L’esercito di Fistandantilus avanzò verso sud come un’onda di piena raggiungendo Caergoth proprio mentre il vento staccava le ultime foglie dai rami degli alberi e la gelida mano dell’inverno serrava nella sua morsa il paese.
Le sponde del Nuovo Mare fecero arrestare l’esercito. Ma Caramon, sapendo che comunque dovevano attraversarlo, aveva già da molto tempo fatto i preparativi. Affidato il comando del grosso del suo esercito a suo fratello e al più fedele dei suoi subordinati, Caramon guidò un gruppo dei suoi uomini meglio addestrati fino alle sponde del Nuovo Mare. Inoltre, con lui c’erano tutti i fabbri, i falegnami e i carpentieri che si erano uniti all’esercito.
Caramon stabilì il suo quartier generale nella città di Caergoth. Aveva sentito parlare di quella famosa città portuale da quando era nato (nella sua vita precedente). Trecento anni dopo il Cataclisma sarebbe stata, appunto, un’attiva e prosperosa città portuale. Ma adesso, solo a cent’anni dal giorno in cui la montagna di fuoco si era abbattuta su Krynn, Caergoth era una città in preda alla confusione. Un tempo piccola comunità agricola nel mezzo della Pianura Solamnica, Caergoth era ancora sconvolta a causa dell’improvvisa comparsa di un mare alle sue porte.
Guardando giù dal suo quartier generale, dove all’improvviso le strade della città s’interrompevano in un precario precipizio lungo i ripidi dirupi fino alle spiagge sottostanti, Caramon pensò, incongruamente, a Tharsis. Il Cataclisma aveva derubato quella città del suo mare, lasciando le sue imbarcazioni arenate sui banchi di sabbia come morenti uccelli marini, mentre qui a Caergoth il Nuovo Mare lambiva quello che era stato terreno arato.
Caramon ripensò con nostalgia a quelle navi arenate a Tharsis. Qui a Caergoth c’era qualche imbarcazione, ma non in numero sufficiente per le sue necessità. Mandò i suoi uomini ad esplorare la costa in entrambe le direzioni per centinaia di miglia, con l’ordine di acquistare, o sequestrare, vascelli di ogni tipo, se possibile insieme ai loro equipaggi. Con questi, le navi salparono fino a Caergoth, dove i fabbri e i carpentieri le ristrutturarono per consentire il trasporto del maggior carico possibile per il breve viaggio attraverso i bassi fondali di Shallsea, fino all’Abanasinia.
Ogni giorno, Caramon riceveva puntualmente rapporti sulla consistenza dell’esercito dei nani; su come Pax Tharkas veniva fortificata; su come i nani avevano importato schiavi (nani dei fossi) per far funzionare miniere e fucine per forgiare l’acciaio giorno e notte, sfornando armi e armature; su come queste erano trasportate su carri fino a Thorbardin e trasferite dentro la montagna. Aveva ricevuto rapporti anche da emissari dei nani delle colline e degli uomini delle pianure. Aveva avuto notizia del grande raduno delle tribù in Abanasinia, le quali avevano accantonato le proprie faide decidendo di combattere unite per la sopravvivenza. Aveva sentito parlare dei preparativi fatti dai nani delle colline, i quali stavano anch’essi forgiando armi, usando gli stessi schiavi impiegati dai loro cugini, i nani delle montagne.
Con discrezione, Caramon aveva perfino fatto delle proposte agli elfi di Qualinesti. Questo gli aveva creato una strana sensazione, poiché colui al quale aveva inviato il messaggio altri non era che Solostaran, il Rappresentante dei Soli, il quale, soltanto poche settimane prima, era morto, nel suo vero tempo. Raistlin aveva esibito un sorriso di scherno nell’udire di quel tentativo d’indurre gli elfi a entrare in guerra, sapendo molto bene quale sarebbe stata la loro risposta. Ma l’arcimago stava covando la segreta speranza, nutrita nelle ore tenebrose della notte, che questa volta le circostanze avrebbero potuto dimostrarsi diverse.
Non fu così.
Gli uomini di Caramon non ebbero una sola possibilità di parlare a Solostaran. Prima ancora che potessero smontare dai loro cavalli, un nugolo di frecce sibilò attraverso l’aria conficcandosi al suolo con un tonfo, formando un cerchio mortale intorno a ciascuno di essi. Aguzzando gli occhi nel bosco di tremoli, poterono vedere, letteralmente, centinaia di arcieri ognuno con la sua freccia incoccata, pronta ad essere scagliata.
Non venne pronunciata una sola parola. I messaggeri se ne andarono, portando a Caramon una freccia elfica in risposta.
In realtà, la guerra stessa cominciava a causare a Caramon una bizzarra sensazione. Mettendo insieme quello che aveva sentito delle discussioni fra Raistlin e Crysania, Caramon si era reso conto d’un tratto che tutto quello che stava facendo era già stato fatto in precedenza. Quel pensiero era un incubo per lui quasi quanto lo era per suo fratello, anche se per ragioni enormemente diverse.
«Ho l’impressione che quell’anello di ferro che portavo intorno al collo a Istar mi sia stato imbullonato di nuovo,» borbottò fra sé Caramon una notte, mentre sedeva nella locanda a Caergoth, che aveva requisito facendone il suo quartier generale. «Sono di nuovo uno schiavo come lo ero allora. Soltanto, questa volta è peggio perché, perfino quando ero uno schiavo, avevo per lo meno la libertà di scegliere se tirare o no un respiro, quel giorno. Voglio dire, se avessi voluto morire, avrei potuto cadere sulla mia spada e morire! Ma adesso, a quanto pare, non mi è concessa neppure questa scelta.»
Per Caramon era un concetto strano e orripilante, sul quale si attardava e rimuginava notte dopo notte, un concetto che sapeva di non essere in grado di capire. Gli sarebbe piaciuto parlarne con suo fratello, ma Raistlin era tornato all’accampamento nell’entroterra dove stazionava il resto dell’esercito, e anche se fossero stati insieme, Caramon era certo che il suo gemello si sarebbe rifiutato di discuterne.
Durante quel periodo, Raistlin aveva continuato quasi ogni giorno a riacquistare vigore. Dopo aver impiegato gli incantesimi che avevano consumato il villaggio morto come tra le fiamme di una pira, per due giorni l’arcimago era rimasto in deliquio, anche lui praticamente morto per il resto del mondo. Quando infine si era svegliato dal suo sonno febbrile, aveva annunciato di aver fame. Nei pochi giorni che erano seguiti, aveva trangugiato più cibo solido di quanto era stato capace di tollerare nei mesi addietro. La tosse era scomparsa. Aveva ben presto riguadagnato le forze e si era rimesso in carne.
Ma era sempre tormentato da incubi, che neppure le più potenti pozioni di sonnifero riuscivano a scacciare.
Giorno e notte Raistlin rifletteva sul suo problema. Se soltanto fosse riuscito a sapere qual era stato l’errore fatale di Fistandantilus, avrebbe potuto rimediarvi.
Progetti inverosimili gli balzarono alla mente. L’arcimago si baloccò perfino con l’idea di viaggiare avanti nel proprio tempo per compiere delle ricerche, ma abbandonò quasi subito l’idea. Se consumare tra le fiamme il villaggio l’aveva reso esausto per due giorni, l’incantesimo del viaggio nel tempo si sarebbe dimostrato ancora più faticoso. E anche se nel presente fosse trascorso soltanto un giorno, o due, mentre recuperava le forze, nel passato sarebbero volati via interi eoni.
E infine, se anche fosse riuscito a tornare, non avrebbe avuto forze sufficienti per combattere la Regina delle Tenebre.
E poi, proprio quando aveva quasi rinunciato per la disperazione, la risposta gli balenò nella mente...
Raistlin sollevò la falda della tenda ed uscì fuori, La sentinella di turno trasalì e mosse i piedi a disagio. L’aspetto dell’arcimago era sempre snervante, perfino per gli uomini della sua guardia personale. Pareva sempre materializzarsi dal nulla. La prima indicazione della sua presenza era il tocco delle sue dita brucianti su un braccio nudo, oppure una serie di parole bisbigliate, o il frusciare delle sue vesti nere.
La tenda dello stregone veniva guardata con meraviglia e sgomento, anche se nessuno aveva mai visto niente di strano emanare da essa. Naturalmente erano in molti ad osservarla, specialmente i bambini, i quali speravano di vedere un mostro orribile sfuggire al controllo dell’arcimago e scatenarsi come un tuono attraverso il campo, divorando tutti quelli che gli si fossero parati davanti fino a che loro non fossero stati in grado di placarlo con un pezzettino di pan di zenzero.
Ma non accadeva mai niente del genere. L’arcimago conservava e tutelava le proprie forze con grande cautela. Stanotte sarà diverso, rifletté Raistlin con un sospiro e un aggrottare della fronte. Ma non poteva far niente.
«Guardia,» chiese, con un filo di voce.
«Mi... mio signore?» balbettò la guardia in preda a una certa confusione. Ben di rado l’arcimago parlava con qualcuno, e per di più non con una semplice guardia.
«Dov’è Dama Crysania?»
La guardia non riuscì a reprimere un contorcersi delle labbra quando rispose che la «strega» era, così almeno credeva, nella tenda del generale Caramon, essendosi ritirata per la sera.
«Devo mandare qualcuno a chiamarla, mio signore?» chiese a Raistlin, con una riluttanza talmente ovvia che il mago non potè fare a meno di sorridere, nonostante il suo volto fosse celato fra le ombre del cappuccio grigio.
«No,» rispose, compiaciuto, come se si ritenesse soddisfatto da questa informazione. «E avete notizie di mio fratello? Quando dovrebbe tornare?»
«Il generale Caramon ha fatto sapere che arriverà domani, mio signore,» proseguì la guardia, sconcertata, convinta com’era che il mago lo sapesse già. «Dobbiamo aspettare qui il suo arrivo e nello stesso tempo lasciare che il convoglio dei rifornimenti ci raggiunga. I primi carri sono già arrivati questo pomeriggio, mio signore.» La guardia fu colta da un pensiero improvviso. «Se... se hai intenzione di cambiare questi ordini, mio signore, dovrei chiamare il capitano di turno...»
«No, no, niente del genere,» rispose Raistlin in tono conciliante. «Volevo soltanto assicurarmi che non sarei stato disturbato questa notte, per nessuna ragione e da nessuno. È chiaro... uhm, qual è il tuo nome?»
«M...Michael, Vossignoria, signore,» rispose la guardia. «Certamente, mio signore. Se questi sono i tuoi ordini, li eseguirò.»
«Bene,» annuì Raistlin. L’arcimago rimase silenzioso per un momento, fissando la notte che era fredda ma rischiarata dalla luce di Lunitari e dalle stelle. Solinari, al tramonto, era soltanto un graffio argenteo sul cielo. Cosa più importante per Raistlin, era la luna che lui soltanto poteva vedere. Nuitari, la Luna Nera, era piena e rotonda, un buco di tenebra fra le stelle.
Raistlin si avvicinò di un altro passo alla sentinella. Scostando leggermente il cappuccio dal viso, lasciò che la luce della luna rossa colpisse i suoi occhi. La sentinella, sorpresa, fece involontariamente un passo indietro, ma il suo severo addestramento come Cavaliere di Solamnia l’indusse a fermarsi.
Raistlin sentì che il corpo dell’uomo s’irrigidiva. Vide la reazione e sorrise di nuovo. Alzando una mano sottile l’appoggiò sulla corazza che copriva il petto della guardia.
«Nessuno deve entrare nella mia tenda per qualsivoglia ragione,» ribadì l’arcimago con quel sussurro sommesso e sibilante che sapeva usare con tanta efficacia. «Non importa quello che accadrà! Nessuno... non Dama Crysania, o mio fratello, tu stesso... nessuno!»
«Ca... capisco, mio signore,» balbettò Michael.
«Questa notte potresti vedere o sentire strane cose,» continuò Raistlin, fissando la guardia con il suo sguardo ammaliatore. «Ignorale. Chiunque entri in questa tenda lo farà a rischio della sua vita... e della mia!»
«S... sì, signore!» disse Michael, deglutendo a fatica. Un rivolo di sudore gli scorse lungo il viso, anche se l’aria della notte era eccessivamente fresca per l’autunno.
«Tu sei... o eri... un Cavaliere di Solamnia?» gli chiese Raistlin d’un tratto.
Michael parve a disagio, il suo sguardo vagò qua e là. Apri la bocca, ma Raistlin scosse la testa.
«Non importa. Non sei obbligato a dirmelo. Anche se ti sei rasato i baffi, lo capisco dal tuo viso. Conoscevo un cavaliere, un tempo, capisci. Perciò giurami, sul Codice e la Misura, che farai come ti ho chiesto.»
«Lo giuro, sul Codice e... la Misura...» bisbigliò Michael.
Il mago annuì, in apparenza soddisfatto, e si voltò per entrare nella sua tenda. Michael, non più prigioniero di quegli occhi nei quali aveva visto solamente se stesso riflesso, tornò al suo posto, rabbrividendo sotto il suo pesante mantello di lana. All’ultimo momento, però, Raistlin si fermò. Le vesti gli frusciarono sommessamente intorno. «Sir Cavaliere,» bisbigliò.
Michael si voltò.
«Se qualcuno dovesse entrare in questa tenda,» disse il mago, in tono gentile e piacevole, «e dovesse disturbare il mio incantesimo... e io dovessi sopravvivere, mi aspetto di trovare soltanto il tuo cadavere sul terreno. Questa è l’unica giustificazione che accetterò per il tuo insuccesso.»
«Sì, signore,» replicò Michael con maggior fermezza, anche se a bassa voce. «Est Sularas oth Mithas. Il mio onore è la mia vita.»
«Sì.» Raistlin scrollò le spalle. «Di solito è così che finisce.»
L’arcimago entrò infine nella sua tenda, lasciando Michael al buio in attesa che... soltanto-i-nuovi-dei-sapevano-cosa... accadesse nella tenda alle sue spalle.
Michael desiderò che suo cugino, Garic, fosse lì con lui a condividere quello strano e sinistro compito. Ma Garic era con Caramon. Michael infossò ancora di più le spalle nel mantello e guardò con nostalgia l’accampamento. C’erano i fuochi dei bivacchi, il caldo vino speziato, una buona compagnia, l’echeggiare delle risate. Qui, invece, tutto era avvolto in una fitta oscurità, tinta di rosso, illuminata dalla luce delle stelle. L’unico rumore che Michael poteva udire era quello della sua armatura, che prese a tintinnare quando lui cominciò a tremare incontrollabilmente.
Raistlin attraversò la tenda da un lato all’altro e arrivò a una grande cassa di legno che si trovava sul pavimento accanto al letto. La cassa, scolpita con rune magiche, era l’unica proprietà di Raistlin, oltre al Bastone di Magius, che il mago non permetteva a nessuno di toccare, al di fuori di lui stesso.
Non che qualcuno volesse provarci. Non più, dopo quanto aveva riferito una delle guardie che per sbaglio aveva tentato di sollevarla. Raistlin non aveva detto una parola, si era semplicemente limitato ad osservare la guardia che la lasciava cadere con un gemito.
Al tocco, la cassa si era rivelata d’un gelo pungente, aveva riferito la guardia con voce ancora scossa ai suoi amici intorno al fuoco, quella notte. Ma non soltanto questo... era anche stato sopraffatto da una sensazione d’orrore così intensa che c’era da meravigliarsi che non fosse impazzito.
Da quel giorno, soltanto Raistlin l’aveva spostata, anche se nessuno sapeva dire come. Era sempre lì, nella sua tenda, ma nessuno riusciva a ricordare di averla mai vista su qualcuno dei cavalli da soma.
Sollevando il coperchio della cassa, Raistlin ne studiò con calma il contenuto: i libri degli incantesimi rilegati in azzurro-notte, i vasetti e le bottiglie e le borse con i componenti degli incantesimi, i suoi libri personali degli incantesimi rilegati in nero, un assortimento di pergamene, e parecchie vesti nere ripiegate sul fondo. Non c’erano anelli o ciondoli magici, come quelli che si sarebbero potuti trovare in possesso di maghi di rango inferiore. Questi erano oggetti che Raistlin disprezzava, ritenendoli adatti soltanto ai deboli.
Il suo sguardo scorse rapidamente su tutti gli oggetti contenuti nella cassa, compreso un libro sottile e assai consunto che avrebbe potuto indurre l’osservatore casuale a soffermarsi a fissarlo, chiedendosi come un articolo così mondano fosse tenuto insieme ad oggetti di valore arcano. Il titolo, scritto con caratteri fiammeggianti per attirare l’attenzione del compratore, era: Tecniche di Prestidigitazione Concepite per Stupire e Deliziare! Sotto queste parole stava scritto il sottotitolo:
Sbalordite i vostri amici, ingannate i creduloni! Poteva esserci stato dell’altro, ma il resto era stato consumato ormai da molto tempo da mani giovani, avide e amorevoli.
Quel libro perfino adesso fece increspare in un sorriso le labbra sottili del mago, sull’onda dei ricordi, mentre vi faceva scivolare sopra le mani, le quali passarono però oltre, affondando tra le sue vesti. Qui trovarono una scatoletta e la tirarono fuori. Anche questa era coperta da rune scolpite sulla sua superficie. Mormorando parole magiche per annullare il loro effetto, il mago aprì la scatoletta con reverenza. Dentro c’era soltanto un oggetto: un supporto d’argento decorato. Raistlin tolse con cautela il supporto dalla scatola e, alzatosi in piedi, lo portò fino al tavolo che aveva sistemato al centro della tenda.
Preso posto su una sedia, il mago infilò la mano in una delle sue tasche segrete e ne estrasse un piccolo oggetto di cristallo. Vorticante di colori, a prima vista non assomigliava a niente di più sinistro d’una biglia di vetro per bambini. Però, guardando l’oggetto più da vicino, ci si accorgeva che i colori intrappolati nel suo interno erano vivi. Essi davanti agli occhi si muovevano e cambiavano in continuazione, come se cercassero di fuggire.
Raistlin appoggiò la pallina sul supporto. Appollaiata là sopra appariva ridicola, fin troppo minuscola. E poi, come sempre all’improvviso, fu perfetta. Era cresciuta, il supporto era rimpicciolito... forse lo stesso Raistlin era rimpicciolito, poiché adesso era il mago che aveva la sensazione di apparire ridicolo.
Era una sensazione ben nota, ormai, e c’era abituato, sapendo che il Globo dei draghi - poiché tale era quel lucido globo di cristallo dai colori turbinanti - cercava sempre di mettere il suo fruitore in posizione di svantaggio. Ma, molto tempo prima (no, in un tempo futuro) Raistlin aveva dominato il Globo dei draghi. Aveva imparato a dominare l’essenza della specie di drago che l’abitava.
Rilassando il proprio corpo, Raistlin chiuse gli occhi e si abbandonò alla sua magia. Protese le mani, appoggiò le dita sul freddo cristallo del Globo dei draghi, e pronunciò le antiche parole: «Ast bilak moiparalan / Suh akvlar tantangusar.»
Il gelo del globo cominciò a diffondersi attraverso le sue dita facendogli dolere perfino le ossa.
Serrando i denti, Raistlin ripetè le parole.
«Ast bilak moiparalan / Suh akvlar tantangusar.»
I colori turbinanti all’interno del globo cessarono i loro vacui vagabondaggi e cominciarono a roteare follemente. Raistlin fissò l’interno di quell’abbacinante vortice, combattendo lo stordimento che l’aveva assalito, tenendo le mani appoggiate con fermezza sopra il globo. Lentamente, bisbigliò una volta ancora le parole.
I colori cessarono di turbinare e una luce arse al loro centro. Raistlin sbatté le palpebre, poi si accigliò. La luce non avrebbe dovuto essere né nera né bianca, di tutti i colori ma di nessuno, simboleggiando così la mescolanza del bene e del male e della neutralità che saldava l’esistenza dei draghi all’interno del globo. Così era sempre stato, sin dalla prima volta che aveva guardato dentro il globo e aveva lottato per controllarlo.
Ma la luce che vedeva in quel momento, nonostante fosse molto simile a quella che aveva visto prima, pareva inanellata da ombre scure. La fissò attento, con freddezza, bandendo ogni fantasioso volo dell’immaginazione. La sua fronte si corrugò ancora di più. C’erano ombre che si libravano ai bordi... ombre di... ah! Dalla luce sbucarono due mani. Raistlin le afferrò e... rantolò.
Le mani lo tirarono con forza tale che, colto del tutto di sorpresa, Raistlin perse quasi il controllo.
Fu solo quando si sentì attirare dalle mani dentro il globo, all’interno di quella luce d’ombra, che esercitò la propria forza di volontà e diede uno strattone alle mani, tirandole verso di sé.
«Cosa significa questo?» chiese Raistlin con voce severa. «Perché mi sfidi? Già molto tempo fa sono diventato il tuo padrone.»
Lei chiama... Lei chiama e noi dobbiamo ubbidire.
«Chi chiama, al punto di essere più importante di me?» chiese Raistlin con un sorriso beffardo, anche se all’improvviso sentì il suo sangue scorrergli più freddo della sensazione di gelo che gli trasmetteva il globo.
La nostra Regina! Sentiamo la sua voce, che si muove nei nostri sogni, disturbando il nostro sonno.
Vieni, padrone, ti prenderemo! Affrettati a venire!
La Regina! Raistlin involontariamente tremò, incapace di trattenersi. Le mani, sentendo che s’indeboliva, ripresero ancora una volta a tirarlo. Rabbiosamente, Raistlin moltiplicò la stretta su di esse e ristette, nel tentativo di dipanare i suoi pensieri che turbinavano follemente tanto quanto i colori all’interno del globo.
La Regina! Naturalmente, avrebbe dovuto prevederlo. Era entrata nel mondo, parzialmente, e adesso si aggirava in mezzo ai draghi del male. Banditi da Krynn molto tempo prima dal sacrificio del Cavaliere Solamnico, Huma, i draghi, sia quelli del bene sia del male, dormivano in luoghi profondi e segreti.
Lasciando che i draghi del bene continuassero a dormire indisturbati, la Regina delle Tenebre, Takhisis, il Drago dalle Cinque Teste, stava risvegliando i draghi del male facendoli passare alla sua causa, mentre combatteva per il controllo del mondo.
Il Globo dei draghi, malgrado fosse costituito dalle essenze di tutti i draghi (buoni, malvagi e neutrali) avrebbe, naturalmente, reagito con forza ai comandi della Regina, specialmente adesso che il lato malvagio era predominante, enfatizzato dalla natura del suo padrone.
Quelle ombre che vedo sono le ali dei draghi, oppure le ombre della mia anima? si chiese Raistlin, fissando il globo.
Tuttavia non ebbe agio di riflettere. Tutti quei pensieri gli sfrecciarono attraverso la mente con tanta rapidità che tra un inspirare e il successivo espirare l’arcimago vide il grave pericolo che gli si parava davanti. Bastava che perdesse il controllo anche per un solo istante, e Takhisis l’avrebbe rivendicato a sé.
«No, mia Regina,» mormorò, serrando con forza le mani all’interno del globo. «Non sarà così facile.»
Parlò al globo con voce sommessa, ma ferma: «Sono ancora il tuo padrone. Sono colui che ti ha salvato da Silvanesti e da Lorac, il folle re degli Elfi. Sono colui che ti ha portato a salvamento attraverso il Mare di Sangue di Istar. Io sono Rai...» esitò, deglutì all’improvviso sapore di amaro che aveva in bocca, poi disse a denti stretti: «Io sono... Fistandantilus, Maestro del Passato e del Presente, e ti ordino di obbedirmi!»
La luce del globo si affievolì. Raistlin sentì le mani che stringevano le sue tremare e cominciare a sgusciar via. La rabbia e la paura saettarono attraverso il suo corpo, ma nel medesimo istante represse queste emozioni, e continuò a stringere saldamente nella sua morsa quelle mani. Il tremito cessò, le mani si rilassarono.
Obbediamo, padrone.
Raistlin non osò tirare un sospiro di sollievo. «Molto bene,» dichiarò, mantenendo severa la voce... un genitore che parlava a un bambino da lui castigato. (Ma che bambino pericoloso! pensò). E freddamente continuò: «Devo mettermi in contatto con il mio apprendista nella Torre della Grande Stregoneria a Palanthas. Ascoltate dunque il mio ordine e obbedite. Portate la mia voce attraverso i flussi eterei del tempo. Portate le mie precise parole a Dalamar.»
Pronuncia le parole, padrone. Le sentirà, allo stesso modo in cui sente il battito del proprio cuore, e così tu sentirai la sua risposta.
Raistlin annuì...
Dalamar chiuse il libro degli incantesimi stringendo il pugno per la frustrazione. Era certo di star facendo ogni cosa nella maniera giusta, pronunciando le parole con l’esatta inflessione, ripetendo il canto il numero prescritto di volte. I componenti erano quelli richiesti. Aveva visto Raistlin lanciare quell’incantesimo un centinaio di volte. Eppure, lui non riusciva a lanciarlo.
Prendendosi stancamente la testa fra le mani, chiuse gli occhi e richiamò alla mente i ricordi del suo Shalafi, sentendo la voce sommessa di Raistlin, cercando di ricordare il tono e il ritmo esatti, sforzandosi di pensare a qualsiasi cosa che gli potesse capitare di eseguire nel modo sbagliato.
Non servì. Ogni cosa pareva la stessa! Be’, pensò Dalamar con un sospiro di stanchezza, devo semplicemente aspettare fino a quando non sarà tornato.
Alzandosi in piedi, l’elfo scuro pronunciò una parola magica e l’incantesimo della luce continua che aveva lanciato sul globo di cristallo che si trovava sulla scrivania della biblioteca di Raistlin si spense. Nessun fuoco ardeva nel caminetto. A Palanthas la notte della calda primavera era dolce e serena. Dalamar aveva perfino osato socchiudere la finestra.
Anche nei momenti migliori la salute di Raistlin era fragile. Aborriva l’aria fresca, preferendo restar seduto nel suo studio avvolto nel calore e nei sentori delle rose, delle spezie e della putredine. Di solito a Dalamar ciò non importava. Ma c’erano momenti di nostalgia, particolarmente in primavera, quando la sua anima di elfo bramava la patria dei boschi che aveva lasciato per sempre. In piedi accanto alla finestra, odorando il profumo della nuova vita al quale neppure gli orrori del Bosco di Shoikan potevano impedire di raggiungere la Torre, Dalamar si permise di pensare, solo per un momento, a Silvanesti.
Un elfo scuro è qualcuno che viene allontanato dalla luce. Questo era Dalamar per il suo popolo.
Quando l’avevano sorpreso a indossare le Vesti Nere che nessun elfo poteva anche soltanto guardare senza sussultare, intento a praticare arti arcane, proibite a qualcuno di rango e posizione sociale bassi come i suoi, i signori degli elfi avevano legato Dalamar mani e piedi, gli avevano imbavagliato la bocca e bendati gli occhi. Poi era stato buttato in un carro e trasportato fino ai confini della sua terra.
Privato della vista, gli ultimi ricordi che Dalamar aveva avuto di Silvanesti erano stati l’odore dei tremoli, dei fiori in boccio, delle distese di muschio. Ricordava che anche allora era primavera.
Sarebbe tornato indietro se avesse potuto? Avrebbe rinunciato a tutto questo, pur di tornare?
Provava qualche dispiacere, qualche rincrescimento? Senza volerlo, Dalamar si portò la mano al petto. Sotto le vesti nere poteva sentire le ferite sul suo torace. Malgrado fosse passata una settimana da quando la mano di Raistlin l’aveva toccato, bruciando la sua pelle e lasciandovi cinque fori, le ferite non si erano rimarginate. Né si sarebbero mai più rimarginate. Dalamar lo sapeva con amara certezza. Sempre, per tutto il resto della sua vita, avrebbe sentito il loro dolore. Tutte le volte che si fosse trovato nudo, le avrebbe viste, cicatrici purulente che la pelle non avrebbe mai più ricoperto. Quella era la punizione che aveva pagato per aver tradito il suo Shalafi.
Come aveva detto al grande Par-sallian, Capo dell’Ordine, Maestro della Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, e anche maestro di Dalamar, in un certo senso, poiché l’elfo scuro era stato in realtà una spia dell’Ordine dei Maghi, che temevano Raistlin e diffidavano di lui come di nessun altro mortale nella loro storia: «Niente di più di quello che mi meritavo».
Avrebbe lasciato quel luogo pericoloso? Sarebbe tornato a casa, a Silvanesti?
Dalamar guardò fuori della finestra con un sorriso torvo e contorto, che ricordava quello di Raistlin, il suo Shalafi. Quasi involontariamente lo sguardo di Dalamar andò dal pacifico cielo notturno rischiarato dalla luce delle stelle all’interno della stanza sulle file e file di libri d’incantesimi rilegati in color azzurro-notte che tappezzavano le pareti della biblioteca. Con la sua memoria vide gli spettacoli meravigliosi, orribili, bellissimi e terrificanti ai quali aveva avuto il privilegio di assistere come apprendista di Raistlin.
Sentì l’agitarsi del potere dentro la sua anima, un piacere che ultracompensava il dolore.
No, non sarebbe mai tornato. Non se ne sarebbe mai andato da qui...
Le riflessioni di Dalamar vennero interrotte dal suono d’una campana d’argento. Fu un unico rintocco, basso e dolce. Ma per i vivi (e i morti; all’interno della Torre ebbe l’effetto d’un colpo di gong che avesse squassato l’aria. Qualcuno stava tentando di entrare! Qualcuno che era riuscito a superare i pericoli del Bosco di Shoikan e si trovava alla porta della Torre medesima!
Avendo già evocato con la mente i ricordi di Par-sallian, Dalamar ebbe improvvise, sgradite visioni di potenti stregoni dalle vesti bianche sulla soglia della sua dimora... Poteva inoltre sentire, nella sua mente, riecheggiare ciò che aveva detto al Consiglio soltanto poche notti prima: «Se qualcuno di voi dovesse venire, e cercasse di entrare nella Torre mentre Lui è via, io vi ucciderei.»
Dalamar pronunciò le parole di un incantesimo: scomparve dalle biblioteca per ricomparire, nel tempo necessario a tirare un sospiro all’ingresso della Torre.
Ma non si trovò ad affrontare un conclave di stregoni dagli occhi fiammeggianti. Si trattava soltanto di una figura rivestita- di un’armatura azzurra di scaglie di drago che ostentava l’orrenda maschera cornuta d un Signore dei Draghi. Dalamar vide che nella mano guantata la figura stringeva un gioiello nero, un gioiello della notte, e potè percepire dietro alla figura, anche se non poteva vederla, la presenza di un essere dallo spaventoso potere: un cavaliere della morte.
Il Signore dei Draghi si serviva del gioiello per tenere a bada parecchi guardiani della Torre. I loro pallidi volti erano visibili alla luce scura del gioiello della notte, assetati di sangue vivo. Anche se Dalamar non poteva vedere il volto del Signore dei Draghi, sotto l’elmo, era in grado di percepire il calore della sua collera.
«Signora Kitiara!» disse Dalamar con voce grave, inchinandosi «Perdona questa brusca accoglienza. Se soltanto ci avessi fatto sapere che saresti venuta...» Strappandosi di dosso l’elmo, Kitiara fissò Dalamar coi i gelidi occhi castani che ricordavano, quasi come una sferzata, ; Dalamar, la di lei stretta parentela con lo Shalafi.
«Avresti progettato per me un’accoglienza ancora più interessante senza dubbio!» ringhiò Kitiara, buttando indietro rabbiosamente i capelli scuri e riccioluti. «Io vado e vengo dove mi pare e piace, specialmente per far visita a mio fratello!» La sua voce letteralmente tremava per la collera. «Mi sono fatta strada, là fuori, in mezzo a quei vostri alberi maledetti... poi vengo attaccata alla porta d’ingresso!» La sua mano sfoderò la spada. Fece un passo avanti. «Per gli dei, dovrei darti una lezione, feccia di un elfo...»
«Ripeto le mie scuse,» replicò Dalamar con calma, ma c’era un luccichio nei suoi occhi obliqui che indusse Kit a esitare nel suo atto inconsulto. Come la maggior parte dei guerrieri, Kitiara tendeva a considerare i fruitori di magia dei deboli che passavano il tempo a leggere libri e che avrebbero potuto essere utilizzati assai meglio facendogli impugnare il freddo acciaio. Oh, potevano produrre dei risultati sfolgoranti, non c’era dubbio, ma quando fosse stata messa alla prova lei preferiva assai più affidarsi alla propria abilità nel maneggiare la spada piuttosto che alle parole arcane e allo sterco di pipistrello.
Così, nella sua mente, immaginava Raistlin, il suo fratellastro, ed era così che immaginava anche il suo apprendista, con il marchio, per di più, che Dalamar era soltanto un elfo, una razza nota per la sua debolezza.
Ma Kitiara era, sotto un altro aspetto, diversa dalla maggior parte dei guerrieri, ed era questa la ragione principale che le aveva consentito di sopravvivere a tutti coloro che si erano opposti a lei.
Era molto abile nel valutare i suoi avversari. Un’occhiata alla compostezza e agli occhi gelidi di Dalamar davanti alla sua collera, e Kitiara si chiese, in quel mentre, se non avesse incontrato un avversario degno di lei.
Non lo comprendeva, non ancora, in nessun modo. Ma vedeva e riconosceva il pericolo in quell’uomo e, mentre si prendeva un appunto mentale di stare in guardia, cercando comunque di trarne il maggior vantaggio possibile, scoprì di essere attratta da lui. Il fatto che fosse in realtà così aitante (adesso che ci pensava, non aveva affatto l’aspetto tipico di un elfo) e avesse un corpo così robusto e muscoloso (la cui struttura riempiva in modo mirabile le sue vesti nere), le fece capire all’improvviso che avrebbe potuto ottenere di più, da lui, mostrandosi amichevole piuttosto che minacciosa e insolente. Di certo, pensò, attardandosi con lo sguardo sul petto dell’elfo, là dove le vesti nere si erano leggermente scostate ed era possibile intravedere la sottostante pelle bronzea, la cosa avrebbe potuto rivelarsi assai più divertente.
Rinfoderando la spada, Kitiara continuò ad avanzare, soltanto, adesso, la luce che prima lampeggiava sulla sua spada, scintillava nei suoi occhi.
«Perdonami, Dalamar... è questo il tuo nome, vero?» Il suo cipiglio si fuse nel sorriso ammaliante che aveva fatto tante conquiste. «Quel maledetto Bosco mi dà sui nervi. Hai ragione, avrei dovuto avvertire mio fratello che sarei arrivata, ma ho agito d’impulso.» Adesso era vicina a Dalamar, molto vicina. Levando lo sguardo sul suo volto nascosto com’era dalle ombre del cappuccio, aggiunse: «Spesso... io agisco d’impulso.»
Con un gesto, Dalamar congedò i Guardiani. Poi il giovane elfo fissò la donna che gli stava davanti con un sorriso affascinante che rivaleggiava con quello di lei.
Vedendo il suo sorriso, Kitiara gli porse la mano guantata. «Perdonata?»
Il sorriso di Dalamar diventò più intenso, ma l’elfo si limitò a rispondere: «Togliti il guanto, Signora.»
Kitiara trasalì, e per un attimo i suoi occhi castani si dilatarono pericolosamente. Ma Dalamar continuò a sorriderle. Scrollando le spalle, Kitiara tirò ad una ad una le dita del suo guanto di cuoio, denudando la mano.
«Ecco,» disse infine, con una punta di dispetto nella voce, «come vedi, non nascondevo nessuna arma.»
«Oh, questo già lo sapevo,» rispose Dalamar, prendendole adesso la mano nella sua. I suoi occhi ancora fissavano quelli di lei; l’elfo scuro si portò la mano di Kitiara alle labbra, e la baciò, attardandovisi. «Mi avresti voluto negare questo piacere?»
Le sue labbra erano calde, le sue mani robuste, e Kitiara sentì al suo tocco il sangue montarle dentro il corpo. Ma vide negli occhi di Dalamar che lui conosceva il suo gioco, e vide anche che era un gioco che lui stesso giocava. Il suo rispetto crebbe al pari della sua cautela. Era davvero un avversario degno di tutta la sua attenzione, della sua totale attenzione.
Facendo sgusciar via la mano dalla sua stretta, Kitiara se la mise dietro la schiena in un giocoso gesto tutto femminile che contrastava curiosamente con la sua armatura e il suo portamento mascolino di guerriero. Era un gesto concepito per attirare e confondere, e vide, nei lineamenti imporporati dell’elfo, che aveva avuto successo.
«Forse ho delle armi nascoste sotto la mia armatura, che una volta o l’altra dovresti cercare,» gli disse con un ghignetto beffardo.
«Al contrario,» replicò Dalamar, incrociando le mani dentro le vesti nere, «le tue armi mi sembrano chiaramente visibili. Se dovessi perquisirti, Signora, cercherei quella che l’armatura protegge e che, malgrado molti uomini possano averla penetrata, nessuno ha ancora toccato.» Gli occhi elfici risero.
Kitiara trattenne il respiro. Ammalliata dalle sue parole, ricordando ancora la sensazione di quelle calde labbra sulla sua pelle, fece un altro passo avanti, piegando il volto verso quello dell’uomo.
Freddamente, senza dare l’impressione di essere consapevole della sua azione, Dalamar fece un grazioso movimento sul fianco, girando le spalle a Kitiara. Aspettandosi di venire accolta fra le braccia dell’elfo, Kit invece perse l’equilibrio. Goffamente, inciampò.
Recuperato l’equilibrio con agilità felina, si girò di scatto per fronteggiarlo, il volto imporporato dall’imbarazzo e dal furore. Kitiara aveva ucciso uomini i quali avevano fatto assai meno che prendersi gioco di lei in quel modo. Ma restò sconcertata nel vedere che, in apparenza, era del tutto inconscio di ciò che aveva appena fatto. Oppure no? Il suo volto era accuratamente vuoto d’una qualsiasi espressione. Ora stava parlando di suo fratello... No, no, l’aveva fatto di proposito.
L’avrebbe pagata...
Adesso Kit conosceva il suo avversario, ammetteva la sua capacità. Com’era sua caratteristica, non avrebbe perduto tempo a denigrarsi per il suo errore. Aveva mostrato il fianco, aveva ricevuto una ferita. Adesso era preparata.
«... mi rincresce profondamente che lo Shalafi non sia qui,» stava dicendo Dalamar. «Sono certo che a tuo fratello dispiacerà di apprendere di non averti potuto accogliere.»
«Non è qui?» chiese Kit, facendosi di colpo attenta. «Come mai? Dove si trova? Dove può essere andato?»
«Sono certo che te l’ha detto,» replicò Dalamar con finta sorpresa. «È tornato al passato per cercare la saggezza di Fistandantilus e scoprire così il Portale attraverso il quale...»
«Vuoi dire... che è partito? Senza il chierico?» D’un tratto Kit ricordò che nessuno avrebbe dovuto sapere che era stata lei a mandare Lord Soth a uccidere Crysania per impedire a suo fratello di attuare la folle idea di sfidare la Regina Tenebrosa. Mordendosi il labbro lanciò un’occhiata alle proprie spalle in direzione del cavaliere della morte.
Dalamar seguì il suo sguardo sorridendo, cogliendo ogni pensiero sotto quegli adorabili capelli riccioluti. «Oh, tu sapevi dell’aggressione a Dama Crysania?» chiese con aria innocente.
Kit si accigliò. «Tu sai dannatamente bene che sapevo dell’aggressione! E lo sa anche mio fratello. Non è un idiota, anche se è un pazzo.»
Si girò di scatto: «Mi avevi detto che la donna era morta!»
«Lo era,» intonò Lord Soth. Il cavaliere della morte si materializzò davanti a lei dall’ombra, i suoi occhi arancione lampeggiavano nelle occhiaie invisibili. «Nessun umano può sopravvivere a una mia aggressione.»
Gli occhi arancione rivolsero lo sguardo immortale sull’elfo scuro. «E il tuo padrone non avrebbe potuto salvarla.»
«No,» ammise Dalamar, «ma il suo padrone poteva, e l’ha fatto. Paladine ha lanciato un controincantesimo sul suo chierico, traendo a sé la sua anima, pur lasciando alle spalle il guscio del suo corpo. Il gemello dello Shalafi, il tuo fratellastro Caramon, Signora,» Dalamar rivolse un inchino alla furente Kitiara, «ha portato la donna nella Torre della Grande Stregoneria dove i maghi l’hanno mandata indietro nel tempo, dal solo chierico abbastanza potente da salvarla, il Gran Sacerdote di Istar!»
«Imbecilli!» ringhiò Kitiara, facendosi livida in volto. «L’hanno mandata da lui! Era proprio quello che Raistlin voleva!»
«Lo sapevano,» disse Dalamar con voce sommessa. «Gliel’ho detto...»
«Glielo hai detto?» ansimò Kitiara.
«Ci sono delle faccende che dovrei spiegarti,» disse Dalamar. «Potrebbe volerci un po’ di tempo. Per lo meno, mettiamoci comodi. Vuoi venire nelle mie stanze?»
Le porse il braccio. Kitiara esitò, poi appoggiò la mano sul suo avambraccio. Prendendola intorno alla vita, lui l’attirò a sé. Colta di sorpresa, Kitiara cercò di sottrarglisi, ma non ci mise molto impegno. Dalamar la trattenne con una stretta salda ed energica.
«Acciocché l’incantesimo ci possa trasportare,» le disse con freddezza, «devi rimanere quanto più possibile vicina a me.»
«Sono capacissima di camminare,» ribatté Kitiara. «La magia mi serve assai poco!»
Ma nel dire queste parole lo guardò negli occhi, e premette con forza il proprio corpo contro quello compatto e muscoloso di lui, con sensuale abbandono.
«Molto bene.» Dalamar scrollò le spalle e all’improvviso scomparve.
Guardandosi intorno, sorpresa, Kitiara udì la sua voce: «Su per la scala a chiocciola, Signora. Dopo cinquecentotrentanove gradini, gira a sinistra.»
«Perciò capisci,» disse Dalamar, «per me la posta in gioco è grande quanto la tua. Sono stato mandato dal Conclave di tutti e tre gli Ordini, il Nero, il Bianco e il Rosso, per impedire che accada questa cosa spaventevole.»
Dalamar e Kitiara si stavano rilassando negli alloggi privati, sontuosamente arredati, dell’elfo scuro, all’interno della Torre. I resti d’un pasto raffinato erano stati fatti sparire con un grazioso gesto della mano dell’elfo.
Adesso sedevano davanti a un fuoco che era stato acceso più per far luce che per il calore, in quella notte di primavera. Le fiamme danzanti inducevano maggiormente alla conversazione...
«Allora, perché non l’avete fermato?» volle sapere Kit con rabbia, mettendo giù il suo calice dorato con un secco colpo tintinnante. «Cosa c’era mai di tanto difficile?» Facendo un gesto con la mano, aggiunse delle parole per illustrare il suo movimento: «Un coltello nella schiena, veloce, semplice.»
Rivolgendo a Dalamar un’occhiata sprezzante, esibì un sorriso beffardo. «Oppure voi maghi siete al di sopra di queste cose?»
«Non al di sopra,» replicò Dalamar, gratificando Kitiara d’una intensa occhiata. «Ci sono mezzi più sottili che generalmente noi Vesti Nere usiamo per sbarazzarci dei nostri nemici. Ma non contro di Lui, Signora. Non contro tuo fratello.»
Dalamar fu attraversato da un leggero brivido e bevve il suo vino con insolita fretta.
«Bah!» sbuffò Kitiara.
«No, ascoltami e cerca di capire, Kitiara,» disse Dalamar con voce sommessa. «Tu non conosci tuo fratello. Non lo conosci e, ciò che è peggio, non lo temi! Questo ti condurrà alla tua distruzione.»
«Temerlo? Quel rudere mingherlino, quel mago da quattro soldi? Non parlerai seriamente...» cominciò Kitiara, scoppiando a ridere. Ma la sua risata si spense. Si sporse in avanti. «Ma tu parli seriamente. Posso vederlo nei tuoi occhi!»
Dalamar sorrise torvo. «Lo temo quanto non temo null’altro al mondo, compresa la morte.»
Sollevando le mani, l’elfo scuro afferrò le sue vesti nere e le aprì con uno strappo, lacerando le cuciture, rivelando le ferite sul suo petto.
Kitiara, sconcertata, guardò le ferite, poi sollevò lo sguardo sul pallido volto dell’elfo scuro. «Quale arma ha causato questi segni? Non ricono...»
«La sua mano,» disse Dalamar, con voce priva d’emozione. «Il marchio delle sue cinque dita. Era questo il suo messaggio per Par-sallian e il Conclave, quando mi ha ordinato di porger loro i suoi saluti.»
Kit aveva visto molti spettacoli terribili: uomini sbudellati davanti ai suoi occhi, teste troncate, sedute di tortura sotto le montagne conosciute come i Signori del Giudizio. Ma vedendo quelle piaghe suppuranti e, nella sua mente, le dita sottili di suo fratello che bruciavano la pelle dell’elfo scuro, non potè fare a meno di reprimere un brivido.
Tornando ad adagiarsi sulla sua sedia, Kit riesaminò con attenzione nella sua mente tutto ciò che Dalamar le aveva detto, e cominciò a pensare che, forse, lei aveva sottovalutato Raistlin. Grave in volto, si mise a sorseggiare il vino.
«E così ha in mente di varcare il Portale,» disse a Dalamar, scandendo le parole e cercando di riadattare il suo pensiero lungo queste nuove e sorprendenti linee. «Varcherà il Portale insieme al chierico. Si troverà nell’Abisso. E poi? Sa di sicuro di non poter combattere contro la Regina delle Tenebre sul suo piano d’esistenza!»
«Certo che lo sa,» replicò Dalamar. «È forte, ma là la Regina è più forte. E così intende attirarla fuori, costringerla ad entrare in questo mondo. Qui, ritiene di poterla distruggere.»
«Pazzo!» bisbigliò Kitiara con il respiro appena sufficiente ad alitare la parola. «È pazzo!» Si affrettò a metter giù il calice di vino, quando vide il liquido traboccare sulla sua mano tremante.
«L’ha vista su questo piano d’esistenza quand’era soltanto un’ombra, quando le era stato impedito di entrare completamente. Non può immaginare come potrà essere!...»
Kit si alzò in piedi e percorse nervosamente il folto tappeto decorato con le immagini mute di alberi e di fiori tanto amate dagli elfi. Avvertendo un gelo improvviso si fermò davanti al fuoco. Dalamar si fermò accanto a lei con un frusciare di vesti nere. Già mentre parlava, assorta nei propri pensieri e nelle proprie paure, Kit era consapevole del caldo corpo dell’elfo accanto al suo. «Voi che ne pensate?»
Dalamar scrollò le spalle e, avvicinandosi di un altro passo, mise le mani sul collo sottile di Kitiara.
Le sue dita accarezzarono delicatamente la pelle liscia. La sensazione era deliziosa. Kitiara chiuse gli occhi, tirando un profondo, tremante sospiro.
«I maghi non lo sanno,» disse Dalamar con voce sommessa, chinandosi a baciare Kitiara sotto l’orecchio. Stirandosi come un gatto, inarcò il corpo all’indietro, contro il suo.
«Qui, lui sarà nel suo elemento,» continuò Dalamar. «La Regina si troverà indebolita. Ma non sarà certo facile sconfiggerla. Qualcuno pensa che la battaglia magica fra i due potrebbe benissimo distruggere il mondo.»
Kitiara sollevò la mano e la fece scorrere attraverso i serici, folti capelli dell’elfo, attirando le sue labbra bramose alla propria gola. «Ma... ha una possibilità?» insistè, con un rauco bisbiglio.
Dalamar ristette, poi si ritrasse da lei. Con le mani ancora sulle sue spalle, fece girare Kitiara, in modo che lo guardasse in viso. E nei suoi occhi lesse ciò che lei stava pensando.
«Naturalmente, c’è sempre una possibilità.»
«E cosa farai, se riuscirà a varcare il Portale?» Le mani di Kitiara si appoggiavano leggere sul petto di Dalamar, là dove suo fratello aveva lasciato il terribile marchio. I suoi occhi, guardando dentro a quelli dell’elfo, erano illuminati da una passione che quasi nascondeva, ma non del tutto, la sua mente calcolatrice.
«Io devo impedirgli di tornare a questo mondo,» disse Dalamar. «Devo bloccare il Portale in modo che non possa riattraversarlo.» La mano seguì la curva beffarda delle sue labbra.
«Quale sarà la tua ricompensa per una missione cosi pericolosa?» Kitiara premette ancor più il corpo contro quello di lui, mordendogli giocosamente la punta delle dita.
«Allora sarò Maestro della Torre,» lui rispose. «E il prossimo capo dell’Ordine delle Vesti Nere. Perché?»
«Potrei aiutarti,» disse Kitiara con un sospiro, muovendo le dita sul petto di Dalamar, salendogli fin sopra le spalle, impastando le sue carni con mani simili alle zampe di un gatto. Le mani di Dalamar si strinsero quasi convulsamente intorno a lei, attirandola ancora più vicina.
«Potrei aiutarti,» Kitiara ripetè con un feroce sussurro. «Non puoi combatterlo da solo.»
«Ah, mia cara,» Dalamar la guardò con un sorriso sardonico e beffardo, «chi aiuteresti, me o lui?»
«Questo,» replicò Kitiara, facendo scivolare le mani sotto la lacerazione nel tessuto delle vesti nere dell’elfo scuro, «dipenderà completamente da chi starà vincendo!»
Il sorriso di Dalamar si allargò, le sue labbra sfiorarono il mento di lei. Le bisbigliò all’orecchio:
«Così, noi ci capiamo, Signora.»
«Oh, sì, ci capiamo,» annuì Kitiara, sospirando di piacere. «E adesso basta con mio fratello. C’è qualcosa che vorrei chiedere. Qualcosa che m’incuriosisce da molto tempo. Cosa indossano sotto le loro vesti i fruitori di magia, elfo scuro?»
«Molto poco,» mormorò Dalamar. «E cosa indossano sotto le loro armature le donne guerriere?»
«Niente.»
Kitiara se n’era andata.
Dalamar giaceva sul suo letto, mezzo sveglio e mezzo addormentato. Poteva ancora sentire la fragranza dei suoi capelli sul cuscino, profumo e acciaio, una mistura intossicante non dissimile da Kitiara medesima.
L’elfo scuro si allungò voluttuosamente, sogghignando. Kitiara lo avrebbe tradito, non aveva nessun dubbio in proposito. E lei sapeva che lui l’avrebbe uccisa nel giro d’un istante se fosse stato necessario, per riuscire nel suo scopo. Nessuno dei due trovava amara quella consapevolezza. In realtà, aggiungeva uno strano sapore piccante alle loro gesta amorose. Chiudendo gli occhi, lasciandosi cogliere dal sonno, Dalamar sentì attraverso la finestra aperta un rumore di ali d’acciaio che si allargavano per prendere il volo. La immaginò, seduta sul suo drago azzurro, con l’elmo in forma di drago che luccicava al chiarore della luna...
Dalamar!
L’elfo scuro trasalì e si rizzò a sedere. Era completamente sveglio. La paura gli percorse tutto il corpo. Tremando al suono di quella voce familiare, lanciò un’occhiata intorno a sé.
«Shalafi?» pronunciò la parola con esitazione. Non c’era nessuno. Dalamar si portò la mano alla testa. «Un sogno...» mormorò.
Dalamar!
Di nuovo la voce, questa volta inequivocabile.
Dalamar si guardò intorno, impotente. La sua paura crebbe. Fare scherzi non era affatto da Raistlin.
L’arcimago aveva lanciato l’incantesimo del viaggio nel tempo. Era già partito da una settimana e non ci si aspettava che tornasse per molte settimane ancora. Però Dalamar conosceva quella voce come conosceva il battito del proprio cuore!
«Shalafi, ti sento,» disse, cercando di mantenere fermo il tono della sua voce. «Eppure non posso vederti. Dove...»
Mi trovo, come hai supposto, nel passato, apprendista. Ti parlo attraverso il Globo dei draghi. Ho un compito da affidarti. Ascoltami con attenzione e segui esattamente le mie istruzioni. Agisci subito. Non bisogna perdere tempo. Ogni istante è prezioso...
Chiudendo gli occhi, così da potersi concentrare, Dalamar sentì con chiarezza la voce, però sentì anche uno scroscio di risate entrare dalla finestra aperta: una festa di qualche tipo, indetta per onorare la primavera, stava per iniziare. Fuori dalle porte della Città Vecchia ardevano i fuochi dei bivacchi, i giovani si scambiavano fiori alla loro luce, e si baciavano nel buio. L’aria era dolce di letizia e di amore e del profumo delle rose di primavera in boccio.
Ma poi Raistlin cominciò a parlare, e Dalamar non prestò più la minima attenzione a tutto questo.
Si dimenticò di Kitiara. Si dimenticò dell’amore. Si dimenticò della primavera. Ascoltando, interrogando, comprendendo, tutto il suo corpo vibrava della voce del suo Shalafi.
Bertrem percorse con passo felpato le sale della Grande Biblioteca di Palanthas. Le sue vesti di estetico gli sussurravano intorno alle caviglie, il loro fruscio s’intonava al motivo che Bertrem stava canticchiando mentre camminava. Aveva contemplato i festeggiamenti della primavera dalle finestre della Grande Biblioteca e adesso stava per tornare al suo lavoro fra le migliaia e migliaia di libri e di pergamene ospitati all’interno della biblioteca; la melodia di una delle canzoni udite si attardava nella sua mente.
«Ta-tum, ta-tum,» cantava Bertrem con la sua voce sottile e stonata, tenuta bassa così da non risvegliare gli echi delle ampie sale a volta della Grande Biblioteca.
Gli echi erano tutto ciò che poteva venir disturbato dal canto di Bertrem, poiché la Biblioteca era chiusa a chiave per la notte. La maggior parte degli altri estetici (membri dell’Ordine di coloro che passavano la vita dedicandosi allo studio e alla manutenzione dell’immensa raccolta di sapere della Grande Biblioteca che era stata accumulata fin dall’inizio del tempo di Krynn) dormiva, oppure era assorta nei lavori.
«Ta-tum, ta-tum. Gli occhi della mia innamorata son come quelli d’una cerbiatta. Ta-tum, ta-tum. E io sono il cacciatore che si avvicina...» Bertrem giunse perfino a improvvisare un passo di danza.
«Ta-tum, ta-tum. Sollevo il mio arco e prendo una freccia...» Bertrem girò un angolo. «Scaglio il dardo. Vola al cuore del mio amore e... ehilà, chi sei?»
Bertrem si sentì balzare il cuore in gola, quasi soffocando, quando si trovò davanti all’improvviso un’alta figura, abbigliata di nero e incappucciata, immobile al centro della sala di marmo fiocamente illuminata.
La figura non rispose. Si limitò a fissarlo in silenzio.
Facendosi animo e raccogliendo il coraggio e le vesti intorno a sé, Bertrem fissò l’intruso. «Cosa fai qui? La Biblioteca è chiusa! Sì, perfino alle Vesti Nere.» L’estetico corrugò la fronte e agitò una mano grassoccia. «Vattene. Torna domattina, e usa la porta d’ingresso come chiunque altro.»
«Ah, ma io non sono chiunque altro,» disse la figura, e Bertrem sussultò, poiché aveva riconosciuto un accento elfico anche se le parole erano state solamniche. «In quanto alle porte, esse servono a coloro che non hanno il potere di attraversare i muri. Io ho quel potere, come ho il potere di fare altre cose, molte non così piacevoli.»
Bertrem rabbrividì. Quella fredda, pacata voce elfica, non stava pronunciando minacce oziose. «Sei un elfo scuro,» disse Bertrem, in tono di accusa, mentre il suo cervello annaspava, cercando di pensare a ciò che avrebbe dovuto fare. Doveva dare l’allarme? Urlare per chiedere aiuto?
«Sì.» La figura si sfilò il cappuccio nero, in modo che la magica luce imprigionata nei globi che pendevano dal soffitto, un dono fatto ad Astinus dai fruitori di magia durante l’Era dei Sogni, si proiettò sui suoi lineamenti elfici. «Mi chiamo Dalamar. Servo...»
«Raistlin Majere!» rantolò Bertrem. Si guardò intorno incerto, aspettandosi che l’arcimago dalle vesti nere gli balzasse addosso da un momento all’altro. Dalamar sorrise. I suoi lineamenti da elfo erano insieme delicati e decisi. Ma mostravano una gelida e univoca determinazione che raggelò Bertrem. Ogni intenzione di chiamare aiuto svanì dalla mente dell’estetico.
«Co... cosa vuoi?» balbettò.
«E quello che vuole il mio padrone,» lo corresse Dalamar. «Non aver paura. Sono qui per cercare conoscenze, niente di più. Se mi aiuterai, me ne andrò presto e in silenzio, così come sono venuto.»
Se non lo aiuterò... Bertrem tremò dalla testa ai piedi. «Farò quello che potrò, mago.» L’estetico esitò. «Ma in realtà dovresti parlare a...»
«A me.» Una voce uscì dalle ombre.
Bertrem quasi cadde in deliquio per il sollievo.
«Astinus!» farfugliò, indicando Dalamar. «Questi è... non l’ho lasciato... Raistlin Majere...»
«Sì, Bertrem,» lo interruppe Astinus in tono conciliante. Venne avanti, batté la mano sul braccio dell’estetico. «Sono a conoscenza di tutto quello che è successo.»
Dalamar non si era mosso, non aveva neppure mostrato d’esser conscio della presenza di Astinus. «Ritorna ai tuoi studi, Bertrem,» continuò Astinus, la sua profonda voce baritonale echeggiò nel profondo silenzio di quelle ampie sale. «Mi occuperò io di questa faccenda.»
«Sì, Maestro!» Bertram, arretrando, si allontanò con gratitudine lungo il corridoio, con le vesti che gli svolazzavano intorno, lo sguardo sempre puntato sull’elfo scuro, il quale non si era né mosso né aveva parlato. Raggiunto l’angolo più vicino, Bertrem scomparve precipitosamente dietro di esso, e Astinus potè udire dal rapido trepestio dei suoi sandali che stava correndo lungo il corridoio.
Il capo della Grande Biblioteca di Palanthas sorrise, ma soltanto nell’intimo. Agli occhi dell’elfo scuro che lo stava osservando la faccia tranquilla e senza tempo di quell’uomo rifletteva le stesse emozioni del marmo delle pareti che li circondavano.
«Vieni con me, giovane mago,» disse Astinus, girandosi di scatto e incamminandosi lungo il corridoio con un passo rapido e pieno d’energia che smentiva il suo aspetto di uomo di mezza età.
Colto di sorpresa, Dalamar esitò, poi, vedendo che veniva lasciato indietro, si affrettò a raggiungerlo.
«Come fai a sapere quello che sto cercando?» volle sapere l’elfo scuro.
«Sono un cronista della storia,» rispose Astinus, imperturbabile. «Già mentre noi qui parliamo e camminiamo, gli eventi accadono intorno a noi, ed io sono consapevole di essi. Odo ogni parola che viene pronunciata, vedo ogni azione che viene svolta, non importa quanto sia mondana, buona o cattiva. Così ho osservato durante tutto il corso della storia. Come fui il primo, così sarò l’ultimo. Adesso, da questa parte.»
Astinus svoltò all’improvviso a sinistra, nel farlo sollevò un globo di luce ardente dal suo supporto e lo portò con sé, reggendolo fra le mani. A quella luce Dalamar potè vedere lunghe file di libri disposti su scaffali di legno. Riconobbe, dalle lisce rilegature di cuoio, che erano antichi. Ma erano in eccellenti condizioni. Gli estetici li mantenevano spolverati e, quand’era necessario, dotavano d’una nuova rilegatura quelli particolarmente consunti.
«Ecco quello che tu vuoi.» Astinus fece un gesto. «Le Guerre della Porta dei Nani.»
Dalamar fissò gli scaffali. «Tutti questi volumi?» Stava contemplando una serie in apparenza interminabile di rilegature. Un senso di disperazione cominciò a impadronirsi di lui.
«Sì,» rispose Astinus, freddamente, «e anche la fila successiva.»
«Io... io...» Dalamar era del tutto smarrito. Certamente Raistlin non aveva immaginato l’enormità del suo compito. E ugualmente non poteva aspettarsi che lui divorasse il contenuto di quelle centinaia di volumi entro il limite di tempo specificato. Mai prima d’ora, nella sua vita, Dalamar si era sentito così impotente e incapace. Arrossendo per la collera, sentì lo sguardo di Astinus piantato su di lui come uno stiletto di ghiaccio.
«Forse posso aiutarti,» disse lo storico, con voce imperturbata. Alzando un braccio, senza neppure leggere la scritta sul dorso, Astinus prelevò un libro dallo scaffale. Lo aprì, sfogliò rapidamente le pagine sottili e fragili, scorrendo con lo sguardo una fila dopo l’altra di parole tracciate da una mano ferma e precisa, con inchiostro nero.
«Ah, ecco qui.» Tirando fuori un segnalibro d’avorio da una tasca delle sue vesti, Astinus l’appoggiò di piatto su una pagina del libro, lo chiuse con cautela, poi lo porse a Dalamar. «Prendilo con te. Dagli l’informazione che cerca. E digli questo: “Il vento soffia, le orme sulla sabbia verranno cancellate, ma soltanto dopo che lui le avrà calpestate”.»
Con espressione grave lo storico rivolse un inchino all’elfo scuro, poi gli passò davanti proseguendo lungo la fila dei libri per raggiungere di nuovo il corridoio. Una volta là, si fermò e tornò a girarsi verso Dalamar, il quale era rimasto immobile a fissarlo, stringendo a sé il libro che Astinus gli aveva messo in mano.
«Oh, giovane mago, non c’è bisogno che tu torni qui. Il libro tornerà da solo una volta che avrai finito. Non posso permettere che tu mi spaventi gli estetici. Senza dubbio il povero Bertrem si sarà rifugiato nel suo letto. Porgi al tuo Shalafi i miei saluti.»
Astinus eseguì un altro inchino e scomparve in mezzo alle ombre. Dalamar rimase fermo dov’era, a riflettere, ascoltando i passi lenti e fermi dello storico che si andavano allontanando in fondo al corridoio. Scrollando le spalle, l’elfo scuro pronunciò una parola magica e fece ritorno alla Torre della Grande Stregoneria.
«Quello che Astinus mi ha dato sono i suoi stessi commentari sulle Guerre della Porta dei Nani, Shalafi. Sono tratti dagli antichi testi che lui ha scritto...»
Astinus sa ciò che mi serve. Procedi.
«Sì, Shalafi. Così comincia il passo segnato... “E il grande arcimago, Fistandantilus, usò il Globo dei draghi per chiamare avanti nel tempo il suo apprendista, dandogli istruzioni perché si recasse nella Grande Biblioteca di Palanthas e leggesse nei libri di storia per vedere se il risultato della sua grande impresa avrebbe avuto successo.”» La voce di Dalamar esitò, mentre leggeva queste parole, e alla fine si spense del tutto, davanti a questa sorprendente dichiarazione.
Continua, gli arrivò la voce del suo Shalafi, e malgrado echeggiasse più nella sua mente che nelle sue orecchie, a Dalamar non sfuggì l’amara nota di rabbia. Affrettandosi a distogliere lo sguardo da quel paragrafo, scritto centinaia di anni prima, che però rifletteva accuratamente la missione che aveva appena intrapresa, Dalamar continuò.
«“Qui è importante notare questo: le Cronache come esistevano in quel punto del tempo, indicano...” Qui è sottolineato, Shalafi.» Dalamar s’interruppe.
Quale parte?
«Le parole “in quel punto del tempo” sono sottolineate.»
Raistlin non rispose, e Dalamar, che per un attimo aveva perso il segno, lo ritrovò e si affrettò a proseguire.
«... indicano che l’impresa avrebbe avuto successo. Fistandantilus, insieme al chierico Denubis, avrebbe dovuto essere stato in grado, sulla base di tutte le indicazioni viste dal grande arcimago, di varcare sano e salvò il Portale. Naturalmente, ciò che avrebbe potuto succedere nell’Abisso è ignoto, dal momento che i veri eventi storici si sono svolti in maniera diversa.
«“Così, credendo fermamente che lo scopo finale che si prefiggeva, varcare il Portale e sfidare la Regina delle Tenebre, fosse alla sua portata, Fistandantilus condusse le Guerre della Porta dei Nani con rinnovato vigore. Pax Tharkas cadde in preda agli eserciti dei nani delle colline e degli uomini delle pianure. (Vedi Cronache, volume 126, libro 6, pagine 589-700.) Condotto dal grande generale di Fistandantilus, Pheragas, l’ex schiavo dell’Ergoth del Nord che lo stregone aveva acquistato e addestrato come gladiatore per i Giochi a Istar, l’esercito di Fistandantilus ricacciò le forze di re Duncan, costringendo i nani a ritirarsi nella roccaforte della montagna di Thorbardin.
« “Di quella guerra importava assai poco a Fistandantilus. Gli serviva soltanto a portare avanti i propri fini. Trovato il Portale sotto la torreggiante fortezza montana conosciuta come Zhaman, insediò colà il suo quartier generale e cominciò i preparativi finali che gli avrebbero dato il potere di varcare la porta proibita, lasciando che il suo generale continuasse a combattere la guerra.
«“Neppure io posso riferire con accuratezza cosa sia accaduto a questo punto, poiché le forze della magia che quivi operavano erano talmente potenti da oscurare la mia visione.
«“Il generale Pheragas venne ucciso mentre combatteva contro i Dewar, i nani scuri di Thorbardin.
Alla sua morte, l’esercito di Fistandantilus si sfasciò. I nani delle montagne sciamarono fuori da Thorbardin verso la fortezza di Zhaman.
«“Durante il combattimento, consapevole che la battaglia era perduta e che restava loro assai poco tempo, Fistandantilus con Denubis si affrettò a raggiungere il Portale. Qui il grande mago cominciò a lanciare il suo incantesimo.
«“Nel medesimo istante, uno gnomo tenuto prigioniero dai nani di Thorbardin attivò un congegno per i viaggi nel tempo che aveva fabbricato per tentar di sfuggire alla sua cattività. Contrariamente ad ogni altro caso mai registrato nella storia di Krynn, questo marchingegno gnomico funzionò davvero. Anzi, funzionò perfettamente.
«“Da questo punto in avanti, posso fare soltanto delle congetture, ma appare probabile che il congegno dello gnomo abbia interagito in qualche modo con i delicati e potenti incantesimi magici intessuti da Fistandantilus. Il risultato lo conosciamo fin troppo chiaramente.
«“Avvenne un’esplosione di tali dimensioni che le Pianure di Dergoth vennero completamente distrutte. Entrambi gli eserciti vennero interamente spazzati via. La torreggiante fortezza montana di Zhaman andò in frantumi e crollò su se stessa, creando il rilievo oggi conosciuto come Skullcap.
«“Lo sfortunato Denubis morì nell’esplosione. Anche Fistandantilus avrebbe dovuto morire, ma la sua magia era talmente grande che riuscì ad aggrapparsi ad una qualche porzione della vita, malgrado il suo spirito fosse costretto a esistere su un altro piano fino a quando non trovò il corpo di un giovane fruitore di magia chiamato Raistlin Majere...”»
Basta!
«Sì, Shalafi,» mormorò Dalamar.
E poi la voce di Raistlin cessò.
Dalamar, seduto nello studio, seppe di essere solo. Fu colto da un forte brivido: ciò che aveva appena letto l’aveva riempito di stupore e sgomento. Cercando di trame qualche significato, l’elfo scuro non si mosse da dietro la scrivania... la scrivania di Raistlin... smarrito nei suoi pensieri fino a quando le ombre della notte non si ritirarono e l’alba grigia schiarì il cielo.
Una febbrile eccitazione fece fremere il corpo magro di Raistlin. I suoi pensieri erano confusi. Gli sarebbe stato indispensabile un periodo di studi e di riflessioni a freddo per essere assolutamente certo di ciò che aveva scoperto. Una frase risplendeva nella sua mente con sorprendente fulgore: l’impresa avrebbe avuto successo!
L’impresa avrebbe avuto successo!
Raistlin risucchiò il proprio respiro con un rantolo, rendendosi conto solamente a quel punto di aver cessato di respirare. Le sue mani, appoggiate sulla fredda superficie del Globo dei draghi, tremavano. L’esultanza lo travolse. Esibì quel suo strano e raro sorriso, poiché le orme che vedeva nel suo sogno non conducevano più ad un patibolo, ma ad una porta di platino, decorata con i simboli del Drago a Cinque Teste. Ad un suo ordine, si sarebbe aperta. Doveva semplicemente trovare e uccidere quello gnomo...
Raistlin sentì qualcosa che gli tirava con forza le mani.
«Fermo!» ordinò, maledicendosi per aver perso il controllo. Ma il globo non ubbidì al suo ordine.
Raistlin si rese conto, troppo tardi, di venir tirato dentro. Vide che le mani, mentre lo tiravano sempre più vicino, avevano subito un cambiamento. Prima erano state irriconoscibili, né umane né elfiche, né giovani né vecchie. Ma adesso erano le mani di una femmina, morbide e sottili, la pelle bianca e liscia... e la morsa della morte.
Sudando, lottando contro l’onda calda di panico che minacciava di ucciderlo, Raistlin fece appello a tutte le proprie forze, sia fisiche sia mentali, e combatté contro la volontà in azione dietro quelle mani.
Lo attirarono vicino, sempre più vicino. Adesso poteva vedere il volto, un volto di donna, bello, con gli occhi scuri; pronunciava parole di seduzione alle quali il suo corpo reagiva con passione, mentre allo stesso tempo la sua anima si ritraeva con odio.
Sempre più vicino, più vicino...
Disperato, Raistlin lottò per sottrarvisi, per spezzare la stretta che pareva così delicata eppure era più forte dei vincoli della sua stessa forza vitale. Scavò in profondità dentro la propria anima, esplorando le parti nascoste... ma per che cosa? Ne sapeva poco o niente. Da qualche parte esisteva una porzione di lui che l’avrebbe salvato...
Emerse l’immagine di un adorabile chierico vestito di bianco, che portava il medaglione di Paladine. Il bianco chierico sfolgorò nella tenebra e, per un momento, la stretta delle mani si allentò... ma soltanto per un momento. Raistlin sentì una calda risata di donna. La visione andò in frantumi.
«Fratello mio!» chiamò Raistlin attraverso le labbra incartapecorite, e un’immagine di Caramon comparve alla sua vista. Vestito di un’armatura dorata, la spada che gli balenava fra le mani, si erse di fronte a suo fratello, proteggendolo. Ma il guerriero non ebbe il tempo di fare un solo passo che venne abbattuto... da dietro.
Più vicino, sempre più vicino...
La testa di Raistlin cadde in avanti, stava perdendo rapidamente forze e conoscenza. E poi, senza che lui la chiamasse, dai recessi più remoti della sua anima sbucò una figura solitaria. Non era vestita di bianco, non impugnava nessuna spada luccicante. Era piccola e sudicia, e il suo volto era rigato di lacrime. Nella mano stringeva un ratto... un ratto molto... morto.
Caramon tornò al campo proprio mentre le prime luci dell’alba si stavano diffondendo nel cielo.
Aveva cavalcato tutta la notte ed era irrigidito, affaticato e incredibilmente affamato.
I piacevoli pensieri della sua colazione e del suo letto l’avevano confortato durante l’ultima ora, e il suo volto si illuminò di un sorriso quando l’accampamento comparve alla sua vista. Stava per piantare gli speroni nei fianchi del suo cavallo affaticato quando, lanciata un’occhiata in avanti, in direzione del campo, l’omone tirò le redini del suo cavallo e alzò la mano, facendo fermare la sua scorta.
«Cosa sta succedendo?» chiese allarmato. Tutti i pensieri del cibo imminente scomparvero dalla sua mente. Garic lo raggiunse in sella al suo cavallo e scosse la testa sconcertato.
Là dove avrebbero dovuto esserci fili di fumo che si levavano dai fuochi mattutini delle cucine e i grugniti seccati degli uomini che venivano destati dal sonno notturno, c’era l’accampamento che assomigliava invece a un alveare dopo il banchetto di un orso.
Nessun fuoco delle cucine era acceso, la gente se ne andava in giro in apparenza senza una meta, oppure gli uomini formavano crocchi che fremevano di eccitazione.
Poi qualcuno vide Caramon e lanciò un urlo. La folla si radunò e venne avanti come un’onda di marea.
Garic nel medesimo istante gridò e, subito, lui e i suoi uomini avanzarono al galoppo, formando intorno al loro generale un compatto scudo protettivo di uomini rivestiti di corazze.
Era la prima volta che Caramon vedeva un simile spiegamento di fedeltà e di affetto da parte dei suoi uomini e, per un momento, fu talmente sopraffatto dall’emozione da non riuscire a parlare. Poi, schiarendosi burberamente la gola, ordinò loro di scostarsi.
«Non è un ammutinamento,» sbottò, venendo avanti in sella al suo destriero mentre i suoi uomini si scostavano con riluttanza per lasciarlo passare. «Guardate! Nessuno è armato. Metà di loro sono donne e bambini. Ma...» li guardò sogghignando, «grazie per il pensiero.»
Il suo sguardo andò in modo particolare al giovane cavaliere, Garic, il quale era arrossito di piacere mentre teneva la mano stretta sull’elsa della spada.
A questo punto le frange esterne della folla avevano raggiunto Caramon. Delle mani afferrarono le sue briglie, facendo trasalire il suo cavallo il quale, convinto di trovarsi in battaglia, drizzò pericolosamente le orecchie, pronto a sferrare colpi di zoccoli come gli era stato insegnato a fare.
«State indietro!» ruggì Caramon, riuscendo a stento a controllare l’animale. «State indietro! Siete tutti impazziti? Date proprio l’impressione di essere quello che siete: un branco di contadini! State indietro. Ehi, dico! Vi sono scappati tutti i polli? Che significa questo? Dove sono i miei ufficiali?»
«Qui, signore,» gli giunse la voce di uno dei capitani. Rosso in faccia, imbarazzato, e arrabbiato, l’uomo si aprì la strada in mezzo alla folla. Addolorati per il rimprovero del loro comandante, gli uomini si calmarono e le grida si spensero, riducendosi a pochi mormorii quando un gruppo di guardie, arrivando con il capitano, tentò in qualche modo di disperdere la folla.
«Chiedo il perdono del generale per tutto questo, signore,» disse il capitano mentre Caramon smontava di sella e accarezzava il collo del cavallo per calmarlo. L’animale rimase immobile sotto il tocco di Caramon, pur continuando a roteare gli occhi e a drizzare le orecchie.
Il capitano era un uomo anziano, non un cavaliere ma un mercenario con trent’anni di esperienza. Il suo viso era solcato dalle cicatrici, gli mancava parte della mano sinistra a causa di un fendente, e zoppicava in maniera accentuata. Adesso, di primo mattino, quel volto coperto di cicatrici era rosso di vergogna mentre affrontava lo sguardo severo del suo giovane generale.
«Gli esploratori hanno portato la notizia del tuo arrivo, signore, ma prima che io potessi arrivare da te, questo branco di cani idrofobi...» lanciò un’occhiata furente agli uomini che si stavano ritirando,
«... si è scaldato come se tu fossi stato una cagna in calore. Chiedo il perdono del generale,» borbottò un’altra volta, «e senza nessuna intenzione di mancarti di rispetto.»
Caramon fece attenzione a mantenere il volto serio. «Cos’è successo?» chiese, conducendo il cavallo esausto all’interno dell’accampamento, al passo dell’ambio. Il capitano non rispose subito ma lanciò un’occhiata significativa alla scorta di Caramon.
Caramon comprese. «Andate pure avanti, uomini,» disse, agitando la mano. «Garic, ci vediamo nel mio alloggio.»
Quando si trovò infine solo con il capitano... quanto più solo possibile nel campo affollato dove tutti li stavano fissando con bramosa curiosità, Caramon si voltò a interrogare l’uomo con una semplice occhiata.
Il vecchio mercenario disse soltanto due parole: «Lo stregone. »
Raggiungendo la tenda di Raistlin, Caramon vide con un tonfo al cuore la cerchia di guardie che la circondava, tenendo indietro i curiosi. Alla vista di Caramon, si levarono, chiaramente udibili, dei sospiri di sollievo e molte considerazioni come «Adesso c’è il generale. Ci penserà lui,» un grande annuire e qualche applauso qua e là.
Incoraggiata da qualche imprecazione del capitano, la folla si aprì lasciando un passaggio attraverso il quale Caramon potè procedere. Le guardie armate si fecero da parte mentre passava, poi si affrettarono a serrare un’altra volta i ranghi.
Spingendo e sgomitando, la folla sbirciava da sopra la testa delle guardie, sforzandosi di vedere.
Poiché il capitano si rifiutava di dirgli ciò che stava accadendo, Caramon non si sarebbe sorpreso di trovarsi davanti a qualsiasi cosa, da un drago seduto sopra la tenda di suo fratello all’intero alloggiamento circondato da fiamme verdi e purpuree.
Invece, vide un giovane di guardia e Dama Crysania che camminava avanti e indietro davanti alla falda chiusa della tenda. Caramon fissò il giovane con curiosità. Gli parve di conoscerlo.
«Il cugino di Garic?» fece, esitando, cercando di ricordare il nome. «Michael, vero?»
«Sì, generale,» rispose il giovane cavaliere. Fece per drizzarsi, tentando un saluto. Ma fu un ben debole tentativo. Il volto del giovane era pallido e smunto, gli occhi cerchiati di rosso. Era chiaro che si trovava sul punto di crollare per la fatica, ma teneva la lancia puntata davanti a sé, sbarrando risolutamente l’ingresso alla tenda.
Sentendo la voce di Caramon, Crysania sollevò lo sguardo.
«Paladine sia ringraziato!» esclamò con fervore.
Bastò un’occhiata al suo volto pallido ed ai suoi occhi grigi e infossati, e Caramon rabbrividì alla vivida luce del sole mattutino.
«Sbarazzati di loro!» ordinò al capitano, che subito cominciò a impartire ordini ai suoi uomini. Ben presto, con molte imprecazioni e brontolii, la folla cominciò a disperdersi. Comunque, la maggior parte dei presenti riteneva che ormai la parte più eccitante si fosse conclusa.
«Caramon, ascoltami!» Crysania gli appoggiò la mano sul braccio. «Questo...»
Ma Caramon si scrollò di dosso la mano di Crysania. Ignorando i suoi tentativi di parlare, fece per oltrepassare Michael. Il giovane cavaliere sollevò di scatto la lancia, bloccandogli la strada.
«Togliti di mezzo!» gli ordinò Caramon, sbalordito.
«Mi spiace, signore,» disse Michael, con voce ferma, anche se le labbra gli tremavano, «ma Fistandantilus mi ha detto che nessuno doveva passare.»
«Hai visto?» esclamò Crysania, esasperata, mentre Caramon arretrava di un passo, fissando Michael, perplesso e incollerito. «Ho cercato di dirtelo, se soltanto tu avessi voluto ascoltarmi! È andata avanti così tutta la notte, e io so che là dentro sta accadendo qualcosa di orrendo! Ma Raistlin lo ha fatto giurare... sul Codice e le Regole o qualcosa del genere...»
«La Misura,» borbottò Caramon scuotendo la testa. «Il Codice e la Misura.» Corrugò la fronte, riandando col pensiero a Sturm. «Un codice che nessun cavaliere violerà, sotto pena di morte.»
«Ma questa è follia!» gridò Crysania, adesso con voce rotta. Si coprì il volto con una mano per un attimo. Esitando, temendo un rimbrotto, Caramon la cinse con un braccio, ma lei si appoggiò a lui con gratitudine.
«Oh, Caramon, avevo tanta paura!» mormorò. «Era orribile. Mi sono svegliata da un sonno profondo, sentendo Raistlin che urlava il mio nome. Sono corsa qui... Lampi di luce sprizzavano all’interno della tenda. Urlava parole incoerenti, poi l’ho udito invocare il tuo nome... e poi ha cominciato a gemere in preda alla disperazione. Ho cercato di entrare, ma...» indicò con un gesto stanco Michael, il quale se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé. «E poi la sua voce ha cominciato a... a dissolversi! Era orribile, come se in qualche modo venisse risucchiato via!»
«Poi, cos’è successo?»
Crysania tacque per qualche istante, quindi, con voce esitante: «Ha... ha detto qualcos’altro. Sono riuscita a sentirlo a malapena. Le luci si sono spente. C’è stato un secco crepitio, e... ogni cosa era immobile, orribilmente immobile!» Chiuse gli occhi, rabbrividendo.
«Cos’ha detto? Sei riuscita a capire?»
«È questa la parte strana.» Crysania sollevò la testa, guardandolo confusa. «Pareva... Bupu.»
«Bupu!» ripetè Caramon con stupore. «Ne sei sicura?»
Crysania annuì.
«Perché avrebbe dovuto invocare una nana dei fossi?» volle sapere Caramon.
«Non ne ho la più pallida idea.» Crysania sospirò stancamente, scostandosi i capelli dagli occhi.
«Mi sono chiesta la stessa cosa. Soltanto che... non è quella nana dei fossi che ha detto a Par-sallian quanto era stato gentile Raistlin con lei?»
Caramon scosse la testa. Si sarebbe preoccupato più tardi dei nani dei fossi. Il suo problema immediato era Michael. Vividi ricordi di Sturm gli tornarono alla memoria. Quante volte aveva visto quell’espressione sul volto del cavaliere? Un giuramento sul Codice e sulla Misura...
Maledetto Raistlin!
Adesso Michael sarebbe rimasto al suo posto fino a quando non fosse stramazzato al suolo e poi, quando si fosse svegliato scoprendo di aver fallito, si sarebbe ucciso. Doveva esserci un modo per aggirare l’ostacolo, per aggirare Michael! Caramon lanciò un’occhiata a Crysania. Poteva usare i suoi poteri di chierico per ammaliare il giovane...
Caramon scosse la testa. Ciò avrebbe significato avere l’intero campo pronto a metterla al rogo, Dannato Raistlin! Dannati chierici! Dannati Cavalieri di Solamnia e dannati il loro Codice e la loro Misura!
Tirando un sospiro si avvicinò a Michael. Il giovane sollevò minacciosamente la lancia, ma Caramon si limitò a sollevare in alto le mani per mostrare che erano vuote. Si schiarì la gola, sapendo quello che voleva dire ma allo stesso tempo incerto su come cominciare. E poi, mentre pensava a Sturm, d’un tratto potè rivedere il volto del cavaliere... con tanta chiarezza da esserne stupefatto. Ma non era come l’aveva visto in vita: severo, nobile, gelido. E poi Caramon seppe: vedeva il volto di Sturm nella morte! I segni di una sofferenza e di un dolore terribili avevano spianato gli aspri lineamenti dell’orgoglio e dell’inflessibilità. C’erano pietà e comprensione in quegli occhi scuri e ossessionati, e a Caramon parve che il cavaliere gli sorridesse, triste.
Per un momento Caramon rimase talmente sorpreso da quella visione da non riuscire a dir nulla, soltanto a fissarla. Ma l’immagine scomparve lasciando al suo posto soltanto la faccia del giovane Cavaliere, cupa, spaventata, esausta... decisa.
«Michael,» cominciò Caramon, continuando a tenere sollevate le mani, «io avevo un amico una volta, un Cavaliere di Solamnia. Adesso... è morto. E morto in una guerra lontana da qui, quando... Ma questo non ha importanza. Stur... il mio amico era come te, credeva nel Codice e... e nella Misura. Era pronto a dare la sua vita per essi. Ma, alla fine, scoprì che c’era qualcosa di più importante del Codice e della Misura, qualcosa che il Codice e la Misura avevano dimenticato.»
Michael s’indurì in viso e strinse con forza ancora maggiore la lancia.
«La vita stessa,» disse Caramon con voce sommessa.
Vide un guizzo negli occhi cerchiati di rosso del Cavaliere, un guizzo affogato in un tremolare di lacrime. Rabbiosamente, Michael sbatté le palpebre per ricacciarle, l’espressione risoluta era riaffiorata anche se, così parve a Caramon, adesso vi si stava facendo strada la disperazione.
Caramon si aggrappò a quella disperazione, mettendo a segno le sue parole come se fossero la punta di una spada che cercava il cuore del suo nemico. «La vita, Michael. È tutto quello che c’è. E tutto quello che abbiamo. Non soltanto la nostra vita, ma la vita di chiunque altro a questo mondo. E ciò che il Codice e la Misura sono stati concepiti per proteggere, ma in qualche punto lungo il percorso tutto questo è stato contorto e il Codice e la Misura sono diventati più importanti della Vita.»
Mantenendo le mani alzate, fece lentamente un altro passo verso il giovane.
«Non ti chiedo di lasciare il tuo posto per qualche ragione traditrice. E tu ed io sappiamo che non lo lascerai per viltà.» Caramon scosse la testa. «Gli dei sanno quello che devi aver visto e udito questa notte. Ti chiedo di lasciare il tuo posto per pietà. Mio fratello è là dentro, forse sta morendo, forse è morto. Quando ti ha fatto pronunciare quel giuramento, non poteva aver previsto che sarebbe accaduto questo. Devo andare da lui. Fammi passare, Michael. Non c’è niente di disonorevole in questo.»
Michael rimase rigido, con lo sguardo fisso davanti a sé, e poi il suo volto parve raggrinzirsi. Le spalle gli si afflosciarono, e la lancia gli cadde dalle mani snervate. Tendendo le braccia, Caramon prese il giovane e lo tenne stretto a sé. Un singhiozzo squassante lacerò il corpo di Michael.
Caramon, impacciato, gli batté una mano sulla spalla.
«Ehi, uno di voi...» si guardò intorno. «Trovatemi Garic... Ah, eccoti qui,» disse, sollevato, quando il giovane cavaliere arrivò di corsa. «Riconduci tuo cugino accanto al fuoco. Mettigli in pancia del cibo caldo, poi assicurati che dorma. Tu, là...» indicò un’altra guardia, «prendi il suo posto.»
Mentre Garic conduceva via suo cugino, Crysania fece per entrare nella tenda, ma Caramon la fermò.
«Meglio che tu mi lasci entrare per primo, Dama,» le disse. Si era aspettato una discussione, e fu sorpreso quando vide che Crysania si faceva docilmente da parte. Caramon aveva già appoggiato la mano sulla falda della tenda, quando sentì la mano di lei sul suo braccio. Sorpreso, si girò.
«Sei saggio quanto Elistan, Caramon,» gli disse Crysania, fissandolo con intensità. «Avrei potuto dire io quelle parole al giovane. Perché non l’ho fatto?»
Caramon arrossì. «Io... io l’ho capito. E tutto,» borbottò.
«Io non volevo capirlo.» Crysania, pallida in volto, si morse il labbro. «Volevo soltanto che mi obbedisse.»
«Ascolta, Dama,» disse Caramon cupo, «potrai esaminare le profondità della tua anima più tardi. In questo momento ho bisogno del tuo aiuto!»
«Sì, naturalmente.» L’espressione ferma e fiduciosa ritornò sul volto di Crysania. Senza esitazione seguì Caramon nella tenda di Raistlin.
Ricordandosi della guardia all’esterno, e degli altri occhi curiosi, Caramon si affrettò a chiudere la falda della tenda. Dentro, regnavano immobilità e silenzio, e un’oscurità così profonda che a tutta prima nessuno dei due riuscì a distinguere niente. Immobile accanto all’ingresso, aspettando fino a quando i suoi occhi non si furono abituati al buio, d’un tratto Crysania si aggrappò a Caramon.
«Lo sento respirare!» disse sollevata.
Caramon annuì e lentamente si fece avanti. Il crescente chiarore del giorno all’esterno stava scacciando la notte dentro la tenda, e ad ogni nuovo passo, riuscì a vedere con sempre maggior chiarezza.
«Là,» disse. Scostò in fretta con un calcio uno sgabello da campo che gli bloccava la strada.
«Raist!» chiamò con voce sommessa, mentre s’inginocchiava.
L’arcimago era disteso sul pavimento. Il suo volto era cinereo, le sottili labbra azzurre. Il respiro era corto e irregolare, ma stava pur sempre respirando. Sollevato con cautela il proprio gemello, Caramon lo trasportò fino al suo letto. Alla debole luce potè vedere un sorriso appena accennato sulle labbra di Raistlin, come se il suo gemello fosse smarrito in un sogno piacevole.
«Credo che adesso stia dormendo,» disse Caramon alquanto sconcertato a Crysania, intenta a distendere sul corpo di Raistlin una coperta.
«Ma è accaduto qualcosa, è ovvio.» Girò lo sguardo qua e là per la tenda, il cui interno si precisava sempre meglio al crescere della luce. «Mi chiedo... In nome degli dei!»
Crysania alzò lo sguardo di scatto. Si avvide allora che i pali della tenda erano bruciacchiati e anneriti, lo stesso materiale di cui la tenda era fatta era carbonizzato, e in alcuni punti sembrava essersi fuso. Pareva che il fuoco l’avesse investito, eppure, in maniera incongrua, la tenda era rimasta in piedi e non pareva, in realtà, aver subito seri danni. Tuttavia, fu l’oggetto sul tavolo a sbalordire ancora di più Caramon.
«Il Globo dei draghi!» bisbigliò, con reverenziale timore.
Creato dai maghi di tutte e tre le Vesti molto tempo prima, colmato dell’essenza dei draghi del bene, dei draghi del male e di quelli neutrali, tanto potente da abbracciare le sponde del tempo, il globo di cristallo si trovava ancora sul tavolo, appoggiato sul supporto d’argento che Raistlin aveva creato all’uopo.
Un tempo era stato un oggetto di luce magica, incantatrice. Adesso era una cosa d’oscurità, inanimata, una crepa l’attraversava al centro.
Adesso...
«È rotto,» disse Caramon sempre bisbigliando.
L’esercito di Fistandantilus salpò attraverso gli Stretti di Schallsea su una flotta improvvisata formata da molti pescherecci, barche a remi, zattere costruite alla meno peggio, e imbarcazioni da diporto sfarzosamente decorate. Malgrado la distanza da percorrere non fosse grande, ci volle più d’una settimana per trasportare tutta la gente, gli animali e i rifornimenti.
Quando Caramon fu pronto a compiere la traversata, l’esercito si era talmente accresciuto che non c’erano abbastanza imbarcazioni per traghettare tutti contemporaneamente. Molte imbarcazioni dovettero compiere parecchi viaggi avanti e indietro. I vascelli più grandi vennero usati per trasportare il bestiame. Convertiti in granai galleggianti, avevano stalle per i cavalli e le mandrie scheletrite, e porcili per i maiali.
Le cose andarono lisce nella maggior parte dei casi, anche se Caramon riuscì all’incirca a dormire solo tre ore ogni notte, talmente si trovò indaffarato con problemi che tutti erano sicuri che soltanto lui fosse capace di risolvere: dal bestiame che soffriva di mal di mare a una cassa di spade che accidentalmente era stata fatta cadere fuori bordo e aveva richiesto complicate manovre per venir recuperata. Poi, proprio quando la meta fu in vista e quasi tutti avevano compiuto la traversata, scoppiò una tempesta. Sferzando il mare e riempiendolo di cavalloni schiumeggianti affondò due barche strappandole agli ormeggi, e per due giorni impedì a chiunque di passare sull’altra sponda.
Ma alla fine tutti ce la fecero, cavandosela relativamente bene, con soltanto pochi casi di mal di mare, un bambino caduto fuori bordo (salvato) e un cavallo (ucciso e macellato) che, colto dal panico, si era rotto una zampa abbattendo a calci il suo box.
Quando l’esercito infine fu approdato alle spiagge di Abanasinia, il capo degli uomini delle pianure (le tribù di barbari che abitavano le pianure settentrionali di Abanasinia e che erano bramose d’impadronirsi del favoleggiato oro di Thorbardin), oltre ai rappresentanti dei nani delle colline, venne loro incontro. Quando si trovò davanti i nani delle colline, Caramon provò un trauma profondo che lo scosse per molti giorni.
«Reghar Fireforge e il suo seguito,» annunciò Garic dall’ingresso della tenda. Facendosi da parte il cavaliere permise a un gruppo di tre nani di entrare.
Con quel nome che gli echeggiava nelle orecchie, Caramon fissò incredulo il primo nano. Le dita sottili di Raistlin si strinsero dolorosamente sul suo braccio.
«Non una parola!» alitò l’arcimago.
«Ma... ma assomiglia... e il nome!» balbettò Caramon a bassa voce.
«Naturalmente,» disse Raistlin, come se fosse tutto ovvio. «Questo è il nonno di Flint.»
Il nonno di Flint! Flint Fireforge, il suo vecchio amico. Il vecchio nano che era morto fra le braccia di Tanis a Godshome, il vecchio nano così burbero e irascibile, eppure così tenero di cuore... il nano che era parso antico a Caramon. E qui, non era ancora nato! Quello era suo nonno.
D’un tratto, la pienezza dello scopo di ciò che stava facendo e di dove si trovava investì Caramon come un colpo fisico. Prima di quel momento, avrebbe potuto benissimo trovarsi coinvolto in un’avventura nel proprio tempo. In quell’istante seppe che, in verità, non aveva preso seriamente niente di tutto questo. Perfino Raistlin che lo «mandava a casa» gli era parsa una cosa semplice come se l’arcimago non avesse dovuto fare altro che metterlo su una barca e salutarlo. Aveva escluso dalla sua mente il discorso di «alterare» il tempo. La cosa lo confondeva, gli sembrava che girasse intorno in un cerchio chiuso e interminabile.
Caramon avvertì una sensazione di caldo, poi di freddo. Flint non era ancora nato. Tanis non esisteva, Tika non esisteva. Lui stesso, non esisteva! No! Non era affatto plausibile! Non poteva essere!
La tenda s’inclinò davanti agli occhi di Caramon. Ebbe più d’una mezza paura di sentirsi male. Per fortuna, Raistlin vide il pallore sul volto di suo fratello. Intuendo quello che il cervello di suo fratello gemello stava cercando di assimilare, il mago si alzò in piedi e, muovendosi affabile al posto di suo fratello momentaneamente confuso, pronunciò adeguate parole di benvenuto ai nani.
Ma, mentre faceva questo, lanciò un’occhiata cupa e penetrante a Caramon, ricordandogli severamente il suo dovere.
Recuperando il controllo di sé, Caramon riuscì a scacciare dalla sua mente quegli inquietanti e sconcertanti pensieri, dicendosi che li avrebbe affrontati più tardi in pace e in lucidità.
Sfortunatamente, la pace e la lucidità parevano non doversi concretizzare mai...
Alzandosi in piedi, Caramon riuscì perfino a stringere, con calma, la mano al robusto nano dalla barba grigia.
«Mai avrei creduto,» dichiarò Reghar con franchezza, prendendo posto sulla sedia che gli veniva offerta, «che avrei trattato con umani e stregoni, specialmente contro quelli della mia stessa carne e del mio stesso sangue.» Fissò accigliato il boccale vuoto. Con un gesto Caramon indicò al ragazzo che serviva di riempirlo. Reghar, sempre con lo stesso sguardo aggrottato, aspettò che la schiuma di depositasse. Poi, sospirando, sollevò il boccale verso Caramon, che era tornato al suo scranno.
«Durth Zamish och Durth Tabor. Strani tempi fanno strani fratelli.»
«Puoi ben dirlo,» borbottò Caramon, lanciando un’occhiata a Raistlin. Il generale sollevò il suo bicchier d’acqua e bevve. Raistlin, per cortesia, s’inumidì le labbra con un bicchiere di vino, che subito mise giù.
«Ci riuniremo domattina per discutere i nostri piani,» disse Caramon. «Allora sarà qui anche il capo degli uomini delle pianure.» Reghar si accigliò ancora di più, e Caramon sospirò dentro di sé, prevedendo guai. Ma continuò con voce cordiale e allegra: «Ceniamo insieme stasera, per suggellare la nostra alleanza.»
A queste parole, Reghar si alzò in piedi. «Forse dovrò combattere insieme ai barbari,» ringhiò. «Ma per la barba di Reorx, non devo mangiare con loro... o con te!»
Caramon si alzò di nuovo in piedi. Vestito con la sua migliore armatura da cerimonia (altro regalo dei Cavalieri) costituiva uno spettacolo imponente. Il nano lanciò un’occhiata obliqua al guerriero.
«Sei grosso, non è vero?» disse. Sbuffando, scosse la testa, dubbioso. «Sospetto che ci siano più muscoli che cervello nel tuo cranio.»
Caramon non potè fare a meno di sorridere, anche se il cuore gli fece male. Assomigliava talmente al modo di parlare di Flint!
Ma Raistlin non sorrise.
«Mio fratello ha una mente eccellente per le questioni militari,» dichiarò il mago con un inatteso tono gelido. «Quando abbiamo lasciato Palanthas eravamo soltanto in tre. È grazie all’abilità e alla rapidità di pensiero del generale Caramon che siamo stati in grado di condurre questo poderoso esercito fino alle vostre sponde. Credo che faresti bene ad accettare la sua guida.»
Reghar sbuffò di nuovo, scrutando Raistlin con occhio penetrante da sotto le sporgenti sopracciglia grigie e cespugliose. Con la pesante armatura che gli tintinnava e gli sferragliava intorno, il nano si voltò e fece per uscire dalla tenda, pestando i piedi, quando si fermò.
«Tre di voi da Palanthas? E adesso... questo?»
I suoi occhi scuri e penetranti si appuntarono su Caramon, la sua mano fece un ampio gesto, inglobandovi la tenda, i cavalieri dalla risplendente armatura che facevano la guardia fuori della porta, le centinaia di uomini che aveva visto lavorare insieme a scaricare i rifornimenti dalle navi, gli altri uomini che si esercitavano nelle tecniche di combattimento, le file e file di fuochi dei bivacchi...
Sopraffatto e sbalordito dalle insolite lodi di suo fratello, Caramon non riuscì a rispondere. Ma riuscì ad annuire.
Il nano sbuffò di nuovo, ma c’era una punta di forzata ammirazione nei suoi occhi, mentre usciva tintinnando e sferragliando dalla tenda.
D’un tratto Reghar rifece capolino nella tenda. «Sarò presente alla tua cena,» concesse di malagrazia, poi si allontanò definitivamente sbattendo i piedi.
«Anch’io devo andarmene, fratello mio,» annunciò Raistlin con fare assente, alzandosi in piedi e avviandosi verso l’ingresso della tenda. Con le mani ripiegate nelle vesti nere, era smarrito nei suoi pensieri, quando sentì un tocco sul braccio. Irritato da quell’interferenza, lanciò un’occhiata a suo fratello. «Cosa c’è?»
«Volevo... volevo soltanto dirti grazie.» Caramon deglutì, poi continuò con voce rauca: «Per quello che hai detto. Non hai... non avevi mai detto niente di simile su di me... prima d’oggi.»
Raistlin sorrise. Non c’era luce nei suoi occhi, in quel suo sorriso impercettibile, ma Caramon era troppo infervorato e contento per accorgersene.
«È soltanto la semplice verità, fratello mio,» rispose Raistlin, scrollando le spalle. «E ha contribuito a concretizzare il nostro obbiettivo, dal momento che abbiamo bisogno di questi nani come nostri alleati. Ti ho detto spesso che hai delle risorse nascoste... se soltanto ti prendessi il tempo e il fastidio di svilupparle; siamo gemelli, dopotutto,» aggiunse il mago, sardonico. «Non ho mai pensato che fossimo talmente dissimili, come tu hai finito per convincerti.»
Il mago fece di nuovo per andarsene, ma ancora una volta sentì la mano di suo fratello sul braccio.
Frenando un sospiro d’impazienza, Raistlin si girò.
«Laggiù a Istar volevo ucciderti, Raistlin...» Caramon fece una pausa, leccandosi le labbra, «... e credo di averne avuto motivo. Per lo meno, da quello che sapevo allora. Adesso, non ne sono così sicuro.»
Sospirò, abbassando lo sguardo sui piedi, poi sollevando il volto infervorato. «Mi... mi piace pensare che hai fatto questo... che hai posto i maghi in una posizione tale da costringerli a spedirmi indietro nel tempo... per aiutarmi a imparare questa lezione. Potrebbe non essere questa la ragione,» si affrettò ad aggiungere Caramon, vedendo le labbra di suo fratello restringersi e gli occhi gelidi diventare ancora più gelidi, «e sono sicuro che non lo è, per lo meno non tutta. Lo fai per te stesso, lo so. Ma credo che, quale sia non so, a una parte di te importi, sia pure un briciolo. Qualche parte di te ha visto che ero nei guai, e ha voluto aiutarmi.»
Raistlin guardò suo fratello con espressione divertita. Poi tornò a scrollare le spalle. «Molto bene, Caramon. Se questo tuo romantico concetto ti aiuterà a combattere meglio, se ti aiuterà a pianificare meglio le tue strategie, se faciliterà i tuoi pensieri e, soprattutto, se mi permetterà di uscire da questa tenda e di tornare al mio lavoro, allora, stringitelo pure al petto! A me importa assai poco.»
Ritirato il braccio dalla morsa di suo fratello, il mago raggiunse a grandi passi l’ingresso della tenda. Qui, esitò. Girando a metà la testa incappucciata, parlò a bassa voce, le sue parole erano esasperate, eppure velate d’una certa tristezza:
«Tu non mi hai mai capito, Caramon.»
Poi se ne andò, con le vesti nere che gli frusciavano intorno alle caviglie mentre camminava.
Quella sera il banchetto fu tenuto all’aperto. I suoi inizi furono meno che propizi.
Il cibo era disposto su lunghi tavoli di legno, messi insieme in fretta e furia con le assi delle zattere che erano state impiegate per attraversare gli stretti. Reghar arrivò con una cospicua scorta di circa una quarantina di nani. Darknight, capo degli uomini delle pianure, che, con il suo volto cupo, l’alta statura e il portamento orgoglioso costrinse Caramon a ricordare Riverwind, portò con sé quaranta guerrieri. A sua volta Caramon scelse quaranta dei suoi uomini, dei quali sapeva (o quanto meno sperava) di potersi fidare, e che (anche questo lo sperava) non si sarebbero ubriacati.
Caramon aveva calcolato che quando i gruppi fossero arrivati, i nani si sarebbero seduti formando un gruppo a sé, e lo stesso avrebbero fatto gli uomini delle pianure... Nessun discorso, nessuna blandizie, li avrebbe convinti a mescolarsi tra di loro. E infatti, dopo che ciascun gruppo fu arrivato, tutti rimasero a fissarsi, in tetro silenzio, i nani raccolti intorno al proprio capo, gli uomini delle pianure intorno al loro, mentre gli uomini di Caramon fissavano la scena, incerti.
Caramon arrivò e si fermò davanti a loro. Si era abbigliato con cura, rivestendosi dell’armatura e dell’elmo dei giochi gladiatori, più altri accessori che si accompagnavano a questi, fatti per lui su misura. Con la sua pelle bronzea, il suo fisico incomparabile, il suo volto forte e deciso, era una presenza dominante, e perfino i nani imbronciati non poterono fare a meno di scambiarsi occhiate di riluttante approvazione.
Caramon sollevò le mani.
«Saluti, miei ospiti!» intonò con la sua voce baritonale. «Benvenuti. Questa è una cena fra camerati, per segnare l’alleanza e la ritrovata amicizia fra le nostre razze...»
Queste parole furono accolte da borbottii, espressioni sprezzanti e sbuffi di derisione. Uno dei nani giunse a sputare per terra, inducendo parecchi uomini delle pianure ad afferrare le loro archi ed a fare un passo avanti, poiché questo era considerato un terribile insulto fra le genti delle pianure. Il loro capo li fermò e, ignorando impassibile l’interruzione, Caramon proseguì:
«Combatteremo insieme, forse moriremo insieme. Perciò cominciamo il nostro incontro, questa prima notte, sedendo insieme e dividendo il pane e le bevande come fratelli. So che siete riluttanti a separarvi dai vostri parenti e dai vostri amici, ma voglio che vi facciate dei nuovi amici. E così, per aiutarci a conoscerci, ho deciso che dovremo fare un nuovo gioco.»
A queste parole, gli occhi dei nani si spalancarono, le barbe ondeggiarono, e borbottii si levarono nell’aria come tuoni. Nessun nano adulto partecipava mai a dei giochi! (Certe attività ricreative come «Colpisci la Pietra» e il «Lancio del Martello» venivano considerate competizioni, non giochi.) Al contrario, Darknight ed i suoi uomini s’illuminarono: gli uomini delle pianure vivevano per i giochi e le contese, poiché erano giudicati divertenti come guerreggiare contro le tribù vicine.
Agitando un braccio, Caramon indicò la nuova, grande tenda conica che si trovava dietro alle tavole e che era stata oggetto di molte occhiate curiose e sospettose sia da parte dei nani sia degli uomini delle pianure. Alta più di venti piedi, era sormontata dallo stendardo di Caramon. La bandiera di seta con la stella a nove punte sbatteva al vento della sera, illuminata dal grande falò che ardeva lì vicino.
Mentre tutti fissavano la tenda, Caramon allungò un braccio e, con uno strattone della sua mano robusta, tirò una corda. All’istante, i teli che formavano i lati della tenda caddero al suolo e, a un segnale di Caramon, vennero trascinati via da parecchi giovanetti sogghignanti.
«Che sciocchezza è mai questa?» ringhiò Reghar, accarezzando l’ascia con le dita.
Un unico palo massiccio si ergeva su un mare di fango nero e viscido. La superficie del palo era stata piallata e lucidata, e rifletteva il bagliore delle fiamme. Quasi all’estremità del palo vi era una piattaforma rotonda, fatta di legno massiccio, nella quale erano stati praticati numerosi fori.
Ma non fu la vista del palo o della piattaforma o del fango a suscitare esclamazioni eccitate o meravigliate sia da parte dei nani sia degli umani. Fu la vista di ciò che era incassato nel legno proprio in cima al palo. Risplendendo alla luce del fuoco, con l’elsa e il manico che balenavano incrociati, c’erano una spada e un’ascia da combattimento. Ma quelle non erano le rozze armi da guerra che molti portavano. Modellate nel miglior acciaio, la loro squisita lavorazione era ben visibile a quelli che si trovavano venti piedi più sotto e le stavano fissando.
«Per la barba di Reorx!» Reghar tirò un sospiro lungo e tremolante. «Quell’ascia lassù vale il prezzo del nostro villaggio! Darei cinquanta anni della mia vita per un’arma come quella!»
Darknight, fissando la spada, sbatté rapidamente le palpebre mentre improvvise lacrime di desiderio facevano sì che l’immagine dell’arma si offuscasse alla sua vista.
Caramon sorrise. «Queste armi sono vostre!» annunciò. Sia Darknight sia Reghar lo fissarono, i volti contratti in uno stupore inespresso. «Se...» proseguì Caramon, «riuscirete a tirarle giù.» Un intenso brusio eruppe sia dai nani sia dagli uomini. Subito tutti si lanciarono verso la fossa, costringendo Caramon a urlare per dominare il frastuono: «Reghar e Darknight, ognuno di voi potrà scegliere nove guerrieri come aiuto! I premi saranno del primo che li raggiungerà.»
A Darknight non servì nessun ulteriore stimolo. Senza preoccuparsi di ottenere aiuto, balzò in mezzo al fango e cominciò ad avanzare a guado verso il palo. Ma ad ogni passo affondava sempre più, col fango che diventava sempre più profondo mentre si avvicinava al suo obbiettivo.
Quand’ebbe raggiunto il palo era ormai sprofondato oltre le ginocchia in quella sostanza appiccicosa.
Reghar, più cauto, prese tempo per osservare il suo avversario. Chiamando a sé nove tra i nani più forti perché lo aiutassero, il capo dei nani e i suoi uomini avanzarono in mezzo al fango. L’intero contingente subito scomparve, le loro pesanti armature li fecero affondare quasi immediatamente. I loro compagni li aiutarono a trascinarsi fuori. L’ultimo a emergere fu Reghar.
Maledicendo ogni dio che gli venne in mente, il nano si strizzò il fango dalla barba poi, accigliandosi, procedette a spogliarsi della sua armatura. Tenendo l’ascia alta sopra la testa, tornò a guadare il fango senza neppure aspettare la sua scorta.
Darknight aveva raggiunto il palo. Lì, accanto alla base, il fango non era così profondo, sotto di esso c’era il terreno solido. Serrando il palo tra le braccia, il capo degli uomini delle pianure si tirò su, fuori dal fango, e avvolse le gambe intorno ad esso. Si arrampicò per circa tre piedi, rivolgendo un ampio sogghigno a quelli della sua tribù che l’incitavano. Poi, d’un tratto, cominciò a scivolare verso il basso. Digrignando i denti, lottò disperatamente per tenersi aggrappato, ma fu tutto inutile.
Alla fine, il grande capo scivolò lentamente giù fino alla base, fra gli ululati di derisione dei nani.
Seduto nel fango, fissò torvo il palo. Era stato unto di grasso d’animale.
Più nuotando che camminando, Reghar raggiunse finalmente la base del palo. A quel punto era affondato nel fango fino alla cintura, ma grazie alla sua grande forza il nano riusciva ancora ad andare avanti.
«Fatti da parte, » ingiunse al frustrato uomo delle pianure. «Usa il cervello! Se non riesci a salire, faremo scendere il premio fino a noi!»
Con un ghigno di trionfo sulla faccia barbuta schizzata di fango, Reghar roteò all’indietro l’ascia e sferrò un colpo poderoso al palo.
Caramon sorrise fra sé, fremendo per l’aspettativa.
Vi fu un tremendo rimbombo. L’ascia del nano rimbalzò dal palo come se avesse colpito il fianco d’una montagna: il palo era stato tagliato dallo spesso tronco di un ironwood. Mentre l’ascia, rimbalzando, volava via dalle mani escoriate del nano, la violenza del colpo fece finire Reghar lungo disteso sulla schiena in mezzo al fango. Adesso toccò agli uomini delle pianure scoppiare a ridere, nessuno più forte del loro capo coperto di fango.
Il nano e l’umano si fissarono in silenzio, la tensione crebbe rapidamente fra i due. Le risate si spensero, sostituite da rabbiosi borbottii. Caramon trattenne il respiro. Poi gli occhi di Reghar andarono alla sua ascia scheggiata che stava lentamente affondando nella melma, e da essa all’altra bellissima ascia in cima al palo, al lucido acciaio che scintillava alla luce dei fuochi. Con un ringhio, si voltò per fronteggiare i suoi uomini.
La scorta di Reghar, adesso spogliata delle proprie armature, lo aveva già raggiunto a guado.
Urlando e gesticolando, Reghar fece loro cenno di allinearsi alla base del palo viscido. Poi i nani cominciarono a formare una piramide. Tre si misero in fondo, altri tre salirono sulle loro spalle, quindi altri due montarono su questi, e un altro salì su questi due. La fila più bassa dei nani affondò nel fango oltre la cintola, ma, alla fine, trovato il terreno solido sul fondo, rimase salda e immobile.
Darknight osservò per qualche istante la scena, in cupo silenzio, poi chiamò nove dei suoi guerrieri.
Nel giro di pochi istanti, gli umani stavano formando la loro piramide. Essendo più bassi di statura, i nani erano stati obbligati a dare una base più stretta alla loro piramide, per poi ridurla in larghezza fino a un solo nano per avvicinarsi alla cima. Reghar adesso fece l’ultima ascesa. Barcollando all’apice del pinnacolo, mentre gli altri nani ondeggiavano e gemevano sotto di lui, tese disperatamente le braccia per raggiungere la piattaforma, ma non era alto abbastanza.
Darknight, arrampicandosi sopra le schiene dei suoi uomini, raggiunse facilmente la superficie inferiore della piattaforma.
Poi, scoppiando a ridere nel vedere l’accigliarsi del volto coperto di fango di Reghar, il capo degli uomini delle pianure tentò di tirarsi su attraverso una di quelle aperture dalla strana forma.
Non ci riuscì. Spremersi, imprecare, trattenere il fiato, non gli fu d’aiuto. Neppure spingendo con tutte le sue forze l’uomo delle pianure riuscì a costringere il suo corpo magro ma robusto a passare oltre il foro. Nel medesimo istante, Reghar fece un balzo verso la piattaforma...
E la mancò.
Il nano precipitò attraverso l’aria e atterrò con un tonfo nel fango sottostante, mentre la violenta spinta data per saltare faceva crollare l’intera piramide, proiettando i nani in tutte le direzioni.
Questa volta, però, gli uomini non risero. Fissando Reghar sotto di lui, all’improvviso Darknight saltò di propria iniziativa giù nel fango. Atterrò vicino al capo dei nani, lo afferrò e lo trascinò fino alla superficie della melma.
A questo punto entrambi erano quasi indistinguibili, ricoperti dalla testa ai piedi da quel limo nero.
Rimasero là a fissarsi.
«Tu sai,» disse Reghar, pulendosi via il fango dagli occhi, «che io sono il solo che può passare attraverso quel buco.»
«E tu sai,» replicò Darknight a denti stretti, «che io sono il solo che possa farti arrivare lassù.»
Il nano afferrò la mano dell’uomo delle pianure. I due si affrettarono a raggiungere la piramide umana. Darknight salì per primo, fornendo l’ultimo gradino per arrivare alla cima.
Tutti applaudirono quando Reghar salì sulle spalle umane e senza nessuna difficoltà attraversò il foro.
Arrampicatosi sulla piattaforma, il nano afferrò l’elsa della spada e il manico dell’ascia e, trionfante, li sollevò sopra la testa. La folla si azzittì. Ancora una volta gli uomini e i nani si squadrarono sospettosi.
Ci siamo! pensò Caramon. Quanto di Flint ho visto in te, Reghar? Quanto di Riverwind in te, Darknight? Tantissimo, quasi troppo, dipende da questo!
Reghar abbassò lo sguardo attraverso il foro, verso il volto severo dell’uomo delle pianure. «Il possesso di quest’ascia, che dev’essere stata forgiata dallo stesso Reorx, lo devo a te, uomo delle pianure. Sarò onorato di combattere al tuo fianco. E se combatterai con me, ti servirà un’arma decente!»
Fra gli evviva dell’intero campo, porse la grande spada scintillante a Darknight attraverso il foro.
Il banchetto si prolungò fino a notte inoltrata. Nell’accampamento risuonavano le risate, le urla e le imprecazioni piene di cordialità lanciate in lingua nanesca e tribale, oltre che in solamnico e in comune.
Fu facile per Raistlin sgusciar via. Nell’eccitazione generale nessuno sentì la mancanza di quell’arcimago silenzioso e cinico.
Nel tornare alla propria tenda, che Caramon aveva rimesso a nuovo per lui, Raistlin si tenne fra le ombre. Nelle sue vesti nere non era niente di più d’un movimento sfuggente visto con la coda dell’occhio.
Evitò la tenda di Crysania. Lei era in piedi sulla soglia, intenta ad osservare quel divertimento con un’espressione nostalgica. Non osava unirsi a loro, sapendo che la presenza della «strega» avrebbe danneggiato immensamente Caramon. Com’è ironico, pensò Raistlin, che in quest’epoca sia tollerato uno stregone dalle Vesti Nere, mentre un chierico di Paladine viene disprezzato e svilito.
Attraversando con i passi felpati dei suoi stivali di cuoio l’accampamento in cui l’esercito bivaccava, lasciando a malapena delle impronte sull’erba umida, Raistlin trovò in questo una cupa forma di divertimento. Lanciò un’occhiata alle costellazioni in cielo sopra di lui, contemplando sia il Drago di Platino sia il Drago a Cinque Teste, l’uno opposto all’altro, con un lieve sorriso beffardo.
La consapevolezza che Fistandantilus avrebbe potuto avere successo se non fosse stato per l’intervento d’uno sciagurato gnomo aveva arrecato una gioia tenebrosa all’essere di Raistlin. Stando a tutti i suoi calcoli, lo gnomo era il fattore-chiave. A quanto pareva, lo gnomo aveva alterato il tempo, anche se non era chiaro come ci fosse riuscito. Comunque, Raistlin aveva calcolato che tutto ciò che lui doveva fare era arrivare alla fortezza montana di Zhaman; poi, di là, sarebbe stato davvero semplice farsi strada fin nel cuore di Thorbardin, trovare quello gnomo e renderlo innocuo.
Il tempo, che era stato alterato in precedenza, avrebbe ripreso il suo giusto corso. Là dove Fistandantilus aveva fallito, lui avrebbe avuto successo.
Perciò, proprio come Fistandantilus aveva fatto prima di lui, Raistlin concentrava adesso sullo sforzo bellico il suo interesse e la sua completa attenzione per essere sicuro che sarebbe riuscito a raggiungere Zhaman. Lui e Caramon avevano passato lunghe ore a consultare antiche mappe, studiando le fortificazioni, mettendo a confronto ciò che ricordavano dei loro viaggi in quelle terre in un tempo che era di là da venire, e cercando d’indovinare quali cambiamenti potevano essere intervenuti. La chiave per vincere la battaglia era la presa di Pax Tharkas.
E questo, Caramon l’aveva detto più di una volta con un pesante sospiro, pareva praticamente impossibile.
«Duncan l’avrà massicciamente difesa,» aveva argomentato Caramon, con il dito appoggiato sul punto della mappa che indicava la grande fortezza. «Ricordi com’è, Raist? Com’è costruita, fra quelle due alte vette! Quei maledetti nani possono tenerla per anni! Basta chiudere le porte, far cadere le rocce con quel congegno, e saremo incastrati. Ci sono voluti dei draghi d’argento per sollevare quelle rocce, a quanto ricordo,» aveva aggiunto l’omone, malinconico.
«Aggirala,» aveva suggerito Raistlin,
Caramon aveva scosso la testa. «E da dove?»
Il suo dito si era spostato verso occidente. «Su un lato c’è Qualinesti. Gli elfi ci ridurrebbero a lembi di carne e ci appenderebbero a seccare.» Mosse il dito verso est. «Su questo lato, ci sono il mare o la montagna. Non abbiamo abbastanza imbarcazioni per andar per mare e, guarda,» spostò il dito verso il basso, «se approdassimo a sud, in quel deserto, finiremmo incastrati in mezzo, con entrambi i fianchi esposti, Pax Tharkas a nord, Thorbardin a sud.»
L’omone si era messo a camminare, fermandosi di tanto in tanto per fissare la mappa, irritato.
Raistlin aveva sbadigliato, alzandosi poi in piedi, appoggiando leggermente la mano sul braccio di Caramon. «Ricordati questo, fratello mio,» aveva detto con voce sommessa. «Pax Tharkas è caduta!»
Il volto di Caramon si era oscurato. «Sì,» aveva borbottato, arrabbiato perché gli era stato ricordato che quello che a lui sembrava una titanica, eroica impresa era soltanto una specie d’immenso gioco.
«Suppongo che non ti ricordi come?»
«No.» Raistlin aveva scosso la testa. «Ma cadrà...» Aveva fatto una pausa, poi aveva ripetuto con calma: «Cadrà!»
Tre tozze e scure figure strisciarono fuori dalla foresta, tenendosi lontane dai fuochi degli alloggiamenti e dei bivacchi, e perfino dal chiarore della luna e delle stelle. Giunte ai margini del campo esitarono, come se fossero incerte sulla loro destinazione. Alla fine, una delle tre figure indicò qualcosa borbottando. Le altre due annuirono e, muovendosi adesso in fretta, proseguirono veloci in mezzo alla tenebra.
Veloci, sì, ma non in silenzio. Nessun nano riusciva mai a muoversi in silenzio, e questi sembravano più rumorosi del solito. Crepitavano e tintinnavano e calpestavano ogni singolo fragile ramoscello, borbottando imprecazioni mentre avanzavano senza alcun riguardo.
Raistlin, che li stava aspettando nell’oscurità della sua tenda, sentì che stavano arrivando quand’erano ancora lontani e scosse la testa. Ma nell’elaborare i suoi piani, aveva messo in conto anche questo, così aveva organizzato l’incontro quando il frastuono e l’ilarità del banchetto gli avrebbero fornito una copertura adeguata.
«Entrate,» li sollecitò infine, quando il tramestio e lo scalpiccio dei piedi ferrati si fermarono appena fuori della falda della tenda.
Vi fu una pausa, accompagnata da un respiro affannoso e da un’esclamazione borbottata, nessuno voleva essere il primo a toccare la tenda. Un’imprecazione giunse in risposta. La falda della tenda venne aperta con uno strappo così violento che il robusto tessuto quasi si lacerò, e un nano entrò. In apparenza era il capo poiché avanzava con un dondolio strafottente mentre gli altri due che lo seguivano erano nervosi e timorosi.
Il nano in testa al piccolo gruppo avanzò verso il tavolo al centro della tenda, muovendosi rapidamente in mezzo all’oscurità nera come la pece. Dopo essere vissuti per anni sottoterra, i Dewar avevano sviluppato un’eccellente vista notturna. Correva perfino voce che alcuni di loro avessero il dono della vista elfica, la quale permetteva loro di vedere il chiarore degli esseri viventi nel buio.
Ma per quanto buoni fossero gli occhi del nano, non riuscì a distinguere nulla della figura abbigliata di nero che sedeva davanti a lui sull’altro lato della scrivania. Era come se, guardando nella notte più profonda, vedesse qualcosa di ancora più buio, come un enorme baratro che si spalancasse improvvisamente ai suoi piedi. Quel Dewar era forte e temerario, perfino spericolato; suo padre era morto in preda a una follia delirante. Ma il nano scuro scoprì di non poter reprimere un leggero brivido che gli partì dalla nuca e gli si propagò giù per tutta la lunghezza della colonna vertebrale.
Si sedette. «Voi due,» disse in nanesco agli altri che erano con lui, «sorvegliate l’ingresso.»
Annuirono e si affrettarono a ritirarsi, fin troppo lieti di lasciare le vicinanze della figura abbigliata di nero; si rannicchiarono accanto all’ingresso, sbirciando fuori in mezzo alle ombre. Ma un improvviso lampo di luce li fece trasalire, allarmati. Il loro capo sollevò di scatto il braccio, con un’imprecazione, coprendosi gli occhi.
«No luce... no luce!» gridò in un approssimativo comune. Poi la lingua gli si appiccicò al palato, e per qualche istante tutto ciò che riuscì a produrre furono dei suoni ingarbugliati, poiché la luce non proveniva né da una torcia né da una candela, bensì da una fiamma che bruciava nel palmo della mano chiusa a coppa del mago.
Tutti i nani sono per natura sospettosi e diffidenti nei confronti della magia. Privi di cultura, soggiacenti alla superstizione, i Dewar ne avevano terrore e così perfino quel semplice trucco in cui quasi ogni illusionista da strada era in grado di esibirsi indusse il nano a risucchiare il proprio respiro in preda alla paura.
«Io guardo quelli con cui tratto,» disse Raistlin, sussurrando in tono rassicurante. «Non temere, questa luce non verrà individuata dall’esterno o, se lo sarà, chiunque passerà di qui penserà che io stia studiando.»
Il Dewar abbassò lentamente il braccio, sbattendo le palpebre per il dolore causatogli dall’accecante intensità di quella luce. I due suoi compagni tornarono a sedersi, questa volta ancora più vicino all’ingresso. Quel capo Dewar era lo stesso che aveva partecipato alla riunione del consiglio di Duncan. Malgrado sul suo volto fosse impressa la tipica crudeltà quasi folle e calcolatrice che contrassegnava la maggior parte della sua razza, c’era un luccichio d’intelligenza ragionatrice nei suoi occhi scuri, che lo rendeva particolarmente pericoloso.
Adesso quegli occhi stavano valutando il mago, lì davanti a lui. Il dewar rimase colpito. Come la maggior parte dei nani, non aveva nessuna considerazione per gli umani. E un fruitore umano di magia era doppiamente sospetto. Ma il Dewar era un giudice acuto della personalità, e vide nelle labbra sottili del mago, nel suo volto smunto e nei suoi occhi gelidi uno spietato desiderio di potere, che poteva capire e del quale era in grado di fidarsi.
«Tu... Fistandantilus?» ringhiò sordamente il Dewar.
«Lo sono.» Il mago chiuse la mano e la fiamma scomparve, lasciandoli un’altra volta nel buio, fatto per il quale almeno il nano provò sollievo. «E parlo nanesco, perciò possiamo conversare nella tua lingua. Lo preferirei, appunto, in modo che non ci siano possibilità di equivoci.»
«Molto bene.» Il Dewar si sporse in avanti. «Sono Argat, thane del mio clan. Ho ricevuto il tuo messaggio. Siamo interessati, ma dobbiamo saperne di più.»
«Intendendo, “Cosa ci guadagniamo?”,» disse Raistlin in tono beffardo. Tese una mano sottile, indicando un angolo della tenda.
Guardando in quella direzione, Argat non vide niente. Poi, nell’angolo della tenda, un oggetto cominciò ad ardere, dapprima un tenue bagliore, poi con fulgore crescente, e Argat risucchiò ancora una volta il proprio respiro, ma questa volta per stupore e incredulità più che per paura.
D’un tratto lanciò a Raistlin un’occhiata tagliente e sospettosa.
«Ma certo, vai pure ad esaminarlo,» annuì Raistlin, con una scrollata di spalle. «Potrai anche portarlo via con te stanotte stessa... se ci metteremo d’accordo.»
Ma Argat aveva già lasciato con uno scatto la sedia, precipitandosi, incespicando, verso l’angolo della tenda. Cadde in ginocchio e affondò le mani dentro il cofano pieno di monete d’acciaio che scintillavano d’un bagliore vivo e magico. Per lunghi momenti non potè fare altro che fissare quella ricchezza con occhi sfavillanti, lasciando che le monete gli scorressero tra le dita. Poi, con un tremulo sospiro, si risollevò e tornò alla sua sedia.
«Hai un piano?»
Raistlin annuì. Il magico bagliore delle monete sbiadì, ma rimase ancora un fievole luccichio che continuò ad attirare lo sguardo del nano.
«Le spie ci dicono,» riprese Raistlin, «che Duncan ha in mente di affrontare il nostro esercito sulle pianure davanti a Pax Tharkas, con l’intenzione di sconfìggerci colà o, nel caso in cui non riescano nel loro intento, di infliggerci pesanti perdite. Se dovessimo vincere noi, si ritirerà con le sue forze all’interno della fortezza, vicino alle porte, attivando il congegno che farà precipitare migliaia di tonnellate di roccia per bloccare il passaggio.
«Con le riserve di cibo e di armi che ha immagazzinato là dentro, potrà aspettare fino a quando noi rinunceremo e ci ritireremo, oppure fino a quando non arriveranno i suoi rinforzi da Thorbardin, per intrappolarci dentro la valle. Ho ragione?»
Argat si passò le dita attraverso la barba nera. Sfoderò il coltello e cominciò a lanciarlo in aria e a riafferrarlo con destrezza. Lanciò un’occhiata al mago e smise d’un tratto, allargando le mani.
«Mi spiace, un tic nervoso,» disse sogghignando maligno. «Spero di non averti allarmato. Se ti fa sentire inquieto, posso...»
«Se dovesse rendermi inquieto, posso risolvere il problema,» osservò Raistlin in tono pacato.
«Continua pure.» Fece un gesto. «Provaci.»
Scrollando le spalle, ma sentendosi a disagio sotto lo sguardo di quegli strani occhi che poteva percepire ma non vedere in mezzo alle ombre del cappuccio nero, Argat lanciò il coltello in aria...
Una mano bianca e sottile guizzò fuori dal buio con un movimento serpentino, agguantò il coltello per l’impugnatura, e lo conficcò dentro il tavolo che si trovava fra loro.
Gli occhi di Argat scintillarono. «Magia!» esclamò aspramente.
«Destrezza,» lo contraddisse Raistlin, gelido.
«E adesso,» aggiunse, «vogliamo continuare questa discussione oppure fare questi giochetti nei quali eccellevo nella mia infanzia?»
«Le tue informazioni sono precise,» mormorò Argat, rinfoderando il coltello. «Questo è il piano di Duncan.»
«Bene. Il mio piano è molto semplice. Duncan sarà all’interno della fortezza stessa. Non uscirà sul campo. Darà l’ordine di sbarrare le porte.»
Raistlin riaffondò sulla sua sedia, e congiunse le punte delle dita. «Quando quell’ordine verrà dato, le porte non si chiuderanno.»
«Così facile?» esclamò Argat, beffardo.
«Così facile,» annuì Raistlin. Allargò le mani. «Coloro che dovrebbero chiuderle, moriranno. Tutto quello che dovrete fare sarà tenere aperte le porte soltanto per pochi minuti, per consentirci di assaltarle. Pax Tharkas cadrà. La tua gente deporrà le armi e si offrirà di unirsi a noi.»
«Facile, salvo per un piccolo particolare,» replicò Argat, fissando Raistlin, sarcastico. «Le nostre famiglie a Thorbardin. Che ne sarà di esse, se diventeremo traditori?»
«Niente,» rispose Raistlin. Affondò una mano in una tasca sul fianco e ne tirò fuori una pergamena arrotolata, legata con un nastro nero. «Manderai questa a Duncan.» La porse ad Argat, facendogli un cenno. «Leggila.»
Corrugando la fronte, sempre guardando Raistlin con sospetto, il nano prese il rotolo, lo slegò, e portandolo vicino al cofano pieno di monete, lesse, al fioco, magico bagliore.
Sollevò lo sguardo su Raistlin, stupito. «Questo... questo è nella lingua del mio popolo!»
Raistlin annuì, con una certa impazienza. «Certo, cosa ti aspettavi? Altrimenti Duncan non ci crederebbe.»
«Ma...» disse Argat ad alta voce, «... è una lingua segreta, conosciuta soltanto ai Dewar e a pochi altri, come Duncan, re...»
«Vuoi leggere?» Raistlin fece un gesto d’irritazione. «Non posso aspettare tutta la notte.»
Maledicendo Reorx fra i denti, il nano lesse la pergamena. Gli ci volle parecchio, anche se le parole erano poche. Accarezzandosi la folta barba aggrovigliata, rifletté. Poi, alzandosi, tornò ad arrotolare la pergamena e la tenne nella mano, battendola lentamente sul palmo.
«Hai ragione. Questo risolve tutto.» Tornò a sedersi, i suoi occhi scuri si fissarono sul mago, stringendosi. «Ma voglio che a Duncan venga dato qualcos’altro. Non soltanto una pergamena. Qualcosa... che lo colpisca.»
«Cos’è che colpisce, per la tua razza?» chiese Raistlin, torcendo le labbra. «Qualche dozzina di cadaveri tagliati a pezzi...»
Argat sogghignò. «La testa del vostro generale.»
Vi fu un lungo silenzio. Non un fruscio, o il più piccolo sussurro di tessuto, tradì i pensieri di Raistlin. Parve perfino che avesse smesso di respirare. Il silenzio durò fino a dar l’impressione ad Argat di essere diventato anch’esso un vegetale, tant’era intenso e potente.
Il nano rabbrividì, poi corrugò la fronte. No, si sarebbe attenuto alla sua richiesta. Duncan sarebbe stato costretto a proclamarlo un eroe, come quel bastardo di Kharas.
«D’accordo.» La voce di Raistlin era piatta, priva d’inflessioni e di emozioni. Ma mentre parlava, si sporse sopra il tavolo. Sentendo l’arcimago che si faceva più vicino, Argat si tirò indietro. Adesso poteva vedere quegli occhi luccicanti e le loro gelide profondità, nere e abissali, lo trafissero fin nel cuore stesso del suo essere.
«D’accordo,» ripetè il mago. «Assicurati di mantenere la tua parte del patto.»
Deglutendo, Argat esibì un agro sorriso. «Non sei chiamato l’Oscuro senza motivo, non è vero, amico mio?» disse sforzandosi di continuare a sorridere mentre si alzava dalla sedia, infilandosi la pergamena nella cintura.
Raistlin non rispose, ma un fruscio del cappuccio indicò che aveva udito. Scrollando le spalle, Argat si girò e fece un cenno ai suoi compagni, mostrando con un gesto imperioso il forziere nell’angolo.
Precipitandosi verso di esso, i due nani abbassarono il coperchio e lo chiusero con una chiave che Raistlin aveva tirato fuori dalle pieghe delle sue vesti e aveva loro porto in silenzio.
Malgrado i nani fossero abituati a trasportare senza difficoltà pesanti fardelli, i due nani cacciarono un lieve grugnito quando sollevarono il forziere. Gli occhi di Argat sfavillarono per il piacere.
I due nani precedettero il loro capo fuori della tenda. Tenendo in mezzo il fardello fra loro, si affrettarono verso la sicurezza delle ombre della foresta. Argat li seguì con lo sguardo, poi si voltò verso il mago che era tornato ad essere una pozza di tenebra nella tenebra.
«Non preoccuparti, amico, non verremo meno alla parola data.»
«No, amico,» disse Raistlin. «Non lo farete.»
Argat trasalì. Non gli era piaciuto il tono del mago.
«Vedi, Argat, quel denaro è stato maledetto. Se farete il doppio gioco, tu e chiunque altro toccherà quelle monete vedrà la pelle delle sue mani diventare nera, e subito cominciare a marcire. E una volta che le vostre mani saranno ridotte a una massa di carne fetida, si annerirà la pelle delle vostre braccia e delle vostre gambe. E, lentamente, mentre osserverete impotenti, la maledizione si diffonderà in tutto il vostro corpo. Quando non ce la farete più a reggervi sui vostri piedi putrescenti, allora crollerete al suolo morti.»
Argat produsse un suono strozzato, inarticolato. «Stai... stai mentendo!» riuscì a ringhiare.
Raistlin non disse niente. Per quello che Argat ne sapeva, poteva benissimo essere scomparso dalla tenda. Il nano non riuscì a vedere il mago o anche soltanto a percepire la sua presenza. Quello che invece udì furono le grida e le risate dall’alloggiamento principale, quando la porta si spalancò di colpo. Sgorgò un fiotto di luce, nani e uomini uscirono barcollando all’aria della notte.
Imprecando fra i denti, Argat si affrettò ad allontanarsi.
Ma mentre correva, si asciugò freneticamente le mani sui calzoni.
L’alba. Il sole di Krynn strisciò fuori lentamente dalle montagne, quasi sapesse su quale orrendo spettacolo avrebbe proiettato la sua luce, oggi. Ma non era possibile fermare il tempo. Comparendo finalmente al di sopra delle vette delle montagne, il sole venne accolto da uno scrosciare di applausi e dal cozzare delle spade contro gli scudi da parte di coloro che, forse, contemplavano l’alba per l’ultima volta nella loro vita.
Fra quelli che applaudivano c’era Duncan, Re dei Nani della Montagna, in piedi in cima agli spalti della grande fortezza di Pax Tharkas, circondato dai suoi generali. Duncan sentì la voce profonda e rauca dei suoi uomini levarsi intorno a lui come un’onda di marea e sorrise soddisfatto. Quella sarebbe stata una giornata gloriosa.
Soltanto un nano non applaudiva. Duncan non dovette neppure guardare, per essere consapevole del silenzio che tuonava nel suo cuore con lo stesso fragore con cui gli applausi rimbombavano nelle sue orecchie.
Discosto dagli altri c’era Kharas, eroe dei nani. Alto, splendido nella sua sfolgorante armatura, con il grande martello stretto nelle ampie mani, fissava il sole, e se qualcuno l’avesse guardato, avrebbero visto lacrime colare lungo il suo volto.
Ma nessuno lo guardava. Tutti evitavano con cura di farlo. Non perché piangeva, malgrado le lacrime fossero considerate dai nani una debolezza infantile. No, non era perché Kharas piangeva che tutti distoglievano gli occhi da lui. Era perché, quando le lacrime cadevano, colavano senza ostacoli lungo un volto spoglio.
Kharas si era tagliato la barba.
Proprio mentre Duncan percorreva con lo sguardo le pianure davanti a Pax Tharkas, proprio mentre la sua mente assimilava lo spiegamento e la collocazione delle forze nemiche che si allargavano sui pianori spogli, con le punte delle lance che scintillavano alla luce del sole, il thane poteva ancora sentire gli effetti del trauma sconfinato che quella mattina aveva sopraffatto la sua anima quando aveva visto Kharas prendere posto sugli spalti, il volto nudo. Il nano reggeva fra le mani le lunghe trecce ricciolute della sua magnifica barba e, mentre guardavano inorriditi, Kharas le aveva scagliate fuori dagli spalti.
Una barba è il diritto di nascita di un nano, il suo orgoglio, l’orgoglio della sua famiglia. Un nano, in preda a un profondo dolore, passerà il periodo di lutto senza pettinarsi la barba, ma c’è soltanto una cosa che può indurre un nano a raderla. La vergogna. È il segno del disonore, la punizione inflitta a un assassino, a un codardo, a un disertore.
«Perché?» fu tutto ciò che lo sbalordito Duncan era riuscito a chiedere.
Fissando le montagne, Kharas aveva risposto con una voce che si era rotta, crepandosi come una roccia: «Combatto questa battaglia perché mi hai ordinato di combattere, thane. Ti ho giurato fedeltà e l’onore m’impone di rispettare quell’impegno. Ma, mentre combatto, voglio che tutti sappiano che non trovo nulla di onorevole nell’uccidere i miei consanguinei, e neppure gli umani che, più di una volta, hanno combattuto al mio fianco. Che tutti sappiano che oggi Kharas si batte nella vergogna.»
«Bella considerazione che avranno di te quelli che condurrai in battaglia!» aveva risposto Duncan con amarezza.
Ma Kharas aveva chiuso la bocca, e non aveva voluto aggiungere altro.
«Thane!» gridarono allo stesso tempo parecchi uomini, riportando l’attenzione di Duncan sui pianori. Ma anche lui aveva visto le quattro figure, minuscole come giocattoli a quella distanza, staccarsi dall’esercito e cavalcare verso Pax Tharkas. Tre delle figure impugnavano bandiere svolazzanti. La quarta impugnava soltanto un’asta dalla quale s’irradiava una luce vivida e limpida che poteva esser vista perfino da quella distanza, nella luminosità crescente del giorno.
Naturalmente Duncan riconobbe subito due degli stendardi. Il vessillo dei nani delle colline, con il suo simbolo fin troppo familiare della falce e del martello, che era ripetuto in colori diversi sul suo stesso stendardo. Invece non aveva mai visto prima di allora il vessillo degli uomini delle pianure, ma seppe subito che poteva essere soltanto quello. Era adatto a loro: il simbolo del vento che spazzava la prateria. Suppose che il terzo vessillo appartenesse a quel generale venuto dalla gavetta che era sbucato dal nulla.
«Umpf!» sbuffò Duncan, fissando con disprezzo il vessillo con il suo simbolo della stella a nove punte. «Da tutto quello che abbiamo sentito dire, dovrebbe avere invece uno stendardo con sopra l’insegna della Gilda dei Ladri appaiata con una mucca muggente!»
I generali risero.
«Oppure, rose morte,» suggerì uno di loro. «Ho sentito dire che molti cavalieri rinnegati di Solamnia cavalcano insieme ai ladri e ai contadini.
Le quattro figure galoppavano attraverso la pianura, con gli stendardi che svolazzavano alle loro spalle, gli zoccoli dei loro cavalli sollevavano piccole nuvole di polvere.
«Il quarto, vestito di nero, dovrebbe essere lo stregone, Fistandantilus?» chiese Duncan, burbero, con le folte sopracciglia che si aggrovigliavano al punto da nascondergli quasi del tutto gli occhi. I nani, non avendo nessun talento per la magia, la di sprezzavano, diffidandone più di ogni altra cosa.
«Sì, thane,» rispose un generale.
«Di tutti loro, è quello che temo maggiormente,» borbottò Duncan, cupo.
«Bah!» Un vecchio generale si accarezzò compiaciuto la lunga barba. «Non devi temere lo stregone. Le nostre spie ci dicono che la sua salute è scarsa. Usa di rado la sua magia, sempre che la usi, e passa la maggior parte del tempo a rimuginare nella sua tenda. Inoltre, ci vorrebbe un esercito di stregoni potenti quanto lui per conquistare questa fortezza con la magia.»
«Suppongo che tu abbia ragione,» disse Duncan, sollevando la mano per accarezzarsi la barba.
Intravedendo Kharas con la coda dell’occhio, arrestò la propria mano sentendosi d’un tratto a disagio, e all’improvviso strinse le mani dietro la schiena. «Comunque, continuate a tenerlo d’occhio.» Alzò la voce. «Voi, tiratori scelti: una borsa d’oro a colui la cui freccia alloggerà tra le costole dello stregone!»
Si levò un sonoro evviva che subito si spense quando i quattro si arrestarono davanti alla fortezza.
Il capo, il generale, sollevò la mano con il palmo verso l’esterno nell’antico gesto che indicava la volontà di parlamentare. Percorrendo gli spalti a grandi passi e arrampicandosi su un blocco di pietra che era stato messo lì proprio con quello scopo, Duncan si piantò le mani ai fianchi, allargò le gambe e guardò sotto di sé con occhio torvo.
«Vorremmo parlare!» gridò da sotto il generale Caramon. La sua voce tuonò e rimbalzò tra le mura delle ripide montagne che fiancheggiavano la fortezza.
«Tutto è stato detto!» replicò Duncan. La voce del nano suonò altrettanto poderosa, anche se le sue dimensioni erano all’incirca un quarto di quelle del grosso generale.
«Vi diamo un’ultima possibilità! Restituite ai vostri consanguinei ciò che, come ben sapete, appartiene loro di diritto! Restituite a questi umani ciò che avete loro sottratto. Dividete la vostra immensa ricchezza. Dopotutto, i morti non possono spenderla!»
«No, ma voi vivi trovereste un modo, non è vero?» ribatté Duncan con voce rimbombante, scoppiando in una risata beffarda. «Quello che noi abbiamo, ce lo siamo guadagnato sgobbando onestamente, lavorando nelle nostre case sotto le montagne, non vagando per il paese in compagnia di barbari selvaggi. Ecco la nostra risposta!»
Duncan alzò la mano. I tiratori scelti, pronti e in attesa di quel segnale, tesero le corde dei loro archi. Duncan abbassò di scatto la mano, e un centinaio di frecce sibilarono attraverso l’aria. I nani sugli spalti cominciarono a ridere, sperando di vedere i quattro che giravano i cavalli e fuggivano impazziti per mettersi in salvo.
Ma la risata morì loro sulle labbra. Le quattro figure non si mossero, mentre le frecce descrivevano la parabola verso di loro. Lo stregone dalle Vesti Nere sollevò la mano. Nel medesimo istante la punta di ciascuna freccia esplose in fiamme, le asticelle divennero fumo e, nel giro di pochi istanti, tutte rimpicciolirono fino a scomparire nella vivida luce del mattino.
«E questa è la nostra risposta! » la voce fredda e severa del generale aleggiò verso l’alto, fino a loro. Facendo girare il proprio cavallo, il generale partì al galoppo in direzione delle sue armate, affiancato dallo stregone dalle Vesti Nere, dal nano delle colline e dall’uomo delle pianure.
Poiché udì i suoi uomini borbottare fra loro, e vedendo che si scambiavano occhiate cupe e dubbiose, Duncan soffocò con decisione le proprie momentanee perplessità e si voltò a fronteggiarli, con la barba che gli fremeva per la rabbia.
«Cos’è questa storia?» volle sapere, irato. «Vi siete fatti spaventare dai trucchi di un illusionista da strada? Che cosa guido, un esercito di maschi adulti o di bambini?»
Quando li vide abbassare la testa e arrossire per l’imbarazzo, Duncan scese dal suo podio.
Raggiunto a grandi passi il lato opposto degli spalti, guardò giù nel vasto cortile della poderosa fortezza che era formata non da mura costruite da mano umana ma dalle pareti naturali delle stesse montagne. I fianchi delle montagne erano costellati di caverne. Di solito il fumo e il fragore dei minerali che venivano estratti e trasformati in acciaio sarebbero sgorgati dalle loro imboccature spalancate. Ma oggi le miniere erano chiuse, così come le forge.
Quella mattina il cortile brulicava di nani. Vestiti con le loro pesanti armature, impugnavano scudi, asce e martelli, le armi preferite dalla fanteria. Tutte le teste si levarono alla comparsa di Duncan e gli evviva, che si erano momentaneamente spenti, ricominciarono.
«È la guerra!» urlò Duncan al di sopra del frastuono, alzando le mani.
Gli evviva crebbero, poi cessarono. Dopo un attimo di silenzio, le profonde voci dei nani si levarono in un canto.
Sotto le colline il cuore dell’ascia
si leva dalle ceneri, il nucleo immobile del fuoco,
riscaldato e martellato l’impugnatura un ripensamento,
poiché le colline forgiano il primo alito di guerra.
Il cuore del soldato si apparenta e si affratella col campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.
Fuori dalle montagne nel mezzo dell’aria,
le asce sognano... sognano la roccia,
il metallo vivo attraverso le ere del metallo grezzo.
Pietra sul metallo, metallo sulla pietra.
Il cuore del soldato contiene, e sogna il campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.
Il rosso del ferro immaginato dalla vena,
il giallo dell’ottone, il verde del rame,
sfavilla nel fuoco la forgia del mondo,
consumandosi nel suo sogno mentre si tuffa nella pietra,
e nel cuore del soldato, e così completa il campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.
Con quella canzone che gli elettrizzava il sangue, Duncan sentì svanire i propri dubbi, così come le frecce erano svanite nell’aria immobile. I suoi generali stavano già scendendo dagli spalti affrettandosi ad assumere le loro posizioni. Uno soltanto di loro era rimasto, Argat, generale dei Dewar. Anche Kharas era ancora là. Duncan si girò a fissarlo, e aprì la bocca per parlare.
Ma l’eroe dei nani si limitò semplicemente a guardare il proprio re con un’espressione cupa e ossessionata; poi, dopo essersi inchinato al suo thane, si voltò e seguì gli altri per prendere il proprio posto a capo della fanteria.
Duncan lo fissò incollerito. «Che Reorx possa incendiargli la barba!» borbottò, avviandosi anche lui nella stessa direzione. Sarebbe stato presente all’apertura delle porte, quando il suo esercito si sarebbe messo in marcia verso i pianori. «Chi mai crede di essere? I miei stessi figli non si sarebbero comportati così con me! Questo non deve continuare. Dopo la battaglia, verrà messo al suo posto.»
Continuando a brontolare fra sé, Duncan aveva quasi raggiunto la scala che conduceva in basso, quando sentì una mano sul suo braccio. Sollevando lo sguardo, vide Argat.
«Ti chiedo, Re,» disse il nano nella sua rozza lingua, «di ripensarci. Nostro piano buono. Abbandona inutile grumo di roccia. Lascia che loro abbiano.» Indicò con un gesto gli eserciti fuori sui pianori. «Loro non fortificheranno. Quando noi ritirati a Thorbardin, ci inseguiranno fin dentro i pianori. Poi noi riconquisteremo Pax Tharkas e... bum,» il nano scuro batté le mani chiudendole con uno scatto, «avremo in trappola! Imprigionati fra Pax Tharkas a nord e Thorbardin a sud.»
Duncan fissò, gelido, il Dewar. Argat aveva presentato quella strategia al Consiglio di Guerra, e allora Duncan si era chiesto come fosse riuscito ad elaborarla. Di solito i Dewar s’interessavano poco alle faccende militari, avendo di mira una cosa soltanto: la loro parte di bottino. Era forse opera di Kharas, questo, un ulteriore tentativo di sottrarsi al combattimento?
Duncan scrollò via con rabbia il braccio del Dewar. «Pax Tharkas non cadrà mai!» dichiarò. «La sua strategia è la strategia del codardo. Non cederò nulla a quella marmaglia, neanche un pezzo di rame, neanche un sasso di questo terreno! Piuttosto morirò qui!»
Allontanandosi con passo rimbombante, Duncan discese sferragliando le scale con la barba irta per l’ira.
Seguendolo con lo sguardo, Argat contorse il labbro, sempre sorridendo sardonico: «Forse tu potrai anche morire su questo disgraziato pezzo di roccia, re Duncan. Ma non Argat.» Si voltò verso altri due Dewar che si erano tenuti nell’ombra di un angolo e annuì due volte. I nani annuirono in risposta, poi si affrettarono ad allontanarsi.
In piedi sugli spalti, Argat osservò il sole che saliva sempre di più nel cielo. Preoccupato, cominciò a sfregarsi le mani con fare assente sull’armatura di cuoio, come se cercasse di pulirle.
L’Highgug non ne era sicuro, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.
Anche se non era terribilmente percettivo, e capiva assai poco di complicate tattiche e strategie di guerra, l’Highgug si rese conto tuttavia che dei nani di ritorno vittoriosi dal campo di battaglia non avrebbero rimesso piede nella fortezza barcollando, coperti di sangue, per poi cadere morti ai suoi piedi.
Uno o due avrebbe potuto attribuirli alle fortune della guerra, ma il numero di nani che si comportava in quel modo pareva aumentare a una velocità davvero allarmante. L’Highgug decise di tentar di scoprire quello che stava succedendo.
Fece due passi avanti, poi, udendo il più orrendo baccano immaginabile alle sue spalle, si fermò di colpo. Tirando un profondo sospiro, l’Highgug si voltò. Si era dimenticato della sua compagnia.
«No, no, no!» urlò arrabbiato l’Highgug, agitando le braccia in aria. «Quante volte devo dire? State qui! State qui! Re detto Highgug, “Voi Qua State Qui”. Questo voler dire state Qui! Capito?»
L’Highgug fissò la sua compagnia con occhio severo, inducendo quelli ancora in piedi e capaci di affrontare l’espressione di quell’occhio (l’altro mancava) a tremare per la vergogna. Quei nani dei fossi, lì nella compagnia, che erano inciampati sulle loro picche, quelli che avevano, nella confusione, trafitto per sbaglio un vicino, quelli che giacevano proni al suolo e quelli che avevano compiuto un completo dietrofront e adesso guardavano coraggiosamente in direzione opposta, udirono la voce del loro comandante e tremarono.
«Sentite, verminose teste di fungo,» ringhiò l’Highgug, respirando rumorosamente, «io vado scoprire cosa successo. Non pare giusto. Tutti tornano così in fortezza. Niente cantare, solo sanguinare. Non modo che Re detto a Highgug cose sarebbero state. Così Io Vado. Voi State Qui. Capito? Ripetete.»
«Io Vado.» gli fece eco obbediente la sua truppa. «Voi State Qui.»
L’Highgug si tirò la barba per la disperazione. «No! Io Vado! Voi... Oh, non importa!»
Mentre si allontanava incollerito a grandi passi, sentì di nuovo dietro di sé, ancora una volta, lo sferragliare delle picche che cadevano a terra.
Per fortuna, forse, l’Highgug non dovette andare molto lontano. Altrimenti quando fosse tornato avrebbe trovato morta la metà del suo contingente, i suoi nani infilzati sulle punte delle loro stesse picche.
Così, invece, fu in grado di scoprire quello che gli serviva e tornare dalle sue truppe prima che una mezza dozzina, quanto meno, di loro si ammazzasse per sbadataggine.
L’Highgug aveva fatto soltanto venti passi quando aggirò un angolo e andò quasi a sbattere contro Duncan, il suo re. Duncan non lo notò, poiché gli voltava le spalle. Il re era impegnato in una conversazione con Kharas e molti altri ufficiali comandanti. Affrettandosi a fare un passo indietro, l’Highgug guardò e ascoltò con ansia.
A differenza di molti dei nani che erano tornati dal campo di battaglia, le cui pesanti cotte di maglia erano talmente ammaccate da far quasi pensare che fossero rotolati giù lungo il fianco roccioso d’una montagna, l’armatura di Kharas aveva soltanto due o tre piccole ammaccature. Le braccia dell’eroe erano insanguinate dalle punte delle dita fino ai gomiti, ma era il sangue del nemico, e non il suo che aveva addosso. Pochi erano coloro che potevano resistere ai poderosi colpi del martello che impugnava. Innumerevoli erano i nemici caduti per mano di Kharas, anche se molti si erano chiesti negli ultimi istanti di vita perché mai l’alto nano singhiozzasse amaramente mentre sferrava il colpo fatale. Ma, in quel momento, Kharas non stava piangendo. Le sue lacrime erano completamente scomparse. Stava discutendo con il suo re.
«Siamo stati battuti sul campo, thane,» dichiarò, in tono severo. «Il generale Ironhand ha avuto ragione a ordinare la ritirata. Se vogliamo tenere Pax Tharkas, dobbiamo ritirarci e sbarrare le porte come avevamo progettato. Ricorda, thane. Questo momento non era imprevisto.»
«Ma nondimeno è un momento di vergogna,» ringhiò Duncan, sbottando in un’amara imprecazione. «Battuti da un branco di ladri e di contadini!»
«Quel branco di ladri e di contadini è stato ben addestrato, thane,» replicò Kharas con solennità, e i generali non poterono fare a meno di annuire, approvando a malincuore le sue parole. «Gli uomini delle pianure si gloriano in battaglia e i nostri consanguinei si battono con il coraggio col quale sono nati. E poi sono scesi dalle colline i Cavalieri di Solamnia sui loro cavalli.»
«Devi dare l’ordine, thane!» esclamò uno dei generali. «Oppure dovremo prepararci a morire dove ci troviamo.»
«Chiudete quelle porte maledette da dio, allora!» urlò Duncan, in preda alla collera. «Ma non azionate il meccanismo. No, fino all’ultimo momento possibile. Potrebbe non essercene bisogno. Costerà loro caro cercare di aprire una breccia nelle porte, e voglio essere in grado di uscire di nuovo senza dover sgombrare tonnellate di roccia.»
«Chiudete le porte, chiudete le porte!» echeggiarono molte voci. Tutti, lì nel cortile, i vivi, i feriti, perfino i morenti, girarono la testa per vedere le colossali porte che ruotavano su se stesse per chiudersi. L’Highgug era fra questi e fissava la scena con reverenziale meraviglia. Aveva sentito parlare di quelle grandi porte, di come si muovevano in silenzio sui giganteschi cardini oliati che funzionavano con tanta scorrevolezza da richiedere soltanto due nani su ciascun lato per tirarle e chiuderle.
L’Highgug rimase un po’ deluso quando sentì che il congegno per far crollare le rocce non sarebbe stato azionato. La vista di tonnellate di frammenti di montagna che rotolavano giù per bloccare le porte era qualcosa che gli dispiaceva perdersi. Comunque, ci sarebbe stato ugualmente da divertirsi.
Allo spettacolo successivo l’Highgug trattenne il respiro fin quasi a soffocare. Guardando la porta, poteva vedere al di là di essa, e ciò che vide era paralizzante.
Un immenso esercito si stava precipitando verso di lui. E non era il suo esercito!
Questo, allora, significava che doveva trattarsi dell’esercito del nemico, decise dopo qualche istante di profonde riflessioni, essendoci, per quanto lui ne sapeva, soltanto due fazioni in quel conflitto: la sua e la loro.
Il sole di mezzogiorno risplendeva vivido sulle armature dei Cavalieri di Solamnia, lampeggiava sui loro scudi e traeva barbagli dalle loro spade sguainate. Più lontano, dietro i cavalieri, stava arrivando di corsa la fanteria. L’esercito di Fistandantilus si stava avventando verso la fortezza, sperando di raggiungerla prima che le porte potessero venir chiuse completamente e bloccate. Quei pochi nani delle montagne abbastanza coraggiosi per contrastare il nemico vennero abbattuti dall’acciaio balenante e calpestati dagli zoccoli spietati.
Il nemico si stava avvicinando sempre di più. L’Highgug deglutì nervosamente. Non ne sapeva molto di manovre militari, ma gli parve che quello sarebbe stato un momento eccellente perché le porte si chiudessero del tutto. Pareva che anche i generali la pensassero nell’identico modo, poiché adesso correvano tutti in quella direzione, gridando e urlando.
«In nome di Reorx, ma quanto tempo ci mettono...» cominciò a dire Duncan. D’un tratto, Kharas impallidì.
«Duncan,» disse con calma glaciale, «siamo stati traditi. Devi andartene subito.»
«Co... cosa?» balbettò Duncan, sbalordito. Rizzandosi in punta di piedi, si sforzò invano di vedere al di là della folla che turbinava nel cortile. «Traditi! Ma come...»
«I Dewar, mio thane,» gli spiegò Kharas, il quale, grazie alla sua statura, era in grado di vedere quello che stava accadendo. «A quanto pare hanno assassinato i guardiani delle porte e adesso combattono per tenerle aperte.»
«Uccideteli!» La bocca di Duncan schiumava per la collera, la saliva gli sgocciolava lungo la barba. «Uccideteli tutti!» Il re dei nani sfoderò la spada e balzò in avanti. «Io personalmente...»
«No, thane!» Kharas lo afferrò, trascinandolo indietro. «È troppo tardi. Vieni, dobbiamo raggiungere i grifoni... Devi tornare a Thorbardin, mio Re!»
Ma Duncan non era disposto a intender ragione. Lottò ferocemente contro Kharas. Alla fine il nano più giovane, cupo in volto, serrò il pugno e colpì il suo re in pieno mento. Duncan incespicò all’indietro, barcollando sotto il colpo, ma non crollò a terra.
«Avrò la tua testa per questo!» imprecò il re, cercando debolmente di afferrare l’elsa della sua spada. Ma un altro pugno di Kharas completò l’opera. Duncan cadde lungo disteso al suolo e giacque là senza più muoversi.
Kharas, con un’espressione addolorata sul volto, si chinò, sollevò il suo re, con l’armatura, la cotta di maglia e tutto il resto, e con un grugnito si mise in spalla il nano tozzo e massiccio. Chiamando alcuni fra gli altri nani ancora in grado di reggersi e di combattere, perché lo coprissero, Kharas si affrettò a raggiungere i grifoni in attesa, con il re esanime di traverso sulla sua spalla, le braccia penzoloni.
L’Highgug fissava l’avanzare dell’esercito nemico affascinato e inorridito. Più e più volte echeggiò nella sua mente l’ultimo ordine che Duncan gli aveva impartito: «Tu Stai Qui.»
Ora, ciò che l’Highgug intendeva fare, era voltarsi e tornare di corsa verso la sua truppa.
Malgrado i nani dei fossi avessero la reputazione ben meritata di essere la razza più codarda di tutto Krynn, potevano, se messi con le spalle al muro, combattere con tanta ferocia da sbalordire il nemico.
La maggior parte degli eserciti usava i nani dei fossi soltanto in posizione di appoggio, tenendoli quanto più possibile in retroguardia, dal momento che c’erano possibilità quasi pari che un reggimento di nani dei fossi infliggesse alla propria fazione gli stessi danni che infliggeva al fronte avversario e magari di più.
Così, Duncan aveva dispiegato l’unico distaccamento di nani dei fossi attualmente residente a Pax Tharkas (erano ex minatori) al centro del cortile, ingiungendo loro di rimaner là, calcolando che quello sarebbe stato il modo migliore per tenerli lontani dai guai. Aveva dato loro delle picche nell’improbabile eventualità che il nemico avesse fatto irruzione dalle porte con una carica di cavalleria.
Ma era proprio questo che stava accadendo. E, vedendo l’Esercito di Fistandantilus che stava arrivando loro addosso, sapendo di essere intrappolati e sconfitti, tutti i nani di Pax Tharkas erano piombati nella confusione.
Pochi erano quelli che avevano mantenuto il sangue freddo. I tiratori scelti, sugli spalti, facevano piovere nugoli di frecce sul nemico avanzante, facendolo rallentare un po’. Parecchi comandanti stavano radunando i propri reggimenti, preparandosi a combattere durante la ritirata fra le montagne. Ma la maggior parte stava scappando per mettersi al riparo fra le colline circostanti.
E ben presto soltanto un gruppo rimase ad ostacolare il passo all’esercito nemico: i nani dei fossi.
«Ci siamo!» si affrettò a gridare l’Highgug ai suoi, quando tornò indietro ansimando e sbuffando.
Sotto la sporcizia il suo volto era bianco, però lui era calmo e composto. Gli era stato detto di Stare Là, e, per la barba di Reorx, sarebbe Stato Là.
Ma, nel vedere che la maggior parte dei suoi stava cercando di squagliarsela, con gli occhi sgranati alla vista dei cavalli che, avanzando col fragore del tuono, erano ormai vicini alle porte aperte, l’Highgug decise che era indispensabile qualcosa per tirare un po’ su il morale.
Avendoli addestrati proprio per una circostanza come quella, l’Highgug aveva anche insegnato alle sue truppe un canto di guerra, e ne era assai orgoglioso. Sfortunatamente, non erano ancora riusciti a impararlo nella maniera giusta.
«Ora,» urlò, «cosa mi date?»
«La Morte!» gridarono allegramente i suoi, all’unisono.
All’Highgug vennero i brividi. «No, no, no!» urlò, in preda all’esasperazione, pestando i piedi per terra. I suoi si guardarono l’un l’altro, dolenti. «Ve lo dirò io, brutte teste fungose! E...»
«Eterna Fedeltà!» gridò all’improvviso uno di loro, trionfante.
Gli altri lo fissarono, accigliati, borbottando «brutto ruffiano...» Un vicino, ingelosito, giunse perfino a pungolarlo sulla schiena con una picca. Per fortuna, era l’estremità del manico (l’impugnava alla rovescia), altrimenti avrebbe potuto procurargli un danno serio.
«Proprio così,» dichiarò l’Highgug, cercando di non prestare troppa attenzione al fatto che il trepestio degli zoccoli stava crescendo sempre più d’intensità alle sue spalle. «Adesso, proviamo di nuovo. Cosa mi date?»
«E... eter... na... fé... fé... deità!» Ebbe un suono piuttosto forzato, molti continuavano a inciampare in quelle difficili parole. Certo, sembrava mancare l’entusiastico vigore del primo.
In fondo al gruppo, qualcuno alzò la mano.
«Ah, cosa c’è, Gug Snug?» ringhiò l’Highgug.
«Noi dovere dare... eterna fedel... tà quando morti?»
L’Highgug lo fissò, infuriato, con l’unico occhio sano.
«No, testa di rapa!» sbottò, digrignando i denti. «Morte o fedeltà eterna. Qualsiasi cosa arrivi prima.»
Immensamente rincuorati da questa precisazione, i nani dei fossi sogghignarono.
L’Highgug, scuotendo la testa e borbottando, si girò per affrontare il nemico. «Preparate le picche!» gridò.
Fu un errore, e Io capì nel medesimo istante in cui pronunciava quelle parole, udendo il terrificante scompiglio, la confusione e le imprecazioni (e qualche gemito di dolore) che si levarono alle sue spalle.
Ma, a quel punto, non aveva più importanza...
Il sole tramontò in una foschia rosso sangue, sprofondando dietro la silenziosa foresta di Qualinesti.
Su tutta Pax Tharkas regnava la quiete, la poderosa, imprendibile fortezza era caduta appena dopo mezzogiorno. Nel pomeriggio c’era stata qualche scaramuccia per eliminare le ultime sacche di resistenza dei nani che si stavano ritirando, combattendo, verso le montagne. Molti erano riusciti a fuggire perché la carica dei cavalieri era stata efficacemente frenata da un piccolo gruppo di picchieri, che non avevano ceduto d’un passo quando le porte erano state violate, rifiutandosi cocciutamente di muoversi.
Kharas, sorreggendo il re privo di sensi fra le braccia, tornò in volo a Thorbardin con il grifone, accompagnato dagli ufficiali di Duncan ancora in vita.
Il resto dell’esercito dei nani delle montagne, che si trovavano cornea casa propria nelle caverne e fra le rocce dei passi coperti di neve, stava anch’esso dirigendosi verso Thorbardin. I Dewar, che avevano tradito i loro consanguinei, stavano bevendo la birra catturata a Duncan e si vantavano delle loro gesta, mentre la maggior parte dell’esercito di Caramon li guardava con disgusto.
Mentre il sole stava tramontando, il cortile della fortezza era pieno di nani e di uomini che celebravano la loro vittoria, e di ufficiali che cercavano invano di arrestare la marea di ubriachezza che minacciava di travolgere tutti. Urlando, minacciando, e spaccando qualche testa, riuscirono a trascinar via un numero sufficiente di combattenti da mettere di sentinella e formare delle squadre di addetti alle sepolture.
Crysania aveva passato la prova del sangue. Malgrado fosse stata tenuta ben lontana dalla battaglia da un guardingo Caramon, era riuscita, una volta entrati nella fortezza, a eluderlo. Adesso, avvolta in un mantello e incappucciata, passava da un ferito all’altro, guarendo furtivamente quelli che poteva senza richiamare su di sé un’attenzione indesiderata. E, molti anni dopo, i sopravvissuti avrebbero raccontato la storia ai loro nipoti, sostenendo di aver visto una figura vestita di bianco che portava una luce splendente intorno al collo, e aveva appoggiato su di loro le sue mani gentili portando via il dolore.
Nel frattempo, Caramon aveva riunito i suoi ufficiali in una stanza di Pax Tharkas, per mettere a punto la loro strategia, anche se l’omone era esausto al punto da riuscire a stento a pensare in maniera coerente.
Così, pochi videro la solitaria figura abbigliata di nero varcare le porte aperte di Pax Tharkas.
Cavalcava un irrequieto cavallo nero che si adombrava all’odore del sangue. Fermandosi per un istante, la figura pronunciò alcune parole rivolgendosi al suo destriero, dando l’impressione di riuscire a calmare l’animale. Quelli che videro la figura si fermarono un attimo, in preda al terrore, molti avendo l’impressione, causata dalla febbre o dalla sbornia, che si trattasse della morte in persona venuta a raccogliere quelli che non erano stati ancora sepolti.
Poi qualcuno borbottò: «Lo stregone», e allora tutti si allontanarono, dando in una risata tremante o in un sospiro di sollievo.
Con gli occhi oscurati dalle profondità del suo cappuccio nero, ma osservando attentamente tutto quello che gli stava intorno, Raistlin avanzò finché non arrivò allo spettacolo più straordinario di tutto il campo di battaglia: i corpi di cento e più nani dei fossi che giacevano (per la maggior parte) in file ordinate e sovrapposte. Molti stringevano ancora saldamente la picca (parecchi all’incontrano) nelle mani morte. Però, fra loro giacevano anche alcuni cavalli che erano stati feriti (in genere accidentalmente) dagli affondo e dai fendenti vibrati alla disperata dai nani dei fossi. Era stato notato, quando i cavalli erano stati trascinati via, che più di un animale aveva segni di denti nelle zampe anteriori. Alla fine i nani dei fossi avevano lasciato cadere le inutili picche per combattere come meglio sapevano fare: con le unghie e coi denti.
«Questo non risulta dai documenti storici,» mormorò Raistlin fra sé, fissando quei piccoli, miserevoli corpi, accigliandosi. I suoi occhi lampeggiarono. «Forse,» mormorò, «questo significa che il tempo è stato alterato?»
Rimase immobile a riflettere per lunghi momenti. Poi d’un tratto capì.
Nessuno vide il volto di Raistlin, nascosto com’era dal cappuccio, altrimenti avrebbe notato un improvviso, rapido spasimo di rabbia e di dolore.
«No,» disse fra sé con amarezza, «il penoso sacrificio di queste povere creature è stato lasciato fuori dai libri di storia non perché non sia successo. È stato lasciato fuori semplicemente perché...»
S’interruppe per qualche istante, fissando con espressione cupa quei piccoli corpi frantumati, «... perché non importava a nessuno.».
«Devo vedere il generale!» La voce penetrò la soffice, calda nube di sonno che avvolgeva Caramon come la coperta del letto imbottita di piume, il primo vero letto nel quale avesse dormito da molti mesi a questa parte.
«Vai via,» mugugnò Caramon, e sentì Garic dire la stessa cosa, o qualcosa di molto simile...
«Impossibile. Il generale sta dormendo. Non dev’essere disturbato.»
«Devo vederlo. È urgente!»
«Non ha dormito per quasi quarantotto ore...»
«Lo so! Ma...»
Le voci si fecero sommesse. Bene, pensò Caramon, adesso posso tornare a dormire. Ma scoprì, per sua sfortuna, che quelle voci sommesse lo svegliavano ancora di più. Capì subito che qualcosa non andava. Con un gemito rotolò su se stesso, trascinandosi il cuscino sopra la testa. Non c’era muscolo del suo corpo che non gli facesse male; era rimasto in sella per quasi diciotto ore senza mai riposare. Certamente Garic avrebbe potuto risolvere il...
La porta della stanza si aprì con un lieve fruscio.
Caramon strinse le palpebre con forza, sprofondando ancora di più nel letto di piume. Gli venne in mente, mentre lo faceva, che fra un paio di centinaia d’anni Verminaard, il malvagio Signore dei Draghi, avrebbe dormito in quello stesso letto. La mattina in cui gli Eroi avrebbero liberato gli schiavi di Pax Tharkas, qualcuno forse l’avrebbe svegliato in quel modo?
«Generale,» si fece udire la voce sommessa di Garic. «Caramon.»
Un’imprecazione borbottata si levò dal cuscino.
Forse, quando me ne andrò, metterò una rana nel letto, pensò Caramon con cattiveria. Fra duecento anni sarebbe stata rigida al punto giusto...
«Generale,» insistè Garic. «Mi spiace sinceramente svegliarti, signore, ma è necessaria la tua immediata presenza nel cortile.»
«E per cosa mai?» ringhiò Caramon, buttando via le coperte e rizzandosi a sedere, sussultando per il dolore che avvertì alle cosce e alla schiena. Si sfregò gli occhi, poi fissò Garic.
«L’esercito, signore. Se ne sta andando.»
Caramon lo fissò. «Cosa? Sei matto.»
«No, s... signore,» balbettò un giovane soldato che era strisciato dietro a Garic e adesso si trovava alle sue spalle, gli occhi spalancati per la meraviglia di trovarsi in presenza del suo comandante, malgrado il generale fosse nudo e sveglio soltanto a metà. «S... si stanno radunando a... adesso nel cortile, signore. I nani e gli uomini delle pianure e... e alcuni dei nostri.»
«Non i Cavalieri,» si affrettò ad aggiungere Garic.
«Bene, oh, bene...» balbettò Caramon, poi agitò la mano. «Di’ loro che si disperdano, dannazione! Questa è un’enorme sciocchezza.» Imprecò. «In nome degli dei, tre quarti di loro erano ubriachi fradici, stanotte!»
«Sono sobri quel che basta, stamattina, signore. E credo che tu dovresti venire,» aggiunse Garic con voce sommessa. «È tuo fratello a condurli.»
«Cosa significa questo?» volle sapere Caramon, il suo respiro generava tante nuvolette bianche nell’aria gelida. Era la più fredda mattina d’autunno. Un sottile strato di brina ricopriva le pietre di Pax Tharkas, cancellando misericordiosamente le macchie rosse della battaglia. Avvolto in uno spesso mantello, con addosso soltanto le brache e gli stivali che si era infilati in fretta e furia, Caramon lanciò un’occhiata al cortile, tutt’intorno a sé. Era affollato di nani e di uomini, tutti in fila, torvi e silenziosi, in attesa dell’ordine di mettersi in marcia. Lo sguardo severo di Caramon si appuntò su Reghar Fireforge, poi si spostò su Darknight, capo degli uomini delle pianure.
«Ne abbiamo discusso ieri,» continuò Caramon. Con la voce tesa per la rabbia a stento trattenuta, si fermò davanti a Reghar. «Ci vorranno altri due giorni perché i nostri carri con i rifornimenti ci raggiungano. Qui non è rimasto abbastanza cibo per metterci in marcia, me l’avete detto voi stessi, ieri sera. E non troverete neppure un coniglio sui Pianori di Dergoth...»
«Non c’importa saltare qualche pasto,» grugnì Reghar, la sua enfasi sul «ci» non lasciava alcun dubbio sul significato delle sue parole. Era ben noto l’amore di Caramon per i suoi pasti.
Questo non contribuì in nessun modo a migliorare l’umore del generale.
Caramon arrossì, poi: «E le armi, sciocco dalla lunga barba?» sbottò. «E l’acqua, un riparo, il cibo per i cavalli?»
«Non resteremo più a lungo sui Pianori,» ribatté Reghar, con un balenio negli occhi. «I nani delle montagne, che Reorx maledica il loro cuore di pietra, sono in preda alla confusione. Dobbiamo colpire subito, prima che riescano a riorganizzare le loro forze. »
«Ne abbiamo già discusso ieri sera!» urlò Caramon, esasperato. «Quella che abbiamo affrontato qui era soltanto una parte delle loro forze. Duncan ha un altro intero esercito ad attendervi sotto la montagna!»
«Forse. O forse no,» ringhiò Reghar, imbronciato, guardando fisso verso sud e incrociando le braccia. «In ogni caso, abbiamo cambiato idea. Ci metteremo in marcia quest’oggi... con o senza di te.»
Caramon lanciò un’occhiata a Darknight, il quale era rimasto zitto durante tutta l’animata conversazione. Il capo degli uomini delle pianure si era limitato ad annuire soltanto una volta. I suoi uomini, dietro di lui, aspettavano, severi e silenziosi, anche se qua e là Caramon aveva potuto vedere qualche faccia verdastra, la quale stava a indicare che molti non si erano ancora del tutto ripresi dai festeggiamenti della notte precedente.
Alla fine lo sguardo di Caramon si spostò su una figura abbigliata di nero in groppa a un cavallo nero. Malgrado gli occhi della figura fossero oscurati dal cappuccio nero, Caramon aveva percepito il loro sguardo intenso e divertito sin da quando era uscito dalla porta della gigantesca fortezza.
Voltando d’un tratto le spalle al nano, Caramon si avvicinò a Raistlin. Non fu sorpreso di trovare Dama Crysania sul suo cavallo, infagottata in un pesante mantello. Quando si avvicinò, ebbe modo di notare che l’orlo in basso del suo mantello da chierico era coperto da macchie scure di sangue. Il suo volto, appena visibile sopra una sciarpa che si era avvolta intorno al collo e al mento, era pallido ma composto. Per un attimo, Caramon si chiese dove fosse mai stata Crysania, e cosa avesse fatto durante quella lunga notte. Tuttavia, i suoi pensieri erano concentrati adesso sul suo gemello.
«Questa è opera tua,» disse a bassa voce, avvicinandosi a Raistlin e appoggiando una mano sul collo del cavallo nero.
Raistlin annuì compiaciuto, sporgendosi in avanti sopra il pomo della sella, per parlare con suo fratello. Caramon potè vedere la sua faccia, fredda e bianca come la brina sul selciato sotto i loro piedi. «Cosa ti è saltato in mente?» volle sapere Caramon, sempre a bassa voce. «Di che si tratta? Tu sai che non possiamo metterci in marcia senza rifornimenti!»
«Stai giocando troppo sul sicuro, fratello mio,» replicò Raistlin.
Scrollò le spalle, e aggiunse: «Il convoglio dei rifornimenti ci raggiungerà. In quanto alle armi, gli uomini ne hanno raccolte un gran numero qui, dopo la battaglia. Reghar ha ragione, dobbiamo affrettarci a colpire prima che Duncan faccia in tempo a riorganizzarsi.»
«Avresti dovuto discutere di questo con me!» grugnì Caramon, serrando il pugno. «Sono io il comandante!»
Raistlin guardò altrove, spostandosi leggermente sulla sella. Caramon, trovandosi vicino a lui, sentì il corpo di suo fratello rabbrividire sotto le vesti nere. «Non ce n’è stato il tempo,» disse infine l’arcimago, dopo un lungo istante. «Questa notte ho fatto un sogno, fratello mio. Lei è venuta a me, la mia Regina... Takhisis... È d’assoluta importanza che io raggiunga Zhaman quanto prima possibile.»
Caramon fissò suo fratello con silenziosa, improvvisa comprensione. «Non significano niente per te?» disse con voce sommessa, indicando con un gesto gli uomini e i nani in attesa, alle sue spalle.
«A te interessa una cosa soltanto: raggiungere il tuo prezioso Portale!» Spostò lo sguardo amareggiato su Crysania, che lo guardava con calma, anche se i suoi occhi grigi erano seri e annebbiati da una notte insonne, piena di orrori, passata tra i feriti e i morenti. «Anche tu? Anche tu lo appoggi?»
«La prova del sangue, Caramon,» lei replicò con voce sommessa. «Dev’essere fermata per sempre. Ho visto il male supremo che l’umanità può infliggere a se stessa.»
«Proprio me lo chiedo!» borbottò Caramon, lanciando un’occhiata al suo gemello.
Alzando le mani sottili, Raistlin tirò lentamente indietro le pieghe del suo cappuccio, lasciando visibili gli occhi. Caramon si ritrasse, vedendosi riflesso in quella superficie piatta, l’immagine della sua stessa faccia: smunta, incolta, i capelli scarmigliati che sbattevano al vento. E poi, mentre Raistlin lo fissava, trattenendolo con uno sguardo intenso, allo stesso modo in cui un serpente ammalia un uccello, delle parole echeggiarono nella sua mente:
Tu mi conosci bene, fratello mio. Il sangue che scorre nelle nostre vene qualche volta parla più fotte delle parole. Sì, hai ragione, non me ne importa nulla di questa guerra. L’ho combattuta per uno scopo soltanto, che è quello di raggiungere il Portale. Questi sciocchi mi condurranno fin laggiù. AI di là di quel punto, cosa m’importa se vinciamo o perdiamo?
Ti ho consentito di giocare a fare il generale, Caramon, dal momento che il tuo giochino pareva piacerti. E, in effetti, ti riesce sorprendentemente bene. Hai servito il mio scopo in maniera adeguata. Mi servirai ancora. Condurrai l’esercito fino a Zhaman. Una volta che Dama Crysania ed io saremo laggiù sani e salvi, ti manderò a casa. Ricorda questo, fratello mio: la battaglia dei Pianori di Dergoth è stata perduta! Questo, tu non potrai cambiarlo!
«Non ti credo!» disse Caramon, con voce impastata, fissando Raistlin con occhi spiritati. «Tu non andresti verso la tua stessa morte! Devi sapere qualcosa! Devi...»
A questo punto Caramon soffocò, mezzo strozzato. Raistlin si avvicinò ancora di più a lui, dando l’impressione di succhiargli le parole dalla gola.
Le informazioni appartengono a me soltanto! Quello che io so o non so, non ti riguarda, perciò non tormentare il tuo cervello con inutili congetture.
«Lo dirò a tutti loro!» ringhiò Caramon, a denti stretti. «Dirò loro la verità!»
Dirai loro che cosa? Che hai visto il futuro? Che sono condannati a morire? Vedendo la lotta sul volto angosciato di Caramon, Raistlin sorrise. Credo proprio di no, fratello mio. E adesso, se vorrai tornare di nuovo a casa tua, ti suggerisco di tornare di sopra, d’infilarti l’armatura e guidare il tuo esercito.
L’arcimago sollevò le mani e tornò ad abbassare il cappuccio sopra gli occhi. Caramon inspirò, boccheggiando come se qualcuno gli avesse gettato dell’acqua fredda in faccia. Per qualche istante riuscì soltanto a starsene là immobile a fissare il suo gemello, tremando in preda a una collera che quasi lo travolse.
In quel momento, il suo unico pensiero era Raistlin... che rideva con lui accanto all’albero...
Raistlin che stringeva in mano il coniglio... Il cameratismo fra loro era stato qualcosa di assai concreto. Era pronto a giurarlo! Eppure, anche questo era reale. Reale e freddo e tagliente come una lama di coltello che scintillava alla chiara luce del mattino.
E, lentamente, la luce di quel coltello cominciò a penetrare le nubi di confusione, recidendo un altro dei legami che lo univano a suo fratello.
Il coltello si muoveva lentamente. C’erano molti legami da tagliare.
Caramon si rese conto che il primo aveva ceduto nell’arena intrisa di sangue di Istar. E sentì un altro legame troncarsi netto mentre fissava suo fratello in quel cortile coperto di brina di Pax Tharkas.
«Pare che io non abbia altra scelta,» esclamò, con le lacrime di rabbia e di dolore che offuscavano l’immagine di suo fratello.
«Nessuna,» confermò Raistlin. Afferrò le redini e si preparò ad allontanarsi in sella al suo cavallo.
«Ci sono cose di cui mi devo occupare. Naturalmente Dama Crysania cavalcherà con te, fra le avanguardie. Non aspettarmi, io rimarrò indietro per un po’.»
E così, sono congedato, si disse Caramon. Seguendo con lo sguardo suo fratello che si allontanava, non provò più nessuna sensazione di rabbia, soltanto una sofferenza sorda e tormentosa. Una volta aveva sentito dire che un arto amputato si lasciava alle spalle un dolore fantasma simile a quello vero...
Girando sui tacchi, percependo più che udendo, il pesante silenzio che era calato sul cortile, il generale raggiunse da solo i suoi alloggi e, con misurata lentezza, cominciò a infilarsi l’armatura.
Quando Caramon tornò, vestito della sua familiare armatura dorata, il mantello svolazzante al vento, i nani e gli uomini delle pianure e gli uomini del suo stesso esercito levarono la voce in un rimbombante evviva.
Non soltanto ammiravano e rispettavano genuinamente Pomone, ma tutti gli attribuivano la brillante strategia che li aveva condotti alla vittoria il giorno prima. Il generale Caramon era fortunato, dicevano... era benedetto da qualche dio. Dopotutto, non era stata la fortuna che aveva trattenuto la mano dei nani, impedendo che chiudessero le porte?
Molti si erano sentiti a disagio quand’era corsa la voce che sarebbero partiti senza di lui. Molte occhiate torve erano state lanciate allo stregone vestito di nero. Ma chi mai avrebbe osato esprimere ad alta voce la propria opinione?
Quegli evviva furono d’immenso conforto per Caramon e, per qualche istante, non riuscì a dire niente. Poi, ritrovata la voce, impartì burberamente gli ordini, mentre si preparava a partire.
Con un gesto, Caramon chiamò a sé uno dei più giovani cavalieri.
«Michael, ti lascio qui a Pax Tharkas, in comando,» gli disse, mentre s’infilava un paio di guanti. Il giovane cavaliere arrossì di piacere a quell’inatteso onore, guardando allo stesso tempo dietro di sé lo spazio che la sua partenza lasciava tra le file.
«Signore, io sono soltanto di basso grado... Certamente, qualcuno più qualificato...»
Sorridendogli con tristezza, Caramon scosse la testa. «Conosco le tue capacità, Michael. Non ricordi? Eri pronto a morire pur di ubbidire a un ordine, e hai trovato la compassione necessaria a disobbedirlo. Non sarà facile, qui. Ma fai del tuo meglio. Le donne e i bambini rimarranno qui con te, naturalmente. E manderò indietro chiunque rimanga ferito. Quando arriverà il convoglio dei rifornimenti, accertati che venga fatto proseguire quanto più rapidamente possibile.» Scosse la testa.
«Non che sia probabile che ciò avvenga presto,» borbottò. Sospirando, aggiunse: «Forse potrai resistere qui per tutto l’inverno, se sarà necessario. Non importa ciò che potrà accadere a noi...»
Vedendo i cavalieri che si scambiavano sguardi perplessi e preoccupati, Caramon troncò d’un tratto la frase. No, non doveva in alcun modo consentire che la sua amara precognizione trasparisse.
Perciò, fingendo allegria, strinse la spalla di Michael e aggiunse qualche futile parola ardimentosa, poi salì in groppa al suo cavallo tra grida di sfrenato entusiasmo.
Le grida crebbero ancora di più quando il portabandiera innalzò il vessillo dell’esercito. Lo stendardo di Caramon, con la sua stella a nove punte, sfavillò al sole. I suoi cavalieri si disposero in ranghi serrati dietro di lui. Crysania arrivò per cavalcare insieme a loro e i Cavalieri si divisero, con la consueta cortesia, per consentirle di prendere il suo posto. Anche se i Cavalieri non sapevano cosa farsene di una strega, come chiunque altro al campo, si trattava, dopotutto, di una donna e il Codice chiedeva loro di proteggerla, anche a costo della vita.
«Aprite le porte!» gridò Caramon.
Spinte da mani bramose, le porte si spalancarono. Lanciando un’ultima, ampia occhiata all’intorno, per accertarsi che tutto fosse pronto, gli occhi di Caramon s’incontrarono, d’un tratto, con quelli del suo gemello.
Raistlin era in groppa al suo cavallo nero all’ombra delle grandi porte, Non si muoveva né parlava.
Si limitava a starsene seduto ad osservare, in attesa.
I due gemelli si fissarono intensamente quel tanto che bastava per spartire un respiro simultaneo, poi Caramon girò la testa in un’altra direzione.
Protese un braccio e afferrò l’asta del suo stendardo, togliendola al portabandiera. Issando lo stendardo alto sopra la sua testa, gridò una sola parola: «Thorbardin!» Il sole del mattino, che stava giusto levandosi da sopra i picchi, arse dorato sull’armatura di Caramon. Sfavillò dorato sui fili che formavano la stella raffigurata sul vessillo, luccicò dorato sulle punte delle lance tra le lunghe file di soldati alle sue spalle.
«Thorbardin!» gridò ancora una volta Caramon e, spronando il suo cavallo, uscì al galoppo dalle porte.
«Thorbardin!» Un risuonare di urla e un cozzare di spade contro gli scudi fecero eco al suo grido. I nani intonarono con voce gutturale il loro familiare e arcano salmodiare: «Pietra e metallo, metallo e pietra, pietra e metallo, metallo e pietra,» accompagnandolo con il battito dei loro piedi calzati di ferro in un ritmo esaltante mentre marciavano fuori dalla fortezza, disposti in rigide file.
Li seguirono gli uomini delle pianure che si muovevano in maniera meno ordinata. Avvolti nei loro mantelli di pelliccia per proteggersi dal gelo, avanzavano senza fretta, arrotando le armi, con penne legate tra i capelli, oppure con strani simboli dipinti sui loro volti. Ben presto, stanchi di quel rigido spiegamento, sarebbero usciti dalla strada per viaggiare alla loro usuale maniera, in branchi di cacciatori.
Dopo i barbari, venne rannata di Caramon costituita da contadini e da ladri, non pochi fra loro barcollavano per i postumi della festa della vittoria, la sera prima. E, infine, la retroguardia era formata dai loro nuovi alleati, i Dewar.
Argat cercò di attirare l’attenzione di Raistlin, quando lui e i suoi sfilarono fuori dalla fortezza, ma lo stregone continuò a rimanere seduto avvolto nelle vesti nere, sul suo cavallo nero, il volto nascosto nell’ombra. L’unica parte di carne e di sangue visibile della sua persona erano le mani bianche e sottili che reggevano le redini del suo destriero.
Gli occhi di Raistlin non erano sul Dewar, e neppure sull’esercito che stava marciando davanti a lui.
Erano sulla scintillante figura dorata che cavalcava alla testa dell’armata. E ci sarebbe voluto un occhio più acuto di quello del Dewar per notare che le mani dello stregone stringevano le redini con forza innaturale o che le vesti nere avevano tremato, soltanto per un attimo, come a causa d’un sommesso sospiro.
I Dewar uscirono a passo di marcia, e il cortile rimase vuoto, salvo per i civili al seguito. Le donne si asciugarono le lacrime e, chiacchierando, tornarono ai loro compiti. I bambini si arrampicarono sulle mura per acclamare l’esercito, fintanto che rimaneva visibile. E infine le porte di Pax Tharkas tornarono a chiudersi, ruotando scorrevoli e silenziose, sui loro cardini ben oliati.
Immobile, da solo, sugli spalti Michael seguì con lo sguardo il grande esercito che avanzava verso sud come un’onda di marea, con le punte delle lance che risplendevano al sole del mattino, l’alito caldo che si levava come tante nuvolette di nebbia, il salmodiare dei nani che echeggiava ancora, in distanza, in mezzo alle montagne.
Dietro di loro cavalcava una figura solitaria ammantata di nero. Fissando quella figura, Michael si sentì incoraggiato. Pareva un buon presagio. Adesso la morte cavalcava dietro l’esercito invece che davanti ad esso.
Il sole aveva illuminato col suo bagliore l’apertura delle porte di Pax Tharkas; adesso tramontava sulla chiusura delle porte della grande fortezza montana di Thorbardin. Mentre il meccanismo idraulico che faceva funzionare le porte gemeva e sibilava, parte della montagna stessa parve scivolare di nuovo al suo posto obbedendo a un ordine. In effetti, quando le porte erano chiuse e sigillate, era impossibile distinguerle dalla parete di roccia della montagna stessa, talmente era stata grande la maestria dei nani, che avevano impiegato anni a costruirle.
La chiusura delle porte significava guerra. La notizia dell’avanzata dell’esercito di Fistandantilus era già arrivata, portata da spie sulle veloci ali dei grifoni. Adesso la fortezza montana era un brulicare di attività. Le faville sprizzavano nelle officine degli armaioli che finivano per addormentarsi col martello in mano. Le taverne raddoppiarono i loro affari durante la notte, quando tutti venivano a vantarsi delle grandi gesta che avrebbero compiuto sul campo di battaglia.
Soltanto una parte dell’immenso regno sotterraneo era tranquilla, e fu verso questo luogo che l’eroe dei nani si avviò con i suoi passi pesanti, due giorni dopo che l’esercito di Caramon aveva lasciato Pax Tharkas.
Entrando nella grande Sala delle Udienze del Re dei Nani delle Montagne, Kharas sentì i propri stivali creare echi cavernosi nella grande cavità a volta che era stata scavata nella pietra della montagna stessa. Adesso la sala era vuota, salvo per un gruppo di nani seduti davanti a una piattaforma di pietra.
Kharas passò oltre le lunghe file di panche di pietra dove, la sera prima, migliaia di nani avevano approvato con grida assordanti il loro re che dichiarava guerra ai loro consanguinei.
Oggi c’era una Riunione di Guerra del Consiglio dei thane. Come tale, non richiedeva la presenza della cittadinanza, così Kharas era rimasto un po’ sorpreso nel sapersi invitato. L’eroe era in disgrazia, tutti lo sapevano. Si facevano perfino ipotesi che Duncan intendesse esiliarlo.
Kharas notò, mentre si stava avvicinando, che Duncan lo stava fissando con occhio ostile, ma questo poteva essere dovuto al fatto che l’occhio e la guancia sinistra del re al di sopra della barba erano neri e gonfi, come risultato del colpo che Kharas gli aveva inflitto.
«Oh, rialzati, Kharas,» sbottò Duncan, quando il nano alto e sbarbato s’inchinò profondamente davanti a lui.
«Non fino a quando non mi avrai perdonato, thane,» dichiarò Kharas, mantenendo la sua posizione.
«Perdonarti cosa... l’aver martellato un po’ di buon senso nella testa di un vecchio nano rimbecillito?» Duncan esibì un sorriso sardonico. «No, non sei perdonato per questo, bensì ringraziato.» Il re si sfregò la mascella. «Il dovere è doloroso, dice il proverbio. Adesso lo capisco. Ma non parliamo più di questo.»
Quando vide che Kharas si raddrizzava, Duncan gli porse una pergamena. «Ti ho fatto venire qui per un altro motivo. Leggi questo.»
Perplesso, Kharas esaminò la pergamena. Era legata con un nastro nero, ma non era sigillata.
Lanciando un’occhiata agli altri thane che erano tutti radunati là, ognuno sul proprio seggio di pietra situato un po’ più in basso di quello del re, lo sguardo di Kharas andò in particolare a uno scranno: quello vuoto di Argat, thane dei Dewar. Corrugando la fronte, Kharas srotolò la pergamena e lesse ad alta voce, inciampando più volte nella rozza lingua dei Dewar:
Duncan, re dei nani di Thorbardin.
Saluti da coloro che adesso chiami traditori.
Questa pergamena viene spedita da noi che sappiamo che punirai i Dewar sotto la montagna per ciò che abbiamo fatto a Pax Tharkas. Se questa pergamena ti verrà consegnata, significa che siamo riusciti a tenere aperte le porte.
Hai disprezzato il nostro piano durante il Consiglio. Forse adesso ne vedi la saggezza. Il nemico adesso è guidato dallo stregone. Lo stregone è amico nostro. Farà marciare l’esercito verso i Pianori di Dergoth. Noi marciamo con loro, amici loro. Quando l’ora verrà, quelli che hai chiamato traditori colpiranno. Attaccheremo il nemico dall’interno e lo spingeremo sotto le lame delle vostre asce.
Se hai dei dubbi sulla nostra fedeltà, tieni in ostaggio la nostra gente sotto la montagna fino a quando non saremo tornati. Promettiamo grande dono da consegnare a te come prova lealtà.
Kharas lesse la pergamena due volte, ma le sue rughe non si spianarono. Semmai diventarono più profonde.
«Insomma,» volle sapere Duncan.
«Non intendo aver nulla a che fare con dei traditori,» dichiarò Kharas, tornando ad arrotolare la pergamena, e restituendola, disgustato.
«Ma se sono sinceri,» insisté Duncan, «ciò potrebbe darci una grande vittoria!»
Kharas alzò gli occhi per incontrare quelli del suo re che sedeva sulla predella sopra di lui. «Thane, se in questo momento potessi parlare al generale dei nostri nemici, a questo Caramon Majere che, stando a tutti i resoconti, è un uomo giusto e d’onore, gli direi esattamente quale pericolo lo minaccia, anche se ciò dovesse significare la nostra sconfitta.»
Gli altri thane sbuffarono o brontolarono.
«Avresti dovuto essere un Cavaliere di Solamnia!» borbottò uno di loro, una affermazione non certo intesa come un complimento.
Duncan lanciò a tutti un’occhiata severa, ed essi piombarono in un silenzio imbronciato.
«Kharas,» disse Duncan, in tono paziente, «noi sappiamo quali sono i tuoi sentimenti sull’onore, e per questo ti applaudiamo. Ma l’onore non darà da mangiare ai bambini di coloro che potrebbero morire in questa battaglia, né impedirà ai nostri consanguinei di ripulire le nostre ossa, se dovessimo cadere. No,» continuò Duncan e la sua voce si fece severa e profonda, «esiste un tempo dell’onore e un tempo in cui va fatto ciò che dobbiamo.» Ancora una volta si sfregò la mascella.
«Tu stesso me l’hai dimostrato.»
Il volto di Kharas s’incupì. Con fare assente, alzata una mano per accarezzarsi la barba fluente che non c’era più, la lasciò poi ricadere con un’espressione di disagio e poi, arrossendo, si fissò i piedi.
«I nostri esploratori hanno controllato questo messaggio,» continuò Duncan. «L’esercito si è messo in marcia.»
Kharas sollevò lo sguardo, accigliandosi. «Non ci credo!» esclamò. «Non ci ho creduto quando l’ho sentito dire! Hanno lasciato Pax Tharkas? Prima dell’arrivo dei carri con i loro rifornimenti? Allora dev’essere vero, lo stregone deve aver preso il comando. Nessun generale farebbe un errore del genere...»
«Saranno sui Pianori nei prossimi due giorni. Il loro obbiettivo è, secondo i nostri informatori, la fortezza di Zhaman, dove hanno intenzione d’insediare il loro quartier generale. Abbiamo una piccola guarnigione laggiù che offrirà una resistenza simbolica e poi batterà in ritirata, sperando di riuscire ad attirarli all’aperto. »
«Zhaman,» borbottò Kharas, grattandosi la mandibola, dal momento che non poteva più tirarsi la barba. D’un tratto fece un passo avanti, adesso il suo volto traboccava di zelo. «Thane, se posso presentare un piano che metterà fine a questa guerra con un minimo spargimento di sangue, sei disposto ad ascoltare e a permettermi di tentare?»
«Ascolterò,» disse Duncan dubbioso, facendosi rigido in volto.
«Dammi uno squadrone scelto di nani, thane, e m’incaricherò di uccidere questo stregone, questo Fistandantilus. Quando sarà morto, mostrerò questa pergamena al suo generale e ai nostri consanguinei. Capiranno di essere stati traditi. Vedranno la potenza del nostro esercito schierata contro di loro. Allora dovranno certamente arrendersi!»
«E cosa ne faremo, se si arrenderanno?» sbottò seccamente Duncan, irritato, anche se mentre parlava stava già esaminando il piano nella sua mente. Gli altri thane avevano già smesso di borbottare nella propria barba e si stavano guardando l’un l’altro con le folte sopracciglia che s’intrecciavano sopra i loro occhi.
«Dà loro Pax Tharkas, thane,» disse Kharas, con foga ancora maggiore. «A quelli che vorranno viverci, naturalmente. Indubbiamente, i nostri consanguinei torneranno alle loro case. Potremmo far loro qualche concessione, non molte,» si affrettò ad aggiungere, vedendo il volto di Duncan che si oscurava. «Questo si potrà concordare con i termini della resa. Ma offriremo riparo e protezione agli umani ed ai nostri consanguinei durante l’inverno... potrebbero lavorare nelle miniere...»
«Il piano ha delle possibilità,» bofonchiò Duncan pensosamente. «Una volta che vi troverete nel deserto, potreste nascondervi nei Tumuli...»
Tacque, riflettendo. Poi, lentamente, scosse la testa. «Ma è una scelta pericolosa, Kharas. E tutto potrebbe risultare, alla fine, inutile. Anche se riuscirai a uccidere l’Oscuro, e ti ricordo che lo descrivono come uno stregone molto potente, ci sono tutte le possibilità che anche tu rimanga ucciso, prima di riuscire a parlare a questo generale Majere. Corre voce che sia il gemello dello stregone!»
Kharas ebbe uno stanco sorriso, sempre con la mano sulla mascella sbarbata. «Questo è un rischio che correrò con gioia, thane, se significa che nessun altro dei miei consanguinei morirà per mia mano.»
Duncan lo fissò furioso poi, sfregandosi la mascella ancora gonfia, sospirò. «Molto bene,» disse.
«Hai il nostro permesso. Scegli i tuoi compagni con cura. Quando andrai?»
«Questa notte, thane, con il tuo permesso.»
«Le porte della montagna verranno aperte per te, poi torneranno a chiudersi. Che, poi, si riaprano per accoglierti vittorioso o per vomitare la potenza armata dei nani delle montagne, questo dipenderà da te, Kharas. Che la fiamma di Reorx possa risplendere sul tuo mantello.»
Dopo aver eseguito un nuovo inchino, Kharas si girò e uscì dalla sala, con passo ben più veloce e vigoroso di quando aveva fatto il suo ingresso.
«Se ne va uno che non possiamo certo permetterci di perdere,» disse uno dei thane, seguendo con lo sguardo la figura del nano alto e sbarbato che si allontanava.
«L’abbiamo perso fin dall’inizio,» sbottò Duncan, in tono aspro. Ma il suo volto era smunto e segnato dal dolore mentre borbottava queste parole. «Adesso dobbiamo mettere a punto i piani per la guerra.».
«Di nuovo niente acqua,» dichiarò Caramon con calma.
Reghar aggrottò le sopracciglia. Malgrado il generale avesse mantenuto accuratamente la voce priva d’espressione, il nano sapeva di essere ritenuto responsabile. Rendersi conto che la colpa era in gran parte sua non aiutava, però, il corso degli eventi. L’unica sensazione più sciagurata e insopportabile della stessa colpevolezza era quella di sentirsi meritatamente colpevoli.
«Ci sarà un’altra pozza d’acqua a mezza giornata di marcia,» ribatté Reghar con una faccia dura come il granito. «Ai vecchi tempi si trovavano dappertutto, come le pustole del vaiolo.»
Il nano agitò un braccio. Caramon lanciò un’occhiata intorno a sé. Fin dove arrivava il suo sguardo, non c’era niente: né alberi, né uccelli, neppure il più piccolo arbusto striminzito. Niente, salvo interminabili miglia di sabbia, punteggiate qua e là da strani tumuli a cupola. Molto in distanza, le ombre scure della montagna di Thorbardin si profilavano davanti ai suoi occhi, come il ricordo tenace d’un brutto sogno.
L’esercito di Fistandantilus stava perdendo la battaglia prima ancora che cominciasse.
Dopo parecchi giorni di marce forzate, erano finalmente usciti dal passo montano che si trovava dietro Pax Tharkas, e adesso erano sui Pianori di Dergoth. Il convoglio dei rifornimenti non li aveva raggiunti e, a causa della veloce andatura con la quale si muovevano, pareva che ci sarebbe voluta più d’una settimana prima che i carri lenti e pesanti si ricongiungessero con loro.
Raistlin aveva insistito con i comandanti degli eserciti sulla necessità di fare in fretta e, malgrado Caramon si fosse opposto apertamente a suo fratello, Reghar aveva appoggiato l’arcimago ed era riuscito a portare dalla loro parte anche gli uomini delle pianure. Ancora una volta, Caramon aveva avuto poca scelta, se non quella di seguirli. E così l’esercito si alzava prima dell’alba, marciava facendo soltanto una breve sosta a mezzogiorno, e proseguiva fino al tramonto quando, con luce ancora sufficiente a vedere, si fermavano per accamparsi.
Non pareva un esercito di vincitori. Non c’erano più il cameratismo, le risate, i giochi della sera.
Non c’erano più i canti durante il giorno; perfino i nani avevano smesso il loro esaltato salmodiare, preferendo conservare il fiato per respirare mentre faticosamente marciavano un miglio dopo l’altro.
Di notte, gli uomini si accasciavano praticamente là dove si trovavano, mangiavano le loro magre razioni, e subito dopo piombavano in un sonno esausto fino a quando non arrivavano i sergenti a prenderli a calci e a pungolarli, per dare inizio a una nuova giornata.
Il morale era basso. C’erano mormorii e lamentele, specialmente man mano che il cibo diminuiva.
Quello non era stato un problema in mezzo alle montagne. La cacciagione era stata abbondante. Ma una volta arrivati sui Pianori, come Caramon aveva predetto, le uniche cose viventi visibili erano loro stessi. Vivevano di pane duro cotto senza lievito e di strisce di carne secca che venivano distribuiti due volte il giorno, la mattina e la sera. E Caramon sapeva che, se i carri dei rifornimenti non li avessero raggiunti al più presto, anche quella piccola quantità sarebbe stata ridotta della metà.
Ma il generale aveva altre preoccupazioni oltre al cibo, entrambe più cruciali. Una era la mancanza d’acqua. Malgrado Reghar gli avesse detto fiduciosamente che c’erano pozze d’acqua sui Pianori, le prime due che avevano trovato erano in secca. Allora, e soltanto allora, il vecchio nano aveva arcignamente ammesso che l’ultima volta che aveva messo gli occhi sui Pianori era avvenuto prima del Cataclisma. L’altro problema di Caramon era costituito dai rapporti fra gli alleati, che si andavano rapidamente deteriorando.
Sempre appesa a un filo nel migliore dei casi, adesso l’alleanza si stava sfaldando. Gli uomini del nord imputavano ai nani e agli uomini delle pianure i loro attuali problemi, dal momento che avevano appoggiato lo stregone.
Gli uomini delle pianure, da parte loro, non si erano mai trovati fra le montagne prima di allora.
Avevano scoperto che vivere e combattere su un terreno montuoso significava cimentarsi con il freddo e la neve e, come il capo aveva detto a Caramon, esprimendosi in modo crudo: «O è troppo su o è troppo giù!»
Adesso, vedendo le gigantesche montagne di Thorbardin profilarsi sull’orizzonte meridionale, gli uomini delle pianure cominciavano a pensare che tutto l’oro e l’acciaio scuri rivolti verso nord, e seppe che una mattina si sarebbe svegliato e avrebbe scoperto che se n’erano andati.
Da parte loro i nani consideravano gli umani codardi e deboli, gente che correva a piangere dalla mamma chiedendo d’esser riportati a casa nel momento in cui le cose si facevano un po’ difficili.
Essi giudicavano la mancanza d’acqua e di cibo niente più d’un piccolo fastidio. Il nano che osasse anche soltanto accennare al fatto che aveva sete veniva subito redarguito dai suoi compagni.
Quella sera, mentre si trovava nel bel mezzo della distesa desertica, prendendo a calci la sabbia con la punta del suo stivale, Caramon pensò a questo e agli altri suoi problemi.
Poi, alzando gli occhi, lo sguardo di Caramon si appuntò su Reghar. Convinto che Caramon non lo stesse osservando, il vecchio nano aveva perso la sua ferrea severità: aveva infossato le spalle e sospirava per la stanchezza. La sua somiglianza con Flint fece dolere il cuore a Caramon per la sua intensità. Vergognandosi per la propria collera, sapendo che era diretta più a se stesso che a chiunque altro, Caramon fece il possibile per fare ammenda.
«Non preoccuparti. Abbiamo abbastanza acqua per tutta la notte. Domani troveremo di sicuro una pozza d’acqua, non credi?» disse battendo impacciato una mano sulla schiena di Reghar. Il vecchio nano sollevò lo sguardo su Caramon, sorpreso e subito insospettito, temendo di essere il bersaglio di qualche battuta.
Ma nel vedere il volto stanco di Caramon che gli sorrideva incoraggiante, Reghar si rilassò. «Sì,» il nano annuì, con un riluttante sorriso in risposta. «Domani, certamente.»
Allontanandosi dalla pozza disseccata, i due fecero ritorno al campo.
La notte scendeva presto sui Pianori di Dergoth. Il sole calò rapidamente dietro le montagne, come se lo nauseasse la vista di quella terra vasta, desolata, di quel terreno sterile, spoglio, deserto. Pochi fuochi ardevano. Per la maggior parte i soldati erano troppo stanchi per prendersi la briga di accenderli, e comunque non c’era nessun cibo da cuocere. Raggruppati separatamente a seconda della loro provenienza o razza, i nani delle colline, i settentrionali e gli uomini delle pianure si scambiavano sguardi carichi si sospetto. Naturalmente, tutti evitavano i Dewar.
Caramon, sollevando lo sguardo, vide la propria tenda, staccata da tutte le altre, come in un estremo desiderio di cancellare tutto il resto del campo.
Un’antica leggenda di Krynn narrava di un uomo che, un giorno, aveva commesso un crimine così orrendo che gli stessi dei si erano riuniti per infliggergli la punizione. Quando annunciarono che, d’ora in avanti, l’uomo avrebbe avuto la capacità di vedere nel futuro, l’uomo rise, convinto di aver battuto in astuzia gli dei. L’uomo, però, era poi morto d’una morte atroce, qualcosa che Caramon non era mai riuscito a capire.
Ora, invece, aveva capito, e l’anima gli faceva male. Davvero, non si sarebbe potuta infliggere punizione peggiore a un mortale: infatti, vedendo il futuro e sapendo cosa accadrà, l’uomo viene privato del suo dono più grande, la speranza.
Fino a quel momento, Caramon aveva sperato. Aveva creduto che Raistlin avrebbe tirato fuori un piano. Aveva creduto che suo fratello non avrebbe permesso che questo accadesse. Ma adesso, sapendo che a Raistlin, davvero, non importava nulla di ciò che sarebbe stato di quegli uomini e di quei nani e delle famiglie che si erano lasciati alle spalle, la speranza di Caramon si era spenta: erano condannati. E non c’era niente che lui potesse fare per impedire che quanto era accaduto prima, accadesse di nuovo.
Conoscendo questo, e conoscendo il dolore che ciò doveva inevitabilmente costargli, Caramon cominciò, senza avvedersene, a distanziarsi da coloro per i quali si era preoccupato. Cominciò a pensare alla sua casa.
La sua casa! Quasi dimenticata, perfino ricacciata di proposito nei recessi della sua mente... adesso i ricordi della sua casa Io inondavano con tale, vivida chiarezza, ogni volta che lui lo permetteva, che talvolta, durante le sue lunghe, solitarie serate, fissava un fuoco che non poteva vedere a causa delle lacrime.
Questo era l’unico pensiero che permetteva a Caramon di tirare avanti. A mano a mano che conduceva il suo esercito più vicino alla sconfitta, ogni passo lo conduceva più vicino a Tika, più vicino a casa...
«Attento!» Reghar lo afferrò, riscuotendolo dal suo sogno ad occhi aperti. Caramon ammiccò più volte e sollevò lo sguardo un attimo prima d’inciampare su uno degli strani tumuli che punteggiavano i Pianori.
«Ma cosa sono questi dannati affari?» brontolò Caramon, fissando il tumulo con furore. «Qualche tipo di tana di animali? Ho sentito parlare di scoiattoli senza coda che vivono in tane come queste sulle grandi terre piatte di Eastwilde.» Studiò corrucciato la struttura, che era alta quasi tre piedi e larga altrettanto, e scosse la testa. «Ma non mi piacerebbe affatto incontrare lo scoiattolo che ha costruito questo!»
«Ah! Macché scoiattoli!» esclamò Reghar, sprezzante. «Questi, li hanno costruiti i nani! Non lo vedi? Guarda come sono fatti, come sono rifiniti...» Passò amorevolmente la mano sulla liscia cupola. «Da quando in qua la natura fa un lavoro così perfetto?»
Caramon sbuffò. «Nani? Ma... perché? Per cosa? Neppure ai nani piace lavorare al punto da farlo per la propria salute! Perché mai perdere tempo a costruire tumuli nel deserto?»
«Posti di osservazione,» spiegò Reghar, succintamente.
«Osservazione?» sogghignò Caramon. «Per osservare cosa? I serpenti?»
«Il territorio, il cielo, gli eserciti... come il nostro.» Reghar batté il piede, sollevando una nuvola di polvere. «Hai sentito?»
«Sentito cosa?»
«Questo.» Reghar batté un’altra volta il piede. «È vuoto.»
La fronte di Caramon si spianò. «Gallerie!» I suoi occhi si spalancarono. Fissando il deserto davanti a sé e i tumuli che s’innalzavano l’uno dopo l’altro da quella terra piatta, dette in un fischio sommesso.
«Miglia e miglia di gallerie!» esclamò Reghar, annuendo. «Scavate così tanto tempo fa che erano già antiche per mio bisnonno. Naturalmente,» il nano sospirò, «la maggior parte di esse non è stata più usata durante tutto il tempo passato da allora. Stando alle leggende, un tempo c’erano delle fortezze fra qui e Pax Tharkas, che arrivavano fino ai Monti Kharolis. Un nano avrebbe potuto camminare da Pax Tharkas a Thorbardin senza mai vedere una sola volta il sole, se quelle vecchie storie sono vere.
«Adesso le fortezze non ci sono più. Ed è probabile che anche molte delle gallerie non ci siano più. Il Cataclisma ne ha distrutto la maggior parte. Però,» continuò Reghar, in tono più allegro, mentre riprendeva a camminare insieme a Caramon, «non sarei sorpreso se Duncan avesse qualche spia là sotto, che si aggira furtiva come un sorcio.»
«Che si trovino sopra o sotto, in ogni caso ci vedranno sempre arrivare da molto lontano,» borbottò Caramon, scrutando il terreno piatto e vuoto.
«Già,» disse Reghar. «E non gli servirà proprio a niente.» Caramon non rispose, e i due proseguirono, l’omone tornò da solo alla sua tenda e il nano all’accampamento della sua gente.
Dentro uno dei tumuli, non lontano dalla tenda di Caramon, degli occhi stavano davvero osservando l’esercito, seguendo ogni sua singola mossa. Ma quegli occhi non erano interessati all’esercito in sé. Erano interessati a tre persone, tre persone soltanto...
«Non manca molto, adesso,» disse Kharas. Stava scrutando fuori attraverso delle fessure intagliate con tanta abilità nella roccia da permettere a chi si trovava dentro il tumulo di guardar fuori, ma impedendo a chi guardava il tumulo dall’esterno di guardar dentro. «Quant’è la distanza, secondo i tuoi calcoli?»
La domanda era stata rivolta a un nano dall’aspetto antico e trasandato, il quale si degnò di dare un’occhiata fuori, con aria annoiata, dando poi un’altra occhiata valutatrice alla lunghezza della galleria sotto di loro. «Duecentocinquantatré passi ci porteranno dritti al centro,» annunciò senza esitazione.
Kharas guardò fuori sui Pianori, dove la grande tenda del generale si ergeva separata dai fuochi dei bivacchi dei suoi uomini. A Kharas pareva una cosa prodigiosa, che il vecchio nano potesse valutare la distanza in maniera così accurata. L’eroe avrebbe potuto esprimere dei dubbi, se si fosse trattato di qualcun altro e non di Smasher. Ma il vecchio ladro che era stato richiamato dalla pensione proprio per quel compito aveva la solida reputazione di aver compiuto imprese straordinarie, una reputazione che quasi equivaleva a quella dello stesso Kharas.
«Il sole sta tramontando,» riferì Kharas, piuttosto inutilmente poiché l’allungarsi delle ombre poteva esser visto proiettarsi obliquo sulle pareti rocciose della galleria dietro di lui. «Il generale è di ritorno. Sta entrando nella tenda.» Kharas corrugò la fronte. «Per la barba di Reorx, spero che non decida di cambiare le proprie abitudini proprio stanotte.»
«Non lo farà,» dichiarò Smasher. Comodamente rannicchiato in un angolo, parlava con la tranquilla certezza di chi (ai vecchi tempi) si era guadagnato da vivere osservando il venire, e più in particolare l’andare, dei suoi simili. «La prima cosa che impari quando svaligi una casa: tutti hanno le loro radicate abitudini, e a nessuno piace cambiarle. Il tempo è bello, non ci sono state sorprese, non c’è niente, là fuori, se non sabbia, e ancora sabbia. No, non cambierà le sue abitudini.»
Kharas corrugò la fronte. Non gli piaceva quella rievocazione del passato di fuorilegge del nano. Ben conscio dei propri limiti, Kharas aveva scelto Smasher per quella missione poiché aveva bisogno di qualcuno capace di muoversi in modo furtivo, rapido e silenzioso, capace di attaccare di notte e di fuggire nel buio.
Ma Kharas, che era stato ammirato dai Cavalieri di Solamnia per il suo senso dell’onore, provava ugualmente i morsi della coscienza. Tranquillizzò la propria anima ricordando che Smasher, molto tempo addietro, aveva pagato per le sue malefatte e aveva perfino compiuto parecchie imprese per il suo re, che avevano fatto di lui, se non un personaggio dalla reputazione immacolata, per lo meno un eroe minore.
Inoltre, si disse Kharas, pensa alle vite che salveremo.
Proprio mentre pensava questo, tirò un sospiro di sollievo. «Hai ragione, Smasher, ecco che arrivano lo stregone dalla sua tenda e la strega dalla propria.»
Stringendo con una mano il manico del martello, assicurato saldamente alla sua cintura, Kharas usò l’altra mano per spostare in una posizione più comoda una spada corta che portava infilata accanto al martello. Infine, affondò la mano in una borsa e ne tirò fuori una pergamena arrotolata, e con un’espressione pensierosa e solenne sulla faccia sbarbata, la cacciò in una tasca sicura della sua armatura di cuoio.
Voltandosi verso i quattro nani che erano alle sue spalle, disse: «Ricordatevi di non far del male alla donna o al generale più di quanto sia necessario per sopraffarli. Ma... lo stregone deve morire, e deve morire velocemente, poiché è lui il più pericoloso.»
Smasher sogghignò, e si rilassò sulla schiena ancora più comodamente. Lui non sarebbe andato.
Era troppo vecchio. Un tempo si sarebbe sentito insultato, ma adesso aveva un’età in cui una cosa del genere suonava come un complimento. Inoltre, le ginocchia gli scricchiolavano in maniera allarmante.
«Lasciate che si accomodino» consigliò loro il vecchio ladro. «Lasciate che si rilassino, che comincino a cenare. Poi,» si passò una mano sulla gola, dando in una risata chioccia, «duecentocinquantatré passi...»
Garic, di sentinella fuori della tenda del generale, ascoltava il silenzio che regnava all’interno. Era più inquietante e pareva echeggiare più forte del più violento litigio.
Lanciando un’occhiata all’interno attraverso la falda aperta della tenda, Garic vide i tre seduti insieme, come facevano tutte le sere, tranquilli, borbottando solo occasionalmente, ciascuno in apparenza immerso nelle proprie preoccupazioni.
Lo stregone era profondamente impegnato nei suoi studi. Correva voce che stesse progettando alcuni grandi, potenti incantesimi, che avrebbero fatto saltare le porte di Thorbardin. In quanto alla strega, chi mai poteva sapere cosa stesse pensando? Garic era grato a Caramon, che per lo meno la teneva d’occhio.
Erano corse voci bizzarre sulla strega, fra i soldati. Voci di miracoli fatti a Pax Tharkas, di morti che erano tornati in vita a un suo tocco, di gambe e braccia che erano ricresciute dai moncherini insanguinati. Garic non le aveva neanche prese in considerazione, naturalmente. Però, c’era stato qualcosa in lei, in questi ultimi giorni, che induceva il giovane a chiedersi se la sua prima impressione fosse stata corretta.
Garic si mosse inquieto al vento gelido che spazzava il deserto. Dei tre presenti nella tenda, era il generale quello che lo preoccupava maggiormente. Durante gli ultimi mesi il giovane aveva finito per riverire, e addirittura idolatrare Caramon. Osservandolo da vicino, cercando d’imitarlo il più possibile, Garic aveva notato l’ovvia depressione e infelicità del generale, che I’omone riteneva di riuscire a nascondere molto bene. Per Garic, Caramon aveva assunto il posto della famiglia che aveva perduto, e adesso il giovane cavaliere rifletteva il dolore di Caramon, proprio come avrebbe fatto per il dolore d’un fratello più vecchio.
«Sono quei dannati nani scuri,» borbottò Garic ad alta voce, battendo i piedi per evitare che s’intorpidissero. «Non mi fido di loro, questo è sicuro. Li manderei via, e sono sicuro che anche il generale lo farebbe, se non fosse per suo fra...»
Garic s’interruppe, trattenendo il fiato e aguzzando gli orecchi.
Niente. Ma avrebbe potuto giurare che...
Con la mano sull’elsa della spada il giovane cavaliere scrutò il deserto. Malgrado di giorno facesse molto caldo, di notte quello era un posto freddo e sgradevole. In lontananza vide i fuochi dei bivacchi. Qua e là poteva distinguere le ombre degli uomini che passavano.
Poi l’udì di nuovo. Un lieve rumore alle sue spalle. Sì, direttamente alle sue spalle. Come un passo di pesanti stivali dalle suole di ferro...
«Cos’è stato?» chiese Caramon, sollevando la testa. «Il vento,» mormorò Crysania, lanciando un’occhiata alla tenda e rabbrividendo, nell’osservare come il tessuto s’increspasse, quasi respirando come una cosa viva. «Soffia incessantemente in questo luogo orribile.»
Caramon si alzò a mezzo, con la mano sull’elsa della spada. «Non era il vento.»
Raistlin alzò lo sguardo su suo fratello. «Oh, siediti!» gli intimò, irritato, con un basso ringhio. «E finisci la tua cena, in modo che io possa tornarmene ai miei studi.»
L’arcimago stava ripassando nella mente un incantesimo particolarmente difficile. Vi si stava cimentando da molti giorni, cercando di scoprire la giusta inflessione e la pronuncia indispensabili a svelare i segreti delle parole. Finora avevano eluso la sua comprensione, mostrandosi prive di senso.
Spingendo da parte il piatto ancora pieno, Raistlin fece per alzarsi, quando il mondo letteralmente cedette sotto i suoi piedi.
Come se si trovasse sul ponte di una nave che stesse scivolando lungo un’onda ripida, il terreno sabbioso s’inclinò sotto il suo piede. Abbassando lo sguardo, pieno di stupore, l’arcimago vide un ampio foro spalancarsi davanti a lui. Uno dei pali che reggeva la tenda s’inclinò e vi cadde dentro, facendola afflosciare. Una lanterna appesa ai sostegni oscillò come impazzita, facendo beccheggiare e sobbalzare le ombre come tanti demoni.
Istintivamente, Raistlin si afferrò al tavolo e riuscì a salvarsi, evitando di cadere nel foro che si stava rapidamente allargando. Ma, mentre lo faceva, vide delle figure strisciare fuori dal foro: figure tozze e barbute. Per un istante la luce che danzava impazzita trasse riflessi vividi da lame d’acciaio, scintillò in occhi scuri e truci. Poi le figure sprofondarono nelle ombre.
«Caramon!» gridò Raistlin, ma capì subito dal trepestio alle sue spalle, accompagnato da una feroce imprecazione e dallo sferragliare di una lama d’acciaio estratta precipitosamente dal fodero, che Caramon era ben conscio del pericolo.
Raistlin udì anche una voce femminile che scandiva alto il nome di Paladine, e vide i vividi contorni di una luce bianca e pura, ma non ebbe il tempo di preoccuparsi di Crysania. Un enorme martello da guerra dei nani, in apparenza impugnato dall’oscurità stessa, lampeggiò alla luce della lanterna, mirando direttamente alla sua testa.
Pronunciando il primo incantesimo che gli venne in mente, Raistlin vide con soddisfazione un’invisibile forza arcana strappare il martello dalla mano del nano. Per suo ordine, la forza trasportò il martello attraverso il buio, per lasciarlo cadere con un tonfo all’angolo della tenda.
Dapprima stordita da quell’attacco inaspettato, adesso la mente di Raistlin era attiva ed operante.
Una volta superato lo shock iniziale, il mago la vedeva semplicemente come un’altra irritante interruzione dei suoi studi. Progettando di porvi rapidamente fine, l’arcimago rivolse la sua attenzione al nemico, il quale si ergeva davanti a lui fissandolo con occhi che non mostravano nessuna paura.
Non provando lui stesso nessuna paura, calmo nella consapevolezza che niente poteva ucciderlo, poiché era protetto dal tempo, Raistlin fece appello alla sua magia freddamente, senza affrettarsi.
La sentì raccogliersi in spire intorno al suo corpo, sentì l’estasi percorrere la sua persona come un piacere sensuale. Decise che quella sarebbe stata una piacevole diversione rispetto ai suoi studi. Un interessante esercizio... Tendendo le mani, cominciò a pronunciare le parole che avrebbero scagliato saette di sfrigolante luce azzurra attraverso il corpo del suo nemico in preda alle convulsioni. Ma venne inopinatamente interrotto.
Con la repentinità d’uno scroscio di tuono, due figure comparvero davanti a lui, balzando fuori dall’oscurità come se fossero cadute da una stella.
Ruzzolando ai piedi del mago, una delle figure lo fissò in preda a un’incontenibile eccitazione.
«Oh, guarda, è Raistlin! Ce l’abbiamo fatta, Gnimsh! Ce l’abbiamo fatta! Ehi, Raistlin! Scommetto che sei sorpreso di vedermi, uh? E, oh, ho da raccontarti la storia più meravigliosa che si possa immaginare! Vedi, ero morto. Be’, non lo ero per davvero, ma...»
«Tasslehoff!» rantolò Raistlin.
I pensieri sfrigolarono nella mente dell’arcimago, come il lampo avrebbe potuto sfrigolare dalle punte delle sue dita.
Il primo: un kender! Il Tempo poteva venir alterato!
Il secondo: il Tempo può venir alterato!
Il terzo: io posso morire!
Lo shock causato da quei pensieri scosse il corpo di Raistlin, dissolvendo la sua freddezza e la sua calma così indispensabili ad un fruitore di magia per lanciare i suoi complicati incantesimi.
Mentre la soluzione al suo problema, che non aveva cercato, insieme con la constatazione di ciò che avrebbe potuto costargli penetravano nel suo cervello, Raistlin perse il controllo. Le parole dell’incantesimo gli scivolarono via dalla mente. Ma il suo nemico continuava ad avanzare.
Reagendo d’istinto, con la mano che gli tremava, Raistlin mosse di scatto il polso, facendo cadere nel palmo della mano il piccolo pugnale d’argento che portava con sé.
Ma era troppo tardi... e troppo poco.
L’attenzione di Kharas era completamente concentrata sull’uomo che aveva giurato di uccidere.
Reagendo con la determinazione e la risolutezza tipiche della mentalità militaresca, non prestò nessuna attenzione alla stupefacente comparsa delle due figure, ritenendole, forse, null’altro che creature evocate dall’arcimago.
Allo stesso tempo, Kharas vide gli occhi dell’arcimago svuotarsi. Vide la bocca di Raistlin, aperta per recitare parole micidiali, penzolare flaccida e molle, e il nano seppe che, almeno per pochi istanti, il nemico era in suo potere.
Kharas eseguì un affondo con la spada corta, trafiggendo le vesti nere e fluttuanti, ed ebbe la soddisfazione di sentire che aveva colpito nel segno.
Accostandosi al mago colpito, affondò la lama sempre più in profondità nell’esile corpo dell’umano. Lo strano calore dell’uomo lo avvolse come in un inferno avvampante. Un odio e una rabbia così intensi colpirono Kharas come un corpo fisico, facendolo cadere all’indietro e mandandolo a sbattere contro il suolo.
Ma lo stregone era mortalmente ferito. Questo, Kharas lo sapeva. Sollevando lo sguardo da dove era caduto, fissò quegli occhi brucianti e malefici: Kharas li vide ardere di furore... ma li vide anche colmi di sofferenza. E, alla luce oscillante e sobbalzante della lanterna, vide l’elsa della spada corta sporgere dal ventre del mago. Vide le mani sottili del mago avvinghiarsi ad essa, e lo sentì urlare in preda a una terribile angoscia. Seppe di non aver più nessuna ragione di aver paura. Lo stregone non avrebbe più potuto fargli del male.
Kharas si alzò in piedi, incespicando, allungò la mano e strappò fuori la spada. Lanciando un amaro urlo di agonia, con le mani inondate dal proprio sangue, lo stregone stramazzò al suolo e giacque immobile.
Allora Kharas ebbe tempo di guardarsi intorno. I suoi si stavano battendo all’ultimo sangue con il generale che, udendo gridare suo fratello, si era fatto livido per la paura e la collera. La strega non era visibile da nessuna parte, la luce arcana che aveva irradiato era scomparsa, smarrita nella tenebra.
Udendo un suono strozzato provenire da dietro le sue spalle, Kharas si voltò e vide le due apparizioni che l’arcimago aveva evocato intente a fissare con stordito orrore il corpo dello stregone. Guardandole bene, Kharas fu sorpreso nel constatare che quelle creature demoniache fatte emergere dalle regioni infernali non erano niente di più sinistro di un kender dai gambali di un azzurro vivace e di uno gnomo stempiato con un grembiule di cuoio.
Kharas non ebbe il tempo di riflettere su quel fenomeno. Aveva concluso quello che era venuto a fare, per lo meno quasi del tutto. Sapeva che non avrebbe potuto parlare col generale, non adesso, comunque. La sua preoccupazione principale era quella di condurre in salvo i suoi. Kharas attraversò di corsa la tenda, raccolse il suo grande martello da guerra e, urlando ai suoi in nanesco di togliersi di mezzo, lo scagliò direttamente contro Caramon.
Il martello colpì l’omone di striscio alla testa, stordendolo ma non uccidendolo. Caramon cadde come una quercia abbattuta e, d’un tratto, sulla tenda discese un silenzio mortale.
C’erano voluti soltanto pochi, brevi istanti.
Kharas lanciò un’occhiata attraverso la falda della tenda, e vide che il giovane cavaliere di guardia giaceva al suolo privo di sensi. Non c’era alcun segno che qualcuno seduto intorno a quei lontani falò avesse sentito o visto qualcosa d’insolito.
Alzando una mano, il nano fermò la lanterna che continuava a oscillare e si guardò intorno. Lo stregone giaceva in una pozza del proprio sangue. Il generale giaceva accanto a lui, con la mano tesa verso suo fratello, come se quello fosse stato il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi. In un angolo giaceva supina la strega, gli occhi chiusi.
Vedendo del sangue sulle sue vesti, Kharas fissò severamente i suoi. Uno di loro scosse la testa.
«Mi spiace, Kharas,» disse il nano, abbassando lo sguardo sulla donna e rabbrividendo, «ma la luce che emanava da lei era così forte! Mi sono sentito spaccare la testa. Non sono riuscito a pensare nient’altro se non a fermarla. Non... non ci sarei riuscito, ma poi lo stregone ha urlato e lei ha gridato, e la sua luce ha tremolato. Allora l’ho colpita, ma non molto forte. Non è ferita gravemente.»
«Va bene.» Kharas annuì. «Andiamo.» Recuperando il suo martello, il nano abbassò lo sguardo sul generale che giaceva ai suoi piedi. «Mi spiace,» disse, estraendo il pezzetto di pergamena e infilandolo nella mano protesa dell’omone. «Forse un giorno riuscirò a spiegartelo. » Alzandosi, si guardò intorno. «Tutto bene? Allora usciamo da qui.»
I suoi uomini si affrettarono a raggiungere l’ingresso della galleria.
«E questi due?» chiese uno di loro, fermandosi accanto al kender e allo gnomo.
«Prendeteli,» ordinò Kharas, secco. «Non possiamo lasciarli qui. Darebbero l’allarme.»
Per la prima volta, il kender parve tornare alla vita.
«No!» gridò, fissando Kharas con occhi imploranti, pieni di orrore. «Non puoi portarci via! Siamo appena arrivati! Abbiamo trovato Caramon e adesso possiamo tornare a casa! No, per favore!»
«Prendeteli,» ordinò Kharas in tono severo.
«No!» gemette il kender, lottando fra le braccia del suo catturatore. «No, per favore, non capisci. Eravamo nell’Abisso e siamo scappati...»
«Imbavagliatelo,» ringhiò Kharas, sbirciando giù dentro la galleria sotto la tenda per controllare se tutto andava bene. Facendo segno che si affrettassero, s’inginocchiò accanto al foro nel terreno.
I suoi uomini scesero nella galleria, trascinando il kender imbavagliato, il quale stava ancora opponendo una tale resistenza, scalciando e artigliando, che alla fine furono costretti a fermarsi e a legarlo come un pollo prima di riuscire a trasportarlo via. L’altro prigioniero, invece, non diede loro nessuna preoccupazione. Il povero gnomo era talmente inorridito da trovarsi ridotto in stato di shock. Guardandosi intorno impotente, la bocca spalancata, fece in silenzio tutto quello che gli veniva detto.
Kharas fu l’ultimo ad andarsene. Prima di saltar giù dentro la galleria, lanciò un’ultima occhiata intorno a sé.
Adesso la lanterna penzolava completamente immobile, diffondendo la sua tranquilla luminosità su una scena da incubo. I tavoli erano fracassati, le sedie rovesciate, il cibo era sparpagliato dappertutto. Una sottile striscia di sangue scorreva fuori da sotto il corpo del fruitore di magia vestito di nero. Formando una pozza nell’orlo del foro, il sangue cominciò lentamente a sgocciolare dentro la galleria.
Balzato dentro il buco, Kharas corse lungo la galleria fino a una distanza di sicurezza, poi si fermò.
Afferrando l’estremità di un pezzo di corda che giaceva sul pavimento della galleria, gli dette un violento strattone. L’estremità opposta della corda era legata a una delle travi di sostegno, direttamente sotto la tenda del generale. Lo strattone fece ruzzolare giù la trave. Si udì un sordo borbottio, poi, in distanza, Kharas potè vedere delle pietre che cadevano, e la sua vista fu oscurata da una densa nube di polvere.
Adesso che la galleria era bloccata alle sue spalle senza che ci fossero più rischi di venir inseguiti, Kharas si voltò e raggiunse di corsa i suoi.
«Generale...»
Caramon era in piedi, le sue grandi mani si protesero per stringere alla gola il suo nemico, un ringhio gli contorceva il volto.
Colto di sorpresa, Garic arretrò incespicando.
«Generale!» gridò. «Caramon! Sono io!»
D’un tratto un dolore lancinante e il suono familiare della voce di Garic penetrarono il cervello di Caramon. Con un gemito, si strinse la testa fra le mani e barcollò. Garic lo afferrò mentre cadeva, calandolo su una sedia dove non avrebbe più rischiato di farsi del male.
«Mio fratello?» chiese Caramon con voce impastata.
«Caramon... io...» Garic deglutì.
«Mio fratello!» esclamò Caramon, con voce rauca, stringendo il pugno.
«L’abbiamo portato nella sua tenda,» rispose Garic con voce sommessa. «La ferita è...»
«Cosa? La ferita è cosa?» digrignò Caramon con impazienza, sollevando la testa e fissando Garic con occhi iniettati di sangue e colmi di dolore.
Garic aprì la bocca, la chiuse, poi scosse la testa. «M... mio padre mi ha parlato di ferite del genere,» mormorò. «Uomini che andavano avanti giorni e giorni in preda a una terribile agonia...»
«Vuoi dire che è una ferita al ventre,» disse Caramon.
Garic annuì, poi si coprì il volto con la mano. Caramon, guardandolo con attenzione, si avvide che il giovane era pallido come la morte. Sospirando, chiudendo gli occhi, Caramon si preparò allo stordimento e alla nausea che l’avrebbero assalito quando si fosse rialzato in piedi. Poi, con un movimento risoluto, si alzò. L’oscurità turbinò e sussultò intorno a lui. Si costrinse a restare in piedi senza vacillare, e quando la vertigine fu passata, aprì gli occhi.
«Come ti senti?» chiese a Garic, fissando intensamente il giovane cavaliere.
«Sto bene,» rispose Garic, e la sua faccia arrossì per la vergogna. «Mi... mi hanno attaccato alle spalle.»
«Già.» Caramon vide il sangue incrostato sui capelli del giovane. «Capita. Non preoccuparti.» Il grosso guerriero sorrise senza allegria. «Mi hanno attaccato di fronte.»
Garic annuì di nuovo, ma era chiaro dall’espressione del suo viso che quella sconfitta gli rodeva la mente.
Gli passerà, pensò Caramon con stanchezza. Tutti dobbiamo affrontarlo, presto o tardi.
«Adesso andrò a far visita a mio fratello,» annunciò, avviandosi fuori della tenda con passo incerto.
Poi si fermò. «E Dama Crysania?»
«È addormentata. La lama di un coltello è rimbalzata sulle sue... uh... costole. Io... noi l’abbiamo medicata... meglio che potevamo. Abbiamo dovuto... lacerare le sue vesti.» Il rossore di Garic divenne ancora più intenso. «E le abbiamo dato da bere un po’ di brandy...»
«Sa di Raist... Fistandantilus?»
«Lo stregone l’ha proibito.»
Caramon rizzò le sopracciglia, poi corrugò la fronte. Guardando la tenda in rovina intorno a sé, vide la scia di sangue sul terriccio calpestato del pavimento. Tirando un profondo respiro, aprì la falda della tenda e uscì fuori con passo barcollante. Garic lo seguì.
«L’esercito?»
«Lo sanno. La voce si è diffusa.» Garic allargò le braccia in un gesto d’impotenza. «C’era così tanto da fare. Abbiamo tentato d’inseguire i nani...»
«Bah!» Caramon sbuffò, sussultando quando uno spasimo lacerante gli trafisse il cranio. «Avranno fatto crollare la galleria.»
«Sì. Abbiamo provato a scavare, ma tanto varrebbe mettersi a scavare l’intero dannato deserto,» dichiarò Garic con amarezza.
«E l’esercito?» insistè Caramon, fermandosi fuori della tenda di Raistlin. Udì un gemito sommesso provenire dall’interno.
«Gli uomini sono frastornati,» disse Garic con un sospiro. «Parlano. Sono confusi. Non so.».
Caramon afferrò la situazione. Lanciò un’occhiata nell’oscurità che regnava all’interno della tenda di suo fratello. «Entrerò da solo. Grazie per tutto quello che hai fatto, Garic,» aggiunse con gentilezza. «Adesso vai, e riposati un po’ prima di perdere i sensi per la stanchezza. Avrò bisogno di te più tardi, e non mi sarai di nessun aiuto ammalato.»
«Sì, signore,» replicò Garic. Fece per allontanarsi, barcollando, poi si fermò, voltandosi. Infilò la mano sotto il pettorale della sua armatura e tirò fuori un pezzo di pergamena intriso di sangue.
«Abbiamo... abbiamo trovato questo... nella tua mano, signore. E scritto in nanesco...»
Caramon guardò la pergamena, l’aprì, lesse quanto vi era scritto, poi tornò ad arrotolarla senza far commenti, cacciandosela nella cintura.
Adesso le tende erano circondate da sentinelle. Facendo cenno a una di queste, Caramon aspettò finché non si fu accertato che Garic veniva aiutato a raggiungere il proprio letto. Poi, facendosi forza, entrò nella tenda di Raistlin.
Una candela ardeva su un tavolo, accanto a un libro degli incantesimi che era stato lasciato aperto: era ovvio che l’arcimago si aspettava di ritornare ai suoi studi subito dopo la cena. Un nano di mezza età, segnato dalle cicatrici di molte battaglie (Caramon riconobbe in lui uno dei membri dello stato maggiore di Reghar) era rannicchiato fra le ombre accanto al letto. Una guardia accanto all’ingresso scattò sull’attenti quando Caramon entrò.
«Aspetta fuori,» ordinò Caramon alla guardia, e l’uomo uscì.
«Non permette che lo tocchiamo,» disse il vecchio nano indicando Raistlin con un cenno del capo.
«La ferita dev’essere fasciata. Non servirà a molto, naturalmente. Ma potrebbe tener dentro una parte di lui per un po’.»
«Mi occuperò io di lui,» dichiarò Caramon aspro.
Mettendo le mani sulle ginocchia, il nano si spinse in piedi.
Esitò, si schiarì la gola, come se si stesse chiedendo se doveva o no parlare. Presa la decisione, guardò Caramon in tralice con occhi scaltri e luminosi.
«Reghar mi ha detto che dovevo dirtelo. Se vuoi che lo faccia io... sai... farla finita velocemente, l’ho fatto altre volte. È una specie di dono che ho. Sono macellaio di professione, capisci...»
«Fuori.»
Il nano scrollò le spalle. «Come vuoi. Sta a te decidere. Però se fosse mio fratello...»
«Fuori!» ripetè Caramon con voce sommessa. Non seguì con lo sguardo il nano mentre se ne andava, neppure sentì il rumore dei suoi pesanti stivali. Tutti i suoi sensi erano concentrati sul suo gemello.
Raistlin giaceva sul suo letto, ancora vestito, con le mani serrate sulla sua orribile ferita. Macchiate di scuro a causa del sangue, le vesti e le carni del mago erano incollate insieme in un orrendo viluppo. Ed era in agonia. Contorcendosi involontariamente sul letto, ogni respiro che il mago esalava era un gemito basso e incoerente di dolore. Ogni inspirazione era una gorgogliante tortura.
Ma per Caramon lo spettacolo più orrendo era quello degli occhi luccicanti di suo fratello, che lo fissavano, consapevoli della sua presenza, mentre si avvicinava al letto. Raistlin era cosciente.
Inginocchiatosi accanto al letto di suo fratello, Caramon appoggiò una mano sulla testa febbricitante del suo gemello. «Perché non hai permesso che andassero a chiamare Crysania?» gli chiese con voce sommessa.
Raistlin fece una smorfia. Digrignando i denti costrinse le parole a uscirgli dalle labbra macchiate di sangue. «Paladine... non... mi... guarirà!» Quest’ultimo era un rantolo che terminò con un urlo strozzato.
Caramon lo fissò confuso. «Ma... stai morendo! Tu non puoi morire! Avevi detto...»
Raistlin roteò gli occhi, buttò indietro la testa. Il sangue gli gocciolò dalla bocca. «Il tempo... alterato... tutto... cambiato!» «Ma...»
«Vattene! Lasciami morire!» urlò Raistlin, in preda alla collera e al dolore, contorcendo il corpo.
Caramon rabbrividì. Cercò di guardare suo fratello con pietà, ma il viso, smunto e contorto per la sofferenza, non era il volto che conosceva.
La maschera di saggezza e intelligenza era stata strappata via, rivelando le linee scheggiate dell’orgoglio, dell’ambizione, dell’avarizia e della crudeltà insensibile. Era come se Caramon, pur guardando un volto che aveva sempre conosciuto, vedesse il suo gemello per la prima volta.
Forse, pensò Caramon, Dalamar ha visto questo volto nella Torre della Grande Stregoneria, mentre Raistlin gli bruciava la carne con le mani nude, praticandogli quei fori. Forse anche Fistandantilus aveva visto quel volto mentre moriva...
Disgustato, la sua stessa anima scossa dall’orrore, Caramon strappò lo sguardo da quel volto orribile e, irrigidendo la propria espressione, tese una mano. «Lascia almeno che ti curi la ferita.»
Raistlin scosse la testa con veemenza. Una mano coperta di sangue si staccò dal corpo, dove cercava di trattenere dentro di sé la vita stessa per stringere il braccio di Caramon. «No! Basta! Ho fallito. Gli dei stanno ridendo. Non posso... sopportare...»
Caramon lo fissò. D’un tratto, irrazionalmente, la rabbia s’impadronì dell’omone, una rabbia che nasceva da anni d’irrisioni sarcastiche e di servitù ingrata. Rabbia per aver visto morire degli amici a causa di quell’uomo. Rabbia per aver visto se stesso quasi distrutto. Rabbia per aver visto l’amore divorato, l’amore negato. Allungando la mano, Caramon afferrò le vesti nere e sollevò con uno scatto la testa di suo fratello dal cuscino.
«No, per gli dei!» urlò l’omone, con una voce che tremava tutta per la collera. «No, non morirai! Mi senti?» I suoi occhi si strinsero. «Non morirai, fratello mio! Tutta la vita sei vissuto soltanto per te stesso. Adesso, perfino nella tua morte, stai cercando una facile via d’uscita... per te! Mi lasceresti intrappolato qui senza pensarci due volte. Lasceresti Crysania! No, fratello! Tu vivrai, dannazione! Vivrai per mandarmi di nuovo a casa. Quello che farai dopo, con te stesso, riguarda soltanto te.»
Raistlin fissò Caramon e, malgrado il suo dolore, la macabra parodia d’un sorriso gli sfiorò le labbra. Parve quasi che riuscisse a produrre un sorriso completo, ma invece una bolla di sangue gli esplose nella bocca. Caramon allentò la stretta sulle vesti di suo fratello, quasi, ma non del tutto, spingendolo indietro. Raistlin tornò ad accasciarsi sul cuscino. I suoi occhi brucianti parevano divorare Caramon. In quel momento, l’unica vita che c’era in essi era costituita da un odio e da una rabbia indicibilmente amari.
«Vado ad avvertire Crysania,» dichiarò Caramon, cupo in volto, mentre si alzava in piedi, ignorando l’occhiata furente di suo fratello. «Deve almeno avere la possibilità di tentare di guarirti. Sì, se le occhiate potessero uccidere, so bene che in questo momento sarei morto. Ma, ascoltami, Raistlin o Fistandantilus o chiunque altro tu sia: se sarà volontà di Paladine che tu debba morire prima di causare altri guai a questo mondo, allora sia. Sono pronto ad accettare quel destino, come lo accetterà Crysania. Ma se invece è volontà di Paladine che tu viva, allora accetteremo anche quella... e lo farai anche tu!»
Raistlin, pur allo stremo delle forze, continuò a serrare in una morsa insanguinata il braccio di Caramon, stringendolo con dita che già parevano irrigidirsi nella morte.
Con fermezza, serrando le labbra, Caramon si staccò di dosso la mano di suo fratello. Si alzò in piedi, lasciò il capezzale di Raistlin, sentendo, accanto a sé, un gemito incoerente di agonizzante tormento. Caramon esitò un attimo... quel gemito gli arrivava dritto al cuore. Ma poi pensò a Tika, pensò alla sua casa...
Caramon continuò a camminare. Quando uscì fuori nella notte e si diresse a rapidi passi verso la tenda di Crysania, il grosso guerriero lanciò un’occhiata su un lato, e scorse il nano, il quale se ne stava con noncuranza in mezzo alle ombre, affilando un pezzo di legno con un coltello tagliente.
Caramon infilò la mano sotto l’armatura, e ne estrasse, una volta ancora, il pezzo di pergamena.
Non aveva certo bisogno di rileggerlo. Le parole erano poche e fin troppo semplici:
Lo stregone ha tradito te e il tuo esercito. Manda un messaggero a Thorbardin, per apprendere la verità.
Caramon scagliò al suolo la pergamena.
Che scherzo crudele! Che scherzo crudele e contorto!
Attraverso l’orribile tormento del suo dolore, Raistlin poteva sentire le risate degli dei. Offrirgli la salvezza con una mano e strappargliela con l’altra! Come dovevano divertirsi nel vedere la sua sconfitta!
Il corpo torturato di Raistlin, così come la sua anima, si contorceva in preda agli spasimi, divincolandosi in una rabbia impotente, bruciando nella consapevolezza del suo fallimento.
Umano debole e meschino, sentì.le voci degli dei che gridavano, così ti ricordiamo la tua mortalità!
Non era disposto ad assistere al trionfo di Paladine. Vedere che il dio lo beffeggiava, che si gloriava della sua caduta... no! Meglio morire in fretta, lasciare che la sua anima cercasse un qualunque, disperato rifugio. Ma quel bastardo di suo fratello, quell’altra metà di lui, quella metà che invidiava e disprezzava, la metà che lui avrebbe dovuto essere, per diritto... negargli questa... quest’ultima misericordiosa consolazione...
Il suo corpo fu colto da nuove convulsioni a causa del dolore. «Caramon!» gridò Raistlin, solo, nel buio. «Caramon, ho bisogno di te! Caramon, non lasciarmi!» singhiozzò, stringendosi lo stomaco, arricciandosi in una palla compatta. «Non lasciarmi... non lasciare che io affronti questo... da solo!»
E poi la sua mente smarrì il filo della coscienza. Il mago ebbe delle visioni, mentre la vita gli scivolava tra le dita. Ali scure di drago, un Globo dei draghi spezzato... Tasslehoff... uno gnomo...
La mia salvezza... La mia morte... Una luce intensa e fredda, bianca e pura, tagliente come la lama d’una spada, penetrò la mente del mago. Ritraendosi, tentò di fuggire, tentò di sommergersi nell’oscurità calda e consolatrice. Poteva sentire se stesso che implorava Caramon di ucciderlo, di metter fine al dolore e a quella luce vivida e lacerante.
Raistlin si sentì pronunciare quelle parole, ma non aveva nessuna consapevolezza del fatto di aver parlato ad alta voce. Lo sapeva soltanto perché al riflesso di quella luce pura e vivida aveva visto suo fratello che si allontanava da lui.
Lo splendore della luce crebbe ancora di più e divenne un volto fatto di luce, un volto bello, calmo, puro, con occhi scuri, grigi e freddi. Due mani fredde gli toccarono la pelle ardente.
«Lascia che ti guarisca.»
La luce gli fece male, peggio del dolore causatogli dall’acciaio. Urlando, contorcendosi, Raistlin cercò di fuggire, ma le mani lo tennero fermo.
«Lascia che ti guarisca.»
«Vai... via!»
«Lascia che ti guarisca!»
Una stanchezza, un’immensa stanchezza, sopraffece Raistlin. Era stanco di combattere... di combattere il dolore, di combattere il ridicolo, di combattere il tormento con cui era vissuto durante tutta la sua vita.
Molto bene. Che il dio ridesse pure. Se l’era guadagnato, dopotutto, pensò Raistlin con amarezza.
Che si rifiuti pure di guarirmi. E poi riposerò nella tenebra... nella tenebra confortante...
Chiudendo gli occhi, chiudendoli con forza per proteggerli dalla luce, Raistlin attese la risata... e, d’un tratto, vide il volto del dio.
Caramon era fuori, all’ombra della tenda di suo fratello, con la testa dolorante stretta fra le mani. Le tormentose implorazioni di Raistlin perché gli venisse data la morte lo trafiggevano come la lama di un coltello. Alla fine non ce la fece più. Era ovvio che il chierico aveva fallito. Afferrando l’elsa della propria spada, Caramon entrò nella tenda e marciò verso il letto.
In quell’istante, le grida di Raistlin cessarono.
Dama Crysania si accasciò sul suo corpo, cadendo con la testa sul petto del mago.
E morto! pensò Caramon. Raistlin è morto.
Fissando il volto di suo fratello non provò dolore. Si sentì invece invadere da una specie di orrore a quella vista, pensando... Che maschera grottesca ha scelto d’indossare la morte!
Il volto di Raistlin era rigido come quello d’un cadavere, la bocca era spalancata e non ne usciva nessun suono. La pelle era livida. Gli occhi ciechi e fissi sopra le guance infossate guardavano dritti nel nulla.
Avvicinandosi di un altro passo, talmente intorpidito da essere incapace di provar dolore, o sofferenza, o sollievo, Caramon guardò più da vicino la strana espressione sul volto del morto, e si rese conto, improvvisamente sbigottito, che Raistlin non era morto! Quegli occhi spalancati e fissi contemplavano ciechi questo mondo, ma soltanto perché ne vedevano un altro.
Un grido, quasi un uggiolio, scosse il corpo del mago, più orrendo, all’udito, delle sue grida agonizzanti. La sua testa si mosse leggermente, le sue labbra si dischiusero, la sua gola palpitò ma non produsse nessun suono.
E poi gli occhi di Raistlin si chiusero, la testa reclinò su un Iato, i suoi muscoli in preda agli spasimi si rilassarono, l’espressione sofferente sbiadì, lasciando un volto tirato e pallido. Esalò un profondo sospiro. Ne tirò un altro, e un altro ancora...
Scosso da ciò che aveva visto, incerto se dovesse o no provare gratitudine oppure un dolore ancora più intenso sapendo che suo fratello era vivo, Caramon vide tornare la vita nel corpo lacerato e sanguinante di suo fratello.
Scuotendosi di dosso a fatica la sensazione paralizzante che talvolta afferra qualcuno che si è svegliato all’improvviso da un sonno profondo, Caramon s’inginocchiò accanto a Crysania e, prendendola delicatamente con una mano, l’aiutò a rialzarsi. Crysania lo fissò sbattendo le palpebre senza riconoscerlo. Poi il suo sguardo si spostò immediatamente su Raistlin. Un sorriso le illuminò la faccia. Chiuse gli occhi e mormorò una preghiera di ringraziamento. Poi, portandosi una mano sul fianco, si afflosciò addosso a Caramon. Sulle sue bianche vesti era visibile del sangue fresco.
«Dovresti guarire te stessa,» disse Caramon, aiutandola a uscire dalla tenda, sorreggendo con le sue braccia robuste i suoi passi esitanti.
Crysania sollevò lo sguardo su di lui e, malgrado fosse indebolita, il suo volto era bello e calmo nel trionfo.
«Forse domani,» rispose con voce sommessa. «Questa notte la mia vittoria è ben più grande. Non vedi? Questa è la risposta alle mie preghiere.»
Contemplando quella bellezza pacifica e serena, Caramon sentì le lacrime salirgli agli occhi.
«Così, è questa la tua risposta?» chiese, burbero, lanciando un’occhiata in direzione dell’accampamento. I falò erano ridotti a mucchi dì cenere e di braci. Con la coda dell’occhio Caramon vide qualcuno che correva via, e seppe che ben presto si sarebbe diffusa la notizia che la strega era in qualche modo riuscita a restituire il morto alla vita.
Caramon sentì la bile salirgli in bocca. Poteva immaginare i discorsi, l’eccitazione, le domande, le congetture, le occhiate cupe e gli scuotimenti di teste, e la sua anima si ritrasse. Voleva soltanto andare a letto, dormire e dimenticarsi di tutto.
Ma Crysania stava parlando. «Questa è anche la tua risposta, Caramon,» disse con fervore. «Questo è il segno degli dei che abbiamo entrambi cercato.» Fermandosi, si girò per guardarlo in faccia con grande calore. «Sei ancora cieco come lo eri nella Torre? Non credi ancora? Abbiamo posto la faccenda nelle mani di Paladine e il dio ha parlato. Raistlin doveva vivere. Deve compiere questa sua grande impresa. Insieme, lui ed io, e anche tu, se ti unirai a noi, combatteremo il male e lo sconfiggeremo, così come stanotte abbiamo combattuto e sconfitto la morte!»
Caramon la fissò. Poi chinò la testa e infossò le spalle. Non voglio combattere il male, pensò stancamente. Voglio soltanto tornare a casa. Questo è chiedere troppo?
Sollevò una mano e cominciò a sfregarsi una tempia che gli pulsava. E poi si fermò, vedendo, alla luce dell’alba che andava lentamente aumentando d’intensità, i segni delle dita insanguinate di suo fratello ancora sul suo braccio. «Metterò una guardia all’interno della tua tenda,» disse con asprezza.
«Cerca di dormire un po’...»
Si allontanò.
«Caramon,» lo chiamò Crysania.
«Cosa?» Si fermò con un sospiro.
«Ti sentirai meglio domattina. In queste ore pregherò per te. Buona notte, amico mio. E ricordati di ringraziare Paladine per aver fatto la grazia di concedere la vita a tuo fratello.»
«Sì, sì... certamente,» bofonchiò Caramon. Si sentiva molto a disagio, con il mal di testa che andava peggiorando; sapeva che ben presto si sarebbe sentito molto peggio, per cui lasciò Crysania e fece ritorno, incespicando, alla propria tenda.
Qui, tutto solo, nell’oscurità, si sentì male, e vomitò in un angolo fino a crollare sul suo giaciglio sfinito.
Battendo leggermente sulla pietra dell’ospite, che si trovava fuori dell’abitazione di Duncan, Kharas aspettò nervosamente la risposta. Arrivò presto. La porta si aprì, e là c’era il suo re.
«Entra, e che tu sia il benvenuto, Kharas,» disse Duncan, allungando una mano e tirando a sé il nano.
Arrossendo per l’imbarazzo, Kharas entrò nella dimora del suo re. Sorridendogli gentilmente, per metterlo a suo agio, Duncan gli fece strada attraverso la casa, fino al suo studio privato.
Costruita molto in profondità, nel cuore del Regno della montagna, la dimora di Duncan era in realtà un complicato labirinto di stanze e di gallerie piene di quei mobili di legno, scuri, massicci e robusti che i nani ammiravano. Malgrado fosse più grande e spaziosa della maggiore parte delle case di Thorbardin, la dimora di Duncan era quasi esattamente simile a quella di ogni altro nano.
Sarebbe stato considerato il massimo del cattivo gusto se fosse stato altrimenti. Il semplice fatto che Duncan fosse il re, non gli dava il diritto di assumere atteggiamenti altezzosi. Così, malgrado avesse dei servitori, veniva di persona ad accogliere i visitatori alla porta e serviva gli ospiti con le proprie mani. Vedovo, viveva in quella casa insieme ai suoi due figli, che non erano sposati, essendo entrambi giovani (soltanto ottant’anni a testa, o giù di lì).
Era ovvio che lo studio nel quale Kharas entrò era la stanza preferita di Duncan. Scudi e asce da combattimento decoravano le pareti, insieme a un bell’assortimento di spade catturate agli hobgoblin, con le loro lame ricurve, un tridente di minotauro vinto da qualche lontano antenato e, naturalmente, martelli, ceselli e altri utensili per lavorare la pietra.
Duncan fece accomodare il suo ospite con la genuina ospitalità dei nani, offrendogli la miglior poltrona, versandogli la birra, e attizzando il fuoco. Kharas era stato lì altre volte, naturalmente, molte volte, in realtà. Ma adesso si sentiva inquieto e a disagio, come se fosse entrato nella casa di un estraneo. Forse ciò era dovuto al fatto che Duncan, malgrado trattasse l’amico con l’usuale cortesia, di tanto in tanto fissava il nano sbarbato con uno sguardo strano e penetrante.
Osservando quell’insolita espressione negli occhi di Duncan, Kharas trovò impossibile rilassarsi e rimase lì, sulla sedia, irrequieto, ripulendosi nervosamente la schiuma dalla bocca con il dorso della mano mentre aspettava che le formalità si concludessero.
E così fu assai presto. Versandosi un boccale di birra, Duncan lo svuotò d’un sol fiato. Poi, appoggiando il boccale sul tavolo accanto al suo braccio, si accarezzò la barba, fissando Kharas con un’espressione fosca e cupa.
«Kharas,» disse, «ci avevi detto che lo stregone era morto.» «Sì, thane,» replicò Kharas, sorpreso.
«Quello che io personalmente gli ho inferto era un colpo mortale. Nessuno avrebbe mai potuto sopravvivere...»
«Lui, sì,» ribatté Duncan, asciutto. Kharas si accigliò. «Mi stai accusando...»
Adesso toccò a Duncan arrossire. «No, amico mio! Ben lungi da me l’idea di farlo. Sono certo che, qualunque cosa possa essere successa, tu credevi in tutta sincerità di averlo ucciso.» Duncan emise un profondo sospiro. «Ma i nostri esploratori hanno riferito di averlo visto nel campo. In apparenza era ferito, per lo meno non era più in grado di cavalcare. Però, l’esercito ha proseguito per Zhaman, trasportando lo stregone su un carro.»
«Thane!» protestò Kharas, rosso in viso per la collera. «Ti giuro! Il suo sangue è scorso sopra le mie mani ! Ho strappato la mia spada dal suo corpo. Per Reorx!» Il nano rabbrividì. «Ho visto l’espressione della morte nei suoi occhi!»
«Non ne dubito, figliolo!» l’interruppe Duncan, con foga, protendendosi a battere la mano sulla spalla dell’eroe. «Non ho mai sentito che qualcuno sia sopravvissuto ad una ferita come quella che tu hai descritto, salvo che ai vecchi tempi, naturalmente, quando i chierici viaggiavano ancora per il paese.»
Come tutti gli altri veri chierici, anche i chierici nani erano scomparsi subito prima del Cataclisma.
Però, a differenza delle altre razze su Krynn, i nani non avevano mai abbandonato la loro credenza nell’antico dio, Reorx, il Forgiatore del Mondo. Malgrado i nani fossero rimasti sconvolti perché Reorx aveva causato il Cataclisma, la fede che avevano in lui era troppo radicata, e faceva parte in maniera troppo intrinseca della loro cultura, perché potessero semplicemente ripudiarla a causa di una piccola infrazione da parte del loro dio. Comunque, erano abbastanza incolleriti da non venerarlo più in maniera palese.
«Hai idea di come ciò possa essere accaduto?» chiese Duncan, corrugando la fronte.
«No, thane,» rispose Kharas con voce grave. «Ma mi sono chiesto come mai non avessimo ricevuto una risposta dal generale Caramon.» Rifletté per qualche istante. «Qualcuno ha interrogato quei due prigionieri che abbiamo portato indietro con noi? Potrebbero saper qualcosa.»
«Un kender e uno gnomo?» Duncan sbuffò. «Bah! Cosa possono sapere quei due? Inoltre, non c’è bisogno d’interrogarli. Comunque, non sono particolarmente interessato allo stregone. In realtà il motivo per il quale ti ho chiamato qui per comunicarti questa notizia, Kharas, è quello di insistere che adesso tu ti scordi di questi discorsi di pace e ti concentri sulla guerra.»
«Quei due hanno qualcosa di più della barba, thane,» borbottò Kharas, citando una antica espressione. Era ovvio che non aveva ascoltato una sola parola. «Io credo che dovresti...»
«So quello che pensi,» replicò Duncan cupo. «Apparizioni evocate dallo stregone. E ti dico che è ridicolo! Quale stregone che abbia un minimo di rispetto per se stesso evocherebbe mai un kender? E molto probabile, invece, che siano servitori, o qualcosa del genere. Là dentro era buio e ogni cosa era confusa. L’hai detto tu stesso.»
«Non ne sono sicuro,» disse Kharas con voce sommessa. «Se tu avessi visto la faccia del mago quando li ha guardati! Era la faccia di qualcuno che cammina per le pianure e d’un tratto vede un forziere colmo d’oro e di gioielli ai suoi piedi. Dammi il permesso, thane,» esclamò Kharas, con foga. «Lascia che li porti davanti a te. Parla con loro, è tutto quello che ti chiedo!»
Duncan diede in uno sterminato sospiro, fissando Kharas con aria malinconica.
«Molto bene,» sbottò alla fine. «Immagino che non possa far male. Ma...» Duncan studiò Kharas con sguardo astuto, «... se risulterà che non c’è nulla, mi prometti che lascerai perdere questa tua assurda idea e ti concentrerai sulla guerra? Sarà una lotta dura, figliolo,» aggiunse il re con maggior gentilezza, cogliendo un’espressione di autentico dolore sul volto sbarbato del suo giovane eroe.
«Avremo bisogno di te, Kharas.»
«Sì, thane,» rispose Kharas con voce ferma. «Accetto. Nel caso in cui non risulti nulla.»
Con un burbero cenno del capo, Duncan gridò per chiamare le guardie e uscì dalla casa con passo pesante, seguito più lentamente da Kharas, immerso nei suoi pensieri.
Procedettero attraverso il vasto regno sotterraneo dei nani, serpeggiando lungo le straducole da un lato e poi dall’altro, superarono su una barca il Mare di Urkhan e arrivarono finalmente al primo livello delle segrete. Qui venivano tenuti i prigionieri che avevano compiuto crimini e infrazioni di minore entità: debitori insolventi, un giovane che aveva mancato di rispetto a un anziano, bracconieri, e parecchi ubriachi, i quali smaltivano le gozzoviglie della notte. Qui venivano tenuti anche il kender e lo gnomo.
Per lo meno, vi erano stati tenuti, la sera prima.
«Tutto si riduce,» dichiarò Tasslehoff Burrfoot, mentre le guardie nane lo pungolavano perché andasse avanti, «al fatto di non avere una mappa.»
«Mi pareva che tu avessi detto di essere già stato qui, prima» replicò Gnimsh, in tono irritato.
«Non prima,» lo corresse Tas. «Dopo. O meglio, più tardi: questa sarebbe l’espressione più adatta. Circa duecento anni più tardi, da quanto mi riesce di calcolare. È una storia affascinante, sai. Venni qui con alcuni miei amici. Vediamo... è stato subito dopo che Goldmoon e Riverwind si erano sposati e prima che andassimo a Tharsis. Oppure è stato dopo che siamo andati a Tharsis?» Tas rifletté. «No, non può essere stato così, poiché Tharsis si trovava dove quell’edificio mi crollò addosso, e...»
«Hogiàsentitoquestastoria,» sbottò Gnimsh.
«Cosa?» Tas ammiccò più volte.
«L’ho già... sentita!» urlò Gnimsh. La sua voce acuta da gnomo echeggiò nella cavità sotterranea, inducendo parecchi passanti a guardarlo con severità. Cupe in volto, le guardie nane sollecitarono i loro prigionieri.
«Oh,» disse Tas, un po’ abbattuto. Ma quasi subito il kender si rallegrò. «Però, il re non l’ha sentita, e ci stanno portando da lui. Probabilmente gli interesserà molto...»
«Hai detto che non avremmo dovuto dir niente sul fatto che veniamo dal futuro,» obiettò Gnimsh con un fragoroso bisbiglio, il lungo grembiule di cuoio che gli sbatteva intorno ai piedi.
«Dovremmo comportarci come se venissimo da qui, non ricordi?»
«Quello è stato quando pensavo che tutto sarebbe andato bene,» replicò Tas con un sospiro. «E tutto stava andando bene. Il congegno ha funzionato, siamo scappati dall’Abisso...»
«Ci hanno lasciati scappare...» gli fece notare Gnimsh.
«Insomma, qualunque cosa sia successa,» disse Tas, irritato da quell’osservazione. «In ogni caso, ne siamo venuti fuori, e questo è tutto ciò che conta. E il congegno magico ha funzionato, proprio come avevi detto tu.» Gnimsh sorrise felice e annuì. «E abbiamo trovato Caramon. Proprio come avevi detto tu, il congegno era cali., cala... qualunque cosa fosse per tornare da lui...»
«Calibrato,» lo interruppe Gnimsh.
«... ma poi,» Tas masticò nervosamente l’estremità della sua ciocca di capelli, «tutto è andato storto, chissà per quale motivo. Raistlin trafitto, forse morto. I nani che ci hanno trascinato via senza darmi neanche la possibilità di dirgli che stavano commettendo un grosso errore...»
Il kender proseguì con passo strascicato, riflettendo profondamente. Alla fine scosse la testa. «Ci ho ripensato, Gnimsh. So che è un atto disperato, al quale di solito non ricorrerei, ma non credo che ci restino altre scelte. La situazione ci è completamente sfuggita di mano.» Tas esalò un sospiro solenne. «Credo che dovremmo dire la verità.»
Gnimsh parve estremamente allarmato da quella drastica azione, talmente allarmato, in realtà, che inciampò sul suo grembiule e cadde lungo disteso per terra. Le guardie, nessuna delle quali parlava il comune, lo tirarono in piedi e trascinarono di peso lo gnomo per tutto il resto del percorso, arrivando finalmente a fermarsi davanti a una grande porta di legno. Qui altre guardie, squadrando lo gnomo e il kender con disgusto, diedero una spinta alla porta aprendola lentamente.
«Oh, sono già stato qui,» disse Tas all’improvviso. «Adesso so dove siamo.»
«E un grande aiuto,» borbottò Gnimsh.
«La Sala delle Udienze,» proseguì Tas. «L’ultima volta che eravamo qui, Tanis si è sentito male. È un elfo, sai. Be’, un mezzelfo, comunque, e odiava vivere sottoterra.» Il kender sospirò di nuovo.
«Vorrei che Tanis fosse qui, adesso. Saprebbe cosa fare. Vorrei che qualcuno di saggio fosse qui adesso.»
Le guardie li spinsero dentro la grande sala. «Per lo meno,» disse Tas a Gnimsh con voce sommessa, «non siamo soli. Per lo meno ci facciamo compagnia.»
«Tasslehoff Burrfoot,» disse il kender, inchinandosi davanti al re dei nani, rivolgendo poi, di nuovo, un inchino a ciascuno dei thane seduti sugli scranni di pietra dietro e a un livello più basso del trono di Duncan. «E questo è...»
Lo gnomo si fece avanti, pieno di zelo: «Gnimshmari...»
«Gnimsh!» tagliò netto Tas a voce alta, calpestando il piede dello gnomo, mentre Gnimsh faceva una sosta per riprender fiato. «Lascia che parli io!» lo rimproverò poi il kender, con un bisbiglio ben udibile.
Accigliandosi, Gnimsh piombò in un silenzio offeso, mentre Tas si guardava intorno con espressione vivace.
«Caspita, non è che abbiate progettato molto in quanto a rinnovamenti nei prossimi duecento anni, non è vero? L’aspetto sarà pressappoco lo stesso. Soltanto... mi sembra di ricordare quella fessura laggiù... no, dall’altra parte. Sì, quella. Diverrà parecchio più grande in futuro. Potreste voler...»
«Da dove vieni, kender?» interruppe severo Duncan.
«Da Solace,» disse Tas, ricordando che stava dicendo la verità. «Oh, non preoccuparti se non ne hai mai sentito parlare. Non esiste ancora. Non ne avevano sentito parlare neppure a Istar, ma questo non aveva molta importanza dal momento che a loro interessava soltanto quello che si trovava a Istar, voglio dire. Solace si trova a nord di Haven, anche quella non c’è ancora, ma ci sarà prima di Solace... se capisci quello che voglio dire.»
Duncan, sporgendosi in avanti, squadrò Tas con espressione inferocita da sotto le folte sopracciglia. Un sintomo indubbiamente allarmante. «Stai mentendo,» l’accusò.
«Niente affatto!» esclamò Tas, indignato. «Siamo arrivati qui usando un congegno magico che avevo preso a prestito, in un certo qual senso, da un amico. Funzionava bene quando l’avevo, ma poi, accidentalmente, l’ho rotto. Oh, in realtà non è stata colpa mia. Ma quella è un’altra storia. In ogni caso, sono sopravvissuto al Cataclisma, e sono finito nell’Abisso. Non un bel posto. Comunque, nell’Abisso ho incontrato Gnimsh, e lui l’ha riparato. Il congegno, voglio dire, non l’Abisso. È davvero un tipo meraviglioso,» proseguì Tas in tono confidenziale, battendo la mano sulla spalla di Gnimsh. «È proprio uno gnomo, ma le sue invenzioni funzionano.»
«E così, tu vieni dall’Abisso!» esclamò Kharas in tono severo. «Tu l’ammetti! Apparizioni dai Regni delle Tenebre! Lo stregone dalle Vesti Nere ti ha evocato, e tu sei arrivato a un suo ordine.»
Quella stupefacente accusa fece restare il kender senza parole.
«Co... co... » farfugliò Tas per parecchi istanti, poi ritrovò la propria voce. «Non sono mai stato così insultato in vita mia! Salvo, forse, quando quella guardia a Istar si è riferita a me chiamandomi un... un taglia... tagliabor... be’, non importa. Per non parlare del fatto che, se Raistlin avesse voluto evocare qualcosa, non credo proprio che saremmo stati noi. Il che mi fa ricordare una cosa!» Tas fissò Kharas con espressione altrettanto severa e furente. «Perché l’hai ucciso in quel modo? Voglio dire, forse non era quella che si può definire una persona davvero simpatica. E forse ha cercato di uccidermi facendomi rompere il congegno magico per poi abbandonarmi a Istar, sulla quale gli dei hanno scagliato una montagna di luce. Ma,» Tas se ne uscì in un sospiro nostalgico, «era di sicuro una delle persone più interessanti che io abbia mai incontrato.»
«Il tuo stregone non è morto, e tu lo sai benissimo, apparizione!» ringhiò Duncan.
«Ascolta, io non sono una appari... Non è morto?» Il volto di Tas s’illuminò. «È proprio vero? Perfino dopo che è stato trafitto in quel modo e con tutto quel sangue e il resto e... Oh! So com’è successo! Crysania! Certo! Dama Crysania!»
«Ah, la strega!» disse Kharas con voce sommessa, quasi parlando fra sé, mentre un alto brusio si levava dai thane.
«Be’, talvolta è fredda e impersonale,» dichiarò Tas, scosso da quelle parole, «ma non credo proprio che questo ti dia il diritto d’insultarla! E un chierico di Paladine, in fin dei conti.»
«Chierico!» I thane cominciarono a ridere.
«Ecco la tua risposta,» disse Duncan a Kharas, ignorando il kender. «Stregonerie.»
«Hai ragione, naturalmente, thane,» replicò Kharas, accigliandosi, «ma...»
«Ascoltate,» li implorò Tas. «Se soltanto mi lasciaste andar via! Continuo a cercare di dirlo, a voi nani. Questo è tutto un terribile errore! Devo andare da Caramon!»
Questo provocò una reazione. I thane si azzittirono immediatamente.
«Tu conosci il generale Caramon?» chiese Kharas, dubbioso.
«Generale?» ripetè Tas. «Caspita! Tanis sarà proprio sorpreso di sentirlo! Generale Caramon? Tika si metterebbe a ridere... Uh, ma certo che conosco Cara... Il generale Caramon,» si affrettò a continuare Tas, vedendo che le sopracciglia di Duncan s’intrecciavano di nuovo. «È il mio migliore amico. E se soltanto ascoltaste quello che sto cercando di dirvi, Gnimsh ed io siamo arrivati qui con il congegno magico per cercare Caramon e riportarlo a casa. Lui non vuole trovarsi qui, ne sono sicuro. Capite, Gnimsh ha riparato il congegno, così adesso può trasportare più di una persona...»
«Riportarlo a casa, dove?» ringhiò Duncan. «L’Abisso? Forse lo stregone ha evocato anche lui?»
«No!» sbottò Tas, cominciando a perdere la pazienza. «Riportarlo a casa a Solace, naturalmente. E anche Raistlin, se vorrà venire. In effetti, non riesco a immaginare cosa stiano facendo qui. Raistlin non poteva sopportare Thorbardin, l’ultima volta che siamo stati qui, il che avverrà fra circa duecento anni. Ha passato tutto il tempo a tossire e a lamentarsi per l’umidità. Flint diceva... Flint Fireforge, vale a dire un mio vecchio amico...»
«Fireforge?» Duncan balzò letteralmente fuori dal trono, fissando il kender con furore. «Sei un amico di Fireforge?».
«Be’, non c’è bisogno che tu te la prenda tanto,» disse Tas, un po’ sorpreso. «Flint aveva i suoi difetti, naturalmente, sempre a brontolare e ad accusare la gente di rubargli qualcosa, quando avevo davvero l’intenzione di rimettere quel braccialetto proprio dove l’avevo trovato, ma questo non significa che tu...»
«Fireforge,» dichiarò Duncan, con voce cupa, «è il capo dei nostri nemici. Oppure non lo sapevi?»
«No,» rispose Tas, mostrando interesse, «non lo sapevo. Oh, ma sono sicuro che non poteva essere lo stesso Fireforge!» aggiunse, dopo averci riflettuto un po’. «Flint non nascerà per almeno altri cinquant’anni. Forse è suo padre. Raistlin dice...»
«Raistlin? Chi è questo Raistlin?» volle sapere Duncan.
Tasslehoff gratificò il nano di uno sguardo severo. «Tu non mi ascolti. Raistlin è lo stregone, quello che avete ucciso... Cioè, quello che non avete ucciso. Quello che pensavate di aver ucciso ma non avete ucciso.»
«Il suo nome non è Raistlin. È Fistandantilus!» sbuffò Duncan. Poi, sempre più cupo, il re dei nani tornò a sedersi. «Così,» disse, fissando il kender da sotto le sue sopracciglia cespugliose, «tu hai in mente di riportare questo stregone, che è stato guarito da un chierico, quando non ci sono chierici in questo mondo, e un generale che, a quanto tu sostieni, è il tuo migliore amico, in un posto che non esiste per incontrare il nostro nemico che non è ancora nato, usando un congegno fabbricato da uno gnomo e che, a quanto pare, funziona davvero?»
«Esatto!» gridò Tas, trionfante. «Visto quanto puoi imparare ascoltando come si deve?» Gnimsh annuì enfaticamente.
«Guardie! Portateli via!» urlò Duncan. Girando sui tacchi, fissò Kharas con freddezza. «Mi hai dato la tua parola. Mi aspetto di vederti nella Sala del Consiglio di Guerra fra dieci minuti.»
«Ma, thane, se davvero conosce il generale Caramon...»
«Basta così!» Duncan era furente. «La guerra è alle porte, Kharas. Tutto il tuo senso dell’onore e tutte le tue nobili chiacchiere non possono fermarla! E tu ti troverai là fuori sul campo di battaglia, altrimenti puoi prendere la tua faccia che svergogna tutti e nasconderti nelle segrete insieme agli altri che hanno tradito il nostro popolo... i Dewar! Cosa scegli?»
«Naturalmente ti servirò, thane,» disse Kharas, il volto rigido. «Ho impegnato la mia vita.»
«Vedi di ricordartelo!» sbottò Duncan. «E per impedire che i tuoi pensieri vaghino altrove, ti ordino di rimanere confinato nei tuoi alloggi salvo che per partecipare alle riunioni del Consiglio di Guerra e che, inoltre, questi due,» indicò con un gesto Tas e Gnimsh, «vengano imprigionati e il luogo della loro detenzione rimanga segreto fino a quando la guerra non sarà finita. La morte cada sulla testa di chiunque violi questo ordine.»
I thane si guardarono l’un l’altro confermando la loro approvazione, anche se uno di loro borbottò che era troppo tardi. Le guardie afferrarono Gnimsh e Tas, ma il kender continuò a protestare energicamente mentre lo portavano via.
«Vi ho detto la verità!» gemeva. «Dovete credermi! So che sembra strano ma, vedete, non... non sono molto abituato a... uh... a dire la verità! Ma datemi un po’ di tempo. Sono sicuro che un giorno imparerò...»
Tasslehoff non avrebbe mai creduto che fosse possibile scendere così in basso sotto la superficie del mondo, mentre le guardie li conducevano via, se i suoi piedi non avessero fatto tutta quella strada. Ricordava che una volta Flint gli aveva detto che Reorx viveva là sotto, intento a forgiare il mondo con il suo grande martello.
«Dev’essere proprio un tipo allegro e simpatico,» borbottò Tas, tremando per il freddo al punto che i denti cominciarono a battergli. «Per lo meno, si potrebbe pensare che, se Reorx se ne stesse quaggiù a forgiare il mondo, farebbe senz’altro un po’ più caldo.»
«Vattiafidaredeinani,» mugugnò Gnimsh.
«Cosa?» A Tas pareva di aver passato l’ultima metà della sua vita cominciando ogni frase rivolta allo gnomo con “cosa?”.
«Ho detto, vatti a fidare dei nani!» ripetè Gnimsh ad alta voce. «Invece di costruire le loro case dentro vulcani attivi che, malgrado siano un po’ instabili, forniscono un’eccellente fonte di calore, le hanno costruite dentro le antiche montagne morte.» Scosse la testa dagli esili ciuffi. «È difficile credere che siamo cugini.»
Tas non replicò, preoccupato com’era da altre faccende, per esempio come fare a tirarsi fuori da quella situazione, e dove andare, se fossero riusciti a farlo, e quando c’era probabilità che servissero la cena? Visto che, a quanto pareva, non c’era nessuna risposta immediata a questi quesiti (compreso quello della cena) il kender cadde in un cupo silenzio.
Oh, vi fu un momento davvero eccitante, quando vennero calati giù lungo una stretta galleria di roccia che era stata scavata dritta in verticale dentro la montagna. Il congegno che utilizzavano per calare la gente dentro quel pozzo veniva chiamato “ascensore” dagli gnomi, stando a quanto precisò Gnimsh. («“Ascensore” non è un nome inadatto, dal momento che stiamo andando giù?» gli fece notare Tas, ma lo gnomo l’ignorò.)
Visto che nessuna soluzione al suo problema sembrava imminente, Tas decise di non sprecare il suo tempo in quel luogo così interessante facendo l’imbronciato. Perciò, si godette completamente il tragitto in ascensore, anche se era piuttosto disagevole in certi punti, quando quel traballante congegno di legno, fatto funzionare da nani muscolosi che tiravano lunghissime corde, sbatteva contro i lati della galleria di roccia mentre veniva calato, sbatacchiando qua e là gli stessi occupanti e infliggendo agli stessi numerosi tagli e ammaccature.
Questo si rivelò altamente divertente, specialmente quando le guardie nane che accompagnavano Tas e Gnimsh scuotevano i pugni imprecando bellamente in nanesco contro gli operatori sopra di loro.
In quanto allo gnomo Gnimsh, era piombato in uno stato di eccitazione impossibile a credersi.
Raccogliendo un mozzicone di carboncino e prendendo a prestito uno dei fazzoletti di Tas, si accucciò sul pavimento dell’ascensore e cominciò subito a disegnare il progetto di un Nuovo Ascensore Migliorato.
«Carrucolacavoevapore,» farfugliò velocemente fra sé, tutto felice, impegnandosi tutto ad abbozzare quella che a Tas parve una gigantesca trappola per aragoste su ruote. «Sugiù sugiù. Chepiano? Unpassoindietro. Capacità: trentadue. Inceppato? Segnaldallarme! Sireneccorni!»
Quando finalmente raggiunsero il piano terra, Tas cercò di osservare con attenzione per vedere la direzione che stavano prendendo (così da potersene andare, anche se non avevano una mappa), ma Gnimsh si teneva aggrappato a lui, indicando il suo schizzo e spiegandoglielo nei particolari.
«Sì, Gnimsh. Davvero interessante,» diceva ogni tanto Tas, ascoltando soltanto per metà quello che lo gnomo gli diceva mentre il suo cuore sprofondava sempre più in basso del punto in cui si trovavano. «Un pifferaio in un angolo che suona una musica tranquillizzante? Sì, Gnimsh, è un’idea magnifica.»
Guardandosi intorno, mentre le loro guardie li pungolavano per farli avanzare, Tas sospirò. Non soltanto quel posto aveva un aspetto noioso almeno quanto l’Abisso, ma possedeva lo svantaggio supplementare di puzzare ancora di più. Disposte in file successive, delle rudimentali celle coprivano le pareti rocciose. Illuminate da torce che fumavano nell’aria fetida e rarefatta, le celle brulicavano di nani fino a scoppiare.
Tas fissò quelle celle con crescente perplessità, mentre proseguivano lungo la stretta corsia che correva fra i blocchi. Quei nani non avevano l’aspetto di criminali. C’erano maschi, femmine, perfino bambini, ammassati dentro le celle. Rannicchiati su sudice coperte, ammucchiati su scassati sgabelli, guardavano tristemente da dietro le sbarre.
«Ehi!» esclamò Tas, tirando la manica di una guardia. Il kender masticava un po’ il nanesco, avendone imparato i rudimenti da Flint. «Cos’è tutto questo?» chiese, agitando una mano. «Perché mai tutta questa gente si trova qui?» (Per lo meno, fu quello che sperò di aver detto. C’era senz’altro la forte possibilità che, in realtà, avesse chiesto involontariamente la strada per arrivare alla più vicina birreria.)
Ma la guardia si girò a guardarlo furente, limitandosi a dire: «Dewar.».
«Dewar?» ripetè Tas senza capire. La guardia, però, si rifiutò di elaborare la sua risposta e dette al kender un brutale spintone incitandolo ad andare avanti. Tas incespicò, poi riprese a camminare, guardandosi intorno, cercando di afferrare quello che stava accadendo. Gnimsh, nel frattempo, in apparenza colto da un altro attacco d’ispirazione, continuava a parlare di “idraulica”.
Tas rifletté. Dewar, pensò, cercando di ricordare dove aveva sentito quella parola. D’un tratto, la risposta gli venne in mente.
«I nani scuri!» esclamò. «Ma certo! Me ne ricordo! Hanno combattuto per il Signore dei Draghi. Ma l’ultima volta non vivevano qui, o suppongo che sarà la prossima volta, quando siamo venuti qui. O verremo qui. Maledizione, che grande pasticcio. Però, certamente non vivono nelle celle delle prigioni. Ehi,» Tas batté di nuovo la mano sulla spalla del nano, «che cosa hanno fatto? Voglio dire... per essere stati buttati in prigione?»
«Traditori!» sbottò il nano. Raggiunta una cella all’estremità della corsia, tirò fuori una chiave, la infilò nella serratura, e spalancò la porta.
Sbirciando all’interno, Tas vide all’incirca venti o trenta Dewar ammucchiati dentro la cella. Alcuni giacevano sul pavimento immersi nel letargo, altri dormivano seduti contro le pareti. Un gruppo, rannicchiati insieme in un angolo, stava parlando a bassa voce, all’arrivo della guardia. Smisero subito non appena la porta della cella si aprì. Non c’erano né donne né bambini in quella cella, soltanto maschi; e fissarono Tas, lo gnomo e la guardia con occhi cupi, carichi di odio.
Tas afferrò Gnimsh proprio mentre lo gnomo, sempre farfugliando di gente rimasta bloccata fra un piano e l’altro, stava per entrare distrattamente nella cella.
«Bene, bene,» disse Tas, rivolto alla guardia nana mentre trascinava indietro Gnimsh, facendolo fermare accanto a sé, «questo giro è stato molto... ehm... divertente. Adesso, se volete riportarci nelle nostre celle, che erano, devo dirlo, molto carine, così luminose, arieggiate e spaziose, credo di potervi assicurare che il mio compagno ed io non intraprenderemo nessuna escursione non autorizzata nella vostra città, anche se è un posto estremamente interessante, e mi piacerebbe visitarla un po’ di più. Io...»
Ma il nano, con una mano, spinse brutalmente il kender facendolo finire lungo disteso dentro la cella.
«Vorrei proprio che ti decidessi,» sbottò Gnimsh con irritazione, rivolto a Tas, mentre a sua volta incespicava dentro la cella. «Dentro o fuori?»
«Dentro, immagino,» replicò Tas, tutto mesto, rizzandosi a sedere e guardando i Dewar, i quali a loro volta lo fissavano in silenzio. Udì i tonfi dei pesanti stivali delle guardie che si stavano allontanando lungo il corridoio, accompagnati dalle urla oscene e dalle minacce dei prigionieri delle celle tutt’intorno.
«Ehi,» disse Tas, sorridendo in maniera amichevole, ma senza offrirsi di stringere la mano. «Sono Tasslehoff Burrfoot, e questo è il mio amico Gnimsh, e adesso, a quanto pare, saremo compagni di cella, no? Perciò, come vi chiamate? Ehm, ehi, dico, non è molto carino...»
Tas si drizzò in tutta la sua altezza, fissando con furore e severità uno dei Dewar che si era alzato in piedi e si stava avvicinando a loro. Era un nano piuttosto alto, con la faccia quasi invisibile sotto una folta massa di capelli e una barba aggrovigliata e impiastricciata. D’un tratto il nano sogghignò.
Vi fu un balenare di acciaio e un grosso coltello comparve nella sua mano. Avanzando con passo strascicato, puntò sul kender, il quale si ritirò in un angolo, il più lontano possibile, trascinando Gnimsh con sé.
«Chièquestagente?» squittì Gnimsh, allarmato, essendosi finalmente accorto dello squallore dell’ambiente in cui si trovavano.
Prima che potesse rispondere, il Dewar aveva afferrato il kender per il collo puntandogli il coltello alla gola.
È fatta! pensò Tas con rincrescimento. Questa volta sono morto di sicuro. Flint si farà una bella risata!
Ma il coltello del nano scuro passò a pochi pollici di distanza dal volto di Tas. Raggiunta la spalla, il nano scuro tagliò con mano esperta le cinghie delle borse di Tas, facendole ruzzolare sul pavimento unitamente al loro contenuto.
Immediatamente nella cella esplose il caos quando i Dewar si lanciarono su di esse. Il nano con il coltello ne afferrò, quante più poteva, vibrando fendenti e ceffoni contro i suoi stessi compagni, nel tentativo di tenerli a distanza. Tutto scomparve nel giro di pochi istanti.
Stringendo gli averi del kender, i Dewar si sedettero subito sul pavimento e cominciarono a frugarvi in mezzo. Il nano scuro con il coltello era riuscito a garantirsi il bottino più ricco.
Stringendo le borse al petto, tornò in fondo alla cella dove lui e i suoi amici cominciarono subito a scuoterne fuori il contenuto.
Dando in un rantolo di sollievo, Tas si lasciò cadere sul freddo pavimento di pietra. Ma nondimeno fu un sospiro di sollievo preoccupato, poiché Tas calcolò che, non appena le sue borse avessero perso la loro attrattiva, i Dewar avrebbero avuto la brillante idea di perquisire loro come prossima mossa.
«E sarà assai più facile perquisirci se saremo dei cadaveri,» borbottò fra sé. Però, questo lo condusse a un improvviso pensiero.
«Gnimsh!» bisbigliò con urgenza. «Il congegno magico! Dov’è?» Gnimsh, sbattendo le palpebre, batté la mano su una tasca del suo grembiule di cuoio e scosse la testa. Battendo la mano su un’altra tasca, tirò fuori una squadra e un carboncino. Li esaminò con attenzione per un momento poi, vedendo che nessuno dei due era il congegno magico, se li ricacciò in tasca. Tas stava considerando seriamente la possibilità di strozzarlo quando, con un sorriso di trionfo, lo gnomo affondò la mano in uno degli stivali e tirò fuori il congegno magico.
L’ultima volta che erano stati incarcerati, Gnimsh era riuscito a far collassare di nuovo il congegno.
Adesso, questo, aveva ripreso le dimensioni e la forma d’un comunissimo, anonimo ciondolo, invece del bellissimo e complicato scettro al quale assomigliava quand’era completamente esteso.
«Tienilo nascosto!» lo ammonì Tas. Lanciando un’occhiata ai Dewar, vide che erano impegnati a disputarsi quello che avevano trovato nelle sue borse. «Gnimsh,» bisbigliò Tas, «questo affare ha funzionato per farci uscire dall’Abisso, e hai detto che era cali... calo... caliqualcosa per andare dritti da Caramon, dal momento che Par-Salian l’aveva dato a lui. Ora, io non voglio che ci porti di nuovo da qualche parte nel tempo, ma credo che potrebbe funzionare per, diciamo, un saltino, no? Se Caramon è il generale di quell’esercito, non può essere lontano da qui.»
«E una grande idea!» Gnimsh cominciò a illuminarsi. «Solo un momento, fammi pensare...»
Ma era troppo tardi. Tas sentì qualcuno toccargli la spalla. Sentendo il cuore che gli balzava in gola, il kender si girò di scatto con quella che sperò fosse la Truce Espressione dell’Assassino Incallito sulla sua faccia. A quanto pareva, lo era, poiché il Dewar che l’aveva toccato arretrò incespicando in preda al terrore, sollevando rapidamente le mani per proteggersi.
Notando che si trattava di un nano piuttosto giovane, con un’espressione di quasi sano di mente nello sguardo, Tasslehoff sospirò e si rilassò, mentre il Dewar, constatando che il kender non l’avrebbe divorato vivo, smise di tremare e lo guardò speranzoso.
«Cosa c’è?» gli chiese Tas in nanesco. «Cosa vuoi?»
«Vieni. Vieni.» Il Dewar lo chiamò con un gesto. Poi, vedendo che Tas si accigliava, gli indicò qualcosa, poi l’invitò un’altra volta con la mano ad avvicinarsi, arretrando sempre più nella cella.
Tas si alzò cautamente in piedi. «Rimani qui, Gnimsh,» disse. Ma lo gnomo non lo stava ascoltando. Borbottando felice tra sé, Gnimsh era impegnato a torcere e a ruotare vari; minuscoli componenti del congegno.
Incuriosito, Tas seguì con circospezione il Dewar. Forse quel tipo aveva scoperto una via d’uscita.
Forse aveva scavato una galleria...
Il Dewar, continuando ad agitare una mano, fece avanzare il kender fino al centro della cella. Qui si fermò e gli indicò qualcosa.
«Aiuto?» disse, speranzoso.
Tas, abbassando lo sguardo, non vide nessuna galleria. Vide un Dewar disteso su una coperta. Il volto del nano era madido di sudore, i capelli e la barba erano zuppi. Aveva gli occhi chiusi e il corpo sussultava e si contorceva spasmodicamente. A quella vista, Tas cominciò a rabbrividire.
Lanciò un’occhiata intorno a sé. Poi, riportando lo sguardo sul giovane Dewar, scosse rincresciuto la testa.
«No,» disse con gentilezza. «Mi spiace. Non c’è... niente che io possa fare. Mi... mi spiace.»
Scrollò le spalle, impotente.
Il Dewar parve capire, poiché si accoccolò accanto al nano malato, chinando sconsolato la testa.
Tas tornò con cautela là dove Gnimsh se ne stava seduto, sentendosi tutto intorpidito dentro.
Lasciandosi cadere in un angolo, fissò la cella buia, vedendo e sentendo ciò che avrebbe dovuto vedere e sentire subito: le grida di dolore incoerenti, inconsulte, dissennate, voci disperate che chiedevano acqua e, qua e là, lo spaventoso silenzio di coloro che giacevano immobili, così totalmente, ineluttabilmente immobili...
«Gnimsh,» disse Tas a bassa voce, «questi nani sono malati. Davvero malati. L’ho visto accadere nei giorni che verranno. Questi nani hanno la peste.»
Gnimsh spalancò gli occhi. Lasciò quasi cadere il congegno magico.
«Gnimsh,» disse ancora Tas, cercando di parlare con calma, «dobbiamo andarcene da qui il più presto possibile! Da come la vedo io, le uniche scelte che abbiamo quaggiù è morire accoltellati, il che, per quanto indubbiamente interessante, ha i suoi svantaggi, oppure morire di peste, lentamente e con molta noia.»
«Credo che funzionerà,» dichiarò Gnimsh, fissando con occhio dubbioso il congegno magico.
«Naturalmente, potrebbe riportarci dritti nell’Abisso...»
«Non è un brutto posto, a dire il vero,» ribadì Tas, alzandosi in piedi e aiutando Gnimsh a fare altrettanto. «Ci vuole un po’ ad abituarcisi, e immagino che non saranno contenti di rivederci, ma credo che valga decisamente la pena di tentare.»
«Molto bene, lascia che faccia un aggiustamento...»
«Non toccarlo!»
Quella voce familiare era uscita dalle ombre ed era stata così severa e imperiosa che Gnimsh s’immobilizzò di colpo, stringendo il congegno nella mano.
«Raistlin!» gridò Tas, guardandosi intorno come impazzito. «Raistlin! Siamo qui! Siamo qui!»
«So dove sei,» replicò l’arcimago, gelido, materializzandosi dall’aria fumosa ed ergendosi davanti a loro nella cella.
La sua improvvisa comparsa causò rantoli, urla e grida da parte dei Dewar. Il nano scuro all’angolo, armato di coltello, balzò in piedi con movimenti serpentini e si lanciò in avanti. «Raistlin, stai at...» strillò Tas.
Raistlin si voltò. Non parlò. Non alzò la mano. Si limitò a fissare il nano scuro, il volto del Dewar divenne cinereo. Lasciando cadere il coltello dalle dita inerti, arretrò e cercò di nascondersi in mezzo alle ombre. Prima di voltarsi di nuovo verso il kender, Raistlin lanciò un’occhiata circolare alla cella. Il silenzio calò all’istante. Perfino i nani in preda al delirio tacquero.
Soddisfatto, Raistlin rivolse nuovamente la sua attenzione al kender. «...tento,» terminò Tas, poco convinto. Poi, il volto del kender s’illuminò. Batté le mani. «Oh, Raistlin! È così bello rivederti! E scoppi proprio di salute, per giunta, specialmente dopo aver avuto una... ehm... una spada piantata in... uh... Be’, lasciamo perdere. E sei venuto a salvarci, non è vero? E splendido! Io...»
«Basta con le ciance!» esclamò Raistlin sempre più gelido. Allungando una mano, afferrò Tas e lo tirò a sé con uno strattone. «Adesso, dimmi... da dove sei venuto?»
Tas balbettò, fissando Raistlin negli occhi: «Non... non sono sicuro che ci crederai. Nessun altro ci crede. Ma è la verità, lo giuro!»
«Dimmelo e basta!» ringhiò Raistlin e la sua mano torse con destrezza il colletto di Tasslehoff.
«Bene!» deglutì Tas, dimenandosi. «Uh, ricordati, serve a qualcosa se mi lasci respirare di tanto in tanto. Ora, vediamo. Ho cercato di fermare il Cataclisma, e il congegno si è rotto. Sono... sono sicuro che non era nelle tue intenzioni,» tartagliò il kender, «ma tu, uhm, sembra che mi abbia dato le istruzioni sbagliate...»
«L’ho fatto. Ne avevo l’intenzione,» dichiarò Raistlin, truce. «Continua.»
«Mi piacerebbe... sì. Ma è... difficile parlare senz’aria...»
Raistlin allentò leggermente la presa sul kender. Tas tirò un profondo respiro. «Bene! Dov’ero rimasto? Oh, sì. Ho seguito Dama Crysania giù, giù, fino alla parte più profonda del Tempio, a Istar, quando stava crollando, sai? E l’ho vista entrare in quella stanza, e sapevo che doveva essere venuta a trovarti, perché ha detto il tuo nome, e speravo che tu riparassi il congegno...»
«Spicciati!»
«B... bene.» Accelerando quanto più possibile, la loquela di Tas divenne quasi incomprensibile. «E poi c’è stato un tonfo alle mie spalle ed era Caramon, solo che non mi ha visto, e tutto è diventato buio, e quando mi sono svegliato tu non c’eri più, e ho sollevato gli occhi in tempo per vedere gli dei che scagliavano la montagna di fuoco...» Tas tirò un respiro. «Ora, quello sì che è stato uno spettacolo. Vuoi che te lo racconti... No? Be’... un’altra volta.
«Cre... credo di essermi addormentato di nuovo, poiché quando mi sono svegliato tutto era silenzio. Ho pensato di essere morto, soltanto non lo ero. Ero nell’Abisso, dove il Tempio è finito dopo il Cataclisma.»
«L’Abisso!» alitò Raistlin. La mano gli tremava.
«Non un bel posto,» dichiarò Tas, solennemente. «Malgrado quello che ho detto in precedenza. Ho incontrato la Regina...» il kender rabbrividì. «Non... non credo di volerne parlare, adesso, se non ti dispiace.»
Tese una mano tremante. «Ma qui c’è il suo marchio, questi cinque piccoli puntini bianchi... comunque ha detto che dovevo rimanere laggiù per sempre, pò... poiché adesso poteva cambiare la storia e vincere la guerra. Ed io non avevo questa intenzione.» Tas fissò Raistlin con espressione implorante. «Volevo soltanto aiutare Caramon. Ma poi, mentre ero giù nell’Abisso, ho trovato Gnimsh...»
«Lo gnomo,» disse Raistlin, con voce sommessa, gli occhi puntati su Gnimsh, il quale stava fissando stupefatto il fruitore di magia, non osando muoversi.
«Sì.» Tas girò la testa per sorridere al suo amico. «Ha messo su un congegno per viaggiare nel tempo che... funzionava sul serio, pensa! E, uùsh!, eccoci qui!»
«Sei fuggito dall’Abisso?» Raistlin puntò sul kender il suo sguardo simile a uno specchio.
Tas si contorse a disagio. Quegli ultimi momenti continuavano ad ossessionare i suoi sogni durante la notte, ed era raro che i kender sognassero.
«Uh, sicuro,» rispose, sorridendo all’arcimago in quella che sperò fosse una maniera disarmante.
Ma, in apparenza, il tentativo andò sprecato. Raistlin, preoccupato, stava contemplando lo gnomo con un’espressione che d’un tratto raggelò Tas dalla testa ai piedi.
«Hai detto che il congegno si è rotto?» chiese Raistlin con voce sommessa.
«Sì.» Tas deglutì. Sentendo che la morsa di Raistlin si allentava e vedendo il mago smarrito nei propri pensieri, Tas si agitò leggermente, cercando di liberarsi completamente dalla stretta del mago. Con sua sorpresa, Raistlin lo lasciò andare, mollandolo così all’improvviso che Tas quasi ruzzolò all’indietro.
«Il congegno era rotto,» mormorò Raistlin. All’improvviso fissò Tas con grande attenzione.
«Allora... chi l’ha riparato?» La voce dell’arcimago era poco più di un sussurro.
Scostandosi da Raistlin, Tas cercò di guadagnare tempo. «Spe... spero che i maghi non si arrabbieranno. In effetti, non è che Gnimsh l’abbia riparato. Lo dirai a Par-Salian, non è vero, Raistlin? Non vorrei finire nei guai, be’, in più guai con lui di quanti ne abbia già. Noi non abbiamo fatto niente con il congegno, no davvero. Gnimsh l’ha soltanto... uh... rimesso insieme, si potrebbe dire, com’era prima, e così ha funzionato.»
«Lo ha rimontato?» insisté Raistlin, con quella stessa, strana espressione negli occhi.
«S... sì.» Con un sorriso forzato, Tas arretrò di qualche passo per dare una gomitata a Gnimsh nelle costole, proprio mentre lo gnomo apriva la bocca per parlare. «Ri... montato. È proprio la parola giusta. Rimontato.»
«Ma Tas...» cominciò a dire Gnimsh ad alta voce. «Non ricordi quello che è successo? Io...»
«Chiudi il becco!» sibilò Tas. «E lascia parlare me. Siamo già in un sacco di guai! Ai maghi non piace che si facciano pasticci con i loro congegni, anche se tu l’hai migliorato! Sono sicuro che riuscirò a farlo capire a Par-Salian, quando lo vedrò. Indubbiamente sarà contento che tu l’abbia aggiustato. Dopotutto, dev’essere stato piuttosto fastidioso per loro avere un congegno che trasportava una sola persona per volta... e tutto il resto. Sono sicuro che Par-Salian la vedrà in questo modo, ma preferisco essere io quello che glielo dirà, se capisci quello che intendo. Raistlin è un po’... be’, nervoso per queste cose. Non credo che capirebbe e, credimi,» lanciò un’occhiata al mago e deglutì, «questo non è il momento per cercare di spiegarglielo.»
Gnimsh, lanciando un’occhiata dubbiosa a Raistlin, rabbrividì e si strinse addosso a Tas.
«Mi sta guardando come se avesse intenzione di rivoltarmi come un guanto!» borbottò lo gnomo, innervosito.
«Guarda sempre tutti in quel modo,» gli bisbigliò Tas in risposta. «Ti ci abituerai.»
Nessuno parlò. Nella cella affollata, uno dei nani malati gemette e gridò in preda al delirio. Tas lanciò un’occhiata inquieta nella sua direzione, poi guardò Raistlin. Il fruitore di magia stava di nuovo fissando lo gnomo, con quella strana espressione cupa e preoccupata sul volto pallido.
«Uh, è proprio tutto quello che posso dirti, adesso, Raistlin,» disse Tas ad alta voce, lanciando un’altra occhiata nervosa ai nani malati. «Adesso, possiamo andarcene? Ci porterai via da qui come facevi a Istar? Era molto divertente e...»
«Dammi il congegno.» Raistlin tese la mano.
Per qualche ragione, forse era quell’espressione negli occhi del mago, o forse era invece il freddo umido delle segrete, là nel sottosuolo, Tas cominciò a rabbrividire. Gnimsh, stringendo in mano il congegno, guardò Tas con una muta domanda.
«Uhm, ti dispiacerebbe se lo tenessimo ancora per un po’?» cominciò a dire Tas. «Non lo perderò...»
«Dammi il congegno,» ripeté Raistlin, a bassa voce.
Tas deglutì di nuovo. Aveva uno strano sapore in bocca. «Farai... farai meglio a darglielo, Gnimsh.»
Lo gnomo, sbattendo le palpebre come stordito, e cercando ovviamente di capire cosa stava accadendo, si limitò a fissare Tas, più che mai perplesso.
«Va... va bene,» annuì Tas, cercando di sorridere, malgrado il suo volto si fosse improvvisamente irrigidito. «Raist... Raistlin è un mio amico, capisci. Lo terrà al sicuro...»
Scrollando le spalle, Gnimsh si girò e, avanzando strascicando i piedi, porse il congegno tenendolo sul palmo della mano. Il ciondolo pareva insignificante e privo d’interesse alla fioca luce della torcia. Tendendo a sua volta la mano, Raistlin prese il congegno, lentamente e con cautela. Lo studiò da vicino, poi lo fece scivolare dentro una delle tasche segrete delle sue vesti nere.
«Vieni qui da me, Tas,» disse Raistlin, gentilmente, facendogli segno con la mano.
Gnimsh era ancora immobile davanti a Raistlin, fissando sconsolato la tasca dentro la quale il congegno era scomparso. Afferrando lo gnomo per le cinghie del suo grembiulone di cuoio, Tas trascinò Gnimsh lontano dal mago. Poi, stringendogli la mano, sollevò lo sguardo.
«Siamo pronti, Raistlin,» disse raggiante. «Portaci via di qui in un lampo! Caspita, Caramon sarà proprio sorpreso...»
«Ho detto... vieni qui, Tas,» ripeté Raistlin, con quella sua voce sommessa, priva d’espressione. I suoi occhi erano puntati sullo gnomo.
«Oh, Raistlin, non avrai l’intenzione di lasciarlo qui, non è vero?» gemette Tas. Lasciando cadere la mano di Gnimsh, fece un passo avanti. «Poiché, se lo farai, io preferisco rimanere. Voglio dire, lui non riuscirà mai a tirarsi fuori da questo pasticcio da solo. E ha questa magnifica idea per un ascensore meccanico...»
La mano di Raistlin guizzò fuori come un serpente e afferrò Tas per il braccio, tirandolo accanto a sé con uno strattone. «No, non lo lascerò qua, Tas.»
«Visto? Ci trasporterà da Caramon in un lampo. La magia è un gran divertimento,» cominciò a dire Tas, torcendosi per guardare Gnimsh e cercando di sorridere, malgrado che le forti dita del mago gli stessero causando un dolore orribile. Ma alla vista della faccia di Gnimsh, il sorriso di Tas sparì.
Fece per tornare indietro dal suo amico, ma Raistlin lo tenne saldo.
Lo gnomo era rimasto tutto solo, con un’espressione confusa e patetica, sempre stringendo nella mano il fazzoletto di Tas.
Tas tornò a contorcersi. «Oh, Gnimsh, per favore. Andrà tutto bene. Te l’ho detto. Raistlin è amico mi...»
Alzando una mano e tenendo con l’altra Tas stretto per il colletto, l’arcimago puntò un dito contro lo gnomo. La voce sommessa di Raistlin cominciò a salmodiare: «Ast kiranan kair...». Tas fu invaso dall’orrore. Aveva già sentito quelle parole magiche...
«No!» gridò angosciato. Girandosi di scatto sollevò lo sguardo sugli occhi di Raistlin. «No!» urlò di nuovo, scagliandosi con tutto il corpo addosso al mago, picchiandolo con le piccole mani.
«...Gardurm Soth-arm // Suh kali Jalaran!» terminò Raistlin con calma.
Tas, sempre stringendo fra le mani le vesti nere di Raistlin, sentì l’aria che cominciava a crepitare e a sfrigolare. Girandosi di scatto con un grido incoerente, il kender vide saette fiammeggianti scoccare dalle dita del mago e abbattersi sullo gnomo. Quei lampi magici colpirono Gnimsh in pieno petto. La terrificante energia sollevò da terra il piccolo corpo dello gnomo e lo scagliò all’indietro mandandolo a sbattere contro la parete di pietra alle sue spalle.
Gnimsh si accartocciò al suolo senza neppure un grido. Il fumo si levò dal suo grembiule di cuoio.
Si sentì l’odore dolciastro e nauseante della pelle bruciata. La mano che stringeva il fazzoletto del kender si contrasse e poi rimase immobile.
Tas non riuscì a muoversi. Fissava la scena con le mani ancora impigliate nelle vesti di Raistlin.
«Vieni, Tas,» disse Raistlin.
Voltandosi, Tas puntò nuovamente gli occhi su Raistlin. «No,» bisbigliò, tremando, cercando di liberarsi dalla forte stretta del mago. Poi gridò, in preda all’angoscia: «L’hai assassinato! Perché? Era mio amico!»
«Le mie ragioni mi appartengono,» replicò Raistlin, stringendo saldamente con mano il kender che continuava a dibattersi. «Adesso verrai con me.»
«No, non vengo!» gridò Tas, lottando freneticamente. «Tu non sei interessante né eccitante, sei malvagio, come l’Abisso! Sei brutto e orribile, e non verrò da nessuna parte con te! Mai! Lasciami andare! Lasciami andare!»
Accecato dalle lacrime, scalciando e urlando e stringendo le mani a pugno menò colpi all’impazzata a Raistlin.
Ridestandosi dal loro silenzioso terrore, i Dewar nella cella cominciarono a urlare in preda al panico, attirando l’attenzione dei nani nelle altre celle. Urlando e strepitando, gli altri Dewar si ammassarono contro le sbarre, cercando di vedere cosa stava accadendo.
Esplose un pandemonio. Al di sopra delle grida e delle urla si potevano udire le voci profonde delle guardie che gridavano qualcosa in nanesco.
Raistlin, freddo e truce in volto, appoggiò una mano sulla fronte di Tasslehoff e pronunciò rapidamente delle parole, con voce sommessa. Il corpo del kender si afflosciò all’istante.
Afferrandolo prima che cadesse sul pavimento, Raistlin parlò di nuovo, e il mago e il kender scomparvero, lasciando gli stupefatti Dewar a bocca aperta, con gli occhi fissi sullo spazio lasciato vuoto e sul corpo dello gnomo morto, che giaceva rannicchiato in un angolo.
Un’ora più tardi Kharas, essendo sfuggito con facilità al suo confino, raggiunse il blocco di celle in cui il clan dei Dewar veniva tenuto prigioniero.
Cupo in volto, Kharas avanzò a lunghi passi lungo i corridoi.
«Cosa sta succedendo?» chiese a una guardia. «Mi pare che sia tutto tremendamente tranquillo.»
«Ah, una specie di sommossa poco fa,» borbottò una guardia. «Ma non siamo riusciti a capire cos’è successo.»
Kharas si guardò intorno, la sua espressione era dura. I Dewar ricambiavano il suo sguardo, non con odio, ma con sospetto, perfino paura.
Sempre più preoccupato a mano a mano che avanzava, sentendo che era accaduto qualcosa di orribile, il nano accelerò il passo. Raggiunta l’ultima cella, guardò dentro.
Alla vista di Kharas, quei Dewar che erano in grado di muoversi balzarono tutti in piedi e arretrarono fino all’angolo più lontano della cella.
Contemplando la scena, Kharas si accigliò. Vide il corpo dello gnomo che giaceva inerte sul pavimento.
Lanciò un’occhiata furiosa alla guardia stupefatta, poi puntò lo sguardo sui Dewar.
«Chi ha fatto questo?» volle sapere. «E dov’è il kender?»
Con grande stupore di Kharas i Dewar, invece di negare scontrosamente il crimine, vennero avanti impetuosamente, farfugliando tutti allo stesso tempo. Con un movimento rabbioso e sferzante della mano, Kharas li azzittì. «Tu, là,» indicò uno dei Dewar che stringeva ancora una delle borse di Tas.
«Dove hai preso quella borsa? Cos’è successo? Chi è stato a fare questo? Dov’è il kender?»
Mentre il Dewar veniva avanti strascicando i piedi, Kharas fissò i suoi occhi scuri. E vide, con orrore, che qualunque equilibrio mentale un tempo il nano potesse aver posseduto, adesso era completamente scomparso.
«Io l’ho visto,» disse il Dewar, sogghignando. «Io l’ho visto. Nelle sue Vesti Nere e tutto il resto. È venuto per lo gnomo. Ed è venuto per il kender. E la prossima volta verrà per noi!»
Il nano scuro scoppiò a ridere orribilmente. «Per noi!» ripetè.
«Chi?» chiese Kharas, in tono severo. «Hai visto chi? Chi è venuto per il kender?»
«Ebbene, lui... lei stessa!» bisbigliò il Dewar, voltandosi per fissare il corpo dello gnomo, sgranando gli occhi spiritati. «La morte...».
Da secoli nessuno aveva più posto piede all’interno della magica fortezza di Zhaman. I nani la guardavano con sospetto e diffidenza, per parecchie ragioni. Innanzi tutto perché apparteneva agli stregoni. E ancora, quelle mura di pietra non erano state costruite dai nani, ma non erano neppure naturali. La fortezza era stata fatta sorgere, così narrava la leggenda, dal suolo per magia, ed era la magia che la teneva ancora insieme.
«Deve trattarsi di magia,» brontolò Reghar rivolto a Caramon, lanciando una feroce occhiata alle guglie alte e sottili della fortezza, «altrimenti sarebbe crollata già parecchio tempo fa.»
I nani delle colline, rifiutandosi all’unanimità di mettere anche soltanto la punta della barba dentro la fortezza, piantarono l’accampamento fuori, sui pianori. Gli uomini delle pianure fecero lo stesso.
Non tanto per paura dell’edificio magico, anche se lo guardavano di traverso, bofonchiando qualcosa su di esso nella loro lingua, ma per il fatto che si sentivano a disagio in qualsiasi edificio.
Gli altri umani, facendosi beffe di ogni superstizione, entrarono nell’antica fortezza, ironizzando, con scroscianti risate, sugli spettri e le infestazioni. Rimasero dentro una notte soltanto. La mattina seguente li vide intenti ad accamparsi all’aperto, borbottando che sotto le stelle si dormiva meglio e che l’aria era più fresca.
«Cos’è successo qui dentro?» chiese Caramon, vagamente inquieto, a suo fratello mentre camminavano attraverso la fortezza dopo il loro arrivo. «Hai detto che non era una Torre della Grande Stregoneria, ma è ovvio che c’è magia. Sono stati gli stregoni a costruirla. E,» l’omone rabbrividì, «dà una strana sensazione, non arcana come le Torri. Ma una sensazione di... di...»
S’interruppe in un balbettio.
«Di violenza,» mormorò Raistlin, abbracciando con lo sguardo guizzante e penetrante tutti gli oggetti intorno a lui. «Di violenza e di morte, fratello mio, poiché questo era un luogo di esperimenti. I maghi costruirono questa fortezza lontano dalle terre civilizzate per un buon motivo, perché sapevano che la magia evocata qui poteva benissimo sfuggire al loro controllo. E così effettivamente accadde, spesso. Ma qui emersero anche grandi cose, una magia che aiutò il mondo.»
«Perché mai è stata abbandonata?» chiese Dama Crysania, stringendosi ancora di più intorno alle spalle il mantello di pelliccia. L’aria che si muoveva attraverso gli stretti corridoi era gelida e sapeva di polvere e di pietra.
Raistlin rimase silenzioso per lunghi momenti, corrugando la fronte. Lentamente e in silenzio avanzarono lungo quei corridoi contorti. I morbidi stivali di cuoio di Dama Crysania non producevano neppure un fruscio mentre camminava. I tonfi dei pesanti stivali di Caramon traevano echi dalle camere vuote, le vesti fruscianti di Raistlin sussurravano attraverso i corridoi, il Bastone di Magius sul quale si appoggiava picchiava sommesso sul pavimento. Silenziosi com’erano, avrebbero potuto essere i fantasmi di se stessi che camminavano lungo quell’intrico di passaggi.
Quando Raistlin parlò, la sua voce fece sussultare sia Caramon sia Crysania.
«Malgrado ci siano sempre state le tre Vesti, buone, neutrali e malvagie, fra i fruitori di magia, non abbiamo, sfortunatamente, sempre mantenuto l’equilibrio,» disse Raistlin. «Quando la gente si rivoltò contro di noi, le Vesti Bianche si ritirarono nelle loro Torri, sostenendo la pace. Le Vesti Nere, però, dapprima cercarono di reagire. S’impadronirono di questa fortezza e la usarono compiendo esperimenti per creare eserciti.» Fece una pausa. «Esperimenti che all’epoca non ebbero successo, ma che portarono alla creazione dei draconici nella nostra epoca.
«Con questo insuccesso, i maghi si resero conto della situazione disperata in cui si trovavano. Abbandonarono Zhaman, unendosi ai loro compagni in quelle che diventarono note come le Battaglie Perdute.»
«Sembri conoscere la strada, qua dentro,» osservò Caramon.
Raistlin lanciò un’occhiata penetrante a suo fratello, ma il volto di Caramon era pacato, innocente, anche se forse c’era una strana espressione nebbiosa nei suoi occhi castani.
«Non capisci ancora, fratello mio?» chiese Raistlin, con voce aspra, fermandosi in un corridoio buio e ventoso. «Non sono mai stato qui, eppure ho percorso questi corridoi. La cella nella quale ho dormito è la stessa dove ho già passato molte notti, anche se devo ancora passare una sola notte in questa fortezza. Sono un estraneo, qua dentro, eppure conosco la collocazione di ogni singola stanza, da quelle per la meditazione e lo studio in cima alla fortezza alle sale dei banchetti al primo livello.»
Anche Caramon si fermò. Lentamente, si guardò intorno, fissando il soffitto polveroso, scrutando i corridoi vuoti dove la luce del sole filtrava attraverso le finestre scolpite per proiettarsi in quadrati sui pavimenti di pietra. Alla fine, il suo sguardo tornò ad incontrare quello del suo gemello.
«Allora, Fistandantilus,» disse con voce greve, «tu sai che questa sarà la tua tomba.»
Per un istante, Caramon colse una piccola crepa nel vetro degli occhi di Raistlin: ma non rabbia, bensì divertimento, trionfo. Poi lo specchio luminoso fu nuovamente integro, e Caramon vi vide soltanto il riflesso di se stesso, in piedi in mezzo a una chiazza della debole luce del sole invernale.
Crysania si mosse, ponendosi accanto a Raistlin. Gli mise la mano sul braccio con cui lui si appoggiava al bastone e guardò Caramon con occhi grigi e freddi. «Gli dei sono con noi,» disse.
«Non erano con Fistandantilus. Tuo fratello è forte nella sua arte, io sono forte nella mia fede. Non falliremo!»
Sempre guardando Caramon, sempre mantenendo il riflesso del suo gemello nelle orbite luccicanti dei suoi occhi, Raistlin sorrise. «Sì,» bisbigliò, e c’era un leggero sibilo nelle sue parole, «gli dei sono davvero con noi!»
Al primo livello della grande fortezza magica di Zhaman si aprivano gigantesche sale scolpite nella pietra che, nel passato, erano stati luoghi d’incontri e di celebrazioni. C’erano anche stanze che un tempo erano state colme di libri, attrezzate per poter studiare e meditare nella tranquillità.
All’estremità opposta c’erano le cucine e i magazzini, che da molto tempo non venivano più usati ed erano coperti dalla polvere degli anni.
Ai livelli superiori c’erano camere da letto rigurgitanti di mobili bizzarri di antica foggia. I letti erano coperti da lenzuola perfettamente conservate, nel corso degli anni, dall’aria asciutta del deserto. Caramon, Dama Crysania e gli ufficiali dello stato maggiore di Caramon dormivano in quelle stanze. Se non dormivano saporitamente, se talvolta si svegliavano durante la notte pensando di aver udito delle voci che cantavano inusitate parole o di aver intravisto strane figure spettrali che fluttuavano attraverso l’oscurità illuminata dal chiarore lunare, nessuno ne parlava alla luce del giorno.
Ma dopo alcune notti, tutto questo venne dimenticato, inghiottito da preoccupazioni più gravi e immediate riguardanti i rifornimenti, le risse fra gli uomini e i nani, e i rapporti delle spie secondo i quali i nani di Thorbardin stavano ammassando un esercito immenso e bene armato.
Inoltre a Zhaman, al primo livello, c’era un corridoio che sembrava un errore costruttivo. Tutti quelli che vi si avventuravano scoprivano che si dipartiva da un andito per terminare all’improvviso in una parete vuota. Pareva proprio che i costruttori, disgustati, avessero buttato giù gli utensili a quel punto, decidendo di smettere.
Ma quel corridoio non era un errore. Quando le mani adatte venivano appoggiate sul muro vuoto, quando le rune adatte venivano tracciate sulla polvere della parete stessa, allora compariva una porta che conduceva ad una grande scalinata scolpita nelle fondamenta di granito di Zhaman...
«Ancora una volta.» La voce era sommessa, paziente, e si avventava su Tasslehoff attorcigliandoglisi addosso come un serpente. Contorcendosi intorno a lui, affondava i denti uncinati nelle sue carni, succhiandogli fuori la vita.
«Esamineremo tutto un’altra volta. Parlami dell’Abisso,» disse la voce. «Qualunque cosa ti ricordi. Come ci sei entrato. Com’è il paesaggio. Chi e cosa hai visto. La Regina stessa, che aspetto aveva, le sue parole...»
«Ci sto provando, Raistlin, davvero!» uggiolò Tasslehoff. «Ma... l’abbiamo esaminato e straesaminato durante questi ultimi due giorni. Non riesco a pensare a nient’altro! E la mia testa è calda e i miei piedi e le mie mani sono freddi e... la stanza mi gira intorno. Se... se tu potessi farla smettere di girare, Raistlin, credo che potrei riuscire a ricordare...»
Sentendo la mano di Raistlin sul suo petto, Tas si ritrasse ancora di più nel letto. «No!» gemette, cercando disperatamente di sgusciar via. «Sarò bravo, Raistlin! Me ne ricorderò. Non farmi male, non come al povero Gnimsh!»
Ma l’arcimago tenne appoggiata la mano sul petto del kender per un solo istante, poi la portò alla sua fronte. Tas aveva la pelle che gli bruciava, ma il tocco di quella mano bruciava ancora di più.
«Giaci immobile,» gli ordinò Raistlin. Poi, sollevandolo fra le braccia, Raistlin fissò intensamente gli occhi infossati del kender.
Alla fine, lasciò cadere Tas sul letto e, borbottando un’amara imprecazione, si alzò in piedi.
Disteso sul letto, inzuppato di sudore, Tas vide la figura abbigliata di nero librarsi su di lui per un istante, poi, con uno svolazzare e un turbinare di vesti, Raistlin si girò e uscì a grandi passi dalla stanza. Tas cercò di sollevare la testa per vedere dove il mago stava andando, ma lo sforzo fu eccessivo. Ricadde estenuato sul letto.
Perché mai sono così debole? si chiese. Cosa c’è che non va? Voglio dormire. Forse allora il dolore cesserà. Tas chiuse gli occhi. Ma questi tornarono a spalancarsi come se avessero dei fili attaccati alle ciglia. No, non posso dormire! pensò spaventato. Ci sono delle cose, là fuori nel buio, cose orribili, le quali non aspettano altro che io mi addormenti! Le ho viste, sono là fuori! Mi balzeranno addosso e...
Come se provenisse da un’immensa distanza, udì la voce di Raistlin che parlava con qualcuno.
Scrutando intorno a sé, cercando disperatamente di tener lontano il sonno, Tas decise di concentrarsi su Raistlin. Forse scoprirò qualcosa, pensò sconsolato, forse scoprirò cosa mi sta succedendo.
Lanciò un’occhiata intorno, e vide la figura abbigliata di nero parlare con un’altra figura, tozza e scura. Senza alcun dubbio, stavano discutendo di lui. Tas si sforzò di ascoltare, ma la sua mente continuava a fare strane cose, andava via a giocare da qualche altra parte senza invitare il suo corpo.
Così, Tas non poteva esser sicuro se sentiva davvero ciò che sentiva, oppure stava sognando.
«Dagli ancora un po’ di pozione. Dovrebbe tenerlo buono,» diceva una voce che pareva quella di Raistlin alla figura bassa e scura. «Ci sono poche... pochissime possibilità che quaggiù qualcuno lo senta, ma non posso rischiare.»
La figura bassa e scura replicò qualcosa. Tas chiuse gli occhi e lasciò che le acque fresche di un lago azzurrissimo, il lago Crystalmir, gli lambissero la pelle bruciante. Forse, alla fine, la sua mente avrebbe deciso di portare con sé anche il corpo.
«Quando me ne sarò andato,» la voce di Raistlin uscì fuori dall’acqua, «chiudi la porta alle mie spalle e spegni la luce. Negli ultimi tempi mio fratello è diventato sospettoso. Se dovesse scoprire la porta magica, non c’è dubbio che scenderà qui sotto. Non deve trovare nulla. Tutte queste celle dovranno apparire vuote.»
La figura bassa e tozza borbottò e la porta cigolò sui cardini.
D’un tratto, le acque di Crystalmir cominciarono a ribollire intorno a Tas. Dei tentacoli uscirono da esse come tanti serpenti, cercando di afferrarlo. Tas spalancò gli occhi. «Raistlin!» implorò. «Non lasciarmi. Aiutami!»
Ma la porta si chiuse sbattendo. La figura bassa e scura si avvicinò al fianco del letto di Tas strascicando i piedi. Fissandola con orrore come in un sogno, Tas vide che si trattava di un nano.
Gli sorrise.
«Flint?» mormorò, attraverso le labbra asciutte e screpolate. «No! Arack!» Cercò di correr via, ma i tentacoli nell’acqua si stavano allungando verso i suoi piedi.
«Raistlin!» urlò, cercando freneticamente di arretrare e fuggire. Ma i suoi piedi non volevano muoversi. Qualcosa lo afferrò! I tentacoli! Tas lottò, urlando in preda al panico.
«Chiudi il becco, bastardo. Bevi questo.» i tentacoli lo ghermirono per il ciuffo dei capelli e gli premettero una tazza contro le labbra. «Bevi, o ti strappo i capelli dalle radici!»
Soffocando, fissando la figura con occhi spiritati, Tas trangugiò un sorso. Il liquido era amaro ma fresco, e calmante, Lui aveva sete, tantissima sete! Singhiozzando, Tas afferrò la tazza strappandola dalle mani del nano e ne inghiottì il contenuto. Poi giacque sul suo cuscino. Nel giro di pochi istanti i tentacoli scivolarono via, il dolore che gli attanagliava braccia e gambe lo lasciò, e le acque limpide e dolci di Crystalmir si rinchiusero sopra di lui.
Crysania si risvegliò da un sogno con la netta impressione che qualcuno avesse chiamato il suo nome. Anche se non riusciva a ricordare di aver udito un solo suono, la sensazione era così forte e intensa che si ritrovò subito completamente desta, dritta a sedere sul letto, ancora prima di essere realmente consapevole di ciò che l’aveva svegliata. Aveva forse fatto parte del sogno? No.
L’impressione rimaneva, e anzi diventava più forte.
Qualcuno si trovava nella stanza insieme a lei! Si affrettò a guardarsi intorno. La luce di Solinari, che filtrava da un angolo all’estremità opposta della stanza, faceva assai poco per illuminarla. Non poteva vedere niente, ma percepì un movimento. Crysania aprì la bocca per chiamare le guardie...
E sentì una mano sulle labbra. Poi Raistlin si materializzò dall’oscurità della notte, seduto sul suo letto.
«Perdonami per averti spaventato, Reverenda Figlia,» le disse in un sommesso sussurro, un bisbiglio a stento udibile. «Ho bisogno del tuo aiuto e non desidero attirare l’attenzione delle guardie.» Le tolse lentamente la mano dalla bocca.
«Non ero spaventata,» protestò Crysania. Lui le sorrise, e lei arrossì. Era talmente vicino a lei che poteva sentirla tremare. «Mi hai... sorpreso, è tutto. Stavo sognando. Facevi parte del sogno.»
«Certo,» replicò Raistlin con calma. «Il Portale si trova qui, e così siamo molto vicini agli dei.»
Non è la vicinanza degli dei che mi fa tremare, pensò Crysania, con un sospiro fremente, sentendo il calore bruciante di quel corpo accanto a lei, respirandone la misteriosa, intossicante fragranza. Si scostò da lui con rabbia, soffocando con fermezza i propri desideri e le proprie brame. Lui è al di sopra di queste cose. Lei avrebbe dovuto forse mostrarsi più debole?
Crysania tornò d’un tratto sull’argomento. «Hai detto di aver bisogno del mio aiuto. Perché?» Si sentì afferrare da un’improvvisa paura. Allungò impulsivamente il braccio e gli ghermì la mano.
«Stai bene, non è vero? La tua ferita...»
Uno spasimo di dolore attraversò in un lampo il volto di Raistlin, poi la sua espressione si fece dura e amareggiata. «No, sto bene,» replicò secco.
«Paladine sia ringraziato,» disse Crysania, sorridendo, lasciando che la propria mano si attardasse nella sua.
Gli occhi di Raistlin divennero due fessure. «Il dio non ha i miei ringraziamenti!» borbottò. La mano che stringeva quella di Crysania si chiuse ancor di più, facendole male.
Crysania rabbrividì. Per un istante parve che il calore del corpo del mago, così vicino al suo, le stesse risucchiando via il suo, lasciandola raggelata. Cercò di liberare la mano dalla sua stretta, ma Raistlin, destato, a causa del suo movimento, dal suo amaro sogno ad occhi aperti, si voltò a guardarla.
«Perdonami, Reverenda Figlia,» le disse, lasciandola andare. «Il dolore era insopportabile. Ho pregato perché mi venisse data la morte. Mi è stata negata.»
«Ne conosci la ragione,» replicò Crysania. La sua paura si era smarrita nella pietà che provava per lui. La sua mano esitò per un istante, poi ricadde sul copriletto, vicino alla mano tremante di Raistlin, senza però toccarlo.
«Sì, e l’accetto. Però non posso perdonarlo. Ma questo è fra il tuo dio e me,» disse Raistlin, in tono di rimprovero.
Crysania si morse il labbro. «Accetto il rimprovero. Era meritato.» Rimase silenziosa per un momento. Anche Raistlin non aveva nessuna voglia di parlare, le rughe sul suo volto si approfondirono.
«Hai detto a Caramon che gli dei erano con noi. Così, allora, sei entrato in comunione con il mio dio, con Paladine?» si azzardò a chiedere Crysania, esitando.
«Certo.» Raistlin ebbe un sorriso contorto. «La cosa ti sorprende?»
Crysania sospirò. Abbassò di scatto la testa, i capelli le ricaddero intorno alle spalle. Il debole chiarore lunare, lì nella stanza, traeva dai suoi capelli neri una morbida radiosità azzurra, facendo brillare la sua pelle d’un bianco purissimo.
Il suo profumo riempiva la stanza, riempiva la notte. Sentì un tocco sui suoi capelli. Sollevando la testa, vide gli occhi di Raistlin ardere d’una passione che giungeva dal suo profondo, una fonte che non aveva nulla a che fare con la magia. Crysania trattenne il fiato, ma in quel momento Raistlin si alzò e si allontanò.
Crysania sospirò. «Allora sei stato in comunione con entrambi gli dei?» chiese ansiosa.
Raistlin si girò a metà. «Sono stato in comunione con tutti e tre,» rispose spiccio.
«Tre?» Lei ne fu sorpresa. «Gilean?»
«E chi è Astinus se non il portavoce di Gilean?» ribatté Raistlin, con disprezzo. «Sempre che non sia Gilean in persona, come qualcuno ha ipotizzato. Ma questo non dev’essere niente di nuovo, per te...»
«Non ho mai parlato con la Regina delle Tenebre,» disse Crysania.
«Davvero?» chiese Raistlin con un’occhiata penetrante che scosse il chierico fino all’intimo della sua anima. «Non conosce il desiderio del tuo cuore? Non te l’ha forse offerto?»
Guardando dentro i suoi occhi, consapevole della sua vicinanza, sentendosi riafferrare dal desiderio, Crysania non potè rispondere. Poi, mentre lui continuava ad osservarla, deglutì e scosse la testa. «Se l’ha fatto,» rispose, con un tono di voce quasi impercettibile, «me l’ha dato con una mano e negato con l’altra.»
Crysania sentì frusciare le vesti nere come se il mago avesse trasalito. Il suo volto, visibile alla luce della luna, fu, per un istante, preoccupato e pensieroso. Poi si distese.
«Non sono venuto qui per discutere di teologia,» disse Raistlin con un lieve sorriso di scherno. «Ho un’altra e più immediata preoccupazione.»
«Naturalmente.» Crysania arrossì, scostandosi nervosamente dal viso i capelli aggrovigliati.
«Ancora una volta, mi scuso. Hai bisogno di me, avevi detto...»
«Tasslehoff si trova qui.»
«Tasslehoff?» ripetè Crysania con espressione confusa e stupita. «Sì. E sta molto male. In realtà sta morendo. Ha bisogno delle tue capacità di guaritrice.»
«Ma, non capisco. Perché... Come mai si trova qui?» Crysania balbettò, sconcertata. «Avevi detto che era tornato al nostro tempo.»
«Così credevo,» rispose Raistlin con voce grave. «Ma, a quanto pare, mi sbagliavo. Il congegno magico l’ha portato qui, in questo tempo. Ha vagato per il mondo alla maniera dei kender, in un continuo divertimento. Poi, avendo sentito parlare della guerra, è arrivato qui per condividere l’avventura. Per sfortuna, durante i suoi vagabondaggi, ha contratto la peste.»
«È terribile. Certo che verrò.» Raccogliendo il suo mantello di pelliccia dall’estremità del letto, se lo avvolse intorno alle spalle, notando, mentre lo faceva, che Raistlin le aveva voltato la schiena.
Guardando fuori della finestra la luce argentea della luna, vide serrarsi i muscoli della sua mascella, come se fosse in preda a una lotta interiore.
«Sono pronta,» disse in tono calmo ed efficiente Crysania, mentre si allacciava il mantello; Raistlin tornò a voltarsi e le porse la mano. Crysania lo fissò perplessa.
«Dobbiamo percorrere i sentieri della notte,» le disse con voce sommessa. «Come ti ho detto, non voglio mettere in allarme le guardie.» «Ma perché no?» lei replicò. «Che differenza...» «Cosa dirò a mio fratello?» Crysania esitò. «Capisco...»
«Capisci il mio dilemma?» le chiese Raistlin, guardandola con attenzione. «Se glielo dicessi, sarebbe una preoccupazione per lui, proprio nel momento in cui non può certo permettersi di aggiungere altri fardelli a quelli che già porta. Tas ha rotto il congegno magico. Questo scombussolerebbe anche Caramon, anche se è ben conscio che ho in progetto di mandarlo a casa. Ma... dovrei dirgli che il kender si trova qui.»
«Caramon è apparso preoccupato ed infelice durante questi ultimi giorni,» disse Crysania, pensierosa, con una certa apprensione nella voce. «La guerra non sta andando bene,» la informò Raistlin con schiettezza. «L’esercito gli si sta sfasciando intorno. Gli uomini delle pianure parlano ogni giorno di andarsene. Per quello che ne sappiamo, potrebbero essersene già andati. I nani sotto Fireforge sono un branco infido. Fanno pressione su Caramon perché attacchi prima di essere pronto. I carri con i rifornimenti sono scomparsi, nessuno sa cosa ne sia stato. Il suo stesso esercito è inquieto, turbato. E se, per coronare tutto questo, ci fosse anche un kender che se ne va in giro a chiacchierare a vanvera, distraendolo da...»
Raistlin sospirò. «Tuttavia non posso, per una questione di onore, tenerglielo nascosto.»
Crysania strinse le labbra. «No, Raistlin. Non credo che sarebbe saggio dirglielo.» Vedendo che Raistlin appariva dubbioso, continuò con foga: «Non c’è niente che Caramon possa fare. Se il kender è davvero gravemente malato, come tu sospetti, io potrò guarirlo, ma rimarrà debole per parecchi giorni. Sarebbe soltanto una preoccupazione in più per tuo fratello. Caramon ha in mente di mettersi in marcia fra qualche giorno. Noi cureremo il kender poi, quando si sarà completamente ristabilito, potrà incontrare il suo amico al campo, se questo sarà il suo desiderio.»
L’arcimago sospirò di nuovo, riluttante e dubbioso. Poi scrollò le spalle. «Molto bene, Reverenda Figlia,» disse. «Mi farò guidare da te in questa faccenda. Le tue parole sono sagge. Non diremo a Caramon che il kender è tornato.»
Le si avvicinò, e Crysania, alzando lo sguardo a fissarlo, colse uno strano sorriso sul suo viso, un sorriso che, soltanto per questa volta, si rifletté nei suoi occhi luccicanti. Sorpresa, turbata, senza capir bene il perché, Crysania arretrò, ma lui la cinse con il braccio, avviluppandola nelle pieghe morbide delle sue maniche nere, e tenendola stretta a sé.
Chiudendo gli occhi, Crysania si dimenticò di quel sorriso. Stringendosi a lui, avvolta in quel calore, ascoltò il rapido battito del suo cuore...
Mormorando parole magiche, lui trasformò entrambi in nulla. Le loro ombre parvero librarsi per un istante alla luce della luna, poi anche queste svanirono con un sussurro.
«Lo tieni qui? Nelle segrete?» chiese Crysania, rabbrividendo nell’aria gelida e umida.
«Shirak.» Raistlin fece accendere il cristallo in cima al Bastone di Magius riempiendo la stanza d’una morbida luce. «Giace laggiù,» disse il mago, indicandole il punto.
Un rozzo letto spiccava contro la parete. Rivolgendo a Raistlin un’occhiata di rimprovero, Crysania si affrettò accanto al letto. Quando il chierico s’inginocchiò accanto al kender e gli appoggiò la mano sulla fronte febbricitante, Tas urlò. I suoi occhi si spalancarono di colpo, ma la fissarono senza vederla. Raistlin seguendola più lentamente, fece segno a un nano scuro che era rannicchiato in un angolo. «Lasciaci,» gli intimò il mago, poi si avvicinò anche lui al letto. Sentì la porta della cella che si chiudeva alle spalle del nano.
«Come puoi tenerlo chiuso in una simile oscurità?» l’accusò Crysania. «Hai mai curato prima d’oggi le vittime della peste, Dama Crysania?» le chiese Raistlin, con uno strano tono nella voce.
Sorpresa, lei levò lo sguardo su di lui, poi arrossì e guardò altrove. Sorridendo amaramente, Raistlin rispose alla propria domanda. «No, certo che no. La peste non è mai arrivata a Palanthas. Non ha mai colpito i belli, i ricchi...» Non fece nessuno sforzo per nascondere il proprio disprezzo, e Crysania sentì la propria pelle bruciare, come se fosse lei quella che aveva la febbre.
«Be’, da noi è arrivata,» continuò Raistlin. «Ha spazzato i quartieri più poveri di Haven. Naturalmente, non c’erano guaritori. Né erano molti quelli disposti a restare per curare i malati. Perfino i membri delle loro stesse famiglie li sfuggivano. Povere anime patetiche. Io ho fatto quello che potevo curandoli con l’abilità che avevo acquisito nell’uso delle erbe. Se non potevo guarirli, potevo almeno alleviare i loro dolori. Il mio Maestro disapprovava.» Raistlin parlava in tono sommesso, e Crysania si rese conto che si era dimenticato della sua presenza. «E anche Caramon: diceva di temere per la mia salute. Bah!» Raistlin rise senza allegria. «Temeva per se stesso. Il pensiero della peste lo spaventava più di un esercito di goblin. Ma io, potevo voltar loro la schiena? Non avevano nessuno... nessuno. Poveri sventurati che stavano morendo... in totale solitudine.»
Fissandolo ammutolita, Crysania sentì le lacrime pungerle gli occhi. Raistlin non la vedeva. Nella sua mente, era tornato in quelle piccole, fetide capanne ammucchiate ai margini della città come se fossero corse là a nascondersi. Vide se stesso muoversi fra i malati nelle sue vesti rosse, costringendoli a ingurgitare l’amara medicina, reggendo i morenti fra le braccia, alleviando i loro ultimi istanti. Lavorava tra i malati con animo cupo, senza chiedere nessun ringraziamento, senza aspettarsene nessuno. La sua faccia, l’ultima faccia umana che molti avrebbero visto, non esprimeva né compassione né sollecitudine. Eppure i morenti vi trovavano conforto. Accanto a loro c’era qualcuno che capiva, che viveva quotidianamente nel dolore, che aveva guardato in faccia la morte e non aveva paura...
Raistlin accudiva le vittime della peste. Faceva quello che sentiva di dover fare a rischio della propria vita, ma perché? Per una ragione che non aveva ancora capito. Una ragione, forse, dimenticata...
«In ogni caso,» Raistlin tornò al presente, «ho scoperto che la luce faceva male agli occhi dei malati di peste. Anche gli occhi di quelli che si erano ripresi, spesso subivano...»
Fu interrotto da un urlo terrificante del kender.
Tasslehoff lo stava fissando con occhi spiritati. «Per favore, Raistlin! Sto cercando di ricordare! Non riportarmi dalla Regina delle Tenebre...»
«Zitto, Tas,» disse Crysania con voce sommessa, stringendo il kender con entrambe le mani quando Tas parve tentare, alla lettera, di arrampicarsi dentro la parete alle sue spalle. «Calmati, Tas. Sono Dama Crysania. Mi riconosci? Ti aiuterò.»
Tas puntò il suo sguardo febbricitante e folle sul chierico, guardandola per qualche istante senza capire. Poi con un singhiozzo si aggrappò a lei. «Non lasciare che mi riporti nell’Abisso, Crysania! Non lasciare che ci porti anche te! È orribile... orribile. Moriremo tutti, moriremo come il povero Gnimsh. Me l’ha detto la Regina delle Tenebre!»
«Sta delirando,» mormorò Crysania, cercando di liberarsi dalle mani di Tas, costringendolo a stendersi. «Che strane allucinazioni. Succede a tutte le vittime della peste?»
«Sì,» annuì Raistlin. Fissando intensamente Tas, il mago s’inginocchiò accanto al letto. «Talvolta è meglio assecondarli. Può servire a calmare il malato. Tasslehoff...»
Raistlin appoggiò una mano sul petto del kender, e all’istante Tas crollò sul letto, ritraendosi dal mago, tremando e fissandolo in preda all’orrore. «Sarò bravo, Raistlin,» uggiolò. «Non farmi del male, non come al povero Gnimsh. Lampi! Lampi!»
«Tas,» disse Raistlin con fermezza, con una nota di collera e di esasperazione nella voce che indusse Crysania a fissarlo con aria di rimprovero.
Ma quando vide soltanto un’espressione di fredda preoccupazione sul suo volto, suppose di aver frainteso il tono della sua voce. Chiuse gli occhi e toccò il medaglione di Paladine che portava appeso al collo, cominciando a mormorare una preghiera di guarigione.
«Non ti farò del male, Tas. Sst, non muoverti.» Vedendo Crysania smarrita nella comunione con il suo dio, Raistlin sibilò: «Dimmi, Tas, dimmi cos’ha detto la Regina delle Tenebre.»
Il volto del kender perse l’acceso rossore causato dalla febbre a mano a mano che le sommesse parole di Crysania scivolavano su di lui, più dolci e più fresche delle acque delle sue deliranti fantasticherie. Con il calare della febbre il volto di Tas diventò d’un colore spettrale, cinereo. Un debole bagliore di buon senso riemerse nei suoi occhi. Ma il kender non distolse mai il suo sguardo da Raistlin.
«Me l’ha detto... prima che ce ne andassimo...» disse Tas con voce soffocata.
«Che ve ne andaste?» Raistlin si sporse in avanti. «Credevo che tu avessi detto che siete scappati!»
Tas sbiancò in volto, leccandosi le labbra aride e screpolate. Cercò con uno sforzo di distogliere lo sguardo dal mago, ma gli occhi di Raistlin, scintillando al riflesso del Bastone, trattenevano saldamente il kender spremendogli fuori la verità. Tas deglutì. La gola gli faceva male.
«Acqua,» implorò.
«Quando me l’avrai detto!» ringhiò Raistlin, lanciando un’occhiata a Crysania, che era ancora inginocchiata, con la testa fra le mani, intenta a pregare Paladine.
Tas deglutì dolorosamente. «Pensavo... pensavo che stessimo... scappando. Abbiamo usato i... il congegno, e abbiamo cominciato... a sollevarci. Ho visto... l’Abisso, la pianura, piatta, vuota, precipitare giù sotto i m... miei piedi. E,» Tas rabbrividì, «non era più vuota! C’erano... c’erano ombre e...» Buttò indietro la testa, gemendo. «Oh, Raistlin, non farmelo ricordare! Non farmi tornare laggiù!»
«Zitto!» bisbigliò Raistlin, coprendogli la bocca con la mano. Crysania sollevò lo sguardo preoccupata, ma vide soltanto Raistlin che accarezzava con tenerezza la guancia del kender.
Vedendo il volto pallido e l’espressione terrorizzata di Tas, Crysania corrugò la fronte e scosse la testa.
«Sta meglio,» disse. «Non morirà. Ma ombre buie si librano intorno a lui, impedendo alla luce risanante di Paladine di guarirlo del tutto. Sono le ombre delle sue farneticazioni febbricitanti. Non puoi fare niente per eliminarle?» Le sue delicate sopracciglia s’intrecciarono. «Di qualunque cosa si tratti, sembra sia molto reale per lui. Dev’essere stato qualcosa di davvero orrendo per aver spaventato in questo modo un kender.»
«Forse, Dama, se tu uscissi, potrebbe parlare con me sentendosi più a suo agio,» suggerì Raistlin con voce pacata. «Siamo amici da così vecchia data...»
«È vero,» annuì Crysania sorridendo, e fece per alzarsi in piedi. Con suo vivo stupore, Tas si aggrappò alle sue mani.
«Non lasciarmi con lui, Dama! » Tas rantolò. «Ha ucciso Gnimsh! Il povero Gnimsh. L’ho visto mo... morire!» Tas cominciò a piangere. «Un lampo bruciante...»
«Su, su, Tas,» disse Crysania, consolandolo, costringendo il kender con delicatezza, ma anche con fermezza, a ridistendersi. «Nessuno ti farà del male. Chiunque abbia ucciso questo, uh... Gnimsh, adesso non può farti niente. Sei insieme ai tuoi amici. Non è così, Raistlin?»
«La mia magia è potente,» disse Raistlin, con voce sommessa. «Ricordalo, Tasslehoff, ricorda la potenza della mia magia.»
«Sì, Raistlin,» rispose Tas, giacendo del tutto immobile, inchiodato dallo sguardo fisso e fermo del mago.
«Credo sia saggio che tu rimanga a parlargli,» mormorò Crysania. «Queste tenebrose paure lo logoreranno e ostacoleranno il processo di guarigione. Tornerò da sola nella mia stanza, con l’aiuto di Paladine.»
«Così, siamo d’accordo nel non dirlo a Caramon?» Raistlin lanciò un’occhiata obliqua a Crysania.
«Sì,» rispose Crysania in tono deciso. «Non farebbe altro che preoccuparlo inutilmente.» Riportò lo sguardo sul suo paziente. «Tornerò domattina, Tasslehoff. Parla a Raistlin, sgrava la tua anima. E poi, dormi.» Appoggiando la sua fresca mano sulla fronte intrisa di sudore di Tas, aggiunse: «Possa Paladine essere con te.»
«Caramon?» chiese Tas, speranzoso. «Hai detto Caramon? E qui?»
«Sì, e quando avrai dormito, mangiato e riposato, ti porterò da lui.»
«Non potrei vederlo adesso?» gridò Tas, fremente, poi lanciò, timoroso, un’occhiata obliqua a Raistlin. «Sempre... sempre che non sia di troppo disturbo, s’intende...»
«Ha molto da fare,» dichiarò Raistlin, con freddezza. «Adesso è un generale, Tasslehoff. Ha eserciti da comandare, una guerra da combattere. Non ha tempo per i kender.»
«No, su... suppongo di no,» sospirò Tas, con un filo di voce, riadagiandosi sul cuscino, sempre con gli occhi puntati su Raistlin.
Con un’ultima, delicata carezza sulla sua testa, Crysania si alzò in piedi. Reggendo in mano il medaglione di Paladine, mormorò una preghiera e se ne andò, svanendo nella notte.
«E adesso, Tasslehoff,» disse Raistlin con una voce sommessa che fece tremare Tas, «siamo soli.»
Con le sue forti mani, il mago tirò li-coperte sopra il corpo del kender, e gli raddrizzò il cuscino sotto la testa. «Ecco, sei comodo?»
Tas non riuscì a parlare. Poteva soltanto fissare l’arcimago con crescente orrore.
Raistlin si sedette sul letto accanto a lui. Appoggiando una mano sottile sulla fronte di Tas, accarezzò con fare distratto la pelle del kender e gli lisciò all’indietro i capelli bagnati.
«Ti ricordi di Dalamar, il mio apprendista, Tas?» chiese Raistlin, come iniziando una conversazione. «Credo che tu l’abbia visto nella Torre della Grande Stregoneria, giusto?» Le dita di Raistlin erano leggere come zampe di ragno sul volto di Tas. «Ricordi che, a un certo punto, Dalamar si è lacerato le vesti nere, rivelando cinque ferite sul suo petto? Sì, vedo che te ne ricordi. Era la sua punizione, Tas. La punizione per avermi nascosto delle cose.» Le dita di Raistlin smisero di strisciare sulla pelle del kender e si arrestarono dov’erano, esercitando una certa pressione sulla fronte di Tas.
Il kender rabbrividì, mordendosi la lingua per evitare di urlare. «Sì, me ne ricordo, Raistlin.»
«Un’esperienza interessante, non credi?» chiese Raistlin con noncuranza. «Posso fonderti con un tocco, così come potrei fondere, diciamo,» scrollò le spalle, «il burro con un coltello arroventato. I kender amano le esperienze interessanti, credo.»
«Non... non così interessanti,» bisbigliò Tas, miseramente. «Ti racconterò tutto, Raistlin! Ti racconterò tutto quello che... che è successo.» Chiuse gli occhi per un istante, poi cominciò a parlare, con tutto il corpo che tremava al ricordo del terrore. «Non... non ci è sembrato tanto di sollevarci fuori dall’Abisso... ma che l’Abisso, al contrario, precipitasse via sotto di noi! E poi, come ho detto, ho visto che non era vuoto. Potevo vedere delle ombre, e ho pensato... ho pensato che fossero vallate e montagne...»
Gli occhi di Tas si spalancarono di colpo. Fissò il mago in preda allo sgomento. «Ma non lo erano! Quelle ombre erano i suoi occhi, Raistlin! E le colline e le vallate erano il suo naso e la sua bocca e ho... ho pensato che stesse per inghiottirci! Ma abbiamo continuato a sollevarci sempre di più, e lei precipitava via sotto di noi, turbinando, e poi mi ha guardato e ha detto... e ha detto...»
«Cos’ha detto?» volle sapere Raistlin. «Il messaggio per me! Dev’esserlo stato! È per questo che ha mandato te! Cos’ha detto la Regina?»
La voce di Tas divenne un flebile sussurro. «Ha detto, “Torna a casa...”».
L’effetto delle sue parole su Raistlin sbalordì Tasslehoff più di qualunque altra cosa. Altre volte Tas aveva visto Raistlin arrabbiato. L’aveva visto soddisfatto, l’aveva visto commettere degli assassinii, aveva visto il volto del mago quando Kharas, l’eroe dei nani, aveva conficcato la spada nelle sue carni.
Ma non aveva mai visto una simile espressione.
Il volto di Raistlin divenne cinereo, impallidì talmente che Tas pensò, per un incoerente momento, che il mago fosse morto, che fosse rimasto fulminato sul posto. Quegli occhi simili a specchi parvero infrangersi ; Tas si vide riflesso nelle minuscole schegge della vista del mago. Poi vide quegli occhi perdere ogni capacità di riconoscimento, diventare completamente vuoti, fissare ciechi ciò che avevano davanti.
La mano appoggiata sulla sua testa cominciò a tremare violentemente. E, mentre il kender osservava con stupore, vide Raistlin che sembrò accartocciarsi davanti a lui. Il suo volto invecchiò in maniera percettibile. Quando si alzò in piedi, sempre con lo sguardo fisso intorno a sé senza vedere, l’intero corpo del mago era scosso da un tremito.
«Raistlin?» chiese Tas innervosito, lieto che il mago avesse distolto l’attenzione da lui, ma sconcertato dal suo strano aspetto.
Il kender si rizzò a sedere, in preda alla debolezza. Ma quella terribile sensazione di vertigine era scomparsa, insieme a quella bizzarra e insolita paura. Si sentiva, di nuovo, quasi del tutto se stesso.
«Raistlin... non avevo nessuna cattiva intenzione. Starai male, adesso? Hai un aspetto tremendamente strano...»
Ma l’arcimago non rispose. Barcollando all’indietro, Raistlin cadde contro la parete di pietra e rimase là, respirando affannosamente. Coprendosi il volto con una mano, lottò disperatamente per riprendere il controllo di sé, una lotta con qualche arcano avversario che era invisibile a Tas, come se il mago stesse combattendo contro uno spettro.
Poi con un lento, cavernoso urlo di rabbia, Raistlin si lanciò in avanti. Afferrò il Bastone di Magius e, con le vesti nere che gli sbattevano intorno, fuggì via attraverso la porta aperta.
Seguendo Raistlin con lo sguardo stupito, Tas lo vide passare di corsa davanti al nano scuro di guardia accanto alla soglia. Il nano lanciò un’occhiata al volto cadaverico di Raistlin, mentre il mago gli passava accanto correndo alla cieca e, con uno stridulo grido farneticante, si girò di scatto e schizzò via nella direzione opposta.
Questa fulminea successione di eventi fu così stupefacente che Tas impiegò parecchi istanti a rendersi conto che non era più prigioniero.
«Sai,» disse il kender fra sé e sé, portandosi la mano alla fronte, «Crysania aveva ragione. Mi sento meglio adesso che me lo sono tolto dalla mente. Non è servito molto a Raistlin, sfortunatamente, ma d’altronde... a me, cosa importa? Be’, non molto.» Tas sospirò. «Non capirò mai perché ha ucciso il povero Gnimsh. Forse, un giorno, avrò la possibilità di chiederglielo.
«Ma adesso,» il kender si guardò intorno, «la prima cosa da fare è trovare Caramon e dirgli che ho il congegno magico, e che possiamo andare a casa. Non ho mai pensato che l’avrei detto,» proseguì Tas con nostalgia, ruotando le gambe e appoggiando i piedi sul pavimento, «ma “casa” in questo momento suona tremendamente simpatico!»
Era sul punto di alzarsi, ma a quanto pareva le sue gambe preferivano tornare a letto, poiché Tas si ritrovò di nuovo seduto.
«Questo non va bene!» esclamò il kender, fissando con furore le parti disobbedienti del suo corpo.
«Senza di me non siete niente! Ricordatevelo! Sono io il capo, e quando dico muovetevi, voi vi muovete! Adesso, sto per alzarmi di nuovo,» ribadì, ammonendo severamente le sue gambe. «E mi aspetto un po’ di collaborazione.»
Quel discorso ebbe un certo effetto. Questa volta le sue gambe si comportarono un po’ meglio e il kender, anche se ancora un po’ traballante, riuscì ad attraversare la stanza buia verso il corridoio illuminato dalle torce che poteva vedere al di là della porta.
Raggiunta la porta, Tas sbirciò con cautela lungo il corridoio, nelle due direzioni, ma non c’era nessuno in vista. Strisciando fuori nel corridoio, vide soltanto celle buie e sbarrate, come quella in cui si era trovato lui, e ad una estremità una scala che conduceva in alto. Guardando verso l’altra estremità, vide soltanto ombre cupe.
«Chissà dove mi trovo?» Tas s’incamminò lungo il corridoio in direzione della scala, essendo, da quello che poteva vedere, l’unica via che conduceva di sopra. «Oh, be’,» rifletté il kender con filosofia, «non credo che abbia importanza. L’essere stato nell’Abisso ha di buono che qualunque altro posto, non importa quanto squallido, al confronto sembra simpatico.» Dovette fermarsi un momento per una breve discussione con le sue gambe, che parevano ancora assai tentate di tornarsene a letto, ma quella momentanea debolezza passò, e il kender raggiunse la base della scala.
Tendendo l’orecchio, potè udire delle voci.
«Maledizione,» borbottò, fermandosi e arretrando in mezzo alle ombre. «C’è qualcuno, lassù. Guardie, immagino. Sembrano nani. Quei, come li chiamano, Dewar.» Tas rimase immobile in silenzio, cercando di capire cosa stessero dicendo quelle voci profonde. «Una lingua che la gente possa capire... Però sembrano eccitati.»
Finalmente, sopraffatto dalla curiosità, Tas salì furtivo la prima rampa di gradini di pietra e sbirciò da dietro l’angolo. Si ritrasse rapidamente con un sospiro. «Sono in due. Bloccano la scala e non c’è modo di aggirarli.»
Non aveva più le borse con gli utensili e le armi, erano rimaste nella segreta della montagna di Thorbardin. Ma aveva ancora il suo coltello. «Non che serva a molto contro quelle!» rifletté Tas, richiamando alla mente le enormi asce da guerra che aveva visto impugnare ai nani.
Attese qualche altro momento, sperando che i nani se ne andassero. Una cosa era certa: apparivano eccitati, ma sembrava anche che avessero messo radici in quel punto.
«Non posso restare qui tutto il giorno, o la notte, qualunque cosa sia,» mugugnò il kender. «Be’, come diceva papà, “cerca sempre di parlare prima di scassinare la serratura.” Suppongo che il peggio che possano farmi, a parte uccidermi, sia di mettermi di nuovo sotto chiave. E se so giudicare le serrature, probabilmente sarei di nuovo fuori in meno di mezz’ora.» Ricominciò a salire le scale. «È stato papà a dirlo,» rifletté mentre saliva, «oppure lo zio Trapspringer?»
Girò l’angolo e affrontò i due Dewar, i quali parvero considerevolmente sorpresi di vederlo. «Ehi voi!» esclamò il kender con allegria. «Mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.» Porse loro la mano. «E voi, come vi chiamate? Oh, non volete dirmelo. Comunque, è probabile che non riuscirei comunque a pronunciare i vostri nomi. Ecco, sono un prigioniero e sto cercando il tipo che mi teneva chiuso a chiave in quella cella laggiù. Forse lo conoscete, un fruitore di magia vestito di nero. Mi stava interrogando quando qualcosa che ho detto lo ha colto di sorpresa, credo, poiché ha avuto una specie di scatto ed è corso fuori della stanza. E si è dimenticato di chiudere la porta alle sue spalle. Qualcuno di voi ha visto da quale parte... Be’!» Tas sbatté le palpebre. «Che maleducati.»
Questo in risposta alla reazione dei Dewar che, dopo aver fissato il kender con crescente espressione di allarme sul viso, avevano urlato una parola, si erano girati ed erano scappati a gambe levate.
«Antarax,» ripetè Tas, seguendoli perplesso con lo sguardo. «Vediamo. Sembra nanesco per... per... Oh, naturalmente! La morte che brucia. Ah... pensano che io abbia ancora la peste! Mmm... è comodo. O no?»
Il kender si ritrovò solo in un altro lungo corridoio, desolato e squallido, in tutto e per tutto simile a quello che aveva appena lasciato. «Non so ancora dove mi trovo, e non c’è nessuno che sembri propenso a dirmelo. L’unica via d’uscita è quella scala laggiù, e quei due sono scappati appunto da quella parte, perciò la cosa migliore da fare, credo, sia quella di seguirli. Caramon deve per forza trovarsi da qualche parte qua dentro.»
Ma le gambe di Tas, che avevano già manifestato la loro avversione a camminare, informarono il kender in termini espliciti che mettersi a correre era fuori questione. Seguì perciò i nani quanto più rapidamente possibile con passo incespicante, ma i due nani erano sfrecciati su per le scale ed erano scomparsi alla sua vista quando arrivò a metà corridoio. Ansimando, sentendosi un po’ stordito ma deciso a trovare Caramon, Tas li seguì su per la scala. Quando girò l’angolo si fermò di colpo.
«Ups!» esclamò, e si affrettò a nascondersi in mezzo alle ombre. Tappandosi la bocca con una mano, si rimproverò severamente. «Chiudi il becco, Burrfoot! C’è l’intero esercito dei Dewar!»
E pareva proprio che fosse così. I due che aveva seguito avevano incontrato una ventina di nani.
Rannicchiato nell’ombra, Tas li sentì vociare tutti eccitati, e si aspettò di vederseli arrivare addosso con passo cadenzato da un momento all’altro... ma non successe nulla.
Aspettò, ascoltando la conversazione. Poi, rischiando una sbirciata, vide che alcuni dei nani presenti non avevano l’aspetto dei Dewar. Erano puliti, con la barba pettinata, ed erano rivestiti di armature sfavillanti. E non apparivano soddisfatti. Fissavano trucemente uno dei Dewar, come se avessero voluto scuoiarlo vivo.
«Nani delle montagne!» borbottò Tas fra sé, in preda allo stupore, riconoscendo le armature. «E da quello che Raistlin ha detto, sono il nemico. Il che significa che dovrebbero essere nella loro montagna, non nella nostra. Sempre che noi siamo in una montagna, naturalmente, cosa che comincio a considerare probabile, a giudicare dall’aspetto. Ma, mi chiedo...»
Quando uno dei nani della montagna cominciò a parlare, Tas s’illuminò. «Finalmente qualcuno che si fa capire!» Il kender sospirò di sollievo. A causa della mescolanza delle razze, il nano stava parlando una rozza mescolanza di comune e nanesco.
Il succo della conversazione, da quello che Tas riuscì a seguire, era che al nano della montagna non importava una pietra crepata dello stregone matto o di un kender errabondo infestato dalla peste.
«Siamo venuti qui per prendere la testa del generale Caramon,» ringhiò il nano delle montagne.
«Hai detto che lo stregone ha promesso di organizzare la cosa. Bene, allora, adesso tocca a noi. E, comunque, preferisco fare a meno di trattare con una Veste Nera. E adesso rispondi a questo, Argat. I tuoi sono pronti ad attaccare l’esercito dall’interno? Siete pronti a uccidere questo generale? Oppure era soltanto un trucco? Se è così, scoprirete che si ripercuoterà duramente sul vostro popolo a Thorbardin!»
«Non trucco!» ringhiò Argat, serrando il pugno. «Noi pronti agire. Il generale è in Stanza di Guerra. Lo stregone detto che assicurato che lui solo con guardia del corpo e basta. Nostra gente spingerà nani colline ad attaccare. Quando voi manterrete vostra parte accordo, quando esploratori daranno segnale che grandi porte di Thorbardin sono aperte...»
«Il segnale sta già suonando mentre parliamo,» sbottò il nano delle montagne. «Se fossimo al di sopra del livello del suolo, potresti sentire le trombe. L’esercito sta avanzando!»
«Allora andremo!» disse Argat. Facendo un inchino, aggiunse, con una risata di scherno: «Se Vostra Signoria osa venire con noi, prendiamo testa di generale Caramon, adesso, subito!»
«Mi unirò a voi,» disse, gelido, il nano delle montagne. Non fosse altro per essere sicuro che non macchiniate qualche altro tradimento!»
Tas, che si era appoggiato alla parete, perse qualunque altra cosa che i due si stessero dicendo.
Aveva le gambe formicolanti e gli ronzavano gli orecchi.
«Caramon!» bisbigliò, stringendosi la testa, cercando di pensare. «Lo uccideranno! Ed è stato Raistlin a far questo!» Tas rabbrividì. «Povero Caramon. Il suo gemello. Se lo sapesse, probabilmente ci resterebbe secco. I nani non avrebbero bisogno delle asce.»
D’un tratto il kender sollevò la testa di scatto. «Tasslehoff Burrfoot!» esclamò, infuriato. «Cosa stai facendo, te ne stai fermo come un nano dei fossi con un piede nel fango? Devi salvarlo! Dopotutto, non hai promesso a Tika che ti saresti preso cura di lui?»
«Salvarlo? E come, pomolo di porta che non sei altro?» tuonò una voce dentro di lui, che assomigliava in modo molto sospetto a quella di Flint. «Devono esserci almeno venti nani! E tu sei armato di quell’ammazza conigli!»
«Penserò a qualcosa,» replicò Tas. «Tu resta seduto sotto il tuo albero e basta!»
Udì un suono, come di qualcuno che sbuffava. Ignorandolo con fredda decisione, il kender si rizzò in tutta la sua altezza, sfoderò il suo piccolo pugnale, e cominciò a strisciare avanti in completo silenzio, come possono farlo soltanto i kender, lungo il corridoio.
Aveva i capelli scuri e ricciuti e il sorriso truffaldino che più tardi gli uomini avrebbero trovato così affascinante in sua figlia. Aveva la semplice, ingenua onestà che avrebbe caratterizzato uno dei suoi figli, e aveva un dono, un raro e meraviglioso potere, che avrebbe trasmesso all’altro figlio.
Aveva la magia nel sangue come l’aveva suo figlio. Ma era debole: debole di volontà, debole di spirito. Così, aveva lasciato che la magia prendesse il controllo di lei, e così, alla fine, era morta.
Né Kitiara dall’anima forte, né Caramon dal fisico robusto, erano rimasti molto colpiti dalla morte della loro madre. Kitiara odiava sua madre di un’amara gelosia, mentre Caramon, pur volendo bene a sua madre, era assai più vicino al suo fragile gemello. Inoltre, le bizzarre farneticazioni e le trance mistiche di sua madre ne facevano un completo enigma per il giovane guerriero.
Ma la sua morte aveva devastato Raistlin. L’unico dei suoi figli che veramente la capiva, provava pietà per la sua debolezza pur disprezzandola allo stesso tempo. Ed era furioso con lei perché era morta, furioso perché l’aveva lasciato solo al mondo, solo con il suo dono. Era arrabbiato e, nel suo intimo, era pieno di paura, poiché Raistlin vedeva in lei la propria condanna.
In seguito alla morte di suo padre, sua madre per il profondo dolore era entrata in una trance dalla quale non era mai più riemersa. Raistlin era stato impotente. Non aveva potuto far nulla se non assistere al suo graduale decadimento. Rifiutando ostinatamente il cibo, era andata alla deriva, smarrendosi in piani magici che soltanto lei poteva vedere. E il mago, suo figlio, ne era rimasto scosso fin nel profondo del suo intimo.
Quell’ultima notte era rimasto seduto accanto a lei. Tenendole la mano devastata nella propria, l’aveva osservata mentre i suoi occhi infossati e febbricitanti fissavano le meraviglie evocate dalla sua forsennata magia.
Quella notte, Raistlin aveva giurato nel profondo della sua anima che nessuno e niente avrebbero mai avuto il potere di manipolarlo in quel modo, non suo fratello gemello, non sua sorella, non la magia, non gli dei. Lui, e lui soltanto, sarebbe stato la forza-guida della propria vita.
L’aveva giurato, ed era stato un giuramento amaro e vincolante. Ma lui era ancora un ragazzo, un ragazzo rimasto solo nel buio mentre sedeva là insieme a sua madre, la notte in cui era morta.
L’aveva vista esalare l’ultimo, tremante respiro. Tenendole la mano sottile dalle dita delicate (così simili alle sue!), aveva implorato sommessamente in mezzo alle lacrime: «Madre, torna a casa... Torna a casa!»
Adesso a Zhaman sentiva di nuovo quelle parole, che lo sfidavano, lo deridevano, lo provocavano.
Risuonavano nelle sue orecchie, riverberavano nel suo cervello con clangori selvaggi e discordanti.
Con la testa che gli scoppiava per il dolore, incespicò contro una parete.
Una volta, Raistlin aveva visto Lord Ariakas torturare un cavaliere fatto prigioniero chiudendo l’uomo dentro la torre campanaria. Quella notte, per tutta la notte, i chierici scuri avevano suonato le campane in lode alla loro Regina. Il mattino seguente l’uomo era stato trovato morto, con un’espressione di orrore sul suo viso così profonda e spaventevole che perfino coloro che solitamente traevano il loro perverso piacere dalla crudeltà si sbarazzarono in tutta fretta del cadavere.
Raistlin ebbe l’impressione di essere imprigionato nella sua personale torre campanaria, con le sue stesse parole che gli riecheggiavano la condanna dentro il cranio. Barcollando, stringendosi la testa, cercò disperatamente di cancellarne il suono.
«Torna a casa... Torna a casa...»
Stordito e accecato dal dolore, il mago cercò di sfuggirlo. Andò in giro vacillando, senza nessuna chiara idea di dove si trovasse, cercando solamente una via di scampo. I suoi piedi intorpiditi persero l’equilibrio. Inciampando sull’orlo della veste nera, cadde sulle ginocchia.
Un oggetto schizzò fuori da una tasca delle sue vesti e rotolò sul pavimento di pietra. Nel vederlo, Raistlin ruggì per la rabbia e la paura. Era un altro segno del suo fallimento, il globo dei draghi, crepato, oscurato, inutile. Cercò spasmodicamente di afferrarlo, ma il globo slittò via come una biglia di vetro sui mattoni del pavimento, eludendo la sua stretta artigliante.
Disperato, strisciò dietro al globo che, alla fine, smise di rotolare. Con un gemito di rabbia Raistlin fece per impadronirsene, poi si arrestò. Sollevando la testa, sgranò gli occhi. Vide dov’era, e arretrò, tremando.
Davanti a lui si profilava il Grande Portale.
Era esattamente come quello nella Torre della Grande Stregoneria a Palanthas. Una gigantesca porta ovale che si ergeva su una piattaforma, decorata e custodita dalle teste di cinque draghi. I loro colli sinuosi si dipanavano serpeggiando sul pavimento, le cinque teste erano rivolte verso l’interno, le cinque bocche aperte urlavano il silenzioso tributo alla loro Regina.
Nella Torre di Palanthas, la porta che dava sul Portale era chiusa. Nessuno poteva aprirla salvo che dall’interno dello stesso Abisso, venendo dalla direzione opposta, un’uscita da un luogo dal quale nessuno usciva mai. Anche se quella porta era chiusa, vi era chi poteva entrarvi: insieme, un Chierico dalle Vesti Bianche d’Infinita Bontà, e un Arcimago dalle Vesti Nere d’Infinita Malvagità.
Era un’improbabile combinazione. Così i grandi maghi avevano sperato di sigillare per sempre quel terribile ingresso su un piano immortale.
Un comune mortale che avesse guardato dentro il Portale, non poteva veder nulla, soltanto un’oscurità totale e gelida.
Ma Raistlin non era più un comune mortale. Avvicinandosi sempre più alla sua Regina, rivolgendo le sue energie e i suoi studi verso quel singolo oggetto, l’arcimago si trovava adesso in una condizione sospesa fra entrambi i mondi. Guardando dentro quella porta chiusa, poteva quasi penetrare quell’oscurità! Essa vibrava e ondeggiava davanti alla sua vista. Strappando lo sguardo dal Portale, riportò la sua attenzione sul Globo dei draghi, cercando di riafferrarlo.
Come ha fatto a sfuggirmi? si chiese con rabbia. Aveva chiuso il globo in una borsa nascosta in fondo a una delle tasche segrete delle sue vesti... Ma subito si fece beffe di se stesso, poiché conosceva la risposta. Ogni Globo dei draghi era dotato d’un profondo senso di autoconservazione.
Quello presente a Istar era sfuggito al Cataclisma ingannando il re degli elfi, Lorac, inducendolo a rubarlo e a portarlo a Silvanesti. Quando il Globo non aveva più potuto servirsi del folle Lorac, si era attaccato a Raistlin. Aveva sorretto la vita di Raistlin, quando questi si era trovato morente nella biblioteca di Astinus. Aveva cospirato con Fistandantilus per portare il giovane dalla Regina delle Tenebre. Adesso, avvertendo il più grande pericolo che avesse minacciato la sua esistenza, stava cercando di sfuggirgli.
No, lui non l’avrebbe permesso! Allungò il braccio e la sua mano si chiuse con fermezza sul Globo dei draghi.
Vi fu un urlo stridente...
Il Portale si aprì.
Raistlin levò lo sguardo. Non si era aperto per farlo entrare. No, si era aperto per ammonirlo, per mostrargli la punizione per l’insuccesso.
Prostrato sulle ginocchia, stringendo il Globo al petto, Raistlin sentì la presenza e la maestà di Takhisis, Regina delle Tenebre, levarsi davanti a lui. Colto dallo sgomento, si rannicchiò tremante ai piedi della Regina Tenebrosa.
Questa è la tua condanna! Le sue parole gli sibilarono nella mente. il destino di tua madre sarà il tuo. Inghiottito dalla tua magia, sarai tenuto per sempre nell’incanto, e neppure la dolce consolazione della morte porrà fine alle tue sofferenze!
Raistlin crollò. Sentì il suo corpo accartocciarsi. Così aveva visto il corpo avvizzito di Fistandantilus accartocciarsi al tocco dell’ematite.
Con la testa appoggiata sul pavimento di pietra, così com’era stata appoggiata sul ceppo del boia del suo incubo, il mago stava per ammettere la sconfitta...
Ma c’era un nucleo di forza nell’intimo di Raistlin. Molto tempo addietro, a Par-Salian, capo dell’ordine delle Vesti Bianche, era stato affidato un compito dagli dei. Avevano bisogno di un fruitore di magia abbastanza forte da aiutarli a sconfiggere il male crescente della Regina delle Tenebre. Par-Salian aveva cercato a lungo e alla fine aveva scelto Raistlin poiché aveva visto dentro al giovane mago quel nucleo interiore di forza. Era stata una massa fredda e informe di ferro, quanto Raistlin. Ma Par-Salian aveva sperato che il fuoco rovente della sofferenza, del dolore, della guerra, e dell’ambizione, avrebbe forgiato quella massa nel miglior acciaio temprato.
Raistlin sollevò la testa dalla fredda pietra.
Il calore della furia della Regina si abbatteva intorno a lui. Il sudore gli colava dal corpo. Non riusciva a respirare mentre il fuoco gli ustionava i polmoni. La Regina lo tormentava, lo beffeggiava usando le sue stesse parole, le sue stesse visioni. Rideva di lui, così come molti altri avevano riso di lui in passato. Eppure, perfino mentre il suo corpo tremava di una paura diversa da qualunque altra avesse mai conosciuto prima, l’anima di Raistlin cominciò ad esultare.
Perplesso, cercò di analizzare questo fatto. Tentò di riprendere il controllo e, dopo uno sforzo che lo lasciò debole e tremante, bandì il suono echeggiante della voce di sua madre dalle sue orecchie.
Chiuse gli occhi al sorriso canzonatorio della sua Regina.
L’oscurità l’avvolse e vide, nella fresca, dolce oscurità, la paura della Regina.
Aveva paura... paura di lui!
Lentamente, Raistlin si alzò in piedi. Venti roventi soffiavano dal Portale, gonfiando le vesti nere intorno a lui, fino a quando gli parve d’essere avvolto da nubi tempestose. Adesso poteva guardare direttamente dentro il Portale. I suoi occhi si strinsero. Guardò la temuta porta con un ghigno truce e contorto. Poi, sollevando la mano, Raistlin scagliò il Globo dei draghi dentro il Portale.
Colpendo quell’invisibile parete, il Globo s’infranse. Vi fu un grido quasi impercettibile. Oscure ali d’ombra svolazzarono intorno alla testa del mago, poi, con un gemito, le ali si dissolsero in fumo e vennero soffiate via.
Una forza percorse il corpo di Raistlin, una forza quale non aveva mai conosciuto prima. La consapevolezza della debolezza del suo nemico lo colpì come un liquore intossicante. Sentì il magico flusso scorrere dalla sua mente nel suo cuore e da qui nelle vene. Il potere di secoli di apprendimento, accumulato e assorbito, era suo, suo e di Fistandantilus.
E poi lo sentì, il limpido squillo d’una tromba, la sua musica, fredda come l’aria che soffiava dalle montagne coperte di neve delle terre dei nani visibili in distanza. Il richiamo della tromba echeggiò puro e terso nella sua mente, scacciando le voci che lo distraevano, chiamandolo nell’oscurità, dandogli il potere sulla morte stessa.
Raistlin fece una pausa. Non aveva avuto l’intenzione di varcare così presto il Portale. Gli sarebbe piaciuto aspettare un po’ di più. Ma adesso sarebbe andato bene lo stesso, se fosse stato necessario.
L’arrivo del kender significava che il tempo poteva venir alterato. La morte dello gnomo garantiva che non ci sarebbe stata nessuna interferenza da parte del congegno magico, l’interferenza che aveva causato la morte di Fistandantilus.
Il momento era venuto.
Raistlin rivolse al Portale un’ultima, lunga occhiata. Poi, gratificando la sua Regina di un inchino, si girò e si allontanò con passo deciso lungo il corridoio.
Crysania era inginocchiata a pregare nella propria stanza.
Era stata sul punto di coricarsi, dopo essere ritornata dalla stanza del kender, ma l’aveva colta uno strano, sinistro presentimento. C’era qualcosa nell’aria che rendeva difficile respirare. Una sensazione di attesa l’aveva fatta esitare. Il sonno non voleva venire. Era vigile, sveglia, più sveglia di quanto lo fosse stata in tutta la sua vita.
Il cielo era pieno di luce, la fredda luce delle stelle che ardeva nel buio; la luna d’argento, Solinari, risplendeva come un pugnale. Poteva vedere ogni singolo oggetto nella sua stanza con una chiarezza soprannaturale. Ognuno di essi pareva vivo, intento a osservare, ad aspettare insieme a lei.
Come pietrificata fissava le stelle, tracciando le linee delle costellazioni: Gilean, il Libro, i Piatti della Bilancia; Takhisis, La Regina delle Tenebre, il Drago dai Molti Colori e Nessuno; Paladine, il Guerriero Coraggioso, il Drago di Platino. Le lune: Solinari, l’Occhio di Dio; Lunitari, la Candela della Notte. Al di là di tutto questo, schierati nei cieli, gli dei minori, e fra essi i pianeti.
E da qualche parte la Luna Nera, la luna che soltanto i suoi occhi potevano vedere.
Restando così immobile, fissando la notte, Crysania sentì le sue dita diventare fredde quando le appoggiò sulla gelida pietra. Si rese conto che stava rabbrividendo e si girò, dicendosi che era giunto il momento di dormire...
Ma c’era ancora quel tremulo respiro della notte. «Aspetta,» le bisbigliava. «Aspetta...»
E poi udì la tromba. Pura e tersa, la sua musica le penetrò il cuore, urlando un peana di vittoria che le elettrizzò il sangue.
In quel preciso istante, la porta della sua stanza si aprì.
Non fu sorpresa di vederlo. Era come se si fosse aspettata il suo arrivo, e si girò con calma a fronteggiarlo.
Raistlin si stagliava sulla soglia, i suoi contorni risaltavano contro la luce delle torce che avvampavano nel corridoio e risaltavano anche per la luce che sgorgava tenebrosa da sotto le sue vesti, una luce empia che veniva da dentro.
Attirata da una strana forza, Crysania sollevò di nuovo lo sguardo al cielo e vide Nuitari, la Luna Nera, che brillava di quella stessa luce tenebrosa.
Per un attimo chiuse gli occhi, sopraffatta da quell’improvviso afflusso di sangue che la stordiva, dal battito del proprio cuore. Poi, sentendo che le forze le tornavano, li aprì di nuovo e trovò Raistlin in piedi davanti a lei.
Trattenne il fiato. L’aveva visto nell’estasi della magia, l’aveva visto combattere contro la sconfitta e la morte. Adesso lo vedeva nel pieno delle sue forze, nella maestà del suo tenebroso potere. Una saggezza e un’intelligenza antiche erano incise nel suo volto, un volto che Crysania stentò a riconoscere come suo.
«È giunto il momento, Crysania,» le disse, tendendole le mani.
Lei le prese. Le sue dita erano gelide, il tocco di Raistlin le fece bruciare. «Ho paura,» bisbigliò Crysania.
Lui le si avvicinò.
«Non c’è bisogno che tu abbia paura,» le disse. «Il tuo dio è con te. Lo vedo con chiarezza. È la mia dea che ha paura, Crysania. Percepisco la sua paura! Insieme, tu ed io attraverseremo le frontiere del tempo ed entreremo nel regno della morte. Insieme combatteremo contro la Tenebra. Insieme metteremo in ginocchio Takhisis!»
Le sue mani l’attirarono vicino al proprio petto, le sue braccia l’avvolsero. Le sue labbra si chiusero sopra quelle di lei, rubandole il respiro con il suo bacio.
Crysania chiuse gli occhi e lasciò che il fuoco magico, il fuoco che consumava i corpi dei morti, consumasse il suo corpo, consumasse quel guscio freddo, spaventato, vestito di bianco, che aveva tenuto nascosto durante tutti quegli anni.
Raistlin si tirò indietro, tracciandole i contorni della bocca con il dito, sollevandole il mento in modo che lei potesse guardarlo negli occhi. E là, riflesso nello specchio della sua anima, Crysania vide se stessa, che ardeva di un’aura fiammeggiante di luce radiosa, pura e bianca. Vide se stessa bella, amata, adorata. Vide se stessa che portava al mondo verità e giustizia, bandendo per sempre il dolore, la paura e la disperazione.
«Sia benedetto Paladine,» bisbigliò Crysania.
«Sempre sia benedetto,» rispose Raistlin. «Ancora una volta ti darò un amuleto. Come ti ho protetto quando hai attraversato il Bosco di Shoikan, così sarai difesa quando varcheremo il Portale.»
Crysania tremò. Attirandola a sé, stringendola un’ultima volta, le premette le labbra sulla fronte.
Crysania sussultò ma non gridò. Lui le sorrise.
«Vieni.»
Sulle parole bisbigliate di un incantesimo alato, lasciarono la stanza uscendo nella notte, proprio mentre i raggi rossi di Lunitari si riversavano nell’oscurità, il sangue tratto dal coltello luccicante di Solinari.
«Ed i carri dei rifornimenti?» chiese Caramon con voce misurata e tranquilla, la voce di chi conosce già la risposta.
«Nessuna notizia, signore,» rispose Garic, evitando lo sguardo fermo di Caramon. «Ma... li stiamo aspettando...»
«Non arriveranno. Sono caduti in un’imboscata. Tu lo sai bene.» Caramon dette in uno stanco sorriso.
«Per lo meno abbiamo trovato l’acqua,» disse Garic, poco convinto, facendo uno sforzo coraggioso per apparire allegro e fallendo miseramente. Tenendo lo sguardo fisso sulla mappa allargata sul tavolo davanti a lui, tracciò nervosamente un piccolo cerchio intorno a un minuscolo punto verde sulla pergamena.
Caramon sbuffò. «Una pozza che sarà vuota entro mezzogiorno. Oh, sicuro, si riempie di nuovo durante la notte, ma il mio sudore ha un gusto migliore. Quella dannata roba dev’essere inquinata dall’acqua del mare.»
«Comunque è potabile. La stiamo razionando, naturalmente, e abbiamo messo delle sentinelle tutt’intorno. Ma non sembra che stia per inaridirsi.»
«Oh, insomma. Fra un po’ non dovremo più preoccuparci perché non rimarranno più uomini per berla,» disse Caramon, passandosi la mano con un sospiro attraverso i capelli ricciuti.
Nella stanza faceva caldo e l’aria era soffocante. Qualche servitore troppo zelante aveva buttato della legna sul fuoco prima che Caramon, abituato a vivere all’aperto, potesse fermarlo. L’omone aveva spalancato una finestra per lasciar entrare l’aria fresca e frizzante, ma le fiamme che ruggivano alle sue spalle lo tostavano ugualmente per benino. «Oggi, qual è il totale dei disertori?»
Garic si schiarì la gola. «Circa... circa un centinaio, signore,» disse con riluttanza.
«Dove vanno? Pax Tharkas?»
«Sì, signore. Così crediamo.»
«Che altro?» chiese Caramon, cupo in volto, studiando la faccia di Garic. «Tu mi nascondi qualcosa.»
Il giovane cavaliere arrossì. In quel momento, Garic provò il vivo desiderio che mentire non fosse contro ogni codice d’onore. Così come avrebbe dato la sua vita per risparmiare a quell’uomo un dolore, allo stesso modo era quasi pronto a mentire. Esitò, poi, guardando Caramon, vide che non sarebbe stato necessario. Il generale lo sapeva già.
Caramon annuì con estrema lentezza. «Gli uomini delle pianure?»
Garic abbassò lo sguardo sulle mappe.
«Tutti? »
«Sì, signore.»
Caramon chiuse gli occhi. Sospirando sommessamente prese una delle piccole figure di legno che erano state disposte sulla mappa per rappresentare la posizione e lo schieramento delle sue truppe.
Girandola fra le dita, divenne pensieroso. Poi, all’improvviso, con un’amara imprecazione, si girò e scagliò la figurina in mezzo al fuoco. Un istante dopo si prese fra le mani la testa dolorante.
«Suppongo di non poter biasimare Darknight. Non sarà facile per lui e per i suoi uomini, neppure adesso. Senza dubbio i nani delle montagne hanno occupato i passi alle nostre spalle, è questo che è successo ai carri dei rifornimenti. Dovrà combattere per aprirsi la strada fino a casa. Possano gli dei essergli vicini.»
Caramon rimase silenzioso un momento, poi serrò i pugni. «Maledizione a mio fratello!» imprecò.
«Maledizione a lui!»
Garic si spostò, innervosito. Fece dardeggiare lo sguardo intorno a sé, timoroso che la figura abbigliata di nero potesse materializzarsi dalle ombre. .«Bene,» esclamò Caramon, raddrizzandosi e studiando ancora una volta le mappe. «Questo non ci condurrà da nessuna parte. Ora, la nostra sola speranza, da come la vedo io, è tenere quello che è rimasto del nostro esercito qui sui Pianori. Dobbiamo attirare fuori i nani, costringerli a combattere all’aperto, così da poter utilizzare la nostra cavalleria. Non riusciremo mai ad aprirci una strada dentro la montagna,» aggiunse, ed una nota di amarezza s’insinuò nella sua voce, «ma per lo meno possiamo ritirarci con la speranza di riconquistare Pax Tharkas con le nostre forze ancora intatte. Una volta là, potremo fortificarla e...»
«Generale.» Una delle sentinelle alla porta entrò nella stanza, arrossendo per il fatto di aver dovuto interrompere. «Ti prego di scusarmi, signore, ma è arrivato un messaggero.»
«Fallo entrare.»
Un giovane entrò nella stanza. Coperto di polvere, con le guance arrossate dal freddo, lanciò al fuoco un’occhiata piena di desiderio, ma venne avanti per consegnare il suo messaggio.
«No, vai a riscaldarti,» lo invitò Caramon, facendo segno all’uomo di avvicinarsi al caminetto.
«Sono contento che qualcuno possa apprezzarlo. Ho comunque la sensazione che la tua notizia sarà ben poco appetibile.»
«Grazie, signore,» disse l’uomo con gratitudine. In piedi accanto al fuoco protese le mani verso il calore. «La mia notizia è questa... i nani delle colline se ne sono andati.»
«Andati?» ripetè Caramon, del tutto sbalordito, alzandosi in piedi. «Andati dove? Non saranno certo tornati...»
«Stanno marciando su Thorbardin.» Il messaggero esitò. «E, signore, i Cavalieri sono andati con loro.»
«È una follia» Il pugno di Caramon si abbatté sul tavolo, facendo schizzare in tutte le direzioni i segnalini di legno mentre le mappe si arrotolavano ai bordi. Il suo volto s’incupì. «Mio fratello...»
«No, signore. A quanto pare sono stati i Dewar. Mi è stato detto di consegnarti questo.» Tirò fuori un rotolo di pergamena dalla borsa e lo porse a Caramon, che si affrettò a srotolarlo.
Generale Caramon, ho appena appreso dalle spie dei Dewar che le porte della montagna si apriranno quando squillerà la tromba. Progettiamo di coglierli di sorpresa. Muovendoci all’alba, arriveremo là al calar della notte. Mi spiace che non ci sia stato il tempo d’informarti. Stai certo che riceverai la parte del bottino che ti è dovuta, anche se arriverai in ritardo. Che la luce di Reorx risplenda sulle nostre asce.
La mente di Caramon riandò al pezzo di pergamena macchiato di sangue che aveva stretto in mano non molto tempo prima. Lo stregone ti ha tradito...
«Dewar!» Caramon aggrottò le sopracciglia. «Spie dei Dewar. Spie, certo, ma non per noi! Traditori, certo, ma non della loro gente!»
«Una trappola,» esclamò Garic, alzandosi in piedi anche lui.
«E ci siamo cascati dentro come un branco di dannati conigli!» borbottò Caramon, pensando a un altro coniglio preso in trappola, vedendo con l’occhio della mente suo fratello che lo metteva in libertà. «Pax Tharkas cade. Non è una gran perdita. Può sempre venir riconquistata, specialmente se i difensori sono morti. La nostra gente che diserta a branchi. Gli uomini delle pianure che se ne vanno. E adesso i nani delle colline che marciano su Thorbardin, e i Dewar che marciano con loro. E quando la tromba squillerà...»
Risuonò lo squillo limpido e terso della tromba. Caramon sussultò. Lo sentiva, oppure era un sogno, portato sulle ali d’una terribile visione? Quasi lo vedeva recitato davanti ai suoi occhi... i Dewar che, lentamente, impercettibilmente si sparpagliavano in mezzo ai nani delle colline, infiltrandosi fra i loro ranghi. Con le mani che protendevano verso le asce, i martelli...
La maggior parte della gente di Reghar non avrebbe mai saputo cosa li aveva colpiti, non avrebbe mai avuto una sola possibilità di colpire.
Caramon poteva udire le urla, i tonfi degli stivali di ferro, il cozzare delle armi, e le grida aspre e discordanti. Era vero, talmente vero...
Smarrito nella sua visione, Caramon fu solo vagamente consapevole dell’improvviso pallore sul volto di Garic. Sfoderando la spada, il giovane cavaliere balzò verso la porta con un urlo che riportò Caramon di colpo alla realtà. Girandosi di scatto, vide una marea nera di nani scuri avanzare fuori della porta. C’era un bagliore d’acciaio.
«Un’imboscata!» urlò Garic.
«Ritiratevi!» tuonò Caramon. «Non uscite là fuori! I Cavalieri se ne sono andati, siamo i soli qui dentro! Restate dentro le stanze, sbarrate la porta!» Balzando su Garic, afferrò il cavaliere e lo trascinò indietro. «Voi guardie, ritiratevi!» urlò ai due che erano ancora fuori della porta e adesso stavano combattendo per la loro vita.
Caramon afferrò il braccio di una delle guardie per trascinarla dentro, calando nello stesso tempo la propria spada sulla testa di un Dewar che stava attaccando. L’elmo del nano s’infranse. Il sangue schizzò su Caramon, ma lui non vi prestò la minima attenzione. Spingendo la guardia dietro di sé, Caramon si scagliò con tutto il proprio peso addosso all’orda dei nani scuri che si accalcavano nel corridoio e la sua spada saettò scavando una corsia di sangue in mezzo a loro.
«Ritirati, pazzo!» urlò senza voltarsi alla seconda guardia, che esitò solo un attimo e poi fece come gli veniva ordinato. La feroce carica di Caramon ebbe l’effetto voluto di cogliere i Dewar impreparati: questi arretrarono incespicando, in preda a un momentaneo panico alla vista dei suo furore bellico. Ma, appunto, fu soltanto un panico momentaneo. Già Caramon potè vedere che stavano recuperando morale e coraggio.
«Generale! Attento!» urlò Garic, in piedi sulla soglia, con la spada ancora in pugno. Voltandosi, Caramon fece per rientrare nella sicurezza della stanza delle mappe. Ma il suo piede scivolò sulle pietre coperte di sangue e l’omone cadde a terra, slogandosi dolorosamente il ginocchio.
Con un urlo selvaggio, un Dewar gli balzò addosso.
«Entrate! Sbarrate la porta, voi...!» Il resto delle parole di Caramon andò perduto mentre scompariva sotto una massa ribollente di nani.
«Caramon!»
Provando un tuffo al cuore, maledicendosi per essersi tirato indietro, Garic si lanciò nella mischia.
Un colpo di martello gli si abbatté sul braccio, e sentì l’osso scricchiolare. La sua mano sinistra divenne flaccida. Be’, pensò, dimentico del dolore, per fortuna non è il braccio con cui impugno la spada... La sua lama roteò, un nano scuro stramazzò al suolo decapitato. La lama di un’ascia sibilò, ma colui che la brandiva mancò il bersaglio. Il nano venne colpito alle spalle da una delle guardie della porta.
Malgrado fosse incapace di reggersi in piedi, Caramon combatteva ancora. Un calcio della sua gamba sana fece barcollare all’indietro due nani, mandandoli a schiantarsi contro i loro compagni.
Torcendosi su un lato, l’omone fracassò con l’elsa della sua spada il volto di un altro nano, facendosi schizzare il sangue fino ai gomiti. Poi, con un colpo di ritorno, affondò la lama nel ventre di un altro nano. La carica di Garic gli aveva risparmiato la vita per un istante... ma parve davvero l’ultimo.
«Caramon! Sopra di te!» urlò Garic, combattendo ferocemente.
Rotolandosi sulla schiena, Caramon sollevò lo sguardo e vide Argat che si ergeva sopra di lui con l’ascia alzata. Caramon sollevò la propria spada, ma in quel momento quattro nani scuri gli balzarono addosso, inchiodandolo sul pavimento.
Quasi piangendo per la rabbia, incurante delle armi che balenavano intorno a lui, Garic cercò disperatamente di salvare Caramon. Ma c’erano troppi nani fra lui e il suo generale. Già l’ascia del Dewar stava calando...
L’ascia calò... ma cadde da mani inerti. Garic vide gli occhi di Argat che si spalancavano per il profondo stupore. L’ascia del nano cadde sulle pietre rese viscide dal sangue con un sonoro sferragliare mentre lo stesso nano scuro crollava addosso a Caramon. Fissando il corpo di Argat, Garic vide un piccolo coltello che sporgeva dalla nuca del nano.
Sollevò lo sguardo per vedere chi fosse l’uccisore del nano, e restò a bocca aperta per lo stupore.
Fra tutte le cose possibili, in piedi sul corpo del traditore morto, c’era un kender.
Garic sbatté le palpebre, pensando che forse la paura e il dolore avevano giocato uno strano tiro alla sua mente, inducendolo a vedere fantasmi. Ma non ebbe il tempo di capire quello straordinario avvenimento. Il giovane cavaliere era finalmente riuscito ad arrivare al fianco del suo generale.
Poteva sentire, alle sue spalle, le guardie che urlavano e respingevano i Dewar i quali, visto cadere il loro capo, avevano smarrito tutt’a un tratto il loro entusiasmo per un combattimento che avrebbe dovuto essere un facile massacro.
I quattro nani che stavano impegnando Caramon si affrettarono a battere in ritirata incespicando mentre l’omone si contorceva per tirarsi fuori da sotto il corpo di Argat. Abbassando la mano, Garic tirò su con uno strattone il nano morto per il rovescio dell’armatura, e buttò di lato il corpo, poi aiutò Caramon ad alzarsi in piedi. L’omone barcollò, gemendo, quando il ginocchio storpiato cedette sotto il suo peso.
«Dateci una mano!» gridò Garic, senza che ce ne fosse bisogno, alle guardie che erano già al suo fianco. Mezzo trascinando mezzo trasportando Caramon, aiutarono l’omone zoppicante a rientrare nella stanza delle mappe.
Voltandosi per seguirli, Garic lanciò una rapida occhiata lungo il corridoio. I nani scuri li stavano fissando, chiaramente incerti. Garic intravide altri nani alle loro spalle, la sua mente registrò il fatto che si trattava di nani delle montagne.
E là, dando l’impressione di essere inchiodato nel punto in cui si trovava, c’era lo strano kender che era sbucato dal nulla, all’apparenza per salvare la vita a Caramon. Il volto del kender era cinereo e le sue labbra erano verdognole. Non sapendo che altro fare, Garic avvolse il braccio buono intorno alla vita del kender e, tirandolo su da terra, lo trasportò dentro la stanza delle mappe. Non appena anche loro furono dentro, chiusero la porta con un tonfo e la sbarrarono.
Il volto di Caramon era coperto di sangue e di sudore, ma guardò Garic sogghignando, poi assunse un’espressione severa.
«Dannato pazzo d’un cavaliere,» urlò. «Ti avevo dato un ordine preciso e tu l’hai disobbedito! Dovrei...»
Ma la sua voce s’interruppe quando il kender, dimenandosi nella stretta di Garic, sollevò la testa.
«Tas!» bisbigliò Caramon, stupefatto.
«Ciao, Caramon,» disse Tas con un filo di voce. «Sono... sono tremendamente contento di rivederti. Mi sono smarrito, per venirtelo a dire, ed è molto importante, e in effetti dovrei dirtelo adesso, ma... ma penso... sto... per svenire.»
«E così ecco tutto,» concluse Tas con voce sommessa, gli occhi offuscati dalle lacrime, mentre fissava il volto pallido e senza espressione di Caramon. «Mi ha mentito su come far funzionare il congegno magico. Quando ci ho provato, mi si è sfasciato fra le mani. Ma sono riuscito a vedere la montagna di fuoco che cadeva,» aggiunse, «e questo è valso tutto il fastidio. Forse sarebbe valsa anche la pena di morire, pur di vederla. Non ne sono sicuro, dal momento che non sono ancora morto, anche se per un po’ ho pensato di esserlo. Però, non ne varrebbe certo la pena se dovessi passare nell’Abisso la vita dopo la morte, non è un posto simpatico. Non riesco a immaginare perché lui voglia andarci.»
Tas sospirò, poi riprese: «Ma, comunque, per questo potrei anche perdonarlo,» la voce del kender s’indurì e puntò in avanti la sua piccola mascella, in un gesto volitivo, «ma non per quello che ha fatto al povero Gnimsh e per quello che ha cercato di farti...»
Tasslehoff si morse la lingua. Non aveva avuto intenzione di dirlo.
Caramon lo fissò. «Vai avanti, Tas,» gli ingiunse. «Cos’è che ha cercato di farmi?»
«N... niente,» balbettò Tas, rivolgendo a Caramon un sorriso smorto. «Tu mi conosci, sai che faccio sempre un sacco di discorsi sconnessi.»
«Cos’è che ha cercato di farmi?» Caramon ebbe un amaro sorriso. «Non pensavo che rimanesse ancora qualcosa che potesse farmi.»
«Farti uccidere,» borbottò Tas.
«Ah, sì.» L’espressione di Caramon non cambiò. «Certo. Così era questo il significato del messaggio del nano.»
«Ti ha venduto ai... ai Dewar,» disse Tas, infelice. «Avrebbero portato la tua testa a re Duncan. Raistlin ha mandato via tutti i Cavalieri che si trovavano nella fortezza, dicendo loro che avevi ordinato che partissero per Thorbardin.» Tas indicò con una mano Garic e le due guardie. «Ha detto ai Dewar che avresti avuto con te soltanto le tue guardie del corpo.»
Caramon non disse niente. Non provava niente, né dolore, né rabbia, né sorpresa. Si sentiva vuoto.
Poi, una grande ondata di nostalgia per la sua casa, per Tika, per i suoi amici, per Tanis, Laurana, per Riverwind e Goldmoon, arrivò impetuosa, riempiendo quell’enorme vuoto.
Come se avesse letto i suoi pensieri, Tas appoggiò la piccola testa sulla spalla di Caramon.
«Possiamo tornare al nostro tempo, adesso?» chiese, sollevando su Caramon uno sguardo pieno di desiderio. «Sono terribilmente stanco. Senti, pensi che potrei rimanere con te e con Tika per un po’? Soltanto fino a quando mi sentirò meglio. Non vi darò nessun fastidio, lo prometto...»
Con gli occhi offuscati per le lacrime, Caramon cinse il kender con un braccio e lo tenne stretto a sé. «Fino a quando vorrai Tas.» gli disse. Sorridendo con tristezza, fissò le fiamme. «Completerò la casa. Non ci vorranno più di un paio di mesi. Poi andremo a trovare Tanis e Laurana. Avevo promesso che l’avremmo fatto, ma pareva proprio che non ci arrivassi mai. Tika ha sempre voluto vedere Palanthas, sai. E forse potremo andare tutti a visitare la tomba di Sturm. Non ho mai avuto la possibilità di dirgli addio.»
«E potremo andare a trovare Elistan e... oh!» Il volto di Tas divenne allarmato. «Crysania! Dama Crysania! Ho cercato di dirle di Raistlin, ma non mi crede! Non possiamo lasciarla!» Balzò in piedi, stringendosi le mani. «Non possiamo permettere che la porti in quell’orribile posto!»
Caramon scosse la testa. «Cercheremo di parlarle di nuovo, Tas. Non credo che ascolterà, ma per lo meno possiamo provare.» Si alzò in piedi ancora sofferente. «Adesso saranno già al Portale.
Raistlin non può aspettare ancora a lungo. La fortezza cadrà ben presto nelle mani dei nani delle montagne.
«Garic,» disse ancora Caramon, avvicinandosi zoppicando al punto in cui sedeva il cavaliere.
«Come va?»
Un altro cavaliere aveva appena finito di sistemare il braccio rotto di Garic. Gli avevano messo una rudimentale benda ad armacollo, legando il braccio sul lato in modo che rimanesse immobile. Il giovane sollevò lo sguardo su Caramon, serrando i denti per il dolore ma riuscendo tuttavia a sorridere.
«Starò bene, signore,» rispose in tono esausto. «Non preoccuparti.»
Sorridendo, Caramon trascinò una sedia vicino a lui e vi si sedette. «Te la senti di viaggiare?»
«Certo, signore.»
«Bene. In realtà immagino che tu non abbia molta scelta. Questo posto tra poco verrà invaso. Dovrai cercare di uscire adesso.» Caramon si sfregò il mento. «Reghar mi ha detto che c’erano delle gallerie che correvano sotto i Pianori, gallerie che conducevano da Pax Tharkas a Thorbardin. Il mio consiglio è di trovarle. Non dovrebbe essere troppo difficile. Quei tumuli là fuori conducono ad esse. Dovreste essere in grado di usare quelle gallerie quanto meno per allontanarvi da qui sani e salvi.»
Garic non rispose. Lanciando un’occhiata alle altre due guardie, replicò poi con calma: «Hai detto il “tuo consiglio”, signore. E tu? Non vieni con noi?»
Caramon si schiarì la gola e fece per rispondere, ma non riuscì a parlare. Abbassò lo sguardo sui propri piedi. Quello era il momento che aveva temuto e, adesso che era arrivato, il discorso che aveva preparato con tanta cura gli venne soffiato fuori dalla testa come avrebbe fatto il vento con una foglia.
«No, Garic,» alla fine parlò. «Non verrò.» Vedendo lampeggiare gli occhi del cavaliere e immaginando quello che stava pensando, l’omone sollevò la mano. «No, non sarò così sciocco da sacrificare la mia vita per qualche stupida e nobile causa, come ad esempio quella di salvare il mio ufficiale comandante!»
Garic arrossì imbarazzato mentre Caramon lo guardava sogghignando.
«No,» proseguì l’omone con voce ancora più cupa, «io non sono un cavaliere, grazie agli dei. Ho abbastanza buon senso per scappare quando so di essere stato battuto.» Si passò la mano fra i capelli. «Non posso spiegartelo così da farti capire. Neppure io sono sicuro di capirlo, per lo meno non del tutto. Ma... diciamo che il kender ed io abbiamo una via magica per tornare a casa.»
Garic fece passare una rapida occhiata dall’uno all’altro. «Non tuo fratello?» replicò, corrugando la fronte e oscurandosi in volto.
«No,» rispose Caramon, «non mio fratello. Qui, lui ed io ci separiamo. Lui ha la sua vita da vivere e, me ne sono finalmente accorto, io ho la mia.» Appoggiò la mano sulla spalla di Garic.
«Raggiungi Pax Tharkas. Tu e Michael fate quanto potete per aiutare quelli che riusciranno ad arrivare fin là sani e salvi a sopravvivere all’inverno.»
«Ma...»
«È un ordine, Sir Cavaliere,» l’interruppe Caramon, con asprezza.
«Sì, signore.» Garic distolse lo sguardo da Caramon, passandosi rapidamente la mano sugli occhi.
Caramon, un’espressione gentile sul volto, mise un braccio sulle spalle del giovane. «Che Paladine sia con te, Garic,» disse stringendolo a sé. Guardò gli altri, lì vicino. «Possa essere con tutti voi.»
Garic sollevò lo sguardo stupito su di lui, le lacrime gli luccicavano sulle guance. «Paladine?» chiese con voce amara. «Il dio che ci ha abbandonati?»
«Non perdere la tua fede, Garic,» lo ammonì Caramon, alzandosi in piedi con una smorfia di dolore. «Anche se non puoi credere nel dio riponi la fiducia nel tuo cuore. Ascolta la sua voce al di sopra del Codice della Misura. E un giorno capirai.»
«Sì, signore,» mormorò Garic. «E... possa qualsiasi divinità in cui credi essere con te, signore.»
«Credo che lo siano state,» disse Caramon, sorridendo mesto, «e lo sono state per tutta la mia vita. Soltanto, sono stato troppo testardo e non ho voluto ascoltare. Adesso sarà meglio che andiate.»
Ad uno ad uno salutò gli altri giovani cavalieri, fingendo d’ignorare i loro virili tentativi di nascondere le lacrime. Rimase profondamente commosso nel vedere il loro dolore al momento del commiato, un dolore che condivideva con loro ad un punto tale che avrebbe potuto accasciarsi e mettersi a piangere lui stesso come un bambino.
Con cautela, i Cavalieri aprirono la porta e sbirciarono fuori nel corridoio. Era vuoto, salvo per i cadaveri. I Dewar se n’erano andati e Caramon non aveva alcun dubbio che quella tregua sarebbe durata quel tanto che bastava per permetter loro di riorganizzarsi. Forse stavano aspettando l’arrivo di rinforzi. Poi avrebbero attaccato la stanza delle mappe e finito quei pochi umani.
Con la spada in pugno, Garic condusse i suoi Cavalieri fuori nel corridoio chiazzato di sangue, con l’intenzione di seguire le indicazioni piuttosto confuse di Tas sul modo in cui raggiungere i livelli più bassi della fortezza magica. (Tas si era anche offerto di disegnare per loro una mappa, ma Caramon aveva dichiarato che non ce n’era il tempo.)
Quando, infine, i Cavalieri se ne furono andati, e l’ultima eco dei passi si fu spenta in distanza, Tas e Caramon s’incamminarono a loro volta, ma nella direzione opposta. Prima di avviarsi, comunque, Tas recuperò il proprio coltello dal corpo di Argat.
«E tu, una volta, mi avevi detto che un pugnale come questo sarebbe servito soltanto ad uccidere dei conigli rabbiosi,» esclamò Tas, con orgoglio, ripulendo la lama dal sangue prima d’infilarselo alla cintura.
«Non parlare di conigli, adesso,» disse Caramon, con una voce strana e piena di tensione tale che Tas lo guardò, e rimase sorpreso nel constatare come il suo volto fosse diventato d’un pallore mortale.
Questo era il suo momento, il momento che era venuto per affrontare. Il momento per il quale aveva sopportato il dolore, le umiliazioni, l’angoscia della sua vita. Il momento per il quale aveva studiato, combattuto, si era sacrificato... aveva ucciso.
Lo assaporò, lasciando che il potere scorresse su di lui e attraverso lui, lasciando che lo circondasse, lo sollevasse. Nessun altro suono, nessun altro oggetto, nient’altro al mondo esisteva per lui in quel momento, salvo il Portale e la magia.
Ma già mentre esultava per quel momento, la sua mente era intenta al lavoro. I suoi occhi studiarono il Portale, studiarono con attenzione ogni singolo particolare, anche se realmente non era necessario. L’aveva visto una miriade di volte nei suoi sogni, sia quando dormiva sia da sveglio. Gli incantesimi per aprirlo erano semplici, niente di troppo elaborato o complesso. Ognuna delle cinque teste di drago che circondavano e sorvegliavano il Portale doveva esser propiziata con l’esatta frase.
A ognuna bisognava rivolgersi nel corretto ordine. Ma, una volta che ciò fosse stato fatto e il chierico dalle vesti bianche avesse esortato Paladine a intercedere e a tenere aperto il Portale, sarebbero entrati. E il Portale si sarebbe richiuso alle loro spalle.
E lui si sarebbe trovato ad affrontare la sua più grande sfida.
Il pensiero lo eccitava. Il cuore che gli batteva rapido gli faceva montare il sangue nelle vene, gli faceva pulsare le tempie, palpitare la gola. Guardando Crysania, annuì. Il momento era giunto.
Il chierico, la faccia arrossata per l’accresciuta eccitazione e con gli occhi che già le brillavano per la radiosità dell’estasi generata dalle sue preghiere, prese posto direttamente all’interno del Portale, di fronte a Raistlin. Questa mossa esigeva che riponesse la più totale, completa, ferma fiducia in lui.
Una sillaba pronunciata male, il respiro sbagliato nel momento sbagliato, il minimo lapsus linguale, o un gesto errato della mano, sarebbero stati fatali a lei, e a lui stesso.
Così gli antichi (escogitando dei sistemi per sorvegliare quella temuta porta che, a causa della loro follia, non potevano chiudere) avevano cercato di proteggerla. Che uno stregone dalle Vesti Nere, il quale aveva commesso le orrende azioni che essi sapevano che dovevano venir commesse per arrivare a quel punto, e un chierico di Paladine, puro nella fede e nell’anima, si fidassero implicitamente l’uno dell’altro, era per loro una supposizione ridicola.
Eppure era successo una volta: vincolati dal falso fascino dell’uno e dalla perduta fede dell’altro, Fistandantilus e Denubis avevano raggiunto quel punto. E a quanto pareva, adesso sarebbe successo di nuovo, con due vincolati da qualcosa che gli antichi, malgrado tutta la loro saggezza, non avevano previsto: un amore strano, sacrilego.
Entrando nel Portale, guardando Raistlin per l’ultima volta in questo mondo, Crysania gli sorrise. E lui le sorrise in risposta già mentre le parole del primo incantesimo si formavano nella sua mente.
Crysania sollevò le braccia. Adesso i suoi occhi guardavano al di là di Raistlin, fissando il brillante, bellissimo regno dove dimorava il suo dio. Crysania aveva sentito le ultime parole del Gran Sacerdote, conosceva l’errore che lui aveva commesso: un errore d’orgoglio, esigendo dal dio, nella sua arroganza, ciò che invece avrebbe dovuto chiedere in umiltà.
In quel momento Crysania era arrivata a capire per quale motivo gli dei avevano, nella loro giusta collera, inflitto al mondo la distruzione. E aveva altresì saputo nel suo cuore che Paladine avrebbe risposto alle sue preghiere, mentre non aveva risposto a quelle del Gran Sacerdote. Quello era il momento della grandezza per Raistlin, ma era anche il suo.
Come il Santo Cavaliere, Huma, lei aveva superato le prove. La prova del fuoco, dell’oscurità, della morte e del sangue. Era pronta. Era preparata.
«Paladine, Drago di Platino, la tua fedele servitrice viene davanti a te e t’implora di concederle la tua benedizione. I suoi occhi sono aperti alla tua luce. Infine ella comprende ciò che tu, nella tua saggezza, hai cercato d’insegnarle. Ascolta le sue preghiere, Radioso. Sii con lei. Apri questo Portale, in modo che lei possa entrare e avanzare reggendo la tua torcia. Cammina con lei mentre cerca di bandire per sempre l’oscurità.»
Raistlin trattenne il fiato. Tutto dipendeva da questo! Aveva avuto ragione, su di lei? Possedeva la forza, la saggezza, la fede? Era davvero la prescelta di Paladine?...
Crysania cominciò a risplendere di una luce pura e santa. I suoi capelli neri brillarono, le sue vesti bianche rifulsero come nubi illuminate dal sole, i suoi occhi sfolgorarono come la luna d’argento. La sua bellezza, in quel momento, era sublime.
«Grazie per aver esaudito le mie preghiere, Dio della Luce,» mormorò Crysania, chinando la testa.
Le lacrime scintillavano come stelle sul suo pallido volto. «Sarò degna di te!»
Guardandola, incantato dalla sua bellezza, Raistlin dimenticò la sua grande meta. Potè soltanto fissarla, ammaliato. Perfino i pensieri della sua magia, per un battito di cuore, gli sfuggirono.
Poi esultò. Niente... adesso, niente avrebbe potuto fermarlo!
«Oh, Caramon!» bisbigliò Tas sgomento. «Siamo arrivati troppo tardi,» disse Caramon.
I due, dopo aver trovato la strada attraverso le segrete fino nel più profondo della fortezza magica, si fermarono di colpo con gli occhi fissi su Crysania. Avvolta in un alone di luce d’argento, era immobile al centro del Portale, le braccia protese, il volto levato al cielo. La sua bellezza ultraterrena trafisse il cuore di Caramon.
«Troppo tardi? No!» gridò Tas in preda all’angoscia. «Non è possibile!» «Guarda, Tas,» disse Caramon con tristezza. «Guarda i suoi occhi. È cieca. Cieca! Cieca proprio come lo ero io nella Torre della Grande Stregoneria. Non può vedere attraverso la luce...»
«Dobbiamo cercare di parlarle, Caramon!» Tas lo strinse freneticamente. «Non possiamo lasciarla andare. È... è colpa mia! Sono stato io a dirle di Bupu! Forse non sarebbe venuta se non fosse stato per me! Le parlerò!»
Il kender balzò in avanti, agitando le braccia. Ma venne all’improvviso trascinato indietro da Caramon, il quale lo afferrò per il ciuffo dei capelli. Tas lanciò uno strillo di dolore e di protesta, e a quel suono Raistlin si voltò.
L’arcimago fissò il suo gemello e il kender per un istante, senza dare l’impressione di riconoscerli.
Poi il riconoscimento albeggiò nei suoi occhi. Non era piacevole.
«Zitto, Tas,» bisbigliò Caramon. «Non è colpa tua. Adesso stai fermo!» Caramon spinse il kender dietro a un massiccio pilastro di granito. «Rimani qua,» gli ordinò l’omone. «Tieni al sicuro il ciondolo, e anche te.»
Tas aprì la bocca per ribattere. Poi vide la faccia di Caramon e, sbirciando in fondo al corridoio, vide Raistlin. Qualcosa s’impadronì del kender. Riconobbe la stessa sensazione che aveva provato nell’Abisso: infelicità e spavento. «Sì, Caramon,» disse con un filo di voce. «Rimarrò qui. Lo... lo prometto...»
Appoggiandosi al pilastro, tutto tremante, Tas poteva vedere nella sua mente il povero Gnimsh accartocciato sul pavimento della cella.
Rivolgendo al kender un’ultima occhiata di avvertimento, Caramon si girò e, zoppicando, avanzò lungo il corridoio verso suo fratello.
Stringendo in mano il Bastone di Magius, Raistlin continuò a tenergli gli occhi addosso, circospetto. «Così, sei sopravvissuto,» commentò.
«Grazie agli dei, non a te,» replicò Caramon.
«Grazie a un dio, mio caro fratello,» ribadì Raistlin, con un lieve sorriso contorto. «La Regina delle Tenebre. È stata lei a rimandare qui il kender, ed è stato lui, presumo, ad alterare il tempo permettendo che la tua vita venisse risparmiata. Ti irrita, Caramon, sapere che devi la vita alla Regina Tenebrosa?»
«Ti irrita sapere che devi a lei la tua anima?»
Gli occhi di Raistlin lampeggiarono, la loro superficie simile a uno specchio si crepò giusto per un istante. Poi, con un sorriso sardonico, girò loro le spalle. Rivolto verso il Portale, sollevò la mano destra con il palmo verso l’esterno, lo sguardo sulla testa di drago all’estremità inferiore destra dell’ingresso a forma di ovale.
«Drago nero,» la sua voce era morbida, carezzevole, «dall’oscurità all’oscurità la mia voce echeggia nel vuoto.»
Mentre Raistlin pronunciava quelle parole, un’aura di tenebra cominciò a formarsi intorno a Crysania, un’aura di luce nera come il gioiello della notte, nera come la luce della luna scura...
Raistlin sentì la mano di Caramon chiudersi sopra il suo braccio. Rabbiosamente cercò di scuotersi di dosso la stretta di suo fratello, ma la morsa di Caramon era troppo forte.
«Portaci a casa, Raistlin...»
Raistlin si girò di scatto e lo fissò. Il suo stupore era tale che dimenticò la propria collera. «Cosa?» chiese con voce rotta.
«Portaci a casa,» ripetè Caramon con fermezza.
Raistlin dette in una risata sprezzante.
«Sei uno sciocco... uno sciocco debole e piagnucoloso, Caramon!»
Caramon si protese verso il fratello e lo afferrò per il polso proteso e l’arcimago trasecolò per la meraviglia.
Ma lo stupore lasciò, presto, spazio alla collera e Raistlin cercò di liberarsi dalla presa dell’omone che, però, resistette. A questo punto il mago latrò. Irritato, cercò di nuovo di scuotersi di dosso la stretta del suo gemello. Sarebbe stato lo stesso se avesse cercato di scuotersi di dosso la morte. «Di certo, ormai saprai quello che ho fatto! Il kender deve averti detto dello gnomo. Sai che ti ho tradito. Ti avrei lasciato morire in questo luogo sciagurato. Eppure ti aggrappi ancora a me!»
«Mi aggrappo a te perché le acque si stanno chiudendo sopra la tua testa, Raistlin,» disse Caramon.
Abbassò lo sguardo sulla propria mano robusta, arsa dal sole, che serrava il polso sottile del fratello, con le ossa fragili come quelle di un uccello, la pelle bianca, quasi trasparente. Caramon immaginò di poter vedere il sangue che pulsava in quelle vene azzurrognole.
«La mia mano sul tuo braccio. È tutto quello che abbiamo.» Caramon ristette ed emise un profondo sospiro.
Poi, con la voce resa profonda dal dolore, continuò: «Niente potrà cancellare ciò che hai fatto, Raist. Fra noi non potrà mai più esserci la stessa cosa. Mi sono stati aperti gli occhi. Adesso ti vedo per quello che sei.»
«Eppure mi preghi di venire con te!» lo beffeggiò Raistlin.
«Potrei imparare a vivere con la consapevolezza di ciò che sei e di ciò che hai fatto.» Guardando intensamente dentro gli occhi di suo fratello, Caramon continuò con voce sommessa: «Ma devi vivere con te stesso, Raistlin. E ci sono momenti nella notte quando ciò deve riuscirti quasi dannatamente insopportabile.»
Raistlin non rispose. Il suo volto era una maschera impenetrabile.
Caramon deglutì: la gola gli doleva. La sua stretta sul braccio del gemello si serrò ancora di più.
«Pensa a questo, comunque. Hai fatto del bene nella tua vita, Raistlin, forse meglio della maggior parte di noi. Oh, io ho aiutato della gente. È facile aiutare qualcuno, quando quell’aiuto è apprezzato. Ma tu hai aiutato coloro che, poi, ti sputavano in faccia. Hai aiutato coloro che non lo meritavano. Hai prestato aiuto perfino quando sapevi che non ci poteva essere speranza, gratitudine.» La mano di Caramon tremava. «C’è ancora del bene che potresti fare... per compensare il male. Lascia perdere. Torna a casa.»
Torna a casa... torna a casa.
Raistlin chiuse gli occhi, il dolore nel suo cuore era quasi insopportabile. La sua mano sinistra si agitò, si sollevò. Le sue dita delicate si librarono sopra la mano di suo fratello, sfiorandola per un istante con un tocco morbido come le zampe di un ragno. Ai limiti della realtà poteva udire la voce sommessa di Crysania che pregava Paladine. Quell’adorabile luce bianca tremolò sulle sue palpebre.
Torna a casa...
Quando Raistlin parlò di nuovo, la sua voce era morbida come il suo tocco.
«Non puoi neppure cominciare a immaginare i crimini tenebrosi che macchiano la mia anima, fratello. Se lo sapessi, mi volteresti le spalle per l’orrore e la ripugnanza.» Sospirò, con un leggero brivido. «E, hai ragione, talvolta, di notte, perfino io volto le spalle a me stesso.»
Raistlin aprì gli occhi e fissò quelli di suo fratello. «Ma sappi questo, Caramon: ho commesso questi crimini intenzionalmente, volontariamente. E sappi anche questo: mi aspettano crimini ancora più tenebrosi, e li commetterò intenzionalmente, volontariamente...» Il suo sguardo andò a Crysania, immobile, senza nulla vedere, sulla soglia del Portale, smarrita nelle sue preghiere, rilucendo di bellezza e di potere.
Caramon la guardò e il suo volto s’incupì.
Raistlin, osservandolo, sorrise. «Sì, fratello mio. Entrerà con me nell’Abisso. Mi precederà e combatterà le mie battaglie. Affronterà i chierici scuri, gli scuri fruitori di magia, gli spiriti dei morti condannati a vagare in quella terra maledetta, oltre agli incredibili tormenti che la mia Regina può congegnare. Tutto questo la ferirà nel corpo, divorerà la sua mente e farà a brandelli la sua anima.
Infine, quando non potrà più sopportarlo, si accascerà al suolo per giacere ai miei piedi... sanguinante, infelice, morente.
«Con le sue ultime forze, tenderà la mano verso di me a cercare conforto. Non mi chiederà di salvarla. È troppo forte per questo. Darà la sua vita per me con gioia, volontariamente. Mi chiederà soltanto di rimanere con lei mentre muore.»
Raistlin tirò un profondo sospiro, poi scrollò le spalle. «Ma io camminerò oltre, Caramon. L’oltrepasserò senza degnarla di uno sguardo, di una parola. Perché? Perché non avrò più bisogno di lei. Proseguirò verso la mia meta, e la mia forza crescerà già mentre il sangue scorrerà fuori dal suo cuore trafitto.»
Voltandosi a metà, sollevò ancora una volta la mano sinistra, con il palmo rivolto all’infuori.
Fissando la testa del drago sulla sommità del Portale, pronunciò sommessamente la seconda salmodia: «Drago Bianco. Da questo mondo al prossimo la mia voce grida di vita.»
Lo sguardo di Caramon era sul Portale, su Crysania. La sua mente era invasa dall’orrore e dalla ripugnanza. Però continuava a stringere suo fratello. Pensava ancora di rivolgergli un’ultima implorazione. Poi sentì il braccio sottile contorcersi all’improvviso sotto la sua mano. Vi fu un lampo, un rapido movimento, e la lama luccicante del pugnale d’argento premette contro la carne della sua gola, proprio dove il sangue della vita gli pulsava sul collo.
«Lasciami andare, fratello mio,» disse Raistlin.
E malgrado non l’avesse colpito col pugnale, gli tolse lo stesso il sangue; glielo tolse non dalla carne, ma dall’anima. Rapido e preciso, recise l’ultimo legame spirituale che esisteva ancora fra i gemelli. Caramon sussultò leggermente per il dolore fulmineo e lancinante che avvertì al cuore. Ma il dolore non durò. Il legame era troncato. Finalmente libero, Caramon lasciò il braccio di suo fratello senza dire una parola.
Si voltò e tornò indietro zoppicando, là dove Tas lo stava aspettando, sempre nascosto dietro il pilastro.
«Come ultimo suggerimento ti invito alla cautela, fratello mio,» disse Raistlin, con voce gelida, reinserendo il pugnale nella cinghia che portava al polso.
Caramon non rispose. Non smise di camminare, né si voltò.
«Stai attento a quel magico congegno del tempo,» continuò Raistlin con una risata di scherno. «Sua Maestà Tenebrosa lo ha riparato. È stata lei a mandare indietro il kender. Se lo userai, potresti trovarti in un luogo estremamente sgradevole!»
«Oh, ma non è stata lei ad aggiustarlo!» gridò Tas, schizzando fuori dal riparo del pilastro. «È stato Gnimsh a farlo! Il mio amico Gnimsh. Lo gnomo che hai assassinato. Io...»
«Usalo, allora,» replicò Raistlin, gelido. «Porta fuori da qui lui e te stesso, Caramon. Ma ricordati che ti ho avvertito.»
Caramon afferrò l’arrabbiatissimo kender. «Calma, Tas. Basta così. Adesso non ha più importanza.»
Caramon si voltò e fronteggiò il suo gemello. Anche se il volto del guerriero era tirato per il dolore e la stanchezza, la sua espressione era calma, e piena di pace, l’espressione di qualcuno che finalmente conosce se stesso. Accarezzando il ciuffo di capelli di Tas con una mano, per tranquillizzarlo disse: «Vieni, Tas. Andiamo a casa. Addio, fratello mio.»
Raistlin non lo sentì. Rivolto al Portale, era ancora una volta smarrito nella sua magia. Ma con la coda dell’occhio, proprio mentre iniziava la terza salmodia, Raistlin vide il suo gemello che prendeva il ciondolo dalla mano di Tas, dando inizio alla sua manipolazione che avrebbe tramutato la sua forma da ciondolo a congegno magico per i viaggi nel tempo.
Che vadano pure. Una sospirata liberazione! pensò Raistlin. Finalmente mi sono sbarazzato di quell’idiota rozzo e goffo!
Riportando lo sguardo sul Portale, Raistlin sorrise. Un cerchio di luce fredda, come l’aspro bagliore del sole sulla neve, circondava Crysania. L’ordine che l’arcimago aveva impartito al drago bianco era stato ascoltato.
Sollevando la mano, rivolto alla testa del terzo drago nella parte inferiore sinistra del Portale, Raistlin recitò il suo canto.
«Drago Rosso. Dalla tenebra alla tenebra io urlo sotto i miei piedi tutto si consolida.»
Linee rosse sprizzarono fuori dal corpo di Crysania attraverso la luce bianca, attraverso l’alone nero. Rosse e brucianti come il sangue, coprirono lo spazio da Raistlin fino al Portale, un ponte verso il più oltre.
Raistlin alzò la voce. Voltandosi a destra, chiamò il quarto drago: «Drago Azzurro. Il tempo che scorre/mantieni sul tuo corso.»
Fiotti azzurri di luce corsero sopra Crysania, poi cominciarono a vorticare. Come se stesse galleggiando sull’acqua, Crysania protese la testa all’indietro, tendendo le braccia, con le vesti che le svolazzavano intorno in mezzo al turbinio della luce, i suoi capelli neri andarono alla deriva sulle correnti del tempo.
Raistlin sentì fremere il Portale. Il campo magico cominciava ad attivarsi ed a reagire ai suoi ordini! La sua anima vibrò d’una gioia che Crysania condivise. Gli occhi di lei luccicarono di lacrime estatiche, le sue labbra si dischiusero in un dolce sospiro. Le sue mani si allargarono e, a un suo tocco, il Portale si aprì!
Raistlin sentì il respiro mozzarglisi in gola. L’ondata di potere e di estasi che gli percorse il corpo quasi lo soffocò. Adesso poteva vedere attraverso il Portale. Poteva vedere il piano, là oltre, il piano proibito ai mortali.
Da qualche parte, udita a malapena, gli giunse la voce di suo fratello che stava attivando il congegno magico: «Il tuo tempo è il tuo, anche se ci viaggi attraverso... Afferra saldamente l’inizio e la fine... il destino sia sopra la tua testa...»
A casa. Torna a casa...
Raistlin cominciò la quinta salmodia. «Drago Verde. Poiché dal destino persino gli dei vengono abbattuti/piangete tutti con me.»
La voce di Raistlin esitò, si spezzò. Qualcosa non andava! La magia che pulsava attraverso il suo corpo rallentò, divenne pigra. Raistlin tartagliò le ultime parole, ma ogni singolo respiro era uno sforzo. Per un istante, il suo cuore cessò di battere, poi cominciò di nuovo con un grande balzo che scosse la sua fragile ossatura.
Stravolto e confuso, Raistlin fissò spasmodicamente il Portale. L’incantesimo finale aveva funzionato? No! La luce intorno a Crysania cominciava a ondeggiare. Il campo si stava formando?
Disperato, Raistlin gridò di nuovo le parole dell’ultimo canto. Ma la sua voce cedette, gli si ritorse addosso come una frusta, pungendolo. Cosa stava succedendo? Poteva sentire la magia sgusciar via dal suo pugno. Stava perdendo il controllo... Torna a casa...
La voce della sua Regina che rideva, lo beffeggiava. La voce di suo fratello, implorante, addolorata... E poi, un’altra voce, la voce acuta di un kender, udita debolmente, smarrita tra le sue faccende più importanti. Adesso lampeggiò attraverso il suo cervello con una luce accecante. È stato Gnimsh ad aggiustarlo... Lo gnomo, il mio amico... Nell’identico modo in cui la lama del nano aveva penetrato le carni di Raistlin che cercava di sottrarvisi, adesso il ricordo delle parole lette nelle Cronache di Astinus gli trafisse l’anima:
«Nel medesimo istante uno gnomo, che era stato tenuto prigioniero dai nani di Thorbardin, attivava un congegno per i viaggi nel tempo... In qualche modo il congegno dello gnomo interagì con gli incantesimi potenti e delicati intessuti da Fistandantilus... Vi fu un’esplosione di tali proporzioni che i Pianori di Dergoth vennero completamente distrutti...» Raistlin strinse i pugni per la rabbia.
Uccidere lo gnomo era stato inutile! Quella disgraziata creatura aveva pasticciato con il congegno prima della sua morte. La storia si sarebbe ripetuta! Le orme nella sabbia...
Guardando dentro il Portale, Raistlin vide il boia uscirne fuori. Vide la propria mano sollevare il cappuccio nero, vide il lampo della lama dell’ascia che scendeva, le sue stesse mani che la calavano sul proprio collo! Il campo magico cominciò a spostarsi con violenza. Le teste di drago che circondavano il Portale dettero in uno stridente urlo di trionfo. Uno spasimo di dolore e di terrore contorse il volto di Crysania. Guardando dentro i suoi occhi, Raistlin vide l’identica espressione che aveva colto negli occhi di sua madre mentre fissavano senza vederlo un lontanissimo piano d’esistenza. Torna a casa...
All’interno dello stesso Portale le luci turbinanti cominciarono follemente a vorticare. Turbinando fuori controllo, si levarono sopra e intorno al corpo infiacchito del chierico, così come le fiamme magiche si erano levate intorno a lei nella città della peste. Crysania gridò per il dolore. La sua carne cominciò ad avvizzire alla luce splendida e micidiale della magia incontrollata.
Quasi accecato da quel fulgore, le lacrime scorsero fuori dagli occhi di Raistlin mentre fissava quell’incredibile vortice. E poi vide... che il Portale si stava chiudendo.
Scagliando il suo Bastone magico sul pavimento, Raistlin scatenò la sua collera con un urlo amaro e folle di dolore.
In risposta, fuori dal Portale giunse una risata beffarda e gorgheggiante.
Torna a casa...
Una sensazione di calma s’impadronì di Raistlin, la fredda calma della disperazione. Aveva fallito.
Ma lei non l’avrebbe mai visto strisciare. Se lui doveva morire, sarebbe morto all’interno della sua magia...
Sollevò la testa. Si alzò in piedi. Usando tutti i suoi grandi poteri, i poteri degli antichi, i suoi poteri, i poteri che non aveva neanche idea di possedere, i poteri che sorsero da qualche parte buia e nascosta perfino a lui. Raistlin sollevò le braccia e la sua voce urlò di nuovo. Ma questa volta non era un urlo incoerente di disperazione frustrante. Questa volta le sue parole erano chiare. Questa volta urlò parole di comando... parole di comando che mai prima di allora erano state pronunciate su quel mondo.
E questa volta, le sue parole vennero sentite e capite.
Il campo tenne. Lui l’aveva tenuto. Poteva sentire se stesso che si teneva aggrappato ad esso. Al suo ordine, il Portale fremette e smise di chiudersi.
Raistlin tirò un profondo, tremante sospiro. Poi, con la coda dell’occhio, da qualche parte alla sua destra, vide un lampo. Il magico congegno per viaggiare nel tempo era stato attivato!
Il campo sobbalzò e ondeggiò impetuoso. A mano a mano che il congegno magico cresceva e si diffondeva, le sue potenti vibrazioni indussero a cantare le rocce stesse della fortezza. Come un’onda devastante i loro canti montarono intorno a Raistlin. Giunsero in risposta le urla stridenti e rabbiose dei draghi. Le voci senza tempo delle rocce e le voci senza tempo dei draghi lottarono, fluttuarono insieme, e alla fine si unirono in una cacofonia discordante capace di annientare la mente.
Il suono era assordante, penetrante. La forza dei due potenti incantesimi frantumò il suolo. La terra sotto i piedi di Raistlin tremò. Le rocce che cantavano si spalancarono. Le teste metalliche dei draghi si creparono...
Lo stesso Portale cominciò a sbriciolarsi.
Raistlin cadde sulle ginocchia. Il campo magico si stava lacerando, spaccandosi con le pietre stesse del mondo. Si stava rompendo, scheggiando e, poiché Raistlin si teneva ancora aggrappato ad esso, cominciò a lacerare anche lui.
Il dolore gli trafisse la testa. Il suo corpo fu colto dalle convulsioni, si contorse per le insopportabili sofferenze.
Quella che si trovava ad affrontare era una scelta terribile. Se l’avesse lasciato andare, sarebbe precipitato, precipitato verso la sua condanna, sarebbe precipitato in un nulla al quale la tenebra più abbietta sarebbe stata preferibile. Eppure, si tenne aggrappato ad esso, sapeva che sarebbe stato lacerato, il suo corpo smembrato dalle forze della magia che aveva generato e che non riusciva più a controllare.
I muscoli gli si strapparono dalle ossa, i nervi si sbriciolarono, i tendini si spezzarono.
«Caramon!» gemette Raistlin, ma Caramon e Tas erano svaniti. Il congegno magico, riparato dall’unico gnomo le cui invenzioni funzionavano, aveva veramente funzionato. Se n’erano andati.
Non c’era nessuna possibilità di aiuto.
Raistlin aveva pochi istanti di vita, pochi momenti per agire. Ma quel dolore era straziante al punto da impedirgli di pensare.
Le articolazioni gli venivano strappate dalle loro sedi, gli occhi divelti dal viso, il cuore sradicato dal suo petto, il cervello risucchiato via dal cranio.
Poteva udire se stesso urlare e seppe che era il suo grido di morte. Tuttavia, continuò a combattere come aveva combattuto durante tutta la sua vita.
Io... prenderò... il controllo... Le parole sgorgarono dalla sua mente, macchiate di sangue...
Prenderò il controllo...
Allungò il braccio, la sua mano si chiuse sul Bastone di Magius. Io lo farò!
E poi venne scaraventato in avanti in mezzo a un’onda accecante e turbinante di luci multicolori che tutto schiantava...
Torna a casa... torna a casa...