro passaggio.
— Oh, sì. Siamo dei martiri. Ci succede a tutti presto o tardi. Una sera, tu cominci a svegliarti e poi pensi "Perché disturbarsi?" e non lo fai. Vedi quei massi laggiù?
Scuotivento scorse delle grosse sagome adagiate nell’erba.
— Quella in fondo è mia zia. Non so a che sta pensando, ma non si è mossa da duecento anni.
— Perbacco, mi rincresce.
— Oh, non c’è nessun problema con noi nei paraggi che ci prendiamo cura di loro — affermò Kwartz. — Come vedi, non ci sono molti esseri umani da queste parti. So che non è colpa tua, ma non mi sembri in grado di afferrare la differenza fra un troll pensante e una comune roccia. Pensa, un mio prozio è stato proprio scavato.
— Ma è terribile!
— Già, un attimo prima era un troll e quello dopo era un caminetto ornamentale.
Si fermarono davanti a un dirupo dall’aria familiare. Nell’oscurità fumavano i resti di un fuoco.
— Sembra che ci sia stata una lotta — osservò Beryl.
— Sono tutti andati via! — Scuotivento corse fino al limite della radura. — Anche i cavalli! Perfino il Bagaglio!
Kwartz s’inginocchiò. — Da uno di loro è colata quella roba rossa e acquosa che voi avete dentro. Guarda.
— Sangue!
— Si chiama così? Non ne ho mai capito la ragione.
Scuotivento si aggirava qua e là come uno che avesse perso la testa e guardava perfino dietro i cespugli nel caso qualcuno ci si fosse nascosto. Per questo inciampò in una bottiglietta verde.
— Il linimento di Cohen — gemette. — Lui non va mai da nessuna parte senza.
— Be’ — disse Kwartz — almeno voi umani potete fare qualcosa. Voglio dire, come quando noi ci accasciamo colpiti dalla filosofia. Voi, invece, cadete a pezzi…
— Si chiama morire! — gridò il mago.
— Appunto. Loro non l’hanno fatto, perché qui non ci sono.
— A meno che non siano stati divorati — suggerì eccitato Jasper.
— Uhm. — Questo era Kwartz e — Lupi? — azzardò Scuotivento.
— Da anni abbiamo schiacciato tutti i lupi qui intorno — disse il troll. — O almeno, l’ha fatto il Vecchio Nonnetto.
— Non gli erano simpatici?
— No. È solo che non aveva l’abitudine di guardare dove andava. Uhm. — Il troll esaminò di nuovo il terreno.
— Qui c’è un sentiero — continuò. — Un gran numero di cavalli. — Alzò gli occhi alle vicine colline, con i loro ripidi pendii e le pericolose spaccature, che sovrastavano le foreste sotto la luce lunare.
— Il Vecchio Nonnetto vive lassù — dichiarò.
Il tono delle sue parole convinse Scuotivento che non avrebbe mai voluto incontrare il Vecchio Nonnetto.
— Lui è pericoloso, vero? — si avventurò a domandare.
— È molto vecchio e grosso e infido. Sono anni che non lo abbiamo più visto da queste parti.
— Secoli — lo corresse Beryl.
— Li schiaccerà tutti come polpette — aggiunse Jasper, saltando su e giù sulle dita dei piedi del mago.
— Certe volte accade che un troll veramente grosso e vecchio se ne vada sulle colline tutto solo e — uhm — la roccia prende il sopravvento, se capisci che intendo.
— No.
Kwartz sospirò. — La gente a volte si comporta da animali, non è forse così? E a volte un troll si mette a pensare come una roccia e alle rocce le persone non vanno troppo a genio.
Breccia, un troll magrolino con un rivestimento di arenaria, batté sulla spalla di Kwartz. — Allora li seguiamo? — chiese. — La leggenda dice che dovremmo aiutare questo essere molle, Scuotivento.
Kwartz si rialzò, stette per un momento a pensare, poi afferrò il mago per la collottola e con un solo movimento scricchiolante se lo mise sulle spalle.
— Andiamo — disse con voce ferma. — Se incontriamo il Vecchio Nonnetto cercherò di spiegare…
Tre chilometri più in là dei cavalli trottavano in fila nella notte. Tre di loro trasportavano i prigionieri, legati e imbavagliati con grande perizia. Il quarto tirava un rozzo travois sul quale viaggiava il Bagaglio, legato, imbrigliato in una rete e silenzioso.
Herrena ordinò alla colonna di fermarsi e fece cenno a uno dei suoi uomini di avvicinarsi.
— Sei proprio sicuro? — gli chiese. — Io non sento niente.
— Ho visto sagome di troll — rispose quello.
Lei si guardò intorno. In quel punto gli alberi, più radi, lasciavano vedere il suolo ghiaioso; di fronte a loro il sentiero conduceva verso una collina brulla e rocciosa, dall’aspetto particolarmente ingrato alla luce rossastra delle stelle.
Alla donna quel sentiero dava da pensare. Anche se era molto vecchio, qualcuno lo aveva tracciato e i troll erano pericolosi.
Sospirò. A un tratto, la carriera da segretaria non sembrava più una cattiva scelta.
Rifletté, e non per la prima volta, che essere una guerriera includeva diversi svantaggi. Non ultimo, il fatto che gli uomini non ti prendevano sul serio finché non li avevi ammazzati. E a quel punto, la cosa non aveva più nessuna importanza. C’era poi tutta quella bardatura di pelle, che la obbligava a mostrarsi temeraria, ma la tradizione su quel punto non scherzava. E inoltre c’era la birra. Per tipi come Hrun il Barbaro o Cimbar l’Assassino andava bene spassarsela tutta la notte nei bar malfamati. Ma Herrena non ci stava, a meno che non servissero bevande come si deve in bicchieri piccoli, preferibilmente con dentro una ciliegina. Quanto ai servizi igienici…
Ma lei era troppo grande e grossa per essere una ladra, troppo onesta per essere un’assassina, troppo intelligente per fare la moglie e troppo orgogliosa per abbracciare l’unica altra professione aperta in genere a una donna.
Così era diventata una guerriera, e brava, e andava ammassando una modesta fortuna che amministrava con parsimonia in vista di un futuro non ancora studiato in dettaglio, ma che avrebbe certamente incluso un bidet, se dipendeva da lei.
Si udì in distanza il rumore di legno che volava in schegge. I troll non avevano mai visto la necessità di camminare evitando gli alberi.
Herrena guardò di nuovo la collina. La sommità terminava in un largo altopiano — lei socchiuse gli occhi per vedere meglio — dove si aprivano delle caverne?
Caverne di troll. Forse, però, rappresentavano una soluzione migliore che vagare nella notte. E una volta spuntato il sole, non ci sarebbero stati più problemi.
La donna si chinò verso Gancia, capo della banda dei mercenari di Morpork. Quel tipo non le garbava. È vero che aveva i muscoli di un bove e la resistenza di un bove, ma il guaio è che sembrava avere pure il cervello di un bove. E l’amoralità di un furetto. Come la maggior parte dei ragazzi dei bassifondi di Morpork, avrebbe allegramente venduto la nonnetta per quattro soldi, e probabilmente l’aveva fatto.
— Ci dirigeremo alle caverne e accenderemo un grande fuoco all’entrata — disse Herrena. — Ai troll il fuoco non piace.
Lui le diede uno sguardo che esprimeva la sua idea su chi avrebbe dovuto impartire gli ordini, ma le sue labbra dissero: — Sei tu il capo.
— Esatto.
La guerriera si voltò a guardare i prigionieri. Quella era la cassa, proprio come l’aveva descritta Trymon. Ma nessuno degli uomini aveva l’aspetto di un mago. Neppure di un mago fallito.
— Oh, povero me! — esclamò Kwartz.
I troll si fermarono. La notte li avviluppava come velluto. Un gufo fece udire il suo verso irreale… o almeno Scuotivento suppose che fosse un gufo. Lui non era molto versato in ornitologia. Poi fu l’usignolo a cantare, a meno che non fosse un tordo. Un pipistrello svolazzò sopra la sua testa. Di questo almeno era sicuro.
Era anche stanchissimo e tutto pesto.
— Perché "oh, povero me"? — chiese.
Si sforzò di guardare nell’oscurità. Sulle colline si scorgeva in distanza un punto che poteva essere un fuoco.
— Oh, a voi i fuochi non piacciono, vero? — disse.
Kwartz annuì. — Il fuoco distrugge la superconduttività del nostro cervello — spiegò — ma un fuoco così piccolo non avrebbe molto effetto sul Grande Nonnetto.
Scuotivento si guardò cauto intorno e tese l’orecchio per captare il rumore di un troll malintenzionato. Aveva visto ciò che i troll normali erano capaci di fare a una foresta. Loro non erano per natura distruttivi, solo che trattavano la materia organica come una specie di scomoda nebbia.
— Speriamo allora che non lo trovi — si augurò con fervore.
Kwartz sospirò. — In questo caso è alquanto improbabile. Glielo hanno acceso in bocca.
— È la punizione divina sciu di me — gemette Cohen, cercando di liberarsi dai lacci senza riuscirci.
Duefiori lo guardò istupidito. Il colpo di fionda di Gancia gli aveva procurato un grosso bernoccolo dietro la testa e le cose non gli erano ben chiare, a cominciare dal proprio nome.
— Avrei dovuto shtare all’erta — continuò Cohen. — Avrei dovuto fare attenzione frashtornato da tutte le tue chiacchiere sciu come sci chiama, sciu quel tuo aggeggio per mashticare. Sci vede che mi shto rammollendo.
Si tirò su appoggiandosi ai gomiti. Herrena e il resto della banda si tenevano intorno al fuoco nella bocca della caverna. In un angolo, sotto la sua rete, il Bagaglio era fermo e silenzioso.
— C’è qualcosa di strano in questa caverna — osservò Bethan.
— Coscia? — domandò Cohen.
— Be’, guardala bene. Hai mai visto delle rocce come queste?
Cohen dovette riconoscere che il semicerchio di pietre intorno all’ingresso della caverna era insolito: ognuna era più alta di un uomo, assai consunta e incredibilmente lucente. Un semicerchio analogo era disposto sul soffitto. L’effetto generale era quello di un computer di pietra costruito da un druido con una vaga idea della geometria e nessun senso della gravità.
— Osserva anche le pareti.
Cohen fissò quella più vicina, che mostrava incrostate delle vene di cristallo rosso. Non era sicuro, ma gli sembrava quasi che dei puntini luminosi si accendessero e spegnessero nelle profondità della roccia.
Decisamente c’era anche un forte spiffero. Dalle buie profondità della caverna veniva un soffio d’aria costante.
— Sono sicura che soffiava nell’altra direzione quando siamo entrati — bisbigliò Bethan. — Tu che ne pensi, Duefiori?
— Be’, non sono un esperto in caverne. Ma stavo pensando che quelle specie di stalattiti che pendono dal soffitto sono molto interessanti. Un po’ bulbose, no?
Gli altri alzarono gli occhi a fissarle.
— Non so esattamente dirvi il perché — continuò l’ometto — ma credo che sarebbe una buona idea andarcene da qui.
— Oh, sci — disse sarcastico Cohen. — Sciuppongo che faremmo meglio a chiedere a queshta gente di slegarsci e lasciarsci andare, eh?
Cohen non aveva passato molto tempo in compagnia di Duefiori. Altrimenti non si sarebbe sorpreso quando l’altro annuì vivacemente e cominciò a dire a voce alta, adagio e spiccando bene le parole, com’era solito quando non conosceva la lingua altrui: — Scusatemi? Potreste per piacere slegarci e lasciarci andare? Qui dentro è piuttosto umido e pieno di correnti. Spiacente.
Bethan lanciò un’occhiata a Cohen.
— Avrebbe dovuto dire quelle cose?
— È insciolito, te lo garantisco.
E infatti, tre persone si staccarono dal gruppo intorno al fuoco e si diressero verso di loro. Non avevano l’aria di essere intenzionati a slegare nessuno. Anzi, i due uomini sembravano del tipo di quelli che, vedendo altri legati, si mettono a gingillarsi con i coltelli, a fare commenti pesanti e a sghignazzare un bel po’.
Herrena si presentò sguainando la spada e puntandola al cuore di Duefiori.
— Chi di voi è Scuotivento il mago? — chiese. — C’erano quattro cavalli. Lui è qui?
— Uhm, non so dov’è. Stava cercando delle cipolle — rispose l’ometto.
— Allora voi siete suoi amici e verrà a cercarvi. — Dopo uno sguardo a Cohen e Bethan, Herrena osservò meglio il Bagaglio.
Trymon aveva insistito che non dovevano toccare il Bagaglio. Se la curiosità può uccidere il gatto, la curiosità di Herrena avrebbe potuto massacrare un branco di leoni.
Sfilò la rete e afferrò il coperchio della cassa.
Duefiori sussultò.
— È chiuso — disse la donna. — Dov’è la chiave, grassone?
— Non… non ha la chiave — rispose Duefiori.
— C’è la serratura — precisò lei.
— Be’, sì, ma se vuole restare chiuso, resta chiuso — spiegò a disagio Duefiori.
Accorgendosi del sogghigno di Gancia, Herrena perse la pazienza.
— Voglio che venga aperto. Gancia, pensaci tu — ordinò e ritornò vicino al fuoco.
Gancia estrasse un coltello lungo e dalla lama sottile e si chinò fino quasi a toccare il viso dell’ometto.
— Lei lo vuole aperto — disse. Guardò l’altro uomo con una smorfia.
— Lei lo vuole aperto, Weems.
— Già.
Gancia agitò adagio il coltello davanti al viso di Duefiori.
— Senti — disse questi in tono paziente. — Non credo che tu capisca. Nessuno può aprire il Bagaglio se lui è di umore da restare chiuso.
— Oh, già, dimenticavo. Naturale, è una cassa magica, giusto? Che ha delle gambette, dicono. Senti, Weems, ci sono gambe dalla tua parte? No?
Sempre con il coltello puntato alla gola di Duefiori, continuò: — Questa faccenda mi fa incavolare. Lo stesso vale per Weems. Lui non parla molto, ma agisce e fa la gente a pezzetti. Quindi — apri — la — cassa!
Si girò a sferrare un calcio a una parete della cassa, così forte da lasciarci un brutto graffio.
Seguì un lievissimo clic.
Gancia sogghignò. Il coperchio si sollevò adagio, pesantemente. Il riflesso del fuoco distante brillò sull’oro… una grande quantità di oro, piastre, catene, monete luccicanti nel tremolio delle ombre.
— Molto bene — disse piano Gancia.
Si voltò a guardare gli uomini ignari intorno al fuoco, che vociavano contro qualcuno fuori della caverna. Poi fissò Weems, con le labbra che si muovevano senza produrre alcun suono nello sforzo per lui insolito di fare un calcolo aritmetico mentale.
Quindi abbassò gli occhi sul suo coltello.
In quel momento il pavimento della grotta si mosse.
— Ho sentito qualcuno — affermò uno degli uomini. — Laggiù, tra… uhm… le rocce.
Dall’oscurità venne la voce di Scuotivento.
— Ehi, voi!
— Che c’è? — chiese Herrena.
— Siete in grande pericolo — gridò il mago. — Dovete spegnere il fuoco!
— No, no — protestò la donna. — Hai capito male, sei tu in grande pericolo. E il fuoco resta.
— C’è questo grosso vecchio troll…
— Tutti sanno che i troll si tengono lontani dal fuoco — ribatté lei. A un suo cenno, due uomini sguainarono le spade e scivolarono fuori nel buio.
— Verissimo! — urlò disperato Scuotivento. — Solo che, vedi, questo particolare troll non può farlo.
— Non può? — Herrena esitò. Era colpita dal terrore che vibrava nella voce dell’altro.
— Sì, perché, vedi, glielo avete acceso sulla lingua.
In quel momento il pavimento della grotta si mosse.
Il Vecchio Nonnetto si svegliò molto lentamente dal suo sonno secolare. In realtà non si svegliò del tutto, infatti solo qualche decennio più tardi niente di tutto questo sarebbe potuto accadere. Quando un troll diventa vecchio e comincia a riflettere seriamente sull’universo, di solito si trova un posticino tranquillo e si dà tutto alla filosofia.
Così, dopo un po’, si dimentica delle sue estremità. Comincia a cristallizzarsi ai bordi finché non rimane che una piccola fiammella di vita all’interno di una grande collina dagli inconsueti strati rocciosi.
Il Vecchio Nonnetto non era ancora arrivato a quel punto. Risvegliatosi dalle sue riflessioni su un promettente criterio di ricerca a proposito del significato della verità, si ritrovò con un gusto di cenere calda in quella che, dopo averci pensato su, si ricordò essere la sua bocca.
La cosa lo fece arrabbiare. Dei comandi si trasmisero lungo le vie neurali di silicone impuro. Nel profondo del suo corpo silicaceo la pietra prese a scivolare lungo speciali linee di frattura. Alberi crollarono, il manto erboso si spaccò mentre le dita, grandi come navi, si aprivano e affondavano nel terreno. Due enormi frane rocciose si produssero in alto sul pendio: occhi che si aprivano simili a grandi concrezioni opaline.
Scuotivento, naturalmente, non poteva scorgere tutto questo, dato che i suoi occhi vedevano soltanto alla luce del giorno. Però notò l’imponente massa scura spostarsi lentamente e poi innalzarsi incredibilmente verso le stelle.
Il sole si levò.
Non così i suoi raggi. Questo perché la famosa luce solare del mondo-Disco, la quale, come già indicato, viaggia molto lentamente attraverso il suo possente campo magico, bagnò le terre intorno all’Orlo e intraprese la sua silenziosa battaglia contro le armate della notte in ritirata. Si riversò come oro fuso sul paesaggio addormentato: brillante, limpida e, soprattutto, lenta. [Non precisamente, è logico. Gli alberi non bruciarono, le persone non diventarono tutto a un tratto ricchissime e a un tempo decisamente defunte, e dai mari non si levò il vapore. In realtà, "non come oro fuso" sarebbe un paragone più appropriato.]
Herrena non esitò. Con grande presenza di spirito corse all’estremità del labbro inferiore del Grande Nonnetto e saltò giù, rotolandosi quando toccò terra. Gli uomini la seguirono, imprecando quando atterrarono tra le schegge.
Il vecchio troll si spinse in su, come un uomo grasso che cerca di fare gli esercizi di sollevamento a terra.
I prigionieri questo non erano in grado di vederlo. Sapevano soltanto che il pavimento della caverna continuava a ondeggiare sotto di loro e che c’era un gran fracasso, tutt’altro che piacevole.
Weems afferrò Gancia per un braccio.
— È un terremoto — disse. — Andiamocene di qui.
— Non senza quell’oro — ribatté Gancia.
— Che cosa?
— L’oro, l’oro. Uomo, potremmo diventare ricchi come Creosote!
Weems poteva pure avere un quoziente d’intelligenza a temperatura ambiente, ma riconosceva l’idiozia quando la vedeva. Gli occhi del compagno brillavano più dell’oro e pareva che si fossero fissati sul suo orecchio sinistro.
Weems lanciò un’occhiata disperata al Bagaglio. Era ancora aperto con aria invitante. Il che era strano. Infatti, era lecito pensare che tutte quelle scosse gli avrebbero richiuso il coperchio.
— Non potremmo mai trasportarlo — dichiarò. E aggiunse: — È troppo pesante.
— Potremmo portarcene via un po’, accidenti! — urlò Gancia e con un balzo si avvicinò alla cassa mentre il pavimento tremò ancora.
Il coperchio si richiuse di scatto. Gancia scomparì.
E, giusto nel caso Weems pensasse che si era trattato di un’incidente, il coperchio del Bagaglio si riaprì, solo per un secondo, e una grossa lingua rossa come il mogano passò su denti bianchi come il sicomoro. Poi si chiuse di nuovo.
Ad aumentare il terrore di Weems, centinaia di gambette vennero fuori dal fondo della cassa. Questa si alzò con la massima decisione, allineò con cura i piedini e si girò ad affrontarlo. Pareva che la serratura lo guardasse in maniera particolarmente malevola, con quello sguardo che dice: "Avanti, fatti sotto se hai coraggio…".
L’uomo indietreggiò e diede un’occhiata implorante a Duefiori.
— Credo sarebbe una buona idea se ci slegassi — gli suggerì l’ometto. — Una volta che ti conosce, si comporta in modo assolutamente amichevole.
Weems si passò nervosamente la lingua sulle labbra e tirò fuori il coltello. Dal Bagaglio venne uno scricchiolio di ammonimento. L’uomo tagliò le corde e indietreggiò svelto.
— Grazie — disse Duefiori.
— La mia sshchiena è di nuovo fuori uscio — si lamentò Cohen che Bethan aiutò a rimettersi in piedi.
— Che ne facciamo di quest’uomo? — domandò la ragazza.
— Gli prendiamo il coltello e gli disciamo di filarscela. Giusto? — fu la risposta del vecchio eroe.
— Sì, signore! Grazie, signore! — e Weems si slanciò verso l’ingresso della caverna. Si stagliò per un momento contro il cielo grigio che precede l’alba e poi sparì.
In lontananza si udì un grido: "aaargh".
Simile a un frangente, la luce del sole rumoreggiò silenziosa sulla terra. Qua e là, dove il campo magico era un po’ più debole, le lingue del mattino precedevano il giorno, lasciando singole isole dove indugiava la notte, che si contraevano e svanivano via via che l’oceano luminoso fluiva in avanti.
L’altopiano delle Pianure del Vortice spiccava oltre la marea avanzante come un grande vascello grigio.
È possibile pugnalare un troll, ma la tecnica richiede pratica e mai nessuno ha la possibilità di provarci più di una volta. Gli uomini di Herrena scorsero i troll spuntare dall’oscurità come fantasmi, ma fantasmi assai concreti. Le loro lame si spezzarono nell’urto contro la loro pelle silicea, uno o due brevi gridi soffocati e poi più nulla se non urla distanti nella foresta mentre gli uomini cercavano di mettere la più grande distanza possibile fra loro e la terra vendicatrice.
Scuotivento lasciò con precauzione il suo nascondiglio dietro un albero per dare un’occhiata in giro. Era solo, ma dietro a lui i cespugli frusciavano al passaggio dei troll che inseguivano la banda.
Il mago guardò su.
Dall’alto, due grandi occhi cristallini fissavano con odio qualsiasi forma molle, appiattita e soprattutto calda. Scuotivento si ritrasse terrorizzato quando una mano grande come una casa si chiuse a pugno e si abbassò verso di lui.
Il giorno arrivò in una silenziosa esplosione di luce. Per un momento l’enorme terrificante massa del Vecchio Nonnetto oppose un argine d’ombra alla luce che gli scorreva accanto. Un breve rumore come il digrignare di denti.
Poi silenzio.
Passarono diversi minuti e nulla accadde.
Degli uccellini si misero a cantare. Un calabrone ronzò su un masso che era il pugno del Vecchio Nonnetto e si posò su un ciuffo di timo cresciuto sotto un’unghia di pietra.
Scuotivento scivolò goffamente fuori dello stretto varco tra il pugno e il terreno, come il serpente che lascia la sua tana.
Si sdraiò sulla schiena a contemplare il cielo sopra la forma pietrificata del troll. Questo non era affatto cambiato, a parte l’immobilità, ma già gli occhi del mago cominciarono a giocargli degli scherzi. La notte prima lui aveva fissato delle fessure nella roccia e le aveva viste divenire occhi e bocche. Guardando adesso l’alto dirupo vide i lineamenti cambiarsi, come per magia, in semplici macchie.
— Wow! — esclamò.
Questo non lo fece sentire meglio. Si alzò, si spazzolò via la polvere e di nuovo si guardò intorno. A parte il calabrone, era completamente solo.
Si mise a esplorare i dintorni e alla fine trovò una roccia che, da certi angoli, poteva sembrare Beryl.
Era sperso e solitario e tanto lontano da casa. Lui…
Udì uno scricchiolio provenire dall’alto e schegge di roccia affondare nel terreno. Lassù, sulla faccia del Vecchio Nonnetto, apparse un buco. Poi, per un attimo, il deretano del Bagaglio che si sforzava di rimettersi in equilibrio e subito dopo la testa di Duefiori che si sporgeva dall’imboccatura della caverna.
— C’è qualcuno laggiù?
— Ehi! — urlò il mago. — Se sono contento di vederti!
— Non lo so. Lo sei? — disse Duefiori.
— Sono cosa?
— Perdinci, c’è una vista splendida da quassù!
Ci vollero almeno due ore per scendere. Per fortuna il Vecchio Nonnetto era pieno di crepe che offrivano una quantità di prese, ma il suo naso avrebbe costituito un ostacolo pericoloso se non fosse stato per la quercia lussureggiante che gli spuntava da una narice.
Quanto al Bagaglio, non si diede la pena di scendere faticosamente. Si limitò a buttarsi giù e a rimbalzare per tutto il percorso senza danno apparente.
Seduto all’ombra, Cohen cercava di riprendere fiato nell’attesa di ritrovare il proprio equilibrio mentale, mentre guardava pensieroso il Bagaglio.
— I cavalli se ne sono andati tutti — constatò Duefiori.
— Li troveremo — gli assicurò Cohen. Non distoglieva gli occhi dal Bagaglio, che cominciava a sentirsi imbarazzato.
— Portavano tutte le nostre provviste — disse Scuotivento.
— Nelle foreshte c’è scibo in quantità.
— Ho dei biscotti nutrienti nel Bagaglio — annunciò Duefiori. — I Digestivi del Viaggiatore. Fanno sempre comodo, in caso di mala parata.
— Li ho assaggiati — disse il mago. — Sono duri e… Cohen si alzò con una smorfia.
— Shcusciatemi — disse. — Sc’è una coscia che devo sciapere.
Si avvicinò al Bagaglio e afferrò il coperchio. La cassa indietreggiò rapida, ma Cohen allungò un piede ossuto e fece lo sgambetto a metà delle sue zampette. Quella si girò per azzannarlo, ma l’eroe strinse i denti e la sollevò rovesciandola sul suo coperchio ricurvo. Il Bagaglio rimase lì a dondolare arrabbiato come una tartaruga disperata.
— Ehi, quello è il mio Bagaglio! — protestò Duefiori. — Perché attacca il mio Bagaglio?
— Credo di saperlo — disse Bethan. — Credo che sia perché ne è spaventato.
Duefiori, a bocca aperta dallo stupore, si girò verso Scuotivento. Questi scrollò le spalle.
— Mettimi alla prova — disse. — Io scappo dalle cose che mi mettono paura.
Con uno scatto dei coperchio, il Bagaglio fece una capriola in aria e ricadde giù; si mise a correre e con uno dei suoi angoli rinforzati in ottone colpì Cohen alle tibie. Mentre si rigirava, il vecchio eroe ebbe il tempo di afferrarlo quel tanto da scaraventarlo contro una roccia.
— Niente male — disse Scuotivento, ammirato.
Il Bagaglio barcollò all’indietro, si arrestò un attimo, poi avanzò verso Cohen agitando minaccioso il coperchio. Con un balzo Cohen ci atterrò sopra, con le mani e i piedi presi nell’apertura tra la cassa e il coperchio.
La cosa lasciò il Bagaglio sbalordito. E fu ancora più strabiliato quando Cohen respirò a fondo e cercò di alzare con tutte le sue forze il coperchio, con i muscoli che sporgevano dalle braccia ossute come un calzino pieno di noci di cocco.
Rimasero avvinghiati così per un certo tempo, tendine contro cerniera. Presto o tardi uno dei due si sarebbe spezzato.
Bethan diede a Duefiori una gomitata nelle costole.
— Fa’ qualcosa — gli disse.
— Uhm — rispose l’ometto. — Sì. Credo che basti. Mettilo giù, per piacere.
Al suono della voce del suo padrone, il Bagaglio emise uno scricchiolìo di protesta per il suo tradimento. Il coperchio si spalancò con tanta forza che Cohen ruzzolò all’indietro, ma si rimise in piedi e si gettò contro la cassa.
Il suo contenuto non era più un mistero.
Cohen allungò dentro le mani.
Il Bagaglio scricchiolò un po’, ma evidentemente aveva valutato la possibilità di venire scagliato in cima al Grande Guardaroba del Cielo. Scuotivento si azzardò a sbirciare attraverso le dita di Cohen, mentre questi scrutava dentro il Bagaglio e imprecava sottovoce.
— Biancheria? — urlò. — Tutto qui? Scioltanto della biancheria?
— Tremava dalla rabbia.
Duefiori disse con una vocina sottile: — Credo che ci siano anche dei biscotti.
— Ma sc’era dell’oro! E l’ho vishto mangiarsi qualcuno! — Cohen guardò il mago con aria implorante.
Scuotivento sospirò. — Non chiederlo a me. Non sono io il proprietario di questo dannato affare.
— L’ho comprato in una bottega. — Duefiori era sulla difensiva.
— Ho detto che mi serviva un baule da viaggio.
— Ed è proprio quello che hai avuto — disse il mago.
— È molto leale — affermò l’ometto.
— Oh, sì. Se è la lealtà che cerchi in un bagaglio — ribatté l’amico.
— Ashpetta — disse Cohen, che si era accasciato su una roccia.
— Era forsce uno di quei negozi… voglio dire, sci scommetto che non lo avevi notato prima e quando sci scei tornato non sch’era più?
Duefiori si rianimò. — Proprio così!
— Il negoziante era un vecchietto rugoscio? Il negozio pieno di roba strana?
— Esatto. Non sono più riuscito a ritrovarlo. Pensavo di avere preso la strada sbagliata; dove credevo che si trovasse il negozio c’era solo un muro di mattoni. Ricordo di avere pensato allora che fosse piuttosto…
Cohen alzò le spalle. — Uno di quei negozi — disse. — Allora, queshto spiega tutto. — Si tastò la schiena e fece una smorfia. — Il maledetto cavallo sce n’è andato via con il mio linimento!
[Nessuno sa perché, ma tutti gli articoli realmente misteriosi e magici si acquistano in negozi che appaiono e, dopo un esercizio commerciale ancora più breve della vita di una società di comodo, svaniscono come fumo. Ci sono stati vari tentativi per spiegare il fenomeno, ma tutti non danno pienamente conto dei fatti accaduti. Tali negozi spuntano dappertutto nell’universo e la loro improvvisa inesistenza in una data città di solito si deduce dalle decine di persone che vagano per le strade, tenendo stretti articoli magici ormai esauriti e elaborate tessere di garanzia, mentre fissano con sospetto dei muri di mattoni.]
Scuotivento si ricordò di qualcosa e frugò nelle profondità della sua veste ormai stracciata e molto sporca e ne tirò fuori una boccetta verde, che tenne sollevata.
— È proprio lei! — esclamò Cohen. — Scei una meraviglia. — Guardò in tralice Duefiori.
— L’avrei avuta vinta io — disse in tono pacato — anche sce tu non gli avesci ordinato di lasciarmi andare. Alla fine l’avrei avuta vinta io.
— Giusto — disse Bethan.
— Voi due potete rendervi utili — aggiunse il vecchio eroe. — Quel tuo Bagaglio si è aperto di forza un varco nel dente del troll per tirarsci fuori. Quello era un diamante. Vedi se riesci a trovare le schegge. Mi è venuta un’idea in proposcito.
Bethan si arrotolò le maniche e stappò la boccetta e intanto Scuotivento prese da parte Duefiori. Quando furono al sicuro al riparo di un cespuglio, gli disse: — Sta dando i numeri.
Duefiori era sinceramente scioccato. — È di Cohen il Barbaro che stai parlando. Lui è il più grande guerriero che…
— Era - lo corresse l’amico. — Tutte quelle storie di preti guerrieri e zombi mangiatori d’uomini risalgono a tanti anni fa. Oggi a lui non restano che ricordi e talmente tante cicatrici che ci si potrebbe giocare a schicchera.
— Già, è molto più anziano di quanto immaginassi — convenne Duefiori. Raccolse un frammento di diamante.
— Quindi dovremmo lasciarli, ritrovare i nostri cavalli e proseguire — suggerì Scuotivento.
— Non sarebbe un trucchetto poco simpatico?
— Loro staranno benone. Il punto è, saresti contento in compagnia di uno capace di assalire il Bagaglio a mani nude?
— Non hai torto — ammise l’amico.
— A ogni modo, probabilmente loro se la caveranno meglio senza di noi.
— Ne sei sicuro?
— Assolutamente — affermò Scuotivento.
Trovarono i cavalli vaganti nel sottobosco, fecero colazione con carne di cavallo malamente essiccata e si avviarono nella direzione che Scuotivento riteneva fosse quella giusta. Pochi minuti dopo il Bagaglio sbucò dai cespugli e li seguì.
Il sole salì più alto nel cielo, senza tuttavia cancellare la luce della stella.
— È diventata ancora più grande durante la notte — osservò Duefiori. — Perché qualcuno non fa qualcosa?
— E sarebbe?
Dopo averci pensato, l’ometto rispose: — Qualcuno non potrebbe dire alla Grande A’Tuin di evitarla? Per esempio, girandoci intorno?
— Una cosa del genere è già stata tentata — lo informò Scuotivento. — I maghi hanno provato a sintonizzarsi con la mente della Grande A’Tuin.
— Non ha funzionato?
— Oh, ha funzionato benissimo. Solo che…
Solo che, spiegò, leggere in una mente grande come quella della Tartaruga del Mondo aveva comportato certi rischi imprevisti. I maghi si erano esercitati prima sulle tartarughe terrestri e poi su quelle marine giganti per comprendere la struttura della mente dei cheloni. Tuttavia, pur sapendo che la mente della Grande A’Tuin sarebbe stata enorme, non si erano resi conto che sarebbe stata lenta.
— Un gruppo di maghi l’hanno letta a turno per trenta anni — disse Scuotivento. — Tutto ciò che hanno scoperto è che la Grande A’Tuin punta a qualche cosa.
— Cosa?
— Chi lo sa?
Cavalcarono per un po’ in silenzio attraverso un terreno accidentato dove il sentiero era delimitato da grossi blocchi di calcare. Alla fine Duefiori disse: — Dovremmo tornare indietro, sai.
— Senti, arriveremo allo Smarl domani. A loro non accadrà nulla laggiù. Non vedo perché…
Si accorse di parlare a se stesso. L’amico aveva girato il cavallo e trottava via, dimostrando di sapere stare in sella come un sacco di patate.
Scuotivento abbassò gli occhi. Il Bagaglio aveva lo stesso sguardo fisso di un gufo.
— Che stai guardando? — lo apostrofò il mago. — Lui può andarsene, se vuole, perché dovrei preoccuparmene?
Il Bagaglio non disse nulla.
— Senti, lui non è una mia responsabilità — dichiarò il mago. — Mettiamo le cose in chiaro su questo punto.
Il Bagaglio restò in silenzio, ma questa volta fu più eloquente.
— Vattene… seguilo. Tu non hai niente da fare con me.
Il Bagaglio tirò dentro le sue gambette e si sistemò sul terreno.
— Be’, io me ne vado — dichiarò Scuotivento. — Parlo seriamente — aggiunse.
Fece voltare il cavallo verso il nuovo orizzonte e diede un’occhiata in basso. Il Bagaglio era sempre lì seduto.
— Non serve a niente fare appello ai miei buoni istinti. Per quel che mi interessa, puoi startene lì tutto il giorno. Io me ne vado via e basta, okay?
Lanciò un’occhiataccia al Bagaglio. Il Bagaglio la ricambiò.
— Sapevo che saresti tornato — disse Duefiori.
— Non ho voglia di parlarne — ribatté Scuotivento.
— Allora parliamo d’altro?
— Già, be’, andrebbe bene discutere come liberarsi di queste corde. Tirò sulle funi che gli legavano i polsi.
— Non riesco a immaginare perché tu sia tanto importante — affermò Herrena. Sedeva su una roccia di fronte a loro, con la spada sulle ginocchia. Il resto della banda era sdraiato sulle rocce in alto a tenere d’occhio la strada. Scuotivento e Duefiori erano rimasti vittime di un’imboscata così facile da essere patetica.
— Weems mi ha riferito che cosa ha fatto a Gancia la tua cassa — continuò lei. — Non posso dire che sia stata una grande perdita, ma spero che quel coso capisca che se si avvicina a un chilometro da noi, vi taglierò io stessa la gola. Afferrato il messaggio?
Scuotivento annuì con forza.
— Bene — disse Herrena. — Vi vogliono morti o vivi, in un caso o nell’altro io me ne frego, ma alcuni dei miei ragazzi forse desiderano discutere con voi a proposito di quei troll. Se il sole non si fosse levato quando l’ha fatto…
Lasciò la frase in sospeso e si allontanò.
— Be’, eccoci qui ancora una volta in un bel pasticcio — disse Scuotivento, con un’altra strattonata alle corde che lo legavano. Alle sue spalle c’era una roccia e se avesse potuto sollevare i polsi… Già, come supponeva, la roccia gli procurò delle lacerazioni mentre, essendo troppo smussata, non ebbe alcun effetto sulla corda.
— Ma perché noi? — chiese Duefiori. — Ha a che vedere con quella stella, no?
— Non so niente della stella — ribatté il mago. — Non ho mai nemmeno assistito alle lezioni di astrologia all’Università.
— Secondo me alla fine tutto si aggiusterà — dichiarò l’amico.
Scuotivento lo guardò. Osservazioni come quella lo spiazzavano sempre.
— Davvero lo credi? Ma proprio davvero?
— Be’, se ci pensi, in genere le cose si aggiustano con soddisfazione.
— Se chiami soddisfacente il fatto che in quest’ultimo anno la mia vita sia stata totalmente sconvolta, allora forse hai ragione. Ho perduto il conto delle volte in cui poco è mancato che venissi ucciso.
— Ventisette — precisò l’ometto.
— Cosa?
— Ventisette volte — ripeté volenteroso Duefiori. — L’ ho calcolato. Ma in realtà non ti è successo.
— Come? Calcolato? — Scuotivento cominciava ad avere l’impressione ormai familiare di non afferrare il senso della conversazione.
— Il fatto di essere ucciso. Non sembra un po’ sospettoso?
— Quanto a questo, non ho mai fatto obiezioni, se è ciò che intendi. — Il mago si guardò i piedi. Duefiori aveva ragione, naturalmente. L’Incantesimo lo teneva in vita, era evidente. Senza dubbio, se fosse saltato giù da un dirupo, una nuvola vagante avrebbe attutito la sua caduta.
Il guaio con una simile teoria, decise, era che funzionasse soltanto se lui non la credeva vera. Nel momento stesso in cui si ritenesse invulnerabile, sarebbe morto.
Quindi, tutto sommato, era meglio non pensarci affatto.
D’altra parte, poteva avere torto.
L’unica cosa di cui fosse certo era che gli stava venendo l’emicrania. Sperava che l’Incantesimo si trovasse in zona e soffrisse.
Quando lasciarono il burrone Duefiori e Scuotivento dividevano ognuno il cavallo con uno dei loro rapitori. Il mago era sistemato assai scomodamente davanti a Weems, il quale si era slogato una caviglia ed era di pessimo umore. Duefiori sedeva davanti a Herrena e, dato che lui era piccoletto, aveva così il vantaggio di avere le orecchie al caldo. La guerriera cavalcava con il coltello in una mano e l’occhio vigile per il minimo accenno a una cassa in movimento. Herrena non era ancora riuscita a capire che cosa fosse il Bagaglio, ma era abbastanza sveglia da sapere che quello non avrebbe permesso che Duefiori venisse ucciso.
Circa dieci minuti più tardi, lo videro in mezzo alla strada, il coperchio aperto con aria invitante. Era pieno d’oro.
— Giraci intorno — ordinò la donna.
— Ma…
— È una trappola.
— Questo è vero — riconobbe Weems, pallido in volto. — Credimi sulla parola.
A malincuore deviarono i cavalli intorno alla luccicante tentazione e proseguirono al trotto per il sentiero. Weems, spaventato, si guardò indietro nel timore di vedere il baule inseguirlo.
Ciò che scorse era ancora peggio. Era sparito.
Più avanti, su un lato del sentiero, l’erba alta si mosse misteriosamente e tornò immobile.
Scuotivento non era un granché come mago e ancora meno come valoroso, ma era un esperto di vigliaccheria e conosceva la paura quando la fiutava. Disse sottovoce: — Lui ti seguirà, sai.
— Che? — domandò distratto Weems, che ancora scrutava l’erba.
— Lui è molto paziente e non si arrende mai. Hai a che fare con il legno del pero sapiente. Lascerà che tu creda che ti ha dimenticato, poi un giorno, quando cammini da solo in una strada buia, sentirai dietro a te dei passetti… shlup, shlup… tu comincerai a correre e quelli accelereranno, shlupshlupshlupSHLUP…
— Chiudi il becco — gli urlò Weems.
— Probabilmente ti ha già riconosciuto, così…
— Ti ho detto di chiudere il becco!
Herrena si girò sulla sella con un’occhiataccia. Weems, con un cipiglio, tirò l’orecchia del mago fino a trovarsela davanti alla bocca e disse con voce rauca: — Io non ho paura di niente, capito? Questa faccenda dei maghi, io ci sputo sopra.
— Dicono tatti così finché non odono i passi — ribatté Scuotivento. Tacque. La punta di un coltello gli punzecchiava le costole.
Per il resto della giornata non accadde nulla. Ma, con soddisfazione di Scuotivento e la crescente paranoia di Weems, il Bagaglio si mostrò diverse volte. Qui assurdamente appollaiato su una balza, là seminascosto in un fossato coperto di muschio.
Nel tardo pomeriggio arrivarono in cima a una collina e scorsero in basso l’ampia vallata dello Smarl superiore, il fiume più lungo del Disco. Era già largo circa un chilometro e gonfio del limo che faceva del terreno più a valle la zona più fertile del continente. Le sue sponde erano avvolte dai filamenti della prima nebbia.
— Shlup — disse Scuotivento. Sentì Weems rizzarsi sulla sella.
— Eh?
— Mi schiarivo semplicemente la gola — disse il mago con un sogghigno. Era un sogghigno ben calcolato. Del genere usato dalle persone che ti fissano l’orecchio sinistro e ti dicono con voce piena d’ansia di essere spiate da agenti segreti della vicina galassia. Non era un sogghigno da ispirare fiducia. Probabilmente se ne sono visti di peggio, ma solo da parte di quella specie di creatura che è fulva con strisce scure, ha una lunga coda e si aggira per la giungla in cerca di vittime a cui sogghignare.
Herrena li raggiunse al trotto e ordinò: — Togliti quella smorfia dalla faccia.
Nel punto in cui il sentiero conduceva alla riva del fiume, c’era una specie d’imbarcadero e un grande gong di bronzo.
— Serve a chiamare il traghettatore — spiegò Herrena. — Se attraversiamo qui, tagliamo una grande ansa del fiume. Potremmo perfino farcela ad arrivare a una città in serata.
L’espressione di Weems era dubbiosa. Il sole, una palla rossa e infuocata, era prossimo al tramonto e la nebbia cominciava a infittirsi.
— O forse desideri trascorrere la notte da questa parte del fiume?
Weems raccolse il martello e colpì con tanta violenza il gong da farlo ruotare sul suo gancio e cadere.
Attesero in silenzio. Poi con un tintinnio una catena emerse dall’acqua e si tese, ancorata a una caviglia di ferro fissata sulla riva. Alla fine la sagoma piatta di un’imbarcazione sbucò lentamente dalla nebbia; facendo forza sulla grossa ruota piazzata al centro, il traghettatore incappucciato la spingeva verso la sponda.
La chiglia piatta del traghetto grattò sulla ghiaia e la figura incappucciata si appoggiò ansimando alla ruota.
— Due alla volta — bofonchiò. — Questo è tutto. Sciolo due, con i cavalli.
Scuotivento deglutì e cercò di non guardare Duefiori. Che probabilmente avrebbe ridacchiato come un idiota. Alla fine si arrischiò a lanciargli un’occhiata di sottecchi.
L’ometto sedeva a bocca aperta.
— Tu non sei il solito traghettatore — affermò Herrena. — Sono già stata qui, e quello solito è un tipo grande e grosso, una specie di…
— E il sciuo giorno libero.
— Okay, allora — disse lei in tono dubbioso. — In questo caso… perché lui sta ridendo?
Duefiori, con le spalle che gli sussultavano e la faccia rossa, emetteva dei suoni soffocati. Herrena lo guardò con un cipiglio e poi fissò il traghettatore.
— Due di voi, afferratelo!
Dopo una pausa, uno degli uomini chiese: — Cosa, il traghettatore?
— Sì.
— Perché?
La donna fu presa in contropiede. Una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere. Era scontato che quando uno urlava un ordiae come "Prendetelo!" o "Guardie!", la gente saltasse su e non rimanesse di certo seduta a discuterlo.
— Perché lo dico io! — fu il meglio che riuscì a trovare. I due uomini più vicini alla figura china si guardarono, alzarono le spalle e la afferrarono ognuno per una spalla. Il traghettatore era circa la metà di loro.
— Così? — domandò uno dei due. Duefiori quasi boccheggiava.
— Adesso voglio vedere cos’ha sotto il mantello — disse Herrena.
I due uomini si scambiarono un’occhiata.
— Non sono sicuro che… — cominciò uno.
Non poté proseguire perché un gomito ossuto gli si piantò nello stomaco come un pistone. Il suo compagno guardò incredulo e si beccò l’altro gomito nei reni.
Imprecando Cohen si sforzava di tirare fuori la sua spada impigliata nella veste e intanto saltellava a mo’ di granchio verso Herrena. Scuotivento emise un gemito, strinse i denti e spinse di scatto la testa all’indietro. Weems lanciò un urlo e il mago rotolò di lato, atterrò pesantemente nel fango, si rimise in piedi in fretta e furia cercando dove nascondersi.
Con un grido di trionfo, Cohen riuscì a liberare la spada e l’agitò trionfante, ferendo gravemente un uomo che gli si avvicinava strisciando alle spalle.
Herrena, spinto giù Duefiori da cavallo, cercò di estrarre la sua lama. L’ometto tentò di rimettersi in piedi, così facendo fece indietreggiare il destriero di un altro uomo; questi, disarcionato, si ritrovò con la testa all’altezza giusta perché Scuotivento la colpisse con un calcio violento. Il mago sarebbe stato il primo a riconoscere di essere un coniglio, ma anche i conigli combattono, se messi alle strette.
Una mano di Weems gli piombò sulla spalla e un pugno grosso come una roccia di medie dimensioni si abbatté sulla sua testa.
Mentre cadeva, udì Herrena dire in tono normalissimo: — Uccidili entrambi. Mi occupo io di questo vecchio pazzo.
— Evviva! — esclamò Weems e si voltò verso Duefiori con la spada sguainata.
Scuotivento lo vide esitare. Nell’attimo di silenzio che seguì, anche Herrena udì il rumore degli spruzzi mentre il Bagaglio si issava sulla sponda, grondante acqua.
Weems lo fissò inorridito. La spada gli cadde di mano. Lui si girò e corse via nella nebbia. Un momento dopo il Bagaglio evitò con un balzo Scuotivento e lo inseguì.
Herrena tentò un affondo contro Cohen, che parò il colpo e brontolò per una fitta acuta al braccio. Le lame si urtarono con fragore soffocato e poi Herrena fu costretta a indietreggiare da un’abile mossa verso l’alto di Cohen, che quasi la disarmò.
Scuotivento si avvicinò barcollante a Duefiori e lo tirò senza successo.
— Tempo di andarcene — mormorò.
— È magnifico! — esclamò l’ometto. — Hai visto il modo in cui lui…
— Sì, sì, vieni via.
— Ma io voglio… dico, ottima mossa!
La spada di Herrena le sfuggì di mano e s’infisse vibrante nel terreno. Con uno sbuffo di soddisfazione, Cohen ritirò la sua. gli occhi gli si incrociarono un attimo, lanciò un gridolino di dolore e rimase assolutamente immobile.
Herrena lo guardò, interdetta. Si provò a fare una mossa verso la propria arma e, quando non successe nulla, l’afferrò, ne verificò l’equilibrio e diede un’occhiata a Cohen. Lui la seguiva con uno sguardo pieno di tormento mentre lei gli girava intorno con cautela.
— La schiena l’ha tradito di nuovo — bisbigliò Duefiori. — Che cosa possiamo fare?
— Possiamo vedere di acchiappare i cavalli?
— Be’ — disse alla fine Herrena — io non so chi sei o perché sei qui, e in questo non c’è nulla di personale, capisci.
Alzò la spada tenendola a due mani.
Un improvviso movimento si fece sentire nella nebbia, seguito dal tonfo di un grosso pezzo di legno che colpiva una testa. Per un momento Herrena ebbe un’espressione stupefatta e poi cadde in avanti.
Bethan lasciò cadere il ramo che teneva in mano e guardò Cohen. Poi, afferratolo per le spalle, gli piantò un ginocchio nelle reni, operò una torsione da esperta e lo lasciò andare.
Sul viso del vecchio eroe si dipinse un’espressione beata. Provò a chinarsi.
— È finito! — esclamò. — La mia schiena! Il dolore sce n’è andato!
Duefiori si girò verso Scuotivento.
— Mio padre era solito raccomandare di lasciarsi penzolare dal montante di una porta — disse nel tono di una normale conversazione.
Weems s’inoltrava con grande precauzione attraverso gli alberi spogli avvolti nella nebbia. Anche se l’aria umida attutiva i rumori, era certo che negli ultimi dieci minuti non c’era stato nulla da sentire. Si voltò indietro molto adagio e poi si permise il lusso di tirare un lungo respiro. Quindi indietreggiò al riparo dei cespugli.
Qualcosa gli diede un colpetto dietro le ginocchia, con grande delicatezza. Qualcosa di angolare.
L’uomo guardò in basso. Pareva che lì giù ci fossero molti più piedi di quanto era lecito aspettarsi.
Un breve scatto secco.
Il fuoco era un minuscolo puntino di luce nel paesaggio oscuro. La luna non si era ancora alzata, ma la stella era un chiarore in agguato sull’orizzonte.
— Ora si è fatta circolare — osservò Bethan. — Sembra un minuscolo sole. Di sicuro sta diventando anche più calda.
— Taci — disse Scuotivento. — Come se non avessi già abbastanza di cui preoccuparmi.
Intervenne Cohen al quale la ragazza massaggiava la schiena: — Sciò che non capiscio è come vi abbiano catturati senza che noi scentissimo. Non ne avremmo sciaputo nulla se il vostro Bagaglio non avesce continuato a scialtare sciù e giù.
— E a uggiolare — aggiunse Bethan. Tutti la guardarono.
— Be’, sembrava che lo facesse. È molto carino da parte sua, davvero.
Quattro paia di occhi si volsero verso il Bagaglio, accovacciato dall’altra parte del fuoco. Lui si alzò e si spostò indietro nell’ombra con mossa intenzionale.
— È fascile da nutrire — disse Cohen.
— È difficile seminarlo — affermò Scuotivento.
— È leale — suggerì Duefiori.
E Cohen: — Spazioso.
— Ma non lo definirei carino — disse il mago.
— Sciuppongo che non vorreshti venderlo? — chiese il vecchio eroe.
Duefiori scosse la testa. — Non credo che capirebbe.
— No. Sciuppongo di no. — Cohen si tirò su a sedere e si morse un labbro. — Stavo scercando un regalo per Bethan. Vedi, sci sposciamo.
— Abbiamo pensato che dovevate essere i primi a saperlo — disse Bethan, arrossendo.
Scuotivento non riuscì a incontrare lo sguardo di Duefiori.
— Be’, questo è, ehm…
— Appena troviamo una città dove c’è un prete — li informò la ragazza. — Voglio farlo come si deve.
— Questo è molto importante. — Duefiori era serio. — Se in giro ci fosse più moralità, non ci schianteremmo contro le stelle.
Rimasero per un po’ a pensarci. Poi l’ometto propose tutto allegro: — Dobbiamo celebrare. Ho dell’acqua e dei biscotti, se vi è rimasta un po’ di quella carne essiccata.
— Oh, bene — disse debolmente Scuotivento. Tirò Cohen da una parte. Con la barba ben curata, il vecchio avrebbe potuto facilmente passare per un settantenne in una notte buia.
— È, uhm, una cosa seria? — gli chiese. — Davvero la sposerai?
— Scicuro. Sci sciono obiezioni?
— Be’, no, naturalmente no, ma… Voglio dire, lei ha diciassette anni e tu, tu sei, come dire? sei un uomo attempato.
— Tempo di scishtemarmi, vuoi dire?
Scuotivento cercava le parole adatte. — Cohen, tu hai settanta anni più di lei. Sei sicuro che…
— Sono già stato sposciato, sciai. Ho un’ottima memoria — rispose in tono di rimprovero.
— No, cioè… be’, io intendo fisicamente. Sai, circa la differenza di età e tutto, è una questione di salute, no? e…
— Ah! Comprendo sciò che vuoi dire. La tenscione. Non sci avevo pensciato.
Scuotivento si raddrizzò. — No. Be’, c’era da aspettarselo.
— Mi hai dato qualcoscia a cui pensciare, non sc’è dubbio — ammise Cohen.
— Spero di non avere combinato un guaio.
— No, no — rispose il vecchio eroe in tono vago. — Non ti scusciare. Hai fatto bene a parlarne.
Si voltò a guardare Bethan, che lo salutò con la mano, e poi alzò gli occhi verso la stella che luceva attraverso la nebbia.
Alla fine affermò: — Tempi pericolosa, questi.
— È un fatto.
— Chi scia coscia può portare il domani?
— Io di certo non lo so.
Cohen gli batté una mano sulla spalla. — A volte sciamo costretti a correre dei rischi. Non offenderti, ma penscio che andremo avanti con il matrimonio comunque. E, be’ — guardò Bethan e sospirò — dobbiamo sciolo sperare che lei scia forte abbastanza.
Il giorno seguente, verso mezzogiorno, arrivarono a cavallo a una cittadina dalle mura di fango, circondata da campi ancora di un verde lussureggiante. Tuttavia, c’era un sacco di traffico diretto nell’altro senso: passaggio di grossi carri rumorosi, mandrie di bestiame trotterellanti sul bordo della strada, vecchie che avanzavano a fatica con le schiene cariche di tutti i loro beni e di balle di fieno.
Scuotivento fermò un uomo che spingeva un carretto pieno di bambini. — Peste? — gli domandò.
Quello scosse la testa. — È la stella, amico. Non l’hai vista lassù nel cielo?
— Sì, era impossibile non notarla.
— Dicono che ci colpirà la Notte della Posta del Cinghiale e i mari ribolliranno e le terre del Disco si spezzeranno, i re saranno deposti e le città saranno simili a laghi di vetro — rispose l’uomo. — Io fuggo sulle montagne.
— Servirà a qualcosa, vero?
— No, ma la vista sarà migliore. Scuotivento tornò verso i suoi compagni.
— Tutti si preoccupano della stella — li informò. — Quasi più nessuno è rimasto in città. Sono tutti spaventati.
— Non voglio turbarvi, ma non vi sembra che faccia un caldo fuori stagione? — chiese Bethan.
— E quanto dicevo la notte scorsa — disse Duefiori. — Pensavo che facesse molto caldo.
— Sospetto che lo diventerà ancora di più. Entriamo in città — suggerì Cohen.
Cavalcarono attraverso strade praticamente deserte. Cohen guardava attento in cerca delle insegne dei mercanti, finché tirò le redini del suo cavallo e disse: — È questo che scercavo. Voi trovate un tempio e un prete. Vi raggiungerò tra poco.
— Un gioielliere? — disse Scuotivento.
— È una sciorprescia.
— Non mi dispiacerebbe neppure un vestito nuovo — dichiarò Bethan.
— Te ne ruberò uno.
Nella città c’era un che di molto opprimente, decise il mago. E anche di molto strano.
Su quasi ogni porta era dipinta una grande stella rossa.
— Mi fa venire la pelle d’oca — disse Bethan. — Come se la gente volesse portare qui la stella.
— O per tenerla lontana — dichiarò Duefiori.
— Non funzionerà. È troppo grossa — disse Scuotivento. Gli altri si girarono a guardarlo.
— Be’, è evidente, no? — insistette debolmente lui.
— No — replicò Bethan.
— Nel cielo le stelle sono delle piccole luci — spiegò Duefiori. — Una volta una cadde vicino a casa mia… una grossa cosa bianca, grande come una casa, ha continuato a rilucere per settimane prima di spegnersi.
— Questa stella è diversa — disse una voce. — La Grande A’Tuin si è arrampicata sulla spiaggia dell’universo. Questo è il grande oceano dello spazio.
— Come lo sai? — domandò Duefiori.
— So cosa? — ribatté il mago.
— Ciò che hai appena detto. A proposito di spiagge e oceani.
— Io non ho detto niente.
— Sì che lo hai detto, sciocco! — gridò la ragazza. — Abbiamo visto le tue labbra muoversi e tutto.
Scuotivento chiuse gli occhi. Sentiva nella sua mente l’Incantesimo che correva a nascondersi dietro la sua coscienza, borbottando tra sé e sé.
— Va bene, va bene — disse. — Non c’è bisogno di urlare. — Io… io non so come lo so, lo so e basta.
— Allora, vorrei che ce lo dicessi. Girarono l’angolo.
Tutte le città intorno al Mare Circolare avevano uno spazio speciale riservato agli dei, che sul Disco erano numerosi. Tali aree di solito erano affollate e non molto attraenti da un punto di vista architettonico. Gli dei più antichi, naturalmente, avevano templi grandi e splendidi. Ma il guaio era che gli dei più recenti pretendevano l’uguaglianza e ben presto le zone sacre erano affollate di baracche, annessi, capannoni ristrutturati, scantinati, appartamentini, apparecchiature ecclesiastiche e loro accessi trans-temporali. Infatti nessun dio si sarebbe sognato di vivere fuori dal quartiere sacro, anche se ridotto ai minimi termini. Normalmente venivano bruciati trecento diversi tipi d’incenso e il rumore quasi superava il livello acustico di sopportazione a causa di tutti i sacerdoti che facevano a gara nel chiamare alla preghiera la loro quota di fedeli.
Ma quella strada era mortalmente silenziosa, di quel silenzio particolarmente sgradevole quando centinaia di persone incollerite e spaventate si tengono immobili.
Un uomo, ai margini della folla, si girò e guardò con un severo cipiglio i nuovi arrivati. Aveva una stella rossa dipinta sulla fronte.
— Che cosa… — cominciò Scuotivento e s’interruppe perché la sua voce risuonava troppo forte — che è questo?
— Siete stranieri? — domandò l’uomo.
— In realtà ci conosciamo tutti molto… — cominciò a dire Duefiori e tacque.
Bethan puntò un dito verso la strada.
Su ogni tempio era dipinta una stella. Una particolarmente grossa imbrattava l’occhio di pietra all’esterno del tempio di Cieco Io, il più grande di tutti gli dei.
— Urgh — esclamò Scuotivento. — Io si incazzerà quando la vede. Amici, non credo che dovremmo restare qui.
La folla si era addensata davanti a una piattaforma di fortuna costruita in mezzo al viale; sul davanti del palco era stata drappeggiata una grande bandiera.
— Ho sempre sentito che Cieco Io è in grado di vedere qualsiasi cosa accade in qualsiasi posto — affermò Bethan. — Perché non ha…
— Zitti! — ordinò l’uomo vicino a loro. — Parla Dahoney!
Un tizio era salito sul palco, un uomo alto e magro con i capelli come un’aureola intorno al capo. La folla non lo accolse con grida di acclamazione, ma con un sospiro collettivo. Lui cominciò a parlare.
Scuotivento lo ascoltava con crescente raccapriccio. "Dov’erano gli dei?" chiedeva l’uomo. "Se ne sono andati. Forse non sono mai esistiti. Chi poteva davvero ricordare di averli mai visti? E ora era stata mandata la stella…"
La voce, calma e distinta, parlava e parlava. Usava parole come "risanare", "castigare", "purificare" che penetravano nel cervello come una lama ardente. "Dov’erano i maghi? Dov’era la magia? Tutto ciò era veramente esistito o era stato tutto un sogno?"
Scuotivento cominciò veramente a temere che gli dei potessero udirlo e arrabbiarsi tanto da prendersela con chiunque si fosse trovato per caso sul posto.
D’altra parte, però, perfino la collera degli dei sarebbe stata preferibile al suono di quella voce. La stella stava per venire, sembrava dire, e il suo fuoco terribile poteva essere allontanato soltanto da… da… Scuotivento non ne era certo, ma gli apparivano visioni di spade e stendardi e guerrieri dallo sguardo spietato. La voce non credeva agli dei (ciò che per Scuotivento era abbastanza giusto), ma non credeva nemmeno nelle persone.
Alla sinistra di Scuotivento un alto straniero incappucciato gii diede una gomitata. Lui si girò… e alzò gli occhi verso un teschio ghignante sotto il nero cappuccio.
I maghi, proprio come i gatti, possono vedere la Morte.
A confronto del suono di quella voce, la Morte sembrava quasi simpatica. Stava appoggiata a un muro, con la falce accanto. Fece un cenno al mago.
— Sei venuta a godertela? — le bisbigliò questi. La Morte scrollò le spalle.
— SONO VENUTA A VEDERE IL FUTURO.
— È questo il futuro?
— UN FUTURO — rispose la Morte.
— È orribile — esclamò Scuotivento.
— MI SENTO DI DARTI RAGIONE.
— Avrei creduto che tu fossi assolutamente d’accordo.
— NON IN QUESTO MODO. LA MORTE DI UN GUERRIERO O DI UN VECCHIO O DI UN BAMBINO PICCOLO, QUESTA LA CAPISCO, E IO METTO FINE AL DOLORE E ALLA SOFFERENZA. NON CAPISCO QUESTA MORTE-DELLA-MENTE.
— Con chi stai parlando? — chiese Duefiori. Nella folla, parecchi si erano voltati e fissavano sospettosi Scuotivento.
— Con nessuno — rispose il mago. — Possiamo andarcene? Mi è venuto mal di testa.
Adesso, ai margini della folla, un gruppo di persone mormorava e puntava il dito contro di loro. Scuotivento afferrò i suoi due compagni e li spinse in fretta dietro l’angolo.
— Montiamo in sella e andiamocene — li esortò. — Ho un cattivo presentimento che…
Una mano gli si abbatté sulla spalla. Lui si girò. Un paio di ostili occhi grigi, incassati in una testa calva e tonda in cima a un grosso corpo muscoloso, erano fissi sul suo orecchio sinistro. L’uomo aveva una stella dipinta sulla fronte.
— Hai l’aspetto di un mago. — Il tono di voce suggeriva che ciò fosse imprudente e possibilmente fatale.
— Chi? Io? No, io sono… un impiegato. Sì. Un impiegato. Proprio così. — Scuotivento fece una risatina.
L’uomo tacque, con le labbra che si muovevano mute, come se stesse ascoltando una voce nella sua testa. Diversi altri adepti della stella si erano uniti a lui. Tutti fissavano l’orecchio sinistro di Scuotivento.
— Io credo che tu sia un mago — affermò l’uomo.
— Ascolta — disse Scuotivento — se fossi un mago, sarei capace di fare una magia, giusto? Ti trasformerei in qualche altra cosa. E non l’ho fatto, quindi non lo sono.
— Abbiamo fatto fuori tutti i maghi — disse uno degli uomini. — Alcuni sono fuggiti, ma ne abbiamo ammazzati un bel po’. Quelli agitavano le mani e non è successo niente.
Scuotivento si limitò a fissarlo.
— Secondo noi anche tu sei un mago — continuò l’uomo, stringendolo in una morsa. — Hai le gambe arcuate e l’aspetto di un mago.
Scuotivento si rese conto che loro tre e il Bagaglio erano stati allontanati dai cavalli e si trovavano ora in un cerchio che si andava restringendo di uomini dall’espressione solenne sui visi grigi.
Bethan si era fatta pallida. Perfino Duefiori, la cui abilità nel riconoscere il pericolo era pari a quella del mago di sfuggirlo, appariva preoccupato.
Scuotivento respirò a fondo.
Sollevò le mani nella classica posa appresa tanti anni prima ed esclamò con voce stridente: — State indietro! O vi riempirò di magia!
— La magia è svanita — ribatté l’uomo. — L’ha portata via la stella. Tutti i falsi maghi hanno pronunciato le loro stramberie e poi non è successo niente, si sono guardati orripilati le mani e di loro, molto pochi hanno avuto il buon senso di scappare.
— Io parlo sul serio! — insisté Scuotivento.
"Mi ucciderà" pensò tra di sé. "Ecco come stanno le cose. Non valgo niente con la magia, non valgo niente con il bluff, sono solo un…"
L’Incantesimo gli si agitò nella mente. Lo sentì scorrergli nel cervello come acqua gelida e prendere forza. Un brivido freddo gli corse lungo il braccio.
Il braccio si levò in alto di propria volontà. Scuotivento sentì che la sua bocca gli si apriva e si chiudeva e che la lingua si muoveva mentre una voce che non era la sua, una voce che risuonava vecchia e secca, pronunciava sillabe che si gonfiavano nell’aria come nubi cariche di vapore.
Fiamme di ottarino gli sprizzarono dalle unghie e si avvolsero intorno all’uomo atterrito, finché questi non scomparve in una nuvola che s’innalzò sulla strada, rimase lì sospesa per un lungo momento e poi si disintegrò nel nulla.
Senza lasciare nemmeno un filo di fumo oleoso.
Scuotivento, sconvolto, si guardò la mano.
Duefiori e Bethan lo afferrarono ciascuno per un braccio e lo trascinarono attraverso la folla colpita da shock, finché non giunsero alla strada deserta. Ci fu un momento penoso quando i due vollero correre ognuno giù per una traversa differente, ma poi continuarono a galoppare con i piedi del mago che a malapena toccavano il selciato.
— La magia — mormorò lui eccitato, ebbro di potere. — Ho esercitato la magia…
— Esatto — riconobbe Duefiori per calmarlo.
— Volete che faccia un incantesimo? — chiese Scuotivento. Puntò un dito contro un cane che passava ed esclamò: — Wheeee! — La bestia gli diede un’occhiata offesa.
— Sarebbe preferibile se facessi muovere i tuoi piedi più svelti — disse Bethan.
— Sicuro! Piedi! Correte più in fretta! Ehi, guarda, lo fanno!
— Dimostrano più buon senso di te — lo rimproverò la ragazza. — Da che parte andiamo adesso?
Duefiori osservò l’intrico di vicoli intorno a loro. A una certa distanza, si sentivano grida eccitate.
Scuotivento si svincolò dalla loro presa e si avviò incerto lungo la strada più vicina.
— Io posso riuscirci! — urlò. — State soltanto a vedere…
— È sotto shock — disse Duefiori.
— Perché?
— Non ha mai fatto un incantesimo finora.
— Ma lui è un mago!
— È un po’ complicato — rispose Duefiori, correndo dietro l’amico. — Comunque, non sono sicuro che sia stato davvero lui. Di certo, la voce non sembrava la sua. Vieni, vecchio mio.
Scuotivento lo guardò con occhi spiritati, che non vedevano.
— Ti trasformerò in un cespuglio di rose — gli disse.
— Sì, sì, eccellente. Dai, vieni. — L’ometto cercava di calmarlo e lo tirava gentilmente per un braccio.
Si udì il rumore di passi provenienti da diverse direzioni, e improvvisamente un gruppo di adepti della stella avanzava verso di loro.
Bethan afferrò la mano molle di Scuotivento e l’alzò con gesto minaccioso.
— Sono ancora abbastanza lontani! — gridò.
— Giusto! — urlò a sua volta Duefiori. — Abbiamo un mago e non abbiamo paura di usarlo!
— È ciò che intendo!
La ragazza faceva girare Scuotivento per il braccio, come fosse un argano.
— Giusto! Abbiamo l’artiglieria pesante! Cosa? — disse Duefiori.
— Ti ho chiesto, dov’è il Bagaglio? — gli sibilò Bethan alle sue spalle.
Duefiori si guardò in giro. Il Bagaglio non c’era.
Scuotivento, tuttavia, stava producendo l’effetto desiderato sui seguaci della stella. Che, scambiando la sua mano oscillante per una falce rotante, cercavano di nascondersi gli uni dietro gli altri.
— Allora, dov’è andato?
— Come faccio a saperlo? — ribatté Duefiori.
— È il tuo Bagaglio.
— Spesso non so dove si trova il mio Bagaglio, è quanto capita a fare il turista. Comunque, molte volte se ne va in giro da solo. Probabilmente è meglio non chiedersi perché.
La folla cominciò a rendersi conto che in realtà non accadeva nulla e che Scuotivento non era in condizioni di scagliare insulti, tanto meno un fuoco magico. Prese ad avanzare, senza perdere di vista le sue mani.
Duefiori e Bethan indietreggiarono. L’ometto diede un’occhiata intorno.
— Bethan?
— Cosa? — chiese lei, senza distogliere gli occhi dalle figure che avanzavano.
— Questa è una strada senza uscita.
— Ne sei sicuro?
— Credo di riconoscere un muro di mattoni quando ne vedo uno — la rimproverò lui.
— Allora ci siamo.
— Credi che forse se io spiego…
— No.
— Oh!
— Secondo me, questi non sono tipi da ascoltare le spiegazioni — disse lei. Duefiori li osservò con attenzione. Come già accennato, di solito lui non pensava al suo pericolo personale. Andando contro l’esperienza dell’umanità intera, Duefiori era convinto che bastava che le persone si parlassero, bevessero qualcosa insieme, si scambiassero le foto dei nipotini, ci aggiungessero forse uno spettacolo o altro, e che allora tutto si sarebbe aggiustato. Era pure convinto che le persone fossero fondamentalmente buone ma che avessero le loro giornate cattive. Ciò che veniva avanti per la strada aveva su di lui circa lo stesso effetto di un gorilla in una vetreria.
Dietro a lui vi fu un rumore appena percettibile, anzi non tanto un rumore quanto una variazione nella consistenza dell’aria.
I visi di fronte a lui spalancarono la bocca, si girarono e sparirono rapidamente giù per il vicolo.
— Eh? — disse Bethan, che sorreggeva ancora il mago, ora privo di sensi.
Duefiori fissava dall’altra parte una grande vetrina piena di merci strane, una porta schermata da una tenda di perline, sormontata da una grossa insegna la quale indicava (dopo che i caratteri, contorcendosi, si erano ricomposti):
Il gioielliere rigirava adagio l’oro sulla minuscola incudine e battendo delicatamente incastrò l’ultimo diamante dal taglio strano.
— Dal dente di un troll, dici? — mormorò mentre studiava attento il proprio lavoro.
— Scì — rispose Cohen — e, come ti ho detto, puoi avere tutto il reshto. — Mentre parlava, esaminava un vassoio di anelli d’oro.
— Molto generoso — commentò il gioielliere, un nano che la sapeva lunga sugli uomini e le cose. Sospirò.
— Non molto lavoro in questi ultimi tempi? — chiese Cohen. Guardò fuori dalla finestrella e vide un gruppo di persone radunate dall’altra parte della strada.
— Già, sono tempi duri.
— Chi sciono tutti quei tipi con la stella dipinta sciulla fronte? Il nano non alzò gli occhi.
— Dei pazzi — rispose. — Dicono che non dovrei fare più nessun lavoro perché arriva la stella. Io gli dico che le stelle non mi hanno mai fatto del male. Vorrei poter dire lo stesso della gente.
Cohen annuì pensieroso alla vista di sei uomini che si staccavano dal gruppo e venivano verso il negozio. Portavano armi di vario tipo e avevano un’aria estremamente decisa.
— Strano — osservò Cohen.
— Come vedi, io sono della progenie dei nani — continuò il gioielliere. — Una delle razze magiche, si dice. Gli adepti della stella sostengono che questa non distruggerà il Disco se respingiamo la magia. Probabilmente mi daranno una pestata. Così vanno le cose.
Usò un paio di pinzette per sollevare la sua ultima opera ed esaminarla.
— È la cosa più strana che io abbia mai fatta, ma è pratica. Questo lo capisco. Come hai detto che la chiamano?
— Masticatoi — rispose il vecchio eroe. Fissò i due oggetti a forma di ferro di cavallo che teneva nel palmo della mano, poi aprì la bocca ed emise una serie di strani grugniti.
La porta si spalancò. Gli uomini fecero irruzione e andarono a mettersi intorno alle pareti. Erano sudati e incerti, ma il loro capo spinse sdegnosamente Cohen da parte e sollevò il nano afferrandolo per la camicia.
— Ti abbiamo avvertito ieri, piccoletto — gli disse minaccioso. — Te ne vai fuori con i tuoi piedi o ti ci buttiamo noi. Non ci importa. Così adesso…
Cohen gli batté sulla spalla. Quello si girò a guardarlo, irritato.
— Che cosa vuoi, nonnino? — sbuffò.
Cohen attese che l’uomo gli prestasse attenzione e poi sorrise. Un sorriso lento e pigro, che rivelò circa trecento carati di gioielleria dentale tanto che la stanza ne sembrò illuminata.
— Conterò fino a tre — disse in tono di voce amichevole. — Uno. Due. — Sollevò il ginocchio ossuto e lo piantò con mira sapiente nei genitali dell’uomo; eseguì una mezza piroetta e sferrò una gomitata potente nelle reni dell’altro, che si accasciò in preda a un dolore lancinante.
— Tre — disse rivolto alla sua vittima raggomitolata in terra. Cohen aveva sentito parlare del combattimento leale, e aveva deciso da un pezzo che non faceva per lui.
Guardò gli altri uomini e gli scoccò il suo incredibile sorriso.
Avrebbero dovuto avventarsi tutti insieme su di lui. Invece uno di loro, forte del fatto che lui possedeva uno spadone e l’altro no, volle avvicinarglisi avanzando di lato.
— Oh, no — disse Cohen agitando le mani. — Oh, dai, ragazzo, non così.
L’uomo gli lanciò un’occhiata di traverso. — Non così come? — chiese sospettoso.
— Non hai mai maneggiato una spada?
Quello si girò a mezzo per essere rassicurato dai suoi compagni.
— No, non molto — ammise. — Non spesso. — Agitò minaccioso la spada.
Cohen si strinse nelle spalle. — Può anche darsi che io muoia, ma spererei di essere ucciso da uno che sappia tenere la spada come un guerriero.
L’uomo si guardò le mani. — A me sembrano a posto — disse, dubbioso.
— Senti, ragazzo, io ne so un po’ di queste cose. Voglio dire, vieni qui un minuto e, ti dispiace? Bene, la mano sinistra va qui, intorno all’elsa e la destra va… bene così… proprio qui… e la lama va dritta nella tua gamba.
L’uomo urlò, afferrandosi il piede. Cohen ne approfittò per dargli un calcio all’altra gamba e si girò a far fronte al resto del gruppo.
— Stiamo perdendo tempo — disse. — Perché non mi venite addosso?
— Giusto — disse una voce all’altezza della sua cintola. Il gioielliere aveva tirato fuori una grossa accetta sporca, garantita per aggiungere il tetano a tutti gli altri orrori della guerra.
Dopo una rapida valutazione dei rischi, i quattro indietreggiarono verso la porta.
— E sfregatevi via quelle stupide stelle — disse il vecchio eroe. — Potete dire a tutti che Cohen il Barbaro si arrabbierà moltissimo se vedrà ancora stelle del genere, capito?
La porta si richiuse con un tonfo. Un momento dopo l’accetta ci si conficcò, rimbalzò e portò via una striscia di cuoio dal tallone del sandalo di Cohen.
— Scusami — disse il nano. — Apparteneva a mio nonno. Io l’uso soltanto per tagliare la legna per il fuoco.
Cohen si tastò la mascella. Pareva che i masticatoi si fossero assestati perfettamente.
— Se fossi in te, me ne andrei via di qui comunque — lo consigliò. Ma il nano si dava già da fare a vuotare in un sacchetto di pelle vassoi di metallo prezioso e di gemme. S’infilò in una tasca un involto con gli arnesi, in un’altra un pacchetto di gioielli già lavorati, quindi con un grugnito prese per i manici la sua piccola fucina e se la issò sulla schiena.
— Bene. Sono pronto.
— Vieni via con me?
— Fino alle porte della città, se non ti dispiace — rispose l’altro. — Non puoi biasimarmi, vero?
— No. Ma lascia l’accetta.
Uscirono nel sole pomeridiano nella strada deserta. Quando Cohen apriva la bocca puntini luminosi rischiaravano le ombre.
— Ho da queste parti degli amici da ritrovare. Spero che stiano bene. — E aggiunse: — Come ti chiami?
— Lackjaw.
— C’è da queste parti un posto dove posso — Cohen fece una pausa per assaporare le parole — dove posso avere una bistecca?
— Quelli della stella hanno chiuso tutti gli alberghi. Sostengono che è male mangiare e bere quando…
— Lo so, lo so. Credo di cominciare a capire. Ma c’è qualcosa che loro approvano?
Lackjaw ci pensò su per un momento. — Appiccare il fuoco — disse alla fine. — In questo sono bravissimi. Libri e roba varia. Ne fanno dei falò enormi.
Cohen era scioccato.
— Un falò dei libri?
— Sì. Orribile, vero?
— Esatto. — Secondo Cohen era spaventoso. Chi trascorreva una vita rude sotto il cielo aperto, conosceva il valore di un buon libro voluminoso. Che doveva servire ad accendere il fuoco per cucinare almeno un’intera stagione, se uno stava attento a come strapparne le pagine. Più di una vita era stata salvata in una notte nevosa da una manciata di rametti bagnati e un libro veramente asciutto. Se poi uno aveva voglia di fumare e non riusciva a trovare una pipa, un libro era quello che ci voleva.
Cohen sapeva bene che c’era gente che scriveva dei libri. E gli era sempre sembrato un frivolo spreco di carta.
Mentre procedevano per la strada, Lackjaw osservò in tono poco allegro: — Temo che se i tuoi amici li incontrano, potrebbero trovarsi nei guai.
Girato l’angolo, scorsero il falò, che bruciava in mezzo alla strada. Due della setta della stella lo alimentavano con libri presi da una casa lì vicino, con la porta sfondata e imbrattata di stelle.
Le notizie riguardanti Cohen ancora non si erano propagate. Così la coppia che bruciava i libri non fece caso a lui che, avvicinatosi, si era appoggiato a un muro. Frammenti di carta bruciata fluttuavano nell’aria arroventata e si disperdevano sopra i tetti delle case.
— Che state facendo? — domandò l’eroe.
Un membro della setta della stella, una donna, si scostò i capelli dagli occhi con una mano nera di fuliggine, fissò l’orecchio sinistro di Cohen e rispose: — Liberiamo il Disco dalla malvagità.
Due uomini uscirono dalla casa e guardarono minacciosi Cohen, o almeno il suo orecchio sinistro.
Cohen allungò una mano e prese il pesante libro che la donna stava trasportando. Sulla copertina erano incastonate delle strane pietre rosse e nere che, a giudizio del vecchio eroe, formavano sicuramente una parola. Lo mostrò a Lackjaw.
— Il Necrotelecomnicon — lesse il nano. — Lo usano i maghi. Credo che serva per contattare i morti.
— Tipico dei maghi — osservò Cohen. Saggiò una pagina tra pollice e indice: era sottile e molto morbida. I caratteri, dall’effetto alquanto sgradevole di sostanza organica, non lo turbavano minimamente. Sì, un libro del genere poteva dimostrarsi un vero amico per un uomo…
— Sì? Desideri qualcosa? — chiese a uno della stella che lo aveva afferrato per un braccio.
— Tutti i libri di magia devono essere bruciati — rispose quello. Un po’ incerto, però, perché qualcosa nei denti di Cohen gli dava una sensazione strana.
— Perché?
— Così ci è stato rivelato.
Il sorriso di Cohen, ora largo e aperto, brillava minaccioso. — Io penso che dovremmo andarcene — affermò nervosamente Lackjaw. Nella strada, dietro di loro, si era formato un raggruppamento di seguaci della stella.
— Io penso che mi piacerebbe ammazzare qualcuno — ribatté Cohen, sempre sorridendo.
— La stella ordina che il Disco deve essere purificato — disse l’uomo, indietreggiando.
— Le stelle non parlano. — Cohen sguainò la spada.
— Se mi uccidi, altri mille prenderanno il mio posto — replicò l’uomo, che adesso aveva le spalle al muro.
Il tono di voce di Cohen era ragionevole: — Già, ma non è questo il punto, no? Il punto è, che tu morirai.
Il pomo d’Adamo dell’altro cominciò ad andare su e giù come uno yoyo.
Lanciò un’occhiata alla spada dell’eroe.
— È vero, sì — ammise. — Senti che ti dico… e se noi spegnessimo il fuoco?
— Buona idea.
Lackjaw lo tirava per la cintura. Gli altri correvano verso di loro. Erano in tanti, molti armati. Sembrava proprio che le cose si mettessero male.
Cohen li sfidò agitando la spada, poi si girò e si mise a correre. Il nano aveva difficoltà a stargli dietro.
— Buffo — ansimò, mentre s’infilavano a precipizio in un altro vicolo. — Ho pensato… per un minuto… che volessi rimanere… e affrontarli.
— Considerala… una… finta.
Arrivati all’estremità del vicolo, Cohen si addossò al muro, tirò di nuovo fuori la spada, chinò la testa da un lato per captare meglio il rumore dei passi che si avvicinavano, quindi fece roteare la spada all’altezza dello stomaco. Il risultato fu un rumore sgradevole e urli. Ma Cohen ormai si era allontanato su per la strada, correndo con la sua solita andatura dinoccolata per via dei calli dolenti.
Con Lackjaw che pistava al suo fianco con viso arcigno, riparò in una osteria dipinta con le stelle rosse, saltò con appena un gemito su un bancone, lo fece tutto di corsa (il nanetto, con perfetta coreografia, lo seguiva sotto di esso senza nemmeno bisogno di chinarsi in due), giunto in fondo, balzò giù, si fece strada attraverso le cucine e si ritrovò fuori in un altro vicolo.
Dopo diverse giravolte, si ripararono in un portone. Cohen, appoggiato al muro, respirava affannosamente finché non sparirono le piccole scintille blu e rosse che gii danzavano davanti agli occhi.
— Allora — ansimò — che cosa hai trovato?
— Uhm, le ampolline — rispose Lackjaw.
— Soltanto?
— Be’, io dovevo andare sotto il tavolo, no? Anche tu non hai fatto molto meglio.
Cohen guardò con disprezzo il meloncino che era riuscito ad acchiappare al volo durante la fuga.
— Deve essere piuttosto duro — commentò, mentre addentava la scorza.
— Ci vuoi del sale? — gli chiese il nano.
Senza rispondere, Cohen teneva in mano il melone, a bocca aperta.
Lackjaw si guardò in giro. La strada senza uscita dove si trovavano era vuota, fatta eccezione per una cassa lasciata contro un muro.
L’eroe la fissava. Tese il melone al compagno senza guardarlo e uscì alla luce del sole. Il nano lo osservò strisciare intorno alla cassa silenziosamente (per quanto glielo permettevano le giunture scricchiolanti come un veliero a vele spiegate) e pungolarla una o due volte con la spada, ma con grande precauzione, quasi si aspettasse di vederla esplodere.
— È soltanto una cassa — gli gridò il nano. — Che c’è tanto di speciale in una cassa?
Senza parlare, Cohen si accovacciò a fatica e guardò da vicino la serratura sul coperchio.
— Che cosa c’è dentro? — domandò Lackjaw.
— Non ti piacerebbe saperlo — rispose l’altro. — Aiutami a rialzarmi, vuoi?
— Sì, ma questa cassa…
— Questa cassa, questa cassa è… — Cohen agitò le braccia con aria vaga.
— Oblunga?
— Soprannaturale - disse misteriosamente il vecchio eroe.
— Soprannaturale?
— Già.
— Oh! — Il nano e Cohen rimasero per un momento a guardarla.
— Cohen?
— Sì?
— Che significa soprannaturale?
— Be’, soprannaturale è… — Cohen s’interruppe e lo fissò irritato. — Dalle un calcio e vedrai.
Lo stivaletto rinforzato d’acciaio del nano risuonò contro una parete della cassa. Cohen trasalì. Non accadde nulla.
— Capisco — disse l’omino. — Soprannaturale vuole dire di legno?
— No — dichiarò il suo compagno. — Non… non avrebbe dovuto comportarsi così.
— Capisco — annuì Lackjaw, che invece non capiva e cominciava a pensare che l’altro non avrebbe dovuto uscire sotto il sole torrido. — Avrebbe dovuto squagliarsela, tu credi?
— Sì. Oppure portarti via la gamba con una zannata.
— Ah! — Il nano prese gentilmente Cohen per un braccio. — Quaggiù si sta bene ed è ombroso. Perché non ti riposi un po’…
Cohen si svincolò.
— Sta fissando quel muro — disse. — Guarda, ecco perché non fa attenzione a noi due. Fissa il muro.
— Sì, certo — approvò il piccoletto per calmarlo. — Naturalmente, sta fissando quel muro con i suoi occhietti…
— Non essere idiota, lei non ha occhi — sbuffò Cohen.
— Scusa, scusa — si affrettò a dire l’amico. — Fissa il muro senza occhi, scusami.
— Secondo me, qualcosa la preoccupa — annunciò l’eroe.
— Be’ è naturale, no? Immagino che desideri che ce ne andiamo e la lasciamo in pace.
— Per me, è molto perplessa — aggiunse Cohen.
— Sì, sembra certamente perplessa — assentì il nano.
— Tu come fai a dirlo? — lo rimbrottò il compagno, con un’occhiataccia.
Lackjaw trovava che i loro ruoli si erano ingiustamente ribaltati. I suoi occhi passavano da Cohen alla cassa e la sua bocca si apriva e si chiudeva.
— E tu come fai a dirlo? — ribatté.
Ma Cohen non lo ascoltava. Si era seduto davanti alla cassa, immaginando che la parete con la serratura fosse quella frontale, e la osservava intento. Lackjaw si tirò indietro. "Strano" si disse "ma quel dannato coso mi sta guardando."
— Va bene — disse alla fine Cohen. — So che tu e io non andiamo molto d’accordo, ma tutti e due stiamo cercando di trovare qualcuno che ci sta a cuore, okay?
— Io sono… — cominciò il nano, e si rese conto che l’altro stava parlando alla cassa.
— Quindi dimmi dove sono andati.
Lackjaw vide esterrefatto il Bagaglio allungare le sua gambette, prendere lo slancio e precipitarsi contro il muro più vicino. Seguì un’esplosione di mattoni d’argilla e calcinacci polverosi.
Cohen sbirciò attraverso il buco. Dall’altro lato c’era un magazzino, un piccolo locale sporco e al centro del pavimento stava il Bagaglio, dal quale irradiava la più totale frustrazione.
— Un negozio — disse Duefiori.
— C’è qualcuno qui? — chiese Bethan.
— Urrgh — esclamò Scuotivento.
— Penso che dovremmo sistemarlo da qualche parte e portargli un bicchiere d’acqua. Se qui ne troviamo uno — dichiarò l’ometto.
— Qui c’è tutto meno che l’acqua — ribatté la ragazza.
Il locale era pieno di scaffali e gli scaffali erano pieni degli oggetti più disparati. Quelli che non c’entravano, pendevano a mazzi dai soffitto in ombra; casse e sacchi spargevano il loro contenuto sul pavimento.
Dall’esterno non veniva alcun suono. Con un’occhiata in giro, Bethan ne capì la ragione.
— Non ho mai visto tanta roba — disse Duefiori.
— C’è una cosa che manca — affermò la ragazza.
— Come puoi dirlo?
— Basta che tu dia un’occhiata. Non ci sono uscite.
Duefiori si guardò intorno. Al posto della porta e della finestra, ora c’erano scaffali dove s’impilavano scatole, con l’aria di essere lì da lungo tempo.
Duefiori sistemò Scuotivento su una sedia traballante vicino alla cassa del negozio e si mise a esaminare gli scaffali. Delle scatole contenevano chiodi, altre spazzole da capelli. Stecche di sapone ingiallito da tempo. Un assortimento di boccette contenenti sali da bagno ormai sciolti, sulle quali era attaccata un’etichetta incongrua che annunciava, contro ogni evidenza, che uno di quei flaconi avrebbe costituito un Regalo Ideale. C’era anche un sacco di polvere.
Bethan, che esaminava gli scaffali sull’altra parete, scoppiò a ridere.
— Guarda questo! — esclamò.
Duefiori ubbidì. La ragazza teneva in mano un… sì, un piccolo chalet di montagna, tutto ricoperto di conchiglie; l’autore di quell’obbrobrio aveva pirografato "Souvenir Speciale" sul tetto (il quale, naturalmente, si apriva con un motivetto musicale e poteva contenere delle sigarette).
— Hai mai visto una cosa simile? — domandò Bethan.
Duefiori scosse la testa e spalancò la bocca.
— Ti senti bene? — gli chiese Bethan.
— È la cosa più bella che abbia mai vista — rispose lui.
Dall’alto venne un ronzio e i due alzarono la testa.
Un grosso globo nero si era abbassato dal soffitto scuro. Su di esso si accendevano e spegnevano piccole luci rosse e, mentre loro lo fissavano, l’oggetto misterioso girò e li guardò con un grande occhio di vetro. Era minaccioso, quell’occhio. Dava la netta sensazione di stare osservando qualcosa di sgradevole.
— C’è qualcuno? — disse Duefiori.
Da dietro la cassa spuntò una faccia dall’espressione arrabbiata.
— Spero che siate intenzionati a pagarlo. — Espressione e tono implicavano che si aspettava una risposta affermativa dall’ometto, e che non gli avrebbe creduto.
— Questo? — esclamò la ragazza. — Non lo comprerei nemmeno se tu ci aggiungessi una manciata di rubini e…
— Lo compro io. Quanto? — si affrettò a dire Duefiori e si mise una mano in tasca. Si rannuvolò in viso.
— A dire la verità, non ho denari con me. Sono nel mio Bagaglio, ma io…
Con uno sbuffo sprezzante, la faccia sparì dietro la cassa e ricomparve dietro una confezione di spazzolini da denti.
Apparteneva a un uomo piccolissimo, che quasi spariva dietro un grembiule verde.
— Come, niente denaro? — Era arrabbiato. — Entrate nel mio negozio…
— Non era nostra intenzione — obiettò svelto Duefiori. — Non ci siamo accorti che ci fosse.
— Non c’era — affermò decisa Bethan. — È magico, non è vero?
Il piccolo negoziante esitò.
— Sì — ammise a malincuore. — Un pochino.
— Un pochino? — ripeté la ragazza. — Un pochino magico?
— Un bel po’, allora — ammise e indietreggiò. Poi: — Va bene — aggiunse, intimidito dallo sguardo di Bethan. — È magico. Non posso farci nulla. Quella stupida porta non poteva esserci e poi andarsene di nuovo, no?
— Già, e quell’affare nel soffitto non ci garba per niente.
L’omino guardò su e aggrottò la fronte. Quindi sparì da una porticina mezza nascosta tra la mercanzia. Un fracasso metallico e un gran ronzio e il globo nero scomparve nell’ombra. Venne sostituito, l’uno dopo l’altro, da un mazzo di erbe, un’insegna mobile che reclamizzava un prodotto mai sentito da Duefiori, ma che doveva trattarsi di una tisana, da un’armatura e da un coccodrillo impagliato con un’espressione di estremo dolore e sorpresa assai realistici.
Il negoziante riapparve.
— Meglio? — domandò.
— È meglio, sì. — Duefiori sembrava dubbioso. — Io preferivo le erbe.
In quel momento Scuotivento ebbe un gemito. Stava per svegliarsi.
Sono state formulate tre teorie per spiegare il fenomeno dei negozi itineranti o, come sono genericamente chiamati, tabernae vagantes.
La prima postula che migliaia di anni or sono in qualche parte del multiverso si fosse evoluta una razza dall’unico talento di comprare a buon mercato e rivendere a caro prezzo. Ben presto essa controllò un vasto impero galattico o, come fu denominato, Emporium. E i membri più avanzati della specie trovarono il modo di rifornire i loro negozi con unità di propulsione uniche, capaci d’infrangere gli oscuri muri dello spazio e aprire nuovi e vasti mercati. E molto dopo che i mondi dell’Emporium perirono nella conflagrazione del loro particolare universo, dopo un’ultima e disperata vendita infuocata, i negozi stellari vaganti esercitano ancora il loro commercio e si fanno strada attraverso le pagine dello spazio-tempo, come fa il verme attraverso quelle di un romanzo in tre volumi.
La seconda teoria sostiene che essi sono la creazione di un Fato benevolo, con il ruolo di fornire esattamente la cosa giusta al momento giusto.
Per la terza, essi costituiscono semplicemente il mezzo molto astuto di aggirare i vari decreti sulla Chiusura Domenicale.
Le tre teorie, pur se diverse, hanno due cose in comune: esse spiegano i fatti osservati e sono completamente e totalmente sbagliate.
Scuotivento aprì gli occhi e per un momento restò sdraiato a contemplare il rettile impagliato. Che non era l’oggetto migliore da vedersi quando ci si sveglia da sogni agitati…
La magia! Era questo l’effetto che faceva! Nessuna meraviglia allora se i maghi non avevano un gran daffare con il sesso!
Naturalmente Scuotivento sapeva cos’erano gli orgasmi, a suo tempo ne aveva avuti alcuni, a volte perfino in compagnia. Ma niente nella sua esperienza si avvicinava nemmeno lontanamente a quell’intenso e ardente momento quando ogni nervo del suo corpo era pervaso da un fuoco bianco-azzurro e la magia allo stato puro gli si sprigionava dalle dita. Essa ti riempiva e ti sollevava e tu cavalcavi l’onda gonfia della forza elementare. Nessuna meraviglia che i maghi lottassero per il potere…
E così via. Tuttavia era l’Incantesimo nella sua testa che ne era l’artefice, non Scuotivento. Lui cominciava davvero a odiarlo, quell’Incantesimo. Era sicuro che se non avesse scacciato col timore tutti gli altri incantesimi che aveva cercato di apprendere, lui sarebbe diventato di diritto un mago decente.
In un angolo dell’animo provato di Scuotivento, il verme della ribellione ebbe un soprassalto.
"Bene" pensò. "Te ne ritornerai nell’Octavo, alla prima occasione che mi si presenta."
Si mise seduto.
— Che diavolo è questo? — chiese, tenendosi la testa per evitare che gli esplodesse.
— Un negozio — rispose cupo Duefiori.
— Spero che vendano dei coltelli perché avrei voglia di tagliarmi la testa. — Ma qualcosa nell’espressione dei due davanti a lui lo fece rinsavire.
— Era uno scherzo — affermò. — Più che altro, uno scherzo. Perché ci troviamo in questo negozio?
— Non possiamo uscirne — spiegò Bethan.
— La porta è scomparsa — aggiunse Duefiori.
Il mago si mise in piedi, un po’ traballante.
— Oh! Uno di quei negozi?
— Va bene. — Il negoziante era punto sul vivo. — È magico, sì, si sposta, sì. No, non vi dirò perché…
— Potrei bere dell’acqua, per piacere? — chiese Scuotivento.
Il proprietario fece la faccia offesa.
— Prima non hanno soldi, poi vogliono un bicchiere d’acqua — scattò. — È la cosa…
Bethan sbuffò e avanzò decisa verso il piccoletto, che cercò d’indietreggiare. Troppo tardi.
Lei lo afferrò per le bretelle del grembiule e lo guardò fisso negli occhi. Malgrado il vestito strappato e i capelli scarmigliati, divenne per un momento il simbolo di ogni donna che ha sorpreso un uomo con il pollice sulla Bilancia della vita.
— Il tempo è denaro — sibilò. — Ti do trenta secondi per portargli un bicchiere d’acqua. È un buon accordo, non credi?
Duefiori disse in un bisbiglio: — Parola mia. Lei incute veramente terrore quando è in collera.
— Sì, sì — annui Scuotivento senza entusiasmo.
Il negoziante era visibilmente spaventato. — Va bene, va bene.
— E dopo ci puoi fare uscire — aggiunse la ragazza.
— Per me sta bene. Oggi non ero aperto per lavoro, mi ero giusto fermato qualche secondo per prendere le mie cose e voi vi siete precipitati dentro!
Sparì dietro la tenda di perline e tornò con una tazza d’acqua.
— L’ho lavata con cura particolare — disse, evitando lo sguardo di lei.
Scuotivento guardò il liquido nella tazza. Probabilmente era pulito prima di esserci versato, ora berlo sarebbe stato un vero genocidio per migliaia di germi innocenti.
La mise giù con cura.
— Adesso vado a darmi una bella lavata — annunciò Bethan e se ne andò con passo deciso dietro la tenda.
Il negoziante fece un gesto vago con la mano e lanciò uno sguardo implorante ai due amici.
— Non è una cattiva ragazza — lo rassicurò Duefiori. — Sta per sposarsi con un nostro amico.
— Lui lo sa?
— Gli affari non vanno troppo bene nei negozi stellari? — chiese Scuotivento con uno sforzo per mostrarsi comprensivo.
L’omino rabbrividì. — Non ci credereste. Voglio dire, uno impara a non aspettarsi troppo, una vendita qua e là, tanto per sbarcare il lunario, sapete ciò che intendo? Ma queste persone di oggigiorno, quelli con la stella dipinta sulla faccia, be’, ho appena il tempo di aprire il magazzino e quelli minacciano di incendiarlo. Troppo magico, dicono. Così io dico, naturalmente è magico, che altro?
— Allora ce ne sono parecchi di loro qui in giro? — chiese il mago.
— Sparsi per tutto il Disco, amico. Non chiedetemi perché.
— Loro credono che una stella si schianterà sul Disco — lo informò Scuotivento.
— È vero?
— Un sacco di gente lo crede.
— Che vergogna! Ho fatto dei buoni affari qui. Troppo magico, dicono! Cosa c’è che non va con la magia, vorrei sapere io?
— Che farai?
— Oh, andrò su un altro universo, ce n’è in quantità qui intorno — rispose l’altro senza scomporsi. — Grazie comunque per avermi informato della stella. Posso lasciarvi da qualche parte?
L’Incantesimo diede un calcio nella mente del mago.
— Ehm, no — disse questi. — Credo sia preferibile restare qui. Per vedere come va a finire, capisci.
— Allora questa faccenda della stella non vi turba?
— La stella è vita, non morte — replicò Scuotivento.
— Come mai?
— Come mai che cosa?
— Lo hai fatto di nuovo. — Duefiori puntò un dito accusatore contro l’amico. — Dici delle cose e poi non sai di averle dette!
— Ho detto semplicemente che era meglio rimanere.
— Hai detto che la stella è vita, non morte. La tua voce si è fatta roca e remota. Non è così? — Si rivolse per conferma al negoziante.
— È vero — disse questi. — E mi è anche sembrato che gli occhi gli si incrociassero un po’.
— È l’Incantesimo, allora — dichiarò Scuotivento. — Sta cercando di assumere il controllo. Lui sa cosa sta per accadere e penso che voglia andare ad Ankh-Morpork. Anch’io voglio andarci — aggiunse con aria di sfida. — Ci puoi portare là?
— È quella grande città sull’Ankh? Che è cresciuta in modo disordinato, con il fetore dei pozzi neri?
— Ha una storia antica e onorata — protestò il mago in tono secco, offeso nel suo orgoglio civico.
— Non è così che me l’hai descritta — interloquì Duefiori. — Mi hai detto che era l’unica città già decadente fin dall’inizio.
Il mago era imbarazzato. — Sì. Ma, be’, è casa mia, non capisci?
— No, non proprio — dichiarò il negoziante. — Io dico sempre che la casa è il luogo dove si appende il cappello.
— Uhm, no. — Duefiori era sempre desideroso di chiarire bene le cose. — Dove si appende il cappello è un attaccapanni. Una casa è…
— Vado a provvedere per il viaggio — lo interruppe l’omino, vedendo tornare Bethan. Le passò accanto in fretta.
Duefiori lo seguì.
Dall’altra parte della tenda c’era una stanza con un lettino, un fornello alquanto sporco e un tavolino a tre zampe. Il negoziante armeggiò con il tavolo, si udì il rumore come di un tappo che esca riluttante da una bottiglia. E a un tratto la stanza conteneva un universo da parete a parete.
— Non ti spaventare — disse il negoziante, mentre le stelle scorrevano via.
— Io non sono spaventato — ribatté Duefiori, con gli occhi che gli brillavano.
— Oh! — L’altro era un po’ irritato. — Comunque, si tratta solo di una immagine generata dal negozio, non è reale.
— E tu puoi andare ovunque?
L’omino era scandalizzato. — Oh, no. C’è ogni sorta di casseforti incorporate e, dopo tutto, sarebbe sciocco andare da qualche parte senza un reddito pro capite disponibile. E, naturalmente, ci deve essere una parete adatta. Ah, eccoci qui, questo è il vostro universo. Molto piccolino, penso sempre. Una specie di universetto…
Ecco il nero spazio, la miriade di stelle che brillano come polvere di diamante o, come direbbero certi, come grandi palle d’idrogeno esplose nelle lontananze remote. Ma, del resto, certe persone direbbero qualsiasi cosa.
Un’ombra si accinge a cancellare lo scintillio distante, ed è più nera dello stesso spazio.
Da qui sembra anche molto più grande, perché in realtà lo spazio non è grande, è semplicemente un luogo indeterminato nel quale ci sono cose grandi. I pianeti sono grandi, ma i pianeti sono fatti per essere grandi e nell’essere della dimensione giusta non c’è nulla d’intelligente.
Ma quest’ombra che offusca il cielo simile al passo di Dio non è un pianeta.
È una tartaruga, lunga diecimila miglia, dalla testa bucherellata di crateri fino alla coda rivestita di corazza.
E la Grande A’Tuin è immensa.
Le grandi pinne si alzano e si abbassano ponderose, disegnando nello spazio strane forme. Il mondo-Disco scivola attraverso il cielo come una imbarcazione regale. Ma persino la Grande A’Tuin avanza ora a fatica quando lascia il libero abisso dello spazio e deve lottare contro le tormentose pressioni dei bassifondi solari. Qui, sul litorale della luce, la magia è più debole. Ancora pochi giorni, e il mondo-Disco verrà cancellato dal peso della realtà.
La Grande A’Tuin lo sa, ma la Grande A’Tuin ricorda di avere già sperimentato tutto questo molte migliaia di anni or sono.
I suoi occhi astrochelonici, che brillano rossi nella luce della piccola stella, non sono fissi su di essa ma su un piccolo frammento di spazio non lontano…
— Sì, ma dove ci troviamo? — chiese Duefiori.
Chino sul tavolo, il negoziante si limitò a stringersi nelle spalle. — Ritengo che non ci troviamo da nessuna parte. Io credo che ci troviamo in una incongruità cotangente. Potrei sbagliarmi. In genere il negozio sa ciò che fa.
— Vuoi dire che tu non lo sai?
— Io scelgo un po’ qua e un po’ là. — Si soffiò il naso. — Qualche volta atterro su un mondo dove capiscono queste cose. — I suoi occhietti tristi fissarono Duefiori. — Il tuo è un viso gentile. Posso anche dirtelo.
— Dirmi che cosa?
— Badare al negozio non è vita, sai. Mai sistemarsi, sempre in movimento, non chiudere mai.
— Perché non ti fermi, allora?
— Ah, questo è il punto, vedi… non posso. Vivo sotto il peso di una maledizione, ecco com’è. Una cosa terribile. — Si soffiò di nuovo il naso.
— Sei condannato a gestire un negozio?
— Per sempre, mio caro, per sempre. E non chiuderlo mai. Per centinaia di anni! C’era questo stregone, capisci. Io ho fatto una cosa terribile.
— In un negozio?
— Oh, sì. Non ricordo cos’era che lui voleva, ma quando l’ha chiesta, io… io me ne sono uscito in uno di quei versi risucchianti, sai, come sarebbe fischiare solo all’indietro? — Fece seguire la dimostrazione alle parole.
Duefiori si fece scuro in volto ma, essendo d’animo gentile, era sempre pronto a perdonare.
— Capisco — disse lentamente. — Anche così…
— Non è tutto!
— Oh.
— Gli ho detto che l’articolo desiderato non era richiesto.
— Dopo avere fatto quel verso risucchiante?
— Sì. Probabilmente ho anche sogghignato.
— Oh, povero me. Non l’avrai chiamato Eccellenza, spero?
— Io… può darsi.
— Uhm.
— C’è dell’altro — seguitò l’omino.
— Non è possibile!
— Sì. Gli ho detto che avrei potuto ordinarlo e che lui poteva ritornare l’indomani.
— Questo non mi sembra troppo male — lo assicurò Duefiori. Il quale, di tutti gli abitanti del multiverso, era l’unico ad acconsentire che un negoziante gli ordinasse degli articoli e a sganciare in seguito grosse somme di denaro senza fare obiezioni per rimborsarlo del disturbo di avere tenuto la merce richiesta nel suo magazzino, spesso per diverse ore.
— Era un giorno di chiusura anticipata — continuò il negoziante.
— Oh.
— Già, e l’ho sentito scuotere la maniglia. Io avevo messo sulla porta il cartello con su scritto qualcosa come "Chiuso anche per la vendita di sigarette Negromante". Comunque, l’ho sentito che ci batteva i pugni e ho riso.
— Hai riso?
— Sì. Così. AhahahAH.
Duefiori scosse la testa. — Non è stato saggio da parte tua.
— Lo so, lo so. Mio padre diceva sempre, diceva "Non commerciare in articoli per maghi"… A ogni modo, l’ho sentito gridare qualcosa a proposito di non chiudere mai più e un sacco di altre parole che non ho capito. E poi il negozio… il negozio… è diventato animato.
— E da allora hai sempre vagato così?
— Sì. Suppongo che un giorno riuscirò a trovare lo stregone e che forse l’articolo che desiderava sarà disponibile. Fino a quel momento, devo spostarmi da un posto all’altro…
— È stato terribile — lo compatì Duefiori.
L’omino si asciugò il naso con il grembiule. — Grazie.
— Anche così, lui non avrebbe dovuto infliggerti una maledizione tanto grave — aggiunse Duefiori.
— Oh, sì, be’. — Il negoziante si aggiustò il grembiule e si sforzò coraggiosamente di riprendersi. — Comunque, tutto questo non vi riporta a Ankh-Morpork, vero?
— Il buffo è che ho acquistato il mio Bagaglio in un negozio come questo, una volta — disse Duefiori. — Voglio dire, un altro negozio.
— Oh, sì, siamo in parecchi — confermò l’altro e si girò di nuovo verso il tavolo. — So che quello stregone era un tipo impaziente.
— Andare vagando senza fine attraverso l’universo — rifletté ad alta voce Duefiori.
— Esatto. Bada bene, si risparmia sulle rate.
— Rate?
— Sì, sono… — il negoziante fece una pausa e aggrottò la fronte. — Non ricordo bene, è successo tanto tempo fa. Rate, rate…
— Vuoi dire topi femmina molto grossi? — Duefiori aveva capito "ratte".
— Probabile.
— Aspetta… sta pensando — disse Cohen.
Lackjaw alzò stancamente la testa. Era stato molto piacevole, rimanersene seduti lì all’ombra. Però si era appena reso conto che, nel fuggire da una città di pazzi, era andato a invischiarsi con un altro folle. Si chiese se sarebbe vissuto tanto da rimpiangerlo.
Sperava ardentemente di sì.
— Oh, sì, sta proprio pensando — disse amaramente. — Chiunque lo vedrebbe.
— Credo che li abbia trovati.
— Oh, bene.
— Stagli vicino.
— Sei matto? — esclamò Lackjaw.
— Fidati di me, lo conosco. E a ogni modo, preferiresti essere lasciato con quei tipi della stella? Potrebbero avere interesse a fare quattro chiacchiere con te.
Cohen strisciò verso il Bagaglio e poi gli balzò sopra a cavalcioni. Quello non diede segno di accorgersene.
— Sbrigati a montare anche tu — lo esortò il vecchio eroe. — Credo che stia per andare.
Con una scrollata di spalle, Lackjaw montò con precauzione dietro a Cohen.
— Ah, sì? E come fa ad a…
Ankh-Morpork!
La perla delle città!
Naturalmente questa non è una descrizione troppo accurata (la città non è tonda e lucente). Ma anche i suoi peggiori nemici converrebbero che, dovendo paragonarla a qualche cosa, si poteva definirla un mucchio di immondizia ricoperto della secrezione malata di un mollusco morente.
Ci sono state città più grandi. Ci sono state città più ricche. Di certo ci sono state città più graziose. Ma nessuna città del multiverso poteva rivaleggiare in fetore con Ankh-Morpork.
Gli Antichi, che sanno tutto degli universi e hanno annusato gli odori di Calcutta, di !Xrc-! e dell’incredibile Marsport, hanno convenuto che perfino simili magnifici esempi di poesia olfattiva sono nulla se paragonati alla gloria dell’odore di Ankh-Morpork.
Si può parlare di puzzole. Si può parlare di aglio. Si può parlare della Francia. E di altro ancora. Ma se uno non ha annusato l’aria di Ankh-Morpork in una giornata di grande caldo, non sa che cosa sia il fetore.
I suoi cittadini ne vanno fieri. Portano le sedie fuori per goderselo in una giornata particolarmente buona. Gonfiano le guance, si battono sul petto e ne commentano allegri le varie sfumature. Gli hanno perfino eretto una statua per commemorare quella volta quando le truppe di uno stato rivale avevano tentato di prendere la città di sorpresa in una notte buia ed erano riuscite ad arrivare in cima alle mura prima che cessassero di funzionare i tamponi che si erano messi nel naso. Ricchi mercanti che hanno trascorso all’estero molti anni si fanno venire da casa bottiglie specialmente confezionate e sigillate di quella "essenza", che gli fa venire le lacrime agli occhi dalla commozione.
Ecco che effetto ha.
C’è soltanto un modo per descrivere l’effetto sul naso dei visitatori del puzzo di Ankh-Morpork: per analogia.
Prendete un tartan scozzese. Cospargetelo di coriandoli. Illuminatelo con luci stroboscopiche.
Adesso prendete un camaleonte.
Mettete il camaleonte sul tartan.
Osservatelo con attenzione.
Vedete?
Il che spiega perché, quando il negozio si materializzò alla fine a Ankh-Morpork, Scuotivento balzò su a sedere ed esclamò "Eccoci!", Bethan si fece pallida e Duefiori, che non possedeva olfatto, disse: — Davvero? Come fai a dirlo?
Era stato un lungo pomeriggio. Erano penetrati nello spazioreale attraverso vari muri di molte città perché, secondo il negoziante, il campo magico del Disco era all’opera e sconvolgeva ogni cosa.
Tutte le città, disertate dalla maggior parte degli abitanti, appartenevano a gang vaganti formate da gente impazzita, della setta dell’orecchio sinistro.
— Da dove vengono tutte queste persone? — domandò Duefiori, mentre fuggivano da un ennesimo gruppo di aggressori.
— Dentro ogni persona sana c’è un folle che lotta per venire fuori — spiegò il negoziante. — È quanto ho sempre pensato. Nessuno impazzisce più alla svelta di una persona completamente sana.
— È una teoria senza senso — protestò Bethan. — O, se invece un senso ce l’ha, non mi piace.
La stella era diventata più grande del sole. Non avrebbe fatto notte, quella notte. Sull’orizzonte il piccolo sole del Disco faceva del suo meglio per tramontare normalmente. Ma l’effetto generale di tutta quella luce rossa era che la città, mai particolarmente bella, somigliava adesso all’opera di un pittore fanatico in uno dei suoi cattivi momenti.
Ma era pur sempre la casa. Scuotivento contemplava su e giù la strada vuota e si sentiva quasi felice.
In fondo alla sua mente l’Incantesimo faceva il diavolo a quattro, ma lui l’ignorava. Forse era vero che la magia s’indeboliva mano a mano che la stella si faceva più vicina. O forse era tanto tempo che lui aveva l’Incantesimo nella testa che si era costruito una sorta d’immunità psichica. Ad ogni modo, scopriva di essere capace di resistergli.
— Ci troviamo ai docks — dichiarò. — Sentite l’odore dell’aria di mare?
— Oh — disse Bethan, appoggiandosi a un muro — sì.
— È ozono, ecco cos’è — continuò il mago. — Questa è un’aria che ha del carattere, eccome. — E inalò profondamente.
Duefiori si rivolse al negoziante: — Bene, spero che troverai il tuo stregone. Scusami se non ti abbiamo comprato nulla ma, vedi, tutto il mio denaro si trova nel mio Bagaglio.
L’omino gli mise qualcosa in mano.
— Un regalino. Ne avrai bisogno — gli disse.
Corse a ripararsi nel suo negozio, il campanello tintinnò, il cartello con la scritta "Tornate Domani Per I Cucchiaini-Esca per Sanguisughe" sbatté contro la porta, e il negozio scomparve nel muro di mattoni come non fosse mai esistito. Duefiori allungò con precauzione una mano a toccarlo, incredulo.
— Che c’è nella busta? — domandò Scuotivento.
Era una busta di spessa carta marrone con i manici di cordicella.
— Se gli spuntano le gambe, non voglio saperlo — disse Bethan.
Duefiori guardò dentro la busta e ne tirò fuori il contenuto.
— Questo è tutto? Una casetta con su le conchiglie? — fece Scuotivento.
— È molto utile — ribatté Duefiori sulla difensiva. — Ci si possono tenere le sigarette.
— Proprio quelle di cui hai bisogno, no?
— Io farei follie per una boccetta di olio solare veramente efficace — osservò la ragazza.
— Andiamo. — Scuotivento si avviò per la strada e gli altri lo seguirono.
A Duefiori venne in mente che era il caso di dire qualche parola di conforto, un discorsino pieno di tatto per distrarre Bethan, come avrebbe detto lui, e in linea generale per rallegrarla un po’.
— Non ti preoccupare — le disse. — C’è la possibilità che Cohen sia ancora vivo.
— Oh, immagino che infatti sia vivo — rispose lei, senza fermarsi e pestando con tanta forza i ciottoli, come se avesse un fatto personale contro ognuno di loro. — Non si campa fino a ottantasette anni nel suo mestiere, se uno se ne va in giro a morire tutto il tempo. Ma il fatto è che lui non è qui.
— E nemmeno il mio Bagaglio. Naturalmente, non è la stessa cosa.
— Credi che la stella colpirà il Disco?
— No — rispose Duefiori, sempre fiducioso.
— Perché no?
— Perché Scuotivento non la pensa così. Lei lo guardò stupefatta.
— Vedi — continuò il turista. — Sai che cosa si fa con un’alga? Bethan, allevata sulle Pianure del Vortice, conosceva il mare soltanto dai racconti, e aveva deciso che non le piaceva.
— Si mangia? — azzardò.
— No, si appende all’ingiù sulla porta, e ti dice se pioverà. Un’altra cosa che Bethan aveva imparato era come fosse inutile
cercare di capire ciò che diceva Duefiori. Non restava che proseguire la conversazione e sperare di trovarci un appiglio qualsiasi.
— Capisco — disse perciò.
— Vedi, Scuotivento è come quella.
— Come un’alga?
— Sì. Se c’è qualcosa di cui essere spaventati, lui lo sarebbe. Ma non lo è. La stella è pressappoco l’unica cosa della quale io non l’ho visto avere paura. Se non si preoccupa lui allora, credimi, non c’è nulla di cui preoccuparsi.
— Non pioverà? — chiese ia ragazza.
— Be’, no. Parlando metaforicamente.
— Oh. — Bethan decise di non chiedere cosa significasse "metaforicamente", nel caso avesse a che fare con le alghe.
Scuotivento si voltò.
— Venite — disse. — Ormai non è lontano.
— Per dove? — domandò l’amico.
— L’Università Invisibile, naturalmente.
— È prudente?
— Probabilmente no, ma io ci vado lo stesso… — Scuotivento s’interruppe, il viso una maschera di dolore. Si turò le orecchie con le mani e gemette.
— L’Incantesimo ti causa delle noie?
— Yargh.
— Prova a cantarellare.
Il mago fece una smorfia. — Mi libererò di questa cosa — disse con voce rauca. — Tornerà nel libro al quale appartiene. Rivoglio la mia testa!
— Ma allora… — cominciò Duefiori e si fermò. Tutti loro l’udivano… Un canto lontano e il rumore di molti passi.
— Credete che siano quelli della stella? — chiese Bethan.
Era proprio così. A un centinaio di metri di distanza il manipolo di punta svoltava l’angolo, marciando dietro una lacera bandiera bianca con su dipinta una stella a otto punte.
— Non sono solo quelli della stella — osservò Duefiori. — È gente di ogni tipo…
La folla li trascinò via al suo passaggio. Un attimo prima i tre amici si trovavano nella strada deserta, e subito dopo furono travolti da una marea di gente che li spingeva in avanti attraverso la città.
La luce delle torce vacillava negli umidi tunnel sepolti sotto l’Università, percorsi in fila indiana dai capi degli otto Ordini della stregoneria.
— Almeno quaggiù è fresco — disse uno.
— Non dovremmo trovarci quaggiù.
Trymon, che guidava il gruppo, non disse nulla. Ma era tutto immerso nei suoi pensieri. Pensava alla boccetta d’olio nella sua cintura e alle otto chiavi che portavano i maghi. Otto chiavi corrispondenti agli otto chiavistelli che incatenavano l’Octavo al suo leggio. Pensava che i vecchi maghi, sentendo la magia abbandonarli, si preoccupano dei propri problemi e stanno forse meno in guardia di quanto dovrebbero. Pensava che tra pochi minuti avrebbe avuto sotto le mani l’Octavo, la massima concentrazione di magia del Disco.
Malgrado nel tunnel facesse fresco, cominciò a sudare.
Arrivarono davanti a una porta rivestita di piombo che si apriva nella parete di pietra. Trymon prese una grossa chiave (una buona, onesta chiave di ferro, non come le chiavi contorte e sconcertanti che avrebbero aperto l’Octavo), introdusse nella serratura un goccio d’olio, ce la inserì, la girò. La serratura si aprì con uno stridio di protesta.
— Siamo tutti unanimi nella nostra decisione? — domandò Trymon. Gli rispose una serie di grugniti vagamente affermativi.
Lui spinse la porta.
Furono investiti da una ventata di aria calda e greve, un po’ oleosa. Si udiva un pigolio acuto e sgradevole. Scintille di ottarino sprizzavano da ogni naso, da ogni barba, dalle unghie.
I maghi, la testa china contro la tempesta di magia erratica proveniente dalla stanza, avanzavano a fatica. Fluttuavano intorno a loro con suoni stridenti forme confuse: erano gli spaventevoli abitanti delle Dimensioni Sotterranee in cerca (con cose che fungevano da dita solo perché come tali terminavano le loro braccia) di un possibile ingresso nel cerchio di luce che passava per l’universo della ragione e dell’ordine.
Perfino in un momento simile, poco propizio per tutte le cose magiche, perfino in una stanza concepita per smorzare ogni vibrazione magica, l’Octavo ancora crepitava del suo potere.
In realtà le torce sarebbero state superflue. L’Octavo riempiva il locale di una luce opaca, triste. Strettamente parlando, non era una luce, ma il suo opposto. L’oscurità non è l’opposto della luce, è semplicemente la sua assenza. E quella che si irradiava dal libro era la luce che emana dal limite estremo dell’oscurità. La luce fantastica.
Di un colore violaceo alquanto deludente.
Come già accennato, l’Octavo era incatenato a un leggio scolpito in una forma a metà strada tra un uccello e un rettile. Una forma orribilmente viva. Due occhi scintillanti fissavano i maghi pieni di odio.
— L’ho visto muoversi — disse uno di loro.
— Finché non tocchiamo il libro siamo al sicuro — dichiarò Trymon. Estrasse dalla cintura un rotolo di pergamena e lo svolse.
— Porta qui quella torcia e spegni la sigaretta! — ordinò.
Si aspettava un’esplosione di orgoglio infuriato. Nulla. Invece, il mago colpevole si tolse di bocca il mozzicone con dita tremanti e lo schiacciò sul pavimento con il tacco della scarpa.
Trymon esultò. "Così, fanno ciò che gli dico io. Solo per ora, forse… ma solo per ora è sufficiente."
Studiò la calligrafia quasi illeggibile di un mago da lungo tempo defunto.
— Bene — disse — vediamo. "Per ammansire Essa, La Cosa Che È Il Guardiano…"
La folla attraversava ora uno dei ponti che collegavano Morpork con Ankh. In basso il fiume, solo occasionalmente ricco d’acqua, era ridotto a un rivoletto fumante.
Sotto i passi il ponte tremava più del dovuto. La poca acqua fangosa era attraversata da strane increspature. Qualche tegola si staccò dal tetto di una casa vicina.
— Che è stato? — chiese Duefiori. Bethan si volse indietro a guardare e gridò.
La stella si stava levando. Mentre il sole del Disco si affrettava a mettersi al sicuro dietro l’orizzonte, la grande palla rigonfia della stella saliva lenta nel cielo fino a sovrastare di vari gradi l’Orlo del mondo.
Gli amici spinsero Duefiori al riparo di un portone. Senza badare a loro, la folla continuò a correre, terrorizzata.
— Ci sono delle macchie sulla stella — osservò Duefiori.
— No — disse Scuotivento. — Sono… delle cose. Delle cose che ruotano intorno alla stella. Come il sole ruota intorno al Disco. Ma sono vicinissime perché, perché… — s’interruppe. — Forse lo so.
— Che cosa sai?
— Devo liberarmi di questo Incantesimo!
— Da che parte si trova l’Università? — domandò Bethan.
— Da questa parte. — Il mago puntò il dito lungo la strada.
— Deve essere molto popolare. È proprio là che vanno tutti. Mi chiedo perché? — disse il turista.
— Non credo perché intendano iscriversi alle classi serali — commentò Scuotivento.
In effetti, l’Università Invisibile era assediata, o almeno lo erano le sue parti manifeste nelle solite dimensioni di ogni giorno. Fuori dei cancelli la folla reclamava due cose: a) Che i maghi la smettessero di trastullarsi e si sbarazzassero della stella. Oppure (e questa era la richiesta appoggiata dagli adepti della stella): b) Che si suicidassero in buon ordine, liberando così il Disco dalla maledizione della magia e annullando la tremenda minaccia nel cielo.
Dall’altra parte dei muri, i maghi non avevano nessuna idea di come fare a) e nessuna intenzione di commettere b). Molti in realtà avevano optato per c) consistente, in sostanza, nello squagliarsela da porte laterali segrete e darsela a gambe il più rapidamente possibile, se non ancora più presto.
La restante magia su cui si potesse fare affidamento nell’Università veniva concentrata sulla sicurezza dei grandi cancelli. I maghi stavano imparando a loro spese che, per quanto fosse bello e di grande effetto disporre di cancelli sbarrati in virtù della magia, i costruttori avrebbero dovuto predisporre un qualche dispositivo di emergenza quale, per esempio, un paio di comuni chiavistelli di ferro, belli grossi e resistenti.
Nel piazzale antistante i cancelli erano stati accesi diversi grandi falò, più che altro per effetto, dato il calore rovente che emanava dalla stella.
— Però sono ancora visibili le stelle — osservò Duefiori — le altre stelle, intendo. Quelle piccole. In un cielo nero.
Scuotivento, che guardava i cancelli, lo ignorò. Un gruppo di adepti della stella e di cittadini stavano cercando di abbatterli.
— È inutile — esclamò Bethan. — Non entreremo mai. Dove vai?
— A fare una passeggiata — le rispose Scuotivento, che si avviava a passo deciso per una strada laterale.
Lì, due o tre rivoltosi solitari si davano da fare a saccheggiare i negozi. Senza curarsi di loro, Scuotivento proseguì lungo il muro finché questo correva parallelo a un vicolo buio, che puzzava come puzzano tutti gli altri vicoli, ovunque.
Poi si mise a osservare molto da vicino il muro, in quel punto alto più di sei metri e sormontato da punte di ferro acuminate.
— Mi serve un coltello — disse.
— Intendi tagliarti la strada con un coltello? — gli chiese Bethan.
— Tu pensa a trovarmi un coltello. — Il mago si mise a battere le pietre del muro.
Duefiori e la ragazza si guardarono e scrollarono le spalle. Pochi minuti dopo tornarono con un’ampia scelta di coltelli; l’ometto era perfino riuscito a trovare una spada.
— Ci siamo serviti da soli — spiegò Bethan.
— Ma abbiamo lasciato del denaro — protestò Duefiori. — Cioè, avremmo voluto lasciarlo, se ne avessimo avuto…
— Così lui ha insistito per lasciare un biglietto — aggiunse stancamente lei.
L’ometto si raddrizzò in tutta la sua altezza, il che non ne valeva la pena.
— Non vedo il motivo… — cominciò in tono severo.
— Sì, sì. — Bethan si sedette per terra con aria sconsolata. — Lo so che non lo vedi. Scuotivento, tutti i negozi sono stati sfondati; per strada c’era un bel po’ di gente che si portava via degli strumenti musicali. Ci crederesti?
— Già. — Il mago scelse un coltello e ne provò la lama, soprappensiero. — Suonatori di liuto, immagino.
Conficcò la lama nel muro, la rigirò e si tirò indietro quando venne giù una grossa pietra. Poi alzò gli occhi, contò sottovoce e fece leva fin quando un’altra pietra non venne via dalla sua cavità.
— Come ci sei riuscito? — domandò Duefiori.
— Aiutami soltanto a tirarmi su — si limitò a rispondergli il mago. Un momento dopo, posando i piedi nei buchi che aveva fatti, si stava arrampicando sul muro.
— È stato così per secoli. — La sua voce arrivava fino a loro dall’alto. — Alcune pietre non sono fissate con la calcina. Un’entrata segreta, capite. Fate attenzione lì giù.
Un’altra pietra cadde sull’acciottolato.
— Lo hanno fatto gli studenti tanto tempo fa — spiegò il mago. — Un comodo sistema per entrare e uscire, quando le luci vengono spente.
— Ah, capisco - esclamò Duefiori. — Si scavalca il muro e via per recarsi nelle taverne illuminate a bere e cantare e recitare poesie. Sì?
— Giusto, salvo che per i canti e le poesie, sì. Un paio di queste punte di ferro dovrebbero essere allentate… — Seguì un suono metallico.
La sua voce si fece sentire dopo pochi secondi: — Il salto da questa parte non è molto aito. Forza, allora, se volete venire.
E fu così che Scuotivento, Duefiori e Bethan entrarono nell’Università Invisibile.
Altrove sul campus…
Gli otto maghi inserirono le loro chiavi e le fecero girare, non senza lanciarsi molte occhiate preoccupate. I chiavistelli si aprirono con un debole scatto.
L’Octavo non era più incatenato. Una lieve luce di ottarino giocava sulla sua superficie.
Trymon allungò un braccio e lo prese in mano, e nessuno degli altri fece obiezione. Il braccio gli formicolava.
Si girò verso la porta e disse: — Adesso alla Grande Sala, fratelli, se posso farvi strada…
E non vi furono obiezioni.
Arrivò alla porta, con il libro sottobraccio. Lo sentiva caldo e in certo modo pungente.
A ogni passo, Trymon si aspettava un grido, una protesta. Niente. Doveva fare ricorso a tutto il proprio autocontrollo per non scoppiare a ridere. Era più facile di quanto avesse mai immaginato.
Gli altri erano arrivati a metà strada di quel claustrofobico sotterraneo quando lui era già alla porta. E forse avevano notato qualcosa dalla posizione delle sue spalle, ma era troppo tardi perché lui aveva oltrepassato la soglia, afferrato la maniglia, sbattuto la porta, girato la chiave. Con un sorriso.
Ripercorse senza difficoltà il corridoio, ignorando le urla di collera degli altri maghi che avevano appena scoperto come fosse impossibile ricorrere agli incantesimi in un locale costruito appositamente per essere inaccessibile alla magia.
L’Octavo si dimenava, ma Trymon lo teneva stretto. Adesso si era messo a correre, scacciando dalla mente le orribili sensazioni sotto il suo braccio via via che la forma del libro si tramutava in "cose" pelose, scheletriche e aguzze. La mano gli si era informicolata. Quei lievi pigolii che aveva udito crebbero di volume. E dietro, si facevano sentire altri suoni… suoni di scherno, suoni invitanti, suoni emessi dalle voci di orrori inimmaginabili, che per Trymon era fin troppo facile immaginare.
Mentre correva attraverso la Grande Sala e su per le scale, le ombre presero a muoversi, a ricomporsi e a richiudersi intorno a lui. E si accorse che qualcosa lo stava seguendo, qualcosa che avanzava a balzellone terribilmente veloce. Ghiaccio sulle pareti. Porte che cercavano d’intrappolarlo al passaggio. Sotto i piedi, la scala pareva diventata una lingua…
Non per nulla Trymon aveva trascorso lunghe ore a esercitare il muscolo della mente in quella che nell’Università era il curioso equivalente di una palestra. Non fidarsi dei sensi, lo sapeva, perché possono essere ingannati. "La scala è lì, da qualche parte… devi volere che sia lì, ordinale di materializzarsi mentre sali. E, ragazzo mio, guarda di mettercela tutta. Perché non si tratta soltanto d’immaginazione."
La Grande A’Tuin rallentò.
Con le pinne grandi come continenti, la tartaruga celeste lottò contro l’attrazione della stella, e attese.
Non ci sarebbe stato da attendere a lungo…
Scuotivento penetrò cautamente nella Grande Sala. C’erano delle torce accese e sembrava che tutto fosse stato preparato per il compimento di qualche rito magico. Ma i candelieri cerimoniali erano stati rovesciati, i complicati ottogrammi disegnati con il gesso sul pavimento erano confusi come ci avessero danzato sopra e l’aria era piena di un odore sgradevole perfino per gli standard assai tolleranti di Ankh-Morpork. C’era un vago sentore di zolfo, sovrastato però da un odore ancora peggiore. Quello del fondo di una palude.
Udirono in lontananza un crollo e un gran vociare.
— Sembra che abbiano abbattuto i cancelli — commentò Scuotivento.
— Andiamocene di qui — pregò Bethan.
— Le cantine sono da questa parte — disse il mago e si avviò verso un arco.
— Laggiù?
— Sì. Preferisci rimanere qui?
Prese una torcia dal braccio nel muro e cominciò a scendere.
Dopo poche rampe i muri, non più rivestiti di pannelli, erano di nuda pietra. Qua e là delle pesanti porte erano state spalancate.
— Ho sentito qualcosa — annunciò Duefiori.
Scuotivento si mise in ascolto. Un rumore proveniva dalle profondità sottostanti. Non era un rumore che incutesse timore. Sembrava piuttosto prodotto da gente che tempestasse di pugni una porta e gridasse "Ohi!". — Non si tratta di quegli esseri delle Dimensioni Sotterranee di cui ci raccontavi, vero? — domandò Bethan.
— Loro non imprecano a questo modo — rispose il mago. — Andiamo.
Si affrettarono lungo i corridoi gocciolanti, guidati dalle grida d’imprecazione e dai colpi di tosse, in certo modo rassicuranti. Ascoltandoli decisero che qualunque cosa producesse quei suoni non poteva in nessun modo rappresentare un pericolo.
Alla fine si trovarono davanti a una porta incassata in un’alcova. Pareva robusta abbastanza da trattenere il mare. C’era una piccola griglia.
— Ehi! — gridò Scuotivento. Non molto efficace, ma non riuscì a pensare niente di meglio.
Si fece un improvviso silenzio. Poi, dall’altro lato della porta, una voce disse molto lentamente: — Chi c’è lì fuori?
Scuotivento riconobbe quella voce. Più di una volta, anni prima, durante le calde ore pomeridiane di lezione, lo aveva riscosso con un sobbalzo dalle sue fantasticherie per piombarlo nel terrore. Era quella di Lemuel Panter, che un tempo si era personalmente incaricato d’inculcare nella testa del giovane Scuotivento i rudimenti dell’arte. Ne ricordava gli occhi simili a succhielli nella faccia da porcellino e la voce che diceva: "E ora, signor Scuotivento, venga qui e disegni il simbolo sulla lavagna". E la marcia di un milione di chilometri davanti alla classe in attesa, mentre cercava disperatamente di rammentare ciò che la voce era andata ronzando circa cinque minuti prima. Perfino adesso gli si seccava la gola dal terrore e dal senso di colpa. Le Dimensioni Sotterranee di certo non si trovavano lì dentro.
— Prego, signore, sono io, signore. Scuotivento, signore — squittì. Si accorse che Duefiori e Bethan lo fissavano esterrefatti, e tossì. Aggiunse, nella voce più bassa che gli riuscì di tirare fuori: — Sì. Ecco chi è. Scuotivento. Proprio.
Dall’altro lato della porta s’incrociavano i bisbigli.
— Scuotivento?
— Scuoti chi?
— Ricordo un ragazzo che non era…
— L’Incantesimo, ti rammenti?
— Scuotivento?
Una pausa. Quindi la voce disse: — Suppongo che la chiave non sia nella serratura, vero?
— No — rispose Scuotivento.
— Che cosa ha detto?
— Ha detto no.
— Tipico del ragazzo.
— Uhm, chi c’è lì dentro? — chiese Scuotivento.
— I Maestri della Stregoneria — rispose altezzosa la voce. Un’altra pausa, quindi una conferenza di bisbigli imbarazzati.
— Noi, uh, siamo rimasti chiusi dentro — rispose la voce riluttante.
— Cosa, con l’Octavo? Bisbigli e ancora bisbigli.
— L’Octavo, in effetti, non è qui, in effetti — disse adagio la voce.
— Oh, ma voi ci siete? — Scuotivento si sforzò di essere cortese, mentre ridacchiava come un necrofilo in un obitorio.
— Così sembrerebbe.
— Possiamo portarvi qualcosa? — chiese ansiosamente Duefiori.
— Potreste cercare di farci uscire.
— Non potremmo scassinare la porta? — fu il suggerimento di Bethan.
— Inutile. È assolutamente a prova di ladro — affermò Scuotivento.
— Immagino che Cohen sarebbe stato capace di farlo — ribatté lei, lealmente. — Dovunque si trovi.
— Il Bagaglio l’abbatterebbe subito — convenne Duefiori.
— Be’, questo è quanto — concluse la ragazza. — Usciamo all’aria fresca. O comunque più fresca. — E si girò per andarsene.
— Aspetta, aspetta — disse Scuotivento. — Questo è proprio tipico, no? Il vecchio Scuotivento non ha nessuna idea, vero? Oh, no, lui è solo un buono a nulla. Dategli un calcio passando. Non contate su di lui, lui è…
— Va bene — lo interruppe Bethan. — Sentiamo, allora.
— …una nullità, un fallito, giusto un… che cosa?
— Come farai ad aprire la porta? — domandò lei.
Scuotivento la guardò a bocca aperta. Poi guardò la porta. Era davvero molto solida e la serratura era a posto.
Ma lui ci era entrato una volta, tanto tempo prima. Lo studente Scuotivento aveva spinto la porta, questa si era aperta, e un attimo dopo l’Incantesimo era balzato nella sua mente e gli aveva rovinato la vita.
— Ascolta — disse una voce da dietro la griglia, sforzandosi di essere gentile. — Va’ a trovarci un mago, fa’ il bravo.
Scuotivento respirò a fondo prima di ordinare con voce rauca: — Fatevi indietro.
— Cosa?
— Trovate qualcosa per nascondervi — abbaiò. La sua voce ebbe un tremito leggero. — Anche voi due — disse rivolto a Bethan e a Duefiori.
— Ma tu non puoi…
— Parlo sul serio!
— Parla sul serio — affermò Duefiori. — Quella piccola vena sulla sua tempia, sai, quando pulsa in quel modo, be’…
— Piantala!
Scuotivento alzò un braccio con gesto incerto e lo puntò contro la porta.
Il silenzio era totale.
"Oh dei" pensò "che succede ora?"
Nei profondi recessi oscuri della sua mente l’Incantesimo si agitò a disagio.
Scuotivento si sforzò di mettersi in sintonia (o quel che fosse) con il metallo della serratura. Se fosse stato in grado di seminare la discordia tra i suoi atomi perché questi si separassero…
Non accadde nulla.
Scuotivento deglutì con forza e rivolse la sua attenzione al legno. Era vecchio, quasi fossilizzato, e probabilmente non sarebbe bruciato nemmeno se cosparso d’olio e gettato in una fornace. Ci provò comunque e spiegò alle vetuste molecole che dovevano cercare di saltare su e giù per scaldarsi…
Nel silenzio pieno di tensione della sua mente guardò minaccioso l’Incantesimo, che si mostrava sbigottito.
Esaminò allora l’aria intorno alla porta e la possibilità di torcerla in forme prodigiose così che la porta esistesse in un’altra serie totalmente diversa di dimensioni.
La porta rimaneva dov’era, sprezzante nella sua solidità.
Scuotivento ormai sudava e cominciava mentalmente il percorso senza fine verso la lavagna davanti alla classe sghignazzante. Disperato, rivolse di nuovo la sua attenzione alla serratura. Doveva comporsi di pezzetti di metallo, non molto pesanti.
Rumori appena percettibili provenivano dalla griglia. Erano i maghi che scuotevano la testa, la tensione allentata.
Uno bisbigliò: — Te l’avevo detto…
Un piccolo sfregamento, uno scatto.
Il viso del mago era una maschera. Il sudore gli gocciolava giù dal mento.
Un altro scatto, lo stridere di perni riluttanti. Trymon aveva oliato la serratura, ma l’olio era stato assorbito dalla ruggine e dalla polvere di anni. A meno di servirsi di un meccanismo esterno, l’unico modo con cui un mago possa spostare qualcosa con la magia è di usare la propria mente come una leva.
Scuotivento cercava con tutte le sue forze d’impedire che il cervello gli uscisse dalle orecchie.
La serratura si scosse. Aste metalliche si contorsero, cedettero, spinsero delle leve.
Le leve scattarono, i denti ingranarono. Il congegno si sbloccò con un lungo rumore stridente che fece cadere Scuotivento in ginocchio.
La porta si spalancò girando sui cardini forzati. Cauti, i maghi scivolarono fuori.
Duefiori e Bethan aiutarono Scuotivento a rialzarsi. Lui barcollava, grigio in faccia.
— Non male — commentò uno dei maghi, osservando da vicino la serratura. — Un po’ lento, forse.
— Lascia perdere! — scattò Jiglad Wert. — Venendo qui, voi tre avete visto qualcuno?
— No — rispose Duefiori.
— Qualcuno ha rubato l’Octavo.
Scuotivento alzò la testa di scatto e i suoi occhi si rimisero a fuoco.
— Chi?
— Trymon…
Scuotivento deglutì. — Un uomo alto? Capelli biondi, somiglia a un furetto?
— Adesso che me lo dici…
— Stava nella mia classe — aggiunse Scuotivento. — Dicevano sempre che sarebbe andato lontano.
— E andrà parecchio più lontano se apre il libro — osservò uno dei maghi, che si stava arrotolando in trotta una sigaretta con dita tremanti.
— Perché? Che cosa accadrà? — domandò Duefiori.
I maghi si scambiarono un’occhiata.
— È un segreto antico, tramandato da mago a mago, e non possiamo trasmetterlo a chi non ha le loro conoscenze — rispose Wert.
— Oh, andiamo.
— Oh be’, probabilmente non ha più nessuna importanza. Una sola mente non può contenere tutti gli incantesimi. Crollerebbe e lascerebbe un buco.
— Cosa? Nella sua testa?
— Uhm, no. Nel tessuto dell’Universo. Lui potrebbe credersi in grado di controllarlo da solo, ma…
Percepirono il suono prima ancora di udirlo, iniziò nelle pietre come una lenta vibrazione, poi aumentò d’improvviso in un gemito così acuto da trapassare i timpani e perforare direttamente il cervello. Era simile a una voce umana che cantasse o salmodiasse o gridasse, ma con ipertoni più bassi e più orribili.
I maghi impallidirono. Poi, come un solo uomo, si girarono e corsero su per la scala.
All’esterno dell’edificio si era radunata una grande folla. Alcuni reggevano delle torce, altri si erano fermati nell’atto di ammucchiare delle fascine intorno ai muri. Ma tutti avevano lo sguardo alzato alla Torre dell’Arte.
I maghi si fecero strada tra la gente, che non fece caso a loro, e si voltarono anche loro a guardare.
Il cielo era pieno di lune. Ognuna era tre volte più grande della luna del Disco, e ognuna era in ombra salvo uno spicchio rosato dove batteva la luce della stella.
Ma in primo piano, sulla cima della Torre dell’Arte regnava una frenesia incandescente, nella quale s’intravedevano delle forme confuse, per nulla rassicuranti. Il suono era divenuto un ronzio amplificato un milione di volte.
Alcuni dei maghi caddero in ginocchio.
— Lo ha fatto — disse Wert, scuotendo la testa. — Ha aperto la via.
— Quelle cose sono demoni? — chiese Duefiori.
— Oh, demoni. I demoni sarebbero un picnic, paragonato a ciò che sta cercando di farsi strada lassù — esclamò Wert.
— Sono peggio di qualsiasi cosa sia possibile immaginare — aggiunse Panter.
— Quanto a me, riesco a immaginarne di assai brutte — disse Scuotivento.
— Queste sono peggiori.
— Oh!
— E cosa pensate di fare in proposito? — domandò una voce con accento deciso.
I maghi si voltarono. Bethan li fissava con aria sprezzante, a braccia conserte.
— Pardon? — disse Wert.
— Voi siete dei maghi, no? Be’, datevi da fare.
— Che? Affrontare quello? — chiese Scuotivento.
— Conosci qualcun altro?
Wert si fece avanti. — Signora, non credo che lei capisca bene…
— Le Dimensioni Sotterranee si riverseranno nel nostro Universo, giusto? — lo interrogò la ragazza.
— Be’, sì…
— Saremo divorati tutti da esseri con tentacoli al posto della faccia, giusto?
— Niente di tanto piacevole, ma…
— E voi lascerete semplicemente che ciò accada?
— Ascolta — intervenne Scuotivento. — È tutto finito, capisci? Non si possono rinchiudere gli incantesimi dentro il libro, non si può ritrattare ciò che è stato detto, non si può…
— Si può tentare!
Scuotivento si rivolse a Duefiori con un sospiro. L’amico non c’era. Gli occhi del mago si volsero inevitabilmente verso la base della Torre dell’Arte, appena in tempo per vedere la figura grassoccia del turista, la spada nella mano inesperta, sparire nella porta.
I piedi di Scuotivento presero da soli una decisione, assolutamente sbagliata, dal punto di vista della sua testa.
Gli altri maghi lo osservarono andare.
— Allora? — fece Bethan. — Lui si è mosso.
I maghi evitarono di guardarsi.
Alla fine Wert disse: — Potremmo tentare, suppongo. Pare che quell’orrore non si stia diffondendo.
— Ma praticamente non possediamo più la magia sufficiente — obiettò un altro.
— Hai un’idea migliore, allora?
Uno a uno, i maghi si voltarono e si avviarono verso la torre, le vesti cerimoniali luccicanti in quella luce soprannaturale.
All’interno la torre era vuota, con i gradini di pietra della scala a chiocciola murati nelle pareti. Duefiori era già un pezzo in su quando l’amico lo raggiunse.
— Aspetta — gli disse, sforzandosi di parlare in tono spigliato. — Una cosa del genere è un lavoro per quelli come Cohen, non per te. Senza offesa.
— Pensi che lui sarebbe all’altezza?
Scuotivento alzò lo sguardo alla luce attinica che filtrava dal foro distante in cima alla scala.
— No — ammise.
— Allora io sarei bravo come lui, non ti pare? — ribatté l’ometto, facendo roteare la spada rubata.
Scuotivento saliva dietro a lui, tenendosi il più vicino possibile alla parete.
— Tu non capisci! — gridò. — Lassù ci sono orrori inimmaginabili!
— Hai sempre detto che io non avevo immaginazione.
— Questo è vero — riconobbe il mago — ma…
Duefiori si sedette.
— Senti — disse. — Ho sperato in qualcosa del genere fin da quando sono venuto qui. Voglio dire, questa è un’avventura, no? Solo contro gli dei e così via.
Scuotivento aprì e chiuse la bocca diverse volte prima di tirare fuori le parole giuste.
— Sai usare una spada? — chiese debolmente.
— Non lo so. Non ci ho mai provato.
— Sei pazzo!
Duefiori lo guardò, con la testa piegata di lato. — Parli proprio tu! Io sono qui perché non so che altro fare, ma tu? — Indicò in basso gli altri maghi che arrancavano su per la scala. — E che mi dici di loro?
Una lama di luce azzurra balenò nella torre, seguita dal rumore di un tuono.
I maghi li raggiunsero. Tossivano forte e ansimavano.
— Qual è il piano? — chiese Scuotivento.
— Non c’è — rispose Wert.
— Bene. Splendido. Allora vi lascio portarlo avanti.
— Tu verrai con noi — disse Panter.
— Ma io non sono nemmeno un vero e proprio mago. Mi avete buttato fuori, ricordate?
— Non mi viene in mente nessuno studente meno dotato di te — ribatté il vecchio mago — ma adesso sei qui, e questo è l’unico requisito che ti occorre. Andiamo.
La luce lampeggiò e si spense. E i terribili suoni cessarono come se fossero stati strangolati.
Il silenzio riempì la torre: uno di quei silenzi grevi, pressanti.
— Si è fermato — disse Duefiori.
Qualcosa si mosse in alto contro il cerchio del rosso cielo. Cadde adagio, roteando, vagando da un lato all’altro. Colpì la scala a un tornante sopra di loro.
Scuotivento fu il primo ad avvicinarsi.
Era l’Octavo. Ma era lì. sul gradino di pietra, molle e senza vita come qualsiasi altro libro, con le pagine svolazzanti nella brezza che soffiava su per la torre.
Duefiori arrivò ansante al fianco dell’amico e abbassò gli occhi.
— Sono vuote — bisbigliò. — Ogni pagina è completamente vuota.
— Così c’è riuscito — disse Wert. — Ha letto gli incantesimi. E con successo, anche. Non lo avrei mai creduto.
— Abbiamo sentito tutto quel rumore — ribatté dubbioso Scuotivento. — C’è stata pure la luce. Quelle forme. Questo a me non pare un gran successo.
Panter spazzò via le sue obiezioni. — Oh, in ogni grande opera di magia si verifica sempre un certo fenomeno extradimensionale. Serve a impressionare la gente, niente di più.
— Sembrava che lassù ci fossero dei mostri — ribatté Duefiori, stando vicino al suo amico.
— Mostri? Fatemi vedere dei mostri! — esclamò Wert.
Istintivamente tutti guardarono in alto. Nessun suono. Nulla si muoveva contro il cerchio di luce.
— Penso che dovremmo salire, ehm, a congratularci con lui — propose Wert.
— Congratularci? — esplose Scuotivento. — Lui ha rubato l’Octavo. Vi ha chiusi dentro!
I maghi si scambiarono un’occhiata.
— Già, sì — disse uno di loro. — Quando avrai progredito in quest’arte, ragazzo, saprai pure che ci sono dei momenti in cui ciò che importa è il successo.
— È arrivarci che importa — rincarò Wert. — Non come si viaggia.
I maghi ripresero a salire.
Scuotivento, seduto sui gradini, fissava corrucciato nel buio.
Si sentì una mano posata sulla spalla. Era Duefiori, che reggeva l’Octavo.
— Non è questo il modo di trattare un libro — disse. — Guarda, ha piegato la costola all’indietro. La gente lo fa sempre, non ha idea di come trattarli.
— Già — confermò l’amico in tono vago.
— Non preoccuparti.
— Non mi preoccupo. Sono solo arrabbiato — scattò Scuotivento. — Dammi questo stupido affare!
Gli tolse di mano il libro e lo aprì con violenza. Frugò nelle profondità della sua mente, dove l’Incantesimo faceva capolino.
— Benone — ringhiò. — Ti sei divertito, hai rovinato la mia vita, adesso tornatene al tuo posto.
— Ma io… — protestò Duefiori.
— L’Incantesimo, intendo l’Incantesimo. Forza, tornatene nella pagina!
Fissò minaccioso l’antica pergamena fino a storcersi gli occhi.
— Allora te lo dico io! — urlò e la sua voce riecheggiò su per la torre. — Puoi andare a raggiungere gli altri, e buon prò ti faccia!
Ficcò il libro nelle braccia di Duefiori e prese a salire gli scalini. I maghi erano arrivati in cima ed erano scomparsi dalla vista. Scuotivento si arrampicò dietro a loro
— Ragazzo, eh? — borbottava. — Quando avrò progredito ne! mestiere, eh? Io sono riuscito ad andarmene in giro per anni con uno dei Grandi Incantesimi nella testa, senza impazzire per questo, no? — Ponderò a lungo sull’ultima domanda. — Sì, lo hai fatto — si rassicurò. — Non ti sei messo a parlare agli alberi, anche quando gli alberi si sono messi a parlare con te.
La sua testa emerse in cima alla torre nell’aria soffocante.
Si aspettava di vedere le pietre annerite dal fuoco e solcate dalle orme di artigli. O forse qualcosa ancora peggiore.
Vide invece i sette maghi in piedi vicino a Trymon, incolume. Che si voltò e gli sorrise cordialmente.
— Ah, Scuotivento. Vieni a unirti a noi, vuoi?
"Allora, ecco come stanno le cose" pensò questi. "Tutto quel dramma per nulla. Forse è vero che non sono tagliato per essere un mago, forse…"
Guardò Trymon negli occhi.
Forse era l’Incantesimo, in tutti gli anni vissuti nella sua testa, ad avergli influenzato gli occhi. Forse era il tempo trascorso con Duefiori, che vedeva le cose soltanto come dovevano essere, ad avergli insegnato a vederle come sono.
Una cosa era certa, però, la più difficile che Scuotivento avesse mai fatto in vita sua: guardare Trymon senza scappare terrorizzato o dare violentemente di stomaco.
Gli altri parevano non avere notato nulla.
Ma se ne stavano immobili.
Trymon aveva tentato di contenere i sette Incantesimi nella sua mente e questa non aveva retto. E le Dimensioni Sotterranee avevano trovato ugualmente una via di uscita. Immaginare che gli Esseri sarebbero sbucati fuori da una sorta di squarcio nel cielo, agitando mandibole e tentacoli, era stata una sciocchezza. Era roba antiquata, troppo rischiosa. Anche i terrori senza nome imparavano a mettersi al passo con i tempi. A loro bastava soltanto entrare in una testa.
Gli occhi di Trymon erano due buchi vuoti.
La consapevolezza di quanto era accaduto attraversò la mente di Scuotivento come una lama di ghiaccio. Le Dimensioni Sotterranee sarebbero state uno scherzetto a paragone di quanto erano capaci di fare gli Esseri in un universo ordinato. La gente anelava l’ordine, e ordine avrebbero avuto… l’ordine del giro di vite, la legge immutabile delle linee diritte e dei numeri. La gente avrebbe finito per invocare disordini e razzie…
Trymon lo stava guardando. Qualcosa lo stava guardando. E ancora gli altri non si erano accorti di nulla. Ma lui sarebbe stato capace di spiegarlo? Trymon sembrava lo stesso di sempre, salvo che per gli occhi e una lieve lucentezza della pelle.
Scuotivento continuava a fissarlo e sapeva che c’erano cose assai peggiori del Male. I demoni dell’inferno potevano torturare la tua anima, ma questo perché tenevano le anime in grande considerazione. Sempre il Male avrebbe cercato di sedurre l’universo, ma almeno lo considerava degno di essere sedotto. Ma il grigio mondo dietro quegli occhi vuoti avrebbe calpestato e distrutto senza nemmeno accordare alle sue vittime la dignità dell’odio. Non le avrebbe neppure notate.
Trymon tese la mano.
— L’Ottavo Incantesimo. Dammelo — ordinò.
Scuotivento indietreggiò.
— Questa è disubbidienza, Scuotivento. Dopo tutto, io sono il tuo superiore. Anzi, sono stato eletto capo supremo di tutti gli Ordini.
— Davvero? — La voce di Scuotivento era rauca. Guardò gli altri maghi. Erano immobili, simili a statue.
— Oh sì — rispose Trymon affabile. — Senza nemmeno bisogno di incitamento da parte mia. Molto democratico.
— Preferivo la tradizione — affermò Scuotivento. — In questo modo perfino i defunti hanno il voto.
— Tu mi darai spontaneamente l’Incantesimo. Devo mostrarti altrimenti che cosa farò? E alla fine sarai costretto sempre a cederlo. Implorerai per avere la possibilità di darmelo.
"Questo è il momento o mai più" pensò Scuotivento.
— Dovrai prenderlo — lo sfidò. — Io non te lo darò.
— Mi ricordo di te — disse Trymon. — Mi ricordo che non eri un granché come studente. Non hai mai avuto fiducia nella magia, dicevi sempre che ci doveva essere un modo migliore per governare un universo. Bene, vedrai. Ho fatto dei piani. Noi possiamo…
— Non noi — replicò con fermezza Scuotivento.
— Dammi l’Incantesimo!
— Prova a prenderlo. — Scuotivento indietreggiò. — Non penso che ne sei capace.
— Oh?
Scuotivento fece un salto di lato mentre una fiammata di ottarino si sprigionò dalle dita dell’altro e lasciò sulle pietre un ammasso di roccia ribollente.
Sentiva l’Incantesimo rintanarsi nelle profondità della sua mente. Sentiva che aveva paura.
Volle raggiungerlo nelle silenziose caverne della sua testa. Quello, colto di sorpresa, si ritirò come un cane di fronte a una pecora impazzita. Lui lo inseguì, incollerito, attraverso i quartieri in disuso e le zone urbane disastrate del suo subconscio, finché lo scovò nascosto dietro un mucchio di ricordi rimossi. Né si curò della sfida che gli veniva lanciata in silenzio.
"È così allora?" gli urlò Scuotivento. "Quando arriva il momento della resa dei conti, tu vai a nasconderti? Hai paura?"
L’Incantesimo ribatté: "Sciocchezze, non puoi credere una cosa simile. Io sono uno degli Otto Incantesimi". Ma Scuotivento, senza lasciarsi smontare, gridò avanzando: "Forse, ma il fatto è che ci credo e tu farai meglio a ricordarti a chi appartiene la testa in cui ti trovi, giusto? Qui dentro, posso credere a tutto ciò che mi pare!".
Evitò con un salto di lato un’altra fiammata che dardeggiò nell’aria arroventata della notte. Con un sogghigno, Trymon fece un gesto complicato con le mani.
Scuotivento si sentì sottoposto a una pressione enorme. Gli pareva che ogni centimetro della sua pelle venisse usato come un’incudine. Cadde in ginocchio.
— Ci sono in serbo molte altre cose peggiori — gli disse Trymon, sempre in tono affabile. — Posso farti bruciare la carne fino alle ossa o riempire di formiche il tuo corpo. Ho il potere di…
— Io ho una spada, sai.
Era una voce che la sfida rendeva stridula.
Scuotivento alzò la testa. Attraverso un velo rossastro di dolore, vide Duefiori che, in piedi dietro a Trymon. reggeva una spada esattamente nella maniera sbagliata.
Trymon scoppiò a ridere e flesse le dita. Per un attimo si distrasse.
Scuotivento era in collera. In collera con l’Incantesimo, con il mondo, con l’ingiustizia di tutto, con il fatto che ultimamente non aveva dormito molto e con il fatto che era incapace di ragionare a dovere. Ma più di tutto era in collera con Trymon, che se ne stava lì pieno della magia che lui, Scuotivento, aveva sempre desiderata ma non aveva mai posseduta, mentre l’altro non ci combinava nulla di buono.
Con un balzo in avanti, sferrò una testata nello stomaco di Trymon e lo strinse in una morsa disperata. Duefiori fu buttato a terra mentre i due, allacciati, scivolavano sulle pietre.
Trymon ringhiò pronunciando la sillaba iniziale di un incantesimo prima che il gomito di Scuotivento lo colpisse selvaggiamente nel collo. Una raffica di magia liberata a casaccio bruciacchiò i capelli del nostro amico.
Scuotivento combatteva come aveva sempre fatto, senza nessuna destrezza o lealtà o tattica, ma con turbinio di colpi. Una strategia per impedire che l’avversario avesse tempo sufficiente per rendersi conto che in realtà lui non era un lottatore molto bravo e nemmeno molto forte. Strategia che spesso funzionava.
Funzionò anche in quella occasione, perché Trymon aveva trascorso troppo tempo nella lettura di antichi manoscritti e aveva trascurato un sano esercizio nonché le vitamine. Riuscì comunque a piazzare diversi colpi, ma Scuotivento era troppo infuriato per accorgersene. Però, mentre lui usava soltanto le mani, Scuotivento adoperava anche le ginocchia, i piedi e perfino i denti.
In effetti, stava vincendo.
Per lui fu un vero e proprio shock.
E ancora di più quando, inginocchiato sul petto di Trymon e colpendolo ripetutamente sulla testa, il viso dell’altro cambiò. La pelle s’increspò e ondeggiò come qualcosa vista nel riverbero del calore. E Trymon parlò.
— Aiutami!
Per un momento i suoi occhi si alzarono su Scuotivento, spaventati, sofferenti, imploranti. Poi non erano più occhi. Ma esseri dai molteplici aspetti su una testa che poteva chiamarsi tale soltanto estendendo la definizione al suo estremo limite. Tentacoli, zampe seghettate, artigli si allungarono per strappare dal corpo di Scuotivento una carne già alquanto scarsa.