Libro primo.

Il fiume continua a scorrere...

Le buie acque del tempo vorticarono intorno alle vesti nere dell’arcimago, trasportando lui, e quelli che erano con lui, avanti attraverso gli anni.

Il cielo grondava fuoco, la montagna cadde sulla città di Istar, affondandola giù, giù, nelle viscere del suolo. Le acque del mare, mosse a pietà da quell’orrenda distruzione, si precipitarono dentro per riempire il vuoto. L’immenso Tempio, dove il Gran Sacerdote stava ancora aspettando che gli dei esaudissero le sue richieste, scomparve dalla faccia del mondo. Perfino quegli elfi del mare che si avventurarono nel Mare di Sangue di Istar appena creato, contemplarono con meraviglia il luogo dove il Tempio si era innalzato. Adesso, là non c’era niente, soltanto un profondo pozzo nero.

L’acqua del mare al suo interno era talmente scura e gelida che perfino quegli elfi, nati e cresciuti nelle profondità marine, e che laggiù vivevano, non osavano nuotare vicino ad esso.

Ma erano in molti, in Ansalon, a invidiare gli abitanti di Istar. Almeno per loro la morte era giunta in fretta.

Per coloro che erano sopravvissuti all’immediata distruzione di Ansalon, la morte fu lenta ad arrivare, assumendo aspetti orrendi: carestie, malattie, assassinii...Guerra.

Capitolo primo.

Un urlo rauco di paura e di orrore frantumò il sonno di Crysania. Talmente improvviso e spavento-so fu l’urlo, e così profondo il suo sonno che, per un momento, non riuscì a immaginare cosa l’avesse svegliata. Terrorizzata e confusa si guardò intorno, cercando di capire dove si trovava, cercando di scoprire cosa l’a-vesse spaventata al punto da rendere rauco e affannoso il suo respiro.

Era distesa su un pavimento umido e duro. Il suo corpo era in preda a tremiti causati dal gelo che le penetrava le ossa; i denti le battevano per il freddo. Trattenendo il fiato, cercò di sentire o di vedere qualcosa. Ma l’o-scurità circostante era densa e impenetrabile, il silenzio profondo.

Cercò d’inspirare, ma parve che l’oscurità le sottraesse l’aria. Il panico l’afferrò. Disperatamente cercò di esplorare l’oscurità, di popolarla con forme e contorni. Ma la sua mente restava vuota.

L’oscurità restò priva di dimensioni. Era eterna...

Poi sentì nuovamente l’urlo, e lo riconobbe come la causa del suo risveglio. E, malgrado avesse quasi emesso un sospiro di sollievo nell’udire il suono di un’altra voce umana, la paura che udì in quell’urlo echeggiò nella sua anima.

Disperatamente, cercando con frenesia di penetrare l’oscurità, si costrinse a pensare, a ricordare.

C’erano state le pietre che cantavano, una voce che salmodiava: quella di Raistlin, e le sue braccia intorno a lei. Poi la sensazione di entrare nell’acqua e di venir trasportata velocemente in una vasta oscurità.

Raistlin! Allungando una mano tremante, Crysania non sentì niente accanto a sé, salvo la pietra umida e gelida. E poi il ricordo le balenò nella memoria con tutto il suo terrificante impatto.

Caramon che si lanciava su suo fratello con la spada balenante in mano... Le sue parole mentre lanciava un incantesimo chiericale per proteggere il mago... il rumore della spada che cadeva sferragliando sul pavimento di pietra.

Ma quel grido... era la voce di Caramon. E se...

«Raistlin!» gridò Crysania terrorizzata, alzandosi in piedi con uno sforzo. La sua voce scomparve, svanì, inghiottita dalla tenebra. Fu una sensazione così terribile che non osò più chiamare.

Stringendosi le braccia intorno al corpo, rabbrividendo per il freddo intenso, la mano di Crysania andò involontariamente al medaglione di Paladine che aveva al collo. La benedizione del dio scese ad avvolgerla e a darle sollievo.

«Luce,» bisbigliò, e tenendo stretto il medaglione tra le dita pregò il dio perché illuminasse la tenebra.

Una morbida luce sgorgò dal medaglione tra le sue dita, respingendo il velluto nero che la soffocava, permettendole infine di respirare. Sfilandosi la catenella da sopra la testa, Crysania tenne alto il medaglione. Proiettando intorno a sé il suo splendore, cercò di ricordare da quale direzione era giunto l’urlo.

Ebbe la rapida impressione di mobilia infranta e annerita, ragnatele, libri che giacevano sparpagliati sul pavimento, scaffali che cadevano dalle pareti. Ma tutto questo faceva paura quasi quanto la stessa tenebra; era la tenebra che l’aveva originato. Quegli oggetti avevano più diritto di lei di trovarsi in quel luogo.

L’urlo echeggiò di nuovo.

Con la mano che le tremava, Crysania si voltò rapidamente verso il suono. La luce del dio squarciò la tenebra mettendo in vivido e sconvolgente risalto due figure. Una, abbigliata di nero giaceva silenziosa e immobile sul freddo pavimento di pietra. Sopra quella figura immobile si ergeva un uomo gigantesco. Rivestito di un’armatura dorata macchiata di sangue, con un collare di ferro saldato intorno al collo, fissava la tenebra, le mani protese, la bocca spalancata, il volto bianco per il terrore.

Il medaglione scivolò via dalle mani inerti di Crysania, quando riconobbe il corpo che giaceva rannicchiato ai piedi del guerriero.

«Raistlin!» bisbigliò.

Soltanto quando sentì la catenella di platino scivolarle tra le dita, soltanto quando la preziosa luce intorno a lei tremolò, pensò a muovere di scatto le mani per afferrarla.

Attraversò di corsa la distanza che la separava dai due, il suo mondo vacillò alla luce che ondeggiava come impazzita dalla sua mano. Delle forme scure fuggirono da sotto i suoi piedi, ma Crysania non si accorse neppure della loro presenza. Colma d’una paura più soffocante della tenebra, s’inginocchiò accanto al mago.

Questi giaceva bocconi sul pavimento, il cappuccio calato sulla testa. Crysania lo sollevò con delicatezza, girandolo dall’altra parte. Intimorita, gli scostò il cappuccio dal volto e tenne sospeso sopra di lui il medaglione ardente. La paura le raggelava il cuore.

La pelle del mago era cinerea, le labbra bluastre, gli occhi chiusi e infossati sopra gli zigomi scavati.

«Cos’hai fatto?» gridò a Caramon, alzando lo sguardo dal punto in cui era inginocchiata accanto al corpo in apparenza senza vita del mago. «Cos’hai fatto?» volle sapere, la voce rotta dal dolore e dal furore.

«Crysania?» bisbigliò Caramon con voce roca.

La luce del medaglione proiettava strane ombre sopra la forma del torreggiante gladiatore. Con le braccia ancora protese, le mani che annaspavano debolmente nell’aria, chinò la testa verso il suono della sua voce. «Crysania?» ripetè, con un singhiozzo. Facendo un passo verso di lei, inciampò nelle gambe di suo fratello e cadde lungo disteso sul pavimento.

Si rialzò quasi subito, si rannicchiò carponi, con il respiro affannoso, gli occhi ancora spalancati e fissi. Tese una mano.

«Crysania?» si lanciò verso il suono della sua voce. «La tua luce! Portaci la tua luce! Presto!»

«Ho una luce, Caramon! Ho... benedetto sia Paladine!» mormorò Crysania, fissandolo alla luce diffusa del medaglione. «Sei cieco!»

Allungando una mano gli prese le dita che continuavano ad annaspare. Al suo tocco, Caramon singhiozzò di nuovo per il sollievo. Le dita di Caramon si chiusero sulla sua mano, schiacciandola, e Crysania si morse il labbro per il dolore. Ma resistette, e continuò a reggere il medaglione con la mano libera.

Si alzò in piedi e aiutò Caramon a fare altrettanto. Il guerriero si aggrappò alla sua mano in preda a un disperato terrore, con gli occhi ancora fissi davanti a sé, spiritati, ciechi, E Crysania sentì che il suo grosso corpo era scosso da un tremito. La donna scrutò nel buio cercando disperatamente una sedia, un divano... qualcosa.

E poi, d’un tratto, divenne conscia che la tenebra la stava guardando a sua volta.

Distogliendo subito lo sguardo, facendo attenzione a tenerlo fisso entro la luce del medaglione, guidò Caramon fino all’unico grande mobile che vide.

«Ecco, siediti qui,» lo sollecitò. «Appoggiati a questo.»

Fece sistemare Caramon sul pavimento, con la schiena appoggiata a una scrivania di legno decorata da sculture che, pensò, le parevano vagamente familiari. Ma era troppo turbata e preoccupata per pensarci su molto.

«Caramon?» disse con voce tremante. «Raistlin è... lo hai ucciso...» Non riuscì a proseguire.

«Raistlin?» Caramon girò gli occhi ciechi verso il suono della sua voce. L’espressione sul suo volto si fece allarmata. Cercò di alzarsi. «Raist! Dove...»

«No. Stai seduto!» gli ordinò Crysania colta da una rabbia e da una paura improvvise. Gli mise una mano sulla spalla e lo spinse giù.

Gli occhi di Caramon si chiusero, un sorriso sarcastico gli contorse il volto. Per un attimo, assomigliò moltissimo al suo gemello.

«No, non l’ho ucciso,» disse con amarezza. «Come avrei potuto? L’ultima cosa che ho sentito eri tu che invocavi Paladine, poi tutto è diventato buio. I miei muscoli non volevano muoversi, la spada mi è caduta di mano. E poi...»

Ma Crysania non lo stava ascoltando. Tornando di corsa a Raistlin, a pochi passi da loro, si chinò di nuovo accanto al mago. Tenendo il meda-glione accostato al suo viso, allungò le mani all’interno del cappuccio nero, per sentire il battito della vita nel suo collo. Chiudendo gli occhi per il sollievo, recitò una silenziosa preghiera a Paladine.

«È vivo!» bisbigliò. «Ma allora, cos’ha?»

«Cos’ha?» chiese Caramon. L’amarezza e il dolore gli alteravano ancora la voce. «Non posso vedere...»

Arrossendo, quasi colta da un senso di colpa, Crysania descrisse le condizioni del mago.

Caramon scrollò le spalle. «E esausto a causa dell’incantesimo che ha lancialo,» commentò con voce priva d’espressione.

«E ricordati che era già debole in partenza, per lo meno è quello che mi ha detto. Malato a causa della vicinanza degli dei, o qualcosa del genere.» Abbassò la voce. «L’ho visto così altre volte. Quando usò per la prima volta il Globo dei draghi, dopo riusciva a muoversi a stento. Allora lo tenni fra le braccia...»

S’interruppe, fissando la tenebra, adesso il suo volto era calmo... calmo e trace. «Non c’è niente che noi possiamo fare per lui,» disse. «Deve riposare.»

Dopo un breve silenzio, Caramon chiese con calma: «Dama Crysania, puoi guarirmi?»

Crysania sentì la pelle che le bruciava. «Temo... temo di no,» rispose sconsolata. «Deve... dev’essere stato il mio incantesimo ad accecarti.» Ancora una volta, nel suo ricordo, vide il grosso guerriero con in pugno la spada chiazzata di sangue, sul punto dì uccidere suo fratello... sul punto di uccidere lei, se si fosse intromessa.

«Mi spiace,» disse con voce sommessa, sentendosi stanca e raggelata al punto da star quasi male.

«Ma ero disperata e... spaventata. Non preoccuparti, comunque,» aggiunse, «l’incantesimo non è permanente. Col tempo si esaurirà.»

Caramon sospirò. «Capisco,» disse. «C’è una luce in questa stanza? Hai detto che ne avevi una.»

«Sì,» rispose Crysania. «Ho il medaglione...»

«Guardati intorno. Dimmi dove siamo. Descrivimelo.»

«Ma Raistlin...»

«Si riprenderà,» rispose seccamente Caramon con voce aspra e imperiosa. «Torna qui, accanto a me. Fai come ti dico! La nostra vita, la sua vita, possono dipendere da questo! Dimmi dove siamo!»

Aguzzando lo sguardo nella tenebra, Crysania sentì tornarle la paura. Scostandosi riluttante dal mago, tornò indietro e si sedette accanto a Caramon.

«Non... non c’è molto...» balbettò, risollevando sopra di sé il meda-glione ardente. «Non... non riesco a vedere molto al di là della luce del medaglione. Ma mi sembra un posto dove sono già stata, soltanto non riesco a identificarlo. In giro ci sono dei mobìli, ma sono tutti rotti e carbonizzati, come se ci fosse stato un incendio. Ci sono molti libri sparsi tutt’intorno. C’è una grande scrivania di legno, ci sei appoggiato con la schiena. Sembra l’unico mobile ancora intatto. E mi sembra familiare,» aggiunse, perplessa, a bassa voce. «È bellissima, scolpita con ogni gene-re di strane creature.»

Caramon tastò sotto di sé con la mano. «Un tappeto,» disse, «sopra un pavimento di pietra.»

«Sì, il pavimento è coperto da un tappeto, o lo era. Ma adesso è lacerato, e pare che qualcosa l’abbia mangiato...»

Si sentì soffocare nel vedere una forma scura sgattaiolare via dalla luce.

«Cosa?» chiese Caramon, in tono secco.

«Ecco cos’è che l’ha mangiato,» rispose Crysania con una piccola Risata nervosa. «I topi.» Cercò di continuare la descrizione della stanza: «C’è un caminetto, ma non è stato usato per anni. E tutto pieno di ragnatele. Ma in realtà tutto questo posto è coperto di ragnatele...»

Ma la voce le venne meno. Improvvise immagini di topi che cadevano dal soffitto e di sorci che le correvano tra i piedi la fecero rabbrividire, inducendola a raccogliere intorno a sé le vesti bianche. Il camino spoglio e annerito le ricordò quanto sentiva freddo.

Sentendo il suo corpo che tremava, Caramon ebbe un pallido sorriso e, prendendole una mano e stringendola con forza, disse con una voce che suonò terribile per la sua calma. «Dama Crysania, se tutto ciò che dovremo affrontare sono topi e ragni, potremo considerarci fortunati.»

Crysania ricordò il grido di puro terrore che l’aveva destata. Eppure lui non era stato in grado di vedere! Si affrettò a girare lo sguardo tutt’intorno. «Ma qui... Tu devi aver sentito o percepito qualcosa, perché...»

«Percepito,» l’interruppe Caramon con voce sommessa. «Sì, l’ho percepito. Ci sono cose in questo posto, Crysania. Cose orribili. Sento che ci stanno osservando! Posso percepire il loro odio. Dovunque sia questo posto, ci siamo intromessi nella loro vita. Non lo senti anche tu?»

Crysania fissò l’oscurità. Così, l’oscurità l’aveva davvero guardata a sua volta! Adesso che Caramon ne aveva parlato, poteva percepire qualcosa là fuori. Qualcosa o, come aveva detto Caramon, cose!

Più aguzzava lo sguardo e più si concentrava su di esse, più diventavano reali. Malgrado non potesse vederle, sapeva che aspettavano, appena oltre il cerchio di luce proiettato dal medaglione. Il loro odio era intenso, come Caramon aveva detto e, cosa ancora peggiore, sentiva il loro male scorrere raggelante intorno a lei. Era come... come...

Crysania trattenne il fiato.

«Sst,» sibilò, stringendo con forza la mano di Caramon. «Niente. E soltanto che so dove siamo,» disse in tono sommesso.

Lui non rispose ma girò gli occhi ciechi su di lei.

«La Torre della Grande Stregoneria di Palanthas!» bisbigliò.

«Dove vive Raistlin?» Caramon parve sollevato.

«Sì... no.» Crysania scosse le spalle in un gesto d’impotenza. «È la stessa stanza in cui mi sono trovata, il suo studio... ma non sembra la stessa. Sembra che nessuno vi abbia abitato per centinaia d’anni o forse anche più e, Caramon, ecco... Ha detto che mi avrebbe portato in un luogo e in un tempo dove non c’erano chierici! Dev’essere dopo il cataclisma e prima della guerra. Prima di...»

«Prima che lui tornasse per rivendicare a sé il possesso della Torre,» disse Caramon con voce truce.

«E questo significa che la maledizione grava ancora sulla Torre, Dama Crysania. Noi, dunque, ci troviamo nell’unico posto su Krynn in cui il male regna supremo. L’unico posto più temuto di ogni altro sulla faccia del mondo. L’unico posto in cui nessun mortale osa mettere piede, protetto dal Bosco di Shoikan e soltanto gli dei sanno da cos’altro ancora! Ci ha portati qui! Ci siamo materializzati nel suo cuore!»

D’un tratto Crysania vide dei pallidi volti comparire fuori dal cerchio di luce, come se fossero stati convocati dalla voce di Caramon. Teste senza corpo, che la fissavano con occhi che si erano chiusi molto tempo prima in una morte tenebrosa e orribile, fluttuavano nell’aria gelida, con la bocca che si spalancava pregustando il sangue vivo e caldo.

«Caramon, posso vederli!» esclamò Crysania con voce soffocata, stringendosi addosso all’omone.

«Posso vedere le loro facce!»

«Ho sentito le loro mani su di me,» disse Caramon. Rabbrividendo convulsamente, sentendo che anche lei rabbrividiva, la cinse con il braccio, attirandola a sé. «Mi hanno attaccato. Il loro tocco mi ha raggelato la pelle. È stato allora che mi hai sentito urlare.»

«Ma perché non li ho visti prima? Adesso, cos’è che impedisce loro di attaccarci?»

«Tu, Dama Crysania,» spiegò Caramon con voce sommessa. «Tu sei un chierico di Paladine. Queste sono creature generate dal male, create dalla maledizione. Non hanno il potere di farti del male.»

Crysania fissò il medaglione che stringeva in mano. La luce sgorgava ancora da esso ma, proprio mentre lo guardava, la luminosità parve diventale più fioca. Con una sensazione di colpa ricordò il chierico elfo, Loralon. Ricordò il suo rifiuto di accompagnarlo. Le sue parole le riecheggiarono nella mente: Vedrai solamente quando sarai accecata dalla tenebra...

«Sono un chierico, è vero,» disse con voce sommessa, cercando di tener fuori la disperazione dalle sue parole, «ma la mia fede è... imperfetta. Questi esseri percepiscono i miei dubbi, la mia debolezza. Forse un chierico forte come Elistan avrebbe l’energia di combatterli. Io non credo di averla.» Il bagliore divenne ancora più fioco. «La mia luce sta venendo meno, Caramon,» aggiunse un attimo dopo. Sollevando lo sguardo poté vedere quei pallidi volti farsi avidamente più vicini, e si strinse ancora di più a lui. «Cosa possiamo fare?»

«Cosa possiamo fare? Non ho armi! Non posso vedere!» gridò Caramon in preda all’angoscia, serrando il pugno.

«Zitto!» gli ordinò Crysania, afferrandogli il braccio, gli occhi puntati sulle figure fluttuanti.

«Sembrano rafforzarsi, quando parli così! Forse si nutrono di paura. Le creature del Bosco di Shoikan lo fanno, così mi ha detto Dalamar.»

Caramon tirò un profondo respiro. Il suo corpo luccicò di sudore e cominciò ad essere scosso da un violento tremito.

«Dobbiamo cercare di svegliare Raistlin,» disse Crysania.

«Non serve!» bisbigliò Caramon attraverso i denti che gli battevano. «So che...»

«Dobbiamo provare!» insistè Crysania con fermezza, pur se tremava al pensiero di percorrere anche pochi passi sotto quei terribili sguardi.

«Fa’ attenzione. Muoviti lentamente,» le consigliò Caramon, lasciandola andare.

Tenendo in alto il medaglione e sfidando gli sguardi della tenebra puntati su di lei, Crysania strisciò fino a Raistlin. Appoggiò una mano sulla spalla sottile del mago abbigliato di nero. «Raistlin!» chiamò, con la voce più alta che osò, scuotendolo. «Raistlin!»

Non vi fu risposta. Sarebbe stato lo stesso se avesse cercato di destare un cadavere. A questo pensiero, lanciò un’occhiata alle figure in attesa. Avrebbero ucciso lui? si chiese. Dopotutto, non esisteva in quel tempo. Il«Maestro del Passato e del Presente» non era ancora tornato per reclamare la sua proprietà, quella Torre.

Oppure sì?

Crysania chiamò di nuovo il mago e, mentre lo faceva, tenne gli occhi fissi sui non morti, i quali si stavano avvicinando sempre più a mano a mano che la luce diventava più debole.

«Fistandantilus!» gridò a Raistlin.

«Sì!» esclamò Caramon, che aveva capito. «Riconoscono quel nome. Cosa sta succedendo? Sento un cambiamento...»

«Si sono fermati!» disse Crysania, quasi senza fiato. «Adesso lo stanno fissando.»

«Torna indietro!» le ordinò Caramon, dalla sua posizione accovacciata. «Stai lontana da lui. Allontana da lui quella luce! Lascia che lo vedano come esiste nella loro tenebra!»

«No!» replicò Crysania con rabbia. «Sei pazzo! Una volta che la luce non ci sarà più, lo divoreranno...»

«È la nostra unica possibilità!»

Lanciandosi alla cieca addosso a Crysania, Caramon la colse impreparata. L’afferrò tra le forti braccia e la strappò via da Raistlin, buttandola sul pavimento. Poi le cadde sopra di traverso, schiacciandola e facendole mancare il respiro.

«Caramon!» Crysania rantolò per riuscire a respirare. «Lo uccideranno! Non...» Freneticamente Crysania lottò contro il grande guerriero, ma lui la tenne inchiodata sotto di sé.

Stringeva ancora il medaglione fra le dita. La sua luce diventava sempre più debole. Torcendosi con uno sforzo, vide che adesso Raistlin giaceva nella tenebra, fuori dal cerchio di luce.

«Raistlin!» urlò. «No! Lasciami andare, Caramon! Stanno andando da lui...»

Ma Caramon la trattenne ancora più saldamente, premendola giù contro il freddo pavimento. La sua faccia era angosciata, ma allo stesso tempo truce e risoluta, i suoi occhi ciechi la fissavano. La sua pelle era premuta contro quella di lei, i muscoli tesi e annodati.

Avrebbe lanciato un altro incantesimo contro di lui! Le parole erano sulle sue labbra quando un acuto urlo di dolore trafisse la tenebra.

«Paladine, aiutami!» pregò Crysania.

Non accadde nulla.

Agitandosi debolmente, cercò un’altra volta di sfuggire a Caramon, ma non c’era speranza, e lo sapeva. E adesso, a quanto pareva, perfino il suo dio l’aveva abbandonata. Urlando per la frustrazione, maledicendo Caramon, potè soltanto guardare.

Adesso quelle pallide figure circondavano Raistlin. Crysania poteva intravederlo soltanto alla luce dell’orrenda aura irradiata dai loro corpi putrescenti. La gola le faceva male e un sordo gemito le sfuggì dalle labbra quando una delle creature spettrali sollevò le gelide mani e le appoggio sul corpo del mago.

Raistlin urlò. Sotto le vesti nere il suo corpo sussultò in preda agli spasimi.

Anche Caramon udì l’urlo di suo fratello. Crysania potè vederlo riflesso sul suo volto pallido come la morte. «Lasciami alzare!» lo implorò. Ma anche se un sudore freddo gl’imperlava la fronte, scosse la testa risoluto, tenendole strette le mani in una morsa.

Raistlin urlò di nuovo. Caramon rabbrividì e Crysania sentì i suoi Muscoli infiacchirsi. Lasciando cadere il medaglione, riuscì a liberare le braccia e fece per colpirlo con i pugni chiusi. Ma mentre stava per farlo, la luce del medaglione scomparve, facendoli sprofondare ambedue nella più completa oscurità. Il corpo di Caramon venne d’un tratto strappato via dal suo. Il suo urlo angosciato si fuse con le urla di suo fratello.

Stordita, con il cuore che le martellava per il terrore, Crysania lottò per alzarsi a sedere, frugando freneticamente il pavimento intorno a sé alla ricerca del medaglione.

Un volto si avvicinò al suo. Crysania sollevò di scatto la testa interrompendo la sua ricerca, pensando che fosse Caramon...

Non era Caramon. Una testa scorporata le fluttuava accanto.

«No!» bisbigliò, incapace di muoversi, sentendo che la vita le veniva prosciugata dalle mani, dal corpo, dal suo stesso cuore. Mani scheletriche l’afferrarono per le braccia, attirandola vicina; labbra esangui si spalancarono, avide di calore.

«Paladi...» Crysania cercò d’innalzare una preghiera, ma sentì che l’anima le veniva succhiata fuori del corpo dal tocco mortale della creatura.

Poi sentì vagamente e molto lontano una debole voce intonare parole magiche. La luce esplose intorno a lei. Quella testa così vicina alla sua scomparve con un urlo acuto, quelle mani scheletriche lasciarono la stretta. Si sentì un acre odore di zolfo.

«Shirak.» La luminosità spettrale era scomparsa. Un tranquillo chiarore illuminava la stanza.

Crysania si sollevò a sedere. «Raistlin!» bisbigliò con gratitudine. Barcollando, trascinandosi carponi, attraversò il pavimento annerito e distrutto per raggiungere il mago, il quale giaceva disteso sulla schiena respirando affannosamente. Teneva una mano appoggiata al Bastone di Magius. La luce s’irradiava dalla sfera di cristallo stretta nell’artiglio del drago dorato in cima al bastone.

«Raistlin! Stai bene?»

Inginocchiandosi accanto a lui, fissò il suo volto pallido e sottile mentre apriva gli occhi. Il mago annuì stancamente. Poi, alzando un braccio, l’attirò giù, su di sé. Abbracciandola, le accarezzò i morbidi capelli neri. Crysania potè sentire il battito del suo cuore. Lo strano calore del suo corpo mise in fuga il gelo.

«Non aver paura,» le bisbigliò lui, tranquillizzandola, sentendola tremare. «Non ci faranno del male. Mi hanno visto e mi hanno riconosciuto. Ti hanno fatto qualcosa?»

Crysania non riuscì a rispondere, potè soltanto scuotere la testa. Raistlin tornò a sospirare. Crysania, gli occhi chiusi, giaceva nel suo abbraccio, smarrita ma confortata.

Poi, quando la mano riandò ai suoi capelli, sentì il suo corpo tendersi. Quasi con rabbia lui l’afferrò per le spalle e la spinse lontana da sé.

«Dimmi cos’è successo,» le ordinò, sia pure con un filo di voce.

«Mi sono svegliata qui...» balbettò Crysania. L’orrore della sua esperienza e il ricordo del caldo tocco di Raistlin la confondevano e la spaventavano. Ma, vedendo i suoi occhi che diventavano freddi e impazienti, si indusse a continuare, mantenendo calma la voce. «Ho sentito Caramon che gridava...»

Gli occhi di Raistlin si spalancarono. «Mio fratello?» esclamò, sorpreso. «Così, l’incantesimo ha trasportato anche lui. Sono sorpreso di essere ancora vivo. Dov’è?» Sollevando leggermente la testa vide suo fratello che giaceva privo di sensi sul pavimento. «Cos’ha?»

«Ho... ho lanciato un incantesimo. È cieco,» disse Crysania, arrossendo. «Non avevo intenzione di farlo, è stato quando ha tentato di ucci... ucciderti, a Istar, subito prima del Cataclisma... »

«Lo hai accecato! Paladine... lo hai accecato!» Raistlin scoppiò a ridere. Il suono della risata riverberò sulle gelide pietre, e Crysania si ritrasse provando un brivido di orrore. Ma la risata s’impigliò nella gola di Raistlin. Il mago cominciò a soffocare e rantolò per respirare.

Crysania lo guardò impotente, fino a quando gli spasimi non furono passati e Raistlin giacque di nuovo tranquillo. «Prosegui,» bisbigliò, irritato.

«L’ho sentito gridare, ma non riuscivo a vedere al buio. Ma il medaglione mi ha fatto luce, ho trovato Caramon e... ho capito che era cieco. E ho trovato anche te. Eri privo di sensi. Non potevo svegliarti. Caramon mi ha detto di descrivere dove ci trovavamo, e poi ho visto...» rabbrividì, «ho visto quegli... quegli orrendi...»

«Continua,» disse Raistlin.

Crysania tirò un profondo sospiro. «Poi la luce del medaglione ha cominciato a diminuire...»

Raistlin annuì.

«... e quegli esseri sono venuti verso di noi. Ti ho chiamato usando il nome di Fistandantilus. Ciò li ha fatti fermare. Poi...» la voce di Crysania perse la sua paura e fu venata da una punta di collera,

«tuo fratello mi ha afferrato e mi ha scagliato sul pavimento, urlando qualcosa come “Lascia che lo vedano come esiste nella sua oscurità!” Quando la luce di Paladine non ti ha più toccato, quelle creature...» Rabbrividì e si coprì il volto con le mani, udendo ancora il terribile urlo di Raistlin echeggiarle nella mente.

«Mio fratello ha detto questo?» chiese Raistlin con voce sommessa, un istante dopo.

Crysania mosse le mani per guardarlo, perplessa dal tono della sua voce, ammirato e stupito insieme. «Sì,» disse con freddezza un istante dopo. «Perché?»

«Ci ha salvato la vita,» osservò Raistlin, con un tono di voce ancora più caustico. «Quel grosso imbecille ha avuto davvero una buona idea. Forse dovresti lasciarlo cieco, lo aiuta a pensare.»

Raistlin cercò di ridere, ma la risata divenne una tosse che quasi lo fece soffocare. Crysania si mosse verso di lui per aiutarlo, ma lui la fermò con espressione feroce, mentre il suo corpo si contorceva per il dolore. Rotolandosi su un lato, vomitò.

Ricadde sulla schiena indebolito, le labbra macchiate di sangue, le mani che si contraevano. Il suo respiro era poco profondo e troppo veloce. Di tanto in tanto un nuovo accesso di tosse gli squassava il corpo.

Crysania lo fissò impotente.

«Una volta mi dicesti che gli dei non possono guarire questa malattia. Ma tu stai morendo, Raistlin! Non c’è qualcosa che io possa fare?» chiese con voce sommessa, non osando toccarlo.

Raistlin annuì, ma per un istante non riuscì né a parlare né a muoversi. Alla fine, con ovvio sforzo, sollevò una mano tremante dal pavimento gelato e fece segno a Crysania di avvicinarsi. Quando lei si chinò sopra di lui, sollevando la mano Raistlin le toccò la guancia, attirando a sé il suo volto. Il suo respiro era ardente.

«Acqua!» rantolò Raistlin con voce troppo fioca. Crysania riuscì a capirlo solamente leggendo il movimento delle sue labbra incrostate di sangue. «Una pozione... mi aiuterebbe...» Con un debole movimento la sua mano andò a una tasca delle sue vesti. «Ah... è il calore d’un fuoco. Non... ho... la forza...»

Crysania annuì, per mostrare che aveva capito.

«Caramon?» Le sue labbra articolarono la parola.

«Quegli... quegli esseri l’hanno attaccato,» disse Crysania, lanciando un’occhiata al corpo immobile del grosso guerriero. «Non sono sicura che sia ancora vivo...»

«Abbiamo bisogno di lui! Devi... guarirlo!» Raistlin non riuscì a continuare ma giacque ansante, respirando con difficoltà, gli occhi chiusi.

Crysania inghiottì, rabbrividendo. «Ne... ne sei sicuro?» chiese, esitante. «Ha cercato di assassinarti...»

Raistlin sorrise, poi scosse la testa. Il cappuccio nero frusciò lievemente a quel movimento.

Aprendo gli occhi, sollevò lo sguardo su Crysania, che potè vedere nelle profondità dei loro abissi castani. La fiamma dentro il mago bruciava bassa, donando ai suoi occhi un diffuso calore assai diverso dai fuochi furiosi che vi ardevano in precedenza.

«Crysania...» mormorò, «sto per... perdere conoscenza... Rimarrai sola... in questo luogo tenebroso... Mio fratello... potrà aiutarti... Il calore...» I suoi occhi si chiusero, ma la sua stretta sulla mano di Crysania si accentuò, come per sforzarsi di usare la forza vitale della donna per tenersi aggrappato alla realtà. Con uno sforzo violento, aprì di nuovo gli occhi per guardare direttamente dentro quelli di lei.

«Non lasciare questa stanza!» le intimò, pur muovendo le labbra a fatica. Gli occhi gli si arrovesciarono nelle orbite.

Sarai sola! Crysania si guardò intorno, più che mai intimorita, sentendo che il terrore saliva in lei a soffocarla. Acqua! Calore! Come avrebbe potuto riuscire a farcela? Non poteva! Non in quella camera del male!

«Raistlin,» implorò, stringendo la fragile mano del mago tra le sue, appoggiandovi la guancia.

«Raistlin, per favore, non lasciarmi!» bisbigliò, ritraendosi al tocco della sua pelle fredda. «Non posso fare quello che mi chiedi! Non ne ho il potere! Non posso creare l’acqua dalla polvere...»

Gli occhi di Raistlin si aprirono. Erano scuri quanto la stanza in cui si trovava. Muovendo la mano, la mano che lei reggeva, tracciò una linea dai suoi occhi giù lungo la guancia. Poi la sua mano s’indebolì e la testa gli ricadde su un lato.

Crysania sollevò la propria mano sulla sua pelle, in preda alla confusione, chiedendosi cosa mai avesse inteso dire con quello strano gesto... Non era stata una carezza. Aveva forse cercato di dirle qualcosa. Ma cosa mai? La pelle le bruciava per il suo tocco... riportandole alla mente dei ricordi...

E poi seppe. Non posso creare l’acqua dalla polvere... «Le mie lacrime!» mormorò.

Capitolo secondo.

Seduta in solitudine nella camera gelida, inginocchiata accanto al corpo immobile di Raistlin, vedendo Caramon disteso lì accanto, pallido e senza vita, d’un tratto Crysania si trovò a invidiarli entrambi con rabbia furibonda. Come sarebbe stato facile, pensò, scivolare nell’incoscienza e lasciare che la tenebra s’impadronisse di lei! Il male di quel luogo, che in apparenza era fuggito nell’udire la voce di Raistlin, stava tornando. Poteva sentirlo sul suo collo come una corrente fredda.

Degli occhi la fissavano dall’ombra, occhi che, a quanto sembrava, venivano tenuti a distanza soltanto dalla luce del Bastone di Magius, il quale brillava ancora. Anche privo di sensi, Raistlin continuava a tenervi sopra la mano.

Crysania appoggiò con delicatezza l’altra mano dell’arcimago, quella che lei reggeva, sul suo petto.

Poi tornò a sedersi, con le labbra serrate, inghiottendo le lacrime.

«Si e affidano a me,» si disse, parlando per disperdere l’arcano sussurrio che sentiva intorno a sé.

«Nella sua debolezza confida nella mia forza. Per tutta la mia vita,» continuò asciugandosi le lacrime dagli occhi, «mi sono vantata della mia forza. Eppure, fino ad ora, non ho mai saputo cos’è la vera forza.» Il suo sguardo andò a Raistlin. «Adesso la vedo in lui! Non lo abbandonerò!»

«Calore!» disse ancora, rabbrividendo al punto che riuscì a stento a reggersi in piedi. «Ha bisogno di calore. Tutti noi ne abbiamo bisogno.» Sospirò impotente. «Ma come posso ottenerlo? Se mi trovassi nel Castello della Muraglia di Ghiaccio, le mie preghiere da sole sarebbero sufficienti a tenerci caldi. Paladine ci aiuterebbe, ma questo non è il gelo del ghiaccio o della neve.

«È molto più intenso, congela lo spirito più che il sangue. Qui, in questo luogo del male, la mia fede può sorreggermi, ma non ci riscalderà mai!»

Pensando a questo e lanciando un’occhiata intorno alla stanza che intravedeva vagamente alla luce del Bastone, Crysania vide le forme ombrose delle tende a brandelli che penzolavano dalle finestre.

Fatte di pesante tessuto, erano abbastanza grandi da coprire tutti loro. Il suo morale si risollevò, ma riaffondò quasi subito quando si rese conto che erano troppo lontane, sul lato opposto della stanza.

Appena visibili all’interno di quell’oscurità che si contorceva, le finestre erano fuori del cerchio di luce vivida proiettata dal Bastone.

«Dovrò arrivare fin là,» si disse, «in mezzo alle ombre!» Il cuore le venne quasi meno, le forze le si infiacchirono. «Chiederò l’aiuto di Paladine.» Ma mentre parlava, il suo sguardo andò al medaglione che giaceva freddo e scuro sul pavimento.

Chinandosi per raccoglierlo, esitò, temendo per un attimo di toccarlo, ricordando, in preda al dolore, come la sua luce si fosse spenta all’arrivo del male.

Ancora una volta il suo pensiero andò a Loralon, il grande chierico elfo che era venuto per condurla via prima del Cataclisma. Lei aveva rifiutato, scegliendo invece di rischiare la vita, per sentire le parole del Gran Sacerdote, le parole che avevano causato la collera degli dei. Paladine era in collera? L’aveva abbandonata nella sua collera, così come aveva abbandonato tutto Krynn dopo la terribile distruzione di Istar? Oppure la sua guida divina era semplicemente incapace di penetrare i gelidi strati del male che avvolgevano la Torre maledetta della Grande Stregoneria?

Confusa e spaventata, Crysania sollevò il medaglione. Non riluceva. Non faceva niente. Il metallo era freddo a contatto con la sua mano. Immobile al centro della stanza, reggendo il medaglione, con i denti che le battevano, s’impose di avvicinarsi a una finestra.

«Se non lo farò,» mormorò attraverso le labbra intirizzite, «morirò di freddo. Moriremo tutti,» aggiunse. Fissò di nuovo i gemelli. Raistlin indossava le sue vesti di velluto nero, ma lei ricordava la sensazione di gelo che aveva provato stringendo la sua mano. Caramon era ancora vestito come lo era stato per i Giochi gladiatorii, con poco più dell’armatura dorata e il perizoma.

Sollevando il mento, Crysania lanciò un’occhiata di sfida agli esseri invisibili che bisbigliavano in agguato intorno a lei, poi uscì con passo incerto fuori dal cerchio di luce magica diffuso dal Bastone di Raistlin.

Quasi nello stesso istante l’oscurità divenne viva! I bisbigli divennero più forti e, con orrore, Crysania si accorse di poter capire le parole!

Con quanta forza il tuo cuore chiama, amore; quanto è vicina l’oscurità al tuo petto; come sono tumultuosi i fiumi, amore, risucchiati attraverso il tuo polso morente.

E, amore, quale calore nasconde la tua fragile pelle, puro come il sale, dolce come la morte; e nel buio la luna rossa cavalca il fuoco fatuo del tuo respiro.

Avvertì un tocco di dita gelide sulla sua pelle. Crysania sussultò per il terrore e si ritrasse, ma non vide nulla!

Sentendosi quasi male per la paura e l’orrore di quel macabro canto d’amore dei morti, non riuscì a muoversi per parecchi istanti.

«No!» esclamò infine, incollerita. «Andrò avanti! Queste creature del male non mi fermeranno! Sono un chierico di Paladine! Anche se il mio dio mi ha abbandonato, non abbandonerò la mia fede!»

Sollevando la testa, Crysania tese la mano davanti a sé come se volesse schiudere l’oscurità al pari di una tenda. Poi proseguì verso la finestra. Il brusio risuonò intorno a lei, udì delle risate arcane, ma niente venne a farle del male, niente la toccò. Infine, dopo un viaggio che parve lungo molte miglia, raggiunse la finestra.

Aggrappandosi alle tende, tutta tremante, con le gambe fiacche, le scostò e guardò fuori sperando di poter vedere le luci della città di Palanthas da cui trarre conforto. Ci sono altri esseri umani là fuori, si disse, premendo la faccia contro il vetro. Vedrò le luci...

Ma la profezia non si era ancora avverata. Raistlin, come maestro del passato e del presente, non era ancora tornato con il potere di rivendicare la Torre, come sarebbe accaduto in futuro. E così la Torre rimaneva avvolta in un’impenetrabile oscurità, come se una perpetua nebbia nera vi fosse sospesa intorno. Se le luci della bellissima città di Palanthas ardevano, lei non poteva vederle.

Con un sospiro desolato, Crysania strinse il panno e gli dette uno strattone. Il tessuto marcio cedette subito, quasi seppellendola in un sudario di broccato, mentre la tenda si afflosciava sul pavimento.

Ringraziando il cielo, Crysania si avvolse il pesante tessuto intorno alle spalle a mo’ di mantello, infagottandosi con gratitudine nel suo calore.

Con movimenti impacciati tirò giù un’altra tenda e la trascinò attraverso la stanza buia, sentendola raschiare sul pavimento mentre raccoglieva i frammenti dei mobili rotti lungo il cammino.

La luce magica del Bastone brillava guidandola attraverso la tenebra. Quando l’ebbe finalmente raggiunta crollò sul pavimento, tremando per la fatica e la reazione al terrore che aveva provato.

Non si era resa conto fino a quel momento di quanto fosse stanca. Erano notti ormai che non dormiva, sin da quando la tempesta si era abbattuta su Istar. Adesso che sentiva più caldo, il pensiero di avvolgersi ancora più strettamente nella tenda e di scivolare nell’oblio la tentava in maniera irresistibile.

«Smettila!» s’intimò. Costringendosi a rialzarsi in piedi trascinò la tenda fino a Caramon e s’inginocchiò accanto a lui. Lo coprì con il pesante tessuto, tirandolo sopra le sue ampie spalle. Il suo petto era immobile; respirava appena. Appoggiando la fredda mano sul suo collo, Crysania cercò un battito... e lo trovò. Era lento e irregolare. E poi vide i segni sul suo collo, segni completamente bianchi, come di labbra scarnificate.

La testa priva di corpo fluttuò nel ricordo di Crysania. Rabbrividendo, la bandì dai propri pensieri e, avvolta nella tenda, appoggiò le mani sulla fronte di Caramon.

«Paladine,» pregò con voce sommessa, «se non hai voltato le spalle al tuo chierico per la collera, se soltanto cercherai di capire che quanto il tuo chierico fa, è in tuo onore, se vorrai squarciare questa terribile oscurità quel tanto che basta per esaudire questa preghiera: guarisci quest’uomo! Se il suo destino non si è ancora compiuto, se c’è ancora qualcosa che deve fare, concedigli la salute. Se così non fosse, allora raccogli la sua anima con gentilezza fra le tue braccia, Paladine, in modo che possa dimorare per l’eternità...»

Crysania non riuscì a proseguire. Le forze le vennero meno. Affaticata, prosciugata dal terrore e dai propri conflitti interiori, smarrita e sola nella vasta oscurità, si lasciò cadere la testa fra le mani e cominciò a piangere: gli amari singhiozzi di qualcuno che non vede nessuna speranza.

E poi sentì una mano toccare la sua. Trasalì per il terrore, ma quella mano era forte e calda.

«Suvvia, Tika,» disse una voce profonda e assonnata, «mi rimetterò, non piangere.»

Alzando il volto bagnato di lacrime, Crysania vide il petto di Caramon alzarsi ed abbassarsi, respirando profondamente. Il suo volto aveva perso il pallore mortale, i segni bianchi sul suo collo erano sbiaditi. Battendole la mano per tranquillizzarla, le sorrise.

«È soltanto un brutto sogno, Tika,» borbottò. «Sarà tutto finito... entro domattina...»

Tirandosi la tenda intorno al collo, rannicchiandosi nel suo stesso calore, Caramon spalancò la bocca dando in un immenso sbadiglio, e si girò sul fianco scivolando in un sonno profondo e pacifico.

Troppo stanca e intorpidita anche soltanto per offrire i propri ringraziamenti, Crysania riuscì soltanto a rimanere seduta per qualche istante a contemplare l’omone che dormiva. Poi un suono le giunse all’orecchio, attirando la sua attenzione: uno sgocciolio d’acqua! Voltandosi, vide - per la prima volta - una caraffa d’acqua appoggiata sull’orlo della scrivania. Il lungo collo era rotto e la caraffa giaceva distesa sul fianco, con l’imboccatura sospesa, sopra l’orlo. A quanto pareva era rimasta vuota per lungo tempo, il suo contenuto doveva essere stato versato fuori cent’anni prima.

Ma adesso risplendeva colma di un liquido limpido che sgocciolava sul pavimento, con delicatezza, una goccia per volta, e ogni goccia luccicava alla luce del Bastone.

Tendendo la mano, Crysania raccolse alcune delle gocce sul palmo della mano, poi, esitante, portò la mano alle labbra.

«Acqua...» bisbigliò.

Il sapore era debolmente amaro, quasi salato, ma le parve l’acqua più deliziosa che avesse mai bevuto. Costringendo il proprio corpo dolorante a muoversi, si versò dell’altra acqua nella mano, inghiottendola con avidità. Mettendo la caraffa in posizione verticale sulla scrivania, vide il livello dell’acqua alzarsi di nuovo, sostituendo quella che aveva bevuto.

Adesso poteva ringraziare Paladine con parole che si levavano dal profondo del suo essere, talmente dal profondo che non riuscì a pronunciarle. La sua paura della tenebra e delle creature che vi dimoravano svanì. Il suo dio non l’aveva abbandonata, era ancora con lei, anche se, forse, lei l’aveva deluso.

Placate le sue paure, lanciò un’ultima occhiata a Caramon. Vedendolo dormire pacificamente con i segni del dolore cancellati dalla sua faccia, gli voltò le spalle e si avvicinò a suo fratello là dove giaceva rannicchiato nelle sue vesti, con le labbra livide per il freddo.

Stendendosi accanto al mago, sapendo che il calore del suo corpo li avrebbe scaldati entrambi, Crysania stese la tenda sopra di loro e, appoggiando la testa sulla spalla di Raistlin, chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dall’oscurità.

Capitolo terzo.

«Lo ha chiamato “Raistlin”. »

«Ma, poi, “Fistandantilus” ! »

«Come possiamo esserne sicuri? Questo non è giusto! Non è giunto attraverso il Bosco, com’era stato predetto. Lui non è venuto con il potere! E questi altri? Lui sarebbe dovuto venire da solo!»

«Eppure percepisci la sua magia! Non oso sfidarlo...»

«Neppure per una ricompensa così ricca?»

«L’odore del sangue ti ha fatto impazzire! Se è lui, e dovesse scoprire che ti sei cibato dei suoi prescelti, ti rispedirà in quella eterna tenebra dove sognerai sempre il sangue caldo e non lo gusterai mai!»

«E se non lo è, e noi mancheremo al nostro dovere di sorvegliare questo posto, allora arriverà lei nella sua collera, e ci farà sembrare piacevole quel destino!»

Silenzio. Poi: «C’è un modo per accertarcene...»

«È pericoloso. È debole, potremmo ucciderlo.»

«Dobbiamo saperlo! Meglio che lui muoia piuttosto che noi manchiamo al nostro dovere verso Sua Maestà Tenebrosa.»

«Sì... La sua morte potrebbe venir spiegata. La sua vita... forse no.»

Un dolore freddo, bruciante, penetrò gli strati della sua coscienza come schegge di ghiaccio che gli trafiggessero il cervello. Raistlin lottò nella loro stretta, combattendo attraverso la nebbia della nausea e della fatica per tornare per un breve momento alla consapevolezza. Aprendo gli occhi, si sentì quasi soffocare dalla paura quando vide due pallide teste fluttuare sopra di lui, intente a fissarlo con occhi d’una immensa oscurità.

Avevano appoggiato le loro mani sul suo petto: era il tocco di quelle dita di ghiaccio che lo stava lacerando, penetrando fino alla sua anima.

Guardando dentro quegli occhi il mago seppe quello che cercavano e fu colto da un improvviso terrore. «No,» esclamò senza respirare. «Non intendo vivere di nuovo quell’esperienza!»

«Lo farai. Dobbiamo sapere!» fu tutto quello che dissero.

A quell’insulto, Raistlin fu colto dalla rabbia. Ringhiando un’amara maledizione, cercò di sollevare le braccia dal pavimento per liberarsi dalla stretta mortale di quelle mani spettrali. Ma fu inutile. I suoi muscoli si rifiutarono di reagire, un dito si contrasse, nulla più.

Il furore, il dolore e l’amara frustrazione gli fecero lanciare un urlo acuto, ma fu un suono che nessuno udì, neppure lui. Le mani aumentarono ancora di più la loro stretta, il dolore lo trafisse, e lui affondò, non nell’oscurità, ma nel ricordo.

Non c’erano finestre nella Stanza dell’Apprendimento, dove i sette apprendisti fruitori di magia lavoravano quella mattina. La luce del sole non era ammessa, né lo era quella delle due lune: l’argentea e la rossa. In quanto alla terza luna, quella nera, la sua presenza poteva venir percepita qui come altrove, su Krynn, senza esser vista.

La stanza era illuminata da grosse candele di cera d’api infisse in candelabri d’argento posti sui tavoli.

Quella era la sola stanza nel grande castello di Fistandantilus illuminata da candele. In tutte le altre, globi di vetro con incantesimi di luce lanciati in continuazione su di essi erano sospesi nell’aria, diffondendo un magico bagliore che illuminava la perpetua penombra di quella tenebrosa fortezza.

Ma i globi non venivano usati nella Stanza dell’Apprendimento, per una ragione molto valida: se fossero stati portati dentro quella stanza, la loro luce sarebbe subito venuta meno. Là dentro veniva sempre tenuto in funzione un incantesimo Scaccia magia. Di qui la necessità di candele e il bisogno di tener lontana qualunque influenza potesse venir assorbita dal sole o dalle due lune che diffondevano luce.

Sei degli apprendisti sedevano l’uno accanto all’altro a un tavolo, alcuni parlavano fra loro, altri studiavano in silenzio. Il settimo sedeva in disparte, a un tavolo posto sul lato opposto della stanza.

Di tanto in tanto uno dei sei sollevava la testa e lanciava un’occhiata inquieta all’apprendista che sedeva in disparte, poi si affrettava ad abbassare la testa, perché non importava chi lo guardasse o quando, il settimo era sempre lì che ricambiava lo sguardo.

I sei trovavano la cosa divertente, e anche il settimo si concesse un amaro sorriso. Raistlin non aveva trovato molto da ridere durante i mesi che aveva passato nel castello di Fistandantilus. Non era stato un periodo facile per lui. Oh, era stato abbastanza semplice mantenere l’inganno, impedendo a Fistandantilus d’indovinare la sua vera identità, nascondendo i suoi veri poteri, dando a vedere di essere semplicemente uno di quel gruppo di sciocchi che lavoravano per conquistarsi i favori del grande stregone, diventando così suoi apprendisti.

Per Raistlin l’inganno era autentica linfa vitale. Gli piacevano perfino i suoi piccoli espedienti per mantenere il vantaggio sugli altri apprendisti, facendo sempre tutto un po’ meglio, costringendoli a restare con i nervi a fior di pelle, cogliendoli sempre alla sprovvista. Gli piaceva anche il suo gioco con Fistandantilus. Poteva percepire l’attenzione del mago concentrata su di lui. Sapeva ciò che il grande stregone pensava: chi è questo apprendista? Da dove attingeva il potere che l’arcimago sentiva ardere dentro di lui, ma che non riusciva a definire?

Talvolta a Raistlin pareva di cogliere Fistandantilus che studiava la sua faccia, come se pensasse che gli era familiare...

Sì, a Raistlin quel gioco piaceva. Ma in modo del tutto inaspettato incappò in qualcosa che non gli era piaciuto. In qualcosa che, suo malgrado, gli ricordava il più infelice periodo della sua vita: i suoi vecchi giorni di scuola.

Il Subdolo, era quello il soprannome che gli avevano dato gli apprendisti alla scuola del suo vecchio Maestro. Senza che nessuno mai lo amasse, senza che nessuno si fidasse mai di lui, temuto perfino dal suo Maestro, Raistlin aveva passato una giovinezza amara e solitaria. L’unica persona che si fosse mai curata di lui era stato suo fratello gemello, Caramon, e il suo amore era stato così condiscendente e soffocante che spesso Raistlin aveva trovato più facile accettare l’odio dei suoi compagni di classe.

E adesso, anche se disprezzava quegli idioti che cercavano di compiacere un Maestro il quale, alla fine, avrebbe finito soltanto per assassinare quello prescelto, e malgrado si divertisse a imbrogliarli e a deriderli, talvolta, nella solitudine della notte, Raistlin provava ancora una fitta di dolore quando li sentiva riuniti insieme che ridevano...

Con rabbia ricordava a se stesso che ciò era al di sotto dei suoi interessi. Lui aveva una meta assai più grande da raggiungere. Doveva concentrarsi, conservare le sue forze. Poiché oggi era il giorno.

Il giorno in cui Fistandantilus avrebbe scelto il suo apprendista.

Voi sei ve ne andrete, pensò Raistlin fra sé. Ve ne andrete odiandomi e disprezzandomi, e nessuno saprà mai che uno di voi mi deve la vita!

La porta che dava sulla Stanza dell’Apprendistato si aprì con un forte cigolio, facendo sussultare allarmate le sei figure abbigliate di nero che sedevano insieme allo stesso tavolo. Raistlin, osservandoli con un sorriso contorto, vide l’identico sorriso di scherno sulla faccia grigia e raggrinzita dell’uomo che era comparso sulla soglia.

Lo sguardo luccicante dello stregone si posò su ciascuno dei sei apprendisti, inducendo ognuno di essi a impallidire e ad abbassare la testa incappucciata mentre le loro mani giocherellavano con i componenti degli incantesimi, oppure si serravano per il nervosismo.

Alla fine Fistandantilus girò i suoi occhi neri puntandoli sul settimo apprendista che sedeva in disparte. Raistlin incontrò il suo sguardo senza batter ciglio, il suo sorriso contorto si contorse ancora di più, diventando di scherno. Le sopracciglia di Fistandantilus si contrassero. Colto da una rabbia improvvisa, chiuse la porta sbattendola. I sei apprendisti sussultarono a quell’improvviso schianto che infranse il silenzio.

Lo stregone s’incamminò verso la parte anteriore della Stanza dell’Apprendimento, con passo lento e incerto. Si appoggiava ad un bastone e le sue ossa scricchiolarono quando prese posto su uno scranno. Lo sguardo dello stregone si posò ancora una volta sui sei apprendisti seduti davanti a lui e, mentre li fissava, mentre fissava i loro giovani corpi sani, una delle mani rugose si alzò per accarezzare un ciondolo che portava appeso a una lunga e pesante catena che gli girava intorno al collo: un singolo cristallo di ematite incastonato in argento non lavorato.

Spesso gli apprendisti avevano discusso fra loro di quel ciondolo, chiedendosi quali fossero le sue virtù. Era l’unico ornamento che Fistandantilus portava su di sé, e tutti sapevano che doveva avere un enorme valore. Perfino l’apprendista di più infimo livello poteva percepire i potenti incantesimi protettivi e repulsivi che gli erano stati lanciati sopra, difendendolo da ogni forma di magia. Quali capacità aveva? bisbigliavano fra loro, e le loro congetture andavano dall’evocazione di creature dai piani celesti alla possibilità di comunicare con Sua Maestà Tenebrosa in persona.

Naturalmente, c’era uno di loro che avrebbe potuto dirglielo. Raistlin sapeva quello che faceva. Ma teneva per sé quella conoscenza.

La mano nodosa e tremante di Fistandantilus si chiuse avidamente sopra l’ematite, mentre il suo sguardo famelico andava da un apprendista all’altro. Raistlin avrebbe potuto giurare che lo stregone si era leccato le labbra, e il giovane mago provò, per un attimo, un’improvvisa paura. E se fallissi? si chiese rabbrividendo. È potente. Il più potente stregone che sia mai vissuto! E io sono forte abbastanza? E se...

«Cominciate la prova, » disse Fistandantilus con voce rotta, puntando lo sguardo su uno dei sei.

Con fermezza, Raistlin bandì i suoi timori. Aveva lavorato un’intera vita per ottenere questo. Se avesse fallito sarebbe morto. Aveva affrontato la morte altre volte. In realtà, sarebbe stato come incontrare un vecchio amico...

Ad uno ad uno i giovani maghi si alzarono dai loro posti, aprirono i loro libri magici e recitarono gli incantesimi. Se lo Scaccia magia non fosse stato lanciato sulla Stanza dell’Apprendimento, questa si sarebbe riempita di spettacoli meravigliosi. Sfere di fuoco sarebbero esplose all’interno delle sue mura, riducendo in cenere tutti quelli che si fossero trovati alla sua portata; fantasmi di draghi avrebbero alitato fiamme illusorie; orrende creature sarebbero state trascinate urlanti fuori da altri piani di esistenza. Così, invece, la stanza restò immersa nella calma e nel silenzio, illuminata dalla luce delle candele, in cui si udiva soltanto il salmodiare dei lanciatori d’incantesimi e il frusciare dei fogli dei libri di magia.

Uno alla volta, i maghi completarono le loro prove, poi tornarono a sedersi. Tutti l’eseguirono in maniera eccezionalmente buona. Non era un risultato inatteso. Fistandantilus ammetteva a studiare ulteriormente con lui soltanto sette dei più abili tra i giovani maschi fruitori di magia, che avessero già superato la crudele Prova della Torre della Grande Stregoneria. Da quel numero ne avrebbe scelto uno come suo assistente.

Almeno essi credevano.

La mano dell’arcimago toccò l’ematite. Il suo sguardo andò a Raistlin. «Il tuo turno, mago,» disse.

Vi fu un guizzo in quei vecchi occhi. Le rughe sulla fronte dello stregone si accentuarono un po’ di più, come per cercare di ricordare il volto del giovane mago.

Raistlin si alzò lentamente in piedi, sempre esibendo un sorriso cinico e amaro, come se tutto questo fosse al di sotto della sua dignità. Scrollando le spalle in un gesto d’indifferenza, chiuse il libro degli incantesimi sbattendolo. A questo, gli altri sei apprendisti si scambiarono delle occhiate severe.

Fistandantilus corrugò la fronte, ma c’era una scintilla nei suoi occhi scuri.

Con voce scorrevole e sarcastica, Raistlin cominciò a recitare a memoria il complicato incantesimo.

Gli altri apprendisti si agitarono a quella dimostrazione di abilità, fissandolo con odio e palese invidia.

Fistandantilus lo guardava, il suo cipiglio divenne un’espressione famelica talmente malevola che quasi finì per interrompere la concentrazione di Raistlin.

Costringendosi a tenere la mente fissa sul proprio lavoro, il giovane mago completò l’incantesimo e, d’un tratto, la Stanza dell’Apprendimento venne illuminata da una vampa accecante di luce multicolore e il suo silenzio venne infranto dal fragore di un’esplosione!

Fistandantilus sussultò, il sogghigno scomparve dal suo volto. Gli altri apprendisti boccheggiarono.

«Come hai fatto a spezzare l’incantesimo dello Scaccia magia?» chiese Fistandantilus rabbioso.

«Che razza di strano potere è mai questo?»

Per tutta risposta, Raistlin aprì le mani. Teneva tra i palmi una sfera di fiamma azzurra e verde, che avvampava d’un tale bagliore che nessuno poteva fissarla direttamente. Poi, con lo stesso sorriso di scherno, batté le mani. La sfera di fuoco scomparve.

La Stanza dell’Apprendimento era di nuovo silenziosa, soltanto che adesso era il silenzio della paura, mentre Fistandantilus si alzava in piedi. Con la collera che gli balenava intorno come un alone di fiamma, si avvicinò al settimo apprendista.

Raistlin non si ritrasse davanti a quella collera. Rimase in piedi, immobile, seguendo freddamente l’avanzare dello stregone.

«Come sei riuscito a...» cominciò Fistandantilus con voce raschiante. Poi il suo sguardo cadde sulle snelle mani del giovane mago. Con un ringhio rabbioso, lo stregone allungò la mano e afferrò il polso di Raistlin.

Raistlin rantolò per il dolore, il tocco dell’arcimago era gelido come una tomba. Ma s’indusse ugualmente a sorridere, anche se sapeva che il suo sorriso doveva assomigliare a quello di un teschio.

«Magnesio!» Fistandantilus attirò a sé Raistlin con uno strattone, tenendogli la mano sotto la luce di una candela in modo che tutti potessero vedere. «Un comune trucco da prestigiatore, degno soltanto degli illusionisti da strada!»

«Così mi guadagnavo da vivere,» replicò Raistlin a denti stretti per vincere il dolore. «Ho ritenuto che andasse bene usarlo in mezzo a questa raccolta di dilettanti che hai messo insieme, Grande Mago.»

Fistandantilus accentuò ancora di più la stretta. Raistlin soffocava per il dolore, ma non lottò né cercò di ritrarsi. Né abbassò lo sguardo davanti a quello del Maestro. Malgrado la sua stretta fosse dolorosa, il volto dello stregone era interessato, incuriosito.

«Così, ti consideri meglio di questi altri?» chiese Fistandantilus a Raistlin con voce sommessa, quasi gentile, ignorando i mormorii rabbiosi degli apprendisti.

Raistlin dovette fare una pausa per raccogliere le forze e riuscire a parlare attraverso la nebbia del dolore. «Tu sai che lo sono!»

Fistandantilus lo fissò, la sua mano gli stringeva ancora il polso. Raistlin colse un’improvvisa paura negli occhi del vecchio, una paura che venne rapidamente estinta dall’espressione di fame insaziabile. Fistandantilus allentò la stretta sul polso di Raistlin. Il giovane mago non potè fare a meno di reprimere un sospiro d’intenso sollievo mentre ricadeva sulla sua sedia, sfregandosi il polso. Su di esso il segno della mano dell’arcimago era visibile con chiarezza, aveva fatto diventare la sua pelle bianca come il ghiaccio.

«Uscite di qui!» intimò Fistandantilus con voce secca. I sei maghi si alzarono, le vesti nere frusciarono intorno a loro. Anche Raistlin si alzò. «Tu rimani,» gli disse il mago con voce fredda.

Raistlin tornò a sedersi, sempre sfregandosi il polso dolorante. Il calore e la vita stavano riaffluendo in esso. Fistandantilus seguì fino alla porta gli altri giovani maghi che se ne andavano, poi, voltandosi, fronteggiò il suo nuovo apprendista.

«Questi altri se ne andranno presto, e avremo il castello tutto per noi. Raggiungimi nelle camere segrete giù nelle viscere del castello quando sarà la Veglia Oscura. Sto conducendo un esperimento che richiederà la tua... assistenza.»

Raistlin osservò inorridito e affascinato la mano del vecchio che andava all’ematite, accarezzandola con amore. Per un attimo Raistlin non riuscì a rispondere. Poi esibì un sorriso di scherno, soltanto che questa volta lo rivolse a se stesso, per acquietare la propria paura.

«Sarò là, Maestro,» disse.

Raistlin giaceva sulla lastra di pietra del laboratorio situato molto in profondità nel castello dell’arcimago. Neppure le sue pesanti vesti di tessuto nero riuscivano a tener lontano il gelo, e Raistlin tremava senza controllo. Ma se ciò fosse dovuto al freddo, alla paura o all’eccitazione, non avrebbe saputo dirlo.

Non poteva vedere Fistandantilus, ma poteva sentirlo: il frusciare delle sue vesti, i tonfi soffocati del suo bastone sul pavimento, le pagine del libro degli incantesimi che venivano sfogliate...

Giacendo sulla lastra, fingendosi impotente sotto l’influenza dello stregone, Raistlin divenne teso. Il momento si avvicinava in fretta.

Come in risposta, Fistandantilus comparve nel suo campo visivo, sporgendosi sopra il giovane mago con quell’espressione di famelica voracità, con il ciondolo di ematite che penzolava dalla catena intorno al suo collo.

«Sì,» disse lo stregone. «Sei abile. Più abile e più potente di qualunque altro giovane apprendista che abbia incontrato durante questi molti, moltissimi anni.»

«Cosa mi farai?» chiese Raistlin con voce roca. Il tono disperato della sua voce non era interamente forzato. Doveva riuscire ad apprendere come funzionava il ciondolo.

«Che importanza può avere?» gli chiese Fistandantilus con freddezza, appoggiando la mano sul petto del giovane mago.

«Il mio... scopo nel venire da te era quello d’imparare,» disse Raistlin, serrando i denti e cercando di non contorcersi a quel tocco ripugnante. «Sono pronto a imparare, perfino all’ultimo istante!»

«Lodevole.» Fistandantilus annuì, fissando la tenebra, i suoi pensieri erano lontani. Era probabile che la sua mente stesse ripassando l’incantesimo, pensò Raistlin fra sé. «Mi piacerà abitare un corpo e una mente così assetati di sapere, e che per di più dimostrano un’innata abilità nell’Arte. Molto bene, ti spiegherò. E la mia ultima lezione, apprendista, imparala bene.

«Giovanotto, non puoi conoscere gli orrori che si vivono diventando vecchi. Come ricordo bene la mia prima vita, e come ricordo bene la terribile sensazione di rabbia e di frustrazione che provai quando mi resi conto che io, il più potente fruitore di magia che sia mai vissuto, ero destinato a rimanere intrappolato in un corpo debole e disgraziato che veniva consumato dall’età! La mia mente, la mia mente era integra! In verità, mentalmente ero più forte di quanto lo fossi mai stato in tutta la mia vita! Ma tutto questo potere, tutte queste vaste conoscenze sarebbero andati sprecati, ridotti in polvere! Divorati dai vermi!

«Allora indossavo le Vesti Rosse..,

«Hai trasalito? Sei rimasto sorpreso? Prendere le Vesti Rosse era stata una decisione cosciente, presa a sangue freddo dopo che avevo visto in qual modo potevo guadagnare meglio. Nella Neutralità s’impara meglio poiché si può attingere ad entrambe le estremità dello spettro senza dover niente a nessuna. Andai da Gilean, Dio della Neutralità, implorandolo che mi venisse concesso di rimanere su questo piano così da ampliare il mio sapere. Ma, in questo, il Dio del Libro non poteva aiutarmi. Gli umani erano la sua creazione, ed era a causa della mia impaziente natura umana e della consapevolezza della brevità della mia vita che avevo proseguito freneticamente i miei studi. Mi venne consigliato di accettare il mio destino.»

Fistandantilus scrollò le spalle. «Leggo la comprensione nei tuoi occhi, apprendista. In un certo senso mi spiace ucciderti. Credo che avremmo potuto sviluppare una ben rara intesa. Ma, per abbreviare una lunga storia, uscii e m’incamminai nella tenebra. Maledicendo la luna rossa, chiesi che mi venisse concesso di vedere la luna nera. La Regina delle Tenebre udì la mia preghiera ed esaudì la mia richiesta. Indossando le Vesti Nere, mi dedicai al suo servizio e, in cambio, venni condotto sul suo piano di esistenza. Ho visto il futuro, sono vissuto nel passato. Fu lei a darmi questo ciondolo, cosicché adesso sono in grado di scegliere un nuovo corpo durante il mio soggiorno in questo tempo. E quando scelgo di attraversare i confini del tempo e di entrare nel futuro, c’è un corpo pronto ad accettare la mia anima.»

Raistlin non riuscì a reprimere un brivido a quelle parole. Il suo labbro si contorse per l’odio. Era il suo, il corpo del quale lo stregone parlava! Pronto, e in attesa...

Ma Fistandantilus non se ne accorse. Lo stregone sollevò il ciondolo di ematite, preparandosi a lanciare l’incantesimo.

Guardando il ciondolo mentre luccicava alla pallida luce proiettata da un globo al centro del laboratorio, Raistlin sentì accelerare il battito del suo cuore. Le sue mani si serrarono.

Facendo uno sforzo, con la voce che gli tremava per un’eccitazione che sperava sarebbe stata scambiata per terrore, bisbigliò: «Dimmi come agisce! Dimmi quello che mi succederà!»

Fistandantilus sorrise, la sua mano fece ruotare lentamente l’ematite sopra il petto di Raistlin.

«Appoggerò questo sopra il tuo petto, proprio sopra il tuo cuore. E, lentamente sentirai la tua forza vitale lasciare il tuo corpo. Credo che il dolore sia straziante. Ma non durerà a lungo, apprendista, se non lotterai contro di esso. Arrenditi e perderai presto conoscenza. Da quanto ho osservato, lottare serve soltanto a prolungare l’agonia.»

«E non ci sono parole da pronunciare?» chiese Raistlin, rabbrividendo.

«Certo,» rispose Fistandantilus in tono gelido, chinandosi accanto a Raistlin, con gli occhi quasi alla stessa altezza di quelli del giovane mago. Facendo attenzione, appoggiò l’ematite sul petto di Raistlin. «Stai per udirle... Saranno gli ultimi suoni che sentirai...»

Raistlin sentì che la pelle gli si accapponava a quel tocco, e per un attimo riuscì a stento a trattenersi dal liberarsi e fuggire. No, si disse, freddo e lucido, stringendo le mani, affondando le unghie nella carne così che il dolore distraesse i suoi pensieri dalla paura, devo sentire le parole!

Rabbrividendo, si costrinse a giacere, immobile, ma non riuscì a impedirsi di chiudere gli occhi, cancellando così la vista di quella faccia malefica e raggrinzita, così vicina alla sua, al punto da sentire l’odore dell’alito in putrefazione...

«Così va bene,» disse una voce sommessa, «rilassati...» Fistandantilus cominciò a salmodiare.

Concentrandosi su quel complicato incantesimo, lo stregone chiuse gli occhi, oscillando avanti e indietro, mentre premeva il ciondolo di ematite contro la pelle di Raistlin. Perciò Fistandantilus non si accorse che le sue parole venivano ripetute, mormorate febbrilmente, dalla vittima predestinata.

Quando si rese conto che qualcosa non andava, aveva terminato di recitare l’incantesimo e se ne stava là, immobile, in attesa della prima infusione di nuova vita nelle sue antiche ossa.

Non accadde nulla.

Allarmato, Fistandantilus aprì gli occhi. Fissò con stupore il giovane mago vestito di nero che giaceva sulla fredda lastra di marmo, e poi lo stregone produsse uno strano suono inarticolato e barcollò all’indietro in preda a un’improvvisa paura che non potè nascondere.

«Vedo che alla fine mi hai riconosciuto,» disse Raistlin, rizzandosi a sedere. Teneva una mano appoggiata alla lastra di pietra, ma l’altra era affondata in una delle tasche segrete delle sue vesti. «E questo sistema il corpo che ti aspetta nel futuro.»

Fistandantilus non rispose. Il suo sguardo saettò in direzione della tasca di Raistlin, come se volesse penetrare il tessuto con i suoi occhi neri.

Poi, recuperò rapidamente la sua compostezza. «Il grande Par-sallian ti ha mandato qui, indietro nel tempo, piccolo mago?» chiese, deridendolo. Ma il suo sguardo rimase fisso sulla tasca.

Raistlin scosse la testa mentre scivolava giù dalla lastra di pietra. Continuando a tenere la mano infilata nella tasca, alzò l’altra per tirarsi indietro il cappuccio dalla testa, permettendo a Fistandantilus di vedere il suo vero volto, non l’illusione che aveva mantenuto durante tutti quei lunghissimi mesi. «Sono venuto da solo. Adesso sono il Maestro della Torre.»

«E impossibile,» ringhiò lo stregone.

Raistlin sorrise, ma non c’era nessun sorriso in risposta nei suoi occhi gelidi, che tenevano Fistandantilus inquadrato nel loro sguardo a specchio.

«Così hai pensato. Ma hai commesso un errore. Mi hai sottovalutato. Mi hai strappato parte della mia forza vitale durante la Prova, in cambio della tua protezione dall’Elfo scuro. Mi hai costretto a vivere una vita di continuo dolore in un corpo infranto, condannandomi a dipendere da mio fratello. Mi hai insegnato a usare il Globo dei draghi e mi hai tenuto in vita quando invece sarei morto là, nella Grande Biblioteca di Palanthas. Durante la Guerra delle Lance mi hai aiutato a ricacciare la Regina delle Tenebre nell’Abisso dove lei non sarebbe più stata una minaccia per il mondo, o per te. Poi, dopo aver guadagnato abbastanza forza in questo tempo, intendevi tornare nel futuro e rivendicare il mio corpo! Tu saresti diventato me.»

Raistlin vide gli occhi di Fistandantilus restringersi, e il giovane mago divenne teso, la sua mano si chiuse sopra l’oggetto che stringeva tra le vesti. Ma lo stregone si limitò ad aggiungere con voce pacata: «È tutto giusto. Cosa intendi fare in proposito? Assassinarmi?»

«No,» rispose Raistlin, con voce sommessa. «Io intendo diventare te.»

«Pazzo!» Fistandantilus scoppiò in una risata stridente. Sollevando una mano raggrinzita esibì il ciondolo di ematite. «Il solo modo in cui potresti farlo è di usare questo su di me! Ed è protetto contro ogni forma di magia da incantesimi la cui potenza tu non sei neppure in grado di concepire, piccolo mago...»

La sua voce si spense in un sussurro, strangolata dallo shock quando Raistlin tolse la mano dalla tasca. Nel palmo della mano giaceva un ciondolo di ematite.

«Protetto da ogni forma di magia,» disse il giovane mago, con un sogghigno simile a quello di un teschio. «Ma non protetto contro la destrezza di un comune illusionista da strada...»

Raistlin vide lo stregone diventare pallido come la morte. Gli occhi di Fistandantilus andarono febbrili alla catenella che aveva appesa al collo. Ma adesso che l’illusione era stata rivelata, si rese conto di non stringere niente in mano.

Un suono lacerante, crepitante, ruppe il silenzio. Il pavimento di pietra sotto i piedi di Raistlin si sollevò, facendo cadere in ginocchio il giovane mago. Le rocce esplosero quando le fondamenta del laboratorio si spezzarono in due. Al di sopra del caos si levò la voce di Fistandantilus, intonando un potente incantesimo convocatorio.

Riconoscendolo, Raistlin rispose stringendo l’ematite che aveva in mano mentre lanciava intorno al proprio corpo un incantesimo schermante per avere il tempo di operare la propria magia.

Rannicchiato sul pavimento, si girò e vide una figura emergere con violenza dalle fondamenta, il cui viso e la cui forma orrenda erano qualcosa che avrebbe potuto comparire soltanto in un sogno demenziale.

«Prendilo, tienilo fermo!» strillò Fistandantilus, indicando Raistlin. L’apparizione avanzò verso il giovane mago come un’onda di marea lungo il pavimento in rovina e allungò verso di lui le sue spire che si contorcevano come tentacoli.

La paura travolse Raistlin mentre la creatura di altri mondi operava su di lui la sua orribile magia.

L’incantesimo schermante si sbriciolò sotto quell’attacco. L’apparizione avrebbe divorato la sua anima e si sarebbe cibata delle sue carni.

Il controllo! Lunghe ore di studio, la forza a lungo esercitata e la rigorosa autodisciplina fecero affluire alla mente di Raistlin le parole dell’incantesimo che gli serviva. Nel giro di pochi istanti era completato. Mentre il giovane mago cominciava a cantare le parole che avrebbero bandito la creatura, sentì l’estasi della sua magia scorrergli lungo il corpo, liberandolo dalla paura.

L’apparizione esitò.

Inferocito, Fistandantilus ordinò al mostro di continuare.

Raistlin gli ordinò di fermarsi.

Infuriata, l’apparizione li guardò entrambi, con le spire che si contorcevano... il suo stesso aspetto tremolava e cambiava. Entrambi i maghi tenevano il mostro sotto controllo, osservando con attenzione l’avversario, aspettando il battito di una palpebra, la contrazione di un labbro, il sussulto spasmodico di un dito che si sarebbero rivelati fatali.

Nessuno dei due si mosse, pareva che non ci fosse nessuna probabilità che qualcuno dei due lo facesse. La resistenza di Raistlin era maggiore, ma la magia di Fistandantilus veniva da fonti antiche; poteva fare appello a poteri invisibili a proprio sostegno.

Alla fine, fu la stessa apparizione che non ce la fece più a resistere. Intrappolata fra due poteri uguali in conflitto fra loro, tirata e spinta in direzioni opposte, il suo essere magico finì per disintegrarsi. Con un lampo accecante, esplose.

La violenza dell’esplosione scaraventò all’indietro entrambi i maghi, mandandoli a sbattere contro le pareti. Un odore spaventoso riempì la stanza e i vetri, frantumati, caddero come una pioggia. Le pareti del laboratorio erano annerite, carbonizzate. Qua e là piccoli incendi ardevano di vivaci fiamme multicolori, proiettando un bagliore livido su quella sconvolgente distruzione.

Pur barcollando, Raistlin si rialzò subito in piedi, asciugandosi il sangue da un taglio sulla fronte. Il suo nemico non fu meno veloce, anch’egli ben conscio che la debolezza avrebbe significato la morte. I due maghi si fronteggiarono nella luce incerta.

«Così, siamo arrivati a questo!» disse Fistandantilus, con la sua voce rotta e antica. «Avresti potuto continuare a condurre una vita tranquilla. Ti avrei risparmiato le debolezze, le ignominie della vecchiaia. Perché precipitarti verso la tua morte?»

«Tu lo sai,» replicò Raistlin con voce sommessa, respirando affannosamente, quasi stremato di forze.

Fistandantilus annuì lentamente, tenendo gli occhi su Raistlin. «Come ho detto,» mormorò, «è assai spiacevole che questo accada. Avremmo potuto fare molto insieme, tu ed io. Adesso...»

«La vita per uno, la morte per l’altro,» disse Raistlin. Protese la mano e depose con attenzione il ciondolo di ematite sulla fredda lastra di pietra. Poi udì le parole del canto, e alzò la voce, rispondendo anche lui con il canto.

La battaglia durò a lungo. I due guardiani della Torre, che contemplavano lo spettacolo da essi evocato dai ricordi del mago vestito di nero che giaceva alla loro portata, erano smarriti e confusi.

Fino a quel punto avevano seguito tutto attraverso la vista di Raistlin. Ma adesso i due fruitori di magia erano così vicini l’uno all’altro che i guardiani della Torre vedevano la battaglia attraverso gli occhi di entrambi gli avversari.

I lampi sprizzavano crepitanti dalle punte delle loro dita, i corpi abbigliati di nero si contorcevano per il dolore, urla di sofferenza e di furore echeggiavano fra gli schianti delle rocce e delle travi.

Magiche pareti di fuoco fondevano muri di ghiaccio, venti roventi soffiavano con la forza degli uragani. Tempeste di fuoco spazzavano i corridoi, le apparizioni balzavano fuori dall’Abisso al comando dei loro padroni, le forze elementari scuotevano le fondamenta stesse del castello. La grande, cupa fortezza di Fistandantilus cominciò a creparsi, le pietre cadevano giù dagli spalti.

E poi, con un terribile urlo di rabbia e di dolore, uno dei maghi vestiti di nero crollò al suolo, con il sangue che gli colava dalla bocca.

Qual era l’uno, quale l’altro? Chi era caduto? I guardiani cercarono freneticamente di capirlo, ma era impossibile.

L’altro mago, quasi del tutto svuotato d’energie, si riposò un momento, poi riuscì a trascinarsi lungo il pavimento. La sua mano tremante si allungò fin sopra la superficie della lastra di pietra, si mosse a tentoni, poi trovò e afferrò il ciondolo di ematite. Con le ultime forze che gli rimanevano, il mago dalle vesti nere strinse il ciondolo e tornò indietro, strisciando, per poi inginocchiarsi accanto al corpo ancora vivo della sua vittima.

Il corpo sul pavimento si contorse nei tormenti dell’agonia, un grido stridulo gorgogliò dalle sue labbra schiumanti sangue. Poi, d’un tratto, le urla cessarono. La pelle del mago si raggrinzì e si ruppe come pergamena disseccata, i suoi occhi fissarono l’oscurità senza vederla. Appassì lentamente.

Con un sospiro fremente l’altro mago crollò sopra il corpo della sua vittima, lui stesso debole, ferito, quasi prossimo alla morte. Ma stretta nella sua mano c’era l’ematite, e attraverso le sue vene scorreva sangue nuovo, dandogli una vita che, col tempo, avrebbe ripristinato la sua salute. Nella sua mente c’erano conoscenze, ricordi di centinaia d’anni di potere, incantesimi, visioni di meraviglie e di terrori che coprivano l’arco di molte generazioni. Ma c’erano anche i ricordi di un fratello gemello, ricordi di un corpo infranto, di un’esistenza prolungata e dolorosa.

Mentre due vite si fondevano dentro di lui, mentre centinaia di strani ricordi in conflitto fra loro si accalcavano dentro di lui, il mago vacillò sotto quell’impatto. Rannicchiandosi accanto al corpo del suo rivale, il mago vestito di nero che era uscito vincitore dalla battaglia fissò l’ematite nella sua mano. Poi bisbigliò in preda all’orrore: «Chi sono io?»

Capitolo quarto.

I guardiani scivolarono via da Raistlin, fissandolo con occhi vacui. Troppo debole per muoversi, il mago li fissò a sua volta, i suoi occhi riflettevano le tenebre.

«Vi dico questo.» Parlò loro senza voce e venne compreso. «Toccatemi di nuovo e vi trasformerò in polvere, come ho fatto con lui!»

«Sì, Maestro,» bisbigliarono le voci, mentre i loro pallidi volti tornavano a confondersi fra le ombre.

«Cosa...» mormorò Crysania con voce assonnata. «Hai detto qualcosa?. Rendendosi conto di aver dormito con la testa sulla sua spalla, arrossi confusa e imbarazzata e si affrettò a rizzarsi a sedere.

«Po... posso andare a prenderti qualcosa?» chiese.

«Acqua calda.» Raistlin si riadagiò fiaccamente sulla schiena. «Per la mia pozione.»

Crysania lanciò un’occhiata intorno a sé, scostandosi gli scuri capelli dagli occhi. Una luce grigia filtrava dalle finestre. Sottile, esile come un fantasma, non era di nessun conforto. Il Bastone di Magius proiettava ancora la sua luce, tenendo lontane le creature buie della notte. Ma non diffondeva nessun calore. Crysania si sfregò il collo dolorante. Era irrigidita e sofferente e sapeva che doveva aver dormito per ore. La stanza era ancora gelida. Con espressione desolata guardò la griglia del caminetto, fredda e annerita.

«C’è della legna,» balbettò; il suo sguardo andò ai mobili fracassati che le giacevano intorno, «ma non... non ho nessuna esca, nessun acciarino, non posso...»

«Sveglia mio fratello,» ringhiò Raistlin, e subito il suo respiro si fece ansimante. Cercò di aggiungere qualcosa, ma riuscì soltanto a fare un debole gesto. I suoi occhi scintillarono d’una tale rabbia e il suo volto fu contorto da un tale furore che Crysania lo fissò allarmata, percependo in lui un gelo perfino più freddo dell’aria che aveva intorno.

Raistlin chiuse gli occhi, stremato, e portò la mano al petto. «Per favore,» bisbigliò in preda a un’estrema sofferenza, «il dolore...»

«Certo,» disse Crysania gentilmente, sopraffatta dalla vergogna. Cosa doveva essere, vivere con un dolore come quello, giorno dopo giorno? Sporgendosi in avanti, si tolse la tenda dalle spalle e, con cura, la rimboccò intorno a Raistlin. Il mago annuì con gratitudine, ma non riuscì a parlare. Poi, rabbrividendo, Crysania attraversò la stanza fino al punto in cui giaceva Caramon.

Fece per allungare una mano e toccargli la spalla, poi esitò. E se fosse stato ancora cieco? pensò.

Oppure, se fosse stato in grado di vedere e avesse deciso di... di uccidere Raistlin?

Ma la sua esitazione durò soltanto un attimo. Con gesto deciso, gli mise la mano sulla spalla e lo scosse. Se tentasse di farlo, si disse, cupa, io lo fermerò. L’ho fatto una volta, posso farlo di nuovo.

Proprio mentre lo toccava, divenne conscia dei pallidi guardiani annidati nel buio, che seguivano ogni sua mossa.

«Caramon,» lo chiamò con voce sommessa, «Caramon, svegliati. Per favore! Ci serve...»

«Cosa?» Caramon balzò su a sedere, portando istintivamente la mano all’elsa della spada, che non c’era più. Il suo sguardo si mise a fuoco su Crysania, la quale si rese conto, con sollievo venato di paura, che lui poteva vederla. Tuttavia, la fissò senza espressione, mostrando di non riconoscerla, poi si guardò rapidamente intorno per capire dove si trovava.

Allora Crysania vide riaffiorare i ricordi nell’oscurarsi dei suoi occhi, li vide riempirsi d’un intenso tormento. Vide la rimembranza nel serrarsi dei muscoli della sua mascella e nella fredda occhiata che le rivolse. Era sul punto di dire qualcosa, di scusarsi, di spiegare, di rimproverarlo, quando, tutt’a un tratto, gli occhi di Caramon si colmarono di tenerezza e il suo volto si ammorbidì per la preoccupazione.

«Dama Crysania,» disse Caramon, rizzandosi a sedere e trascinando via la tenda dal proprio corpo,

«tu stai gelando! Ecco, avvolgiti in questa.»

Prima che lei potesse dire una sola parola di protesta, egli l’avvolse confortevolmente nella tenda.

Crysania notò che, mentre lo faceva, lanciava un’occhiata al suo gemello. Ma il suo sguardo passò rapido sopra Raistlin, come se non esistesse.

Crysania l’afferrò per un braccio. «Caramon,» gli disse, «ci ha salvato la vita. Ha lanciato un incantesimo. Quelle creature, là nel buio, ci lasciano stare perché lui gliel’ha imposto!»

«Perché lo riconoscono come uno dei loro!» esclamò Caramon, aspro, abbassando lo sguardo e cercando di ritrarre il braccio dalla sua stretta. Ma Crysania lo trattenne, più con lo sguardo che con le sue mani gelate.

«Adesso puoi ucciderlo,» replicò, con rabbia. «Guarda, è indifeso, debole. Naturalmente, se lo farai, moriremo tutti. Ma eri preparato a farlo in ogni caso, non è vero?»

«Non posso ucciderlo,» dichiarò Caramon. I suoi occhi castani erano limpidi e freddi, e Crysania, ancora una volta, colse una sorprendente rassomiglianza fra i gemelli. «Guardiamo in faccia la realtà, Reverenda Figlia: se io ci provassi, tu non faresti altro che accecarmi un’altra volta.»

Caramon scostò la mano di Crysania dal proprio braccio.

«Almeno uno di noi deve poter vedere con chiarezza,» dichiarò.

Crysania si sentì arrossire per la vergogna e la rabbia, sentendo le parole di Loralon echeggiare nel sarcasmo del guerriero. Caramon le voltò le spalle e si affrettò ad alzarsi.

«Ora accenderò un fuoco,» disse con voce fredda e dura, «se quegli esseri...» agitò una mano, «se quegli amici di mio fratello là fuori me lo permetteranno.»

«Credo che non faranno difficoltà,» disse Crysania, parlando con uguale freddezza e alzandosi in piedi anche lei. «Non mi hanno ostacolato quando... quando ho strappato giù le tende.» Non potè impedire che un tremito le s’insinuasse nella voce al ricordo di quelle ombre di morte che avrebbero potuto intrappolarla.

Caramon le lanciò un’occhiata e, per la prima volta, Crysania si rese conto di quale doveva essere il proprio aspetto. Avvolta in una tenda di velluto nero putrescente, le sue vesti bianche strappate e macchiate di sangue, annerite dalla polvere e dalla cenere del pavimento. Involontariamente si portò la mano ai capelli, un tempo così lisci e accuratamente intrecciati e raccolti a crocchia. Adesso le penzolavano intorno al viso in tante ciocche scarmigliate. Poteva sentire le lacrime disseccate sulle guance, lo sporco, il sangue...

Impacciata, si pulì il volto con la mano e cercò di ravviarsi i capelli. Poi, rendendosi conto di quanto futile e perfino stupido dovesse apparire quel suo gesto, e incollerita ancora di più dall’espressione impietosita di Caramon, si raddrizzò con umiliata dignità.

«Così, non sono più la fanciulla di marmo che hai incontrato la prima volta,» disse con alterigia,

«proprio come tu non sei più l’ubriacone che ho conosciuto. Pare che entrambi abbiamo imparato una o due cose durante il nostro viaggio.»

«Io so di averle imparate,» dichiarò Caramon con voce grave.

«Davvero?» ribatté Crysania. «Me lo stavo appunto chiedendo! Hai appreso, come ho appreso io... che i maghi mi hanno mandata indietro nel tempo sapendo che non sarei tornata?»

Caramon la fissò. Crysania esibì un cupo sorriso.

«No,» proseguì. «Eri inconsapevole di questo piccolo particolare, o per lo meno è quello che ha detto tuo fratello. Il congegno del tempo poteva venir usato soltanto da una persona, quella a cui era stato affidato: tu! I maghi mi hanno mandato indietro nel tempo perché vi morissi, poiché avevano paura di me!»

Caramon corrugò la fronte. Aprì la bocca, la chiuse, poi scosse la testa. «Avresti potuto lasciare Istar con quell’elfo che era venuto a prenderti.»

«Tu ci saresti andato?» volle sapere Crysania. «Avresti rinunciato a vivere nel nostro tempo se ti fosse stato possibile evitarlo? No! Forse che io sono così diversa?»

Le rughe sulla fronte di Caramon si accentuarono, e stava per rispondere, ma in quel momento Raistlin tossì. Lanciando un’occhiata al mago, Crysania sospirò e disse: «Farai meglio ad accendere quel fuoco, altrimenti periremo tutti.» Voltando la schiena a Caramon, il quale era ancora intento a fissarla in silenzio, si avvicinò al fratello.

Guardando il fragile mago, Crysania si chiese se avesse sentito. Si chiese se fosse anche soltanto cosciente.

Era cosciente, ma anche se Raistlin era consapevole di ciò che gli altri due avevano detto, pareva troppo debole per mostrarsi interessato. Versando un po’ d’acqua in una scodella crepata, Crysania s’inginocchiò accanto a lui. Strappando un lembo dalla porzione più pulita delle sue vesti, ripulì il volto di Raistlin, e scoprì che ardeva per la febbre perfino in quella stanza gelida.

Sentì Caramon alle sue spalle intento a raccogliere dei pezzi di legno dei mobili fracassati, ammucchiandoli nel caminetto.

«Ho bisogno di qualcosa come esca,» borbottò fra sé l’omone. «Ah, questi libri...»

A queste parole gli occhi di Raistlin si spalancarono di colpo: mosse la testa e cercò debolmente di alzarsi.

«Non farlo, Caramon!» gridò Crysania, allarmata. Caramon si arrestò, con un libro in mano. «è pericoloso, fratello mio!» rantolò Raistlin con voce fioca. «Libri d’incantesimi! Non toccarli...»

La voce gli venne meno, ma lo sguardo dei suoi occhi febbricitanti era fisso su Caramon con un’espressione così evidente di preoccupazione che perfino Crysania parve sorpresa. Borbottando qualcosa d’inintelligibile, l’omone lasciò cadere il libro e cominciò a cercare intorno alla scrivania.

Crysania vide gli occhi di Raistlin chiudersi per il sollievo.

«Ecco. Sembrano delle... lettere,» disse Caramon dopo aver scorso per un momento le carte sul pavimento. «Andranno... andranno bene?» chiese, arcigno.

Raistlin annuì senza parlare e, nel giro di pochi istanti, Crysania sentì il crepitio del fuoco. Rivestita di lacca, la legna dei mobili fracassati prese rapidamente fuoco, e ben presto le fiamme arsero d’una luce viva e confortante. Fissando le ombre, Crysania vide quei pallidi volti che si ritraevano, ma non se ne andarono.

«Dobbiamo spostare Raistlin vicino al fuoco,» disse, alzandosi in piedi. «E ha detto qualcosa a proposito d’una pozione...»

«Sì,» rispose Caramon con voce piatta. Fermandosi accanto a Crysania, abbassò lo sguardo su suo fratello. Poi scrollò le spalle. «Lascia che ci arrivi con la sua magia, se è questo che vuole.»

Gli occhi di Crysania avvamparono di collera. Si girò verso Caramon con parole roventi sulle labbra ma, a un debole gesto di Raistlin, si morse il labbro inferiore e rimase zitta.

«Hai scelto un momento assai poco opportuno per maturare, fratello mio,» bisbigliò il mago.

«Forse,» disse Caramon lentamente, con la faccia colma d’ineffabile dolore. Scuotendo la testa, tornò indietro, accanto al fuoco. «Forse non ha più nessuna importanza.»

Crysania, osservando Raistlin che seguiva suo fratello con lo sguardo, fu sorpresa nel vederlo uscire in un rapido, segreto sorriso, annuendo soddisfatto. Poi, quando sollevò lo sguardo su di lei, il sorriso subito scomparve. Sollevando un braccio, le fece segno di avvicinarsi a lui.

«Posso reggermi in piedi,» bisbigliò, «con il tuo aiuto.»

«Ecco, avrai bisogno del tuo bastone,» disse Crysania, tendendo la mano per prenderlo.

«Non toccarlo! » le intimò Raistlin, bloccandole la mano. «No,» ripetè con maggior gentilezza, tossendo fino a rischiare di soffocare. «Se altre mani... lo toccano... la luce viene meno...»

Rabbrividendo involontariamente, Crysania lanciò una rapida occhiata intorno alla stanza. Raistlin, facendo passare lo sguardo da Crysania alle forme tremolanti che si libravano appena all’esterno del bagliore del Bastone, scosse la testa.

«No, non credo che ci attaccherebbero,» disse con voce sommessa, mentre Crysania lo cingeva con le braccia e lo aiutava ad alzarsi. «Sanno chi sono.» A quelle parole le sue labbra si arricciarono in un sorriso di scherno, e quasi soffocò.

«Sanno chi sono,» ripetè con maggiore fermezza, «e non osano mettersi contro di me. Ma...» tossì di nuovo, e si appoggiò pesantemente a Crysania, con un braccio intorno alla sua spalla, e stringendo il Bastone con l’altra mano, «... saremo più al sicuro se la luce del Bastone continuerà ad ardere.»

Il mago barcollò mentre parlava e fu quasi sul punto di cadere a terra. Crysania si fermò un momento per permettergli di riprendere fiato. Anche il suo respiro era più veloce del normale, rivelando il groviglio confuso delle sue emozioni. Sentendo l’aspro martellare del respiro affaticato di Raistlin, si sentì consumare dalla pietà per la sua debolezza. Però, poteva sentire il calore bruciante del corpo premuto così vicino al suo. C’era l’odore intossicante dei componenti del suo incantesimo: petali di rosa, spezie, e le sue vesti nere erano morbide al tatto, più morbide della tenda alle sue spalle. Lo sguardo di Raistlin incontrò il suo mentre se ne stavano là, immobili; per un istante la superficie simile a uno specchio dei suoi occhi si spezzò, e lei vide calore e passione. Di riflesso, il braccio che la circondava si strinse di più, attirandola più vicina con un gesto che sembrava distratto.

Crysania arrossì, bramando insieme, disperatamente, di fuggire e di rimanere per sempre in quel caldo abbraccio. Abbassò velocemente lo sguardo, ma era troppo tardi. Sentì Raistlin irrigidirsi.

Con rabbia lui ritrasse il braccio. Spingendola da parte, ghermì il Bastone per sorreggersi.

Ma era ancora troppo debole. Barcollò e cominciò a cadere. Crysania si mosse per aiutarlo, ma d’un tratto un corpo gigantesco s’interpose fra lei e il mago. Forti braccia sollevarono Raistlin come se fosse soltanto un bambino. Caramon trasportò suo fratello fino a una poltrona sgangherata e annerita, pesantemente imbottita, che aveva trascinato accanto al fuoco. Per qualche istante Crysania non riuscì a muoversi da dove si trovava, appoggiata alla scrivania. Fu soltanto quando si rese conto di trovarsi sola, al buio, fuori dalla luce sia del fuoco che del Bastone, che si affrettò anche lei a raggiungere il fuoco.

«Siediti, Dama Crysania,» la sollecitò Caramon, tirando accanto al camino un’altra poltrona e battendola con le mani per ripulirla meglio che poteva dalla polvere e dalle ceneri.

«Grazie,» mormorò Crysania, tentando, per qualche ragione, di evitare lo sguardo dell’omone.

Lasciandosi sprofondare nella poltrona, si rannicchiò accanto al fuoco, fissando le fiamme fino a quando non le parve di aver recuperato parte della sua compostezza.

Quando fu in grado di guardarsi intorno, vide Raistlin abbandonato sulla sua poltrona, gli occhi chiusi, il respiro irregolare. Caramon stava scaldando dell’acqua in una pentola di ferro tutta ammaccata che, a vederla, doveva aver tirato fuori dalla cenere del caminetto. Era in piedi davanti ad essa, lo sguardo intento sull’acqua. La luce delle fiamme traeva riflessi dalla sua armatura dorata, riluceva sulla sua pelle liscia e abbronzata. I suoi muscoli s’increspavano mentre fletteva le grosse braccia per tenersi caldo.

È un uomo dalla corporatura davvero magnifica, pensò Crysania, poi rabbrividì. Ancora una volta lo vide entrare in quella stanza sotto il Tempio condannato, con la spada insanguinata in pugno, la morte negli occhi...

«L’acqua è pronta,» annunciò Caramon, e Crysania tornò alla Torre con un sussulto.

«Lasciami preparare quella pozione,» lei si affrettò a rispondere, grata di poter fare qualcosa.

Raistlin aprì gli occhi quando lei gli si avvicinò. Guardando dentro di essi, Crysania vide soltanto un riflesso di se stessa, pallida, smunta, scarmigliata. Senza parlare, lui le porse una piccola borsa di velluto. Mentre Crysania la prendeva, indicò con un gesto suo fratello, poi riaffondò nella poltrona, esausto.

Crysania prese la piccola borsa, si voltò e vide Caramon che la guardava, un’espressione di perplessità mista a tristezza dava al suo volto una gravità insolita. Ma tutto quello che disse, fu:

«Metti un po’ di queste foglie in quella tazza, poi riempila con l’acqua calda.»

«Cos’è?» domandò Crysania, incuriosita. Quando aprì la borsa il suo naso si arricciò allo strano, amaro odore delle erbe. Caramon versò l’acqua nella tazza che lei reggeva in mano.

«Non lo so,» disse Caramon, scrollando le spalle. «Era sempre Raist quello che raccoglieva le erbe e le mischiava. Par-sallian gli ha dato la ricetta dopo... dopo la Prova, quando stava così male. Certo,» le sorrise, «so che ha un odore orribile e deve avere un sapore ancora peggiore.» Lanciò un’occhiata quasi amorevole a suo fratello. «Ma l’aiuterà.» La sua voce divenne aspra, raschiarne.

D’un tratto voltò la testa dall’altra parte.

Crysania portò la pozione fumante a Raistlin, il quale strinse la tazza con mani tremanti portandola avidamente alle labbra. Sorseggiandola, dette in un sospiro di sollievo e, ancora una volta, riaffondò tra i cuscini della poltrona.

Un silenzio imbarazzante calò nella stanza. Caramon teneva di nuovo lo sguardo abbassato sul fuoco. Anche Raistlin fissava le fiamme e sorseggiava la sua pozione senza fare commenti.

Crysania tornò alla propria poltrona per far ciò, se ne rese conto, che anche gli altri due certamente stavano facendo: dipanando i propri pensieri, per cercare di tirar fuori un senso da quanto era accaduto.

Poche ore prima, lei si era trovata in una città condannata, una città destinata a morire a causa dell’ira degli dei. Era stata sull’orlo d’un completo collasso fisico e mentale. Adesso poteva ammetterlo, anche se allora non aveva potuto. Con quanta indulgenza aveva immaginato che la sua anima fosse cinta dalle mura di acciaio della sua fede. Adesso vedeva, con vergogna e rincrescimento, che non di acciaio si era trattato. Non acciaio, ma ghiaccio. Ghiaccio che si era fuso all’aspra luce della verità, lasciandola esposta e vulnerabile. Se non fosse stato per Raistlin, sarebbe perita laggiù, a Istar.

Raistlin... Si sentì arrossire. Questo era quel qualcosa con cui non aveva mai pensato di doversi battere: l’amore, la passione. Molti anni prima era stata fidanzata a un giovane che le piaceva molto.

Ma non lo amava. In realtà non aveva mai veramente creduto nell’amore, il genere di amore che esisteva nelle storie raccontate ai bambini. Essere avvinti in questo modo a un’altra persona le era sembrato un ostacolo, una debolezza da evitare. Ricordava qualcosa che Tanis Mezzelfo aveva detto a proposito di sua moglie, Laurana... cos’era mai? «Quando se ne sarà andata, sarà come se mi mancasse il mio braccio destro...»

Che romantiche stupidaggini! aveva pensato allora. Ma adesso chiese a se stessa... era questo che provava per Raistlin? I suoi pensieri andarono all’ultimo giorno che aveva trascorso a Istar, alla terribile tempesta, al balenare dei lampi... e a come si era trovata all’improvviso tra le sue braccia. Il suo cuore si contrasse al rapido tormento del desiderio mentre sentiva, ancora una volta, il suo forte abbraccio. Ma c’era anche una violenta paura, una strana ripugnanza. Ricordò con riluttanza il febbricitante luccichio dei suoi occhi, la sua esultanza in mezzo alla tempesta, come se fosse stato lui stesso ad evocarla.

Era come lo strano odore degli incantesimi che gli si era appiccicato addosso, il piacevole odore delle rose e delle spezie ma, mischiato ad esso, l’afrore nauseante delle creature putrefatte e l’acre odore dello zolfo. Mentre il suo corpo anelava il tocco di Raistlin, qualcosa nella sua anima si ritraeva in preda all’orrore...

Lo stomaco di Caramon rumoreggiò sonoramente. Fu quasi uno stupefacente fragore in quella stanza in cui gravava un mortale silenzio.

Sollevando lo sguardo, i suoi pensieri brutalmente interrotti, Crysania vide l’omone imporporarsi per l’imbarazzo. D’un tratto, all’improvviso conscia della propria fame (non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva mandato giù un boccone) Crysania scoppiò a ridere.

Caramon la fissò dubbioso, forse pensando che fosse in preda a un attacco isterico. All’espressione perplessa sulla faccia dell’omone, Crysania rise ancora di più. In effetti, ridere le faceva provare una buona sensazione. L’oscurità della stanza parve venir sospinta indietro, le ombre si sollevarono dalla sua anima. Rise con allegria e, alla fine, invischiato dalla natura contagiosa della sua gioia, anche Caramon cominciò a ridere, pure se continuava a scuotere la testa, tutto rosso in faccia.

«Così gli dei ci ricordano che siamo umani,» disse Crysania, quando riuscì di nuovo a parlare, asciugandosi le lacrime dagli occhi. «Ci troviamo qui, nel più orribile luogo immaginabile, circondati da creature che aspettano con ansia di divorarci in un sol boccone, e tutto quello che adesso mi riesce di pensare è quanto sono disperatamente affamata!»

«Abbiamo bisogno di cibo,» replicò Caramon con calma, ritornando serio tutto d’un tratto. «E di indumenti decenti, se vogliamo rimanere qui a lungo.» Guardò suo fratello. «Per quanto tempo resteremo qui?»

«Non per molto,» rispose Raistlin. Aveva terminato la pozione, e la sua voce era già più forte. Un po’ di colore era riaffiorato sul suo pallido viso. «Mi serve tempo per riposare, per recuperare le mie forze, e per completare i miei studi. Questa dama,» i suoi occhi luccicanti fissarono Crysania, e lei rabbrividì al tono improvvisamente impersonale della sua voce, «ha bisogno di entrare in comunione con il suo dio e di rinnovare la sua fede. Poi saremo pronti a varcare il Portale. E allora, fratello mio, potrai andare dove vorrai.»

Crysania sentì l’occhiata interrogativa di Caramon, ma tenne il proprio volto immobile e privo d’espressione, anche se il freddo, casuale accenno di Raistlin all’ingresso nel temuto Portale, entrando nell’Abisso e affrontando la Regina delle Tenebre, le aveva raggelato il cuore. Perciò si rifiutò d’incontrare lo sguardo di Caramon e continuò a fissare il fuoco.

L’omone sospirò, poi si schiarì la gola. «Mi manderai a casa?» chiese al suo gemello.

«Se è là che desideri andare.»

«Sì,» ribadì Caramon con voce profonda e severa. «Voglio tornare da Tika e... parlare con Tanis.»

La sua voce si spezzò. «Dovrò... dovrò spiegargli in qualche modo che Tas è morto... là a Istar...»

«In nome degli dei, Caramon,» sbottò Raistlin, facendo un gesto d’irritazione con la mano sottile,

«pensavo che avessimo visto un barlume di maturità occhieggiare in quel tuo corpaccione! Senza alcun dubbio quando tornerai troverai Tasslehoff seduto nella tua cucina intento a deliziare Tika, snocciolandole una sciocca storia dopo l’altra, dopo averti svuotato la casa, nel frattempo!»

«Cosa?» Caramon impallidì, sgranando gli occhi.

«Ascolta, fratello mio!» sibilò Raistlin, puntando un dito contro Caramon. «Il kender si è condannato da se stesso quando ha scombussolato l’incantesimo di Par-sallian. C’è una buona ragione per impedire a quelli della sua razza, e alla razza dei nani e degli gnomi, di viaggiare indietro nel tempo. Dal momento che sono stati creati a causa di un incidente, per un ghiribizzo del destino e la disattenzione del dio Reorx, queste razze non si sono trovate all’interno del fiume del tempo come invece gli umani, gli elfi e gli orchi, le razze che per prime sono state create dagli dei.

«Così, il kender avrebbe potuto alterare il tempo, come ha subito intuito quando mi sono lasciato inavvertitamente sfuggire questo fatto. Non potevo permettere che ciò accadesse! Se avesse fermato il Cataclisma, com’era sua intenzione, chissà cosa avrebbe potuto succedere! Forse saremmo ritornati nel nostro tempo per scoprire che la Regina delle Tenebre regnava suprema e incontrastata, dal momento che il Cataclisma è stato mandato, in parte, per preparare il mondo alla sua venuta e dargli la forza di sconfiggerla...»

«Così, lo hai assassinato!» lo interruppe Caramon con voce roca.

«Gli ho detto come doveva fare per impadronirsi del congegno.» Raistlin quasi masticò le parole.

«Gli ho insegnato come usarlo, e l’ho rimandato a casa!»

Caramon sbatté le palpebre. «L’hai fatto davvero?» chiese sospettoso.

Raistlin sospirò e tornò ad appoggiare la testa sui cuscini della poltrona. «L’ho fatto, ma non mi aspetto che tu mi creda, fratello mio.» Le sue mani acconciarono fiaccamente le vesti nere che indossava. «Perché dovresti farlo, dopotutto?»

«Sai,» intervenne Crysania con voce sommessa, «mi pare di ricordare, durante quegli ultimi, terribili momenti prima che il terremoto colpisse Istar, di aver visto Tasslehoff. Era... con me... nella Camera Sacra...»

Vide gli occhi di Raistlin socchiudersi in una fessura. Il suo sguardo luccicante penetrò il suo cuore e la fece trasalire, distraendo per un attimo i suoi pensieri.

«Continua,» la sollecitò Caramon.

«Ri... ricordo che aveva con sé il congegno magico. Per lo meno, mi è parso che l’avesse. Ha detto qualcosa in proposito.» Crysania si portò la mano alla fronte. «Ma non riesco a pensare a cosa fosse. È... è tutto così tremendo e confuso! Ma... sono sicura di averlo sentito dire che aveva il congegno!»

Raistlin ebbe un lieve sorriso. «Sicuramente crederai a Dama Crysania, fratello mio!» Scrollò le spalle. «Un chierico di Paladine non può mentire.»

«Così, Tasslehoff si trova a casa? In questo preciso momento?» domandò Caramon, cercando di assimilare quella stupefacente informazione. «E quando tornerò, lo troverò...»

«... sano e salvo, e stracarico della maggior parte dei tuoi averi,» terminò Raistlin con sarcasmo. «Ma adesso dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a faccende più urgenti. Hai ragione, fratello mio, abbiamo bisogno di cibo e d’indumenti caldi, ed è improbabile che troveremo qui l’uno e gli altri. L’epoca nella quale ci siamo spostati si trova circa un centinaio di anni dopo il Cataclisma. Questa Torre,» agitò la mano intorno a sé, «è rimasta deserta durante tutti questi anni. Adesso è custodita dalle creature della tenebra evocate dalla maledizione del fruitore di magia il cui corpo è ancora Impalato sulle punte della ringhiera sotto di noi. Intorno ad essa è cresciuto Il bosco di Shoikan, e non c’è nessuno in tutto Krynn che osi entrarvi.

«Nessuno, salvo me, naturalmente. No, nessuno può entrare. Ma i guardiani non impediranno che uno di noi, tu, fratello mio, per esempio, esca. Andrai a Palanthas e comprerai cibo e indumenti. Potrei produrli io, con la magia, ma non oso sprecare inutilmente energia da adesso fino al momento in cui io, vale a dire Crysania ed io, varcheremo il Portale.»

Caramon spalancò gli occhi. Il suo sguardo andò alle finestre annerite dalla fuliggine, i suoi pensieri alle orripilanti storie che si raccontavano sul bosco di Shoikan che si stendeva più oltre. «ti darò un amuleto che ti proteggerà,» fratello mio,» aggiunse Raistlin, esasperato, vedendo l’espressione spaventata sul volto di Caramon. «In realtà, un amuleto sarà necessario, ma non per aiutarti ad attraversare il Bosco. Qui dentro è molto più pericoloso. I guardiani mi obbediscono ma hanno sete del tuo sangue. Non metter piede fuori di questa stanza senza di me. Ricordalo. E anche tu, Dama Crysania.»

«Dove... dove si trova questo Portale?» chiese Caramon all’improvviso.

«Nel laboratorio sopra di noi, in cima alla Torre,» rispose Raistlin. «I portali venivano tenuti nel luogo più sicuro che gli stregoni potessero concepire, poiché, come puoi ben immaginare, sono estremamente pericolosi.»

«È tipico degli stregoni immischiarsi in cose che farebbero assai bene a lasciar stare,» ringhiò Caramon. «In nome degli dei, perché mai hanno creato una porta sull’Abisso?»

Congiungendo le punte delle dita, Raistlin fissò il fuoco, parlando alle fiamme come se fossero le uniche che avessero il potere di capirlo.

«Quando c’è sete di conoscenza, molte cose vengono create. Alcune sono buone e tutti noi ne traiamo beneficio. Una spada nella tua mano, Caramon, difende la causa della giustizia e della verità, e protegge gli innocenti. Ma una spada nella mano di... diciamo della nostra amata sorella Kitiara, troncherebbe in due la testa degli innocenti, se ciò facesse i suoi interessi. È forse colpa di colui che ha creato la spada?»

«N...» cominciò a dire Caramon, ma il suo gemello lo ignorò.

«Molto tempo fa, durante l’Era dei Sogni, quando i fruitori di magia erano rispettati e la magia fioriva su Krynn, le cinque Torri della Grande Stregoneria si ergevano come fari di luce nel buio mare dell’ignoranza che si stendeva su questo mondo. Là venivano operate grandi magie che andavano a beneficio di tutti. E c’erano progetti per attuarne anche di più grandi. Chi lo sa? adesso avremmo potuto cavalcare i venti, librarci nei cieli come i draghi. Forse avremmo perfino potuto lasciare questo mondo e andare ad abitare su altri, molto, molto lontani...»

La sua voce si era fatta sommessa e tranquilla. Caramon e Crysania ascoltavano immobili, incantati dal suono della sua voce, ammaliati dalla visione della sua magia.

Sospirò. «Ma così non sarebbe stato. Nel desiderio di accelerare le loro grandi opere, gli stregoni decisero che era indispensabile comunicare direttamente gli uni con gli altri, da una Torre all’altra, senza bisogno degli scomodi incantesimi di teletrasporto. E così vennero costruiti i Portali.»

«Ci riuscirono, dunque?» Gli occhi di Crysania brillarono di meraviglia.

«Sì, ci riuscirono!» sbuffò Raistlin. «Al di là dei loro sogni più sfrenati,» abbassò la voce, «e dei loro peggiori incubi. Poiché i Portali non soltanto davano la possibilità di trasferirsi con un solo passo dall’una all’altra Torre o fortezza della magia, anche le più remote, ma anche di accedere ai regni degli dei, come un inetto stregone del mio stesso ordine ebbe a scoprire per propria sventura.»

D’un tratto Raistlin rabbrividì, e si strinse ancora più addosso le vesti nere, rannicchiandosi vicino al fuoco.

«Tentato dalla Regina delle Tenebre, come soltanto lei può tentare i mortali quando decide di farlo,» il volto di Raistlin impallidì ancora di più, «usò il Portale per entrare nel suo regno e conquistare il premio che lei gli offriva ogni notte, nei suoi sogni.» Raistlin scoppiò a ridere, una risata amara, sarcastica.

«Sciocco! Cosa gli sia successo non lo sa nessuno. Non fece mai più ritorno attraverso il Portale. Ma la Regina lo fece. E con lei arrivarono legioni di draghi...»

«Le prime Guerre dei Draghi!» rantolò Crysania.

«Sì, causateci da uno della mia razza sprovvisto di disciplina e di autocontrollo. Il quale si era lasciato sedurre...» Interrompendosi, Raistlin fissò pensieroso il fuoco.

«Ma questo io non l’avevo mai sentito!» protestò Caramon. «Secondo le leggende, i draghi arrivarono insieme a...»

«La tua storia è limitata alle favole che si raccontano ai bambini quando vanno a letto, fratello mio!» esclamò Raistlin, insofferente. «E dimostra, infatti, quanto poco tu sappia dei draghi. Sono creature indipendenti, orgogliose, egocentriche, e del tutto incapaci di mettersi insieme per cucinare la cena, e ancora meno di coordinare qualunque sforzo per intraprendere una guerra. No, quella volta la Regina entrò nel mondo in tutta la sua completezza, non soltanto l’ombra che era stata durante la nostra guerra contro di lei. Intraprese la guerra contro il mondo e fu soltanto grazie al grande sacrificio di Huma che venne ricacciata.»

Raistlin tacque per qualche istante con le mani sulle labbra, riflettendo. «Qualcuno dice che Huma non usò la Dragonlance per distruggerla fisicamente, come narra la leggenda. Ma che piuttosto la lancia avesse alcune proprietà magiche e che gli permisero di ricacciare la Regina dentro il Portale e chiuderlo ermeticamente. Il fatto che l’abbia ricacciata dimostra che, in questo mondo, ella è vulnerabile.» Raistlin fissò le fiamme. «Se ci fosse stato qualcuno... qualcuno dotato di un vero potere, al Portale, quando entrò, qualcuno capace di distruggerla del tutto invece di ricacciarla semplicemente indietro, allora è senz’altro possibile che la storia sarebbe stata riscritta.»

Nessuno parlò. Crysania teneva gli occhi fissi sulle fiamme, vedendovi forse la stessa visione gloriosa dell’arcimago. Caramon fissò il volto del suo gemello.

Lo sguardo di Raistlin lasciò all’improvviso le fiamme, lampeggiando e tornando a fuoco con gelida e limpida intensità. «Domani, quando sarò più forte, salirò da solo nel laboratorio,» la sua occhiata severa spazzò sia Caramon che Crysania, «e comincerò i miei preparativi. Tu, Dama, sarà meglio che inizi ad entrare in comunione con il tuo dio.»

Crysania deglutì nervosamente. Rabbrividendo, tirò la sua poltrona più vicina al fuoco. Ma d’un tratto, Caramon si alzò in piedi fermandosi davanti a lei. Chinandosi, le strinse le braccia con le mani robuste, costringendola a guardarlo negli occhi.

«Questa è follia. Dama,» disse con voce sommessa e compassionevole. «Lascia che ti porti via da questo luogo buio! Tu sei spaventata, e hai delle buone ragioni per esserlo! Forse non tutto ciò che Par-sallian ha detto su Raistlin era vero. Forse neppure tutto quello che ho pensato su di lui era vero. Forse l’ho giudicato male. Ma questa è una cosa che vedo chiaramente, Dama: sei spaventata, e non ti biasimo! Lascia che Raistlin faccia questa cosa da solo! Lascialo sfidare gli dei, se è questo che vuole! Ma non andare con lui... torna a casa! Lascia che ti riporti nel tuo tempo, lontano da qui.»

Raistlin non parlò, ma i suoi pensieri echeggiarono nella mente di Crysania con la stessa chiarezza come se li avesse pronunciati ad alta voce. Hai sentito il Gran Sacerdote! Hai detto tu stessa che conosci il suo errore! Paladine ti favorisce. Perfino in questo luogo tenebroso esaudisce le tue preghiere. Sei tu la sua prescelta! Tu avrai successo dove il Gran Sacerdote ha fallito! Vieni con me, Crysania. È questo il nostro destino!

«Sì, sono spaventata,» disse Crysania, liberando con gentilezza le proprie braccia dalle mani di Caramon. «E la tua preoccupazione per me mi commuove davvero. Ma questa mia paura è una debolezza che devo combattere. Con l’aiuto di Paladine la vincerò, prima di entrare nel Portale insieme a tuo fratello.»

«Così sia, allora,» replicò Caramon con gravità, distogliendo lo sguardo.

Raistlin sorrise, un sorriso tenebroso, segreto, che non si rifletté nei suoi occhi, e neppure nella sua voce.

«E adesso, Caramon,» disse caustico, «se hai finito d’immischiarti in faccende che sei del tutto incapace di comprendere, farai meglio a prepararti per il tuo viaggio. È metà mattina, adesso. I mercati, per quello che sono in quest’epoca di desolazione, stanno giusto per aprirsi.» Affondando una mano in una tasca delle sue vesti nere, Raistlin tirò fuori diverse monete e le lanciò a suo fratello. «Questo dovrebbe essere sufficiente per i nostri bisogni.»

Caramon afferrò al volo le monete, con un movimento istintivo. Poi esitò, fissando suo fratello con la stessa espressione che Crysania gli aveva visto assumere nel Tempio a Istar, e ricordò di aver pensato: che terribile odio... che terribile amore!

Infine Caramon abbassò lo sguardo, ficcando il denaro nella cintura.

«Vieni qui da me, Caramon,» disse Raistlin con voce sommessa.

«Perché?» borbottò Caramon, d’un tratto sospettoso.

«Be’, c’è la faccenda di quel collare di ferro intorno al tuo collo. Vuoi camminare per le strade mostrando ancora quel marchio di schiavitù? E qui c’è l’amuleto.» Raistlin parlò con infinita pazienza, ma vedendo che Caramon esitava ancora, aggiunse: «Ti consiglierei di non lasciare questa stanza senza di esso. Comunque, la decisione è tua...»

Lanciando un’occhiata alle pallide facce che li stavano ancora osservando attentamente dalle ombre, Caramon si fermò davanti a suo fratello, con le braccia incrociate sul petto. «E adesso, cosa?» ringhiò.

«Inginocchiati davanti a me.»

Gli occhi di Caramon lampeggiarono di collera. Un’amara imprecazione gli ardeva sulle labbra ma, lanciando un’occhiata furtiva in direzione di Crysania, deglutì e si rimangiò le parole.

Il volto pallido di Raistlin appariva rattristato. Sospirò. «Sono esausto, Caramon. Non ho la forza di alzarmi. Per favore...»

Serrando le mascelle, Caramon si abbassò lentamente, piegando il ginocchio sul pavimento, così da trovarsi alla stessa altezza del suo fragile gemello abbigliato di nero.

Raistlin bisbigliò una parola. Il collare di ferro di spezzò in due e cadde giù dal collo di Caramon, rimbalzando con uno sferragliare metallico sul pavimento.

«Vieni più vicino,» disse Raistlin.

Deglutendo, sfregandosi il collo, Caramon fece come gli veniva detto, anche se fissò suo fratello con amarezza. «Faccio questo per Crysania,» disse con voce tesa. «Se si trattasse soltanto di te e di me, ti lascerei marcire in questo posto immondo!»

Tendendo le mani, Raistlin le appoggiò su entrambi i lati della testa dei suo gemello con un gesto che apparve tenero, quasi carezzevole. «Lo faresti, fratello mio?» chiese Raistlin a Caramon con voce così sommessa da essere poco più di un sussurro. «Mi lasceresti? Là, ad Istar, mi avresti davvero ucciso?»

Caramon si limitò a fissarlo, incapace di rispondere. Poi, Raistlin si chinò in avanti e baciò suo fratello sulla fronte. Caramon sussultò, come se fosse stato toccato da un ferro rovente.

Raistlin lasciò la stretta.

Caramon lo fissò angosciato. «Non lo so!» mormorò con voce rotta. «Che gli dei mi aiutino, non lo so!»

Con un singhiozzo straziante, si coprì la faccia con le mani. La sua testa affondò sulle ginocchia del fratello.

Raistlin accarezzò i suoi riccioluti capelli castani. «Suvvia, Caramon,» gli disse con voce gentile.

«Ti ho dato l’amuleto. Ora le creature della tenebra non possono farti del male, no, fintanto che io sono qui.».

Capitolo quinto.

Caramon si fermò sulla soglia dello studio scrutando il corridoio più oltre, un’oscurità che era viva di bisbigli e occhi. Accanto a lui c’era Raistlin, con una mano sul braccio del gemello e il Bastone di Magius nell’altra.

“Tutto andrà bene, fratello mio,” disse Raistlin con voce sommessa. “Fidati di me.”

Caramon sbirciò fugacemente il fratello con la coda dell’occhio. Cogliendo la sua espressione, Raistlin ebbe un sorriso sardonico.

“Ti farò accompagnare da uno di questi,” continuò il mago, facendo un gesto con la mano sottile.

“Preferirei di no!” borbottò Caramon, accigliandosi quando il paio di occhi incorporei che gli erano più vicini si avvicinò ancora di più.

“Assistilo,” ordinò Raistlin a quegli occhi. “È sotto la mia protezione. Mi vedi? Sai chi sono?”

Gli occhi abbassarono il loro sguardo, reverenti, poi si fissarono freddi e spettrali su Caramon. Il grosso guerriero rabbrividì e lanciò un’ultima occhiata a Raistlin, soltanto per vedere il volto di suo fratello farsi cupo e severo.

“I guardiani ti condurranno sano e salvo attraverso il Bosco.

“Però, potresti avere altre cose da temere, una volta che l’avrai lasciato, fratello mio. Questa città non è il posto bello e sereno che diventerà fra duecento anni. Adesso è affollata di profughi che vivono nelle fogne, per le strade, dovunque sia possibile. Ogni mattino i carri passano rumoreggiando sull’acciottolato per rimuovere i corpi di coloro che sono morti durante la notte. Là fuori ci sono ancora uomini pronti ad assassinarti per rubarti gli stivali. Compera una spada per prima cosa e tienila apertamente in pugno.”

“Mi preoccuperò io della città,” sbottò Caramon. Si girò di scatto e si allontanò lungo il corridoio, cercando senza molto successo d’ignorare i pallidi occhi ardenti che fluttuavano accanto alla sua spalla.

Raistlin osservò la scena fino a quando suo fratello e il guardiano non ebbero superato il bagliore della luce magica del Bastone, venendo inghiottiti dalla malsana oscurità. Aspettando fino a quando perfino l’eco dei passi di suo fratello si fu dissolto, Raistlin si voltò e rientrò nello studio.

Dama Crysania sedeva sulla sua poltrona cercando, senza troppo successo, di pettinarsi con le dita i capelli aggrovigliati. Arrivando accanto a lei senza farsi vedere, dopo aver attraversato il pavimento con passo felpato, Raistlin affondò la mano in una delle tasche delle sue vesti nere e ne estrasse una manciata di sottile sabbia bianca. Avvicinandosi alle sue spalle, il mago sollevò la mano e lasciò che la sabbia colasse giù sui capelli scuri della donna.

“Ast tasark simiralan krynawi,” bisbigliò Raistlin, e quasi subito la lesta di Crysania le ricadde sul petto, gli occhi le si chiusero, e la donna entrò in un sonno profondo e magico. Spostandosi così da trovarsi davanti a lei, Raistlin la fissò per lunghi momenti.

Nonostante si fosse lavata via dal viso le chiazze di sangue e di lacrime, i segni del viaggio attraverso la tenebra erano ancora visibili nelle ombre azzurre sotto le sue lunghe ciglia e nel pallore della sua carnagione; un taglio spiccava sopra il suo labbro. Allungando una mano, Raistlin le lisciò i capelli che le ricaddero in ciocche scure intorno agli occhi.

Crysania aveva buttato da parte la tenda di velluto nero che aveva usato come coperta, quando la stanza aveva cominciato a scaldarsi grazie al fuoco. Le sue bianche vesti, lacerate e macchiate di sangue, le si erano sciolte intorno al collo. Raistlin poteva vedere la morbida curva del suo seno sotto il tessuto bianco, che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro profondo e costante.

“Se io fossi come gli altri uomini, sarebbe mia,” disse Raistlin con voce sommessa.

La sua mano si attardò intorno al volto di lei, arricciandosi intorno alle dita i suoi capelli scuri e crespi.

“Ma io non sono come gli altri uomini,” proseguì il giovane mago. Lasciò ricadere i suoi capelli, prese la tenda e gliel’avvolse di nuovo intorno alle spalle e al corpo addormentato. Crysania sorrise, forse stava facendo un sogno dolcissimo, e si rannicchiò ancora di più nella poltrona, appoggiando la mano sul bracciolo e facendovi riposare sopra la testa.

Raistlin passò la mano sulla pelle liscia del viso di Crysania, richiamando alla memoria vivi ricordi.

Cominciò a tremare. Non doveva fare altro che invertire l’incantesimo del sonno, prenderla fra le braccia, stringerla come l’aveva stretta quando aveva lanciato il magico incantesimo che li aveva portati in questo luogo. Avrebbero avuto un’ora da soli prima che Caramon tornasse...

“Io non sono come gli altri uomini!” ringhiò Raistlin.

Di scatto, si scostò, e il suo sguardo arcigno incontrò gli occhi fissi e attenti dei guardiani.

“Proteggetela mentre io non ci sono,” disse ai molti spettri semivisibili che si libravano nell’aria, annidandosi fra le ombre cupe negli angoli dello studio. “Voi due,” ordinò a quelli che si erano trovati con lui quando si era svegliato, “accompagnatemi.”

“Sì, Maestro,” mormorarono i due. Quando la luce del Bastone cadde su di loro, divennero visibili i deboli contorni di vesti nere.

Uscendo fuori in corridoio, Raistlin chiuse con molta attenzione la porta dello studio alle proprie spalle. Strinse il Bastone, pronunciò con voce sommessa una singola parola di comando, e venne trasportato all’istante nel laboratorio in cima alla Torre della Grande Stregoneria.

Non aveva ancora avuto il tempo di tirare un respiro quando venne aggredito da qualcosa che si era materializzato dalla tenebra.

Urla stridule e ululati d’indignazione si levarono intorno a lui. Forme scure sfrecciarono dall’oscurità, sfidando la luce del Bastone, mentre dita bianche come ossa lo ghermivano alla gola e gli afferravano le vesti, lacerando il tessuto. L’attacco era stato talmente rapido e improvviso e così orrenda l’ondata d’odio, che Raistlin rischiò d’essere irrimediabilmente travolto.

Ma quasi subito riprese la padronanza di sé. Facendo descrivere al Bastone un ampio arco, urlando rauche parole magiche, respinse gli spettri.

“Parlate con loro!” ordinò ai due guardiani che erano con lui. “Dite loro chi sono!”

“Fistandantilus,” sentì che dicevano in mezzo al frastuono che gli rombava nelle orecchie. “Anche se il suo tempo non è ancora venuto com’è stato predetto... un esperimento di magia...”

Indebolito e stordito, Raistlin raggiunse barcollando una poltrona e si accasciò su di essa.

Maledicendosi amaramente per essersi trovato impreparato a un assalto come quello e imprecando a quel suo corpo debole che ancora una volta lo tradiva, si asciugò il sangue da un taglio sul viso e lottò per non perdere i sensi.

Questa è opera tua, mia Regina. I pensieri gli affluivano tetri attraverso una nebbia di dolore. Non osi combattere apertamente. Sono troppo forte per te su questo... mio piano... d’esistenza! Hai la tua testa di ponte in questo mondo. Già da ora il tuo Tempio è comparso a Neraka nella sua forma perversa. Hai svegliato i draghi del male. Stanno rubando le uova dei draghi buoni. Ma la porta rimane chiusa, la Pietra delle Fondamenta è stata bloccata dal sacrificio altruistico dell’amore. E questo è stato il tuo errore poiché adesso, grazie al tuo ingresso nel nostro piano, hai reso possibile il nostro ingresso nel tuo! Non posso ancora raggiungerti... tu non puoi raggiungere me... Ma verrà il momento... verrà il momento...

“Non ti senti bene, Maestro?” chiese una voce spaventata accanto a lui. “Sono davvero desolato che non ci sia stato possibile impedire che ti facessero del male, ma ti sei mosso troppo in fretta! Per favore, perdonaci. Lascia che ti aiutiamo...”

“Non potete far nulla!” ringhiò Raistlin, tossendo. Sentì alleviarsi il dolore nel petto. “Lasciatemi solo un momento... Ho bisogno di riposare. Cacciate fuori di qui questi altri.”

“Sì, Maestro.”

Chiudendo gli occhi, aspettando che passassero quell’orrendo stordimento e il dolore, Raistlin rimase seduto per un’ora nel buio a rivedere mentalmente i suoi piani. Aveva bisogno di due settimane ininterrotte di riposo e di studio per prepararsi. Qui avrebbe potuto trovare facilmente quel tempo. Crysania era sua, l’avrebbe seguito volontariamente, addirittura con slancio, invocando i poteri di Paladine per aiutarlo ad aprire il Portale e combattere gli spaventevoli guardiani che si trovavano al di là di esso.

Disponeva delle conoscenze di Fistandantilus, conoscenze accumulate dal mago nell’arco dei secoli.

E aveva anche le proprie conoscenze, oltre alla forza del suo giovane corpo. Quando fosse stato pronto ad entrare, si sarebbe trovato all’apice del suo potere, il più grande arcimago mai vissuto su Krynn!

Questo pensiero lo confortò e gli diede rinnovata energia. Finalmente lo stordimento scomparve, il dolore si attenuò. Alzandosi in piedi lanciò una rapida occhiata intorno a sé. Riconosceva il laboratorio, naturalmente. Aveva esattamente lo stesso aspetto di quando vi era entrato in un passato che adesso si trovava duecento anni nel futuro. Allora vi era giunto con il potere, com’era stato predetto. La porta si era aperta, i guardiani malefici l’avevano accolto con reverenza, non l’avevano aggredito.

Mentre percorreva il laboratorio con il Bastone di Magius che gli illuminava la strada, Raistlin lanciò intorno a sé occhiate incuriosite. Notò delle strane differenze che lo lasciavano perplesso.

Ogni cosa avrebbe dovuto essere esattamente com’era quando sarebbe arrivato tra duecento anni.

Ma un becher adesso intatto era rotto quando l’aveva trovato. E un libro degli incantesimi giaceva sul pavimento mentre adesso si trovava sopra un grande tavolo di marmo.

“I guardiani toccano gli oggetti?” chiese ai due che erano rimasti con lui. Le vesti gli frusciarono intorno alle caviglie mentre si dirigeva verso l’estremità opposta del vasto laboratorio, avvicinandosi alla Porta Che Non Veniva Mai Aperta.

“Oh, no, Maestro” rispose uno dei due, sbigottito. “Non ci è permesso toccare alcunché.”

Raistlin scrollò le spalle. Un mucchio di cose potevano accadere in duecento anni, per spiegare fatti come quelli. “Forse un terremoto,” commentò fra sé, perdendo interesse alla cosa mentre si avvicinava alle ombre prospicienti il Portale.

Sollevando il Bastone di Magius, fece risplendere davanti a sé la luce magica. Le ombre fuggirono dal lato più lontano del laboratorio, l’angolo in cui si trovava il Portale con le sue incisioni in platino che raffiguravano le cinque teste di drago, e i suoi giganteschi battenti d’argento e acciaio che nessuna chiave su Krynn poteva aprire.

Raistlin sollevò in alto il Bastone... e dette in un rantolo.

Per lunghi momenti non potè fare altro che guardare, respirando affannosamente, con i pensieri che ribollivano e ardevano. Poi il suo urlo acuto di rabbia, collera e furore penetrò il tessuto vivente dell’oscurità della Torre.

Talmente orrendo fu il grido che echeggiò attraverso i bui corridoi della Torre, che i guardiani malefici si rintanarono in mezzo alle loro ombre, chiedendosi se per caso la temuta Regina non fosse piombata in mezzo a loro.

Caramon udì il grido quando varcò la porta ai piedi della Torre. Rabbrividendo per l’improvviso terrore, lasciò cadere i pacchi che trasportava e, con mano tremante, accese la torcia che aveva portato con sé. Poi, stringendo in pugno la lama nuda della nuova spada che aveva comperato, il grosso guerriero salì di corsa la scala, a due gradini per volta.

Piombando nello studio, vide Dama Crysania che si guardava intorno con occhi assonnati e impauriti.

“Ho sentito un urlo...” disse, sfregandosi gli occhi e alzandosi in piedi.

“Stai bene?” ansimò Caramon, cercando di riprendere fiato.

“Sì... sì...” lei rispose, sorpresa, quando si rese conto di quello che lui stava pensando. “Non sono stata io. Devo essermi addormentata. Mi ha svegliato...”

“Dov’è Raist?” volle sapere Caramon.

“Raistlin!” ripetè lei, allarmata, e fece per uscire dalla porta, oltrepassando Caramon, ma lui l’afferrò.

“È per questo che hai dormito,” disse con voce cupa, toccandole i capelli e facendo scivolare giù da essi una sottile sabbia bianca. “L’incantesimo del sonno.”

Crysania sbatté le palpebre. “Ma perché...”

“Lo scopriremo.”

“Guerriero,” disse una voce gelida, quasi sfiorandogli l’orecchio.

Girandosi di scatto, Caramon scagliò Crysania dietro di sé, sollevando la spada quando una figura spettrale abbigliata di nero si materializzò nella tenebra. “Cerchi lo stregone? È di sopra, nel laboratorio. Ha bisogno di aiuto, ma ci è stato ordinato di non toccarlo.”

“Vado,” esclamò Caramon. “Da solo.”

“Vengo con te,” replicò Crysania. “Sì, con te,” ripetè in tono deciso, in risposta all’accigliarsi di Caramon.

Questi fece per discutere poi, ricordando che lei era un chierico di Paladine e già una volta aveva esercitato i suoi poteri su quelle creature delle tenebre, scrollò le spalle e si arrese, anche se con assai poca grazia.

“Cosa gli è successo, se vi è stato dato l’ordine di non toccarlo?” chiese Caramon con voce burbera allo spettro, mentre insieme a Crysania lo seguiva fuori dallo studio nel buio corridoio.

“Rimani vicino a me,” borbottò rivolto a Crysania, ma l’ordine non era necessario.

Se prima l’oscurità era parsa animata, adesso pulsava, palpitava, fremeva di vita, mentre i guardiani, sconvolti dall’urlo, si accalcavano nei corridoi. Anche se adesso era vestito con indumenti caldi che aveva comperato al mercato, Caramon rabbrividiva convulsamente per il gelo che s’irradiava dai loro corpi non morti. Accanto a lui Crysania tremava al punto che quasi non riusciva a camminare.

“Lascia che regga io la torcia,” disse a denti stretti. Caramon le porse la torcia, poi la cinse con il braccio destro, attirandola a sé. Lei gli mise il braccio intorno alla vita: entrambi traevano conforto dalla carne vivente mentre salivano la scala dietro allo spettro.

“Cos’è successo?” chiese di nuovo Caramon, ma lo spettro non rispose. Si limitò semplicemente a indicare la scala a chiocciola che si dipanava sopra di loro.

Stringendo la spada nella mano sinistra, Caramon seguì, insieme a Crysania, lo spettro che fluiva su per le scale, con la luce della torcia che danzava e ondeggiava.

Dopo quella che parve una scalata interminabile, i due raggiunsero la cima della Torre della Grande Stregoneria, entrambi doloranti e spaventati, raggelati fino al cuore.

“Dobbiamo riposare,” sussurrò Caramon con un filo di voce tra labbra intirizzite. Crysania si appoggiò a lui, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso. Lo stesso Caramon, che pure si trovava in eccellenti condizioni fisiche, ritenne adesso di non essere assolutamente in grado di salire un’altra rampa.

“Dov’è Raist... Fistandantilus?” balbettò Crysania, dopo che il suo respiro fu ritornato quasi normale.

“All’interno.” Lo spettro indicò di nuovo, questa volta una porta chiusa. Mentre la indicava, la porta si mosse, spalancandosi in silenzio.

Un soffio d’aria gelida uscì dalla stanza come un’onda scura, increspando i capelli di Caramon e soffiando di Iato il mantello di Crysania. Per un momento, Caramon non riuscì a muoversi. La sensazione di malvagità che usciva da quella stanza era sopraffacente. Ma Crysania, con la mano stretta saldamente sopra il medaglione di Paladine, cominciò ad avanzare.

Allungando una mano, Caramon la tirò indietro. “Lasciami andare per primo.”

Crysania gli rivolse uno stanco sorriso. “In qualunque altra occasione, salvo questa, guerriero,” gli disse, “ti concederei il privilegio. Ma qui, il medaglione che possiedo è un’arma formidabile quanto la tua spada.”

“Non hai bisogno di nessun’arma,” dichiarò lo spettro con freddezza. “Il Maestro ci ha ordinato di assicurarci che non vi venisse fatto alcun male. Obbediremo alla sua richiesta.”

“E se fosse morto?” chiese Caramon aspro, sentendo Crysania che s’irrigidiva per la paura dietro di lui.

“Se fosse morto,” rispose lo spettro con un luccichio negli occhi, “il vostro sangue caldo sarebbe già sulle nostre labbra. Adesso entrate.”

Esitando, seguito dappresso da Crysania, Caramon entrò nel laboratorio. Crysania sollevò la torcia, reggendola alta, mentre entrambi si fermavano, guardandosi intorno.

“Là,” bisbigliò Caramon; l’innata intimità che esisteva fra i gemelli lo condusse verso la massa scura appena visibile sul pavimento in fondo al laboratorio.

Dimenticando le sue paure, Crysania si affrettò ad avanzare. Caramon la seguì più lentamente, scrutando guardingo la tenebra.

Raistlin giaceva disteso sul fianco, con il cappuccio tirato sul viso. Il Bastone di Magius giaceva a una certa distanza da lui, la sua luce era spenta, come se Raistlin, in preda a una rabbia amara, l’avesse scagliato lontano da sé. A quanto pareva, durante il suo volo aveva rotto un becher e fatto cadere sul pavimento un libro d’incantesimi.

Porgendo a Caramon la torcia, Crysania s’inginocchiò accanto al mago e gli tastò il collo alla ricerca del battito della vita. Era debole e irregolare, ma indubbiamente Raistlin era vivo. Crysania tirò un sospiro di sollievo, poi scosse la testa. “Sta bene, ma non capisco. Cosa gli è successo?”

“Non è ferito fisicamente,” disse lo spettro, librandosi accanto a loro. “È venuto su questo lato del laboratorio come se cercasse qualcosa, borbottando di un Portale. Tenendo alto il Bastone, si è fermato là dove si trova adesso, guardando dritto davanti a sé. Poi ha urlato, ha scagliato via il Bastone, ed è caduto sul pavimento, imprecando in preda al furore fino a quando non ha perduto conoscenza.”

Perplesso, Caramon sollevò la torcia. “Mi chiedo cosa possa essere successo,” mormorò. “Ma qui non c’è niente! Niente, salvo una parete vuota!”.

Capitolo sesto.

«Come si è comportato?» chiese Crysania con voce sommessa quando entrò nella stanza. Scostando il bianco cappuccio dalla testa, si slacciò il mantello per consentire a Caramon di sfilarglielo dalle spalle.“Irrequieto,” rispose il guerriero, lanciando un’occhiata verso un angolo in ombra. «Aspettava con impazienza il tuo ritorno.»

Crysania sospirò e si morse il labbro. «Vorrei avere notizie migliori.»«Sono lieto che tu non le abbia,” dichiarò Caramon in tono severo, ripiegando il mantello di Crysania sopra una sedia. «Forse rinuncerà a questa folle idea e tornerà a casa»

«Non posso...» cominciò a dire Crysania, ma venne interrotta.

«Se voi due avete finito con qualunque cosa stiate facendo là al buio, forse vorrai venirmi a riferire quello che hai scoperto, Dama.»

Crysania arrossì intensamente. Lanciando un’occhiata irritata a Caramon, attraversò di corsa la stanza fin dove Raistlin era disteso su un giaciglio accanto al fuoco.

La collera del mago era costata parecchio. Caramon l’aveva trasportato giù dal laboratorio, dove l’avevano trovato disteso davanti alla parete di nuda pietra, fino allo studio. Crysania aveva improvvisato un letto sul pavimento, poi aveva guardato impotente Caramon che curava suo fratello con la stessa delicatezza di una madre nei confronti di un bambino malato. Ma c’era assai poco che perfino l’omone avesse potuto fare per il suo fragile gemello. Raistlin era rimasto privo di sensi per più di un giorno, borbottando strane parole nel suo oblio. A un certo punto si era svegliato, urlando per il terrore, ma subito era risprofondato nell’oscurità, qualunque fosse, in cui stava vagando.

Privi della luce del Bastone che neppure il guerriero aveva osato toccare e che, quindi, era stato costretto a lasciare nel laboratorio, Caramon e Crysania sedevano rannicchiati accanto a Raistlin.

Avevano tenuto acceso il fuoco, ma erano entrambi ben consci della presenza, nell’ombra, dei guardiani della Torre, che aspettavano e osservavano.

Infine Raistlin si svegliò. Con il suo primo respiro ordinò a Caramon di preparargli la pozione e, dopo averla bevuta, fu in grado di mandare uno dei guardiani a prendere il Bastone. Poi fece segno a Crysania: «Devi andare da Astinus,» bisbigliò.

«Astinus!» Crysania ripetè con espressione stupefatta, senza capire. «Lo storico? Ma perché, non capisco...»

Gli occhi di Raistlin scintillarono, una chiazza di colore ardeva sulle sue pallide guance con un fulgore febbrile. «Il Portale non è qui!» ringhiò, digrignando i denti con furore impotente. Serrò le mani e quasi subito cominciò a tossire. Fissò Crysania con occhi furenti.

«Non sprecare il mio tempo con domande sciocche! Vai e basta!» le ordinò con una collera così terribile che lei si ritrasse, stupefatta. Raistlin cadde all’indietro, annaspando per respirare.

Preoccupato, Caramon sollevò lo sguardo su Crysania. Lei si avvicinò alla scrivania fissando, senza vederli, alcuni dei libri d’incantesimi anneriti e sbrindellati che giacevano su di essa.

«Adesso aspetta un momento, Dama,» disse Caramon con voce sommessa, alzandosi in piedi e venendo verso di lei. «Non penserai davvero di andare? E poi, chi è questo Astinus? E come pensi di attraversare il Mosco senza un amuleto?»

«Ho un amuleto,» mormorò Crysania. «Me lo diede tuo fratello quando... ci siamo incontrati la prima volta. In quanto ad Astinus, è il custode della Grande Biblioteca di Palanthas, il Cronista della Storia di Krynn.»

«Potrà anche esserlo alla nostra epoca, ma adesso certamente non sarà là!» esclamò Caramon, esasperato. «Pensaci, Dama!»

«Ci sto pensando,» sbottò Crysania, lanciandogli un’occhiata incollerita. «Astinus è conosciuto come il Senza Età. È stato il primo a mettere piede su Krynn, così dicono le leggende, e sarà l’ultimo a lasciarlo.»

Caramon la fissò, scettico.

«Registra tutta la storia a mano a mano che passa, sa tutto quello che è accaduto nel passato e quello che accade nel presente. ma,» Crysania lanciò a Raistlin un’occhiata preoccupata, «non può vedere il futuro. Perciò non sono sicura di quale aiuto potrà esserci.»

Caramon era ancora dubbioso e, ovviamente, non credendo neppure alla metà di quella storia inverosimile, aveva discusso a lungo per cercare d’indurla a non andare. Ma Crysania era divenuta ancora più decisa, fino a quando perfino Caramon si era reso conto di non avere nessun’altra scelta.

Raistlin era peggiorato, invece di migliorare. La pelle gli bruciava per la febbre, piombava in periodi di completa incoerenza e, quand’era di nuovo se stesso, voleva sapere con rabbia per quale motivo Crysania non fosse ancora andata a far visita ad Astinus.

Così, Crysania aveva affrontato i terrori del Bosco, e quelli ugualmente spaventosi delle strade di Palanthas. Adesso s’inginocchiò accanto al letto del mago, con il cuore addolorato nel vedere che lottava per rizzarsi a sedere, con l’aiuto di suo fratello, il suo sguardo luccicante fisso avidamente su di lei.

«Dimmi tutto» le intimò con voce roca. «Esattamente com’è successo. Non lasciare fuori niente.»

Annuendo muta, ancora scossa dalla terrorizzante camminata attraverso la Torre, Crysania si sforzò di calmarsi e di districare i propri pensieri.

«Sono andata nella Grande Biblioteca e... e ho chiesto di vedere Astinus,» cominciò a dire, lisciando nervosamente le pieghe della semplice veste bianca che Caramon le aveva portato per sostituire il vestito macchiato di sangue che prima aveva indossato. «Gli estetici si sono rifiutati di farmi entrare, ma poi ho loro mostrato il medaglione di Paladine. Questo li ha gettati nella confusione, come puoi ben immaginare. Da cento anni non si manifestava più alcun segno degli antichi dei, così, alla fine, uno di loro è corso ad avvertire Astinus.

«Dopo aver aspettato un po’, sono stata condotta nella camera dove siede tutto il giorno e molte volte fino a notte inoltrata, a registrare la storia del mondo.» Crysania fece una pausa, d’un tratto spaventata dall’intensità dello sguardo di Raistlin. Pareva che, se avesse potuto, le avrebbe strappato le parole dal cuore. Distogliendo per un attimo lo sguardo da lui per ricomporsi, Crysania continuò, con lo sguardo adesso fisso sul fuoco: «Sono entrata nella stanza e lui... lui sedeva là, intento a scrivere, ignorandomi. Poi l’estetico che era con me ha annunciato il mio nome: “Crysania della casa di Tarinius”, come tu mi avevi detto di dirgli. E poi...»

Si interruppe, corrugando leggermente la fronte.

Raistlin si agitò. «Cosa?»

«Poi Astinus ha sollevato lo sguardo,» disse Crysania, in tono perplesso, tornando a voltarsi verso Raistlin. «Ha addirittura smesso di scrivere e ha messo giù la penna. E ha detto, Tu!, con una voce così tonante che sono rimasta sorpresa e l’estetico che era con me è quasi svenuto. Ma prima che io potessi dire qualcosa o chiedergli quello che avesse voluto dire, o anche soltanto come facesse a conoscermi, ha preso la penna e, portandola sopra le parole che aveva appena scritto, le ha depennate!»

«Depennate? ripetè Raistlin, pensieroso, con gli occhi scuri fissi nel vuoto. «Depennate,» mormorò ancora, riaffondando nel suo giaciglio.

Vedendo Raistlin assorto nei suoi pensieri, Crysania rimase zitta fino a quando non lo vide rialzare lo sguardo e fissarla.

«E poi cos’ha fatto?» chiese il mago, sempre più stanco.

«Ha riscritto qualcosa sopra il punto in cui aveva commesso l’errore, se di questo si trattava. Poi ha sollevato di nuovo lo sguardo su di me, e ho creduto che si sarebbe incollerito. Anche l’estetico l’ha creduto. Ma Astinus è rimasto del tutto calmo. Ha congedato l’estetico e mi ha pregato di sedermi.

Poi mi ha chiesto per quale motivo ero venuta.

“Gli ho detto che stavamo cercando il Portale. Ho aggiunto, come tu mi hai detto, che avevamo ricevuto informazioni le quali ci avevano indotto a credere che il Portale si trovasse nella Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, ma che, dopo alcune ricerche, avevamo scoperto che le nostre informazioni erano sbagliate. Il Portale non si trovava là.

“Ha annuito, come se la cosa non lo sorprendesse affatto. “Il Portale è stato trasferito quando il Gran Sacerdote ha cercato di conquistare la Torre. Per ragioni di sicurezza, naturalmente. Col tempo, potrebbe tornare nella Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, ma adesso non è là che si trova”.

“Dov’è che si trova, allora?” gli ho chiesto.

Per parecchi istanti non mi ha risposto, e poi...” Qui Crysania prese a balbettare e lanciò un’occhiata intimorita a Caramon, come per avvertirlo di tenersi saldo.

Vedendo la sua espressione, Raistlin si rizzò a sedere sul giaciglio. «Dimmelo!» le intimò con asprezza.

Crysania tirò un profondo sospiro. Avrebbe guardato altrove, ma Raistlin la prese per il polso e, malgrado la sua debolezza, la strinse con tanta fermezza che Crysania scoprì di non potersi liberare.

«Ha... ha detto che una simile informazione ti sarebbe costata. Ogni uomo ha il suo prezzo, perfino lui.» «Costarmi!» ripetè Raistlin, con un impercettibile mormorio, gli occhi ardenti.

Crysania tentò senza successo di liberarsi, mentre la stretta si accentuava dolorosamente.

«Qual è il costo?» volle sapere Raistlin.

«Ha detto che tu l’avresti saputo!» rantolò Crysania. «Ha detto che glielo avevi promesso molto tempo fa.”

Raistlin le liberò il polso. Crysania ricadde all’indietro, lontano da lui, sfregandosi il braccio ed evitando lo sguardo impietosito di Caramon. Improvvisamente l’omone si alzò in piedi e si allontanò a grandi passi. Ignorandolo, e ignorando Crysania, Raistlin riaffondò nei suoi cuscini sfilacciati, con la faccia pallida e tirata, gli occhi improvvisamente scuri e cerchiati.

Crysania si alzò in piedi e andò a versarsi un bicchiere d’acqua. Ma la mano le tremava talmente che versò la maggior parte del contenuto sulla scrivania e fu costretta a metter giù la caraffa.

Arrivandole alle spalle, Caramon versò l’acqua e le porse il bicchiere, con un’espressione grave sul viso.

Portando il bicchiere alle labbra, Crysania fu improvvisamente conscia che Caramon le guardava il polso. Abbassando lo sguardo, vide i segni della mano di Raistlin sulla sua pelle. Rimettendo giù il bicchiere sulla scrivania, Crysania tirò rapidamente la veste sopra il braccio ferito.

«Non aveva intenzione di farmi del male,» disse con voce sommessa, in risposta all’occhiata severa, furente e silenziosa di Caramon. “Il dolore lo rende impaziente. Cos’è la nostra sofferenza, paragonata alla sua? Certamente fra tutti sei tu quello che lo capisce meglio. È talmente preso dalla sua grandissima visione che non sa neppure quando fa del male agli altri.»

Voltandosi, tornò là dove giaceva Raistlin, lo sguardo fisso sul fuoco, senza però vederlo.

«Oh, lo sa benissimo,» borbottò Caramon tra sé. «Comincio proprio adesso a rendermene conto. L’ha sempre saputo.»

Astinus di Palanthas, storico di Krynn, sedeva nella sua stanza, intento a scrivere. L’ora era tarda, molto tarda, in effetti era passata Vegliascura. Gli estetici avevano da tempo chiuso e sbarrato le porte della Grande Biblioteca. Pochi vi erano ammessi durante il giorno, nessuno di notte. Ma le sbarre e le serrature non erano nulla per l’uomo che era entrato nella Biblioteca e che adesso si ergeva, figura di tenebra, davanti ad Astinus.

Lo storico neppure sollevò lo sguardo. «Cominciavo a chiedermi dov’eri,« disse, continuando a scrivere.

«Non stavo bene,» rispose la figura, con le vesti nere che frusciavano. Come se le fosse appena venuto in mente di farlo, la figura tossì.

«Confido che ti senta meglio.» Astinus non sollevò la testa.

«Mi sto riprendendo lentamente,» disse la figura. «Molte cose mettono a dura prova le mie forze.»

«Siediti, allora,» l’invitò Astinus, indicando con un gesto della penna d’oca una sedia, senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro.

La figura, con un sorriso contorto sulla faccia, si avvicinò alla sedia con passo felpato e si sedette. Il silenzio si prolungò nella stanza, interrotto soltanto dal raschiare della penna di Astinus e dagli occasionali colpi di tosse dell’intruso abbigliato di nero.

Infine Astinus mise giù la penna e sollevò lo sguardo per incontrare quello del visitatore. Questi tirò indietro il cappuccio nero dal viso. Fissandolo in silenzio per lunghi momenti, Astinus annuì fra sé.

«Non conosco questo viso, Fistandantilus, ma conosco i tuoi occhi. Però hanno qualcosa di strano.

Vedo il futuro nelle loro profondità. Così, sei diventato maestro del tempo, eppure non sei tornato con il potere, come è stato predetto.”

«Il mio nome non è Fistandantilus, Immortale. È Raistlin, e questa è una spiegazione sufficiente per quello che è successo.» Il sorriso di Raistlin scomparve, i suoi occhi si strinsero. «Ma certamente lo sapevi, no?» Fece un gesto. «Certamente la battaglia ?finale tra noi è stata registrata...»

«Ho registrato il nome, così come ho registrato la battaglia,” replico Astinus, con freddezza. “Vuoi vedere l’annotazione... Fistandantilus?»

Raistlin corrugò la fronte, i suoi occhi luccicarono pericolosamente. Ma Astinus rimase imperturbato. Lasciandosi andare contro lo schienale, studiò con calma l’arcimago.

“Hai portato quello che ho chiesto?”

“L’ho fatto,” rispose Raistlin con amarezza. “La sua creazione mi è costata giorni di dolore e ha minato le mie forze, altrimenti sarei venuto prima.”

E adesso, per la prima volta, un accenno di emozione brillò sul volto freddo e senza età di Astinus.

Si sporse avidamente in avanti, con gli occhi che gli ri splendevano, quando Raistlin scostò lentamente le pieghe delle sue vesti nere, rivelando quello che sembrava un globo di vetro vuoto sospeso nella cavità vuota del suo petto, simile a un cuore limpido e cristallino.

Perfino Astinus non riuscì a trattenere un sussulto a quella vista, ma a quanto pareva non era niente più d’una illusione perché, con un gesto, Raistlin fece ondeggiare in avanti il globo. Con l’altra mano si ricoprì l’esile petto con il tessuto nero.

Non appena il globo gli fluttuò accanto, Astinus vi posò le mani sopra, accarezzandolo amorevolmente. Al suo tocco il globo si riempì di luce lunare: argentea, rossa, perfino la strana aura della luna nera era visibile. Sotto le lune turbinavano le visioni, in rapida successione.

«Tu ora vedi scorrere il tempo anche mentre sediamo qui,» disse Raistlin, la sua voce si tinse d’un inconsapevole orgoglio. «E così, Astinus, non dovrai più affidarti ai tuoi invisibili messaggeri dei piani oltre stanti per sapere ciò che accade intorno a te. Da questo momento in avanti i messaggeri saranno i tuoi stessi occhi.»

«Sì! Sì!» mormorò Astinus; gli occhi guardavano dentro il globo luccicanti di lacrime, le mani appoggiate su di esso gli tremavano.«E adesso il mio pagamento,» continuò Raistlin con freddezza.

«Dov’è il Portale?»

Astinus sollevò lo sguardo dal globo. «Non riesci a indovinare, Uomo del Futuro e del Passato? Hai letto la storia...»

Raistlin fissò Astinus senza parlare, il suo volto divenne sempre più pallido e gelido fino ad assomigliare a una maschera di morte.

«Hai ragione, ho letto la storia. Allora è per questo che Fistandantilus andò a Zhaman,» disse infine l’arcimago.

Astinus annuì in silenzio.

«“Zhaman, la fortezza magica, situata nelle Pianure di Dergoth... vicino a Thorbardin, la dimora dei nani delle montagne. E Zhaman è la terra dominata dai nani delle montagne,» proseguì Raistlin con voce priva d’espressione, come se stesse leggendo un libro di testo. «E dove, in questo stesso momento, i loro cugini, i nani delle colline, stanno andando, sospinti dal male che ha consumato il mondo sin dall’epoca del Cataclisma, per chiedere rifugio nell’antica patria tra i monti.»

«Il Portale si trova...»

«... nelle viscere delle segrete di Zhaman,» concluse Raistlin con amarezza. “Là Fistandantilus combatté la Grande Guerra dei Nani.. . »

«Combatterà...» lo corresse Astinus.

«Combatterà,» mormorò Raistlin, «la guerra che abbraccerà la sua stessa fine!»

Il mago tacque. Poi, d’un tratto, si alzò in piedi e si avvicinò alla scrivania di Astinus. Appoggiando la mano sul libro, lo girò verso di sé. Astinus l’osservò con freddo e distaccato interesse.

«Hai ragione,» disse Raistlin, scorrendo la scrittura ancora umida sulla pergamena. «Vengo dal futuro, ho letto le Cronache, così come tu le hai composte. Parte di esse, comunque. Ricordo di aver letto questa annotazione, quella che scriverai là.» Indicò uno ?spazio vuoto, poi recitò a memoria:

«In questa data, cadendo il 30 dopo Scuraveglia, Fistandantilus mi ha portato il Globo del Passaggio del Tempo Presente.»

Astinus non rispose. La mano di Raistlin cominciò a tremare. «Scriverai questo?» insistè, con voce stridula per la rabbia.

Astinus non rispose per qualche istante, poi glielo confermò, con una leggera scrollata di spalle.

Raistlin sospirò. «Così non farò nulla che non sia stato fatto prima!» Serrò all’improvviso le mani, e quando parlò di nuovo la sua voce era tesa per lo sforzo indispensabile a controllarsi.»

«Dama Crysania è venuta parecchi giorni or sono. Ha detto che, quando è entrata, stavi scrivendo e, dopo averla vista, hai depennato qualcosa. Mostrami cos’era.»

Astinus corrugò la fronte.

«Mostramelo!» La voce di Raistlin era rotta, quasi stridula. Mettendo il globo su un lato del tavolo, dove rimase sospeso accanto a lui, Astinus tolse con riluttanza le mani dalla sua superficie di cristallo. La luce si spense, il globo divenne scuro e vuoto. Allungando le mani dietro di sé, lo storico tirò fuori un grande volume rilegato in cuoio e, senza esitazione, trovò la pagina richiesta.

Girò il libro, in modo che Raistlin potesse vedere. L’arcimago lesse quello che era stato scritto, poi anche la correzione. Quando si drizzò, con le vesti nere che gli frusciavano intorno mentre infilava le mani nelle maniche, il suo volto era d’un pallore mortale, ma calmo. «Questo altera il tempo.»

«Questo non altera niente,» ribatté Astinus, gelido. «Lei è venuta al suo posto, è tutto. Uno scambio alla pari. Il tempo continua a scorrere imperturbato.»

«E mi trasporta con sé?»

«A meno che tu non abbia il potere di cambiare il corso dei fiumi buttandoci dentro un sasso,» osservò Astinus con sarcasmo.

Raistlin lo guardò, ed ebbe un fugace sorriso. Poi indicò il globo. «Stai attento, Astinus,» bisbigliò,

«stai attento al sasso! Arrivederci, Immortale.» D’un tratto la stanza fu vuota, salvo che per Astinus.

Lo storico rimase seduto in silenzio a riflettere. Poi, girando il libro verso di sé, lesse ancora una volta quello che stava scrivendo quando Crysania era entrata: In questa data, levandosi 15

Dopoveglia, Denubis, un chierico di Paladine, è arrivato qui, essendo stato mandato dal grande arcimago Fistandantilus, per scoprire dove si trova il Portale. In cambio del mio aiuto, Fistandantilus creerà ciò che mi ha promesso da molto tempo: il Globo del Passaggio del Tempo Presente...

Il nome di Denubis era stato depennato, era stato aggiunto quello di Crysania.

Capitolo settimo.

«Sono morto,» disse Tasslehoff Burrfoot. Tenne gli occhi chiusi ed Aspettò un momento, con ansia.

«Sono morto,» disse di nuovo. «Cielo, cielo. Questo dev’essere l’Aldilà.»

Passò un altro momento.

«Be’, c’è una cosa che posso dire in proposito, che è proprio buio.»

Ma non successe ancora niente. Tas scoprì che il suo interesse nell’essere morto cominciava a scemare. Si accorse di trovarsi disteso sulla schiena su qualcosa di estremamente duro e scomodo, e freddo, che aveva tutte le apparenze della pietra.

«Forse sono stato disteso su una lastra di marmo, come Huma,» disse, cercando di riattivare un po’ del suo entusiasmo. «Oppure nella cripta di un eroe, come quella dove abbiamo seppellito Sturm.»

Quel pensiero lo dilettò per un po’, poi: «Ahi!». Si premette la mano sul fianco, avvertendo un dolore lancinante alle costole e, allo stesso tempo, notò un altro dolore alla testa. Si rese anche conto che tremava dal freddo, che una roccia aguzza lo pungeva sulla schiena, e che aveva il collo irrigidito.

«Oh, di certo non mi aspettavo questo,» sbottò irritato. «Voglio dire, stando a tutti i resoconti, quando si è morti non si dovrebbe sentire niente!» ripetè piccato quando il dolore non scomparve.

«Dannazione!» borbottò ancora. «Forse c’è stata un po’ di confusione. Forse sono morto ma il mio corpo non ne è stato ancora informato. Certamente non sono diventato tutto rigido, e sono sicuro che dovrebbe accadere proprio questo. Così, non mi resta che aspettare.»

Dimenandosi per mettersi più comodo (togliendo, per prima cosa, la scheggia di roccia da sotto la schiena), Tas incrociò le mani sul petto e fissò l’oscurità immobile e impenetrabile sopra di lui.

Dopo essere rimasto così per qualche minuto, aggrottò la fronte.

«Se questo vuol dire essere morti, allora di sicuro non è come dovrebbe essere,» dichiarò con severità. «Adesso non soltanto sono morto, sono anche annoiato. Insomma,» aggiunse, dopo aver fissato l’oscurità per qualche altro momento ancora, «immagino di non poter fare molto per la mia morte, ma posso far qualcosa per la mia noia. È ovvio che c’è stata un po’ di confusione. Dovrò parlare con qualcuno di questa storia.»

Rizzandosi a sedere, fece per ruotare le gambe e saltare giù dalla lastra di marmo, ma scoprì che, a quanto pareva, lui giaceva su un pavimento di pietra. «Che sgarbati!» commentò indignato. “Perché non buttarmi addirittura in una concimaia?”

Si alzò in piedi, incespicando, fece un passo e andò a sbattere contro qualcosa di duro e massiccio.

«Una roccia,» disse rabbuiandosi e passando le mani sopra di essa. «Umpf! Flint muore e a lui danno un albero! Io muoio e mi piglio una roccia. È ovvio che qualcuno ha fatto qualcosa di sbagliato.»

«Ehi!» si mise poi a gridare, muovendosi a tentoni nel buio. «C’è qualcuno, qui?... Be’, e cosa ne so? Ho ancora le mie borse! Hanno lasciato che mi portassi dietro tutto, perfino il congegno magico. Per lo meno, è stato riguardoso da parte loro. Però,» Tas strinse le labbra con fare risoluto, «qualcuno farà meglio a escogitare qualcosa per questo dolore. Non sono affatto disposto a rassegnarmici.»

Indagando con le mani, dal momento che non riusciva a vedere niente, Tas passò incuriosito le dita sulla grande roccia. Pareva coperta da immagini scolpite, rune, forse? E ciò gli parve familiare.

Anche la forma di quella grande roccia era strana.

«Non è una roccia, dopotutto! A quanto pare è una tavola,» commentò perplesso. «Una tavola di roccia scolpita con rune...» Poi il ricordo gli tornò. «Lo so!» gridò trionfante. «È quella grande scrivania di pietra nel laboratorio dove sono andato a cercare Raistlin, Caramon e Crysania, per scoprire che se n’erano andati tutti e mi avevano lasciato solo. Mi trovavo là quando la montagna di fuoco mi è caduta addosso! In effetti, è il posto dove sono morto!»

Si tastò il collo. Sì, il collare di ferro era ancora là, il collare che gli avevano messo addosso quando era stato venduto come schiavo. Continuando a muoversi a tentoni nel buio, Tas inciampò su qualcosa.

Abbassando la mano, si ferì con qualcosa di tagliente.

«La spada di Caramon!» disse, tastando l’elsa. «Ricordo di averla trovata sul pavimento. E questo vuol dire,» aggiunse Tas con crescente indignazione, «che non mi hanno neppure seppellito. Hanno lasciato il mio corpo dov’era! Mi trovo nell’interrato di un Tempio in rovina.» Cogitabondo, si succhiò il dito sanguinante. Un pensiero improvviso gli balenò nella mente. «Ed immagino che abbiano intenzione di farmi andare a piedi in qualunque posto mi è destinato nell’Aldilà! Non forniscono neanche un mezzo di trasporto... questa è davvero la goccia che fa traboccare il vaso!»

Alzò la voce fino a mettersi ad urlare. «Ascoltate,» strillò, scuotendo il piccolo pugno. «Voglio parlare con chiunque comandi qui dentro!”»Ma non ci fu nessuna risposta.

«Niente luce,» brontolò Tas, inciampando e cadendo su qualcos’altro. «Intrappolato in fondo a un Tempio in rovina, morto! Probabilmente sul fondo del Mare di Sangue di Istar... Ehi,» disse, fermandosi a pensare, «forse incontrerò qualche elfo del mare, come quelli di cui mi ha parlato Tanis. Ma no, l’avevo dimenticato,» sospirò. «Sono morto, e non è possibile, almeno da quello che mi è dato di capire, incontrare gente dopo che si è morti. A meno di essere dei nonmorti come Lord Soth.» Il kender si rallegrò parecchio. «Chissà come si fa a ottenere un lavoro come quello? Lo chiederò. Essere un cavaliere della morte è certo qualcosa di molto eccitante. Ma per prima cosa devo scoprire dove mi trovo e perché sono qui.»

Risollevandosi di nuovo, Tas riuscì ad arrivare a quella che ritenne fosse la parte anteriore della stanza sotto il Tempio. Stava pensando al Mare di Sangue di Istar, chiedendosi come mai non ci fosse acqua dappertutto, quando gli venne in mente qualcos’altro.

«Oh, cielo!” borbottò. “Il Tempio non è finito dentro il Mare di Sangue, è finito a Neraka! Infatti, io mi trovavo nel Tempio quando ho sconfitto la Regina delle Tenebre.»

Tas arrivò a una porta, potè sentirla toccando il telaio, e sbirciò fuori nella tenebra che era fittissima.

«Neraka, uh,» fece, chiedendosi se fosse meglio o peggio che trovarsi sul fondo di un oceano.

Fece un passo avanti con cautela e sentì qualcosa sotto il piede. Abbassando il braccio, la sua piccola mano si chiuse su una... «una torcia! Dev’essere quella che si trovava dopo la porta. Ora, qui da qualche parte ho la scatoletta con l’acciarino, l’esca e la pietra focaia...» Frugando in diverse borse, alla fine riuscì a trovarli.

«Strano,» commentò lanciando un’occhiata nel corridoio, mentre la torcia avvampava. «Pare sia rimasto proprio come quando l’ho lasciato, tutto sbriciolato e in rovina dopo il terremoto. Ci sarebbe stato da pensare che la Regina avrebbe rimesso un po’ d’ordine a quest’ora. Non ricordo di aver visto un simile disordine quand’ero a Neraka. Chissà dove sarà la via d’uscita.»

Si voltò a guardare in direzione delle scale che aveva disceso per cercare Crysania e Raistlin. Gli vennero in mente i vividi ricordi delle pareti che si crepavano e delle colonne che crollavano.

«Non va affatto bene, questo è sicuro,» borbottò scuotendo la testa. «Accidenti, come fa male.» Si portò la mano alla fronte. «Mi sembra di ricordare che quella era la sola via d’uscita.»

Sospirò, sentendosi per un attimo un po’ abbattuto. Ma ben presto riaffiorò la sua allegria di kender.

«Comunque, ci sono un sacco di crepe nelle pareti... Forse si è aperta qualche altra uscita.»

Camminando lentamente, memore del dolore che provava alla testa e alle costole, Tas uscì nel corridoio. Controllò con molta attenzione ogni singola parete senza vedere niente di promettente, fino a quando non raggiunse l’estremità del corridoio. Qui scoprì una larghissima fessura nel marmo che, a differenza delle altre, formava un’apertura più profonda di quanto la luce della torcia di Tas poteva illuminare.

Soltanto un kender avrebbe potuto infilarsi in quella spaccatura... ma lo stesso Tas ci passava a stento: fu costretto a ridisporre tutte le sue borse e a infilarvisi di lato.

«Tutto quello che posso dire è che... essere morto è di sicuro una grande seccatura!» borbottò spremendo il proprio corpo attraverso la crepa e facendosi un buco nei calzari azzurri.

Le cose, in seguito, non migliorarono. Una delle sue borse s’impigliò su uno spuntone di roccia, e dovette fermarsi a strattonarla fino a quando non riuscì a liberarla. Poi la fessura si restrinse al punto che cominciò seriamente a temere che non ce l’avrebbe fatta. Togliendosi di dosso tutte le borse, le tenne sopra la testa insieme alla torcia e, dopo aver trattenuto il fiato ed essersi strappato la camicia, si dimenò energicamente un’ultima volta e riuscì a passare oltre. A questo punto, però, era accaldato, sudato, dolorante e di cattivo umore.

«Mi sono sempre chiesto perché mai la gente fosse tanto contraria a morire,» dichiarò, «ed adesso lo so.»

Soffermandosi per riprendere fiato e risistemare le proprie borse, il kender fu immensamente rallegrato nel veder trapelare una luce dall’estremità opposta della spaccatura. Facendo balenare tutt’intorno la fiamma della torcia, scoprì che la fessura si andava allargando, così, un attimo dopo, proseguì e raggiunse ben presto la fine dello squarcio e l’origine della luce.

Raggiunta l’apertura, Tas sbirciò fuori, tirò un profondo respiro e disse: «Ora, questo è più di quanto avessi in mente!»

Il paesaggio, certamente, non assomigliava a niente che avesse mai visto prima in vita sua. Era piatto e spoglio e si stendeva all’infinito sotto uno sterminato cielo vuoto, che risplendeva di uno strano chiarore, come se il sole fosse appena tramontato oppure un fuoco bruciasse in lontananza.

Ma tutto il cielo aveva quello strano colore, perfino sopra la sua testa. Eppure, malgrado tutta quella luce, le cose intorno a lui erano molto buie. Il paesaggio pareva essere stato ritagliato nella carta nera e incollato su quel cielo dall’aspetto arcano. E il cielo stesso era vuoto: niente sole, né lune, né stelle. Niente.

Tas, cauto, fece un passo, e poi un altro. Il terreno non dava la sensazione di essere diverso da qualunque altro terreno, anche se, mentre lo attraversava, notò che assumeva lo stesso colore del cielo. Sollevando lo sguardo in distanza, però, vide che tornava ad essere nero. Dopo qualche altro passo, si fermò per guardare dietro di sé le rovine del grande Tempio.

«Per la barba del grande Reorx!» rantolò Tas, lasciandosi quasi sfuggire la torcia.

Non c’era niente alle sue spalle! Dovunque fosse il luogo da cui era arrivato, adesso era scomparso!

Il kender si girò, descrivendo un cerchio completo. Niente davanti a lui, niente dietro di lui, niente in nessuna direzione, dovunque volgesse lo sguardo.

Tasslehoff Burrfoot si sentì cadere il cuore dritto in fondo alle sue calzette verdi, dove rimase, rifiutandosi di venir confortato. Senza alcun dubbio quello era il luogo più noioso che avesse visto durante la sua intera esistenza!

«Questo non può essere l’Aldilà,» disse il kender con aria infelice. «Non può essere giusto! Deve esserci un errore... Ehi, un momento! Qui dovrei incontrare Flint! L’ha detto Fizban, e Fizban potrà essere stato confuso su altre cose, ma non mi pareva confuso su questo!

«Vediamo, com’è andata? C’era un grande albero, un bellissimo albero, e sotto di esso sedeva un vecchio nano brontolone, intento a intagliare il legno e... Ehi, là c’è l’albero! Ma da dove è saltato fuori?»

Il kender ammiccò più volte, stupefatto. Proprio davanti a lui, dove un momento prima non c’era stato assolutamente nulla, adesso vedeva un grande albero.

«Non è esattamente la mia idea di un bell’albero,» borbottò Tas, incamminandosi verso di esso, osservando, mentre lo faceva, che il terreno aveva sviluppato la curiosa caratteristica di cercare di scivolargli via da sotto i piedi. “Ma d’altronde, Fizban aveva dei gusti strani e, a pensarci bene, anche Flint.”

Si avvicinò di più all’albero, che era nero, come ogni altra cosa, contorto e curvato in avanti come una strega che un giorno gli era capitato di vedere. Non aveva foglie. «Quell’affare è morto da almeno cento anni!» Tas tirò su col naso. «Se Flint pensa che io abbia intenzione di passare il mio Aldilà seduto insieme a lui sotto un albero morto, allora sarà bene che ci ripensi. Io... Ehi, Flint!» gridò il kender quando arrivò all’albero e si guardò intorno. «Flint? Dove sei? Io... Oh, eccoti qua,» disse vedendo una bassa figura barbuta seduta a terra sull’altro lato dell’albero. «Fizban mi ha detto che ti avrei trovato qui. Scommetto che sei sorpreso di vedermi. Io...»

Il kender, aggirato l’albero, si arrestò di botto. “Ehi,” gridò con rabbia. «Non sei Flint! Chi... Arack!»

Tas arretrò barcollando quando il nano che era stato il Maestro dei Giochi a Istar girò improvvisamente la testa e lo fissò con un ghigno così malvagio sulla sua faccia contorta che il kender sentì il sangue raggelargli nelle vene, una sensazione davvero insolita che non ricordava di aver mai provato prima. Ma prima che avesse il tempo di godersela, il nano balzò in piedi e con un ringhio feroce gli si lanciò addosso.

Con un grido di sorpresa, Tas roteò la torcia per tenere indietro Arack, mentre armeggiava con l’altra mano per afferrare il piccolo pugnale che portava alla cintura. Ma proprio nell’istante in cui lo sfoderava, Arack scomparve. Ancora una volta Tas si trovò giusto al centro del nulla sotto quel cielo dal colore del fuoco.

«Va bene, adesso,» disse Tas e un leggero tremito si insinuò nella sua voce, anche se fece del suo meglio per nasconderlo, «non lo trovo affatto divertente. E deprimente e orribile, e anche se Fizban non ha esattamente promesso che l’Aldilà sarebbe stato una continua festa, sono certo che non aveva niente del genere in mente!» Il kender si girò lentamente, tenendo il pugnale sguainato e la torcia davanti a sé.

«So di non essere mai stato molto religioso,» aggiunse Tas tirando su col naso e fissando quel desolato paesaggio mentre cercava di non scivolare lungo disteso su quel terreno arcano, «ma pensavo di aver condotto una vita piuttosto buona. E ho sconfitto la Regina delle Tenebre. Naturalmente ho avuto un po’ d’aiuto,» aggiunse, pensando che questo poteva essere un buon momento per dar prova di onestà, «e sono un amico personale di Paladine, e...»

«In nome di Sua Maestà Tenebrosa,» disse una voce sommessa dietro di lui, «cosa stai facendo qui?»

Sbigottito, Tasslehoff balzò in aria ad un’altezza di tre piedi, un segno sicuro che il kender si era preso un bello spavento, e si girò di scatto. Là, dove un momento prima non c’era stato nessuno, si ergeva una figura che gli ricordava moltissimo il chierico di Paladine, Elistan, soltanto che questa figura indossava vesti da chierico nere invece che bianche, e dal suo collo, invece del medaglione di Paladine, pendeva il medaglione del Drago a Cinque Teste.

«Uh, perdonami, signore,» balbettò Tas, «ma non sono affatto sicuro di quello che sto facendo qui. Non sono affatto sicuro di dove si trovi il qui, ad essere del tutto sincero e, oh, a proposito, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.» Gli porse cortesemente la piccola mano. «E tu?»

Ma la figura, ignorando la mano del kender, buttò indietro il cappuccio nero e si avvicinò di un altro passo. Tas rimase considerevolmente sorpreso nel vedere dei lunghi capelli color grigio ferro scivolar fuori da sotto il cappuccio, capelli così lunghi, in effetti, che avrebbero senz’altro toccato il suolo se non avessero galleggiato intorno alla figura in una maniera oltremodo bizzarra, come lo fece la lunga barba grigia che d’un tratto parve spuntar fuori da quel volto simile a quello d’un teschio.

«È... è davvero straordinario,» balbettò Tas, rimanendo a bocca aperta. «Come ci sei riuscito? E, immagino che tu non me lo possa dire, ma dove hai detto che mi trovo? Ve... vedi...» La figura si avvicinò di un altro passo e, anche se non aveva paura di lui, o di esso, o di qualunque altra cosa fosse, il kender scoprì di non volere, per qualche buon motivo, che esso, o lui, si avvicinasse di più.

«So... sono morto,» proseguì Tas, cercando di arretrare ma per scoprire, per qualche inspiegabile ragione, che qualcosa lo bloccava. «E, a proposito,» l’indignazione ebbe la meglio sulla paura, «sei tu l’incaricato di questo posto? Perché mi pare proprio che questa faccenda della morte non venga affatto trattata a dovere! Mi sento male!» esclamò Tas, fissando furiosamente la figura con espressione accusatoria. «Ho la testa e le costole che mi fanno male. E poi ho dovuto farmi a piedi tutta questa strada dopo che sono uscito fuori dal sotterraneo del Tempio...»

«Il sotterraneo del Tempio!» Adesso la figura si fermò a pochissimi pollici da Tasslehoff. I suoi capelli grigi fluttuavano come se fossero stati agitati da un vento rovente. Adesso Tas poteva vedere che i suoi occhi avevano lo stesso colore rosso del cielo, il suo volto era grigio, cinereo.

«Sì!» Tas deglutì. A parte tutto il resto, la figura emanava l’odore più orribile che si potesse immaginare. «Sta... stavo seguendo Dama Crysania e lei stava seguendo Raistlin, e...»

«Raistlin!» La figura pronunciò il nome con una voce che fece letteralmente rizzare i capelli in testa a Tas. «Vieni con me!»

La mano della figura, una mano dall’aspetto estremamente singolare, si chiuse sul polso di Tasslehoff. «Uh!» squittì Tas, quando il dolore gli saettò attraverso il braccio. «Mi fai male...»

Ma la figura non gli prestò nessuna attenzione. Chiudendo gli occhi, come smarrita in profonda concentrazione, strinse con forza il kender, e il terreno intorno a Tas cominciò d’un tratto a muoversi e a sollevarsi. Il kender cacciò un rantolo di sorpresa quando il paesaggio stesso assunse un rapido, fluido movimento.

Noi non ci stiamo muovendo, si rese conto Tas, sgomento. E il suolo che si muove!

«Uh,» disse Tas, con un filo di voce. «Dove hai detto che ero?»

«Sei nell’Abisso,» disse la figura con tono sepolcrale.

«Oh, cielo,» esclamò Tas addolorato. «Non pensavo di essere stato così cattivo.» Una lacrima gli scese lungo il naso. «Allora, sarebbe questo l’Abisso. Spero non ti dispiaccia se ti dico che sono terribilmente deluso. Avevo sempre pensato che l’Abisso sarebbe stato un luogo affascinante. Ma finora non lo è. Proprio per niente. È... è spaventosamente noioso e... brutto... e, non intendo davvero essere sgarbato, ma c’è un odore molto singolare.» Tirando su col naso, se lo pulì sulla manica, troppo infelice anche soltanto per cercare un fazzoletto. «Dove hai detto che stiamo andando?»

«Hai chiesto di vedere la persona incaricata di questo posto,» disse la figura, e la sua mano scheletrica si chiuse sul medaglione che portava al collo.

Il paesaggio cambiò. Divenne ogni città che Tas aveva visitato nella sua vita, così almeno pareva, ma nello stesso tempo non era nessuna. Gli era familiare, eppure non riconobbe niente. Era nero, piatto e senza vita, eppure pullulava di vita. Non poteva vedere né sentire niente, ma tutt’intorno a lui c’erano suoni e movimenti.

Tasslehoff fissò la figura accanto a lui, e i piani mutevoli al di là e sopra e sotto di lui, e ammutolì.

Per la seconda volta in vita sua (la prima era stata quando aveva trovato Fizban vivo, mentre il vecchio avrebbe dovuto essere recentemente defunto) Tas non riuscì a pronunciare una sola parola.

Se a ogni kender sulla faccia di Krynn fosse stato chiesto di citare i Posti Che Mi Piacerebbe Visitare Di Più, il piano di esistenza in cui dimorava la Regina delle Tenebre si sarebbe piazzato almeno al terzo posto in qualsivoglia lista.

Ma, adesso, Tasslehoff Burrfoot si trovava proprio lì, in piedi nella sala d’aspetto della grande e terribile Regina, in uno dei luoghi più interessanti conosciuti dagli uomini e dai kender, e non si era mai sentito più infelice in vita sua.

Tanto per cominciare, la stanza in cui il chierico abbigliato di nero e dai capelli grigi gli aveva intimato di aspettare era completamente vuota. Non c’era nessun tavolo con qualche interessante soprammobile, non c’erano sedie (per questo era in piedi). Non c’erano neppure pareti] In realtà, l’unica cosa che gli permetteva di capire che si trovava in una stanza era stata la sensazione di trovarsi in una stanza quando il chierico gli aveva intimato di “rimanere nella sala d’aspetto”.

Ma in realtà, da quello che poteva vedere, lui si trovava nel mezzo del nulla. Era ormai al punto che non era neppure più certo della direzione in cui si trovasse l’alto, o il basso. Entrambi parevano uguali, un arcano chiarore color fiamma.

Cercò di confortarsi, continuando a ripetere in continuazione che avrebbe incontrato la Regina delle Tenebre. Ricordava la storia che Tanis gli aveva raccontato del suo incontro con la Regina nel Tempio di Neraka.

«Ero circondato da una grande tenebra,» aveva detto Tanis e, malgrado fossero passati mesi da quell’esperienza, la voce ancora gli tremava, «ma era parsa più un’oscurità scaturita dalla mia mente che una vera e propria presenza fisica. Non potevo respirare. Poi l’oscurità si levò e mi parlò, anche se non disse una parola. La sentii nella mia mente. E la vidi in tutte le sue forme: il Drago a Cinque Teste, il Guerriero Scuro, la Tentatrice Tenebrosa, poiché non era ancora completamente passata nel nostro mondo. Non aveva ancora conquistato il controllo.»

Tas ricordava Tanis che scuoteva la testa. «Malgrado ciò, la sua maestà e la sua potenza erano grandi. Lei è, dopotutto, una dea, uno dei creatori del mondo. I suoi occhi scuri mi guardarono ben dentro l’anima, ed io non potei fare a meno di genuflettermi ed adorarla...»

E adesso lui, Tasslehoff Burrfoot, avrebbe incontrato la Regina così com’era sul proprio piano di esistenza, forte e potente.

«Forse mi apparirà come il Drago dalle Cinque Teste,» disse Tas per tirarsi su di morale. Ma neppure quella meravigliosa prospettiva l’aiutava, anche se non aveva mai visto qualcosa a cinque teste prima di allora, e ancora meno un drago. Era come se tutta la sua curiosità e il suo spirito di avventura gli stessero colando fuori come sangue che sgocciolasse da una ferita.

«Canterò un po’,» si disse, giusto per udire il suono della propria voce. «Di solito questo mi tira su di morale.»

Cominciò a canticchiare la prima canzone che gli venne in mente, un Inno all’Alba che Goldmoon gli aveva insegnato.

Persino la notte deve venir meno

poiché la luce dorme negli occhi

e l’oscurità diventa oscurità all’oscurità

fino a quando l’oscurità muore.

Ben presto l’occhio risolve

le complessità della notte

nell’immobilità, dove il cuore

cade nella luce favolosa.

Tas stava giusto per cominciare la terza strofa quando divenne consapevole, con profondo orrore, che la sua canzone gli rispondeva come un’eco, soltanto che adesso le parole erano contorte e terribili...

Persino la notte deve venir meno

quando la luce dorme negli occhi,

quando l’oscurità diventa oscurità all’oscurità

e nell’oscurità muore.

Ben presto l’occhio dissolve

confuso dalla notte stuzzicante

dentro l’immobilità del cuore

una favola di luce caduta.

«Smettila!» gridò Tas freneticamente nel silenzio arcano e bruciante che riecheggiava con la sua canzone. «Non intendevo dire questo! Io...» Con sorprendente repentinità il chierico abbigliato di nero si materializzò davanti a Tasslehoff, dando l’impressione di condensarsi dal nulla in quell’ambiente desolato.

«Sua Maestà Tenebrosa ti riceverà subito» annunciò il chierico e, prima che Tasslehoff potesse sbattere le palpebre, si trovò in un altro luogo.

Seppe che era un altro luogo non perché si fosse mosso anche di un solo passo o anche soltanto perché quel luogo era diverso dall’ultimo, ma perché sentì di trovarsi in un altro luogo. C’erano ancora lo stesso chiarore arcano, lo stesso vuoto, soltanto... adesso aveva l’impressione di non essere solo.

Nel momento in cui si rese conto di questo, vide comparire un semplice scranno nero, con lo schienale rivolto verso di lui. Seduta sullo scranno c’era una figura vestita di nero, con un cappuccio calato sulla testa.

Pensando che forse era stato commesso un errore e che il chierico l’avesse portato nel luogo sbagliato, Tasslehoff, stringendo nervosamente le borse nelle mani, girò con cautela intorno allo scranno per vedere la faccia della figura. O forse fu lo scranno a girarsi per vedere la sua faccia. Il kender non ne fu sicuro.

Comunque, quando lo scranno si mosse, la faccia della figura comparve alla sua vista.

Tasslehoff seppe allora che non era stato commesso nessun errore.

Non era un Drago a Cinque Teste quello che vide. Non era un gigantesco guerriero con un’armatura nera e ardente. Non era neppure la Tentatrice Tenebrosa, che tanto aveva infestato i sogni di Raistlin. Era una donna vestita tutta di nero, con un cappuccio aderente calato sopra i capelli, che incorniciava la faccia in un ovale nero. La pelle era bianca, liscia e senza tempo, i suoi occhi grandi e scuri. Le sue braccia, racchiuse in un nero tessuto attillato, erano appoggiate sui braccioli dello scranno, le sue mani bianche s’incurvavano sulle estremità dei braccioli.

L’espressione della sua faccia non faceva inorridire, non terrorizzava, non spaventava, non ispirava nessun timore reverenziale; in realtà non era neppure un’espressione. Eppure, Tas era consapevole che lei lo stava passando al vaglio con cura estrema, scavando nella sua anima, studiando parti di lui della cui esistenza lui stesso non aveva il minimo sospetto.

«So... sono Tasslehoff Burrfoot. Ma... Maestà,» balbettò il kender, porgendole istintivamente la piccola mano. Si rese conto troppo tardi di quel gesto offensivo e fece per ritirare la mano e inchinarsi, ma poi sentì il tocco di cinque dita sul suo palmo. Fu un tocco brevissimo, ma fu come se avesse afferrato una manciata di ortiche. Cinque pungenti rami di dolore gli trafissero il braccio, penetrandogli fino al cuore e facendolo rantolare.

Ma svanirono con la stessa rapidità con cui l’avevano toccato. Si ritrovò molto vicino all’adorabile donna pallida, e talmente pacata era l’espressione dei suoi occhi che Tas avrebbe potuto benissimo dubitare che fosse lei la causa di quel dolore, soltanto che, nell’abbassare lo sguardo sul palmo della sua mano, vi vide un segno simile a una stella a cinque punte.

Raccontami la tua storia.

Tas trasalì. Le labbra della donna non si erano mosse, ma l’aveva udita parlare. Inoltre si rese conto, in preda a un’improvvisa paura, che probabilmente lei conosceva la sua storia molto più di lui stesso.

Sudando, stringendo nervosamente le borse, quel giorno Tasslehoff Burrfoot «fece» storia, almeno per quanto riguarda il modo che hanno i kender di narrare le storie. Raccontò l’intero suo viaggio fino a Istar in meno di dieci secondi. Ed ogni singola parola era vera.

«Par-sallian mi ha mandato accidentalmente indietro nel tempo con il mio amico Caramon. Dovevamo uccidere Fistandantilus che era Raistlin e così non l’abbiamo fatto. Io stavo per fermare il Cataclisma con il congegno magico, ma Raistlin me l’ha fatto rompere. Ho seguito il chierico chiamato Dama Crysania giù fino al laboratorio sotto il Tempio di Istar per cercare Raistlin e fargli riparare il congegno. Il tetto è crollato e mi ha fatto perdere i sensi. Quando mi sono svegliato se n’erano tutti andati e il Cataclisma si era abbattuto e adesso sono morto e sono stato mandato nell’Abisso.»

Tasslehoff tirò un profondo, tremulo sospiro, e si asciugò il viso con l’estremità del suo lungo ciuffo di capelli. Poi, rendendosi conto che il suo ultimo commento era stato assai poco complimentoso, si affrettò ad aggiungere: «Non che io voglia lamentarmi, Vostra Maestà. Sono sicuro che chiunque l’abbia fatto deve aver avuto una buonissima ragione. Dopotutto, io ho rotto un Globo dei draghi, e mi pare di ricordare che qualcuno una volta ha detto che avevo preso qualcosa che non mi apparteneva, e... e non ho avuto per Flint tutto il rispetto che avrei dovuto, immagino, e una volta, per scherzo, ho nascosto i vestiti di Caramon mentre faceva il bagno e così ha dovuto camminare per Solace tutto nudo. Ma,» Tasslehoff non potè fare a meno di tirar su col naso, «ho sempre aiutato Fizban a cercare il suo cappello!»

Non sei morto, disse la voce, né sei stato mandato qui. In effetti, non dovresti affatto trovarti qui.

A questa sorprendente rivelazione, Tasslehoff guardò direttamente la Regina negli occhi scuri e nebulosi. «No?» squittì, sentendo la sua voce farsi tutta strana. «Non sono morto?»

Involontariamente si portò la mano alla testa, che gli faceva ancora male. «Così, questo spiega tutto! Avevo pensato che qualcuno avesse fatto confusione...»

Ai kender non è permesso trovarsi qui, continuò la voce.

«Non mi sorprende affatto,» continuò Tas con tristezza, sentendosi assai più se stesso, dal momento che non era morto. «Ci sono un mucchio di posti su Krynn vietati ai kender.»

La voce poteva benissimo non averlo udito. Quando sei entrato nel laboratorio di Fistandantilus, sei stato protetto dall’incantesimo che aveva lanciato su quel luogo. Il resto di Istar è sprofondato nelle viscere del sottosuolo quando si è abbattuto il Cataclisma. Ma io sono riuscita a salvare il Tempio del Gran Sacerdote. Quando sarò pronta, tornerà nel mondo, come farò anch’io, io stessa.

«Ma non vincerai,» disse Tas senza riflettere. «Io... io lo s... so» tartagliò, mentre quello sguardo scuro lo trafiggeva. «Io c’è... c’ero.»

No, non c’eri, poiché non è ancora successo. Vedi, kender, sconvolgendo l’incantesimo di Par-Sallian, hai fatto sì che sia possibile alterare il tempo. Fistandantilus, o Raistlin, come tu lo conosci, te l’ha detto. E per questo che ti ha mandato a morire, o così pensava. Non voleva che il tempo venisse alterato. Il Cataclisma era necessario per lui così da poter portare quel chierico di Paladine avanti nel tempo quando disporrà dell’unico, vero chierico esistente in tutto il paese.

Tasslehoff credette di vedere per la prima volta un guizzo di tenebroso divertimento negli occhi in ombra della donna, e rabbrividì senza capire il perché.

Ben presto ti rincrescerai di quella decisione, Fistandantilus, mio ambizioso amico. Ma è troppo tardi. Povero, piccolo mortale, hai commesso un errore, un errore costoso. Sei prigioniero nel cappio del tuo stesso tempo. Stai correndo avanti verso la tua fine.

«Non capisco,» gridò Tas.

Sì che capisci, replicò la voce, con calma. La tua venuta mi ha fatto vedere il futuro. Tu mi hai dato la possibilità di cambiarlo. E, distruggendo te, Fistandantilus ha distrutto la sua sola possibilità di liberarsi. Il suo corpo perirà di nuovo, come perì tanto tempo fa. Soltanto che questa volta, quando la sua anima cercherà un nuovo corpo che lo ospiti, io lo fermerò. Così il giovane mago, in futuro, affronterà la Prova nella Torre della Grande Stregoneria, e là morirà. Non vivrà per ostacolare i miei piani. Ad uno ad uno anche gli altri moriranno, poiché senza l’aiuto di Raistlin, Goldmoon non troverà il bastone di cristallo azzurro. Così... l’inizio della fine per il mondo.

«No!» gemette Tas, affranto dall’orrore. «Non... non può essere! Non... non intendevo far questo. Vo... volevo soltanto accompagnare Caramon in questa avventura. Non... non avrebbe potuto farcela da solo. Aveva bisogno di me!»

Il kender si guardò intorno freneticamente, cercando una via di scampo. Ma anche se pareva che fosse possibile scappare in qualunque direzione, non c’era nessun posto dove nascondersi.

Inginocchiandosi davanti alla donna vestita di nero, Tas sollevò lo sguardo su di lei. «Cos’ho fatto? Cos’ho fatto?» gridò freneticamente.

Hai fatto qualcosa per cui perfino Paladine potrebbe essere tentato di voltarti le spalle, kender.

«Cosa mi farai?» singhiozzò Tas, disperato. «Dove andrò?» Sollevò il volto striato di lacrime.

«Immagino che tu non pos... possa rimandarmi da Caramon? O nel mio tempo?»

«Il tuo tempo non esiste più. In quanto a mandarti da Caramon, questo è impossibile, come certamente capisci. No, rimarrai qui, con me, in modo che io possa esser certa che niente vada storto.

«Qui?» rantolò Tas. «Per quanto tempo?»

La donna cominciò a svanire davanti ai suoi occhi, luccicando per poi scomparire completamente nel nulla davanti a lui. Non a lungo, immagino, kender. Niente affatto a lungo. O forse per sempre...

«Cosa vuoi dire? Cosa significa?» Tas si voltò e si trovò davanti il chierico dal volto grigio, il quale era apparso riempiendo il vuoto lasciato da Sua Maestà Tenebrosa. «Non a lungo o per sempre?»

«Anche se non sei morto, stai già adesso morendo. La tua forza vitale ti sta lasciando, come deve accadere a qualsiasi essere vivente che si avventuri per errore qua sotto e che non abbia il potere di combattere il male che lo divora da dentro. Quando sarai morto, gli dei decideranno il tuo destino.»

«Capisco,» disse Tas, ricacciando indietro il nodo in gola. Chinò la testa. «Me lo merito, suppongo. Oh, Tanis, mi dispiace! Davvero non avevo intenzione di farlo...»

Il chierico lo afferrò dolorosamente per il braccio. Il paesaggio circostante cambiò. Il terreno cominciò a scorrere sotto i suoi piedi. Ma Tasslehoff non se ne accorse proprio. Con gli occhi pieni di lacrime, si lasciò andare alla più cupa disperazione e sperò che la morte arrivasse in fretta.

Capitolo ottavo

«Eccoti arrivato,» disse il chierico scuro. Dove?» chiese Tas svogliatamente, più per forza d’abitudine che per interesse.

Il chierico ristette, poi scrollò le spalle. «Suppongo che se ci fosse una prigione nell’Abisso, sarebbe questa.»

Tas si guardò intorno. Come al solito, non c’era niente, semplicemente una distesa vasta e spoglia di vuoto arcano. Non c’erano pareti, né celle, né finestre sbarrate, né porte, né serrature, né carceriere.

E seppe, con profonda certezza, che questa volta non c’era via di scampo.

«Devo forse starmene qui in piedi fino a quando cadrò?» chiese Tas con una vocina sottile. «Voglio dire, non potrei almeno avere un letto e uno sgabello, eh?»

Mentre ancora parlava, un letto si materializzò davanti ai suoi occhi, così come uno sgabello di legno a tre gambe. Ma perfino quegli oggetti familiari gli apparvero così orripilanti, là nel mezzo del nulla, che Tas non riuscì a sopportare di guardarli a lungo.

«Gra... grazie,» balbettò, andando verso lo sgabello e sedendovici sopra con un sospiro. «E il cibo e l’acqua?»

Aspettò un momento, per vedere se anche questi sarebbero comparsi, ma non successe. Il chierico scosse la testa, i suoi capelli grigi formarono una nube vorticante intorno a lui.

«No, le necessità del tuo corpo mortale verranno soddisfatte mentre ti trovi qui. Non sentirai nessuna fame, né sete. Ho perfino guarito le tue ferite.»

D’un tratto Tas si accorse che le costole avevano cessato di fargli male e che il dolore alla testa era scomparso. Il collare di ferro era svanito dal suo collo.

«Non c’è bisogno dei tuoi ringraziamenti,» continuò il chierico, vedendo che Tas stava per aprire la bocca. «Lo facciamo per evitare che tu c’interrompa durante il nostro lavoro. E così, addio...»

Il chierico scuro sollevò la mano, ovviamente preparandosi a partire.

«Aspetta! » gridò Tas, balzando su dal suo sgabello e agguantando quelle vesti scure e fluttuanti.

«Non ti vedrò più? Non lasciarmi solo!» Ma sarebbe stato lo stesso se avesse tentato di afferrare il fumo. Le vesti fluttuanti gli scivolarono fra le mani, e il chierico scuro scomparve.

«Quando sarai morto, restituiremo il tuo corpo alle terre sovrastanti e ci occuperemo della tua anima spedendola velocemente a destinazione... oppure facendola rimanere qui, a seconda di come sarai stato giudicato. Fino ad allora non avremo più nessun bisogno di metterci in contatto con te.»

«Sono solo!» disse Tas, guardando disperato la desolazione tutt’intorno. «Davvero solo... solo fino al momento della morte... e non ci vorrà molto,» aggiunse, triste. Tornò indietro e si sedette di nuovo sullo sgabello. «Tanto vale che muoia il più presto possibile e la faccia finita. Per lo meno avrò la possibilità di andare in qualche posto diverso... spero.» Sollevò lo sguardo su quell’immensità vuota.

«Fizban,» disse ancora Tas con voce sommessa, «probabilmente non mi potrai sentire da qua sotto. E comunque suppongo che non ci sia niente che tu possa fare per me, ma volevo dirti, prima di morire, che non avevo l’intenzione di causare tutti questi guai, scombussolando l’incantesimo di Par-sallian e tornando indietro nel tempo quando non avrei dovuto farlo... e tutto il resto.»

Tirando un sospiro, Tas congiunse le piccole mani, con il labbro inferiore che gli tremava. «Forse non conta molto... e suppongo che, se devo essere onesto, una parte di me se ne sia andata con Caramon soltanto perché...» inghiottì le lacrime che cominciavano a sgocciolargli dal naso, «... solo perché pareva tanto divertente! Ma, davvero, una parte di me è andata con lui perché non doveva, non poteva andare indietro nel tempo da solo! Era stordito a causa dello spirito dei nani, capisci. E io avevo promesso a Tika che mi sarei occupato di lui. Oh, Fizban! Se soltanto ci fosse un modo per uscire da questo pasticcio, farei del mio meglio per raddrizzare le cose. Davvero...»

«Altolà.»

«Cosa?» Tas quasi cadde dallo sgabello. Girandosi di scatto quasi convinto che avrebbe visto Fizban, invece si trovò davanti una bassa figura... ancora più bassa di lui... con brache marrone, una tunica grigia, e un grembiule di cuoio marrone.

«Ho­detto­alto­là,» ripetè la voce in tono piuttosto irritato.

«Oh, a... allò,» balbettò Tas, fissando la figura. Non assomigliava di certo a un chierico scuro, per lo meno Tas non aveva mai sentito dire che qualcuno di loro s’impaludasse con grembiuli di cuoio marrone. Ma, suppose, potevano sempre esserci eccezioni, specialmente considerando il fatto che i grembiuli di cuoio marrone sono indumenti così utili... Tuttavia, questa persona assomigliava talmente a qualcuno che lui conosceva, se soltanto fosse riuscito a ricordare...

«Cielo!» esclamò Tas all’improvviso, facendo schioccare le dita. «Sei uno gnomo! Scusami se ti faccio una domanda così personale,» il kender arrossì per l’imbarazzo, «ma tu sei... uh... morto?»

«Tusì?» chiese lo gnomo, squadrando il kender con sospetto.

«No,» replicò Tas, piuttosto indignato.

«Be’, non­lo­so­non­eppure­io!» sbottò lo gnomo.

«Uh, non potresti parlare un po’ più lentamente?» gli suggerì Tas. «So che la tua gente parla velocemente, ma facciamo fatica a capirvi, qualche volta...»

«Ho detto che non lo sono neppure io!» urlò lo gnomo a voce alta.

«Grazie,» disse Tas con cortesia. «E non sono duro d’orecchi. Puoi parlare con un tono di voce normale, ehm... puoi parlare lentamente e con un normale tono di voce,» si affrettò ad aggiungere, vedendo che lo gnomo stava tirando un profondo respiro.

«Come... ti... chiami?» chiese lo gnomo, parlando con la sveltezza di una lumaca.

«Tasslehoff... Burrfoot.» Il kender gli porse la piccola mano, che lo gnomo afferrò e strinse con vigore. «E tu? Voglio dire, come ti chiami? Oh, non intendevo dire...»

«La forma abbreviata!» gridò Tas, quando lo gnomo si fermò a tirare il fiato.

«Oh.» Lo gnomo parve afflitto. «Gnimsh.»

«Grazie. Lieto di conoscerti... uh... Gnimsh,» disse Tas, sospirando di sollievo. Si era completamente dimenticato che il nome di uno gnomo forniva all’incauto ascoltatore un completo resoconto della sua famiglia, a partire dal primo antenato conosciuto (o immaginato).

«Lieto di conoscerti, Burrfoot,» disse lo gnomo, e si strinsero di nuovo la mano.

«Vuoi sederti?» chiese Tas, prendendo posto sul letto e indicandogli cortesemente lo sgabello. Ma Gnimsh rivolse allo sgabello un’occhiata bruciante e si sistemò su una sedia che si era materializzata all’istante alle sue spalle. Tas cacciò un rantolo a quella vista. Era davvero una sedia straordinaria, aveva un poggiapiedi che andava su e giù e dei dondoli in basso che la facevano ondeggiare avanti e indietro, al punto, se l’occupante lo desiderava, di farlo stare sdraiato in posizione orizzontale come in un letto.

Sfortunatamente, quando Gnimsh vi si sedette sopra, la sedia s’inclinò troppo all’indietro facendo precipitare il nano che batté la testa per terra. Brontolando, lo gnomo si arrampicò di nuovo su di essa e mosse una leva. Questa volta l’appoggio per i piedi schizzò in alto, colpendolo al naso. Nel medesimo istante lo schienale scattò in avanti e, dopo un po’, Tas dovette intervenire per aiutare Gnimsh a salvarsi dalla sedia che pareva volesse divorarlo.

«Dannazione!» esclamò lo gnomo e, con un gesto della mano, rispedì la sedia nel luogo, qualunque fosse, da dov’era uscita, sedendosi poi, sconsolato, sullo sgabello di Tasslehoff.

Avendo visitato gli gnomi, e avendo già visto altre volte le loro invenzioni, Tasslehoff borbottò qualche parola adatta alla circostanza, sul tipo di «Molto interessante... davvero un modello d’avanguardia nel campo delle sedie...»

«No, non lo è,» sbottò Gnimsh, con grande stupore di Tas. «È un modello schifoso. Apparteneva al primo cugino di mia moglie. Non avrei mai dovuto pensarci. Ma,» sospirò, «talvolta ho nostalgia di casa.»

«Lo so,» annuì Tas, mandando giù un improvviso nodo alla gola. «S... se non ti dispiace che te lo chieda, cosa ci fai qui se non sei... uh... morto?»

«E tu, mi dirai cosa ci fai, qui?» replicò Gnimsh.

«Naturalmente,» disse Tas, poi gli venne un pensiero improvviso. Guardandosi intorno guardingo, si sporse in avanti. «Non è che qualcuno si arrabbi, vero?» chiese con un bisbiglio. «Se noi stiamo parlando, voglio dire? Forse non dovremmo farlo...»

«Oh, a loro non importa,» rispose Gnimsh, sprezzante. «Fintanto che non li importuniamo con la nostra presenza, siamo liberi di andare dappertutto. Naturalmente,» aggiunse, «dappertutto assomiglia a questo posto qui, perciò non è che ne valga molto la pena.»

«Capisco,» annuì Tas, interessato. «Tu, come ti sposti?»

«Con la mente. Non te n’eri ancora accorto? No, probabilmente no.»

Lo gnomo sbuffò. «I kender non sono mai stati famosi per il loro cervello.»

«Gli gnomi e i kender sono imparentati,» gli fece notare Tas, in tono stizzito.

«Così ho sentito dire,» rispose Gnimsh, scettico. Era ovvio che non ci credeva affatto.

Tasslehoff decise, nell’interesse della pace, di cambiare argomento. «Così, se voglio andare da qualche parte, devo soltanto pensare al posto, e arriverò là?»

«Entro certi limiti, naturalmente,» disse Gnimsh. «Per esempio, non puoi entrare in nessuno dei sacri recinti dove vanno i chierici scuri...»

«Oh.» Tas sospirò. Quei luoghi si erano trovati in cima alla sua lista di attrazioni turistiche. Poi tornò a rincuorarsi. «Tu hai fatto sbucare dal nulla quella sedia e, a ben pensarci, ho creato io questo letto e questo sgabello. Se penso a qualcosa, questa appare?»

«Provaci,» gli suggerì Gnimsh.

Tas pensò a qualcosa.

Gnimsh sbuffò quando una rastrelliera per cappelli comparve all’estremità del letto.

«Questa sì che è comoda.»

«Stavo soltanto facendo pratica,» ribatté Tas in tono offeso.

«Sarà meglio che tu faccia attenzione,» disse lo gnomo, vedendo illuminarsi la faccia di Tas.

«Talvolta, le cose che compaiono non sono proprio come te le aspetti.»

«Già.» Tas ricordò d’un tratto l’albero e il nano. Rabbrividì. «Immagino che tu abbia ragione. Be’, per lo meno qui ci siamo noi due. Qualcuno con cui parlare. Non puoi immaginare quanto fosse noioso.» Il kender tornò a sedersi sul letto immaginando per prima cosa, e con cautela, un cuscino.

«Insomma, vai avanti. Raccontami la tua storia.»

«Comincia tu.» Gnimsh lanciò un’occhiata in tralice a Tas.

«No, sei mio ospite.»

«Insisto. »

«Insisto anch’io.»

«Tu. Dopotutto sono qua da più tempo di te.»

«Come fai a saperlo?»

«Lo so e basta... Vai avanti.»

«Ma...» D’un tratto Tas si accorse che così non sarebbe arrivato da nessuna parte, e anche se, a quanto pareva, avevano a disposizione tutta l’eternità, lui non aveva in mente di passarla a discutere con uno gnomo.

Inoltre non c’era nessuna ragione per cui non dovesse raccontare la sua storia. E, in ogni caso, gli piaceva raccontare storie. Così, abbandonandosi comodamente con la schiena sul cuscino, raccontò la sua storia. Gnimsh l’ascoltò con interesse, anche se irritò parecchio Tas interrompendolo in continuazione per dirgli di «andare avanti» proprio nei momenti più eccitanti.

Infine Tas giunse alla conclusione. «E così, eccomi qua. Adesso la tua,» disse, contento di potersi fermare per tirare il fiato.

«Insomma,» disse Gnimsh esitante, guardandosi intorno con espressione cupa, come se temesse che qualcuno potesse ascoltare, «tutto è cominciato molti, moltissimi anni fa, con la Cerca per la Vita della mia famiglia. Lo sai, tu,» fissò Tas con occhi furenti, «cos’è una Cerca per la Vita?»

«Certo,» replicò Tas, loquace. «Il mio amico Gnosh aveva una Cerca per la Vita. Soltanto che la sua riguardava i globi dei draghi. Ad ogni gnomo viene assegnato un particolare progetto che deve completare con successo altrimenti non entrerà mai nell’Aldilà...» A Tas venne un pensiero improvviso. «Non sarà per questo che tu ti trovi qui, vero?»

«No.» Lo gnomo scosse la testa coperta di radi ciuffi. «La Cerca per la Vita della mia famiglia consisteva nello sviluppare un’invenzione che potesse trasportarci da un piano di esistenza a un altro. E,» Gnimsh tirò un sospiro, «la mia ha funzionato.»

«Ha funzionato?» chiese Tas, rizzandosi a sedere in preda allo stupore.

«In modo perfetto,» rispose Gnimsh con crescente irritazione.

Tasslehoff lo fissò sbalordito. Mai prima di allora aveva sentito parlare di una cosa del genere, un’invenzione gnomica che funzionava... e in modo perfetto, per giunta!

Gnimsh gli lanciò un’occhiata. «Oh, so quello che stai pensando,» disse. «Sono un fallimento. Tu non conosci neanche la metà della storia. Vedi, tutte le mie invenzioni funzionano. Tutte. »

Gnimsh si prese la testa fra le mani.

«Come... come mai questo fa di te un fallimento?» chiese Tas, confuso.

Gnimsh sollevò la testa, fissandolo. «Ah, a cosa serve inventare qualcosa se poi funziona? Dov’è la sfida? Il bisogno di creatività? Il pensare in avanti? Cosa ne sarebbe del progresso? Sai,» disse con tristezza sempre più profonda, «che se non fossi venuto qui si preparavano a esiliarmi? Dicevano che ero una chiara minaccia per la società. Che avevo fatto arretrare di cento anni l’esplorazione scientifica.»

Gnimsh chinò la testa. «È per questo che non mi spiace trovarmi qui. Come te, me lo merito. È dove probabilmente finirò in ogni caso.»

«Dov’è il tuo congegno?» chiese Tas, colto da un’improvvisa eccitazione.

«Oh, loro me l’hanno portato via, naturalmente,» rispose Gnimsh, agitando una mano.

«Be’» il kender pensò un momento, «non ne puoi immaginare uno? Hai immaginato quella sedia!»

«E hai visto cos’ho fatto!» rispose Gnimsh. «Ho buone probabilità di ritrovarmi con l’invenzione di mio padre. L’ha portato su un altro piano di esistenza, senza alcun dubbio. Il Comitato dei Congegni Esplodenti la sta studiando proprio adesso, infatti, o per lo meno lo stavano facendo quando mi sono trovato incastrato in questo posto. Cosa stai cercando di fare? Di trovare un modo per uscire dall’Abisso?»

«Devo farlo,» dichiarò Tas con risolutezza. «Altrimenti la Regina delle Tenebre vincerà la guerra, e sarà stata tutta colpa mia. Inoltre ho degli amici che stanno correndo un terribile pericolo. Be’, uno di loro non è esattamente un amico, ma è una persona interessante e, anche se ha cercato di uccidermi facendomi rompere il congegno magico, sono sicuro che non è stato niente di personale. Aveva una buona ragione...»

Tas smise di parlare.

«Ecco!» disse, saltando giù dal letto. «Ecco!» gridò con una tale eccitazione che un’intera foresta di rastrelliere per cappelli comparve tutt’intorno al letto con grande allarme da parte dello gnomo.

Gnimsh scivolò giù dal suo sgabello, fissando Tas con circospezione. «Cosa?» chiese, andando a sbattere contro una rastrelliera per cappelli.

«Guarda!» disse Tas, rovistando in mezzo alle sue borse. Ne aprì una, poi un’altra. «Eccolo qua!» disse, tenendo aperta una borsa per mostrarlo a Gnimsh. Ma proprio mentre lo gnomo lo fissava, d’un tratto Tas chiuse la borsa di scatto. «Aspetta!»

«Cosa?» chiese Gnimsh, sorpreso.

«Ci stanno osservando?» domandò Tas, con un filo di voce. «Lo sapranno?»

«Sapranno cosa?»

«Solo... lo sapranno?»

«No, suppongo di no,» rispose Gnimsh, esitando. «Non posso dirlo di sicuro, dal momento che non so cosa non dovrebbero sapere. Ma so che sono tutti molto indaffarati, in questo momento, da quanto posso capire. Svegliare i maghi malvagi e quel genere di cose, richiede un sacco di lavoro.»

«Bene,» disse Tas in tono severo, sedendosi sul letto. «Adesso guarda questo.» Aprì la borsa e ne versò fuori il contenuto. «Questo, che cosa ti ricorda?»

«Proprio l’anno in cui mia madre inventò il congegno per lavare i piatti,» disse lo gnomo, «in cucina si affondava fino al ginocchio nel vasellame rotto. Abbiamo dovuto...»

«No!» sbottò Tas, vivamente irritato. «Ascolta, tieni questo pezzo vicino a quest’altro, e...»

«Il mio congegno per i viaggi dimensionali!» rantolò Gnimsh. «Hai ragione! Assomigliava un po’ a questo. Il mio non aveva tutti questi gioiellini, ma... No, guarda, hai sbagliato tutto. Credo che vada messo qui e non lì. Sì. Hai visto? E poi questa catena si aggancia qui e si avvolge intorno così. No. Non proprio così. Deve andare... Aspetta, adesso ricordo. Prima, questo bisogna infilarlo qua dentro.» Sedendosi sul letto, Gnimsh prese uno dei gioielli e lo conficcò al suo posto. «Adesso mi serve un altro di questi aggeggi rossi.» Cominciò a riordinare i gioielli. «Ma cos’hai fatto con questo affare?» borbottò. «L’hai passato in un tritacarne?»

Ma lo gnomo, assorto nel suo compito, ignorò completamente la risposta di Tas. Nel frattempo, il kender approfittò dell’occasione per raccontare di nuovo la sua storia. Appollaiato sullo sgabello, Tas parlò beatamente e senza interruzioni, mentre, dimenticandosi completamente dell’esistenza del kender, Gnimsh cominciava a sistemare quella miriade di gioielli e di oggettini d’oro e d’argento e le catenelle, facendone mucchietti ordinati.

Tutto questo mentre Tas parlava, anche se continuava a tener d’occhio Gnimsh con il cuore colmo di speranza. Naturalmente, pensò con uno spasimo, aveva pregato Fizban, e c’erano tutte le possibilità di questo mondo che, se Gnimsh fosse riuscito a far funzionare il congegno, questo li spedisse su una luna, o li trasformasse tutti e due in polli, o qualcosa del genere. Ma, decise Tas, avrebbe dovuto correre quel rischio. Dopotutto, aveva promesso che avrebbe tentato di raddrizzare le cose, e anche se aver trovato uno gnomo fallito non era proprio quello che aveva avuto in mente, era sempre meglio che starsene seduto là ad aspettare di morire.

Nel frattempo, Gnimsh aveva creato col pensiero un pezzo di lavagna e un gessetto e stava controllando diagrammi, borbottando fra sé: «Si infila il gioiello A nell’aggeggio dorato B...»

Capitolo nono

«Un posto disgraziato, fratello mio,» osservò Raistlin con voce sommessa, mentre lentamente e con le membra irrigidite smontava dal suo cavallo.

«Ne abbiamo visti di peggio,» commentò Caramon, aiutando Dama Crysania a scendere dal suo destriero. «Dentro fa caldo ed è asciutto, il che lo rende cento volte migliore che qua fuori. Inoltre,» aggiunse burbero, lanciando un’occhiata a suo fratello, che era crollato contro il fianco del cavallo, tossendo e tremando, «nessuno di noi può cavalcare ancora senza riposare. Io mi occuperò dei cavalli. Voi due andate dentro.»

Crysania, rannicchiata nel suo mantello inzuppato, si era fermata in mezzo al fango profondo un piede e fissava la locanda con espressione apatica. Era, come aveva affermato Raistlin, un posto disgraziato.

Nessuno sapeva quale potesse essere il suo nome, poiché nessuna insegna era appesa sopra la porta.

In effetti, l’unica cosa che la distingueva come locanda era un pezzo di lavagna con sopra uno scarabocchio che sembrava dire, «Viaggiatori Benvenuti» (ma avrebbe potuto essere anche «Benveduti»...). L’edificio di pietra era vecchio e di costruzione robusta. Ma il tetto era sfondato, anche se erano stati fatti dei tentativi qua e là di rattopparlo con della paglia. Una finestra era rotta.

Era coperta da un vecchio cappello di feltro, probabilmente per tener fuori la pioggia. Il cortile era soltanto fango, con qualche erbaccia striminzita.

Raistlin era andato avanti. Adesso era fermo sulla soglia della porta spalancata e guardava Crysania.

All’interno ardeva una luce e l’odore del fumo di legna prometteva un fuoco. Mentre il volto di Raistlin s’induriva in un’espressione d’impazienza, una raffica di vento soffiò all’indietro il cappuccio del mantello di Crysania, investendo con la pioggia sferzante il suo viso. Con un sospiro arrancò in mezzo alla melma per raggiungere la porta d’ingresso.

«Benvenuto, padrone. Benvenuta, padrona.» Crysania trasalì a quella voce che le arrivò dal fianco, non aveva visto nessuno quand’era entrata. Voltandosi vide un uomo malaticcio rannicchiato in mezzo alle ombre dietro la porta, nel momento in cui questa si richiudeva sbattendo.

«Una giornata infame, padrone,» aggiunse l’uomo, sfregandosi le mani in atteggiamento servile.

Questo, un grembiule macchiato d’unto, e uno straccio a brandelli buttato sul braccio, facevano di lui il locandiere. Girando lo sguardo su quella locanda sudicia e squallida, Crysania lo giudicò perfettamente in armonia con l’ambiente. L’uomo si avvicinò ancora di più a loro sempre sfregandosi le mani, fino a quando fu talmente vicino che Crysania potè sentire il fetido odore della birra nel suo alito. Coprendosi il viso col mantello, si ritrasse da lui. Nel vedere quel gesto, l’uomo parve sogghignare, il sogghigno di un ubriaco che poteva anche apparire sciocco se non fosse stato per l’espressione astuta nei suoi occhi obliqui.

Per un momento, nel guardarlo, Crysania sentì che avrebbe preferito tornare in mezzo alla tempesta.

Ma Raistlin, limitandosi a lanciare un’occhiata tagliente al locandiere, disse, gelido: «Un tavolo vicino al fuoco.»

«Sì, padrone, sì. Un tavolo vicino al fuoco. Ci sta bene in una giornata cattiva come questa. Venite, padrone, padrona, da questa parte.» Ondeggiando e inchinandosi in una maniera ignobilmente adulatoria che, ancora una volta, veniva smentita dall’espressione degli occhi, l’uomo attraversò obliquamente la stanza strascicando i piedi, mai distogliendo lo sguardo da loro, sospingendoli verso un tavolo sudicio.

«Saresti uno stregone, padrone?» chiese il locandiere, allungando una mano per toccare le vesti nere di Raistlin, ma ritraendola subito all’occhiata di fuoco del mago. «E uno dei neri, per giunta. È passato un sacco di tempo da quando ne abbiamo visto uno,» aggiunse. Raistlin non rispose.

Sopraffatto da un altro accesso di tosse, si appoggiò pesantemente al bastone. Crysania lo aiutò a prender posto su una sedia accanto al fuoco. Lasciandosi cadere su di essa, Raistlin vi si rannicchiò, sporgendosi con gratitudine verso il calore.

«Dell’acqua calda,» ordinò Crysania, slacciandosi il mantello bagnato.

«Cos’ha?» chiese insospettito il locandiere, tirandosi indietro. «Non ha la febbre che brucia, vero? Perché, se è così, potete tornarvene fuori...»

«No,» replicò secca Crysania, buttando da parte il mantello. «La malattia è sua, e non danneggia gli altri.» Chinandosi accanto al mago, sollevò lo sguardo sul locandiere. «Ho chiesto dell’acqua calda,» ripetè perentoriamente.

«Sì.» Il labbro del locandiere s’incurvò. Non si sfregò più le mani, ma le infilò sotto il grembiule bisunto prima di allontanarsi con passo strascicato.

Smarrendo il disgusto nella propria preoccupazione per Raistlin, Crysania si dimenticò del locandiere mentre cercava di sistemare il mago in un modo un po’ più comodo. Gli slacciò il mantello da viaggio e lo aiutò a toglierselo, poi lo stese ad asciugare davanti al fuoco. Cercando in giro per la sala comune della locanda, trovò parecchi logori cuscini sulle sedie e, cercando d’ignorare la sporcizia che li copriva, li portò con sé per disporli intorno a Raistlin, in modo che potesse appoggiarvisi con la schiena e respirare più facilmente.

Inginocchiatasi accanto a lui per aiutarlo a togliersi gli stivali, sentì una mano toccarle i capelli.

«Grazie,» bisbigliò Raistlin, quando lei levò lo sguardo.

Crysania arrossì di piacere. I suoi occhi castani parevano più caldi del fuoco, e la sua mano le scostò dal viso i capelli bagnati con un tocco gentile. Crysania non riuscì a parlare o a muoversi, ma rimase inginocchiata al suo fianco, trattenuta dal suo sguardo.

«Sei la sua donna?»

La voce aspra dell’oste, da dietro le sue spalle, fece trasalire Crysania. Non l’aveva visto avvicinarsi né aveva sentito il suo passo strascicato. Alzandosi in piedi, incapace di guardare Raistlin, si voltò di scatto verso il fuoco senza dir nulla.

«È una dama di una delle case reali di Palanthas,» disse una voce profonda dalla porta d’ingresso.

«E ti sarò grato se vorrai parlare di lei con rispetto, oste.»

«Sì, padrone, sì,» borbottò il locandiere, in apparenza intimidito dall’enorme circonferenza di Caramon quando l’omone entrò trascinando con sé una raffica di vento e di pioggia. «Sono sicuro di non aver voluto mancarle di rispetto e spero che così sia stato interpretato.»

Crysania non rispose. Si girò a metà e disse con voce ovattata: «Metti quell’acqua sul tavolo.»

Quando Caramon chiuse la porta e si avvicinò per raggiungerli, Raistlin tirò fuori la borsa che conteneva la mistura d’erbe per la sua pozione. Buttandola sul tavolo, indicò a Crysania con un gesto di preparargli la bevanda. Poi riaffondò in mezzo ai cuscini, con il respiro affannoso, fissando le fiamme. Conscia dell’occhiata preoccupata che le rivolgeva Caramon, Crysania tenne fisso lo sguardo sulla pozione che stava preparando.

«I cavalli hanno mangiato e bevuto. Non li abbiamo affaticati troppo, così saranno in grado di proseguire dopo un’ora di riposo. Voglio raggiungere Solanthus prima del tramonto,» disse Caramon dopo qualche istante di sgradevole silenzio. Distese il proprio mantello davanti al fuoco.

Nuvole di vapore si alzarono da esso. «Hai ordinato da mangiare?» chiese all’improvviso a Crysania.

«No, soltanto... l’acqua calda,» mormorò Crysania, porgendo a Raistlin la sua bevanda.

«Oste, vino per la dama e il mago, acqua per me, e qualunque cosa tu abbia da mangiare,» ordinò Caramon, sedendosi al tavolo accanto al fuoco, sul lato opposto a suo fratello. Dopo aver viaggiato per settimane attraverso quella terra desolata verso le Pianure di Dergoth, tutti avevano imparato che bisognava accontentarsi di mangiare ciò che era reperibile nelle locande situate lungo il cammino, sempre che, invero, ce ne fosse qualcuna.

«Questo è soltanto l’inizio delle tempeste d’autunno,» commentò Caramon con calma rivolto a suo fratello mentre il locandiere tutto curvo usciva di nuovo dalla stanza. «Più ci inoltreremo a sud, più peggioreranno. Sei sempre deciso ad andare avanti nella tua impresa? Potrebbe essere la tua morte.»

«Cosa vuoi dire con questo?» chiese Raistlin con voce rotta. Alzandosi in piedi, si portò la tazza alle labbra e bevve un po’ della pozione calda.

«Niente, Raistlin,» rispose Caramon, sorpreso dall’occhiata penetrante di suo fratello. «È soltanto che... che... la tua tosse. Peggiora sempre con l’umidità.»

Scoccando un’occhiata tagliente a suo fratello e vedendo che, a quanto pareva, Caramon non aveva voluto dire più di quanto non avesse già detto, Raistlin si abbandonò ancora una volta sui cuscini.

«Sì, sono deciso a portare avanti la mia impresa. E così dovresti fare anche tu, fratello mio, poiché è l’unico modo che hai per poter rivedere la tua preziosa casetta.»

«Mi servirà proprio a tanto, se tu morirai per strada,» ringhiò Caramon.

Crysania fissò Caramon, scossa, ma Raistlin si limitò a sorridere amareggiato. «La tua preoccupazione mi commuove, fratello. Ma non temere per la mia salute. Le mie forze saranno sufficienti per arrivare là e lanciare l’incantesimo finale, se non mi affaticherò troppo nel frattempo.»

«Pare che tu abbia qualcuno che si preoccuperà che questo non ti succeda,» rispose Caramon con gravità, fissando Crysania.

Lei arrossì di nuovo e avrebbe fatto qualche osservazione se l’oste non fosse tornato. Fermandosi accanto a loro, con una pentola piena d’una sostanza fumante in una mano e una caraffa crepata nell’altra, li guardava con fare circospetto.

«Perdonate se ve lo chiedo, padroni,» piagnucolò, «ma prima vorrei vedere il colore dei vostri soldi. Con i tempi che corrono...»

«Ecco,» disse Caramon, tirando fuori una moneta dalla borsa e buttandola sul tavolo. «Questo basterà?»

«Sì, padroni, sì.» Gli occhi del locandiere luccicarono quasi quanto quel pezzo d’argento. Mettendo giù la pentola e la caraffa, facendo sgocciolare lo stufato sul tavolo, afferrò avidamente la moneta, tenendo d’occhio il mago per tutto il tempo, come se avesse timore che potesse farla sparire.

Cacciandosi la moneta in tasca, il locandiere andò con passo strascicato dietro lo squallido bancone e tornò con tre scodelle, tre cucchiai di corno e tre boccali. Sbatté giù anche questi sul tavolo, poi si fece indietro, sfregandosi ancora una volta le mani. Crysania prese le scodelle e, fissandole disgustata, cominciò subito a lavarle nell’acqua calda rimasta.

«Vi serve altro, padroni, padrona?» chiese l’oste con un tono di voce così untuoso che Caramon fece una smorfia.

«Hai pane e formaggio?»

«Sì, padrone.»

«Incartocciane un po’, allora, in un cesto.»

«Proseguirete il viaggio... vero?» chiese l’oste.

Mettendo le scodelle sul tavolo, Crysania sollevò lo sguardo, consapevole d’un sottile cambiamento nella voce dell’uomo. Lanciò un’occhiata a Caramon, per vedere se anche lui se n’era accorto, ma l’omone stava rimescolando lo stufato, annusandolo famelico. Raistlin, dando l’impressione di non aver sentito, continuava a fissare il fuoco, stringendo senza vigore tra le mani il boccale vuoto.

«Non passeremo di certo la notte qua,» disse Caramon, versando lo stufato nelle scodelle con il mestolo.

«Non troverete alloggi migliori a... Dove avete detto che andate?» chiese il locandiere.

«Non ti riguarda,» rispose Crysania con freddezza. Prendendo un’intera scodella di stufato, la portò a Raistlin. Ma il mago, dopo aver dato un’occhiata a quella sostanza densa coperta da uno strato di grasso, le fece segno di portarla via. Per quanto fosse affamata, anche Crysania non riuscì a mandar giù più di qualche cucchiaiata di quell’intruglio, e con molto sforzo. Spingendo da parte la scodella, si avvolse stretta nel suo mantello ancora umido e si rannicchiò sulla sedia, chiudendo gli occhi e cercando di non pensare che fra un’ora e mezza sarebbe stata di nuovo in sella, cavalcando ancora una volta in mezzo a quella terra desolata, martellata dalle tempeste.

Raistlin si era già addormentato. Gli unici suoni li produceva Caramon, intento a mangiare lo stufato con l’appetito di un vecchio veterano, e dall’oste che, tornato in cucina, stava preparando il cesto come gli era stato ordinato.

Un’ora dopo, Caramon portò i cavalli fuori dalla stalla: tre cavalli da monta e uno da soma, sovraccarico, con il fardello celato da una coperta e assicurato da robuste corde. Aiutò suo fratello e Dama Crysania a salire in groppa, e dopo essersi accertato che fossero entrambi saldamente in sella, montò a sua volta sul suo gigantesco destriero. Il locandiere era uscito fuori in mezzo alla pioggia, a capo scoperto, reggendo il cesto. Lo porse a Caramon, sogghignando e dondolando, mentre la pioggia gli inzuppava i vestiti.

Con un breve ringraziamento, e lanciando una moneta all’oste, che finì nel fango ai suoi piedi, Caramon afferrò le redini del cavallo da soma e si avviò. Crysania e Raistlin lo seguirono, pesantemente infagottati nei loro mantelli, per proteggersi dai rovesci.

L’oste, in apparenza ignorando la pioggia, raccolse la moneta e li osservò allontanarsi. Due figure emersero dai recinti delle stalle e lo raggiunsero.

Buttando in aria la moneta, l’oste li guardò. «Ditegli che hanno preso la strada per Solanthus.»

Caddero facilmente vittima dell’imboscata.

Cavalcando alla luce morente di quella giornata lugubre, sotto foltissimi alberi dai cui rami l’acqua sgocciolava monotona e le cui foglie cadute cancellavano del tutto il suolo sotto gli zoccoli dei loro cavalli, ognuno di loro era assorto nei suoi foschi pensieri. Nessuno udì il galoppare o lo sferragliare dell’acciaio lucente fino a quando non fu troppo tardi.

Prima che potessero accorgersi di ciò che stava accadendo, ombre scure si lasciarono cadere giù dagli alberi, come giganteschi e terrificanti uccelli, soffocandoli con le loro ali ammantate di nero.

Tutto venne fatto in silenzio e con grande abilità.

Uno di loro si arrampicò sulle spalle di Raistlin, stordendo il mago prima che potesse voltarsi. Un altro si lasciò cadere da un ramo accanto a Crysania, tappandole la bocca e puntandole la punta di un pugnale alla gola. Ma ci vollero tre di loro per trascinare giù Caramon dal suo cavallo, al suolo, e quando la lotta finalmente terminò, uno dei malfattori non si rialzò. Né, a quanto pareva, l’avrebbe mai più fatto. Giaceva immobile nel fango, con la testa piegata nella direzione sbagliata.

«Ha il collo spezzato,» riferì uno dei banditi a una figura che si avvicinava per esaminare il lavoro fatto, una volta che fu tutto finito.

«E anche un lavoro preciso,» commentò con freddezza il bandito, squadrando Caramon, che veniva immobilizzato dalla stretta di quattro uomini, con le enormi braccia legate da corde d’arco. Il sangue colava copioso da un profondo taglio sulla testa, la pioggia gli faceva scendere il sangue annacquato sul viso. Scuotendo la testa, cercando di schiarirsela, Caramon continuò a lottare.

Il capo, notando i muscoli rigonfi che tendevano fino al limite della loro resistenza le robuste corde d’arco impregnate d’acqua, riempiendo di apprensione parecchi dei suoi uomini, scosse la testa con ammirazione.

Caramon, riuscendo finalmente a liberarsi dallo stordimento e scuotendosi via il sangue e la pioggia dagli occhi, si guardò intorno. Almeno venti o trenta uomini, massicciamente armati, erano disposti in cerchio intorno a loro. Sollevando lo sguardo sul loro capo, Caramon borbottò un’imprecazione.

Quell’uomo era decisamente il più grosso umano che avesse mai visto!

I suoi pensieri ritornarono all’istante a Raag e all’arena dei gladiatori a Istar. «E in parte orco,» si disse, sputando un dente che gli era saltato via durante il combattimento. Ricordando vividamente il gigantesco orco che aveva aiutato Arack ad allenare i gladiatori per i Giochi, Caramon vide che, malgrado fosse ovviamente umano, quell’uomo esibiva una carnagione giallastra, e il caratteristico volto orchesco dal naso piatto. Inoltre, era molto più alto della maggior parte degli umani, torreggiando con la testa e le spalle perfino sopra di lui, e aveva braccia simili a tronchi d’albero.

Ma Caramon notò che camminava con una strana andatura e che indossava un lungo mantello, il quale si trascinava sul terreno, nascondendogli i piedi.

Nell’Arena, gli era stato insegnato a valutare un avversario e a cercarne tutti i punti deboli. Caramon osservò dunque l’uomo con molta attenzione. Quando il vento scostò il folto mantello di pelliccia che lo copriva, Caramon, con vivo stupore, vide che l’uomo aveva una gamba sola. L’altra era d’acciaio.

Notando l’occhiata di Caramon alla sua gamba d’acciaio, il mezz’orco esibì un ampio sogghigno e si avvicinò di un passo all’omone.

Allungando un’enorme mano, il bandito accarezzò affettuosamente Caramon sulla guancia.

«Ammiro un uomo che sa combattere bene,» disse con voce sommessa. Poi, con sorprendente velocità, serrò la mano a pugno, tirò indietro il braccio e colpì Caramon alla mascella. La forza del colpo fece cadere all’indietro il grosso guerriero, facendo quasi crollare a terra anche quelli che lo tenevano. «Ma pagherai per la morte del mio uomo.»

Raccogliendo intorno a sé il lungo mantello di pelliccia, il mezz’orco si avvicinò con passo pesante a Crysania, tenuta saldamente per le braccia da due dei furfanti. Il suo catturatore le teneva ancora tappata la bocca con la mano e, malgrado il suo volto fosse pallido, i suoi occhi erano cupi e colmi di collera.

«Proprio carina,» disse il mezz’orco con voce sommessa. «Non è ancora la Festa dei Doni e abbiamo già un regalo.» La sua risata rimbombò in mezzo agli alberi. Allungando una mano afferrò il mantello di Crysania e glielo strappò via dal collo. Il suo sguardo guizzò sulla sua figura curvilinea, ben rivelata dalla pioggia che le inzuppò all’istante le bianche vesti. Il suo sorriso si allargò e gli occhi scintillarono. Tese la sua enorme mano.

Crysania si ritrasse da lui, ma il mezz’orco l’agguantò con facilità, ridendo.

«Ma cos’è questo ciondolo che porti, dolcezza?» chiese, andando con lo sguardo al medaglione di Paladine che Crysania portava intorno al collo sottile. «Lo trovo... indecoroso. Puro platino, eh?»

Fece un fischio. «Meglio che lo tenga io per te, mia cara. Temo che nel godimento della nostra passione possa andar perduto...»

Ormai Caramon si era ripreso a sufficienza per vedere il mezz’orco che afferrava il medaglione con la mano. C’era un luccichio di truce divertimento negli occhi di Crysania, anche se rabbrividì visibilmente al tocco del bandito. Un lampo di purissima luce bianca crepitò in mezzo alla pioggia sferzante. Il mezz’orco tirò indietro di scatto la mano, con un grido di dolore, lasciando la presa su Crysania.

Un brontolio si levò dagli uomini che li attorniavano. L’uomo che tratteneva Crysania mollò a sua volta la presa, e lei si liberò con uno strattone guardandolo con furore e stringendosi di nuovo addosso il mantello.

Il mezz’orco sollevò la mano, la faccia contorta dalla rabbia. Caramon temette che avrebbe colpito Crysania quando, nel medesimo istante, uno degli uomini gridò.

«Lo stregone... si sta riavendo!»

Gli occhi del mezz’orco erano ancora puntati su Crysania, ma abbassò la mano. Poi, sorrise. «Bene, strega, adesso hai vinto tu, a quanto pare.» Guardò di nuovo Caramon. «Mi piacciono gli scontri, sia nel combattimento che nell’amore. Questa promette di essere una notte di divertimenti, in tutti i modi.»

Con un gesto ordinò all’uomo che aveva trattenuto Crysania di agguantarla un’altra volta, e l’uomo lo fece, anche se Caramon potè notare la sua estrema riluttanza. Il mezz’orco si avvicinò a Raistlin che giaceva al suolo gemendo per il dolore.

«Di tutti loro il più pericoloso è lo stregone. Legategli le mani dietro la schiena e imbavagliatelo,» ordinò il ladrone con voce raschiante. «Se si mette anche soltanto a gracidare, tagliategli la lingua. Questo gli farà passare una volta per tutte la voglia di lanciare incantesimi.»

«Perché non lo ammazziamo adesso, così non se ne parla più?» grugnì uno degli uomini.

«Fai pure, Brack,» disse il mezz’orco in tono ameno, voltandosi di scatto a fissare l’uomo che aveva parlato. «Prendi il tuo coltello e tagliagli la gola.»

«Non con le mie mani,» borbottò l’uomo, arretrando di un passo.»

«No? Preferiresti che fossi io a venir maledetto per aver assassinato una Veste Nera?» continuò il capo, sempre con lo stesso tono soave. «Ti piacerebbe vedere la mia mano, con cui impugno la spada, appassire e cadere al suolo?»

«Non... non intendevo questo, naturalmente, Piedacciaio. Non... non pensavo, è tutto.»

«Allora comincia a pensare. Adesso non può farci del male. Guardalo.» Piedacciaio indicò Raistlin con un gesto. Il mago giaceva supino, con le mani legate davanti a sé. Le mascelle gli erano state aperte a forza e un bavaglio gli era stato legato intorno alla bocca. Ma i suoi occhi luccicavano dalle ombre del cappuccio in una collera funesta, e le sue mani si stringevano con tale furore impotente che più d’uno di quegli uomini robusti intorno a lui si chiese inquieto se tali misure fossero adeguate.

Forse percependo lui stesso qualcosa, Piedacciaio si avvicinò zoppicando a Raistlin che lo fissava con odio amaro. Quando si fermò accanto al mago, un sorriso increspò la faccia giallastra del mezz’orco, il quale d’un tratto colpì col piede d’acciaio della sua gamba artificiale la tempia di Raistlin. Il mago si afflosciò. Crysania gridò allarmata, ma il suo catturatore la tenne stretta. Perfino Caramon fu sorpreso nell’avvertire una rapida, lancinante contrazione al cuore quando vide la forma di suo fratello giacere rannicchiata nel fango.

«Questo dovrebbe tenerlo tranquillo per un po’. Quando raggiungeremo il campo lo benderemo e lo porteremo a fare una passeggiata sulla Roccia. Se dovesse scivolare e cadere dal dirupo, be’, sono cose che capitano, non è vero, uomini? Il suo sangue non ricadrà sulle vostre mani.»

Vi fu qualche risata sparsa, ma Caramon vide più d’uno lanciarsi a vicenda occhiate inquiete, scuotendo la testa.

Piedacciaio voltò le spalle a Raistlin per esaminare con occhi lucidi il cavallo da soma stracarico.

«Abbiamo fatto un ricco bottino, oggi, uomini,» dichiarò soddisfatto. Tornando indietro con passo pesante, andò di nuovo accanto a Crysania, inchiodata fra le braccia del suo innervosito catturatore.

«Davvero un ricco bottino,» mormorò ancora Piedacciaio. Con la sua enorme mano afferrò bruscamente il mento di Crysania. Chinandosi, schiacciò le sue labbra contro quelle di lei in un bacio brutale. Intrappolata fra le braccia del suo catturatore, Crysania non potè far nulla. Non lottò, forse un sesto senso le diceva che era proprio questo che l’uomo voleva. Si tenne ritta, con il corpo rigido. Ma Caramon vide le sue mani che si serravano e, quando Piedacciaio la lasciò, non potè fare a meno di distogliere di scatto lo sguardo da lui, con i capelli scuri che le ricadevano sulla guancia.

«Conoscete la mia politica, uomini,» disse Piedacciaio, accarezzandole rozzamente i capelli.

«Dividere fra noi le spoglie, dopo che mi sono preso la mia parte, naturalmente.»

A quelle parole si levarono altre risate e, qua e là, qualche applauso. Caramon non aveva alcun dubbio sul significato delle parole dell’uomo e indovinò, dai pochi commenti che udì, che quella non sarebbe stata la prima volta che le «spoglie» erano state «divise».

Ma c’erano alcuni volti, tra i più giovani, che si accigliarono, guardandosi l’un l’altro con inquietudine e scuotendo la testa. E vennero perfino borbottati alcuni commenti come: «Non vorrei mai aver niente a che fare con una strega!» e «Piuttosto mi porto a letto lo stregone!»

Strega! Quel termine era stato usato di nuovo. Vaghi ricordi si agitarono nella mente di Caramon, ricordi dei giorni quando lui e Raistlin avevano viaggiato con Flint, il fabbro nano; nei giorni che avevano preceduto il ritorno dei veri dei. Caramon rabbrividì rammentando d’un tratto con vivida chiarezza il giorno in cui erano entrati in una città dove stavano per mandare al rogo una vecchia per stregoneria. Si sovvenne come suo fratello e Sturm, il cavaliere eternamente nobile, avessero rischiato la vita per salvare la vegliarda, la quale si era rivelata soltanto un’illusionista di mezza tacca.

Ma Caramon aveva dimenticato fino a quel momento come la gente a quell’epoca considerasse ogni forma di potere magico; i poteri di Crysania, in quei giorni in cui non c’erano veri chierici, sarebbero stati ancora più sospetti. Rabbrividì, poi si costrinse a pensare con fredda logica. Bruciare sul rogo era una morte sgradevole, ma era assai più veloce di...

«Portatemi la strega.» Piedacciaio attraversò zoppicando il sentiero fino al punto in cui uno degli uomini reggeva le redini del suo destriero. Montando in sella fece un gesto. «Poi portate gli altri.»

Crysania venne trascinata avanti dal suo catturatore. Abbassandosi, Piedacciaio l’afferrò sotto le braccia e la sollevò sul cavallo, facendola sedere davanti a sé. Afferrò le redini fra le mani, con le grosse braccia avvolte intorno a lei, inghiottendola completamente. Crysania sedeva tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, il volto freddo e impassibile.

Lo sa? si chiese Caramon, osservando impotente Piedacciaio che gli passava davanti in sella al suo destriero con la faccia giallastra contorta da un sogghigno. Crysania è sempre vissuta nella bambagia, ben protetta da cose del genere. Forse non si rende conto di quali orrende azioni siano capaci questi uomini.

E poi Crysania guardò a sua volta Caramon. Il suo volto era tranquillo e pallido, ma c’era un’espressione di tale orrore nei suoi occhi, orrore e implorazione, che Caramon chinò la testa col cuore che gli doleva.

Lo sa... Che gli dei la aiutino. Lo sa...

Qualcuno spinse Caramon da dietro. Parecchi uomini lo afferrarono e lo gettarono con la testa in avanti sopra la sella del suo cavallo.

Disteso a testa in giù, con le forti braccia legate dalle corde d’arco che gli segavano la pelle, Caramon vide gli uomini sollevare il corpo floscio di suo fratello e buttarlo sopra la sella del suo cavallo. Poi i banditi montarono in groppa ai loro destrieri e condussero i loro prigionieri più addentro nelle profondità della foresta.

La pioggia cadeva a torrenti sulla testa nuda di Caramon, mentre il cavallo avanzava con passo pesante in mezzo al fango, scuotendolo rudemente. Il pomo della sella lo pungolava sul fianco; il sangue che gli affluiva alla testa gli faceva provare una sensazione di vertigine. Ma tutto quello che riuscì a vedere nella sua mente mentre cavalcavano erano quegli occhi scuri, pieni di terrore, che imploravano il suo aiuto.

E Caramon sapeva, con nauseante certezza, che non ci sarebbe stato nessun aiuto.

Capitolo decimo

Raistlin camminava attraverso un deserto ardente. Una fila di passi si stendeva davanti a lui sulla sabbia, e lui stava percorrendo quei passi. I passi continuavano a condurlo su e giù per le dune di un bianco brillante, avvampanti al sole. Aveva caldo, era stanco ed era tormentato da una sete terribile.

La testa gli dolorava, il petto gli faceva male, e lui voleva distendersi e riposarsi. In distanza c’era una pozza d’acqua, rinfrescata dall’ombra di alberi. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a raggiungerla. I passi non andavano in quella direzione, e lui non riusciva, per quanto facesse, a far deviare i suoi piedi verso la pozza.

Continuò ad avanzare a fatica, con le vesti nere che gli pesavano addosso. E poi, quasi esausto, sollevò lo sguardo e rantolò per il terrore. I passi conducevano a un patibolo! Una figura incappucciata di nero era inginocchiata con la testa appoggiata sul ceppo. E malgrado non potesse vedere la faccia, seppe con terribile certezza che era lui stesso, l’uomo inginocchiato lassù, sul punto di morire. Il boia si ergeva sopra di lui, con un’ascia insanguinata in mano. Anche il boia indossava un cappuccio nero che gli copriva la faccia. Sollevò l’ascia e la tenne sospesa sopra il collo di Raistlin. E quando l’ascia si abbatté, Raistlin intravide nei suoi ultimi momenti la faccia del boia...

«Raist!» bisbigliò una voce.

Il mago scosse la testa dolorante. Con la voce, giunse la confortante constatazione che, in realtà, aveva sognato. Lottò per svegliarsi, divincolandosi dall’incubo.

«Raist!» sibilò la voce, con maggior urgenza.

Una sensazione di vero pericolo, non di un pericolo sognato, destò completamente il mago.

Svegliandosi del tutto, giacque immobile per qualche istante, tenendo gli occhi chiusi fino a quando non ebbe una più completa consapevolezza di ciò che stava accadendo.

Giaceva sul terreno bagnato, le mani legate davanti a sé, la bocca imbavagliata. Avvertiva un dolore pulsante alla testa e la voce di Caramon all’orecchio.

Tutt’intorno, poteva udire voci e risate, e l’odore dei fuochi accesi per cucinare. Ma nessuna delle voci pareva molto vicina, salvo quella di suo fratello. E poi ogni cosa gli ritornò alla memoria.

Ricordò l’attacco, ricordò un uomo dalla gamba d’acciaio... Con cautela, Raistlin aprì gli occhi.

Caramon giaceva accanto a lui nel fango, disteso sullo stomaco, le braccia saldamente legate con corde d’arco. C’era un familiare luccichio negli occhi castani del suo gemello, un luccichio che fece riaffiorare un’ondata di ricordi dei vecchi tempi, tempi molto remoti, quando avevano combattuto insieme, combinando l’acciaio con la magia.

E, malgrado il dolore e l’oscurità che li circondava, Raistlin provò una sensazione esilarante che non aveva avvertito da moltissimo tempo.

Rinsaldato dal pericolo, adesso il legame tra i due era forte, permettendo loro di comunicare sia con le parole che con il pensiero. Vedendo che suo fratello era del tutto consapevole della loro situazione, Caramon si divincolò, avvicinandosi quanto più potè e la sua voce era quasi un sussurro.

«Puoi liberarti le mani in qualche modo? Hai ancora con te il pugnale d’argento?»

Raistlin annuì con un rapido gesto del capo. Sin dall’inizio del tempo gli dei avevano proibito ai fruitori di magia di portare su di sé un qualunque tipo di arma o d’indossare una qualunque armatura. In apparenza il motivo era che dovevano dedicare tutto il loro tempo allo studio, e non a conseguire abilità nell’arte delle armi. Ma dopo che i fruitori di magia avevano aiutato Huma a sconfiggere la Regina delle Tenebre creando i magici Globi dei draghi, gli dei avevano accordato loro il diritto di portare pugnali sulla propria persona, in memoria della lancia di Huma.

Legato al suo polso da un astuto marchingegno costituito da una cinghia di cuoio che avrebbe permesso all’arma di scivolargli nella mano quando ce ne fosse stato bisogno, il pugnale d’argento era l’ultima risorsa che Raistlin aveva per difendersi, da usarsi soltanto quando tutti i suoi incantesimi fossero stati lanciati... oppure in un momento come quello.

«Sei abbastanza forte per usare la tua magia?» gli bisbigliò Caramon.

Per un attimo Raistlin chiuse stancamente gli occhi. Sì, era abbastanza forte. Ma ciò significava un ulteriore indebolimento... e che ci sarebbe voluto dell’altro tempo per affrontare i Guardiani del Portale. Però, se non fosse vissuto fino ad allora...

Naturalmente, doveva vivere! pensò con amarezza. Fistandantilus era vissuto! Non faceva altro che seguire le orme dei suoi passi sulla sabbia.

Rabbiosamente, Raistlin bandì quel pensiero. Aprendo gli occhi, annuì. Sono abbastanza forte, disse mentalmente a suo fratello, e Caramon dette in un sospiro di sollievo.

«Raist,» bisbigliò l’omone, il volto improvvisamente grave e serio, «puoi... puoi indovinare... quello che hanno in mente per Crysania.»

Raistlin ebbe un’improvvisa visione delle rozze mani di quel corpulento umano orchesco su Crysania, e avvertì una sensazione stupefacente: si sentì afferrare da una rabbia e da un furore quali aveva provato di rado. Il suo cuore si contrasse dolorosamente e per un istante si trovò accecato da una nebbia velata di sangue.

Vedendo Caramon che lo fissava con stupore, Raistlin si rese conto che le sue emozioni dovevano risultare fin troppo visibili sulla sua faccia. Si accigliò, e Caramon si affrettò a continuare: «Ho un’idea.»

Raistlin annuì irritato, già conscio di ciò che suo fratello aveva in mente.

Caramon bisbigliò: «Se dovessi fallire...»

... allora la ucciderò io con le mie mani, terminò Raistlin. Ma, naturalmente, non ce ne sarebbe stato bisogno. Lui era al sicuro, protetto...

Poi, sentendo degli uomini che si avvicinavano, il mago chiuse gli occhi, contento di poter fingere di essere di nuovo privo di sensi. Ciò gli dava il tempo di districare il groviglio delle sue emozioni, costringendolo a riprendere il controllo. Il pugnale d’argento era freddo contro il suo braccio. Flette i muscoli che avrebbero liberato la cinghia. E durante tutto quel tempo rifletté sulla strana reazione che aveva avuto per una donna di cui non gl’importava niente... salvo l’utilità che aveva per lui come chierico, ovviamente.

Due uomini sollevarono Caramon in piedi con uno strattone e lo spinsero avanti. Caramon ringraziò il cielo che, a parte una rapida occhiata per accertarsi che il mago fosse ancora privo di sensi, nessuno dei due uomini prestasse la minima attenzione al suo gemello. Incespicando sul terreno accidentato, stringendo i denti per resistere al dolore dei muscoli delle gambe irrigiditi e congelati, Caramon si ritrovò a pensare a quella strana espressione sul volto di suo fratello quando lui aveva fatto il nome di Dama Crysania. Caramon l’avrebbe definita l’espressione indignata di un amante, se l’avesse vista sulla faccia di qualunque altro uomo. Ma suo fratello Raistlin era capace di una simile emozione? Ad Istar Caramon aveva deciso che Raistlin non lo era, e che era stato completamente divorato dal male.

Ma adesso il suo gemello pareva diverso, assai più simile al vecchio Raistlin, il fratello al cui fianco aveva combattuto tante volte in passato, la vita dell’uno affidata all’altro. Ciò che Raistlin aveva detto a Caramon su Tas era sensato. Così, dopotutto, non aveva ucciso il kender. E malgrado talvolta si fosse mostrato irritabile, Raistlin era sempre stato immancabilmente gentile con Crysania.

Forse...

Una delle guardie gli tirò un colpo doloroso nelle costole, ricordando a Caramon quanto fosse disperata la loro situazione. Forse! sbuffò. Forse sarebbe finito tutto qui, adesso. Forse l’unica cosa che avrebbe potuto comperare con la sua vita sarebbe stata una morte rapida per gli altri due.

Mentre attraversavano l’accampamento, ripensando a tutto ciò che aveva visto e udito, Caramon rielaborò mentalmente il suo piano.

Il campo dei banditi era più simile a una piccola città che a un nascondiglio di ladri. Vivevano in rozze capanne di tronchi d’albero, tenendo i loro animali al riparo in una grande caverna. Era ovvio che si trovavano là da un po’ di tempo, e a quanto pareva non temevano la legge ma si affidavano alla forza e alla capacità di condottiero del mezz’orco, Piedacciaio.

Ma Caramon, avendo avuto più d’uno scontro con dei banditi ai suoi tempi, vide che molti di quegli uomini non erano rozzi furfanti. Aveva osservato che parecchi di loro avevano lanciato delle occhiate a Crysania, con ovvio disgusto per ciò che sarebbe seguito. Nonostante indossassero poco più di qualche straccio, molti di loro avevano armi raffinate, spade d’acciaio trasmesse da padre in figlio, e le maneggiavano con la cura dovuta a un cimelio di famiglia, non a qualcosa che era frutto d’un saccheggio. E, malgrado non potesse esserne certo alla scarsa luce di quella giornata tempestosa, a Caramon parve di aver notato su molte delle spade la rosa del Martin Pescatore, l’antico simbolo dei Cavalieri di Solamnia. Gli uomini erano sbarbati, senza i lunghi baffi che contraddistinguevano quei cavalieri, ma Caramon poteva intuire nei loro volti giovani e severi l’impronta del suo amico, Sturm Brightblade. E nel ricordare Sturm, Caramon ricordò anche quello che sapeva della storia della cavalleria dopo il Cataclisma.

Accusati dalla maggior parte dei vicini di aver causato quell’orrenda calamità, i cavalieri erano stati cacciati dalle loro case dalla folla inferocita. Molti erano stati assassinati, le loro famiglie uccise davanti ai loro occhi. I sopravvissuti si erano dati alla clandestinità, vagando in solitudine per il paese, oppure unendosi a bande di fuorilegge, come quella.

Lanciando un’occhiata in giro per il campo, agli uomini intenti a pulire le loro armi e a parlare a bassa voce, Caramon vide i segni delle azioni malvagie sui volti di molti, ma vide anche espressioni di rassegnazione e di disperazione. Anche lui aveva conosciuto tempi duri. Sapeva ciò che un uomo poteva essere indotto a fare.

Tutto questo gli fece sperare che il suo piano potesse aver successo. Un falò era stato acceso al centro dell’accampamento, non lontano dal punto in cui lui e Raistlin erano stati scaricati al suolo.

Guardando dietro di sé vide che suo fratello continuava a fingere di essere privo di sensi. Ma vide anche, sapendo cosa guardare, che, contorcendosi, il mago era riuscito a girare il proprio corpo in una posizione dalla quale poteva sia vedere che sentire con chiarezza.

Mentre Caramon veniva avanti alla luce del fuoco, la maggior parte degli uomini interruppe quello che stava facendo e lo seguì formando un semicerchio intorno a lui. Piedacciaio aveva preso posto su una grande sedia di legno accanto al fuoco, con una fiasca in mano. In piedi accanto a lui, che ridevano e scherzavano, c’erano parecchi uomini che Caramon riconobbe subito per i tipici leccapiedi che adoravano il loro capo. E non fu sorpreso di vedere ai margini della folla il volto sgraziato e sogghignante del loro locandiere.

Crysania era seduta accanto a Piedacciaio, su un’altra sedia. Il mantello le era stato tolto. Il corpetto del vestito era lacerato, poteva ben pensare per mano di chi. E Caramon vide con rabbia crescente che c’era una chiazza purpurea sulla sua guancia. Un angolo della bocca era gonfio.

Ma sedeva con rigida dignità, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé e cercando d’ignorare le battute grossolane e le storie orripilanti che gli uomini si scambiavano. Caramon ebbe un cupo sorriso di ammirazione. Ricordando come Crysania fosse in preda al panico e ridotta a uno stadio di quasi follia negli ultimi giorni di Istar, e pensando alla sua precedente vita in mezzo agli agi e alle mollezze, protetta da ogni pericolo, si sentì compiaciuto, addirittura stupefatto, nel vederla reagire a quella pericolosa situazione con una freddezza che Tika avrebbe potuto invidiarle.

Tika... Caramon si accigliò. Non aveva avuto intenzione di pensare a Tika, specialmente in associazione con Dama Crysania! Costringendo i suoi pensieri al presente, distolse deliberatamente gli occhi dalla donna, volgendoli al suo nemico e concentrando la sua attenzione su di lui.

Nel vedere Caramon, Piedacciaio smise di conversare e con un ampio gesto fece segno al guerriero di avvicinarsi.

«È ora di morire, guerriero» disse Piedacciaio, sempre con lo stesso tono amabile nella voce. Lanciò una pigra occhiata a Crysania. «Sono certo, Dama, che non ti dispiacerà se il nostro incontro è rimandato di qualche momento, mentre mi occupo di questa faccenda. Lo considero un piccolo passatempo prima di coricarmi, mia cara.» Accarezzò la guancia di Crysania con la mano. Quando lei si scostò da lui e i suoi occhi scuri avvamparono di collera, lui cambiò la sua carezza in uno schiaffo, colpendola in pieno viso.

Crysania non gridò. Sollevando la testa fissò il suo tormentatore con uno sguardo pieno d’orgoglio.

Sapendo che non poteva lasciarsi distrarre dalla preoccupazione per lei, Caramon tenne il suo sguardo puntato sul capo, studiandolo con calma. Quest’uomo regna con la paura e la forza bruta, pensò fra sé. Fra quelli che lo seguono, molti lo fanno con riluttanza. Hanno tutti paura di lui; probabilmente è la sola legge in questa terra dimenticata da dio. Ma è ovvio che li ha tenuti ben nutriti e in vita, là dove altrimenti sarebbero morti. Perciò gli sono fedeli. Ma fino a che punto arriva la loro fedeltà?

Mantenendo la propria voce calma e ferma, Caramon si drizzò in tutta la sua altezza fissando il mezz’orco con un’espressione di disprezzo. «È così che mostri il tuo coraggio? Picchiando le donne?» gli disse schernendolo. «Slegami, dammi una spada, e vedremo che razza d’uomo sei veramente!»

Piedacciaio lo guardò con interesse e, Caramon lo notò preoccupato, con un’espressione d’intelligenza sul suo volto da bruto.

«Avevo sperato che, da te, guerriero, avrei avuto qualcosa di più originale,» dichiarò Piedacciaio con un sospiro che era parte scena, e parte no, mentre si alzava in piedi. «Forse non sarai poi una grande sfida per me, come avevo a tutta prima pensato. Comunque, stasera non ho niente di meglio da fare. Stasera sul presto, s’intende,» si corresse, rivolgendo a Crysania, che lo ignorò, un’occhiata lasciva e un inchino licenzioso.

Il mezz’orco buttò da parte l’ampio mantello di pelliccia che indossava e, voltandosi, ordinò a uno dei suoi uomini di portargli la spada. I leccapiedi si precipitarono a obbedirgli, mentre gli altri uomini si spostavano per circoscrivere uno spazio sgombro su un lato del falò: era ovvio che quello era uno sport che era stato goduto e apprezzato altre volte. Durante il trambusto, Caramon riuscì ad attirare lo sguardo di Crysania.

Chinando la testa, lanciò un’occhiata significativa in direzione del punto in cui Raistlin era disteso.

Crysania afferrò subito il significato di quell’occhiata. Guardando in direzione del mago, dette in un triste sorriso e annuì. La sua mano si chiuse intorno al medaglione di Paladine e le sue labbra gonfie si mossero.

Le guardie spinsero Caramon nel cerchio, e lui la perse di vista. «Ci vorrà molto di più che qualche preghiera a Paladine per tirarci fuori da questo pasticcio, Dama,» borbottò fra sé, chiedendosi, con una certa dose di divertimento, se suo fratello in quello stesso momento non fosse intento a pregare la Regina delle Tenebre.

Be’, lui non aveva nessuno da pregare, niente che potesse aiutarlo, se non i suoi stessi muscoli, ossa e tendini.

Tagliarono le corde che gli imprigionavano le braccia. Caramon sussultò per il dolore del sangue che gli riaffluiva nelle braccia e nelle gambe, ma flette i suoi muscoli irrigiditi, sfregandoli per aiutare la circolazione a scaldarsi. Poi si sfilò la camicia inzuppata di sudore e le brache, per combattere nudo. Gli indumenti avrebbero dato all’avversario la possibilità di afferrarsi a qualcosa, così gli aveva insegnato il suo vecchio istruttore, Arack il nano, nell’Arena dei Giochi di Istar.

Alla vista dello splendido fisico di Caramon si levò un mormorio di ammirazione dagli uomini che formavano il cerchio tutt’intorno. La pioggia scorreva sul corpo muscoloso e abbronzato, il riflesso del fuoco luccicava sul suo petto e sulle sue spalle forti, mettendo in rilievo anche le cicatrici di molte battaglie. Qualcuno porse a Caramon una spada, e il guerriero la fece roteare con esercitata scioltezza e ovvia abilità. Perfino Piedacciaio, nell’entrare dentro a quel cerchio d’uomini, parve un po’ sconcertato alla vista dell’ex gladiatore.

Ma se Piedacciaio era rimasto, momentaneamente, sorpreso dall’aspetto del suo avversario, Caramon era rimasto altrettanto sconcertato dall’aspetto di Piedacciaio. Mezzo orco e mezzo umano, Piedacciaio aveva ereditato le migliori caratteristiche di entrambe le razze. Aveva la corpulenza e i muscoli degli orchi, ma era svelto di piede e agile, mentre nei suoi occhi c’era la pericolosa intelligenza di un essere umano. Anche lui combatteva quasi nudo, poiché indossava soltanto un perizoma di cuoio. Ma ciò che fece uscire sibilante il respiro fra i denti a Caramon era l’arma che il mezz’orco impugnava, certamente la spada più bella che il guerriero avesse mai visto in vita sua.

Una lama enorme, che era stata concepita per essere usata con due mani. Invero, pensò Caramon, giudicandola con occhio esperto, ben pochi uomini, fra quanti lui ne conosceva, avrebbero potuto sollevarla, e ancor meno maneggiarla. Ma Piedacciaio non soltanto l’impugnava con facilità: la usava con una mano sola. E la usava bene, questo Caramon potè constatarlo facilmente dai fendenti ben sincronizzati ed esperti che il mezz’orco stava vibrando per prova. La lama d’acciaio colse la luce del fuoco mentre tagliava l’aria e produsse un acuto ronzio mentre falciava l’oscurità, lasciandosi dietro una scia di luce fiammeggiante.

Quando il suo avversario entrò zoppicando nel cerchio, con la gamba d’acciaio che brillava, Caramon si avvide, con disperazione, che non si trovava ad affrontare l’avversario stupido e brutale che si era aspettato, ma uno spadaccino esperto, un uomo intelligente, che aveva superato la sua menomazione, riuscendo a combattere con la maestria che un uomo con due gambe poteva ben invidiargli.

Non soltanto Piedacciaio aveva superato il suo handicap, come Caramon scoprì dopo il primo assalto, ma il mezz’orco ne faceva uso in maniera assolutamente micidiale.

I due si guatarono, facendo delle finte, ognuno prestando attenzione alla minima debolezza nella difesa dell’avversario. Poi, all’improvviso, tenendosi agilmente in equilibrio sulla gamba sana, Piedacciaio usò la gamba d’acciaio come se fosse un’altra arma. Girandosi di scatto, colpì Caramon con la gamba d’acciaio, con tale forza da far stramazzare al suolo l’omone al quale la spada schizzò via di mano.

Recuperando rapidamente l’equilibrio, Piedacciaio avanzò con la sua enorme spada, ovviamente con l’intenzione di por fine al combattimento e di procedere con altri sollazzi. Ma, nonostante fosse stato colto di sorpresa, Caramon aveva visto quel tipo di mossa nell’Arena. Giacendo al suolo, respirando affannosamente per riprendere fiato, fingendo che il colpo gli avesse fatto mancare il respiro, Caramon aspettò fino a quando il nemico non gli fu vicino. Poi, allungando una mano, afferrò la gamba buona di Piedacciaio e gliela fece mancare di sotto con uno strattone.

Gli uomini intorno lo acclamarono e lo applaudirono. A quelle grida e agli applausi, Caramon sentì il sangue pulsargli con violenza nelle vene, quando gli ritornarono vividi alla mente i ricordi dell’Arena di Istar. Ogni preoccupazione concernente il fratello dalle vesti nere o il chierico biancovestito svanì. E anche i pensieri di casa. Ogni sua incertezza scomparve. L’eccitazione del combattimento, l’intossicante droga del pericolo, gli tumultuarono nelle vene, riempiendolo di un’estasi molto simile a quella che provava suo fratello quando usava la magia.

Rialzandosi e vedendo che il suo nemico faceva altrettanto, Caramon fece un improvviso, disperato balzo verso la sua spada, che giaceva ad alcuni passi da lui. Ma Piedacciaio fu più veloce.

Raggiunta la spada di Caramon per primo, la colpì con un calcio facendola volare in aria.

Senza perdere d’occhio il suo avversario, Caramon guardò intorno a sé alla ricerca di un’altra arma e vide il falò, che avvampava all’estremità del cerchio degli spettatori.

Ma Piedacciaio colse l’occhiata di Caramon. Intuendo all’istante il suo obbiettivo, il mezz’orco si mosse per bloccarlo.

Caramon si lanciò di corsa. La lama saettante del mezz’orco gli incise la pelle dell’addome, lasciandosi dietro una scintillante scia di sangue. Tuffandosi in avanti, Caramon rotolò vicino ai ceppi, ne afferrò uno per un’estremità e fu di nuovo in piedi nell’istante in cui Piedacciaio conficcava la lama nel terreno, là dove la testa dell’omone si era trovata solo pochi istanti prima.

La spada descrisse un nuovo arco nell’aria. Caramon ne udì il sibilo e riuscì a stento a parare in tempo il colpo con il ceppo. Schegge e faville volarono in tutte le direzioni quando la spada morse il legno poiché Caramon aveva afferrato un ceppo che ardeva a un’estremità. La forza del colpo di Piedacciaio fu tremenda. Fece vibrare le mani di Caramon e l’orlo aguzzo del ceppo gli affondò dolorosamente nella carne. Ma tenne duro, usando la sua enorme forza per spingere indietro il mezz’orco mentre Piedacciaio lottava per recuperare l’equilibrio.

Il mezz’orco rimase saldo, piantando infine la sua gamba metallica nel terreno e spingendo indietro Caramon. Lentamente i due contendenti ripresero la loro posizione, mettendosi a girare in cerchio l’uno intorno all’altro. Poi l’aria si riempì della luce balenante dell’acciaio e delle braci ardenti.

Caramon non ebbe nessuna idea di quanto a lungo lottarono. Il tempo sprofondava in una nebbia di dolore pungente e paura e fatica. Respirava in rantoli irregolari. I polmoni gli bruciavano come l’estremità stessa del ceppo, le mani erano scorticate e sanguinanti. Ma non era ancora riuscito a conquistare nessun vantaggio. Mai in vita sua si era trovato ad affrontare un simile avversario.

Anche Piedacciaio, che aveva cominciato lo scontro con un sorriso di sprezzante fiducia, adesso affrontava il suo avversario con cupa determinazione. Adesso, tutt’intorno a loro, gli uomini erano silenziosi, affascinati da quella mortale contesa.

In effetti, gli unici suoni udibili erano il crepitio del fuoco, il respiro affannoso dei duellanti, e il tonfo di un corpo quando uno dei due cadeva nel fango, o il grugnito di dolore quando un colpo arrivava a segno.

Il cerchio degli astanti e la luce del falò cominciarono a farsi confusi alla vista di Caramon. Adesso, per il suo braccio dolorante il ceppo pareva più pesante di un intero albero. Respirare era una sofferenza. Caramon sapeva che il suo avversario era esausto quanto lui, poiché Piedacciaio aveva trascurato di dar seguito a un colpo vantaggioso, essendo stato costretto, semplicemente, a fermarsi per riprendere fiato. Il mezz’orco aveva un brutto livido purpureo che gli correva lungo il fianco, là dove il ceppo di Caramon l’aveva colpito. Tutti i presenti avevano udito lo schiocco delle costole e avevano visto la sua faccia giallastra contorcersi per il dolore.

Ma aveva risposto con una piattonata che aveva fatto barcollare all’indietro Caramon, costringendolo a flagellare l’aria con il ceppo nel frenetico tentativo di parare il colpo. Adesso i due si guatavano, senza sentire nulla, senza che nulla importasse se non l’avversario che stava di fronte.

Entrambi sapevano che il prossimo errore sarebbe stato fatale.

Poi Piedacciaio scivolò nel fango. Fu soltanto una piccola scivolata, che lo fece cadere sul ginocchio buono, bilanciandosi sulla gamba d’acciaio. All’inizio del combattimento si sarebbe rialzato nel giro di pochi istanti. Ma le forze cominciavano a venirgli meno e gli ci volle un momento di troppo per riuscire a farcela, e con fatica.

Quel momento era ciò che Caramon aveva atteso. Avanzando con passo barcollante, usando l’ultimo brandello d’energia che aveva in corpo, Caramon sollevò il ceppo e lo calò con quanta forza aveva sul ginocchio al quale la gamba d’acciaio era attaccata. Così come il martello colpisce un chiodo, il colpo di Caramon conficcò la gamba d’acciaio in profondità nel terreno zuppo.

Ringhiando per il furore e il dolore, il mezz’orco si girò e si contorse, cercando disperatamente di trascinar via la gamba d’acciaio per liberarla, tentando allo stesso tempo di tener lontano Caramon con i colpi sferzanti della sua spada. La sua forza era così tremenda che quasi ci riuscì. Perfino adesso, nel vedere il suo avversario intrappolato, Caramon dovette lottare contro la tentazione di consentire che il suo corpo ferito e dolorante si riposasse, lasciando perdere il suo antagonista.

Ma quella contesa poteva concludersi in un solo modo. Entrambi l’avevano saputo sin dall’inizio.

Avanzando con passo barcollante, roteando trucemente il ceppo, Caramon colpì la lama del mezz’orco facendogliela volar via di mano. Vedendo la morte negli occhi di Caramon, Piedacciaio lottò ancora con aria di sfida per liberarsi. Perfino all’ultimo momento, mentre il ceppo nelle mani dell’omone tagliava sibilando l’aria, le mani gigantesche del mezz’orco cercarono di ghermire Caramon per le braccia.

Il ceppo si abbatté sulla sua testa con un tonfo umido e zuppo e uno scricchiolio di ossa, scagliando all’indietro il mezz’orco. Il corpo si contorse per qualche istante, poi restò immobile. Piedacciaio giacque nel fango, con la gamba metallica che ancora lo inchiodava al suolo, la pioggia che ripuliva via il sangue e le cervella che colavano fuori dalle crepe del suo cranio.

Incespicando per la stanchezza e il dolore, Caramon cadde sulle ginocchia, appoggiandosi al ceppo intriso di pioggia e di sangue, cercando di riprender fiato. Le orecchie gli rombavano e le grida rabbiose degli uomini che si erano lanciati avanti per ucciderlo lo lasciarono indifferente. Non gliene importava. Non gli facevano né caldo né freddo. Che venissero pure.

Ma nessuno l’attaccò.

Confuso da questo fatto, Caramon sollevò lo sguardo su una figura vestita di nero che si era inginocchiata accanto a lui. Sentì l’esile braccio di suo fratello che lo cingeva protettivo, e vide dardi guizzanti di luce scaturire minacciosi dalle dita del mago. Chiudendo gli occhi, Caramon appoggiò la testa contro il fragile petto di suo fratello e tirò un profondo, tremulo respiro.

Poi sentì un paio di fresche mani toccargli la pelle e udì una morbida voce che mormorava una preghiera a Paladine. Caramon spalancò gli occhi di colpo. Spinse via Crysania che lo guardò stupita, ma era troppo tardi. La sua influenza guaritrice si diffuse in tutto il suo corpo. Udì gli uomini intorno a lui rantolare quando le ferite sanguinanti scomparvero, i lividi svanirono, e il colore riaffluì sul suo volto diventato d’un pallore mortale. Neppure i fuochi d’artificio dell’arcimago avevano creato quell’esplosione di grida d’allarme e di sconcerto causate dalla guarigione.

«Stregoneria! L’ha guarito! Bruciate la strega!»

«Bruciateli tutti e due, la strega e lo stregone!»

«Hanno asservito il guerriero. Li uccideremo e libereremo la sua anima!»

Lanciando un’occhiata a suo fratello, Caramon vide, dalla cupa espressione sul volto di Raistlin, che anche il mago stava rivivendo vecchi ricordi ed era consapevole del pericolo.

«Aspettate!» rantolò Caramon, alzandosi in piedi mentre la folla d’uomini mormoranti si faceva sempre più vicina. Sapeva che soltanto la paura della magia di Raistlin impediva a quegli uomini di scagliarsi su di loro e, udendo gli improvvisi e sussultanti colpi di tosse del fratello, Caramon temette che la forza di Raistlin potesse ben presto venir meno.

Afferrando Crysania che era in preda alla confusione, Caramon la spinse dietro di sé per proteggerla, mentre affrontava la folla di uomini spaventati e rabbiosi.

«Toccate questa donna, e morirete come è morto il vostro capo!» urlò, con voce alta e chiara sopra la pioggia sferzante.

«Perché dovremmo lasciar vivere una strega?» ringhiò uno di loro, e vi furono mormorii di consenso.

«Perché è la mia strega!» esclamò Caramon con severità, lanciando un’occhiata di sfida intorno a sé.

Sentì Crysania, alle sue spalle, che dava in un violento respiro, ma Raistlin le lanciò un’occhiata ammonitrice e, se era stata sul punto di parlare, la donna ebbe ora il buon senso di stare zitta. «Non mi tiene in schiavitù ma obbedisce ai miei ordini e a quelli dello stregone. Non vi farà alcun male, lo giuro.»

Fra gli uomini si levarono dei mormorii, ma i loro occhi, quando tornarono ad appuntarsi su Caramon, non erano più minacciosi. Anche prima c’era stata ammirazione, ma adesso potè vedere anche un riluttante rispetto e una disponibilità ad ascoltare.

«Mettiamoci in viaggio,» cominciò Raistlin con voce sommessa, «e poi...»

«Aspetta!» esclamò Caramon con voce raschiante. Stringendo il braccio di suo fratello, l’attirò accanto a sé e gli bisbigliò. «Mi è venuta un’idea. Bada a Crysania!»

Annuendo, Raistlin si spostò accanto a Crysania, la quale adesso se ne stava in silenzio con gli occhi sul gruppo silenzioso dei banditi. Caramon si avvicinò al corpo del mezz’orco che giaceva nel fango che si andava arrossando. Si chinò, liberò la grande spada dalla stretta di Piedacciaio, e la sollevò in alto sopra la testa. Il grosso guerriero era uno spettacolo magnifico, la luce del fuoco si rifletteva sulla sua pelle bronzea, i muscoli delle braccia gli s’increspavano mentre si ergeva in trionfo sopra il corpo del nemico che aveva abbattuto.

«Ho ucciso il vostro capo. Adesso rivendico il diritto di prendere il suo posto!» urlò Caramon, e la sua voce echeggiò fra gli alberi. «Vi chiedo soltanto una cosa, che lasciate questa vita di massacri, stupri e rapine. Andremo a sud...»

Questo causò una reazione inaspettata. «A sud! Vanno a sud!» gridarono parecchie voci e vi fu qualche applauso sparso. Caramon li fissò, colto di sorpresa, non riuscendo a capire. Raistlin si fece avanti e gli strinse il braccio.

«Cosa stai combinando?» volle sapere il mago, pallido in volto.

Caramon scrollò le spalle, girandosi intorno perplesso nel contemplare l’entusiasmo che aveva creato. «Mi era parsa una buona idea avere una scorta armata, Raistlin,» disse. «Le terre più a sud sono, stando a tutti i resoconti che abbiamo sentito, più selvagge di quelle che abbiamo attraversato finora. Pensavo che avremmo potuto portare con noi alcuni di questi uomini, è tutto. Non capisco...»

Un giovane di nobile portamento, che più d’ogni altro richiamava alla mente di Caramon la figura di Sturm, venne avanti. Facendo segno agli altri perché stessero zitti, chiese: «Andate a sud? Non cercherete per caso la favoleggiata ricchezza dei nani di Thorbardin?»

Raistlin si accigliò. «Hai capito, adesso?» ringhiò. Venne scosso da un attacco di tosse che quasi lo soffocò, lasciandolo debole e boccheggiante. Se non fosse stato per Crysania che si affrettò a sorreggerlo, avrebbe potuto cadere.

«Vedo che hai bisogno di riposarti,» rispose Caramon, con voce cupa. «Tutti noi ne abbiamo bisogno. E a meno che non troviamo una qualche scorta armata, non riusciremo mai ad avere una tranquilla notte di sonno. Cosa c’entrano i nani di Thorbardin? Cosa sta succedendo?»

Raistlin fissò il suolo. Il suo volto era nascosto dalle ombre del cappuccio. Infine, sospirando, dichiarò, gelido: «Digli di sì, digli che andiamo a sud. Che attaccheremo i nani.»

Caramon spalancò gli occhi. «Attaccare Thorbardin?»

«Ti spiegherò più tardi,» ringhiò Raistlin con voce sommessa. «Fai come ti ho detto.»

Caramon esitò.

Scrollando le esili spalle, Raistlin ebbe un sorriso sgradevole. «E l’unica strada che ti rimane per tornare a casa, fratello mio! E forse la sola che abbiamo per uscire vivi da qui.»

Caramon si guardò intorno. Gli uomini avevano ripreso a borbottare durante quella breve conversazione. Era ovvio che sospettavano delle loro intenzioni. Rendendosi conto che doveva affrettarsi a prendere una decisione, se non voleva perderli per sempre, e forse perfino affrontare un altro attacco, si girò, cercando di guadagnar tempo per pensarci sopra un po’ di più.

«Andremo a sud,» disse. «È vero. Ma per le nostre ragioni.»

«Cos’è che hai detto su questa ricchezza a Thorbardin?»

«Corre voce che i nani abbiano immagazzinato una grande ricchezza nel regno sotto le montagne,» rispose prontamente l’uomo. Altri intorno a lui annuirono.

«Ricchezze che hanno rubato agli umani,» aggiunse un altro.

«Già. Non soltanto denaro,» gridò un terzo, «ma grano, bestiame e pecore. Mangeranno come re quest’inverno, mentre noi saremo a pancia vuota!»

«Avevamo già parlato altre volte di andare a sud e prendere la nostra parte,» proseguì il giovane,

«ma Piedacciaio diceva che qui le cose andavano anche bene. Ma qualcuno di noi ha avuto dei ripensamenti.»

Caramon rifletté; avrebbe desiderato conoscere un po’ di più la storia. Aveva sentito parlare delle Grandi Guerre della Porta dei Nani, naturalmente. Il suo vecchio amico Flint parlava solo di quello.

Flint era un nano delle colline. Aveva riempito la testa di Caramon di storie sulla crudeltà dei nani delle montagne di Thorbardin, dicendo quasi le stesse cose che avevano detto quegli uomini. Ma, da come l’aveva raccontata Flint, i nani delle montagne avevano rubato tutte quelle ricchezze ai nani delle colline.

Se ciò era vero, allora Caramon poteva ben essere giustificato nel prendere quella decisione.

Naturalmente, avrebbe potuto fare come suo fratello gli ordinava. Ma a Istar qualcosa, dentro a Caramon, si era rotto. Anche se cominciava a pensare di aver giudicato male suo fratello, lo conosceva abbastanza bene per continuare a diffidare di lui. Mai più avrebbe ubbidito ciecamente a Raistlin.

Ma poi sentì gli occhi luccicanti di Raistlin su di lui, e la voce del fratello gli echeggiò nella mente.

E la sola strada che ti rimane per tornare a casa!

Caramon strinse il pugno, in preda a un’improvvisa collera, ma sapeva di non potersi in alcun modo ribellare a suo fratello. «Andremo a sud fino a Thorbardin,» disse aspro volgendo lo sguardo turbato sulla spada che stringeva in pugno. Poi sollevò la testa e guardò gli uomini che lo circondavano.

«Verrete con noi?»

Vi fu un attimo di esitazione. Parecchi uomini si fecero avanti per parlare al giovane nobile il quale adesso, a quanto pareva, era diventato il loro portavoce. Lui ascoltò, annuì, poi tornò a rivolgersi a Caramon.

«Ti seguiremmo senza esitazione, grande guerriero,» dichiarò il giovane, «ma cos’hai da spartire con questo stregone vestito di nero? Chi è, perché noi dobbiamo seguirlo?»

«Mi chiamo Raistlin,» rispose il mago. «Quest’uomo è la mia guardia del corpo.»

Non vi fu nessuna risposta, soltanto fronti che si corrugavano dubbiose e occhiate indecise.

«Sono la sua guardia del corpo, questo è vero,» confermò Caramon, con calma. «Ma il vero nome del mago è Fistandantilus.»

A quelle parole si udirono rauchi respiri fra gli uomini. I volti corrucciati divennero espressioni di rispetto, perfino di paura e sgomento.

«Mi chiamo Garic,» disse il giovane, rivolgendo un inchino all’arcimago con la cortesia di vecchio stampo dei Cavalieri di Solamnia. «Abbiamo sentito parlare di te, Grande mago. E malgrado le tue azioni siano tenebrose come le tue vesti, a quanto pare noi viviamo in un’epoca di azioni tenebrose. Seguiremo te e il grande guerriero che hai portato con te.»

Garic si fece avanti e depose la spada ai piedi di Caramon. Altri seguirono il suo esempio, qualcuno con entusiasmo, altri più guardinghi. Altri invece si ritrassero fra le ombre. Riconoscendo in loro quei furfanti codardi che erano, Caramon li lasciò andare.

Gli rimasero all’incirca trenta uomini, alcuni con lo stesso portamento nobile di Garic, ma la maggior parte di loro erano ladri e malandrini sporchi e cenciosi.

«Il mio esercito,» disse Caramon fra sé, quella sera, con un cupo sorriso, mentre stendeva il suo mantello nella capanna di Piedacciaio, che il mezz’orco aveva costruito per proprio uso. Poteva sentire Garic che, fuori della porta, stava parlando con l’altro uomo che Caramon aveva giudicato abbastanza degno di fiducia da metterlo di sentinella.

Caramon, con la stanchezza che si sentiva nelle ossa, aveva pensato che si sarebbe addormentato presto. Invece, si ritrovò disteso nel buio, sveglio, a pensare e a far progetti.

Come la maggior parte dei giovani soldati, Caramon aveva spesso sognato di diventare ufficiale.

Adesso, nella maniera più inaspettata, gli si presentava quella possibilità. Non era un gran comando, forse, ma pur sempre un inizio. Per la prima volta da quando erano arrivati in quel tempo dimenticato dagli dei, provava un barlume di piacere.

I progetti turbinavano l’uno sull’altro nella sua mente. L’addestramento, le strade migliori per il sud, gli approvvigionamenti, le scorte... Questi erano problemi nuovi e diversi per l’ex soldato mercenario. Perfino nella Guerra delle Lance, lui aveva quasi sempre seguito la guida di Tanis. Suo fratello non sapeva niente di quelle faccende; Raistlin aveva informato Caramon, con voce gelida, che avrebbe dovuto cavarsela da solo. Caramon la considerava una sfida e, stranamente, la trovava elettrizzante.

Quelli erano problemi concreti, da toccare con mano, che scacciavano dalla sua mente i problemi tenebrosi e ombrosi di suo fratello.

Riandando col pensiero al suo gemello, Caramon lanciò un’occhiata a Raistlin che giaceva rannicchiato accanto al fuoco che ancora avvampava nell’enorme camino di pietra. Nonostante l’intenso calore, era avvolto nel suo mantello e in tutte le coperte che Crysania era riuscita a trovare.

Caramon sentì il respiro che raschiava nei polmoni di suo fratello il quale, nel sonno, di tanto in tanto era scosso da un colpo di tosse.

Crysania dormiva sull’altro lato del fuoco. Malgrado fosse esausta, il suo sonno era tormentato e interrotto. Più di una volta gridò e balzò a sedere all’improvviso, pallida e tremante. Caramon sospirò. Gli sarebbe piaciuto confortarla, prenderla tra le braccia e cullarla fino a farla addormentare. In effetti, per la prima volta si rese conto di quanto gli sarebbe piaciuto farlo. Forse perché aveva detto agli uomini che lei era sua. Forse perché vedeva ancora le abominevoli mani del mezz’orco su di lei... Caramon rivisse lo stesso senso d’indignazione che aveva visto riflesso sulla faccia di suo fratello. Qualunque fosse la ragione, quella notte Caramon si sorprese a osservarla in maniera molto diversa da come l’aveva osservata prima, e nella mente gli vorticarono pensieri che gli fecero bruciare la pelle e accelerare il battito del polso.

Chiudendo gli occhi, s’impose di richiamare alla memoria immagini di Tika, sua moglie. Ma aveva bandito quei ricordi per così tanto tempo che li trovò insoddisfacenti. Tika era una figura nebulosa e sfocata ed era lontanissima. Crysania era in carne ed ossa e si trovava là! Era molto consapevole del suo respiro sommesso e costante...

Dannazione! Le donne! Irritato, Caramon si girò sullo stomaco, deciso, per così dire, a spazzare sotto il tappeto degli altri suoi problemi tutti i pensieri sulle femmine. Funzionò. Finalmente la stanchezza ebbe la meglio su di lui.

Mentre scivolava nel sonno una cosa lo turbava, ancora sospesa nei recessi della mente. Non erano problemi logistici o di guerriere dai capelli rossi, o anche di adorabili donne-chierico biancovestite.

Era soltanto un’occhiata, e nient’altro: la strana occhiata che Raistlin gli aveva scoccato quando aveva fatto il nome di «Fistandantilus».

Non era stata un’occhiata di rabbia o d’irritazione, come Caramon avrebbe potuto aspettarsi.

L’ultima cosa che Caramon vide prima che il sonno cancellasse il ricordo fu l’espressione di puro, abbietto terrore negli occhi di Raistlin.

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