I carri discendevano l’ampia strada ripida, in un grande cigolio di freni, e i muli dovevano faticare per non essere spinti avanti. Len guardò oltre il ciglio della strada, nella gola piena d’ombre azzurrine. Guardò a lungo, senza parlare. Esaù si avvicinò, si mise al suo fianco, e guardarono entrambi, allora. E fu Esaù a voltarsi, pallidissimo, irato, e fu lui a gridare al signor Hostetter:
«Cosa credete che sia, uno scherzo? Credete che sia molto divertente, farci percorrere tutta questa strada, per…»
«Oh, piantala!» disse Hostetter. Sembrava stanchissimo, ora, all’improvviso, e impaziente, e parlava a Esaù come un uomo può parlare a un bambino noioso. Esaù fece silenzio. Hostetter diede un’occhiata a Len, di sbieco. Len non si era voltato, non aveva alzato la testa. Continuava a guardare nel fondo della gola.
C’era un paese, laggiù. Visto da quell’altezza, e con quell’angolazione, era soprattutto una collezione di tetti raggruppati intorno alle rive di un fiume circondato da un poco di vegetazione. Erano dei comunissimi tetti di comunissime casette, come Len ne aveva viste per tutta la vita, e pensò che quelle case dovevano essere fatte di tronchi. Nella parte settentrionale della gola c’era una piccola diga dietro la quale era racchiuso un occhio di acqua azzurra. Accanto alla diga, su di un pendio, si vedevano due alti edifici dall’aspetto inconsueto. Accanto a questi, delle rotaie salivano e scendevano il pendio, conducendo da un buco nella roccia a un mucchio di materiale frantumato. C’erano dei piccoli carri, sulle rotaie. Ai piedi del pendio c’erano diversi altri edifici, bassi e piatti, questi, lievemente curvi, di un colore rugginoso. Dall’altro lato della diga, una breve strada portava a un altro buco nella roccia, ma non c’erano rotaie, né carri, collegati a questo buco, e le rocce erano cadute fino a bloccare la strada.
Len vide delle persone. Del fumo usciva da alcuni comignoli. Diversi muli tiravano una processione di minuscoli carri sulle rotaie, lungo il pendio, e dopo qualche minuto un rumore gli giunse, ancora lontano, remoto come quello di un’eco.
Si voltò, allora, e guardò Hostetter.
«Fall Creek,» disse Hostetter. «È una cittadina mineraria. Argento. Non della prima qualità, ma abbastanza buono, e in grande abbondanza. Continuiamo a estrarlo. Non c’è alcun segreto su Fall Creek, né mai c’è stato.» Fece un ampio gesto con la mano, scuro in volto. «Noi viviamo qui.»
Len disse, lentamente:
«Ma non è Bartorstown.»
«No. E il nome non è esatto, inoltre. Non si tratta, in realtà, di una vera città.»
Ancora più lentamente, Len disse:
«Papà mi disse che non esisteva alcun luogo simile. Mi disse che si trattava soltanto di un’idea, di un modo di pensare.»
«Tuo padre aveva torto. Esiste un luogo simile, ed è reale. Abbastanza reale, per far lavorare centinaia e centinaia di persone per tutta la vita.»
«Ma dove?» domandò Esaù, furioso. «Dove?»
«Hai aspettato tanto tempo. Puoi aspettare ancora qualche ora.»
Proseguirono la discesa, seguendo la tortuosa, ripida strada. L’ombra della montagna si allargò e riempì la gola, e cominciò ad avvolgere la parete orientale, salendo incontro a loro. Più in basso, sulla cresta di una vecchia cascata, alcuni pini raccoglievano la luce, e diventavano di un verde violento, troppo violento per i toni rossi e ocra della roccia.
Len disse:
«Fall Creek è un paese come tutti gli altri.»
«Non si può uscire completamente dal mondo,» disse Hostetter. «Non si può ora, e non si poteva neppure un tempo. Le case sono di tronchi e muratura perché era necessario costruirle con il materiale a disposizione. In origine, Fall Creek aveva l’elettricità, perché allora tutti l’avevano. Ora nessuno ce l’ha, e così non l’abbiamo. La cosa più importante è di avere un aspetto normale, uguale a quello di tutti gli altri paesi: e allora nessuno fa caso a te, nessuno ti nota e ti sospetta.»
«Ma un posto veramente segreto,» obiettò Len. «Un posto che nessuno conosceva.» Corrugò la fronte, cercando di comprendere l’enigma. «Un luogo del quale non osate far sapere nulla a nessuno, ora… eppure vivete così, apertamente, in un paese normale, servito da una strada agevole, e gli stranieri vanno e vengono liberamente.»
«Quando cominci a impedire alla gente di entrare, la gente penserà che tu abbia qualcosa da nascondere. Fall Creek è stata costruita per prima. Era stata costruita alla luce del sole. Le poche persone che vivevano in questa regione dimenticata da Dio si abituarono presto alla sua esistenza, si abituarono ai camion e agli aeroplani di tipo particolare che andavano e venivano. Era solamente una cittadina mineraria: Bartorstown venne costruita più tardi, dietro al paravento di Fall Creek, e nessuno l’ha mai sospettato.»
Len stava riflettendo furiosamente, cercando di capire. Dopo un breve silenzio, domandò:
«Nessuno ha sospettato nulla, neppure quando hanno cominciato ad arrivare tutti i nuovi abitanti?»
«Il mondo era pieno di profughi, e migliaia di essi si dirigevano proprio verso i posti piccoli e sperduti come questo, rifugiandosi tra le montagne, il più lontano possibile dalle città.»
Le ombre salivano, ora, ed essi entrarono nelle ombre, e venne il crepuscolo. Nel paese, si accendevano le prime lampade. Erano semplici lampade, come quelle che venivano accese a Piper’s Run, o a Refuge, o in migliaiai di altri paesi. La strada si allargava ed era pianeggiante, ormai. I muli erano stanchi, ma drizzarono le lunghe orecchie, e accelerarono l’andatura, sentendo la casa vicina, e i conducenti li richiamarono con aspre grida, e fecero schioccare le fruste come un crepitio di fucili nell’ombra del tramonto. C’era una vera e propria folla ad aspettarli, tra le piante, molte lanterne ardevano, le donne chiamavano i loro uomini che si trovavano sui carri, i bambini correvano intorno e gridavano lieti. Non avevano un aspetto diverso dalla gente che Len conosceva, dalla gente che aveva già visto in quell’angolo del paese. Indossavano gli stessi abiti, e i loro modi erano gli stessi.
Hostetter ripeté la sua frase, come se avesse conosciuto con esattezza i pensieri di Len:
«Bisogna vivere nel mondo. Non si può uscire da esso.»
Len disse, con pacata malinconia:
«Qui non c’è neppure quello che avevo a Piper’s Run. Niente fattorie, niente cibo, solo rocce e sassi intorno. Perché la gente rimane qui?»
«Hanno una buona ragione.»
«Deve essere molto, molto grande,» ribatté Len, in tono amaro, un tono che voleva indicare come ormai lui non credesse più a niente.
Hostetter non rispose.
I carri si fermarono. I conducenti scesero a terra, e tutti gli occupanti uscirono, ed Esaù aiutò a scendere Amity, pallida e smarrita, che si guardò intorno con aria diffidente. Bambini e ragazzi corsero a prendere i muli, e li condussero via, con i carri. C’erano tante, tantissime facce sconosciute, e dopo qualche tempo Len si accorse che tutti, indistintamente, stavano guardando lui ed Esaù. Si tennero vicini, allora, istintivamente, avvicinandosi a Hostetter. Hostetter si stava guardando intorno, chiamava a gran voce Wepplo, e il vecchio arrivo, sogghignando, tenendo il braccio attorno alla vita di una ragazza. La ragazza era piccola, con i capelli bruni e gli occhi vivi e guizzanti e neri, uguali a quelli di Wepplo, e un volto che aveva i lineamenti forse un po’ troppo pronunciati e decisi. Portava una camicetta col collo aperto e le maniche arrotolate, e una gonna che arrivava appena alla sommità degli stivali alti e morbidi. Guardò prima Amity, quindi Esaù, e poi Len, soffermandosi più a lungo su di lui, e non mostrò alcuna timidezza nell’incontrare il suo sguardo.
«Mia nipote,» disse Wepplo, come se fosse fatta di oro puro. «Joan. La signora Amity Colter, il signor Esaù Colter, e il signor Len Colter».
«Joan,» disse Hostetter. «Volete portare con voi la signora Colter, e farle compagnia per un poco?»
«Certo,» disse Joan, senza nessun entusiasmo. Amity si strinse a Esaù, e accennò a una protesta, ma Hostetter la zittì, piuttosto seccamente.
«Nessuno vi morderà; ed Esaù vi raggiungerà non appena gli sarà possibile».
Amity se ne andò, riluttante, appoggiandosi alla spalla della ragazza bruna. Sembrava una grossa matrona e non a causa del bambino, la cui nascita era ancora distante. La ragazza bruna lanciò uno sguardo malizioso e allegro a Len, e poi scomparve nella folla. Hostetter rivolse un cenno amichevole a Wepplo, e poi disse a Len e a Esaù:
«Va bene, andiamo».
Lo seguirono, e la gente li fissava e si scambiava commenti, non in maniera ostile, ma come se Len ed Esaù fossero stati uno spettacolo di straordinario interesse per tutti. Len disse:
«Non sembrano molto abituati agli stranieri».
«No, non agli stranieri che vengono a vivere tra loro. Comunque, è molto tempo che hanno sentito parlare di voi. Siete diventati dei personaggi, e la gente è curiosa».
«I ragazzi di Hostetter,» disse Len, e sogghignò, per la prima volta da due giorni.
Anche Hostetter sogghignò. Li condusse per un vicolo buio, fiancheggiato da case sparse, fino ad arrivare a una casa abbastanza grande, con un portico lungo tutta la facciata. La casa si trovava su di un pendio, più alta delle altre, di fronte alla miniera. Le assi che la coprivano erano vecchie e segnate dal tempo, e il portico era stato rinforzato più volte con tronchi d’albero.
«Questo alloggio era stato costruito per il sopraintendente della miniera,» spiegò Hostetter. «Ora ci vive Sherman».
«Sherman è il capo?» domandò Esaù.
«Di molte cose, sì. Ci sono anche Gutierrez ed Erdmann. Anche loro hanno voce in capitolo, per certe altre cose».
«Ma Sherman ci ha permesso di venire,» disse Len.
«Ha dovuto parlarne agli altri. Hanno dovuto mettersi d’accordo».
C’erano delle lampade accese nella casa. Salirono i gradini, e si trovarono sul portico, e la porta si aprì prima che Hostetter avesse potuto bussare. Una donna alta e sottile, con i capelli grigi e un volto simpatico, apparve sulla soglia, sorridendo e tendendo le braccia a Hostetter, che disse:
«Ciao, Mary».
E lei disse:
«Ed! Bentornato a casa,» e lo baciò sulle guance.
«Be’,» disse Hostetter. «È passato molto tempo».
«Undici, no, no, dodici anni,» disse Mary. «È bello riaverti tra noi».
Poi guardò Len ed Esaù.
«Questa è Mary Sherman,» disse Hostetter, come se si sentisse in dovere di offrire una spiegazione. «Una vecchia amica. Giocava con mia sorella, quando eravamo tutti più giovani… mia sorella è morta, ormai. Mary, questi sono i ragazzi».
Li presentò. Mary Sherman sorrise, con aria un po’ malinconica, come se avesse avuto molte cose da dire. Ma si limitò a dire:
«Sì, li stanno aspettando. Entrate».
Entrarono nel soggiorno. Il pavimento era nudo e pulito, le tavole di pino consumate fino a mostrare il disegno del legno. I mobili erano vecchi, e semplici, di un genere che Len conosceva già, e che veniva prodotto prima della Distruzione. C’era una grande tavola, con una lampada al centro, e tre uomini vi erano seduti attorno. Due avevano circa l’età di Hostetter, e uno era più giovane, sulla quarantina o poco più. Uno dei due anziani, un uomo grande e grosso e massiccio, col mento prefettamente rasato e gli occhi chiari, si alzò e venne a stringere la mano a Hostetter. Poi Hostetter strinse la mano agli altri due, e ci furono dei convenevoli, di persone che non si vedevano da molto tempo. Len si guardò intorno, sentendosi a disagio, e si accorse che Mary Sherman era già scomparsa.
«Avvicinatevi,» disse l’uomo alto e grosso, e Len capì che stava parlando a lui e a Esaù. Avanzò nel circolo di luce, vicino alla tavola, ed Esaù si fece avanti con lui. L’uomo massiccio li studiò attentamente. I suoi occhi erano del colore del cielo invernale poco prima di una nevicata, acuti e penetranti. L’uomo più giovane sedeva accanto a lui, con i gomiti appoggiati sulla tavola. Aveva i capelli rossicci, e aveva gli occhiali, e aveva il viso stanco, non una stanchezza del momento, ma una perenne necessità di riposo mai soddisfatta. Dietro di lui, nell’ombra tra la tavola e la grossa stufa di ferro, c’era il terzo uomo, piccolo, scuro e scontroso, con una barbetta a punta, molto curata, e bianca come biancheria di bucato. Len ricambiò il loro sguardo, senza sapere quello che doveva provare… se essere in collera, o intimorito, o rispettoso. Cominciava a sudare, per il nervosismo di quell’attesa.
L’uomo grosso disse, improvvisamente:
«Io sono Sherman. Questo è il signor Erdmann,» l’uomo più giovane fece un breve cenno del capo, «E questo è il signor Gutierrez». L’ometto acido borbottò qualcosa. «So che entrambi siete Colter. Ma quale dei due è Len, e quale Esaù?»
Si presentarono. Hostetter si era ritirato nell’ombra, e Len lo udì riempire la pipa.
Sherman disse a Esaù:
«Allora voi siete quello con la… ehm… con la madre in attesa».
Esaù cercò di spiegare la cosa, e Sherman lo interruppe.
«So tutto, e ho già rimproverato Hostetter per abuso di autorità, così possiamo lasciare le cose come sono, e non parlarne più, tranne che per un particolare. Voglio che la portiate qui domattina, alle dieci precise. Ci sarà qui il ministro. Nessuno deve saperne niente. Chiaro?»
«Sì, signore,» disse Esaù. Sherman non era minaccioso né sgradevole. Era, semplicemente, un uomo avvezzo a dare degli ordini, e la risposta fu automatica.
La sua attenzione si spostò da Esaù a Len, e domandò:
«Perché volevate venire qui?»
Len chinò il capo, e non rispose.
«Avanti,» disse Hostetter. «Diglielo».
«E come posso farlo?» esclamò Len. «Va bene, tenterò. Noi… noi pensavamo di trovare un posto nel quale la gente fosse diversa, nel quale fosse possibile pensare e parlare dei propri pensieri e delle cose del mondo senza mettersi nei guai. Dove ci fossero delle macchine e… oh, tutte le cose che esistevano una volta».
Sherman sorrise. Non era più l’uomo massiccio dagli occhi freddi, abituato a dare ordini, ma un essere umano che aveva vissuto a lungo e aveva imparato a non lottare contro la vita. Come Hostetter. Come papà. Len lo riconobbe da quel sorriso, e allora comprese, d’un tratto, di non trovarsi completamente tra stranieri.
«Avevate pensato,» disse Sherman, «Che noi dovevamo avere una città, come quelle antiche, con tutte le vecchie cose in essa».
«Penso di sì,» disse Len, e non provava più collera, ora, ma solo rimpianto.
«No,» disse Sherman. «Tutto ciò che abbiamo è la prima parte di quello che desideravate».
Erdmann disse:
«E siamo alla ricerca della seconda».
«Oh, sì,» disse Gutierrez. La sua voce era sottile e scontrosa come lui. «Noi abbiamo una causa. Voi capirete… voi giovani avete a vostra volta una causa. Vuoi che ne parli, Harry?»
«Più tardi,» disse Sherman. Si chinò in avanti, e parlò a Len e a Esaù, e i suoi occhi erano di nuovo duri, e freddi. «Dovete ringraziare Hostetter…».
«Non del tutto,» intervenne Hostetter. «Anche tu avevi le tue ragioni».
«Un uomo può sempre trovare una ragione per giustificarsi,» disse Sherman, freddamente. «D’accordo, comunque, ammetterò questo punto. Tuttavia, il merito va in gran parte a Hostetter. Se non fosse stato per lui, ora sareste morti entrambi, uccisi dalla folla in quel paese… come si chiamava?…».
«Refuge,» disse Len. «Sì, questo lo sappiamo».
«Non sto cercando dei ringraziamenti, cerco semplicemente di chiarire dei fatti. Vi abbiamo fatto un favore, e non voglio cercare di farvi capire quanto sia grande questo favore, perché non lo capirete fino a quando non sarete rimasti qui per un po’ di tempo. E allora non ci sarà bisogno che io vi dica niente. Nel frattempo, vi chiedo di ripagarci facendo quanto vi sarà detto, senza fare troppe domande».
Fece una pausa. Erdmann si schiarì la voce, nervosamente, nel silenzio, e Gutierrez borbottò:
«Diglielo subito, senza mitigare il colpo. Avanti».
Sherman si voltò.
«Hai bevuto, Julio?»
«No. Ma lo farò».
Sherman grugnì.
«Be’, comunque quello che lui intende dire è questo: voi non lascerete più Fall Creek. Non fate niente che possa somigliare a una fuga. Abbiamo qualcosa di veramente grande in palio, qui, molto più di quanto possiate immaginare in questo momento, e non vogliamo correre rischi».
Concluse, semplicemente, con poche, brevi parole:
«Se lo tentaste, sareste fucilati».
Ci fu un’altra pausa. Poi nel silenzio si udì la voce di Esaù, un po’ troppo acuta:
«Abbiamo faticato molto, abbiamo corso grossi rischi, per venire qui. Non è molto probabile che ci venga voglia di andarcene, ora che siamo arrivati».
«Le persone possono cambiare idea. Mi è sembrato onesto dirvi come stanno le cose».
Esaù appoggiò le mani sul tavolo, e disse:
«Posso fare una domanda?»
«Parlate».
«Dove diavolo è Bartorstown?»
Sherman si appoggiò allo schienale della sedia, e fissò duramente Esaù, accigliandosi.
«Sapete una cosa, Colter? Non risponderei a questa domanda, né ora né mai, se ci fosse un modo per impedirvi di conoscere la risposta. Voi due ci avete dato un sacco di problemi. Quando degli stranieri vengono qui, noi teniamo la bocca chiusa e siamo prudenti, e non ci sono molte preoccupazioni, perché gli stranieri vengono raramente, e si trattengono per breve tempo. Ma voi due vivrete qui. Presto o tardi, inevitabilmente, scoprirete tutto su di noi. Eppure voi non siete di qui. Non appartenete a questo posto. Tutta la vostra vita, la vostra educazione, il vostro ambiente, il vostro condizonamento, sono in totale conflitto con tutto ciò in cui noi crediamo, qui. È un conflitto apparentemente insanabile».
Guardò Len, con un’espressione di freddo divertimento.
«Non c’è bisogno di arrossire così, giovanotto, perché so benissimo che voi siete sincero. So che avete attraversato l’inferno, per venire qui, e che quanto avete fatto è molto di più di quanto noi abbiamo passato, o saremmo disposti a passare. Ma… domani è un altro giorno. Come vi sentirete, allora, cosa penserete? E se non sarà domani, il giorno successivo?»
«Io penserei che siete al sicuro,» disse Len. «Fino a quando avrete una buona scorta di pallottole».
«Oh,» disse Sherman. «Quello. Sì, credo di sì. In ogni modo, abbiamo deciso di correre un rischio, nel vostro caso, e così non abbiamo scelta. Vi diremo tutto su Bartorstown. Ma non questa notte». Si alzò in piedi, e inaspettatamente porse la mano a Len. «Abbiate pazienza».
Len gli strinse la mano, con un certo calore, e sorrise.
Hostetter disse:
«A presto, Harry». Rivolse un cenno a Len e a Esaù, ed essi uscirono nuovamente, nell’oscurità della notte, nell’aria tagliente, in un mondo pieno di odori sconosciuti. Attraversarono di nuovo il paese. Le lampade erano accese in tutte le case, la gente parlava forte e rideva, e diversi gruppetti di persone si muovevano di casa in casa. «C’è sempre una festa,» spiegò Hostetter, «Alcuni uomini sono lontani da casa da molto, molto tempo».
Arrivarono a una casa costruita solidamente con tronchi d’albero, che apparteneva agli Wepplo. Vi abitavano il vecchio, suo figlio, sua nuora, e la ragazza, Joan. Andarono a tavola, per la cena, e molte persone andavano e venivano, entravano a salutare Hostetter e a bere da una grossa brocca che passava di mano in mano. La ragazza, Joan, continuò a fissare Len per tutta la serata, ma non parlò molto. Molto più tardi, anche Gutierrez entrò nella casa. Era ubriaco fradicio, e rimase a fissare Len così solennemente, e così a lungo, che il giovane gli domandò che cosa desiderasse.
Gutierrez disse:
«Volevo solo vedere bene un uomo che ha voluto venire qui senza esserci costretto».
Sospirò profondamente, e se ne andò. Qualche minuto dopo, Hostetter gli batté gentilmente la mano sulla spalla.
«Andiamo, Lennie,» disse. «A meno che tu non voglia dormire sul pavimento della casa di Wepplo».
Sembrava allegro, cordiale, come se il ritorno a casa non fosse stato così brutto come aveva temuto. Len si alzò, e lo seguì, attraverso la notte fredda e oscura. Fall Creek era immersa nella quiete, ora, e le lampade si spegnevano, una dopo l’altra, nelle case. Len riferì a Hostetter quello che gli aveva detto Gutierrez, e il suo bizzarro comportamento.
«Povero Julio,» sospirò Hostetter. «È in condizioni terribili. Ha il morale sotto i tacchi».
«Cosa gli è successo?»
«Ha lavorato per tre anni di seguito su un problema. In realtà, vi ha lavorato per quasi tutta la vita, ma su di un punto particolare ha trascorso gli ultimi tre anni, lavorando giorno e notte. Tre anni! E ha appena scoperto che non era quello il modo di affrontare il problema. Cancellare la lavagna, ricominciare da capo. Solo che Julio comincia a credere che la sua vita non gli sarà sufficiente».
«Sufficiente a che cosa?»
Ma Hostetter si limitò a dire:
«Dovremo alloggiare nel quartiere degli scapoli. Ma non è un brutto posto. C’è molta compagnia».
Il «quartiere degli scapoli» era un lungo edificio a due piani, il cui telaio era stato costruito agli inizi di Fall Creek, mentre altre ali erano state aggiunte in epoche successive. Hostetter lo condusse in una stanza che si trovava sul retro di una di queste aggiunte, e aveva una propria porta, con una finestra vicino alla quale dovevano sorgere dei pini, perché l’aria era vagamente impregnata del loro aroma, e i rami stormivano quando soffiava il vento. Avevano portato le coperte che Wepplo aveva loro imprestato. Hostetter sistemò la propria in uno dei due letti della camera, si mise a sedere, e cominciò a togliersi gli stivali.
«Che ne dici? Ti è piaciuta?»
«Piaciuta chi?» domandò Len, stendendo le coperte sul proprio letto.
«Joan Wepplo».
«Come faccio a dirlo? L’ho appena vista».
Hostetter scoppiò in una fragorosa risata.
«Non le hai staccato gli occhi di dosso per tutta la sera».
«Ho altro da pensare,» protestò Len, irato. «Che alle ragazze!»
Si avvolse nelle coperte. Hostetter spense la candela, e pochi minuti più tardi cominciò a russare rumorosamente. Len rimase sveglio, invece, e tutto il suo essere era un insieme di percezioni, acuite dal senso di trovarsi in un ambiente strano e sconosciuto. La cuccetta aveva una forma nuova. Tutto era strano: gli odori della terra e della polvere e degli aghi dei pini e della resina, delle pareti e del pavimento e della cucina, i suoni sommessi di movimento e di voci nella notte, tutto, tutto. Eppure non era così strano, in fondo. Era soltanto un’altra parte del mondo, un altro paese, e qualunque cosa fosse stata Bartorstown, non sarebbe stata certamente la cosa che aveva sognato. Si sentiva depresso, deluso, irato. Era così brutto, quello che provava, ed era così in collera contro tutto e contro tutti, che batté i pugni sul muro, e un istante più tardi si sentì stupido e infantile, per averlo fatto, e provò il desiderio di mettersi a ridere. E nel bel mezzo di quella risata immaginaria, la faccia di Joan Wepplo apparve, galleggiando nel nulla, e lo fissò con occhi neri, luminosi e pensierosi.
Quando si svegliò era già mattina, e Hostetter doveva già essere stato fuori, perché Len aprì gli occhi e vide che stava rientrando nella stanza.
«Hai una camicia pulita?»
«Penso di sì».
«Be’, allora fa’ presto a mettertela. Esaù vuole che tu gli faccia da testimone».
Len borbottò qualcosa, tra i denti, sull’inutilità di certe cerimonie, soprattutto tardive, ma si affrettò a lavarsi, e a radersi, e a indossare la camicia pulita, e uscì con Hostetter, diretto alla casa di Sherman. Il villaggio pareva calmo e silenzioso, e c’erano poche persone per le strade. Ebbe l’impressione di essere osservato dalle finestre delle case, ma non espresse questa idea ad alta voce.
Il matrimonio fu breve e semplice. Amity indossava un abito che qualcuno doveva averle prestato. Aveva un aspetto compiaciuto. Esaù non aveva un aspetto particolare: era là, e basta. Il ministro era un uomo giovane e piccolo, e aveva l’abitudine fastidiosa di alzarsi sulla punta dei piedi come se stesse cercando di stirarsi per diventare più alto. Sherman, sua moglie e Hostetter rimasero in disparte, a osservare. Quando la cerimonia finì, Mary Sherman abbracciò Amity, e Len strinse piuttosto rigidamente la mano a Esaù, sentendosi molto stupido. Stava per andarsene, ma Sherman disse:
«Se non vi dispiace, vorrei che rimaneste un poco. Tutti voi».
Si trovavano in una stanza piccola. Sherman la attraversò, e aprì una porta che dava nel soggiorno, e Len vide che c’erano sette od otto uomini, in attesa.
«Non vi è niente di cui preoccuparsi,» disse Sherman, indicando loro di passare nell’altra stanza. «Quelle tre sedie, là, alla tavola… bene. Sedetevi. Desidero che parliate con queste persone».
Sedettero, l’uno vicino all’altro, allineati. Sherman sedette vicino a loro, e accanto a Sherman si mise Hostetter, e gli altri si affollarono intorno alla tavola. C’erano penne e carta e qualche altra cosa, e al centro un grosso canestro con il coperchio abbassato. Sherman presentò gli uomini, ma Len non riuscì a ricordare i nomi, a parte quelli di Erdmann e Gutierrez, che conosceva già dalla sera prima. Erano tutti di mezza età, e avevano lo sguardo penetrante, e sembravano persone abituate a esercitare una certa autorità. Furono tutti molto cortesi con Amity.
Sherman disse:
«Questa non è una inquisizione, o cose del genere: siamo tutti, semplicemente, molto interessati. Quando avete sentito parlare per la prima volta di Bartorstown? Cosa vi ha deciso a venire qui, con tanta determinazione? Come è cominciata la faccenda, e che cosa vi è accaduto a causa della vostra decisione? Puoi cominciare tu, Ed? Credo che tu abbia vissuto la cosa dall’inizio».
«Ebbene,» disse Hostetter. «Io credo che tutto sia cominciato quella notte, quando Esaù rubò la radio».
Sherman si voltò a fissare Esaù, che parve molto a disagio.
«Probabilmente ho fatto qualcosa di male, ma allora ero soltanto un ragazzo. E avevano ucciso quell’uomo, solo perché dicevano che veniva da Bartorstown… è stata una notte terribile. E io ero curioso».
«Continuate,» disse Sherman, e tutti si protesero verso di lui, visibilmente interessati. Esaù continuò a narrare la storia, e ben presto Len fu chiamato a intervenire, e i due giovani parlarono della predica, e della lapidazione di Soames, e di come la radio fosse diventata per loro una vera e propria fissazione. E con l’aiuto di Hostetter, che si inseriva nei momenti dubbi, o fondamentali, e con Sherman o uno degli altri uomini che rivolgevano a volte delle domande, ben presto essi narrarono l’intera storia, fino al momento in cui Hostetter e i barcaioli li avevano salvati dal fumo e dall’ira di Refuge. Amity aveva qualcosa da aggiungere, a sua volta, e le sue descrizioni furono di indubbia efficacia. Quando ebbero finito, parve a Len che avessero affrontato troppe difficoltà, troppi pericoli e troppe avventure, per quello che avevano infine trovato una volta arrivati alla città dei loro sogni; ma questo non lo disse.
Sherman si alzò, e aprì un’altra porta, che si trovava dalla parte opposta della stanza. C’era una stanza piena di apparecchiature, là, e un uomo che sedeva al centro di quelle apparecchiature, con una cosa dall’aria buffa sulla testa. Tolse lo strano oggetto, e Sherman domandò:
«Tutto bene?»
L’uomo annuì.
«Tutto bene».
Sherman chiuse di nuovo la porta, e si voltò.
«Ora vi posso dire che avete parlato a tutto Fall Creek, e Bartorstown». Sollevò il coperchio del canestro, e mostrò cosa c’era all’interno. «Questi sono dei microfoni. Ogni parola che avete detto è stata raccolta e trasmessa». Lasciò cadere di nuovo il coperchio, e li guardò negli occhi, uno dopo l’altro. «Volevo che tutti ascoltassero la vostra storia, narrata con le vostre parole, e mi è parso questo il modo migliore. Avevo paura che, mettendovi su un palco, con quattrocento persone intente a fissarvi, sareste rimasti muti e paralizzati. Così ho fatto questo».
«Oh, santo cielo,» esclamò Amity, e si coprì la bocca con le mani.
Sherman guardò gli altri uomini.
«Davvero una storia fantastica, no?»
«Sono giovani,» disse Gutierrez. Pareva malato, malatissimo, e la sua voce era debole, ma sempre scontrosa. «Possiedono fede e fiducia».
«Lasciamo che la conservino,» disse Erdmann, in tono stridulo. «Per l’amor di Dio, che almeno qualcuno la conservi!»
Gentile, paziente, Sherman disse:
«Avete entrambi bisogno di riposo. Volete fare un grande favore a tutti? Andate a riposare, adesso».
«Oh, no,» disse Gutierrez. «Non lo farei per niente al mondo. Non posso perdere questo spettacolo. Voglio vedere i loro volti splendere, quando vedranno per la prima volta la città fatata».
Guardando i microfoni, Len disse:
«Avete detto che c’era una ragione per cui avevate deciso di lasciarci venire qui. È questa?»
«In parte,» disse Sherman. «La nostra gente è umana. La maggior parte di noi non ha contatti diretti con il lavoro principale, e così non si sente importante, né direttamente interessata. I nostri vivono un’esistenza da reclusi, qui. Comincia a serpeggiare il malcontento. La vostra storia è un potente strumento per ricordare com’è la vita fuori da qui, e per quale motivo noi dobbiamo portare avanti ciò che stiamo facendo. La vostra storia è anche un grande motivo di speranza, per noi e per tutti».
«In qual modo?»
«Serve a dimostrare che ottant’anni di controllo rigoroso e assoluto non sono riusciti a sradicare dal mondo l’antica arte del libero pensiero».
«Sii sincero, Harry,» disse Gutierrez. «Nella nostra decisione hanno avuto peso soprattutto i motivi sentimentali».
«Può darsi,» ammise Sherman. «Sarebbe stato un tradimento verso ogni cosa nella quale crediamo, verso tutto ciò che desideriamo simboleggiare, se vi avessimo lasciati impiccare perché avevate creduto in noi. Per lo meno, a Fall Creek tutti la pensavano così».
Li guardò, pensieroso.
«Forse è stata una decisione stupida e avventata. Nessuno di voi potrà, molto probabilmente, contribuire al nostro lavoro, e voi costituite un problema sproporzionato alla vostra importanza personale. Siete i primi stranieri che abbiamo accettato tra noi, da più anni di quanti ne possa ricordare. Non possiamo lasciarvi andare. Non vogliamo essere costretti a fare ciò che ho detto ieri sera, come minaccia. Così dovremo fare molta fatica, e avere molta pazienza, e sforzarci, più di quanto ci sia mai capitato di sforzarci per uno dei nostri, affinché voi siate perfettamente integrati nel tessuto della nostra esistenza, dei nostri pensieri, della nostra mèta particolare. Se non vogliamo sorvegliarvi per tutta la vita, se non vogliamo destinare gran parte del nostro tempo a tenervi d’occhio, dobbiamo riuscire a trasformarvi in veri cittadini di Bartorstown, degni della nostra piena fiducia. E questo, praticamente, significa una completa rieducazione».
Diede un’occhiata penetrante e ironica a Hostetter.
«Lui ha giurato che ne valete la pena. Spero che abbia ragione».
Si chinò, allora, e strinse la mano ad Amity.
«Grazie, signora Colter, ci siete stata di grande aiuto. Non credo che trovereste molto interessante la passeggiata che stiamo per fare, così perché non vi fermate a fare colazione con mia moglie? Ne sarebbe felicissima, e potrebbe aiutarvi in molte cose».
Accompagnò Amity alla porta, senza curarsi delle occhiate che la giovane donna lanciava intorno, evidentemente confusa, e l’affidò a Mary Sherman, una donna che pareva avere la virtù di trovarsi sempre dove si aveva bisogno di lei, e di sparire silenziosamente quando la sua utilità era apparentemente cessata.
La porta si chiuse, e Amity, accompagnata da Mary Sherman, scomparve dietro di essa.
Allora Sherman ritornò indietro, avvicinandosi alla tavola, e rivolse un breve cenno a Len e a Esaù.
«Bene,» disse. «Andiamo».
«A Bartorstown?» domandò Len.
E Sherman rispose:
«A Bartorstown».
La spiegazione era semplice, quando la si conosceva. Così semplice, che Len si rese conto che non c’era da meravigliarsi di non averla indovinata. Sherman li guidò, risalendo la gola, oltre il pendio della miniera, fino all’altro lato della piccola diga. Con loro c’erano Gutierrez, Erdmann e Hostetter, e altri due uomini, tra quelli presenti alla riunione. Gli altri se ne erano andati, chiamati dai loro lavori in qualche altro posto. Il sole era caldo, laggiù, sul fondo della valle, e la polvere era secca. L’aria sapeva di polvere e di legno e di aghi di pino e di muli. Len diede un’occhiata a Esaù. Il suo viso era pallido e teso, e i suoi occhi vagavano incerti, come se egli non avesse voluto vedere quello che appariva davanti a lui. Len capiva quello che suo cugino provava. Quella era la fine, la solida, inesorabile verità, la fine del sogno. Avrebbe dovuto provare un senso di eccitazione, e di sgomento, e di apprensione. Avrebbe dovuto sentire qualcosa. Ma non sentiva niente. Aveva già consumato tutti i sentimenti del suo spirito, e adesso era soltanto un uomo, un uomo che camminava.
Salirono per il pendio abbandonato che era stato invaso dalle rocce. Camminarono tra le rocce, sotto il sole caldo, fino all’apertura sul fianco della montagna. C’era un cancello di legno, scolorito e vecchio ma in buone condizioni, e un cartello sul quale c’erano queste parole: PERICOLO — GALLERIA MINERARIA NON SICURA — CADUTA MASSI — TENERSI LONTANI.
Il cancello era chiuso. Sherman lo aprì, ed entrarono, e subito dopo il cancello venne richiuso.
«Serve a tenere fuori i bambini,» disse. «Sono gli unici di cui dobbiamo preoccuparci.»
Dentro la galleria, per quanto lasciava scorgere la luce del sole, c’era una massa di rocce franate sul pavimento, e un’aria pericolante nelle pareti e nella volta, e l’aspetto generale era di completo abbandono. Le assi di sostegno erano marcite e rotte, e qualche puntello della volta pendeva spezzato. Non era un posto che invitasse a entrare. Sherman spiegò che tutte le miniere avevano delle gallerie abbandonate, e che nessuno vedeva niente di strano in una faccenda normalissima.
«Questa galleria, naturalmente, è perfettamente sicura. Ma la messa in scena è convincente.»
«Troppo convincente,» disse Gutierrez, incespicando. «Un giorno o l’altro mi romperò una gamba.»
La luce cominciò a stemperarsi nell’oscurità, e la galleria girò verso sinistra. Improvvisamente, senza alcun preavviso, un’altra luce si accese davanti a loro. Era bluastra e molto brillante, dissimile da qualsiasi altra luce che Len avesse mai visto, e in quel momento, per la prima volta dal suo arrivo a Fall Creek, l’eccitazione ritornò ad agitarsi dentro di lui, quell’eccitazione di cui solo pochi istanti prima si era ritenuto incapace. Sentì che Esaù tratteneva il respiro, e diceva, ’Elettricità!’, e quella magica parola parve riecheggiare nell’antica volta. Ora la galleria era liscia e diritta e agevole; nessun ostacolo ingombrava la strada. Avanzarono rapidamente, e oltre la luce Len vide una porta.
Si fermarono davanti a essa. La luce era sopra di loro, adesso. Len cercò di guardarla direttamente, e fu costretto a battere le palpebre, come di fronte alla luce del sole.
«Non è splendido?» bisbigliò Esaù. «È proprio come ci diceva la nonna, non è vero?»
«Ci sono degli scrutatori, anche qui,» disse Sherman. «Aspettate un secondo. Ecco fatto. Possiamo andare, adesso.»
La porta si aprì. Era spessa e fatta di metallo, incastonata solidamente nella roccia viva. Ne varcarono la soglia, e la porta si chiuse silenziosamente alle loro spalle, e furono a Bartorstown.
Si trovavano ancora nella continuazione della galleria, ma la roccia era lavorata alla perfezione, lucida e liscia, e c’erano luci, sistemate a intervalli regolari nella volta, apparentemente incastonate anch’esse nella roccia. L’aria aveva un odore particolare, freddo e metallico. Len la sentiva sfiorare il suo viso, e c’era un fruscio sommesso, insistente, che pareva appartenere all’aria stessa. Ora i suoi nervi erano contratti, e il viso si era imperlato di sudore. Ebbe una visione rapida e paurosa della montagna vista dall’esterno, e pensò che quella montagna era adesso su di lui, e gli parve di sentire quel peso enorme premere sul suo corpo e sul suo spirito.
«È tutto così?» domandò. «Voglio dire, è tutto sotterraneo?»
Sherman annuì.
«A quei tempi, costruivano molte cose sottoterra. Il sottosuolo era più sicuro di una superficie aperta, e il cuore di una montagna costituiva la maggior sicurezza possibile.»
Esaù stava osservando il corridoio. Gli pareva lunghissimo, pareva stendersi all’infinito.
«È molto grande?»
Fu Gutierrez a rispondere, questa volta.
«Cosa vuole dire, grande? Se considerate Bartorstown da un certo punto di vista, si tratta della cosa più grande esistente al mondo. È tutto il passato, e tutto il futuro. Se la considerate da un altro punto di vista, è solo un buco nella terra, grande appena per seppellirci un uomo.»
Circa sei metri dopo, un uomo uscì da una porta nella roccia, e venne incontro a loro. Era giovane, aveva circa l’età di Esaù. Si rivolse a Sherman e agli altri, salutandoli con franco rispetto, e poi studiò apertamente i Colter, senza nascondere la propria curiosità.
«Salve,» disse. «Vi ho visti mentre attraversavate il passo inferiore. Io mi chiamo Jones.» Tese la mano.
Si scambiarono le rituali strette di mano, e poi tutti si avvicinarono alla porta. Al di là di essa c’era una stanza spaziosa, scavata nella roccia, piena di un’incredibile quantità di oggetti, pannelli, fili, manopole, pulsanti, e aggeggi simili all’interno di una radio. Esaù si guardò intorno, e poi fissò con evidente rispetto Jones.
«Siete voi quello che preme il bottone?»
Rimasero tutti perplessi, a quelle parole, e poi, improvvisamente, Hostetter scoppiò in una fragorosa risata.
«Wepplo si è divertito a spaventarli!» disse. «No, Jones avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione più in alto.»
«In realtà,» disse Sherman, che aveva capito il significato delle parole di Esaù, «Non abbiamo mai premuto quel bottone, almeno fino a questo momento. Ma teniamo il meccanismo in perfetto ordine di funzionamento, in caso di necessità. Una precauzione elementare. Ma venite qui.»
Con un breve cenno, indicò loro di seguirlo, ed essi obbedirono, con la vigile tensione di uomini o di animali che si trovano in un luogo strano e ignoto, e pensano di dover essere costretti, forse, a scappare in fretta per salvarsi. Fecero molta attenzione a non toccare niente. Jones li precedette, e cominciò, con noncurante disinvoltura, a fare qualcosa, armeggiando intorno alle manopole e agli interruttori. Non aveva affatto un atteggiamento d’importanza, pareva intento a fare qualcosa per lui straordinariamente naturale. Sherman indicò una finestrella quadrata di vetro, e Len la fissò per diversi secondi prima di rendersi conto che non poteva essere una finestra, e che se lo fosse stata non avrebbe potuto guardare direttamente sul passo che stava dall’altra parte del contrafforte roccioso.
«Gli scrutatori raccolgono le immagini, e le ritrasmettono a questo schermo,» disse Sherman.
Prima che Sherman avesse potuto proseguire, dando ulteriori spiegazioni, Esaù esclamò, con il tono di un bambino che incontra una bellissima sorpresa:
«La tivù!»
«Sì, si basa sullo stesso principio,» disse Sherman. «Dove ne avete sentito parlare?»
«Da nostra nonna. Lei ci raccontava tantissime cose.»
«Oh, sì. Ne avete parlato, ricordo… è stata lei a parlarvi di Bartorstown.» Gentilmente, ma con incrollabile fermezza, attirò di nuovo la loro attenzione sullo schermo. «C’è sempre qualcuno di guardia, qui, intento a osservare. Nessuno può attraversare quel passo senza essere visto… e, allo stesso modo, nessuno può entrare, e nessuno può uscire.»
La sua voce aveva sottolineato quelle ultime parole: non aveva cambiato tono, ma era impossibile evitare di cogliere il significato.
«E durante la notte?» domandò Len. Supponeva che Sherman avesse tutti i diritti di ricordare continuamente il suo ammonimento, e la loro situazione; ciononostante la cosa lo offendeva un poco.
Sherman lo fissò con uno sguardo freddo e penetrante.
«La vostra nonna vi ha detto nulla a proposito degli occhi elettronici?»
«No.»
«Possono vedere anche al buio. Fategli vedere come, Jones.»
Il giovane mostrò loro un pannello, irto di piccoli bulbi di vetro, disposti su due file opposte.
«Questo è come il passo inferiore, vedete? E queste lampadine, sono le coppie di occhi elettronici. Quando camminate tra i due punti, che sono uniti da una linea invisibile, voi spezzate questa linea, e le lampadine si accendono. Così sappiamo esattamente dove siete.»
Se Esaù aveva compreso lo scambio di velate allusioni, non lo dimostrò. Stava fissando con occhi grandi, lucidi e invidiosi la figura di Jones, e improvvisamente domandò:
«Potrei imparare anch’io a fare queste cose?»
«Non vedo perché non dovreste,» rispose Sherman. «Naturalmente, se avete voglia di studiare.»
Esaù respirò più forte, e sorrise.
Uscirono dalla stanza e si ritrovarono nel corridoio, sotto le luci brillanti. C’erano delle altre porte, contraddistinte da numeri, e Sherman disse che si trattava di depositi. Poi il corridoio si divise in due rami. Len era confuso, ora, perché l’orientamento era difficile in quel mondo sotterraneo, ma gli altri imboccarono il corridoio di destra, che si allargava in una vertiginosa serie di stanze scavate nella roccia, con grandi colonne disposte in file ordinate per sorreggere il peso della volta. Le stanze erano separate l’una dall’altra, ma intercomunicanti, come i segmenti di una ruota, e alle pareti esterne parevano esserci delle aperture che immettevano in camere più piccole. Erano piene di oggetti, e Len, dopo pochi minuti, rinunciò a capire quello che vedeva, perché ci sarebbero voluti anni e anni di studi per permettergli di comprendere. Si limitò a guardare, e a immergersi nella strana atmosfera di quel luogo, e cercò di accettare quella che era la realtà: il fatto che lui fosse entrato in un altro mondo, in un mondo completamente dissimile da quello che aveva conosciuto.
E la collera gli pareva futile, adesso, e infantile. Quella era Bartorstown. Ed era fuori del mondo.
Sherman stava parlando. A volte anche Gutierrez, e perfino Erdmann, si inserivano nelle conversazioni. Anche gli altri uomini pronunciavano qualche parola. Solo Hostetter taceva.
Spiegarono che Bartorstown era stata costruita per essere del tutto autosufficiente, per lo meno entro i limiti in cui poteva esserlo un luogo simile. Era in grado di provvedere alle necessarie riparazioni, e di produrre nuove parti, e c’erano ancora delle riserve dei materiali che erano stati forniti a quello scopo ai tempi della costruzione. Sherman mostrò le diverse stanze, il laboratorio di elettronica, l’officina di manutenzione elettrica, il reparto radio, stanze piene di strani macchinari e di strane, fantasmagoriche, scintillanti sagome di vetro e metallo, e pannelli senza fine, irti di lancette e di quadranti e di luci ammiccanti. A volte ancora non c’era nessuno, solo una quiete vuota, con il fruscio sommesso dell’aria che rendeva quei luoghi ancora più silenziosi e solitari. Sherman parlò di condotti di ventilazione, e di pompe, e di depuratori. ’Automatico’ era la parola che egli usava più di tutte le altre, ed era una parola strana e prodigiosa. Le porte si aprivano automaticamente, quando si arrivava davanti a esse, e le luci si accendevano e si spegnevano senza bisogno di muovere un dito.
«Automatico, tutto automatico,» disse Hostetter, uscendo dal suo silenzio, sbuffando, con disprezzo. «E ci meravigliamo che i Mennoniti abbiano ottenuto un potere così grande nel paese! La gente comune era così viziata dall’automazione, che non sapeva neppure allacciarsi le stringhe delle scarpe, senza una macchina che l’aiutasse.»
«Ed,» disse Sherman, quietamente. «Non saresti un buon agente pubblicitario per Bartorstown;»
«Chissà,» disse Hostetter. «Sembra però che sia stato abbastanza efficace, almeno per qualcuno.»
Len lo fissò. Ormai aveva imparato a conoscere bene Hostetter, e capiva che era preoccupato e nervoso e a disagio. Len avvertì un brivido freddo lungo la schiena, e si volse di nuovo a guardare tutte le strane cose che lo circondavano. Erano meravigliose, e affascinanti, e non volevano dire niente, se qualcuno non diceva prima quale scopo avevano. E nessuno aveva detto niente.
Lo disse ad alta voce, e Sherman annuì.
«Uno scopo esiste. Tutte queste cose hanno uno scopo. Volevo che prima vedeste tutta Bartorstown, e non solo una piccola parte di essa, per comprendere quanto fosse importante il suo scopo, almeno per il governo di questo paese, ancora prima della Distruzione. Così importante da indurre il governo a provvedere affinché Bartorstown potesse sopravvivere, anche se tutto il resto fosse andato distrutto, come infatti è accaduto. Ora vi farò vedere un’altra parte delle installazioni; la centrale di energia.»
Hostetter aprì la bocca, per parlare, e Sherman disse, con calma:
«Faremo a modo mio, Ed.» Li condusse ancora lungo il corridoio centrale, che Len aveva paragonato al mozzo della ruota, e guardando di sbieco Len ed Esaù, disse, «Ci serviremo della scala, invece che dell’ascensore.»
Per tutta la discesa lungo la scala di metallo, che riecheggiava cupamente sotto i loro passi, Len cercò di ricordare che cosa fosse un ascensore, un nome che aveva già sentito menzionare dalla nonna, ma non vi riuscì. Poi si fermò con gli altri a un nuovo piano, e si guardò intorno.
Si trovavano in un’immensa caverna, che rimandava l’eco di una possente e profonda vibrazione, mescolata con altri suoni sconosciuti alle orecchie di Len, ma che, mescolati gli uni con gli altri, parlavano con una voce inconfondibile, che diceva una parola che nessuno aveva pronunciato davanti a lui in passato, all’infuori delle voci naturali del vento e del tuono e dell’inondazione. La parola era energia. Pura energia della natura, della materia, degli elementi. La volta era stata lasciata più grezza, in quella caverna immane, e tutto lo spazio era inondato da una luce bianca, liquida e incandescente, e in quella luce si ergevano massicce molte possenti strutture tozze, bulbose, gigantesche, vicino alle quali gli uomini che lavoravano sembravano dei nani. La carne di Len avvertiva quel pulsare e quel vibrare dell’aria e della roccia, e le sue narici si contrassero, per uno strano sentore che pervadeva l’aria.
«Questi sono i trasformatori,» disse Sherman. «Vedete i cavi… scorrono in condotti nascosti, e portano l’energia a tutta Bartorstown. Questi sono i generatori, e queste le turbine…»
«…l’impianto a vapore…»
Ecco, quello era comprensibile. Enormemente più grande di qualsiasi altra cosa avessero sognato, ma era a vapore, e il vapore lo riconoscevano, era un vecchio amico tra quei giganti stranieri. Indugiarono, quasi aggrappandosi a esso, all’unica cosa familiare, facendo dei confronti, e uno dei due uomini dei quali Len non aveva capito bene il nome spiegò pazientemente tutte le differenze di modello e di funzionamento.
«Ma non c’è la caldaia,» disse Esaù. «Non c’è fuoco, né combustibile. Da dove viene il calore?»
«Di là,» disse l’uomo, e puntò il braccio. L’impianto a vapore si stendeva fino a una massa di cemento, alta, lunga e massiccia. «Quello è il commutatore di calore.»
Esaù osservò il cemento, accigliato.
«Non vedo…»
«È tutto schermato, naturalmente. È caldo.»
«Caldo,» disse Esaù. «Be’, certo, deve essere caldo, per far bollire l’acqua. Ma ancora non capisco…» Si guardò intorno, cercando qualcosa nei recessi della grande caverna. «Ancora non riesco a capire che cosa usate come combustibile.»
Ci fu un momento di silenzio, un silenzio pulsante e vibrante come poteva esserlo in quel luogo vasto e misterioso. La pulsazione era forte nelle orecchie di Len, e oscuramente egli intuì di trovarsi di fronte a una spaventosa rivelazione, immobile sul ciglio di un abisso oscuro, pauroso e insondabile; lo capì dai volti tesi e attenti degli uomini, e dal modo in cui la domanda di Esaù parve ondeggiare, vibrante e sospesa nell’aria, e le sue eco non si spensero per molto, molto tempo.
«Be’,» disse Sherman, in tono gentile, discorsivo, e gli occhi di Hostetter brillavano, penetranti e angosciati, nella luce. «Vedete, noi usiamo l’uranio.»
E il momento passò, e la voragine si spalancò, nera e vasta come la perdizione, e Len mandò un grido, forse, ma il grido fu risucchiato dalla vibrazione e dal silenzio, fino a quando non giunse alle sue orecchie come un bisbiglio, il fantasma di un bisbiglio:
«Uranio. Ma era… era…»
La mano di Sherman si alzò, e indicò il punto dove la massa di cemento si alzava e si congiungeva a un grande muro spesso.
«Sì,» disse. «L’energia atomica. Quella parete di cemento è il rivestimento esterno dello scudo. Dietro c’è il reattore.»
Ancora silenzio, eccettuata la vibrazione pulsante di quella grande voce che non si quietava mai. La parete di cemento pareva torreggiare come le porte dell’inferno, e il cuore di Len rallentò i battiti, e il sangue in tutto il suo corpo si fece freddo come acqua di neve.
Dietro c’è il reattore.
Dietro c’è il male, e la notte, e il terrore, e la morte.
Una voce gridava nelle orecchie di Len, la voce del predicatore, ritto sull’orlo del carro, con le scintille che volavano dietro le sue spalle nel vento della notte… Essi hanno liberato il sacro fuoco che Io soltanto, il Signore Geova, posso toccare… e Dìo disse… Che essi si purifichino dei loro peccati…
La voce di Esaù parlò, stridula, in tono di diniego:
«No. Non rimane più niente del genere nel mondo.»
Che si purifichino, disse il Signore, ed essi furono mondati. Vennero arsi col fuoco che essi avevano creato, sì, e le loro torri superbe svanirono nel grande fuoco della collera di Dio, e i luoghi d’iniquità vennero distrutti…
«È una menzogna,» disse Esaù. «Non esiste più niente del genere, dal tempo della Distruzione.»
Essi erano stati mondati. Ma non completamente…
«Non è una menzogna,» disse Len. Indietreggiò, lentamente, dall’immota parete di cemento. «L’hanno salvato, ed è qui.»
Esaù gemette. Emise un suono strano, come il pianto strozzato di un bambino, voltò le spalle al cemento, e si mise a correre.
Hostetter lo afferrò, muovendosi velocemente. Lo costrinse a voltarsi, e Sherman gli afferrò l’altro braccio, e lo tennero stretto, e Hostetter disse, in tono rude e severo:
«Non muoverti, Esaù.»
«Ma mi brucerà!» pianse Esaù, pallido, con gli occhi sbarrati. «Mi brucerà dentro, e il mio sangue diventerà bianco, e le mie ossa marciranno, e io morrò!»
«Non fare lo stupido,» ringhiò Hostetter. «Vedi bene che non ha fatto del male a nessuno di noi.»
«Ha diritto di avere paura, Ed,» disse Sherman, in tono più gentile. «Tu dovresti conoscere i loro insegnamenti, molto meglio di me. Concedi loro un’opportunità. Ascoltate, Esaù. Voi pensate alla bomba. Questa non è una bomba. Non fa del male. Abbiamo vissuto con il reattore per quasi cento anni. Cento anni, un secolo: non può esplodere, e non può bruciare. Il cemento elimina il pericolo, lo rende sicuro. Guardate!»
Lasciò andare Esaù, e si avvicinò al cemento, e appoggiò le mani su di esso.
«Vedete? Non c’è niente da temere, qui.»
E il diavolo parla con la lingua degli stolti e dei pazzi, e opera con le mani degli audaci. Padre, perdonami, non sapevo!
Esaù si passò la lingua sulle labbra. Respirava affannosamente.
«Andate a farlo anche voi,» disse a Hostetter, come se Hostetter fosse stato di carne diversa da quella di Sherman, essendo stato parte del mondo che Esaù aveva conosciuto, e non solo delle anime dannate di Bartorstown.
Hostetter scrollò le spalle. Si avvicinò alla parete di cemento, e appoggiò le mani sullo scudo.
E voi, pensò Len. Ecco che cosa non volevate dirmi, quale segreto non volevate rivelarmi, perché non avevate fiducia in me.
«Be’,» disse Esaù, rosso in viso, esitante, sudato, con il corpo tremante come quello di un cavallo spaurito, ma ormai al di là del primo impeto di fuga. Ora non voleva più fuggire, restava dov’era, ricominciava a pensare. «Be’…»
Len strinse i pugni di ghiaccio, e guardò Sherman, in piedi davanti allo scudo.
«Non c’è da meravigliarsi che abbiate tanta paura,» disse, con una voce che non pareva più la sua. «Non c’è da meravigliarsi che fuciliate coloro che vogliono andarsene. Se qualcuno uscisse da qui, e dicesse quello che avete in questo luogo, le masse si solleverebbero e verrebbero a cercarvi, a stanarvi e a farvi a pezzi, e non ci sarebbe al mondo una montagna abbastanza grande da nascondervi.»
Sherman annuì.
«Sì. È così.»
Len si volse a fissare Hostetter.
«Perché non ci avete parlato di questo, prima che venissimo qui?»
«Len, Len,» disse Hostetter, scuotendo la testa. «Non volevo che voi veniste, e lo sai bene. E ho cercato di avvertirvi entrambi, in ogni modo che mi è stato possibile.»
Sherman lo stava osservando, con occhi socchiusi, e non perdeva nessun gesto, nessuna espressione, in attesa di vedere cosa avrebbe fatto. Tutti stavano guardando, Gutierrez con una mescolanza di stanchezza e commiserazione, Erdmann con visibile imbarazzo, ed Esaù era in mezzo a loro, come un grosso bambino spaurito. Lui si accorse, confusamente, che tutto questo obbediva a un piano, e che essi volevano sapere quali parole avrebbe pronunciato, quali sensazioni avrebbe provato, nel momento della rivelazione. E in un improvviso, impetuoso rigetto di tutte le speranze e dei sogni e dei desideri dell’infanzia, della ricerca e della fede, egli gridò a tutti loro:
«Bruciare il mondo una volta non è stato sufficiente? Perché volete tenere in vita questo orrore?»
«Perché,» disse Sherman, con calma, «Non spettava a noi distruggere quello che abbiamo. E perché distruggere queste cose è la reazione dei bambini, la reazione degli uomini che hanno bruciato Refuge, la reazione di coloro che hanno approvato il Trentesimo Emendamento. Si tratta solo di un’evasione della realtà, di una fuga dalle responsabilità. Nessuno può distruggere la conoscenza. La si può calpestare, e bruciare, e proibire, ma in qualche modo, in qualche luogo, essa sopravviverà sempre.»
«Sì,» ribatté Len, amaramente, «Fino a quando ci saranno degli uomini abbastanza pazzi da mantenerla in vita. Io volevo che ritornassero le città, è vero. Volevo le cose che possedevamo un tempo, e pensavo che fosse stupido avere paura di qualcosa che era scomparso da molti, molti anni. Ma non avrei mai sognato che l’orrore fosse ancora vivo, che non se ne fosse andato completamente dal mondo…»
«Così ora voi pensate che gli uomini che hanno ucciso Soames avessero ragione, e che coloro che hanno ucciso il vostro amico Dulinsky e bruciato un paese abbiano agito bene?»
«Io…» Le parole si fermarono, nella gola di Len, e poi egli gridò, «Non è giusto chiedermi questo! Non c’era l’energia atomica a Refuge!»
«Va bene, allora,» disse in tono conciliante Sherman. «Cerchiamo di esporre la cosa in un modo diverso. Supponiamo che Bartorstown venga distrutta, con tutti i suoi abitanti. Come potreste essere sicuro che in qualche parte del mondo, nascosta sotto qualche altra montagna, non esista un’altra Bartorstown? E come potreste essere sicuro che qualche dimenticato professore di fisica nucleare non abbia nascosto i suoi libri di studio… mi avete detto che ne esisteva uno anche a Piper’s Run. Moltiplicate questa possibilità per il numero dei libri che devono essere rimasti nel mondo. Vi sembra possibile distruggerli tutti?»
Esaù disse, lentamente:
«Len, ha ragione.»
«Un libro,» disse Len, provando il senso del cieco terrore, avvertendo la presenza oscura della Bestia in agguato dietro la parete di cemento. «Un libro, sì, ne avevamo uno, ma non ne conoscevamo il significato. Nessuno poteva comprendere.»
«Qualcuno, in qualche parte del mondo, sarebbe riuscito a capirne il significato, prima o poi. E ricordate un’altra cosa: i primi uomini che scoprirono il segreto dell’energia atomica non erano guidati da nessun libro. Non sapevano neppure che la cosa fosse possibile, non avevano nessuna luce a guidarli. Avevano soltanto la loro intelligenza, e la loro volontà, e la loro curiosità. Non potete distruggere neppure tutti i cervelli del mondo.»
«Va bene,» gridò Len, intrappolato in un angolo, privo di ogni possibilità di scampo. «Se non è questa la via da seguire, quale altra via rimane?»
«La via della ragione,» disse Sherman. «E ora vi posso dire per quale motivo Bartorstown è stata costruita.»
C’erano tre livelli, a Bartorstown. Essi salirono in quello di mezzo, sotto i laboratori e sopra la caverna dove il male antico si nascondeva dietro la sua tana di cemento. Len camminava davanti a Hostetter, e gli altri erano intorno a lui, Esaù ancora scosso da un tremito nervoso, e sudato, gli uomini di Bartorstown silenziosi e gravi. E la mente di Len era una distesa di oscurità selvaggia, come un cielo notturno senza stelle.
Stava fissando un’immagine. L’immagine si trovava su di un lungo pannello di vetro curvo, più alto di un uomo e illuminato dall’interno, e l’immagine appariva reale, dotata di prospettiva e profondità e distanza, e colori, e ogni minimo particolare era netto, facile da distinguere. Era un’immagine terribile. Raffigurava una desolazione arsa e frantumata, nella quale si ergeva soltanto un piccolo edificio solitario, inclinato, come se fosse stato molto stanco, e avesse voluto crollare.
«Voi parlate della bomba e di quello che ha fatto, ma non l’avete mai vista,» disse Sherman. «Gli uomini che costruirono Bartorstown l’avevano vista, invece, e ne avevano visto gli effetti… loro, o i loro padri. Era una realtà, una cosa del loro tempo. Posero questa immagine qui, al centro di questa sala, perché la sua visione ricordasse sempre una cosa… che essi non avrebbero mai, mai dovuto dimenticare il loro lavoro. In questa immagine vedete gli effetti della prima bomba atomica. Le rovine sono quelle della città di Hiroshima. Ora procedete, dietro l’angolo della parete.»
Obbedirono, e Gutierrez era già davanti a loro, e camminava a testa bassa.
«Le ho già viste troppe volte,» disse. Scomparve attraverso una porta che si apriva dall’estremità di un ampio, breve corridoio, sulle cui pareti c’erano numerose immagini. Erdmann fece per seguirlo, esitò, e poi rimase con gli altri. Neppure lui guardò le immagini.
Sherman le guardò, invece, e disse:
«Queste sono fotografie. Raffigurano persone sopravvissute a quel primo bombardamento… se possiamo usare il termine ’sopravvissute’, nel loro caso.»
Esaù borbottò:
«Gesù Benedetto!» Cominciò a tremare più violentemente, e muoveva la testa in modo strano, osservando le fotografie con brevi sguardi furtivi, come se avesse voluto vedere il meno possibile.
Len non disse niente. Fissò Sherman duramente, con occhi accusatori, e Sherman disse:
«In quei tempi, il problema della bomba era molto, molto sentito, perché la gente viveva sotto l’ombra di esso. In quelle vittime, la gente di allora vedeva i propri cari, le proprie famiglie. C’era un desiderio generale… tutti volevano che non vi fossero altre vittime, né altre Hiroshima, e sapevano che vi era un solo mezzo per raggiungere questo scopo.»
«Non avrebbero potuto distruggere le bombe?» domandò Len.
Era una domanda stupida, e subito si arrabbiò con se stesso per averla fatta, perché conosceva già la risposta: aveva parlato a lungo di quei tempi con il giudice Taylor, aveva letto diversi libri sull’argomento. Così si affrettò a prevenire la risposta di Sherman, dicendo:
«Lo so, pensavano che il nemico non avrebbe distrutto le sue. La cosa migliore sarebbe stata quella di non avere mai creato la bomba.»
Sherman rispose:
«La cosa migliore sarebbe stata quella di non imparare mai ad accendere un fuoco, così nessuno si sarebbe mai bruciato. Inoltre, era un po’ troppo tardi per questo. Dovevano affrontare una realtà, non un argomento filosofico.»
«E allora,» disse Len, «Qual era la risposta?»
«Una difesa: non la difesa imperfetta del radar e di altre armi, ma qualcosa molto più fondamentale e totale, un concetto completamente nuovo. Un campo di forza in grado di controllare le reazioni delle particelle nucleari al loro stesso livello, in modo che non potesse verificarsi alcun processo di fissione, o di fusione, dovunque quel campo protettivo fosse in funzione. Un completo controllo, Len. La padronanza assoluta dell’atomo. La fine delle bombe, di tutte le bombe.»
Silenzio, calma, ed essi lo osservarono di nuovo, per vedere quali sarebbero state le sue reazioni. Lui chiuse gli occhi, per non vedere quelle immagini, e riuscire a pensare, o almeno tentare di farlo, e le parole risuonavano nella sua mente, forti e fredde, per il momento senza significato. Controllo completo. La fine delle bombe, di tutte le bombe. La cosa migliore sarebbe stata quella di non averle mai costruite, né le bombe, né il fuoco, né le città…
No.
No, una parola ripetuta, lentamente, con attenzione, no. Controllo completo. La fine delle bombe, di tutte le bombe. La bomba è un fatto. L’energia atomica è un fatto. È un fatto concreto, qui, sotto i miei piedi, la terribile energia che ha prodotto le immagini che vedo intorno. Non posso negare questo fatto, non posso distruggerlo, solo perché è male, e il male è un serpente che muore e si rinnova perennemente dalle proprie ceneri…
No, no, no. Queste sono le parole del predicatore, le parole di Burdette. Completo controllo dell’atomo. La fine delle bombe. La fine delle vittime, la fine della paura. Sì. Si costruiscono delle stufe, per tenere prigioniero, docile e mansueto, il fuoco, e si tiene l’acqua a portata di mano per spegnerlo, se si ribellasse. Sì.
Ma…
«Ma non trovarono quella difesa,» disse. «Perché il mondo venne bruciato dalle bombe, malgrado ogni sforzo.»
«Tentarono di farlo. Ci hanno indicato la strada. Noi la stiamo ancora seguendo. E adesso, proseguiamo.»
Varcarono la porta oltre la quale Gutierrez se ne era andato, e si trovarono in uno spazio ricavato dalla roccia solida, come tutti gli altri, pareti lisce e colonne e tanto spazio che sfuggiva via in lontananza, inondato da torrenti di luce. C’era una grande parete, davanti a loro. Non era una vera parete, però, ma un immenso pannello, grande come una parete, isolato, collegato a due piccole macchine. Era alto quasi due metri, non raggiungeva il soffitto. C’era un labirinto di quadranti e lancette e lampade. Le lampade erano tutte spente, buie, e le lancette dei quadranti erano immobili. Gutierrez era in piedi davanti a esso, e il suo viso era torvo, triste, angosciato.
«Questa è Clementina,» disse, senza girare la testa al loro ingresso. «Un nome stupido per una cosa sulla quale può poggiare il futuro del mondo.»
Len abbassò le braccia, e in quel gesto c’era il significato di abbandonare molte cose pesanti, troppo pesanti o troppo dolorose per essere portate. Nella mia testa non c’è niente, deve restare così. Il vuoto si deve riempire lentamente di nuove cose, e le vecchie cose devono disporsi secondo nuovi disegni, e allora forse, forse riuscirò a capire… che cosa? Non lo so. Non so niente, e tutto è buio e confusione, e solo la Parola…
No, non quella Parola. Un’altra. Clementina.
Sospirò e disse, ad alta voce:
«Non capisco.»
Sherman si avvicinò al grande pannello buio.
«Questo è un computer. È il più grande che sia mai stato costruito, il più complesso. Vedete, qui…»
Puntò il braccio, indicando un punto oltre il pannello, nello spazio sorretto da colonne che si stendeva là, e Len vide che c’erano innumerevoli file di strane disposizioni di fili e tubi, messi tutti in ordine, uno dopo l’altro, interrotti a intervalli da grandi cilindri di cristallo scintillante.
«Tutto ciò ne fa parte.»
La passione che Esaù provava per le macchine si stava ridestando, un raggio ancora debole attraverso la nebbia della paura.
«È tutta una macchina? Una sola macchina?»
«Tutta una macchina. In essa, in quei banchi-memoria, è immagazzinata tutta la conoscenza sulla natura dell’atomo che esisteva prima della Distruzione, e tutta la conoscenza che hanno ottenuto da allora i nostri ricercatori… tutte queste cose sono espresse in equazioni matematiche. Senza di essa, non potremo lavorare. I nostri uomini impiegherebbero tutta la vita, solo per elaborare i problemi matematici che Clementina è in grado di risolvere in pochi minuti. È la ragione dell’esistenza di Bartorstown, lo scopo dei laboratori e del reattore, di tutto ciò che avete visto qui. Senza di lei, non avremmo alcuna possibilità di scoprire la risposta in un periodo prevedibile da una mente umana. Con lei… non si può mai dire. Da un giorno all’altro, da una settimana all’altra, potremmo arrivare alla soluzione del problema.»
Gutierrez emise un suono che avrebbe potuto essere l’inizio di una risata. Tacque immediatamente. E ancora una volta, Len scosse il capo, e disse:
«Non capisco.»
E non credo di avere alcun desiderio di capire. Non oggi, non adesso. Perché quello che mi state dicendo non corrisponde alla descrizione di una macchina, ma di qualche altra cosa, e non voglio sapere di più.
Ma Esaù esclamò:
«È capace di sommare, collegare e ricordare? Ma questo non corrisponde alla descrizione di una macchina, è molto di più. Sembra un… un…»
Si trattenne, allora, e Sherman disse, in tono spassionato:
«Una volta, li chiamavano anche cervelli elettronici.»
Oh, Signore, non avrà mai fine? Prima il fuoco dell’inferno, e ora questo!
«Un nome di fantasia, naturalmente,» disse Sherman. «Non è in grado di pensare, più di quanto non sia in grado di pensare un motore a vapore. E soltanto una macchina.»
E d’un tratto si girò verso di loro, col viso severo e gli occhi gelidi e la voce sferzante come una frusta, una voce imperiosa che attirava l’attenzione ed esigeva il rispetto.
«Non voglio farvi vedere troppe cose,» disse. «Non mi aspetto che comprendiate tutto in un momento, e non mi aspetto che riusciate ad adattarvi a queste cose in pochi giorni. Vi accorderò un periodo di tempo ragionevole. Ma voglio che ricordiate una cosa. Avete lottato, e gridato, e sofferto, per ottenere il permesso di entrare a Bartorstown, e adesso siete qui, e non m’importa quello che pensavate che fosse, né quali fossero i vostri sogni, là fuori: Bartorstown è questa, è così, e così accettatela, senza discussioni. Abbiamo un certo lavoro da compiere, qui. Non l’abbiamo cercato, non l’abbiamo chiesto, ci è capitato addosso, ma siamo legati a esso e intendiamo svolgerlo, qualsiasi cosa possa pigolare la vostra coscienza da contadinelli.»
Rimase immobile, fissandoli con i suoi occhi freddi e duri, e Len pensò, è deciso, e sincero, proprio come Burdette era deciso e sincero quando diceva: ’Non ci saranno città in mezzo a noi’.
«Avete detto che volevate venire qui per imparare,» disse Sherman. «Va bene. Vi daremo tutte le possibilità d’imparare. Ma, da questo momento in avanti, il compito spetterà a voi.»
«Sissignore,» si affrettò a dire Esaù, «Oh, sissignore!»
Len pensò: Non c’è ancora niente nella mia testa, mi sembra che sia stata attraversata dal vento. Ma lui mi sta guardando, aspetta che io dica qualcosa… che cosa? Sì, no… e sotto il sole ci hanno tenuti fuori ad attendere, e abbiamo molto faticato per entrare, e adesso siamo prigionieri di una fossa che abbiamo scavato con le nostre mani…
Ma tutto il mondo è prigioniero di una fossa. Non è quello che volevamo abbandonare, non è quello che volevamo sfuggire, la fossa che ha ucciso Dulinsky e quasi ha ucciso noi? La gente ha paura, e io li odiavo per questo, e ora… non so più quale sia la risposta, oh, Signore, non so, non so, fammi trovare una risposta perché Sherman sta aspettando e io non posso scappare.
«Un giorno,» disse, corrugando la fronte, nello sforzo di pensare, e assomigliava ancora di più al ragazzo pensieroso che si era seduto sul gradino, con la nonna, in un giorno fiammeggiante d’ottobre, «Un giorno l’energia atomica ritornerà nel mondo, nonostante tutti gli sforzi che possano venire compiuti per cancellarla.»
«Una cosa nota una volta ritornerà sempre.»
«E anche le città ritorneranno.»
«Col tempo, è inevitabile.»
«E accadrà tutto per la seconda volta, le città e la bomba, a meno che voi non troviate il modo per fermarlo.»
«Se gli uomini non saranno molto, molto cambiati, quando verrà la prossima volta, sì.»
«Allora,» disse Len, sempre accigliato, sempre scuro in volto. «Allora immagino che stiate tentando di fare ciò che è necessario. Forse avete ragione.» Una pausa. «Forse può essere giusto.»
Quella parola parve appiccicarsi sulla sua lingua, ma riuscì a spingerla fuori, e non scese la folgore a incenerirlo, e Sherman non gli fece altre domande.
Esaù si era avvicinato al pannello, affascinato dalle lusinghe della macchina. Allungò la mano, esitante, e toccò il pannello, e domandò:
«Potrei vederla funzionare?»
Fu Erdmann a rispondere.
«Più tardi. Ha appena terminato un programma di tre anni, e adesso è ferma, per una revisione completa.»
«Tre anni,» disse Gutierrez. «Sì. Vorrei che aveste potuto fermare anche me, per una revisione. Sai, Frank, ne avrei bisogno. Smontare il mio cervello, e rimetterlo assieme, fresco e scintillante e pronto.» Cominciò ad alzare e ad abbassare il pugno sul pannello, con un tocco lieve, lieve come il cadere di una piuma. «Frank,» disse. «Avrebbe potuto commettere un errore.»
Erdmann lo fissò, freddamente.
«Lo sai che non è possibile.»
«Una carica statica,» disse Gutierrez. «Un accumulo di elettricità, un granello di polvere, un relé troppo consumato per funzionare bene… come potresti saperlo?»
«Julio,» disse Erdmann. «Queste cose le sai meglio di me. Se ci fosse anche il minimo inconveniente, nella macchina, si fermerebbe automaticamente, chiedendo il nostro intervento.»
Sherman parlò, e la conversazione s’interruppe, e tutti cominciarono a muoversi, sfilando lentamente per il breve corridoio pieno d’immagini e di paure. Gutierrez si avvicinò a Len, camminando più svelto, e anche attraverso le nubi di dubbio e di paura, di sgomento e d’incertezza, che gravavano nella sua mente in quel momento, Len poté udirlo borbottare tra sé:
«Potrebbe aver commesso un errore.»
Hostetter era una lampada nell’oscurità, una solida roccia nel cuore dell’inondazione. Era il legame, il contatto tra Piper’s Run e Bartorstown, era il vecchio amico e il braccio forte che l’aveva già salvato due volte, una volta alla predica, l’altra volta a Refuge. Len si aggrappò a lui, mentalmente, con una sorta di disperazione.
«Voi pensate che sia giusto?» domandò, già conoscendo l’inevitabile risposta, ma desiderando ugualmente ascoltarla dalla voce di Hostetter.
Stavano camminando lungo la strada di Bartorstown, nel tardo pomeriggio. Sherman e gli altri erano rimasti indietro, forse deliberatamente, per lasciare Hostetter solo con Len ed Esaù.
Hostetter si voltò a fissare Len, e disse:
«Sì, credo che sia giusto.»
«Ma…» disse Len, sommessamente, «Lavorarci, tenerlo in funzione…»
Era di nuovo all’aria aperta. La montagna non incombeva più sopra la sua testa, e le pareti di roccia di Bartorstown non lo rinchiudevano più nella loro morsa, e lui poteva respirare e guardare il sole. Ma l’orrore era ancora su di lui, e pensava al demone distruggitore acquattato in una cavità della roccia, e sapeva che non avrebbe voluto ritornare mai più in quel luogo malvagio. E nello stesso tempo sapeva che avrebbe dovuto andarci di nuovo, che lo volesse o no.
Hostetter disse:
«Avevo detto a entrambi che ci sarebbero state delle cose spiacevoli, per voi. Cose che si scontrano con gli insegnamenti che avete ricevuto… quegli insegnamenti che pensavate di rinnegare, ma che hanno lasciato una traccia dentro di voi.»
«Ma voi non ne avete paura,» disse Esaù. Era stato intento a riflettere, camminando pesantemente sulla strada ciottolosa. Sopra di loro, il pendio orientale offriva la consueta visione della miniera, e davanti a loro il villaggio di Fall Creek sonnecchiava tranquillamente sotto il sole al tramonto, e quel villaggio sarebbe stato molto, molto simile a Piper’s Run, se non ci fosse stato un diavolo incatenato nelle montagne. «Voi siete andato là, avete toccato il muro con le vostre mani.»
«Sono nato e cresciuto qui. L’idea è stata con me fin dai primi tempi,» disse Hostetter. «Nessuno mi ha mai insegnato che si trattava di una cosa malvagia o proibita, o che Dio l’aveva maledetta, ed è questa la differenza. È per questo motivo che non accettiamo stranieri tra noi, se non in casi rarissimi. Il condizionamento è completamente sbagliato.»
«Non mi preoccupo delle maledizioni, io,» disse Esaù. «Mi preoccupo di sapere se quella… energia atomica… potrà farmi del male.»
«No, a meno che tu non riesca a entrare là, oltre i ripari.»
«Non mi può bruciare.»
«No.»
«E non può esplodere.»
«No. L’impianto a vapore potrebbe esplodere, ma non il reattore.»
«Be’, in questo caso…» disse Esaù, e continuò a camminare in silenzio, immerso nei suoi pensieri. Poi i suoi occhi s’illuminarono, ed egli si mise a ridere, e disse, «Mi piacerebbe sapere che cosa penserebbero quei vecchi stupidi di Piper’s Run, il vecchio Harkness, e Clute, e gli altri! Volevano frustarci pubblicamente solo perché avevamo una radio, e adesso abbiamo questo… un reattore atomico! Gesù. Scommetto che ci ammazzerebbero, Len.»
«No,» disse Hostetter, malinconicamente. «Loro non lo farebbero. Ma finireste ugualmente come Soames, sotto un mucchio di pietre.»
«Be’, non ho nessuna intenzione di offrire loro la possibilità di farlo. Gesù! L’energia atomica, quella vera, l’energia più grande del mondo!» Le sue dita si aprirono e chiusero, e i suoi occhi brillarono di eccitazione e cupidigia, e domandò di nuovo, lentamente, «Siete sicuro che non ci siano pericoli?»
«Non ci sono pericoli,» disse Hostetter, con una nota d’impazienza nella voce. «Abbiamo quel reattore da cento anni, e non ha ancora fatto del male a nessuno.»
«Suppongo,» disse Len, lentamente, alzando il capo per affrontare il vento freddo, il vento del tramonto, nella speranza che quell’aria soffiasse via un poco delle tenebre e del terrore del suo spirito. «Suppongo che non abbiamo nessun diritto di lamentarci.»
«Non l’avete certo.»
«E suppongo anche che il governo sapesse cosa stava facendo, quando costruì Bartorstown.»
Anche loro avevano paura, bisbigliava il vento freddo, Avevano un potere troppo grande per loro, e avevano paura, e avevano ragione d’averla.
«Lo sapeva, certo,» disse Hostetter, che non udiva le parole del vento.
«Gesù,» disse Esaù, «Pensate cosa sarebbe successo, se avessero trovato il sistema di fermare la bomba.»
«Ci ho pensato,» disse Hostetter. «Tutti noi ci abbiamo pensato. Penso che ogni abitante di Bartorstown abbia un enorme complesso di colpa, per averci pensato troppo. Ma non c’era tempo. Semplicemente, non c’era tempo.»
Tempo? O qualche altra ragione?
«Quanto tempo ci vorrà?» domandò Len. «Mi sembra che, in quasi cento anni, avrebbero dovuto trovare qualcosa.»
«Mio Dio,» disse Hostetter, «Lo sai, tu, quanto tempo ci è voluto per scoprire l’energia atomica? Fu un greco di nome Democrito ad avere la prima idea dell’atomo, diversi secoli prima di Cristo, puoi fare il conto tu stesso.»
«Ma adesso non ci vorrà tanto tempo!» esclamò Esaù. «Sherman ha detto che con quella macchina…»
«No, non ci vorrà altrettanto tempo.»
«Quanto, però? Altri cento anni?»
«Come faccio a saperlo?» domandò Hostetter, irato. «Altri cento anni, o un altro anno soltanto. Come faccio a saperlo?»
«Ma con quella macchina…»
«È solo una macchina, non è Dio Onnipotente! Non può tirar fuori una risposta dall’aria, solo perché noi la vogliamo.»
«A proposito di quella macchina,» disse Esaù, e i suoi occhi erano di nuovo ardenti di entusiasmo. «Mi piacerebbe vederla in funzione. È davvero capace di…» Esitò, e poi pronunciò l’incredibile parola, «…di pensare?»
«No,» disse Hostetter. «Non come tu lo intendi. Fattelo spiegare da Erdmann, un giorno o l’altro…» Improvvisamente, si rivolse a Len, e disse, «Tu pensi che soltanto Dio abbia il diritto di costruire dei cervelli.»
Len arrossì, ricordando come Sherman lo aveva chiamato, contadinello con la coscienza pigolante, e arrossì ancora di più pensando che lui si sentiva tale, di fronte a quegli uomini che sapevano tanto più di lui, eppure non poteva mentire a Hostetter, lui aveva capito che i suoi pensieri erano stati quelli.
«Penso che prima o poi mi ci abituerò.»
Esaù sbuffò.
«È sempre stato pieno di dubbi, ha sempre impiegato un’eternità per prendere una decisione.»
«Be’, maledizione, Esaù.» esclamò Len, provando un palpito d’ira che per un momento allentò la cappa nera del dubbio. «Se non fosse stato per me, saresti ancora a spalare letame nel fienile di tuo padre!»
«Va bene,» disse Esaù, fissandolo con risentimento, «Ricordalo anche tu. Ricorda di chi è stata la colpa, e non andare in giro a piagnucolare come un bambino!»
«Non sto piagnucolando!»
«Sì, invece. E se ti preoccupi, se hai paura di peccare, avresti dovuto obbedire prima a tuo padre, e restartene a casa, a Piper’s Run.»
«Qui non puoi dargli torto,» s’interpose Hostetter, in tono blando.
Len borbottò qualcosa d’inintelligibile, prendendo a calci i sassolini della strada polverosa.
«E va bene. Mi ha spaventato. Ma anche lui si è spaventato, e non sono stato io a voltarmi e a scappare.»
Esaù disse:
«Sarei scappato anche davanti a un orso, fino a quando non avessi saputo che non mi avrebbe assalito o ucciso. Ora non sto scappando. Ascolta, Len, questa è una cosa importante. In quale altro punto del mondo potresti trovare una cosa altrettanto importante?» Gonfiò il petto, e sollevò il capo, come se si sentisse già rivestito di quell’importanza, come da uno splendido, colorato mantello. «Io voglio sapere molte altre cose su quella macchina.»
«Importante,» ripeté Len. «Sì, è importante.»
È vero. Non c’è alcun dubbio, su questo. Oh, Dio, tu fai quelli come mio fratello James, che non fa mai domande, e fai quelli come Esaù, che non crede mai, e perché devi fare i tipi intermedi come me?
Ma Esaù ha ragione. È troppo tardi, adesso, per preoccuparsi dei peccati. Papà ha sempre detto che le vie del trasgressore sono dure, e penso che questo faccia parte delle asperità di questa via.
E così sia, allora.
Lasciarono Esaù alla casa di Sherman, per andare a prendere sua moglie, e Len e Hostetter proseguirono insieme verso la casa di Wepplo. Il rapido, limpido crepuscolo di quei luoghi stava calando, e le strade erano deserte, ed erano piene dell’odore di fumo e di cibo. Quando giunsero davanti alla casa di Wepplo, Hostetter si fermò, e si voltò per parlare a Len con uno strano tono quieto che non aveva mai usato prima.
«C’è qualcosa che devi ricordare, nello stesso modo in cui ricordavi la folla che ha ucciso Soames, e Burdette e i suoi contadini, e i Nuovi Ismaeliti. Si tratta di questo… anche noi siamo fanatici, Len. Dobbiamo esserlo, altrimenti ce ne saremmo andati a vivere altrove la nostra vita, lasciando che tutta questa faccenda andasse in malora. Anche noi abbiano un credo. Non urtarlo, non immischiarti, perché se lo facessi neppure io sarei più in grado di salvarti.»
Poi sali i gradini, e lasciò Len immobile, là, a seguirlo con lo sguardo. C’erano delle voci e delle luci, nella casa, ma là fuori c’era silenzio, ed era quasi buio. E poi qualcuno arrivò dall’angolo della casa, camminando senza fare rumore. Era la ragazza, Joan, che accennando con il capo verso la casa disse:
«Cercava di spaventarvi?»
«Non credo,» disse Len. «Credo che stesse solo dicendo la verità.»
«L’ho sentito.» Aveva un panno bianco in mano, come se fosse andata a scuoterlo fuori. Anche il suo viso pareva bianco, nell’oscurità incombente, vago e indistinto. Ma la sua voce era tagliente come la lama di un coltello. «Fanatici, vero? Be’, forse lui lo è, e forse lo sono anche gli altri, ma non io. Io sono stanca di tutta questa faccenda, stanca e nauseata. Che cosa vi ha fatto desiderare di venire qui, Len Colter? Eravate impazzito, o qualcosa di simile?»
La guardò, osservò i contorni indistinti del suo viso, senza sapere cosa rispondere.
«Vi ho sentito parlare, stamattina,» disse lei.
Len disse, imbarazzato:
«Né io né Esaù sapevamo che…»
«Vi hanno ordinato di dire tutte quelle cose, vero?»
«Quali cose?»
«Come sono orribili le persone, là fuori, e come è odioso il mondo, e così via?»
«Non capisco cosa vogliate dire,» disse Len. «Non so in quale senso lo intendiate, ma ogni parola che abbiamo detto era vera. Se pensate il contrario, andate là fuori anche voi, e vedrete.»
Fece per passarle accanto, e salire i gradini. Lei posò una mano sul suo braccio, e lo fermò.
«Mi dispiace. Immagino che fosse tutto vero. Ma è per questo che Sherman vi ha fatto raccontare tutto alla radio… per farlo sentire a noi. Propaganda.» Aggiunse, nel tono di chi la sa lunga, «Scommetto che è stato per questo motivo che vi hanno lasciato entrare qui… per fare vedere a tutti noi, tangibilmente, quanto siamo fortunati.»
Len disse, a bassa voce:
«Non lo siete, forse?»
«Oh, sì,» disse Joan. «Sì, siamo molto fortunati. Abbiamo tanto di più della gente che vive nel mondo esterno. Non nella vita di ogni giorno, naturalmente. Anzi, non abbiamo altrettanto, per quanto riguarda cose come il cibo e come la libertà. Ma abbiamo Clementina, e lei compensa tutto. Vi è piaciuto il viaggio nel Buco?»
«Il Buco?»
«È il nome che alcuni di noi hanno dato a Bartorstown.»
Il suo tono di voce e il suo modo di fare lo avevano messo a disagio. Disse:
«Sarà meglio che entri, adesso,» e salì un altro gradino.
«Spero che vi sia piaciuto,» disse lei. «Spero che vi sia piaciuta questa gola, e Fall Creek. Perché non vi lasceranno uscire mai più.»
Pensò a quello che aveva detto Sherman. Non biasimava Sherman, per questo. Lui non aveva alcuna intenzione di andarsene. Ma la cosa non gli piaceva ugualmente.
«Un giorno o l’altro, impareranno ad avere fiducia in me,» disse.
«Mai.»
Non voleva discutere con lei.
«Be’, credo comunque che rimarrò qui per un po’ di tempo,» disse, in tono leggero. «Dopotutto, ho passato metà della mia vita nel tentativo di venire qui.»
«Perché?»
«Voi siete una ragazza di Bartorstown. Dovreste conoscere già la risposta.»
«Perché volevate imparare. È vero, lo avete detto anche stamattina. Volevate imparare, e nessuno ve lo permetteva.» Fece un gesto ironico, che comprendeva l’intera gola. «Andate. Imparate. Siate felice.»
La prese per le spalle, allora, l’attirò più vicina, in modo da vedere il suo viso nel chiarore che giungeva dalle finestre.
«Che cosa avete?»
«Penso soltanto che voi siete pazzo, ecco tutto. Avere a propria disposizione tutto il mondo, e gettarlo via per questo!»
«Che io sia dannato,» disse Len. La lasciò andare, e si mise a sedere sul gradino, e scosse il capo. «Che io sia dannato. Ma Bartorstown non piace proprio a nessuno, allora? Ho l’impressione di avere udito più lamentele da quando sono arrivato qui, di quante ne abbia udite in tutta la mia vita precedente.»
«Quando avrete vissuto un’intera vita qui,» disse lei, in tono amaro, «Capirete. Oh, alcuni, tra gli uomini, escono, certo. Ma la maggioranza rimane qui. La maggioranza non vede mai niente, all’infuori delle pareti di questa gola. E anche gli uomini devono sempre ritornare. È come dice il vostro amico. Dovete essere un fanatico, per pensare che valga la pena di fare tutto questo.»
«Io ho vissuto là fuori,» disse Len. «Io penso a quello che è oggi, e a quello che potrebbe essere, se…
«Se Clementina darà la risposta giusta, un giorno. Certo. Ormai è passato quasi un secolo, e non sono più vicini alla soluzione di quanto non fossero all’inizio, ma dobbiamo essere tutti pazienti, e devoti, e pieni di dedizione al lavoro… dedizione a che cosa? A quel maledettissimo cervello meccanico, che se ne sta acquattato laggiù, sotto una montagna, e deve essere trattato con tutto l’amore possibile, come se fosse Dio!»
Si chinò su di lui, improvvisamente, protendendo il viso, nel vago riverbero delle finestre.
«Io non sono fanatica, Len Colter. Se volete parlare con qualcuno, ricordatevelo.»
Poi se ne andò, dietro l’angolo della casa, correndo. Len sentì aprirsi una porta da qualche parte, sul retro. Si alzò in piedi, lentamente, e salì i gradini, ed entrò lentamente nella casa, e consumò la cena alla tavola di Wepplo. E non udì quasi niente, delle conversazioni che si svolsero intorno a lui.
Il mattino dopo, Len ed Esaù vennero convocati di nuovo a casa di Sherman, e questa volta Hostetter non andò con loro. Sherman stava dall’altra parte della grande tavola, nel soggiorno, e teneva due chiavi nelle mani.
«Vi ho detto che non avrei cercato di forzarvi la mano, e intendo mantenere la promessa. Ma nel frattempo dovrete lavorare. Ora, se vi dessi un lavoro da svolgere a Fall Creek, come fabbri, o stallieri, o qualcosa di simile, non potreste imparare niente di più su Bartorstown, e sarebbe come se foste rimasti a casa vostra.»
«Be’, sì,» disse Esaù, e poi domandò, con ansia, «Posso imparare qualcosa sulla grande macchina? Su Clementina?»
«Per dire la verità, io penso che rimarrà sempre al di là delle vostre possibilità, a meno che non vogliate aspettare di essere vecchio. Ma potrete stare con Frank Erdmann, che è l’esperto. E non preoccupatevi, avrete tutte le macchine che vorrete. Ma qualunque macchina scegliate, ci vorrà sempre un lungo studio, prima che voi siate pronto, e fino a quel momento…»
Esitò, solo per una frazione di secondo; forse non esitò affatto, e forse fu soltanto per caso che i suoi occhi si posarono in quel momento sul viso di Len, ma Len capì quello che avrebbe detto ancor prima di sentirlo, e si preparò a sostenere l’urto, in modo che il suo viso non mostrasse niente dei suoi sentimenti.
«Fino a quel momento, sarete assegnati all’impianto a vapore. Avete già qualche esperienza con il vapore, e non dovrebbe occorrervi molto tempo per fare pratica, e imparare le differenze. Jim Sidney, l’uomo col quale avete parlato ieri, vi darà tutta l’assistenza necessaria.»
Si alzò in piedi, e girò attorno alla tavola, e porse loro le chiavi.
«Queste servono ad aprire il cancello. Abbiatene cura. Jim vi dirà l’orario di lavoro, e tutto il resto. Nel tempo libero, potrete andare dove vorrete a Bartorstown, e chiedere qualsiasi cosa, purché non interferiate con il lavoro. Potrete prendere accordi con il bibliotecario, Irv Rothstein, per consultare i suoi libri. Ed è inutile che facciate entrambi la faccia di pietra. Posso leggervi il pensiero».
Len lo guardò, sorpreso, e Sherman sorrise.
«Voi pensate che l’impianto a vapore è vicinissimo al reattore, e vorreste essere in qualsiasi altro posto. Ed è esattamente per questo che andrete a lavorare là. Voglio che impariate ad abituarvi al reattore, a tal punto da dimenticare la vostra paura».
È vero? pensò Len. O è il suo modo di metterci alla prova, per vedere se noi possiamo vincere la paura, se potremo mai imparare a vivere qui?
«Andate pure, ora,» disse Sherman. «Jim vi sta aspettando».
E così uscirono, incamminandosi nel mattino limpido per la strada polverosa, attraverso il pendio e le rocce franate, verso Bartorstown. E al cancello di sicurezza si fermarono, esitando, ciascuno aspettando che fosse l’altro ad aprire, e Len disse:
«Credevo che non avessi paura».
«Infatti. Solo che… oh, accidenti, tutti gli altri lavorano intorno a esso, e stanno bene. Andiamo».
Infilò rabbiosamente la chiave nella serratura, aprì, e varcò la soglia. E Len chiuse con cura il cancello, pensando, Ora io sono rinchiuso con lui, il fuoco che cadde dal cielo sul mondo della nonna.
Seguì Esaù, lungo la galleria, e attraverso la porta interna, oltre la camera di controllo dalla quale il giovane Jones li salutò con un cenno. E lui non ha paura? No, lui è come Ed Hostetter, non gli è mai stato insegnato ad avere paura. Ed è vivo, sano, tranquillo. Dio non lo ha folgorato. Dio non ha colpito con le Sue folgori nessuno di loro. Ha lasciato sopravvivere Bartorstown. Non è questa una prova, non indica, questo, che è giusto, che la risposta che essi tentano di trovare è la risposta giusta?
Ma le vie del Signore sono infinite, e sfuggono alla nostra comprensione, e al malvagio viene sempre concesso il suo giorno sulla terra…
«Cosa diavolo stai pensando?» domandò Esaù. «Dormi? Avanti, andiamo».
C’erano delle goccioline di sudore sulla fronte di Esaù, e le sue labbra tremavano. Scesero di nuovo le scale, e i gradini metallici risuonarono cupamente sotto i loro piedi, oltrepassarono il livello nel quale si trovava il grande calcolatore, giù, giù, verso i gradini più bassi, e poi l’ultimo gradino, e poi via dalla scala, avanti, nella grande, spaziosa caverna pulsante di energia che faceva vibrare l’aria e la roccia e la carne, davanti ai generatori e alle turbine, ed era là, il muro di cemento, il volto vacuo e fisso. E i peccati dei nostri padri sono ancora con noi, o se non i loro peccati, le loro follie, e non avrebbero mai, mai dovuto…
Ma l’avevano fatto.
Parlarono con Jim Sidney. Lui dovette chiamarli due volte, prima di farsi sentire, ma era la prima volta, ed egli fu paziente. E Len lo seguì verso la grande massa dell’impianto a vapore, sentendosi minuscolo e insignificante in mezzo a quell’immane potenza. Strinse i denti, e gridò silenziosamente, dentro di sé, È solo perché ho paura che provo questo, e supererò il momento, come ha detto Sherman. Gli altri non hanno paura. Sono uomini, come tutti gli altri, bravi uomini che credono di agire bene, che fanno quello che il governo disse loro di fare. Imparerò. La nonna avrebbe voluto questo da me. Me l’ha detto: non avere mai paura di conoscere, e io non avrò paura.
Non avrò paura. Diventerò una parte di tutto questo, contribuirò a liberare il mondo dalla paura. Devo credere, perché adesso sono qui, e non c’è altro che io possa fare.
No, non così. Devo credere perché è giusto. Imparerò a capire che è giusto. Ed Hostetter mi aiuterà, perché io posso fidarmi di lui, e lui dice che questo è giusto.
E Len si mise al lavoro, al fianco di Esaù, all’impianto a vapore, e per tutto il resto della giornata non guardò il muro del reattore. Ma poteva sentirlo. Poteva sentirlo nella carne e nelle ossa e nel formicolare del suo sangue, e lo sentiva ancora quando ritornò a Fall Creek e si mise a dormire nel proprio letto. E lo sognò quando riuscì infine ad addormentarsi.
Ma non c’era via di scampo. Ritornò al lavoro, il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, e regolarmente nei giorni che seguirono, salvo la domenica, quando andava in chiesa e faceva lunghe passeggiate al pomeriggio insieme a Joan Wepplo. Andare in chiesa era rassicurante, per lui. Era un vero conforto ascoltare dal pulpito che Dio benediceva i loro sforzi, e che essi dovevano solo mantenersi fermi e pazienti e non perdersi d’animo. Questo lo aiutava a pensare che quello che faceva fosse davvero giusto. E il trattamento di Sherman pareva funzionare, in un certo senso. Ogni giorno il terrore di essere vicino a quel muro spaventoso diminuiva, forse perché i nervi eccitati di continuo diventavano insensibili. Riuscì a guardare i nervi di cemento, allora, e a pensare con calma a quello che c’era dietro. Riuscì a imparare qualcosa sugli strumenti che si trovavano su di essa, gli strumenti che misuravano l’energia che veniva prodotta là dentro, e poté apprendere qualche elemento superficiale, da profano, sulla natura di quell’energia, e sul modo in cui funzionava, e gli fu spiegato anche perché, in quella forma, poteva essere così facilmente controllata. Poteva andare avanti così per diversi giorni, a volte, ridendo e chiacchierando con Esaù, scherzando su quello che avrebbero pensato a Piper’s Run se li avessero visti in quel momento… il signor Nordholt, il maestro di scuola, che credeva di sapere tante cose, e impartiva così parsimoniosamente la sua conoscenza per timore di corrompere l’animo dei giovani, e gli altri anziani della città, capaci di frustare a sangue un ragazzo per avere posto delle domande, e, be’, sì, anche papà e lo zio David, la cui risposta era la cinghia. No, questo non valeva per papà, e Len sapeva benissimo che cosa avrebbe detto papà, e non voleva pensarci, era un argomento che preferiva sorvolare. Così rivolgeva i suoi pensieri al giudice Taylor, che aveva fatto uccidere un uomo e bruciare un paese per paura che esso potesse diventare un giorno una città, e pensava, vendicativo, che gli sarebbe piaciuto dire al giudice Taylor che cosa c’era sotto le rocce di Bartorstown, e osservare l’espressione del suo viso, allora.
E io non ho paura, pensava. Avevo paura, sì, ma adesso è passata. È soltanto una forza naturale, come tutte le altre forze della natura. Non c’è nulla di malvagio, in questa energia atomica, non più di quanto possa esserci malvagità in un coltello, o in una sacca di polvere da sparo. Il male sta soltanto nel modo in cui la forza viene usata, e noi faremo in modo che nessuno possa più fare del male con essa, mai più. Noi. Noi, uomini di Bartorstown. E, oh, Dio, le notti di freddo e di brividi lungo le rive dei torrenti nebbiosi, i giorni di caldo soffocante e di zanzare e moscerini a stormi, e di fame, gli inverni passati in strane comunità, e tutti i giorni e le notti e gli anni durante i quali abbiamo sognato di diventare uomini di Bartorstown!
Ma il sogno era diverso, allora. Era tutto lucente e colorato e splendido, come lo aveva raccontato la nonna, e non c’erano tenebre in esso.
Continuava così per giorni e giorni, e a un certo punto pensava: Ora finalmente ho vinto le mie paure.
E poi si svegliava urlando nel cuore della notte, e Hostetter lo scuoteva, per strapparlo dall’incubo.
«Cosa stavi sognando?» domandava Hostetter.
«Non so. Un incubo, penso». Si alzava e andava a prendere un bicchiere d’acqua, e aspettava che il sudore e il tremito si quietassero. E poi domandava, con noncuranza, «Ho detto qualcosa?»
«No, almeno non ho sentito niente, all’infuori del grido. Ti lamentavi».
Ma poi si accorgeva che Hostetter lo fissava, con espressione intenta e pensierosa, e si domandava se lui non sapesse benissimo la natura del suo incubo.
Le paure di Esaù erano acque meno profonde di quelle nelle quali navigava lo spirito di Len. Si trattava, quasi esclusivamente, di paura fisica, e quando egli fu pienamente convinto che nessuna forza invisibile avrebbe bruciato il suo corpo e le sue ossa, diventò molto indifferente, quasi noncurante, e parve considerare il reattore come una sua proprietà, qualcosa che lui stesso aveva costruito. Len gli domandava:
«Non ti ha mai preoccupato… voglio dire, non hai mai pensato che se il reattore non fosse stato tenuto in funzione, qui, non ci sarebbe nessun bisogno di trovare una risposta…».
«Hai sentito cosa ha detto Sherman. Potrebbero esisterne degli altri. Forse nelle mani del nemico. E allora, cosa accadrebbe?»
«Ma se questo fosse l’ultimo reattore del mondo?»
«Be’, non fa male a nessuno. E poi, Sherman ha detto che se anche fosse così, non avrebbe importanza, perché qualcuno potrebbe riscoprire l’energia atomica e tutto il resto».
Forse no, forse mai. Forse lo dice solo per giustificarsi. Hostetter aveva usato una parola, per definire questo… razionalizzazione. In ogni modo, questo sarebbe accaduto tra molto, molto tempo. Altri cento anni, forse duecento, forse ancora di più. Non sarò vivo, per vedere quel giorno.
Esaù rise:
«La mia donna è veramente un fenomeno».
Stavano chiacchierando, come sempre, durante il lavoro. Len non vedeva molto Amity: e quando la vedeva, i loro rapporti erano freddi. C’era un senso di gelo, tra loro, una specie di reciproco imbarazzo che non facilitava le conversazioni amichevoli. Così domandò a Esaù:
«Perché lo dici?»
«Be’, quando ha saputo di questa faccenda dell’energia atomica, ha avuto una crisi terribile. Si è messa a piangere, ha detto che avrebbe perduto il bambino, ha detto che era orribile. E vuoi sapere una cosa? Adesso ha stabilito che si tratta solo di una grossa bugia, per farle credere che qui sono tutti terribilmente importanti, e dice di averne le prove».
«Quali?»
«Il fatto che tutti sanno che cosa produce l’energia atomica, e che se ce ne fosse, qui, non rimarrebbe questa gola, ma solo un grosso cratere nero, come raccontava il giudice».
«Oh,» disse Len.
«Be’, lei è contenta così. Così io non discuto. A che servirebbe? In fondo, lei non sa niente di queste cose, non le capisce». Si fregò le mani, e sogghignò. «Spero proprio che mio figlio sia un maschio. Forse io non riuscirò a imparare abbastanza, per far funzionare la grande macchina, ma lui potrà riuscire. Al diavolo, potrebbe essere addirittura lui a trovare la risposta!»
Esaù era affascinato dalla grande macchina, da Clementina. Le gironzolava attorno ogni volta che trovava un minuto libero, rivolgeva interminabili domande a Erdmann e ai tecnici che vi lavoravano, fino a quando Erdmann non cominciò a manifestare qualche segno d’insofferenza, e a cambiare strada, ogni volta che incontrava Esaù. Spesso Len andava con il cugino. Rimaneva immobile, a fissare la faccia scura della cosa, fino a quando non si sentiva pervadere da un senso d’inquietudine, di nervosismo, come se fosse stato al capezzale di un dormiente che si fingesse tale, ma che in realtà lo osservasse a occhi chiusi. E pensava: Non è veramente un cervello, non pensa realmente, è solo un nome che le hanno dato, e le cose che conosce, e i calcoli che può fare, sono soltanto imitazioni del pensiero. Ma durante le ore notturne una creatura lo perseguitava, una creatura con un grande cuore pulsante di fuoco infernale, e un cervello grande come il fienile di papà.
Nel complesso, però, lavorava sodo per adattarsi, e ci riusciva bene. Ma c’erano altre ore, ore di veglia, durante le quali un’altra creatura lo perseguitava, e gli lasciava ben poca pace. E questa era una creatura umana, e non un incubo. Era una ragazza di nome Joan.
Tre gruppi diversi di stranieri vennero a Fall Creek prima che cominciasse a nevicare, si trattennero brevemente per vendere le loro merci e acquistare ciò che Fall Creek aveva da offrire, e ripartirono. Due gruppi di questi stranieri erano costituiti da piccole bande di uomini bruni e robusti, che seguivano le mandrie selvagge, cacciatori e domatori di cavalli, e offrivano puledri da poco domati in cambio di farina, zucchero, e acquavite di grano. Il terzo e ultimo gruppo era composto da Nuovi Ismaeliti. Erano venticinque, e non erano mercanti, e vennero a reclamare polvere e pallottole come dono per gli unti del Signore. Non si trattennero la notte a Fall Creek, né oltrepassarono la periferia del paese, come se avessero avuto paura di rimanerne contaminati, ma quando Sherman mandò loro quanto avevano domandato, essi cominciarono a cantare e a pregare, agitando le braccia e gridando Alleluia. Metà della popolazione di Fall Creek era uscita per vederli, e anche Len era là, in compagnia di Joan Wepplo.
«Tra poco uno di loro si metterà a predicare,» disse Joan. «È quello che tutti aspettano».
«Ne ho sentite anche troppe di prediche,» borbottò Len. Ma rimase là. Il vento era gelido, soffiava nella gola proveniente dai grandi campi di neve delle vette più alte. Tutti indossavano giacconi di pelle di vacca o di cavallo, ma i Nuovi Ismaeliti non avevano altro che i loro stracci e le loro pelli di capra che sbattevano al vento intorno alle gambe nude. Apparentemente, non si curavano del freddo.
«Malgrado la loro resistenza, d’inverno soffrono terribilmente,» disse Joan. «Muoiono di fame, e di congelamento. I nostri uomini trovano i loro cadaveri a primavera, a volte un’intera banda, compresi i bambini». Li fissò con occhi freddi e pieni di disprezzo. «Dovrebbero dare almeno ai bambini la possibilità di sopravvivere. Dovrebbero lasciarli crescere abbastanza, affinché possano decidere se morire o no per il freddo, e per la fame».
I bambini, ossuti e lividi dal freddo, battevano i piedi e urlavano e scuotevano i capelli scarmigliati. Non sarebbero mai stati capaci di prendere una decisione, neppure se fossero diventati adulti. L’abitudine sarebbe stata troppo forte, l’inizio della loro vita avrebbe condizionato troppo pesantemente il loro modo, non di pensare, ma di esistere. Len disse:
«Penso che non possano permetterselo, come non se lo possono permettere né la vostra gente, né la mia».
Un uomo uscì dal gruppo e cominciò a predicare. Aveva i capelli e la barba di un grigio sporco, ma Len lo giudicò meno vecchio di quanto sembrasse. I Nuovi Ismaeliti non diventavano mai molto vecchi. L’uomo vestiva di pelli di capra, sporche e unte, e le ossa del torace sporgevano come una gabbia per uccelli. Scosse i pugni alla gente di Fall Creek, e gridò:
«Pentitevi, pentitevi, perché il Regno di Dio è vicino! Voi che vivete per la carne e i peccati della carne, sì, voi!, la vostra fine è vicina. Il Signore ha parlato con le fiamme e il tuono, la terra si è aperta e ha inghiottito l’ingiusto, e qualcuno ha detto: ’Questo è tutto, Egli ci ha punito, e ora siamo perdonati, ora possiamo dimenticare.’ Ma io vi dico che Dio nella Sua misericordia vi ha dato soltanto un poco di tempo, e che il tempo è quasi trascorso, e voi non vi siete pentiti! E cosa direte quando i cieli si apriranno, e Dio verrà a giudicare il mondo? Come piangerete implorando e supplicando misericordia, e a che cosa vi serviranno i lussi e le vanità di cui vi circondate, allora? Saranno fascine per alimentare le fiamme dell’inferno! Fuoco e tenebra e stridore di denti, e sofferenza e dannazione eterna, se non vi pentirete e cospargendovi il capo di cenere non farete penitenza per i vostri peccati!»
Il vento affievoliva le sue parole e le soffiava via, portandole lontano, pentitevi, pentitevi, come un’eco che svaniva in fondo alla gola, come se il pentimento fosse ormai una speranza perduta. E Len pensò, Cosa accadrebbe, se lui sapesse, se corressi verso di lui gridando quello che c’è nella gola, a meno di mezzo miglio da lui? A che gli servirebbero, allora, le sue pelli di capra, e tutti i massacri commessi in nome della fede?
Vattene. Vattene, vecchio pazzo, e smetti di urlare.
Se ne andò, infine, pensando apparentemente di avere compensato a sufficienza il dono ricevuto. Raggiunse il suo gruppo, e tutti si allontanarono sulla tortuosa strada del passo. Il vento era aumentato, e sferzava crudelmente le rocce, e ululava gelido, e i Nuovi Ismaeliti si piegavano per la violenza della bufera e per la ripida ascesa, con i capelli sbattuti qua e là, e gli stracci che li coprivano sbattuti anch’essi dal vento. Len rabbrividì, involontariamente.
«Anch’io sentivo compassione per loro, una volta,» disse Joan. «Fino a quando non mi sono resa conto che ci ammazzerebbero tutti in un minuto, se lo potessero». Si guardò gli abiti, la giacca di vitello con il pelo all’esterno, la gonna di lana, gli alti stivali caldi. «Vanità,» disse. «Lusso.» E rise, una risata breve e aspra. «Vecchio, sporco stupido! Non conosce nemmeno il significato delle parole».
Sollevò il capo, e guardò Len. I suoi occhi brillavano di qualche pensiero segreto.
«Potrei mostrarvelo, Len… cosa significano quelle parole».
I suoi occhi lo turbavano. Come sempre. Erano così penetranti e acuti, e dietro di essi la sua mente pareva pensare sempre così rapidamente… pensieri che lui non riusciva a seguire. Ora sapeva che lei lo stava sfidando, in qualche modo, e così disse:
«Va bene, allora, mostratemelo».
«Dovrete venire a casa mia».
«Verrò comunque per il pranzo, non ricordate?»
«Voglio dire subito».
Si strinse nelle spalle.
«Andiamo».
S’incamminarono, attraverso le stradine anguste di Fall Creek. Quando giunsero alla casa di lei, Len la seguì nell’interno. C’era silenzio, un silenzio rotto soltanto da due mosche tardive che ronzavano stanche sulla finestra, e c’era caldo, dopo il vento gelido. Joan si tolse la giacca.
«Penso che i miei siano ancora fuori,» disse lei. «Credo che non torneranno presto. Vi dispiace?»
«No,» disse Len. «Non importa». Si tolse a sua volta il giaccone, e si mise a sedere.
Joan si avvicinò alla finestra, osservando le mosche. Aveva camminato molto in fretta, lungo la strada, ma adesso, improvvisamente, pareva non avere alcuna fretta.
«Vi piace ancora lavorare nel Buco?»
«Certo,» disse Len, cauto. «Certo».
Silenzio.
«Non hanno ancora trovato la risposta?»
«No, ma non appena Erdmann… Ma perché mi avete fatto questa domanda? Lo sapete benissimo che la risposta non è stata trovata».
«Qualcuno vi ha detto entro quanto tempo la troveranno?»
«Sapete bene anche questo».
Ancora silenzio, e Joan continuò la sua silenziosa caccia alle mosche, e una di esse, ora, era morta sul pavimento.
«Quasi cento anni,» disse lei, piano, guardando fuori dalla finestra. «Sembra un periodo così lungo, così lungo. Non so se riusciremo a resistere per un altro secolo».
Si voltò.
«Non so se io potrò sopportare un altro anno».
Len si alzò senza guardarla negli occhi.
«Forse è meglio che io vada».
«Perché?»
«Be’, i vostri non sono in casa, e…»
«Torneranno all’ora di pranzo».
«Ma c’è ancora molto per il pranzo».
«Bene,» disse lei. «Non volete vedere quello che vi ho detto?» Gli sorrise, un sorriso bianco e gioioso. «Aspettate qui».
Corse nella stanza vicina, e chiuse la porta. Len si mise di nuovo a sedere. Continuava a tormentarsi le mani, e sentiva le tempie in fiamme. Riconobbe quella sensazione. L’aveva provata altre volte, nel roseto, nell’oscuro giardino del giudice, quando aveva passeggiato con Amity, quando si era fermato con lei nel profumo delle rose. Sentiva, nell’altra stanza, che Joan si muoveva e si affaccendava, sentì anche il rumore del coperchio di qualche grosso baule battuto contro il muro. Passò molto tempo. Si domandò cosa diavolo stesse facendo, e tese l’orecchio, nervosamente, temendo di udire dei passi sul portico, e facendo questo sapeva bene che i suoi non sarebbero certamente tornati, perché se fossero tornati lei l’avrebbe saputo, e certo non avrebbe fatto quello che stava facendo, qualunque cosa fosse.
La porta si aprì, e Joan entrò.
Indossava un abito rosso. Era un po’ sbiadito, e spiegazzato, per essere rimasto riposto per molto tempo, ma questo non importava. Era rosso. Era fatto di una stoffa soffice, brillante, lucente, che frusciava quando lei si muoveva, e scendeva fino al pavimento, nascondendole i piedi, ma quella era l’unica cosa che nascondeva di lei. Le modellava la vita e i fianchi e delineava le cosce quando lei si muoveva, e sopra la vita non c’era molto, anzi, quasi nulla, a coprirla. Lei allargò le braccia e si girò, lentamente. Le spalle e la schiena erano nude, bianche e lucenti nella luce del sole che entrava dalla finestra, e i seni erano ben modellati nella stoffa rossa, e si mostravano sopra di essa in due curve a mezzaluna. I capelli neri le scendevano sulla pelle bianca, lucidi e bellissimi.
«Era della mia bisnonna. Vi piace?»
Len disse:
«Cristo!» Spalancò gli occhi, guardò e guardò, e il suo viso era rosso quasi quanto il vestito. «È la cosa più indecente che abbia mai visto».
«Lo so,» disse lei, «Ma non è bello?» Fece scorrere le mani, lentamente, sul vestito, dal corsetto alla gonna, assaporandone il fruscio, la morbidezza. «Questa era vera vanità, questi erano veri lussi. Sentite, come bisbiglia. Cosa pensate che direbbe quel vecchio, stupido straccione sporco, se potesse vederlo?»
Era vicinissima a lui, ora. Len poteva vedere la pelle bianca delle spalle, e come i seni si alzavano e si abbassavano quando lei respirava, con la brillante stoffa rossa che li premeva. Lei sorrideva. Si rese conto, improvvisamente, che Joan era bella, non graziosa come era stata Amity, ma di una bellezza bruna e conturbante, e non era piccola come lui aveva pensato, ma tutto faceva parte di lei, di come era. La guardò negli occhi, e comprese anche che lei era là… non soltanto una ragazza, non solo Joan Wepplo, ma lei, e qualcosa accadde dentro di lui, come nel momento in cui le luci elettriche si erano accese nella galleria oscura che conduceva a Bartorstown. Ed era una sensazione che lui non aveva mai provato quando era stato con Amity.
Sollevò le braccia, e l’abbracciò, e lei sollevò la bocca verso le sue labbra, e rise, una risata roca e profonda, eccitata e compiaciuta. Un’ondata di calore attraversò Len. La stoffa rossa era soffice, liscia e frusciante sotto le sue dita, tesa sul calore del corpo di lei. La sua bocca fu su quella di lei, e la baciò, e la baciò di nuovo, e come mosse da una volontà propria le sue mani salirono alle spalle bianche, e strinsero quella pelle nuda. E anche questo era molto diverso da ciò che aveva esperimentato con Amity.
Joan si svincolò da lui. Ora non rideva più, e i suoi occhi erano duri e lucenti come due stelle nere che ardevano davanti a lui.
«Un giorno,» disse lei, con veemenza, «Tu vorrai uscire da questo posto, e allora verrai da me, Len Colter. Verrai da me allora, ma non prima».
Si voltò, e ritornò di corsa nell’altra stanza, e chiuse la porta, tirando il catenaccio, e fu inutile cercare di entrare e di raggiungerla. E quando lei uscì di nuovo, indossando gli abiti usuali, quelli che indossava ogni giorno, era passato molto, molto tempo, e i suoi familiari stavano già percorrendo il sentiero che conduceva alla casa, ed era quasi ora di cena. E fu come se nulla fosse accaduto, e nulla fosse stato detto.
Ma fu Joan, in un altro posto, in un altro momento, a parlargli della Soluzione Zero.
Venne l’inverno.
Fall Creek si trasformò in una tasca isolata di luce e di vita in una vasta desolazione di freddo e roccia e vento e bufere di neve. Il passo era bloccato. Nessuno avrebbe potuto entrare o uscire dalla gola, prima della primavera. La neve cadde, ammucchiandosi alta intorno alle case, e riempiendo i vicoli, e le montagne erano un grande, unico splendore bianco, stupende nelle giornate serene, illuminate dal sole, spettrali nella notte, come le montagne dei sogni, ma troppo grandi e immobili e silenziose per avere qualcosa di amichevole per l’uomo. E il respiro che esalavano, dai gelidi pendii, era aspro e pungente come il brivido della morte.
A Bartorstown non c’erano né estate né inverno, né giorno né notte. Le luci brillavano e l’aria passava sospirando attraverso le stanze scavate nella roccia, sempre uguale, sempre uniforme. L’Energia prigioniera dietro la parete di cemento dispensava in silenzio i doni della sua forza, instancabile, e il cuore immortale vibrava e pulsava nella roccia. Di sopra, nella sua vasta camera, il cervello dormiva, Clementina, nome stupido per la speranza del mondo, mentre gli uomini accarezzavano e riparavano i fili stanchi e i transistor logori che formavano il suo essere. E ancora più sopra, nella stanza di guardia, gli occhi vigilavano e le orecchie ascoltavano, in guardia contro il mondo. Len lavorava, e sudava sui libri che gli erano stati consigliati, e pensava a tutte le cose che stava apprendendo, e a quanto era rara la sua sorte, e sapeva che pochissime persone nel grande mondo ignorante, pauroso, tormentato dalla colpa e perseguitato dal peccato, avrebbero potuto fare ciò che lui ed Esaù avevano fatto, e ricordava che loro avrebbero fatto qualcosa per rendere il domani diverso dall’orribile ieri. Si domandava per quale motivo quei sogni maligni lo assalissero ancora a tradimento nelle giungle del sonno notturno, e invidiava Esaù che passava notti tranquille, ma non lo diceva. Ormai non pensava quasi più alla Bartorstown che aveva cercato per metà della sua vita, accettando la realtà, e così un’altra piccola parte della sua giovinezza scivolò via da lui come sabbia dalla clessidra del tempo. Pensava a Joan, e cercava di tenersi lontano da lei, e non ci riusciva, perché non poteva. Aveva paura di lei, ma aveva ancor più paura ad ammettere di avere paura, perché in questo caso lei lo avrebbe sconfitto, in qualche modo oscuro che sfuggiva al ragionamento e veniva percepito dall’istinto, lei avrebbe dimostrato che lui desiderava veramente lasciare Fall Creek e fuggire da Bartorstown, e questo era assurdo, perché lui aveva passato la vita a cercarla. Joan era una sfida che Len non osava ignorare. Ma era anche una ragazza, e Len era pazzo di lei.
Anche gli altri avevano dei lavori da svolgere. Hostetter trascorreva lunghe ore con Sherman, svolgendo il lavoro per il quale, apparentemente, era ritornato a casa… dando i consigli più opportuni, grazie all’esperienza ottenuta dai molti anni di attività nel mondo esterno, per rendere più snello e produttivo e funzionale il lavoro di commercio esterno. Era un Hostetter diverso, come aspetto, con la barba curata, corta, e i capelli tagliati, e senza l’abito dei Nuovi Mennoniti. Len aveva fatto questo molto, molto tempo prima, e così non riuscì a comprendere per quale motivo la differenza su Hostetter gli sembrasse sbagliata, ingiusta… ma era così. Forse era semplicemente perché lui era cresciuto con un’immagine di Hostetter saldamente impressa nella sua mente, ed era difficile, molto difficile cambiarla. Dividevano ancora la stessa camera, ma ciascuno aveva il proprio lavoro, e Hostetter aveva le sue amicizie, e quasi tutto il tempo libero di Len era assorbito da Joan. Dopo qualche tempo, cominciò ad avere la sensazione che i Wepplo fossero ormai sicuri del loro matrimonio, e attendessero l’annuncio da un giorno all’altro. Questo lo fece sentire colpevole, ogni volta che andava a casa loro, ricordando quello che Joan aveva detto, ma il senso di colpa non era abbastanza forte da tenerlo lontano da quella casa.
«Sono tutte chiacchiere di ragazza,» si diceva, a volte. «Come quelle di Amity, quando mi provocava e mi baciava mentre in realtà voleva Esaù. Le ragazze non sanno quello che cercano. Lei ha un’idea del mondo esterno che è simile a quella che io avevo di questo posto, ma se vi andasse non le piacerebbe certo».
E così le spiegava per quale motivo il mondo esterno non le sarebbe piaciuto, glielo diceva mille e mille volte, con mille e mille parole diverse, le descriveva tante cose sulla grande, quieta, sonnolenta campagna, e sulla gente, e sulla vita che si viveva là. Parlava e parlava, per farle comprendere, e alla fine veniva preso da una nostalgia così intensa che era costretto a fermarsi, e lei si voltava, per nascondere la soddisfazione che s’insinuava nel suo sguardo.
Inoltre, era una pazzia, una pazzia pura, quella di parlare di un modo per uscire dalla gola. Non esisteva alcun modo. Le rocce erano troppo ripide per poter essere scalate, lo stretto corso del torrente era troppo accidentato e traditore, con cascate e frane e cadute di rocce, e oltre a quelle strade c’era ben poco d’altro. Il luogo era stato scelto con cura, e lungimiranza, e non era cambiato minimamente in un secolo. Gli occhi di Bartorstown vegliavano, le orecchie ascoltavano, e la morte nascosta era sempre pronta a colpire in quel basso passo tortuoso. C’era anche una questione personale. Len sapeva, senza che nessuno gliel’avesse mai detto, che ogni suo movimento era notato con cura da qualcuno, e riferito esattamente a Sherman. Il problema di trovare Bartorstown sarebbe stato semplicissimo, in confronto a quello di uscirne. Eppure lei sembrava così sicura, come se avesse già fatto un piano perfetto, come se tutto fosse già stato previsto. Questo lo tormentava, lo rendeva curioso, e si chiedeva cosa fosse quel piano… solo per curiosità, naturalmente. Ma non glielo chiese, e lei non gli disse nulla, neppure il più vago degli indizi.
Per tutti, quel periodo era noioso e lento, e non potendo fare altro, tutti si occupavano delle cose dei vicini, osservavano troppo attentamente i fatti degli altri, e se ne preoccupavano troppo, e, soprattutto, ne parlavano troppo. Prima di Natale, erano cominciate le voci sul conto di Gutierrez. Povero Julio, certo che l’ultima delusione l’ha presa molto, molto male. Be’, in fondo era il lavoro di tutta la sua vita… sapete come vanno queste cose. Oh, sicuro, ma tutti hanno delle delusioni, e non si mettono a bere a quel modo, non potrebbe tentare di riprendersi, e ricominciare? Suppongo che un uomo possa stancarsi, perdere coraggio. Dopotutto, una vita intera… Avete sentito che l’hanno trovato privo di sensi nella neve, in un fosso dietro la casa di Sawyer? È un miracolo che non sia morto assiderato. La sua povera moglie, mi dispiace per lei. Per lui, no… un uomo della sua età dovrebbe sapere bene che la vita non è tutta rose e fiori per nessuno. Ho sentito che tormenta il povero Frank Erdmann… lo fa quasi impazzire. Ho sentito dire che…
Ho sentito. Tutti avevano sentito, e quasi tutti parlavano. Parlavano anche di altre persone e di altre cose, naturalmente, ma Gutierrez era l’avvenimento dell’inverno, e presto o tardi ogni conversazione finiva su quell’argomento. Len lo vide, di quando in quando. Certe volte era completamente ubriaco, un uomo anziano che barcollava con rigida dignità lungo un sentiero nevoso, con il volto scuro per un buio interiore, sopra la barbetta bianca e curata. Altre volte non pareva ubriaco, bensì immerso in un sogno, come se la sua mente fosse partita lungo qualche sentiero nebbioso, alla ricerca di una speranza perduta. Solo una volta Len poté parlargli, e fu soltanto lui a parlare, perché Gutierrez si limitò ad assentire e a passare oltre, con occhi vacui, che parevano non averlo riconosciuto. Di notte c’era sempre una lampada accesa in una certa camera della casa di Gutierrez, e Gutierrez sedeva davanti a essa, a una tavola a portata di mano, lavorava e beveva, fino a cadere addormentato sulle sue annotazioni, e allora sua moglie entrava nella stanza e lo aiutava ad andare a letto. Coloro che passavano di là durante la notte potevano assistere a questo rituale attraverso la finestra, e Len sapeva che la storia era vera perché anche lui aveva visto; Gutierrez, che lavorava su una massa di fogli, molto paziente, molto attento, con la grossa tazza accanto al gomito.
Venne il Natale, e dopo la chiesa ci fu un gran pranzo a casa degli Wepplo. Il tempo era bello e sereno. Dopo mezzogiorno la temperatura arrivò allo zero, e tutti dissero che era caldo, e che si trattava veramente di un buon Natale. Ci furono delle feste in tutta Fall Creek, con tanta gente che andava di casa in casa, calpestando la bianca neve farinosa, e di notte tutte le lampade rimasero accese, rischiarando l’oscurità e riflettendosi sulla neve, un chiarore giallo e gioioso che pervadeva ogni cosa. L’eccitazione della festa risvegliò la passione di Joan, e quando furono in strada per andare a casa di amici, lei lo prese per mano e lo condusse dietro una macchia d’alberi, al buio, e per diversi minuti dimenticarono il freddo, tenendosi abbracciati e mescolando i loro respiri in un alone di nebbia che si ghiacciava intorno alle loro teste.
«Mi ami?»
La baciò così forte da farle male, con la mano nei suoi capelli, sotto il berretto di lana.
«Come ti sembra?»
«Len. Oh, Len, se mi ami, se mi ami davvero…»
Improvvisamente s’irrigidì, aggrappandosi ancor più forte a lui, parlando precipitosa ed eccitata.
«Portami via di qua. Perderò la testa se dovrò stare ancora qui rinchiusa. Se non fossi una ragazza, sarei già andata via da sola, da molto, molto tempo, ma ho bisogno di te per andarmene. Len, ti adorerei per tutto il resto della vita».
Si ritrasse da lei, allora, lentamente, con cautela, come un uomo si ritira dall’orlo delle sabbie mobili.
«No».
«Perché, Len? Perché passare tutta la vita in questo buco, per qualcosa che non avevi mai sentito nominare prima? Bartorstown per te non è altro che un sogno, un sogno che hai avuto quando eri ragazzo».
«No,» ripeté, con forza. «Te l’ho già detto. Lasciami stare».
Fece per allontanarsi, ma lei si avvicinò correndo sulla neve, venne davanti a lui, non lo lasciò passare.
«Ti hanno riempito di tutte quelle belle storie sul futuro del mondo, vero? Le ho sentite da quando sono nata. Il fardello da portare, il sacro impegno». Vedeva il suo viso nel freddo, pallido riverbero della neve, sconvolto dall’ira che lei aveva serbato e nascosto per molto tempo, ma che ora fluiva libera dai recessi della sua mente. «Io non ho costruito le bombe, e non le ho lanciate, e non sarò qui, tra cento anni, a vedere se lo rifaranno oppure no. Così, perché dovrei avere un debito? Perché dovrei avere un impegno, sacro o no? E perché tu dovresti averlo, Len Colter? Rispondimi».
Le parole salirono incerte alle sue labbra, ma lo sguardo di Joan fu così ardente che Len rimase muto.
«Non hai nessun impegno, tu!» disse lei. «Hai solo paura. Sei terrorizzato al pensiero di affrontare la realtà, e di dovere ammettere di avere sprecato per niente tutti questi anni».
La realtà, pensò. L’ho affrontata, la affronto ogni giorno, una realtà che tu non hai mai visto. Una realtà nascosta da un muro di cemento.
«Lasciami stare», le disse. «Non andrò, non posso. Così non parlarne più».
Lei rise.
«Ti hanno detto tante cose lassù a Bartorstown, vero? Eppure scommetto che c’è una cosa che nessuno ti ha detto. Scommetto che nessuno ti ha mai parlato della Soluzione Zero».
C’era una nota di trionfo così vibrante nella sua voce, che Len capì subito che non avrebbe dovuto più ascoltare. Ma lei rise, lo schernì.
«Tu volevi imparare, vero? E lassù ti hanno sempre detto di cercare tutta la verità, e di non accontentarti mai di una sola parte di essa? Vuoi conoscere l’intera verità, non è così? Oppure hai paura anche di quella?»
«D’accordo,» disse Len. «Cos’è la Soluzione Zero?»
Joan glielo disse, con una specie di soddisfazione vendicativa.
«Sai come lavorano, costruendo teorie e trasformandole in equazioni, e inserendo le equazioni in Clementina, che deve risolverle. Se le equazioni vengono sviluppate, si tratta di un altro passo avanti. In caso contrario, come l’ultima volta, si tratta di un vicolo cieco, di una soluzione negativa. Ma loro accumulano continuamente le equazioni in Clementina, sommando questi passi avanti verso quella che chiamano la Soluzione Prima. Ebbene, supponiamo che quella equazione finale dia un esito negativo? Supponiamo che le equazioni finali non diano alcun risultato, e che essi riescano a ottenere soltanto la prova matematica del fatto che quello che cercano non esiste? Quella è la Soluzione Zero».
«Dio,» esclamò Len. «È possibile? Credevo…». La guardò nella notte nevosa, sentendosi scosso e miserabile, sentendosi molto stupido, e tradito.
«Credevi che fosse una certezza, e che l’unico problema fosse il ’quando’. Ebbene, chiedilo al vecchio Sherman, se non credi a me. Tutti sanno della Soluzione Zero, ma non ne parlano mai, come non parlano del fatto che un giorno o l’altro dovranno morire. Chiedi in giro. E poi prova a immaginare quanto valga la tua vita in confronto di quella!»
Se ne andò. Aveva un autentito genio, nello scoprire in quali momenti doveva andarsene. Lui non andò alla festa a casa di amici. Ritornò a casa, e rimase là, solo, pensieroso, fino a quando non entrò Hostetter, e quando Hostetter arrivò Len era già di un umore così cupo e depresso che non gli diede neppure il tempo di chiudere la porta, e subito cinese:
«Cos’è questa faccenda della Soluzione Zero?»
Anche il volto di Hostetter si oscurò.
«Probabilmente, esattamente quello che hai saputo,» disse, togliendosi il giaccone e il cappello.
«Tutti sono molto riservati, sulla faccenda».
«Ti consiglio di non parlarne molto neppure tu. È una specie di nostra superstizione locale, non parlarne».
Si mise a sedere, e cominciò a slacciare gli stivali. La neve si scioglieva formando piccole pozze sul pavimento. Len disse:
«Non mi stupisco di questo».
Hostetter continuò a togliersi metodicamente gli stivali.
«Credevo che lo sapessero,» disse Len. «Credevo che fosse una certezza».
«La ricerca scientifica non procede per certezze».
«Ma come possono consumare tutta la vita, o forse la vita di molti altri uomini, se pensano che la soluzione potrebbe anche non esistere?»
«Perché in qual modo potrebbero scoprirlo, senza tentare? E inoltre, perché non esistono altre strade». Hostetter gettò in un angolo gli stivali, accanto alla stufa rotonda. Generalmente li posava là, ordinatamente, non troppo vicino al calore.
«Ma è pazzesco,» disse Len.
«Davvero? Quando tuo padre seminava il terreno, aveva la garanzia di ottenere un buon germoglio e un ricco raccolto? Era sicuro che ogni mucca e ogni vitello sarebbero stati sani, e avrebbero ricompensato i costi e le fatiche?»
Cominciò a togliersi la camicia. Len rimase seduto, accigliato.
«Va bene, questo è vero. Ma se il raccolto era povero, o se il bestiame moriva, c’era sempre un’altra stagione. E qui? Se la soluzione sarà… sarà negativa?»
«Dovranno ritentare. Se un simile campo di forza non è possibile, dovranno escogitare altri metodi. E forse una parte del lavoro svolto darà loro un indizio, e tutto non sarà stato sprecato». Sistemò i vestiti sulla sedia, e scivolò sotto le coperte. «Accidenti, ma credi che il genere umano abbia mai imparato qualcosa, senza ricorrere al metodo della prova e dell’errore?»
«Ma ci vuole tanto, tanto tempo…» disse Len.
«Ci vuole sempre molto tempo, per tutte le cose. Una nascita richiede nove mesi, e morire richiede tutto il resto della propria vita, e di che cosa ti lamenti, ora? Sei arrivato qui. Aspetta di avere l’età di tutti noi. Allora forse avrai qualche motivo per lamentarti».
Gli girò la schiena, e si coprì la testa con la coperta. Dopo qualche tempo, Len soffiò sulla lampada, e la spense.
Il giorno dopo, tutta Fall Creek parlava del fatto che Julio Gutierrez si era ubriacato a casa di Sherman, e aveva picchiato Frank Erdmann, e che Ed Hostetter era dovuto intervenire e portare di peso Gutierrez a casa. Una rissa tra il direttore delle ricerche di fisica e il direttore delle ricerche di elettronica era uno scandalo così grosso da tenere in movimento tutte le lingue del paese, ma Len ebbe l’impressione che ci fosse una nota più oscura e più triste nei pettegolezzi, un’ombra di sconforto. O forse perché aveva sognato per tutta la notte il raccolto che marciva e gli agnelli che morivano, i suoi pensieri erano tristi e immaginavano la stessa cosa nei pensieri degli altri.
Esaù venne a picchiare alla porta prima dell’alba. Era la terza mattina di gennaio, un lunedì, e la neve cadeva abbondante e impetuosa, come una gran massa bianca, e sembrava che Dio le avesse ordinato di seppellire il mondo prima di colazione.
«Non sei pronto?» domandò a Len. «Be’, sbrigati, con questa neve arriveremo tardi lo stesso!»
La testa di Hostetter spuntò dalle coperte.
«Cos’è tutta questa fretta?»
«Clementina!» esclamò Esaù, come se quella parola avesse spiegato tutto. «La grande macchina. La provano stamattina, ed Erdmann ha detto che possiamo assistere alla prova, prima di metterci al lavoro. Avanti, fa’ presto!»
«Lasciami infilare gli stivali, almeno,» brontolò Len. «Clementina non scapperà via».
Hostetter disse a Esaù:
«Speri di riuscire a lavorare su Clementina, un giorno o l’altro?»
«No,» disse malinconicamente Esaù, scuotendo la testa. «Occorre troppa matematica, troppa preparazione. Imparerò tutto sulla radio, invece. Dopotutto, è stata la radio a portarmi qui. Ma voglio veder pensare quel grosso cervello meccanico a tutti i costi! Sei pronto, Len, adesso? Sicuro? Va bene, andiamo!»
Il mondo era bianco, e cieco. La neve cadeva diritta, senza un alito di vento che la agitasse, e così dovettero cercare a tentoni la strada attraverso il villaggio, dove si potevano ancora seguire i sentieri scavati nella neve, intuendo la presenza delle case, più che vederle. Fuori, sulla strada, fu molto diverso. Era come nei campi, a casa, quando aveva nevicato così intensamente, senza alcun segno, senza alcuna direzione precisa, e Len fu pervaso dall’antico senso di stordimento. Tutto era scomparso, all’infuori del senso del sopra e del sotto, e presto anche quello spariva, e nel mondo ovattato non rimaneva neppure un suono.
«Stai andando fuori strada,» disse Esaù, e Len ritornò sulla pista appena abbozzata. Poi toccò a Esaù. Camminarono vicini, facendo i consueti commenti sulla malvagità del destino e sull’inclemenza del tempo, e Len disse, improvvisamente:
«Sei contento, qui?»
«Certo,» disse Esaù. «Non tornerei a Piper’s Run nemmeno se me lo regalassi tutto».
Parlava sinceramente. Poi chiese.
«E tu no?»
«Certo,» disse Len. «Sì, certo».
Arrancarono nel mondo bianco, e i freddi fiocchi piumati accarezzavano i loro volti, cercando di riempire la bocca e il naso, e soffocarli silenziosamente, dolcemente, nel loro silenzio bianco, perché la loro presenza turbava la bianca vastità uniforme della via.
«Cosa ne pensi?» domandò Len. «Troveranno mai la risposta? O giungeranno alla Soluzione Zero?»
«Diavolo,» disse Esaù, «E a me cosa importa? Io ho abbastanza cose da fare».
«Non t’importa mai niente?» domandò Len.
«Certo! Quello che voglio fare, a esempio, e il fatto di non avere un branco di vecchi stupidi a dirmi che non posso farlo. Ecco quello che mi importa davvero. Ecco perché sono qui».
«Sì,» disse Len. «Certo». È vero, pensò, puoi fare quello che vuoi e dire quello che vuoi e pensare quello che vuoi… con una sola eccezione. Non puoi dire che non credi in quello che loro credono, e in questo modo, non è poi così diverso da Piper’s Run.
Incespicarono e arrancarono sul bianco pendio, tra i massi rivestiti di bianco, artisticamente disposti in un aspetto di abbandono. Verso metà del pendio, Esaù imprecò e trasalì, e anche Len si fermò un momento, scorgendo confusamente un’indistinta figura scura in movimento, solitaria e furtiva in mezzo a tutto quel biancore.
La forma, parlò, chiamandoli, ed era Gutierrez. La neve si era accumulata sulle spalle e sul berretto, come se l’uomo fosse rimasto immobile per qualche tempo, in attesa. Ma era sobrio, e il suo volto era serio e composto, e amabile.
«Mi dispiace di avervi spaventato,» disse. «Temo di avere dimenticato la mia chiave del cancello. Vi dispiace se entro con voi?»
La domanda era puramente rettorica. I tre proseguirono insieme la strada. Len guardava con malcelato imbarazzo Gutierrez, pensando alle lunghe ore notturne che l’uomo aveva passato tra le carte e la tazza. Sentiva dispiacere per lui, e ne aveva anche un po’ paura. Avrebbe desiderato rivolgergli molte domande sulla Soluzione Zero, e sul motivo per cui non potevano essere sicuri che una cosa esistesse senza prima impiegare cento o duecento anni di lente e faticose ricerche per scoprirlo. Desiderava disperatamente interrogarlo, ma non disse niente. Neppure Gutierrez disse niente. E perfino Esaù parve comprendere la situazione, e tacque.
Dietro il cancello di sicurezza c’era un monticello di neve accumulata in quelle ore, e più avanti il corridoio era scuro e freddo, un luogo che non vedeva mai il sole. Gutierrez li precedette. Quella prima volta aveva incespicato, ma ora camminava con sicurezza, con la testa diritta e le spalle erette. Len sentiva il suo respiro, il respiro un po’ affannoso di un uomo che ha fatto una corsa faticosa, ma Gutierrez non aveva fatto nessuna corsa. Quando il corridoio girò a gomito, e apparvero le luci, lontano, sopra la porta interna, Gutierrez era già molto avanti, e Len ebbe la strana, inquietante impressione che l’uomo li avesse completamente dimenticati.
Lo raggiunsero davanti agli scrutatori, fermandosi per il tempo necessario. Gutierrez fissava direttamente la porta d’acciaio, e quando essa si aprì, egli s’incamminò con decisione lungo il corridoio. Jones uscì dalla stanza di controllo, e lo seguì con lo sguardo, borbottando:
«Cosa sta facendo, qui?»
Esaù scosse il capo.
«È entrato con noi. Ha detto di avere dimenticato la chiave. Immagino che abbia qualche lavoro da svolgere».
Jones scosse il capo a sua volta.
«Erdmann non sarà contento. Oh, be’, nessuno mi ha detto di lasciarlo fuori, quindi ho la coscienza a posto». Sogghignò. «Fatemi sapere che cosa succede, d’accordo?»
«L’altra sera era ubriaco,» disse Len. «Non credo che possa accadere nulla, adesso».
«Lo spero proprio!» protestò Esaù. «Io voglio vedere il cervello in funzione».
Lasciarono i giacconi in un ripostiglio, e si affrettarono a scendere al piano inferiore, passando davanti alle immagini di Hiroshima e delle sue vittime dai tragici, impassibili occhi. Quando furono davanti alla porta, udirono le voci.
«No, mi dispiace, Frank. Te lo assicuro. Lasciamelo dire, ti devo delle scuse».
«Non pensarci più, Julio. Sono cose che capitano a tutti. Ormai è acqua passata».
«Grazie,» disse Gutierrez, con immensa dignità, in tono molto contrito.
Len esitò, davanti alla porta, guardando obliquamente Esaù, il cui volto era il ritratto dell’indecisione.
«Come funziona?» domandò Gutierrez.
«Meravigliosamente,» rispose Erdmann. «Liscia come l’olio».
Le voci tacquero. D’un tratto, Len sentì che il cuore gli balzava in gola, e un freddo nodo di paura gli strinse lo stomaco, perché adesso si udiva una nuova voce nella stanza, una voce che lui non aveva mai udito prima. Una voce piccola, secca, fatta di bisbigli e ticchettii affaccendati, la voce di Clementina.
Anche Esaù la udì.
«Sia come sia, non m’importa,» bisbigliò. «Io entro!»
Entrò, e Len lo seguì, camminando in punta di piedi. Guardò Clementina, e lei non era più addormentata. I molti occhi dei pannelli erano luminosi e ammiccanti, e per tutto quel possente intreccio di fili c’era un’animazione, un brivido, un sottile pulsare di vita.
Lo stesso pulsare, pensò Len, che batte di sotto. Il cuore e il cervello.
«Oh,» disse Erdmann, quasi con sollievo. «Salve».
La velocissima tastiera di risposta ticchettò furiosamente, e Len trasalì violentemente. Gli occhi sui pannelli ammiccarono, come se stessero ridendo, e poi ci fu calma e silenzio, e gli occhi furono di nuovo bui, con l’eccezione di una luce fissa che continuava ad ardere per indicare che Clementina non stava dormendo, era vigile e sveglia.
Esaù respirò, piano. Ma non disse niente, perché Gutierrez fu più veloce di lui a parlare.
Gutierrez aveva preso da una tasca del giaccone alcuni fogli. Apparentemente, non si accorgeva che c’era qualcuno, nella stanza, oltre a Erdmann. Porse i fogli all’altro, e disse:
«Mia moglie pensava che io non dovessi venire qui a disturbarti, oggi. Ha nascosto la mia chiave del cancello di sicurezza. Ma, naturalmente, era una cosa troppo importante, per aspettare».
Abbassò lo sguardo sui fogli.
«Ho completamente rifatto tutta la sequenza di equazioni. Ho trovato l’errore».
Qualcosa parve irrigidirsi, nel volto di Erdmann, e la sua espressione si fece cauta.
«Sì?»
«È evidentissimo, puoi vederlo tu stesso. Ecco».
Mise i fogli in mano a Erdmann. Erdmann cominciò a esaminarli. E subito apparve sul suo volto un’espressione di acuto disagio, di dispiacere e sconforto.
«Vedi, no?» disse Gutierrez. «È chiaro come la luce del sole. Clementina ha commesso un errore, Frank. Te l’avevo detto. Tu dicevi che non era possibile, e invece è così».
«Julio, io…» Erdmann scosse il capo, lentamente, e lanciò un’occhiata disperata a Len, e non trovando aiuto da quella parte ricominciò a sfogliare nervosamente i documenti che l’altro gli aveva dato.
«Non vedi, Frank?»
«Be’, Julio, tu sai bene che io non sono un matematico…»
«Accidenti,» esclamò Gutierrez, impaziente. «Come hai fatto a diventare ingegnere elettronico, allora? Ne sai abbastanza per capire l’errore. È chiarissimo. Lo capirebbe anche un bambino». Si piegò sui fogli che Erdmann teneva in mano. «Qui, e qui, vedi?»
Erdmann disse:
«Cosa vuoi che faccia per te, allora?»
«Be’, sottoporre di nuovo le equazioni, per correggerle. Poi avremo la risposta, Frank. La risposta!»
Erdmann si inumidì le labbra.
«Ma se ha commesso un errore una volta, potrà commetterne un altro, Julio. Perché non chiedi a Wentz o a Jacobs…»
«No. Impiegherebbero l’intero inverno… forse un anno. Clementina può fare tutto subito, ora. L’hai provata. L’hai detto tu. Hai detto che va liscia come l’olio. È per questo che ho voluto venire qui oggi, mentre è ancora fresca e pronta, non è stata ancora usata dopo la revisione. Ora non può commettere lo stesso errore. Avanti, sottoponi le equazioni».
«Io… bene,» disse Erdmann. «Va bene, Julio».
Si avvicinò al meccanismo e cominciò a trasferire i dati su nastro. Gutierrez aspettò. Indossava ancora il pesante giaccone che aveva usato fuori, nella neve, ma non pareva trovarlo scomodo, né avvertire il caldo dell’ambiente. Osservava Erdmann, e di quando in quando fissava il computer e sorrideva e annuiva, come un uomo che ha colto in errore una persona molto presuntuosa, e vuole godersi fino all’ultimo la propria rivincita. Len si era ritirato ai margini della stanza, cercando di svanire sullo sfondo della scena. Non gli piaceva l’espressione di Erdmann. Cominciò a domandarsi se non avrebbe fatto bene ad andarsene, e poi le luci sui pannelli cominciarono ad ammiccare e a brillare, e la voce sommessa ronzava e mormorava e ticchettava, e Len fu affascinato come Esaù, e non poté più muoversi.
Trasalì, quando Erdmann si rivolse a loro, dicendo:
«Sarò libero tra un momento. Allora potrò rispondere alle vostre domande».
«Preferite che ritorniamo più tardi?» domandò Len.
«No,» disse Erdmann, lanciando un’occhiata di sbieco a Gutierrez. «No, restate qui».
Clementina cominciò a riflettere, borbottando sommessamente tra sé. A parte quel rumore di sottofondo, nella stanza c’era un grande, bizzarro silenzio. Guttierez era calmo, diritto, con le mani conserte, in attesa. Erdmann appariva teso e nervoso e malinconico. C’erano delle goccioline di sudore sul suo viso, e continuava ad asciugarsele, passandosi la mano sulla bocca e sulla fronte e guardando Gutierrez con un’espressione di totale disperazione.
«Ho paura che durante la revisione abbiamo trascurato alcuni circuiti, Julio. Non è stata revisionata completamente. Può darsi che…»
«Parli come mia moglie,» sorrise Gutierrez. «Non preoccuparti, la risposta uscirà».
Si udì il ticchettio che preannunciava la risposta. Erdmann fece un passo avanti. Gutierrez lo scostò con una gomitata, e strappò la striscia di carta dalla fessura, e guardò la risposta. Il suo volto si oscurò, e poi tutto il colore scomparve dalle sue guance, lasciandolo livido e grigiastro e scosso, e le sue mani cominciarono a tremare.
«Che cosa hai fatto?» domandò a Erdmann. «Che cosa hai fatto alle mie equazioni?»
«Niente, Julio».
«Guarda che cosa ha detto! Nessuna soluzione, ricontrollare i dati per eventuali errori. Nessuna soluzione. Nessuna soluzione…»
«Julio. Julio, per favore. Ascoltami. Hai lavorato per troppo tempo, su questo progetto, sei stanco. Ho sottoposto le equazioni alla macchina esattamente come me le hai fornite, ma le equazioni…»
«Le equazioni? Avanti, dillo, Frank. Avanti!»
«Julio, per favore,» ripeté Erdmann, con un’aria smarrita, e tese la mano a Gutierrez, come si fa con un bambino per chiedergli di venirci accanto.
Gutierrez lo colpì, lo colpì così repentinamente, e così violentemente, che Erdmann non ebbe né il tempo né il modo di evitarlo. L’ingegnere elettronico indietreggiò di tre o quattro passi, vacillando, e cadde sul pavimento, e Gutierrez disse, con voce terribilmente calma:
«Siete contro di me, tutti e due. Vi siete accordati, voi due, in modo che lei non mi desse mai la risposta giusta, qualunque cosa io avessi fatto. Ho pensato a te per tutto l’inverno, Frank, chiuso qua dentro con lei, ridendo, perché lei sa la risposta e non vuole dirmela. Ma la costringerò a parlare, Frank. Gliela farò sputare, la risposta».
Aveva dei sassi nelle tasche. Per questo non aveva voluto togliersi il giaccone, nell’ambiente riscaldato di Bartorstown. Aveva raccolto molti sassi, grossi e aguzzi e pesanti, e li tirò fuori, uno dopo l’altro, e li lanciò uno a uno contro Clementina, gridando, con gioia selvaggia:
«Te lo farò dire, puttana, lurida puttana traditrice, lurida puttana bugiarda, te lo farò sputare!»
Il cristallo sul pannello di comando si frantumò tintinnando. Scintille indicarono l’inizio di una serie di corti circuiti. Uno dei grandi recipienti di cristallo che contenevano una parte della memoria di Clementina si aprì. Frank Erdmann si rialzò dal pavimento, vacillando, gridando a Gutierrez di fermarsi, chiedendo aiuto. E Gutierrez aveva finito i sassi, ora, e cominciava a picchiare i pugni sui pannelli, scalciando e picchiando, urlando, «Puttana, puttana, puttana! Te lo farò dire, parlerai, hai preso la mia vita, la mia mente, il mio lavoro, hai chiuso tutto dentro di te, te lo farò dire!»
Erdmann era alle sue spalle, lo aveva afferrato, cercava di fermarlo.
«Len, Esaù, per l’amor di Dio, aiutatemi. Aiutatemi a tenerlo».
Len si fece avanti, lentamente, muovendosi come un sonnambulo. Alzò le braccia e strinse le spalle di Gutierrez. Gutierrez era molto forte, era difficile trascinarlo via dal pannello devastato, e ora c’erano delle nuove luci che lampeggiavano e ammiccavano, luci rosse che dicevano, Sono ferita, aiutatemi, sono ferita, aiutatemi. Len guardò quelle luci, e guardò negli occhi Gutierrez. Erdmann ansava. C’era del sangue che usciva da un angolo della sua bocca.
«Julio, ti prego, non fare così, calmati. Ecco, così, Len, un po’ più indietro, ora… Va tutto bene, Julio, ti prego, stai calmo».
E Julio si calmò, improvvisamente. Non ci fu alcuna transizione. Un attimo prima i suoi muscoli sòlidi come roccia lottavano come furie contro la stretta di Len, e un secondo più tardi si afflosciò inerte, vacillante, debole, come un sacco vuoto e floscio. Si voltò a fissare Erdmann, e disse, con infinita rassegnazione:
«Qualcuno è contro di me, Frank. Qualcuno è contro noi tutti».
Le lacrime gli scendevano copiose lungo le guance. Stava inerte in mezzo a Len e a Erdmann, che lo sorreggevano, e piangeva, e Len guardava Clementina, che ammiccava con gli occhi di sangue, chiedendo aiuto.
Trova il tuo limite, aveva detto il giudice Taylor. Trova il tuo limite, prima che sia troppo tardi.
Io ho trovato il mio limite, pensò Len. Ed è già troppo tardi.
Arrivarono degli uomini e lo sollevarono del suo fardello. Scese con Esaù nelle viscere della roccia, e lavorò per tutto il giorno, con un volto vuoto e impassibile come il muro di cemento, e altrettanto ingannevole, perché dietro di esso c’erano violenza e terrore, e sgomento del cuore.
Nel pomeriggio il bisbiglio percorse la fila delle grandi macchine. Lo hanno portato a casa, avete sentito, e il dottore dice che non ha più speranza. È spacciato. Dicono che dovrà restare rinchiuso, dovrà essere continuamente sorvegliato da qualcuno.
Come tutti noi, rinchiusi dalle pareti della gola, pensò Len, per servire questo Moloch con la testa di bronzo e le viscere di fuoco. Questo Moloch che oggi ha distrutto un uomo.
Ma lui conosceva la verità, infine, e la rivelava a se stesso.
Non ci sarà risposta.
E, Signore, liberami dal giogo dei miei nemici, perché io mi pento, con il capo cosparso di cenere. Ho seguito le vie di falsi dèi, ed essi mi hanno tradito. Ho mangiato il frutto, e la mia anima è malata.
Il cuore di fuoco continua a battere dietro il muro, e lassù il cervello viene già curato e guarito.
Quella notte, Len arrancò sopra la soffice coltre di neve verso la casa degli Wepplo. Disse a Joan, piano, in modo che nessuno potesse sentire:
«Voglio quello che tu vuoi. Mostrami la strada».
Gli occhi di lei brillavano. Lo baciò sulle labbra, e bisbigliò:
«Sì! Ma puoi mantenere un segreto, Len? C’è ancora molto, prima della primavera».
«Posso farlo».
«Non dirai niente, neppure a Hostetter?»
«Neppure a lui».
Neppure a lui. Perché una lampada è posta a guidare i passi del pentimento.
Febbraio, marzo, aprile.
Tempo. Una lunga passività, un’attesa.
Lavorava. Ogni giorno faceva quello che si aspettavano da lui, sotto l’ombra di quella parete di cemento. Svolgeva bene il suo lavoro. Era questo il lato ironico della cosa: ora lui poteva interessarsi all’intera catena delle grandi macchine che imbrigliavano e trasmettevano l’Energia, e ne poteva ammettere il fascino, poteva accettare il senso d’importanza che quelle macchine davano a un essere umano… sapere di tenere a bada, e di guidare, quelle forze brute e immani, con la stessa sicurezza con cui si potevano dominare dei cavalli ombrosi. E lui poteva fare questo perché ora riconosceva il fascino per ciò che era, e aveva già estratto i denti del serpente. Poteva pensare a quello che una simile energia avrebbe potuto fare a Piper’s Run, e a Refuge, riportando nel mondo le comodità liete dell’infanzia della nonna, ma ora sapeva per quale motivo gli uomini erano ferocemente determinati a procedere senza di essa. Perché una volta posato il piede sul sentiero, era inevitabile procedere, e non si poteva tornare indietro, e d’un tratto lungo il cammino il cielo si apriva, e da esso scendeva una pioggia di fuoco. Così era necessario ritornare in un luogo sicuro, e rimanere là.
Ritornare a Piper’s Run, ai boschi e ai campi, alla fine dei dubbi, alla fine della paura. Ritornare al tempo spensierato prima della predica, prima di Soames, prima di avere udito il nome di Bartorstown. Ritornare alla pace. Aveva preso a pregare, di notte, a pregare ferventemente affinché non capitasse nulla a papà prima del suo ritorno, perché una parte della salvezza sarebbe stata proprio nella confessione dei propri errori davanti a lui, nel dirgli che aveva avuto ragione.
Accaddero diverse cose, in quel periodo. Nacque il figlio di Esaù, un maschio, e venne battezzato David Taylor Colter, in segno di sfida e affetto insieme ai due nonni. Joan fece dei piani accurati per preparare una casa separata, e fissò una data per il matrimonio. E queste cose erano importanti. Ma erano messe in ombra dalla grande cosa che li spingeva, dall’idea della fuga.
Niente altro contava, ormai, per lui e per Joan, neppure il matrimonio. Erano già uniti da un legame profondo e indissolubile, il loro avido desiderio di fuggire dalla gola.
«Sono anni che ho preparato il mio piano,» bisbigliava lei. «Notte dopo notte, sveglia nel mio letto, sentivo il peso delle montagne intorno a me, sognavo le pareti che mi tenevano chiusa, e faticavo e dissimulavo, affinché i miei genitori non si accorgessero di niente. E ora ho paura. Ho paura di non avere fatto abbastanza bene i mei piani, ho paura che qualcuno mi legga nel pensiero e mi costringa a rinunciare».
Si aggrappava a lui, in quei momenti, e lui diceva:
«Non aver paura. Sono soltanto degli esseri umani, non sono in grado di leggere nel pensiero. Non possono tenerci prigionieri».
«No,» rispondeva lei, cento e cento volte, «Il mio piano è buono. C’era solo bisogno di te».
La neve cominciò a sciogliersi e a precipitare tonante in grandi valanghe, giù dagli alti pendii delle montagne. Tra un’altra settimana, il passo sarebbe stato riaperto. E Joan disse che era venuto il momento.
Si sposarono tre giorni più tardi, davanti allo stesso ministro che aveva sposato Esaù e Amity, ma la cerimonia si svolse nella chiesa di Fall Creek, con il primo sole di primavera che illuminava la polvere sulle pietre dell’altare, e Hostetter in piedi, dietro a Len, accanto al padre di Joan, come testimone. Ci fu una festa, dopo la cerimonia; Esaù strinse la mano a Len, e Amity diede a Joan un bacio e uno sguardo sprezzante, e il vecchio prese fuori le tazze e fece circolare il liquore, e disse a Len:
«Ragazzo, ti sei preso la migliore ragazza del mondo. Trattala bene, o dovrò riprendermela». Rise allegramente e diede una vigorosa pacca sulla schiena a Len, facendolo barcollare, e poi, qualche tempo dopo, Hostetter lo raggiunse sul gradino di casa, dove Len si era seduto un momento per prendere una boccata d’aria, accalorato dalla festa.
Non disse niente, per qualche tempo, se non qualche casuale osservazione sulla primavera precoce di quell’anno. Poi disse:
«Sentirò la tua mancanza, Len. Ma sono felice. Davvero. Hai fatto la cosa giusta, la cosa che dovevi fare».
«Lo so».
«Be’, certo. Ma non intendevo questo, esattamente. Volevo dire che adesso ti sei veramente sistemato, ora fai veramente parte di questo posto. Sono contento. Sherman è contento. Lo siamo tutti».
Allora Len capì che Joan aveva avuto ragione, che il matrimonio era stato una cosa giusta, un preparativo necessario; ma non riuscì a guardare negli occhi Hostetter.
«Sherman aveva dei dubbi su di te,» disse Hostetter. «Anch’io ne ho avuti, per qualche tempo. Sono contento che tu sia riuscito a metterti in pace con la coscienza. Io so meglio di chiunque altro come deve essere stato duro». Tese la mano. «Buona fortuna, Len».
Len strinse la mano che gli veniva offerta, e disse:
«Grazie».
Sorrise. Ma pensò, Lo sto ingannando, proprio come ho ingannato papà, e non voglio farlo, come non volevo farlo allora. Ma quella volta sbagliavo, e questa volta sono nel giusto, questa volta è necessario…
Era contento di non dover più affrontare Hostetter da solo. Non sarebbe riuscito a guardarlo negli occhi.
La nuova casa era strana. Era piccola e vecchia, ai margini di Fall Creek, era stata pulita e lucidata e messa a nuovo, e riempita di cose femminili fornite dalla madre di Joan e dalle sue amiche, tendine e tovaglie e centrini e coperte ricamate e tappeti. Tanto lavoro e tanta buona volontà, e tutto per pochi giorni. Gli erano stati concessi quindici giorni, per la luna di miele. E ormai erano pronti. Ora potevano restare vicini, aggrappati l’uno all’altra, e aspettare insieme, senza nessuno a osservarli, con tutti i sospetti quietati e il sentiero libero davanti a loro.
«Prega che vengano gli Ismaeliti,» disse Joan. «Vengono sempre, non appena il passo è riaperto, a mendicare. Prega che vengano subito».
«Verranno,» disse Len. C’era una grande calma in lui, ora, la convinzione che lui sarebbe stato liberato, come i figli di Israele erano stati liberati dall’Egitto.
E gli Ismaeliti arrivarono. Non poté capire se si trattasse degli stessi che erano venuti prima delle nevi d’autunno, o di una nuova banda, ma essi vennero, ed erano spettrali e affamati, più cenciosi e sofferenti di quanto si potesse immaginare: fantasmi che vivevano, e il fatto che fossero vivi era motivo di incredulità e meraviglia. Chiesero polvere e pallottole, implorando, e Sherman fece gettare loro anche un barile di manzo salato, per amore dei bambini. Gli Ismaeliti lo presero. Joan li osservò mentre iniziavano il lento, curvo cammino del ritorno, per giungere al passo prima di sera, e stringendo forte la mano di Len bisbigliò:
«Prega che la notte sia oscura».
«La preghiera è già esaudita,» le disse, guardando il cielo. «Pioverà, prima di sera. Forse ci sarà la neve, se il freddo aumenta ancora».
«Qualsiasi cosa, purché faccia buio».
E ora la casa serviva al suo scopo, restituendo le cose che aveva tenuto nascoste per loro, al sicuro, il cibo, le borse per l’acqua, il sacco delle coperte, le due lenzuola rozze, artisticamente macchiate di cenere e abilmente lacerate. Len scrisse poche parole dolorose a Hostetter: «Non dirò mai a nessuno di Bartorstown. Vi devo questo. Mi dispiace. Perdonatemi, ma devo ritornare». Lasciò il foglio sul tavolo del soggiorno. Spensero molto presto le candele, sapendo che nessuno sarebbe venuto a disturbarli.
Ma ora il coraggio di Joan l’abbandonava, e lei sedette, tremando, sull’orlo del letto, pensando a quello che sarebbe accaduto se fossero stati visti e presi.
«Nessuno ci vedrà,» disse Len. «Nessuno».
Credeva fermamente a quanto diceva. Non aveva paura. Era come se qualche parola segreta gli fosse stata data, l’assicurazione di non correre alcun pericolo fino a quando non fosse ritornato a Piper’s Run.
«Sarà meglio andare adesso, Len».
«Aspetta. Sono deboli, e devono trasportare i bambini. Potremo raggiungerli facilmente. Aspetta, fino a quando non saremo sicuri».
Buio, notte profonda, e pioggia battente. I muscoli di Len si tesero, il suo cuore cominciò ad accelerare i battiti. Questo è il momento, pensò. Ora le prenderò la mano, e andremo insieme.
La strada che conduce al passo è aspra e tortuosa. Non c’è nessuno dietro di noi. La pioggia cade battente, e ora è ghiacciata. Ora il ghiaccio si è tramutato in neve. Il Signore ha steso il suo mantello per coprirci. Presto. Presto, verso il passo, sopra la strada ripida e il fango che diventa ghiaccio.
«Len, devo riposare».
«Non ancora, dammi la mano, ora…»
Nel budello nero del passo, con la neve che cade e i cumuli bianchi dell’inverno ancora alti e immacolati, dove il sole non può giungere. Ora possiamo riposare un momento, un momento soltanto.
«Len, questa sembra una tormenta, una bufera di primavera. Potrebbe richiudere il passo, prima di domattina».
«Bene. Allora non potranno seguirci».
«Ma noi moriremo di freddo. Non sarebbe meglio tornare indietro?»
«Ma proprio non hai fede? Non vedi che tutto questo viene fatto per noi? Vieni!»
Avanti, in alto, attraverso la sella, e giù, dall’altra parte, con passo veloce, molto più veloce dei muli per il carico dei carri. Oltre il luogo dell’accampamento, e ancora avanti, per il roccioso, sassoso pendio. C’è un suono, un canto portato dal vento.
«Ecco, senti? Dove sono quelle lenzuola?»
Metterò l’abito del pentimento. Gli Ismaeliti non hanno carri, non hanno bestiame, che si possa spezzare le gambe tra le rocce. Essi marciano per tutta la notte, lontano dalle dimore dell’iniquità, per ritornare al deserto pulito, dove tutta la loro vita è una penitenza per i peccati dell’uomo. Anch’io devo fare penitenza. La riconoscerò, quando mi verrà mandata, e l’accetterò con animo umile e lieto.
Avviciniamoci, ora, ma non troppo, nella notte e nel cadere della neve. Essi cantano e gemono mentre camminano, spingendosi nel passo inferiore, sparsi su di una linea irregolare. Se si guardano alle spalle vedranno solo due Ismaeliti, due della loro banda.
Non si guardano alle spalle, i loro sguardi sono fissi a Dio.
Giù, ora, lungo il sentiero scolpito nella roccia, e là, a Bartorstown, nella stanza di controllo, qualcuno veglia. Non Jones, non è il suo turno, ma qualcuno c’è. Qualcuno che osserva le piccole luci che palpitano sul pannello. Qualcuno che pensa, Ecco, i pazzi Ismaeliti ritornano al loro deserto. Qualcuno che sbadiglia, e si accende la pipa, in attesa dell’arrivo di Jones, per poter ritornare a casa.
Qualcuno con un pulsante vicino al proprio dito, pronto a usarlo.
Non lo ha usato.
È l’alba. Gli Ismaeliti sono scomparsi nel vento e nella neve turbinante.
Joan. Joan, alzati. Joan guarda, siamo usciti dal passo.
Siamo liberi.
Lode al Signore, che ci ha liberato da Bartorstown.
Era una bufera di primavera. Riuscirono a sopravvivere, rannicchiati in un buco nella roccia, come due creature selvagge che si tenevano vicine per avere un po’ di tepore. La neve bloccò il passo superiore, e coprì le loro tracce, e quando la bufera fu passata essi fuggirono a sud, seguendo la linea spezzata delle montagne, vigili, furtivi, pronti a nascondersi al minimo segno di vita umana.
«Ci inseguiranno».
«Ho lasciato una lettera. Ho giurato…»
«Ci daranno la caccia. Lo sai».
«Credo che non abbiano scelta. Sì».
Ricordava le radio, ricordava come gli uomini di Bartorstown erano riusciti a seguire le tracce di due adolescenti fuggiaschi, tanto, tanto tempo prima.
«Dovremo essere prudenti, Len. Molto prudenti».
«Non aver paura.» Sporse il mento, deciso, ostinato, già ispido della barba che cominciava a crescere. «Non ci riporteranno là. Te l’ho già detto, la mano del Signore è su di noi. Egli ci terrà al sicuro».
Piper’s Run e la mano di Dio. Quelli erano i fardelli dei primi giorni. C’era come una nebbia sul mondo, che oscurava ogni cosa, salvo una visione della vecchia casa, e del sentiero diritto e sicuro che portava a essa. Vedeva i campi verdi illuminati dal sole, i meli nodosi con i vecchi tronchi scuri sommersi di boccioli profumati, il fienile e l’aia quieta, in attesa, l’aia immersa in una tiepida pace dorata. E c’era un sentiero, e i suoi piedi lo percorrevano, e niente avrebbe potuto fermarlo.
Ma c’erano degli ostacoli. C’erano montagne, crepacci, rocce, c’era il freddo, c’erano la stanchezza e la sete e il dolore. Ed egli comprese che prima di raggiungere quel paradiso di pace doveva fare penitenza. Doveva pagare per il male che aveva fatto lasciando quel luogo. Ed era giusto. Se lo era aspettato. Soffriva in letizia, senza mai notare lo sguardo di dubbio e di sorpresa che entrava negli occhi di Joan, e lentamente sfumava in disprezzo.
L’estasi dell’umiliazione e della penitenza e dell’espiazione rimase con lui fino al giorno in cui cadde, e batté il ginocchio contro una roccia, e il dolore fu solo dolore, senza avere nulla di santo. Il mondo ondeggiò e vortice intorno a lui, e assunse d’un tratto le vere proporzioni, e tutta la nebbia si dissolse. Aveva fame, aveva freddo, era stanco. Le montagne erano alte e le praterie immense. Piper’s Run era distante mille miglia. Il ginocchio gli faceva un male del diavolo, e un brontolare sordo dell’antica ribellione si fece udire in lui, per dire, Va bene, ho fatto la mia penitenza. Ora basta.
Fu questa la fine della prima fase. Joan ricominciò a guardarlo con gli occhi di un tempo, e gli disse:
«Sai, c’è stato un momento in cui non eri molto diverso da un Nuovo Ismaelita. Cominciavo ad avere paura.»
Borbottò qualcosa, sulla penitenza che faceva bene all’anima, e la fece stare zitta. Ma, intimamente, le sue parole lo colpirono, e lo riempirono di vergogna. Perché c’era molta verità in esse.
Ma lui doveva ugualmente ritornare a Piper’s Run. Solo che adesso si rendeva conto che la strada sarebbe stata lunga, e difficile, com’era stata lunga e difficile la strada seguita per lasciare il paese, e capì anche che nessuna potenza mistica lo avrebbe portato là. Avrebbe dovuto andarci a piedi, con le sue forze umane.
«Ma quando saremo arrivati là,» diceva, «Saremo al sicuro. Gli uomini di Bartorstown non possono toccarci, a Piper’s Run. Se ci denunciassero, denuncerebbero se stessi. Saremo al sicuro.»
Sicuri nei campi e nelle stagioni, sicuri nella quiete della negazione del pensiero e del desiderio. Una mente contenta e un cuore riconoscente. Papà diceva che erano quelle le più grandi benedizioni. E aveva ragione. Piper’s Run è il luogo dove ho smarrito quei doni, Piper’s Run è il luogo dove io potrò ritrovarli.
Solo che, quando ora io penso a Piper’s Run, lo vedo molto piccolo e molto lontano, è c’è una bellissima luce su di esso, come la luce di una sera di primavera, ma non riesco a vederlo più da vicino, rimane sempre lontano dai miei occhi. Quando pensò a mamma, e a papà, e a mio fratello James, e alla piccola Esther, non riesco a vederli chiaramente, e i loro volti sono tutti confusi e sfocati.
Vedo me stesso, è vero, mi vedo correre con Esaù attraverso un pascolo di notte, inginocchiato nella paglia del fienile, mentre la cinghia di papà cala dall’alto sulla mia schiena, dolorosa, cattiva. Vedo me stesso com’ero allora. Ma quando cerco di vedere me stesso come sarò, un uomo adulto, ma di nuovo parte di Piper’s Run, non ci riesco.
Cerco di vedere Joan con la cuffia bianca e l’umiltà della terra, e neppure questo posso vedere.
Eppure io devo tornare indietro. Devo trovare quello che avevo là, e che non ho più avuto da quando sono partito. Devo trovare la certezza.
Devo trovare la pace.
Poi una sera, al tramonto, Len vide l’uomo che guidava un carro da mercante, tirato da grandi cavalli attraverso una verde ondulazione della prateria, apparendo per breve tempo sulla linea del cielo, e scomparve così rapidamente che Len non fu sicuro di averlo veramente visto. Joan era inginocchiata al suolo, stava accendendo il fuoco. Le disse di spegnerlo, e quella notte camminarono a lungo sotto il chiarore della luna, prima che lui volesse fermarsi.
Si unirono a una banda di cacciatori… era sicuro, questo, perché gli uomini di Bartorstown non andavano con i cacciatori, e Joan lo sapeva, e conosceva coloro che appartenevano alla sua gente, e nessuno di loro era nella banda. Raccontarono una fantastica storia di un attacco dei Nuovi Ismaeliti, per giustificare le loro condizioni, e i cacciatori scossero la testa e sputarono.
«Quei maledetti diavoli assassini,» disse uno di loro. «Anch’io sono un credente,» e guardò cauto al cielo, «Ma uccidere non è il modo giusto di servire il Signore.»
Eppure tu ci uccideresti, se lo sapessi, pensò Len, ci uccideresti per servire il Signore. E tormentò Joan, che non aveva mai avuto bisogno di controllare in quel modo le sue parole, finché lei non ebbe paura di pronunciare anche il suo nome.
«Ma è tutto così?» gli bisbigliò, di notte, nell’intimità delle loro coperte. «Sono tutti come dei lupi pronti a sbranarti?»
«Per Bartorstown, sì. Non dire mai da dove vieni, non dare mai il più lieve indizio, non farli mai sospettare.»
I cacciatori li lasciarono a dei mercanti, che vennero loro incontro in un luogo già fissato, e che dovevano andare a sud-est con un carico di pellicce e di rame. Joan si assicurò che non ci fossero uomini di Bartorstown tra loro. Tenne la bocca ben chiusa, guardando con occhi dubbiosi i piccoli paesi bruciati dal sole nei quali si fermarono, le fattorie solitarie che incontrarono durante il loro viaggio.
«Sarà diverso a Piper’s Run, vero, Len?»
«Sì, sarà diverso.»
Più dolce, più mite, più verde, più fertile, sì. Ma in altri modi no, non sarà diverso. Non sarà affatto diverso.
Cos’è che si stende sull’intero paese, nelle strade polverose e nel lento battito degli zoccoli dei cavalli, nei volti delle persone?
Ma Piper’s Run è casa mia.
In una notte chiara, a mezzanotte, gli parve di vedere il tendone di un carro solitario che viaggiava lontano, scintillante sotto la luna. Prese Joan e si allontanarono verso est, da soli, lungo fiumi disseccati, biancheggianti nel sole d’estate, faticando e andando di fattoria in fattoria, di paese in paese, in una lenta avanzata.
«Ma che cosa fa la gente in questi posti?» domandò Joan.
E lui le rispose, irato:
«Vive.»
I giorni dell’arsura e del sole passarono. Le lunghe, aspre miglia si srotolavano. La visione di Piper’s Run sbiadiva, poco a poco, per quanto egli vi si aggrappasse tenacemente, scolorita dal sole e dalla distanza e dalla fatica, fino a quando non fu così debole da potersi a malapena distinguere. Aveva proseguito per molto tempo sullo slancio, e ora questo si stava consumando. E l’uomo sul carro lo ossessionava, lo perseguitava per tutti i giorni dell’estate, avanzando senza posa sull’orizzonte immenso, sbucando dal vento e dalla polvere della prateria. E con il passare dei giorni, la corsa di Len si trasformava sempre più in una fuga da qualcosa, che non verso qualcosa. Non riuscì mai a vedere il volto di quell’uomo. Non poté essere neppure sicuro che fosse sempre lo stesso carro. Ma lo seguiva. E lui sapeva.
E in settembre, in una piccola comunità ardente, smarrita in un mare verde-grigio di alte erbe, al confine con il Texas, egli sedette ad aspettare.
«Stupido,» gli disse Joan, disperata. «Non è lui. È solo la tua coscienza colpevole che te lo fa pensare.»
«È lui. E tu lo sai.»
«Perché dovrebbe essere lui? Anche se si tratta di qualcuno di là…»
«Capisco quando non dici la verità, Joan. Non farlo.»
«Va bene! È lui, naturalmente è lui. Era responsabile di te. Aveva giurato davanti a Sherman, aveva garantito per te. Che cosa pensi?»
Lo fissò, irata, con le piccole mani brune chiuse a pugno, con gli occhi lampeggianti.
«Lascerai che ti riporti indietro, Len Colter? Non sei ancora un uomo, con tutta quella barba che hai? Alzati. Andiamo.»
«No.» Len scosse il capo. «Non mi ero mai reso conto che lui avesse giurato per me.»
«Non sarà solo. Ci saranno degli altri con lui.»
«Forse. E forse no.»
«Ti lascerai riprendere da lui.» La sua voce era stridula, si spezzava come quella di una bambina. «Ma lui non prenderà me. Io continuo.»
Le parlò con un tono che non aveva mai usato prima.
«Resterai con me, Joan.»
Lei lo fissò, sorpresa, e poi nei suoi occhi apparve un’ombra di dubbio, di qualche palpito di oscura apprensione.
«Cosa intendi fare?»
«Non lo so ancora. È quello che devo decidere.»
Il suo volto si era indurito, era diventato impassibile e freddo come pietra.
«Di due cose sono sicuro. Non intendo scappare. E non intendo lasciarmi prendere.»
Lei rimase accanto a lui, silenziosa, spaventata senza sapere il perché.
Len aspettò.
Due giorni. Non è ancora venuto, ma verrà. Ha giurato per me.
Due giorni per pensare, per rimanere in attesa sul campo di battaglia. Esaù non ha mai combattuto questa battaglia, e neppure mio fratello James. Loro sono i fortunati. Ma papà ha combattuto, e Hostetter ha combattuto, e ora è venuto il mio momento. La battaglia della decisione, il tempo della scelta.
Presi una decisione, a Piper’s Run. La decisione di un bambino, basata sui sogni di un bambino. Presi una decisione a Bartorstown, ed era ancora una decisione infantile, basata sulle emozioni. Ora ho finito con i sogni. Ho finito con le emozioni. Ho digiunato per i miei quaranta giorni nel deserto, e ho concluso la penitenza. Sono nudo e segnato, ma sono uomo. La decisione che prenderò sarà presa da uomo, e non ritornerò più indietro, dopo averla presa.
Tre giorni, per consumare le ultime, dolci speranze colorate di sole.
Non tornerò a Piper’s Run. Qualunque sia la strada che sceglierò, non sarà quella. Piper’s Run. Qualunque sia la strada che sceglierò, non sarà quella. Piper’s Run è un ricordo dell’infanzia, e ho finito anche con i ricordi. Quella porta si è chiusa alle mie spalle da molto, molto tempo. Piper’s Run era un ricordo di pace, ma qualunque strada io scelga ora, non avrò mai pace.
Perché la pace è certezza, e non c’è certezza che nella morte.
Quattro giorni, per piantare i piedi ostinati più saldamente nel terreno, e insegnar loro a non fuggire.
Perché ho smesso di fuggire. Ora mi fermerò, e sceglierò la mia strada.
Presto o tardi, un uomo deve fermarsi e scegliere la sua strada, non tra le strade che egli vorrebbe, o tra quelle che ci dovrebbero essere, ma tra quelle che ci sono.
Cinque giorni, per scegliere.
C’era molta gente in paese. Era l’epoca del mercato d’autunno, il caldo momento di quiete nel quale il raccolto non è ancora maturo, e l’erba si muove soffice e frusciante nel vento, e ogni pezzo di legno è secco come un vecchio scheletro. La gente veniva dalle fattorie della regione, per acquistare e scambiare le provviste dell’inverno, e i carri dei mercanti erano allineati in fila alla fine di una breve strada polverosa.
Dappertutto, in tutta questa grande terra, pensò Len, è il momento del mercato d’autunno. In tutta questa terra ci sono fiere e mercati, e i carri sono allineati nei luoghi di scambio, e gli uomini trattano i capi di bestiame, e le donne discutono sulle stoffe e sullo zucchero. In tutta questa terra accadono le stesse cose, è tutto uguale, immutabile. E dopo il mercato e dopo la fiera c’è la predica, per ravvivare la fede, in autunno, e rifornire anche l’anima di provviste per l’inverno. Questa è la vita. Così si svolge.
Camminava inquieto per la strada, su e giù, un’inquietudine d’attesa. Si fermò vicino ai carri dei mercanti, guardò le facce della gente, ascoltò i loro discorsi.
Hanno trovato la loro verità. I Nuovi Mennoniti hanno trovato la loro, e i Nuovi Ismaeliti, e gli uomini di Bartorstown.
Ora io devo trovare la mia.
Joan lo osservava nascostamente, tra le ciglia socchiuse, e aveva paura di parlare.
Alla quinta notte, tutto il commercio era finito. Diverse torce vennero sistemate intorno a un palco, in uno spazio non molto vasto in fondo alla strada. Le stelle ardevano nel cielo, e il vento diventava più fresco, e la terra cotta dal sole esalava il suo calore. La gente si riuniva.
Len sedeva sull’erba schiacciata, tenendo la mano di Joan. Dopo tanta attesa, non si accorse del carro che arrivava, rotolando piano, dall’altro lato della folla. Ma dopo qualche tempo si voltò, e Hostetter sedeva là, al suo fianco.
La voce del predicatore tuonava, forte e stridente:
«Mille anni, fratelli. Mille anni. Ecco quanto ci è stato promesso. E io vi dico che siamo già in quel tempo benedetto, e c’incamminiamo verso la Gloria che è stata preparata per coloro che seguono le vie della giustizia. Io vi dico…»
Hostetter guardò Len nella luce ondeggiante delle torce mosse dal vento, e Len lo guardò, ma nessuno dei due parlò.
Joan bisbigliò qualcosa che avrebbe potuto essere il nome di Hostetter. Ritirò la mano da quella di Len, e si mosse, lentamente, spostandosi dietro di lui, come se avesse voluto avvicinarsi a Hostetter. Len l’afferrò, e la costrinse di nuovo a sedersi.
«Resta vicino a me.»
«Lasciami andare. Len…»
«Resta vicino a me.»
Piagnucolò, e rimase ferma. I suoi occhi cercarono quelli di Hostetter.
Len disse, rivolgendosi a entrambi:
«Fate silenzio. Voglio ascoltare.»
«…e se non diverrete come bambini, dice il Libro, non potrete entrare. Perché il Regno dei Cieli non è fatto per gli ingiusti. Non è fatto per gli increduli e per gli schernitori. Nossignori, fratelli e sorelle! E voi non siete ancora salvi. Solo perché il Signore ha voluto salvarvi dalla Distruzione, non dovete credere, neppure per un attimo…»
È stato in un’altra notte, a un’altra predica, che ho messo il piede sul sentiero.
Un uomo morì, quella notte. Il suo nome era Soames. Aveva la barba bionda, e lo lapidarono a morte perché veniva da Bartorstown.
Fatemi ascoltare. Fatemi pensare.
«…mille anni!» gridò il predicatore, battendo il pugno sul suo Libro polveroso, pestando il piede sulle tavole polverose. «Ma dovete lavorare per guadagnarvelo! Non potete starvene a sedere, semplicemente, senza curarvene! Non potete evitare i doveri verso il Signore!»
Che questa voce possa soffiare attraverso di me come un vento impetuoso, e le parole risuonino nelle mie orecchie come squilli di tromba.
Posso parlare ancora, e guidarli a Bartorstown, come Burdette condusse i suoi uomini a Refuge. Molti moriranno, come morì Dulinsky. Ma il Moloch sarà rovesciato.
Joan siede rigida accanto a me. Le lacrime le scorrono sulle guance. Hostetter siede dall’altro lato. Lui deve sapere cosa penso. Ma aspetta.
Lui era là. Era parte di quell’altra notte. Era parte di Refuge. Era parte di Piper’s Run e di Bartorstown, in principio, alla fine, e in mezzo.
Posso spazzare via tutto, tutto, con il suo sangue?
Alleluia!
Confessate i vostri peccati! Purificate la vostra anima dal suo fardello di nera colpa, affinché il Signore non vi bruci di nuovo col fuoco!
Alleluia!
«Ebbene, Len?» disse Hostetter.
Stanno gridando come gridavano quella notte, oh, Dio. E cosa accadrebbe se mi alzassi e confessassi il mio peccato, offrendo quest’uomo in sacrificio? Non sarei purificato dalla conoscenza. La conoscenza non è come il peccato. Non vi è fuga mistica da essa.
E cosa accadrebbe se io rovesciassi il Moloch dalle viscere di fuoco e dalla testa di bronzo?
La conoscenza esisterebbe ancora. In qualche luogo. In qualche libro, o in qualche cervello umano, sotto qualche altra montagna. Ciò che l’uomo ha scoperto una volta, verrà scoperto di nuovo.
Hostetter si alzò in piedi.
«Hai dimenticato una cosa che ti ho detto. Dimentichi che anche noi siamo fanatici. Dimentichi che io non posso lasciarti libero.»
«Avanti,» disse Len. Si alzò in piedi a sua volta, tirando su Joan per la mano. «Avanti, se potete.»
Si fissarono nella luce delle torce, mentre la folla pestava i piedi e sollevava la polvere e gridava alleluia.
L’ho lasciata soffiare attraverso di me, ed è soltanto vento. Ho lasciato che le parole risuonassero nelle mie orecchie, e non sono altro che parole, pronunciate da un uomo ignorante dalla barba sporca di polvere. Non mi commuovono, non mi toccano. Ho finito anche con esse.
Ora io so cosa si stende sulla terra, qual è il fardello lento e pesante. Essi la chiamano fede, ma non è fede. È paura. Il popolo si è costruito un riparo sulla testa, una necessità di ignoranza, una passione di rinuncia, e l’hanno chiamato Dio, e lo hanno adorato. Ed è falso come qualsiasi Moloch. Così falso che uomini come Soames, come Dulinsky, come Esaù e me stesso lo rovesceranno. Ed esso tradirà i suoi adoratori, lasciandoli indifesi di fronte a un domani che sicuramente verrà. Potrà essere lento a venire, e lungo, un lento e lungo domani, ma verrà, e tutta la loro disperazione non lo potrà fermare. Niente lo potrà fermare.
«Non parlerò, Ed. Ora tocca a voi.»
Joan trattenne il respiro in un singhiozzo.
Hostetter guardò Len; stava con le gambe allargate, le grandi spalle un po’ curve, il volto scuro e severo come ferro, sotto l’ampia falda del cappello. Ora era Len ad aspettare.
Se muoio come Soames, avrà importanza soltanto per me. Sarà importante solo perché io sono io, e Hostetter è Hostetter, e Joan è Joan, e siamo persone, e non possiamo evitarlo. Ma per oggi, ieri, domani, questo non è importante. Il tempo continua anche senza di noi. Solo una fede, una condizione della mente, può durare, e anche questa cambia costantemente, ma in fondo a tutto ci sono due specie di pensiero… quello che dice, Qui devi fermarti, qui si arresta il tuo sapere, e quell’altro che dice, Impara.
A torto o a ragione, il frutto è stato mangiato, e non si può tornare indietro.
Io ho fatto la mia scelta.
«Cosa aspettate, Ed? Se dovete farlo, fatelo.»
Una parte della tensione abbandonò la linea delle spalle di Hostetter. Egli disse:
«Credo che nessuno di noi due abbia l’animo dell’assassino.»
Chinò il capo, accigliato, e poi lo sollevò di nuovo, fissando negli occhi Len, con uno sguardo duro e imperioso.
«Ebbene?»
La gente piangeva e urlava e si gettava in ginocchio nella polvere e singhiozzava.
«Penso tuttora,» disse Len, con studiata lentezza, «Che forse è stato il Diavolo a scatenarsi sul mondo, un secolo fa. E penso tuttora che forse è una delle membra di Satana quella che tenete là, dietro il muro di cemento.»
Il predicatore scosse le braccia verso il cielo, torcendosi in un’estasi di salvezza.
«Ma penso anche che in fondo abbiate ragione,» proseguì Len. «Penso che sia più ragionevole cercare di incatenare il diavolo, che tenere incatenata tutta la terra, nella speranza che egli non la visiti un’altra volta.»
Guardò negli occhi Hostetter.
«Non mi avete fatto ammazzare, perciò penso che dovrete lasciarmi tornare indietro.»
«La scelta non dipendeva interamente da me,» disse Hostetter.
Si volse, e si avviò verso i carri. Len lo seguì, con Joan che vacillava al suo fianco. E due uomini uscirono dall’ombra, e si unirono a loro. Uomini che Len non conosceva, e che tenevano sotto il braccio dei grossi fucili da caccia.
«Questa volta, ho dovuto fare qualcosa di più che parlare in tuo favore,» disse Hostetter. «Se tu mi avessi denunciato, questi ragazzi forse non sarebbero riusciti a salvarmi dalla folla, ma tu non avresti vissuto cinque minuti di più.»
«Capisco,» disse Len, piano. «Avete aspettato fino a questo momento, fino alla predica.»
«Sì.»
«E quando mi avete minacciato, non avete parlato sul serio. Era per mettermi alla prova.»
Hostetter annuì.
Gli uomini fissarono duramente Len, facendo scattare la sicura dei loro fucili.
«Apparentemente, avevate ragione, Ed,» disse uno di loro. «Ma io non ci avrei certo fatto affidamento.»
«Lo conosco da molto tempo,» disse Hostetter. «Ero un po’ preoccupato, ma non molto.»
«Bene,» disse l’uomo. «È tutto vostro.»
Dal tono della sua voce, era evidente che non pensava che Hostetter avesse guadagnato qualcosa. Rivolse un cenno all’altro uomo, e se ne andarono insieme, gli esecutori di Sherman che si dileguavano silenziosi nella notte.
«Perché l’avete fatto, Ed?» domandò Len. Chinò il capo, pieno di vergogna per tutto ciò che aveva fatto a quell’uomo. «Non vi ho dato altro che guai.»
«Te l’ho già detto,» rispose Hostetter. «Mi sono sempre sentito responsabile per la tua fuga da casa.»
«Vi ripagherò di tutto ciò,» disse Len, in tono sincero.
Hostetter disse:
«L’hai appena fatto.»
Salirono sull’alto sedile del carro.
«E tu,» disse Hostetter a Joan. «Sei pronta a ritornare a casa?»
Lei cominciava a piangere, brevi, violenti singhiozzi. Guardò l’ondeggiare fumoso delle torce, e la folla, e la polvere.
«È un mondo orribile,» disse. «Lo odio.»
«No,» disse Hostetter, «Non è orribile, è solo imperfetto. Ma questa non è certo una cosa nuova.»
Scosse le redini e incitò con la voce i grandi cavalli. Il carro si mosse, allontanandosi verso la prateria oscura.
«Quando ci saremo allontanati a sufficienza dal paese,» disse Hostetter, «Chiamerò per radio Sherman, per annunciargli che siamo sulla via del ritorno.»