Le scarse acque brune del Pymatuning si gettano nel Shenango, che va ad ingrossare il Mahoning, e i due fiumi, insieme, formano il Beaver. Il Beaver va a ingrossare le acque dell’Ohio, che scorre maestosamente verso ovest, per contribuire a rendere più possente il Padre delle Acque.
Anche il tempo scorre, come i fiumi. Piccole unità si raggruppano in grandi unità, i minuti in mesi e i mesi in anni. I ragazzi diventano uomini, e le pietre miliari di una lunga ricerca si moltiplicano e vengo lasciate indietro. Ma la leggenda rimane leggenda, e il sogno sogno, scintillante, sempre più debole, sempre più lontano verso il tramonto.
C’era una città chiamata Refuge, e c’era una ragazza dai capelli biondi; ed erano reali.
Refuge non era affatto simile a Piper’s Run. Era più grande, tanto più grande che i suoi confini premevano già contro i limiti imposti dalla legge, ma le dimensioni non costituivano l’unica differenza. Era una questione di mentalità. Len ed Esaù avevano notato la stessa mentalità in certi altri posti, durante il loro viaggio lungo le valli fluviali, in particolare nei luoghi dove, come a Refuge, le strade di terra e le vie d’acqua si incrociavano. Piper’s Run viveva e respirava con il ritmo lento e calmo delle stagioni, e anche i pensieri di coloro che vi abitavano erano calmi. Refuge ribolliva di attività e di vita. La gente si muoveva più in fretta, e pensava più in fretta, e parlava più forte, e le strade erano rumorose di notte, con un passare continuo di carrozze e carri e le voci degli scaricatori che risuonavano intorno ai moli.
Refuge sorgeva sulla riva settentrionale dell’Ohio. Il suo nome era venuto dal fatto che gli abitanti di una città più lontana lungo il fiume vi avevano trovato rifugio all’epoca della Distruzione. Ora era il punto d’incontro di due grandi rotte commerciali, che si stendeva fino ai Grandi Laghi, e i carri rombavano di giorno e di notte quando le strade erano praticabili, portando a sud balle di pelli, e ferro, e panni di lana, farina e formaggio. Da oriente e da occidente, lungo il fiume, scorreva dell’altro traffico, portando altre cose, rame e cuoio, sego e carne salata dalle grandi pianure, carbone e rottami metallici dalla Pennsylvania, pesce salato dall’Atlantico, barili di chiodi, fucili pregiati, carta. Il traffico fluviale si muoveva anch’esso continuamente, dalla primavera ai primi mesi d’inverno, barconi piatti, lance e rimorchiatori trascinavano lunghe file di chiatte cariche, sbuffando allegramente dai fumaioli, con un gran rumore dei motori a vapore. Erano quelli i primi motori di qualsiasi tipo che Len ed Esaù avessero visto in vita loro, e inizialmente erano stati spaventati a morte dal rumore, ma ben presto si erano abituati a essi. Durante un inverno avevano lavorato in una piccola fonderia vicino alla foce del Beaver, preparando delle pentole a vapore, e pensando già di dare un contributo essenziale alla meccanizzazione del mondo. I Nuovi Mennoniti si accigliavano, disapprovando l’uso di ogni tipo di energia artificiale, ma gli uomini dei battelli fluviali appartenevano a sette differenti, e avevano differenti problemi. Dovevano risalire il corso del fiume con pesanti carichi, lottando contro la corrente, e se potevano mettere le briglie al vapore, usandolo in motori semplici e di facile fabbricazione, questo era un grosso aiuto, ed erano disposti anche ad aggirare certi problemi etici per riuscirci.
Sul lato del fiume che dava nel Kentucky, proprio di fronte, c’era un posto che si chiamava Shadwell. Shadwell era molto più piccolo di Refuge, e molto più recente, ma si stava ingrandendo così in fretta che anche Len ed Esaù poterono vedere la differenza, dopo appena un anno di soggiorno. Gli abitanti di Refuge non apprezzavano molto Shadwell, che era nato solo perché i mercanti avevano cominciato a salire dal sud con zucchero e cotone e tabacco, attirati dal commercio intenso e fruttuoso che si svolgeva nei mercati di Refuge. Un paio di baracche provvisorie erano state erette dai mercanti, e poi un molo era sorto sulla riva del fiume, e due case di transito erano state frettolosamente costruite tra le baracche e il molo, e un grande capannone per depositare le merci… e così, prima che qualcuno avesse potuto rendersene conto, era diventato un villaggio, con magazzini e case e depositi, e un nome proprio, e una popolazione in costante aumento. E Refuge, che era già ai limiti di popolazione e di sviluppo permessi dalla legge, era rimasto a osservare acidamente tutto il commercio in sovrappiù, quello che per mancanza di strutture non poteva affrontare, incanalarsi nei mercati di Shadwell.
C’erano pochi Amish o Mennoniti a Refuge. Gli abitanti appartenevano prevalentemente alla Chiesa della Santa Riconoscenza, e si chiamavano Kelleriti, dal nome di James P. Keller, fondatore della setta. Len ed Esaù avevano scoperto che c’erano pochissimi Mennoniti nei centri che vivevano sul commercio più che sull’agricoltura. E poiché essi avevano tagliato i ponti con la loro comunità, e non avevano alcun desiderio di rivelare la loro origine, o di ritornare a Piper’s Run, già dai primi tempi avevano abbandonato l’abito caratteristico della fede della loro adolescenza, adottando i vestiti molto più semplici e anonimi delle cittadine fluviali. Portavano i capelli corti, e il mento rasato, perché tra i Kelleriti c’era l’usanza, per gli uomini, di radersi la barba fino a quando rimanevano celibi, e di farsela crescere dopo sposati: una barba fluente era un segno che distingueva l’uomo sposato in maniera molto più definitiva di un anello, che si poteva togliere o mettere a volontà. Tutte le domeniche andavano regolarmente nella Chiesa della Santa Riconoscenza, e partecipavano alle devozioni quotidiane della famiglia che li ospitava, e qualche volta si dimenticavano perfino di non essere sempre stati Kelleriti.
A volte, pensava Len, essi dimenticavano perfino quale motivo li aveva spinti in quel luogo, e quello che stavano cercando. E per ricordare egli riandava col pensiero alla notte durante la quale aveva aspettato Esaù sulla punta di terra che dominava il Pymatuning, e a tutto quello che era accaduto prima di quel momento, e che lo aveva portato là, ed era abbastanza facile ricordare le sensazioni fisiche, l’aria fredda e il profumo delle foglie, le frustate, e l’espressione del volto di papà quando aveva sollevato la cinghia e l’aveva calata su di lui, sibilante e dolorosa. Ma l’altra parte, quella che aveva vissuto dentro, era più difficile da richiamare alla memoria. A volte ci riusciva solo compiendo uno sforzo intenso. Altre volte non ci riusciva affatto. E in altre occasioni… che erano le peggiori… quello che lui aveva provato al pensiero di lasciare la propria casa per andare a cercare Bartorstown gli sembrava una cosa assurda e infantile. Rivedeva la sua casa e la sua famiglia con chiarezza cristallina, e questa chiarezza gli produceva un dolore intenso, e lui pensava: Ho gettato via tutte queste cose per un nome, una voce nell’aria, ed eccomi qui, e sono un vagabondo senza casa, e dov’è, dov’è Bartorstown? Aveva scoperto soltanto che il tempo poteva essere un traditore, e che i pensieri erano come vette di montagna, una forma diversa da ogni lato, che cambiava quando ci si muoveva.
Il tempo aveva giocato un altro tiro. Lo aveva fatto crescere, e gli aveva dato molte preoccupazioni nuove, che lui non aveva mai conosciuto prima.
Una di queste era la ragazza dai capelli biondi.
Era una sera di mezzo giugno, calda e afosa, e il sole al crepuscolo era stato inghiottito da una nera voragine di nubi temporalesche. Le due candele sulla tavola bruciavano diritte, senza che dalle finestre aperte giungesse il minimo alito d’aria a muoverle. Len sedeva con le mani giunte e il capo chino, e guardava i resti di un budino di latte. Esaù sedeva alla sua destra, nello stesso atteggiamento. La ragazza dai capelli biondi sedeva di fronte a loro; si chiamava Amity Taylor, e suo padre stava rendendo grazie dopo il pasto, seduto a capotavola, e di fronte a lui la madre della ragazza ascoltava con reverenza.
«…stendi il manto della Tua misericordia per ripararci nel giorno della Distruzione…»
Amity guardò, di sotto l’ombra delle sue lunghe ciglia, alla luce delle candele, prima Len e poi Esaù.
«…i nostri ringraziamenti per l’abbondanza senza limiti della Tua benedizione…»
Len sentì lo sguardo della ragazza su di sé. La sua pelle era sensibile e fragile a quel tocco impalpabile, e così, senza neppure sollevare lo sguardo, seppe con certezza che lei lo stava fissando. Il suo cuore cominciò a battere più forte. Si sentì il viso infuocato. Le mani di Esaù erano sulla sua linea di visione, congiunte tra le ginocchia. Vide che quelle mani si muovevano e si irrigidivano, e capì che Amity aveva guardato anche Esaù, e si sentì ancora più infiammato, pensando al giardino e al luogo ombroso sotto il cespuglio di rose.
Il giudice Taylor non avrebbe mai smesso di parlare?
Finalmente arrivò l’«Amen,» soffocato dalla voce più cupa e profonda del tuono. In fretta, pensò Len, bisogna fare in fretta con i piatti, altrimenti non ci sarà nessuna passeggiata in giardino.
Per nessuno. Balzò in piedi, quasi rovesciando la sedia sul pavimento, ed Esaù balzò in piedi a sua volta, e i due giovani cominciarono a raccogliere i piatti dalla tavola precipitosamente, tanto da intralciarsi. Dall’altro lato della luce delle candele, Amity stava lentamente mettendo una tazza sull’altra, e sorrideva.
La signora Taylor andò in cucina, portando i due vassoi. Sulla porta del corridoio, il giudice pareva diretto nel suo studio, come sempre faceva dopo le ultime preghiere. Esaù si volse, improvvisamente, e lanciò a Len uno sguardo pieno di collera, e bisbigliò:
«Non ti immischiare!»
Amity s’incamminò verso la cucina, tenendo in equilibrio tra le mani la pila delle tazze. I capelli biondi le scendevano sulla schiena in una grossa treccia. Indossava un vestito di cotone, grigio, dal collo alto e dalla gonna lunga, ma non aveva su di lei l’effetto che aveva su sua madre. Amity camminava in modo meraviglioso. Quel modo di camminare faceva balzare il cuore in gola a Len, ogni volta che lo vedeva. Restituì l’occhiata minacciosa a Esaù, e s’incamminò dietro di lei, con il suo carico di piatti, facendo lunghi passi per arrivare per primo. E il giudice Taylor disse, con voce calma, dalla porta del corridoio:
«Len… vieni nel mio studio, quando avrai messo giù i piatti. Per una volta, possono fare senza di te.»
Len si fermò. Lanciò un’occhiata sorpresa e preoccupata al giudice Taylor, e disse:
«Sì, signore.»
Taylor assentì, e uscì dalla stanza. Len lanciò un’occhiata a Esaù, che pareva a sua volta sorpreso.
«Cosa diavolo vuole?» domandò Esaù.
«Come faccio a saperlo?»
«Ascolta. Ascolta, hai combinato qualcosa che non va?»
Amity stava varcando la soglia della cucina, muovendosi con grazia, con la gonna che fluttuava intorno alle caviglie. Len arrossì.
«Non più di quanto tu sappia, Esaù,» disse, cupamente. Seguì Amity in cucina, e posò sull’acquaio la sua pila di piatti. Amity cominciò a rimboccarsi le maniche, e disse a sua madre:
«Len non può aiutarci stasera. Il babbo lo vuole.»
Reba Taylor si voltò, dalla stufa, sulla quale una pentola d’acqua stava bollendo. La donna aveva un volto gentile, piacevole, anche se un po’ vacuo, e Len l’aveva classificata già da molto tempo tra le persone prive di curiosità. La vita era passata tranquilla e facile su di lei.
«Santo cielo, santo cielo,» disse. «Certo non avrai fatto niente di male, Len?.»
«Spero di no, signora.»
«Scommetto,» disse Amity, «Che si tratta di Mike Dulinsky e del suo magazzino.»
«Del signor Dulinsky,» la corresse seccamente Reba Taylor. «E tu preoccupati dei tuoi piatti, signorina! Sono affar tuo. E tu corri, Len. Molto probabilmente il giudice vorrà darti solo qualche consiglio, e non credo che ti faccia male ascoltarlo.»
«Sì, signora,» disse Len, e uscì dalla cucina, attraversò il soggiorno, entrò nel corridoio, e lo percorse in direzione dello studio, chiedendosi se qualcuno lo avesse visto baciare Amity in giardino, o se si trattasse della faccenda di Dulinksy, o di chissà quale altra cosa. Era andato spesso nello studio del giudice, e aveva parlato spesso con lui, di libri e del passato e del futuro e, a volte, perfino del presente, ma non era mai stato chiamato a quel modo, prima di quella sera.
La porta dello studio era aperta. Taylor disse:
«Entra, Len.»
Il giudice era seduto dietro la sua grande scrivania, nell’angolo delle finestre, che guardavano a ponente: il cielo, là, era di un nero bizzarro, come se qualcuno l’avesse cosparso di fuliggine. Gli alberi apparivano flosci e lividi, e il fiume scorreva, da un lato, come una striscia di piombo. Taylor era rimasto seduto a guardare lo scenario del tramonto, con una candela spenta e un libro ancora chiuso sulla scrivania, accanto al suo gomito. Era un uomo piuttosto piccolo, con le guance lisce e la fronte alta. I capelli e la barba erano sempre in ordine perfetto, la sua biancheria era pulita ogni giorno, e il suo semplice abito scuro era della migliore stoffa che giungeva sui mercati di Refuge. Len lo trovava simpatico. Possedeva molti libri, e li leggeva, e incoraggiava gli altri a leggerli, e non aveva paura della conoscenza, anche se non si vantava mai di possederne più di quanta gli fosse necessaria per la sua professione. ’Non richiamare mai un’attenzione eccessiva su di te,’ diceva spesso a Len. ’Ed eviterai una dose considerevole di guai.’
In quel momento disse a Len di entrare, e di chiudere la porta.
«Ho paura che stiamo per avere un colloquio molto serio, e desideravo che tu venissi qui da solo perché desidero che tu sia libero di riflettere e di prendere le tue decisioni senza… be’, senza nessun’altra influenza.»
«Non avete molta stima di Esaù, vero?» domandò Len, sedendosi sulla sedia che il giudice aveva sistemato per lui.
«No,» disse Taylor, «Ma questo non c’entra. Posso solo aggiungere che ho invece moltissima stima di te. E adesso, lasciamo perdere gli apprezzamenti personali. Len, tu lavori per Mike Dulinsky?»
«Sì, signore,» disse Len, cominciando a mettersi sulla difensiva. Dunque era quello.
«Hai intenzione di continuare a lavorare per lui?»
Len esitò solo per una frazione di secondo, prima di ripetere:
«Sì, signore.»
Taylor parve riflettere, osservando il cielo fuligginoso e l’ombra lìvida che gravava su tutte le cose. Le nubi furono percorse da una saetta enorme. Len cominciò a contare mentalmente, e quando arrivò a sette si udì un brontolio profondo di tuono.
«È ancora molto lontano,» commentò.
«Sì, ma arriverà. Quando vengono da quella direzione, sono sempre brutti, i temporali. Hai letto molto, Len, nel corso di quest’ultimo anno. Hai imparato qualcosa dalle tue letture?»
Len osservò amorevolmente gli scaffali. Era troppo buio per vedere i titoli, ma conosceva ormai i libri, dalle dimensioni e dal posto che occupavano, e ne aveva già letti molti, moltissimi.
«Spero di sì,» disse.
«Allora, cerca di applicare quello che hai imparato. Non è di nessuna utilità rinchiudere il sapere nella testa come in un armadio. Ti ricordi di Socrate?»
«Sì.»
«Era un uomo più grande e più saggio di quanto io e te potremo mai essere, ma questo non bastò a salvarlo, quando si scontrò con troppa forza contro l’intero corpo delle leggi e delle credenze pubbliche.»
Il fulmine dardeggiò di nuovo nelle nubi oscure, e questa volta l’intervallo fu molto più breve. Il vento cominciò a soffiare, allora, agitando i rami degli alberi, increspando la cupa superficie del fiume. In lontananza, delle figure stavano affaccendandosi intorno agli ormeggi delle chiatte, sui moli, oppure per sistemare teloni sulle casse di merci, o trasportare altre merci al riparo. Verso l’interno, tra gli alberi, le case bianche e argentate di Refuge scintillavano, nell’ultimo debole chiarore che veniva dall’alto.
«Perché vuoi affrettare il giorno?» domandò Taylor, con calma. «Non vivrai abbastanza per vederlo, né lo vedranno i tuoi figli, né i figli dei tuoi figli. Perché, Len?»
«Perché… che cosa?» domandò Len, ora sinceramente stupito.
Poi respirò più forte, quando Taylor gli rispose:
«Perché vuoi che le città ritornino?»
Len tacque, scrutando nell’oscurità che si era addensata improvvisamente a tal punto da rendere Taylor un’ombra indistinta, anche se il giudice era a meno di un metro da lui.
«Perché vuoi che le città sorgano ancora?» domandò di nuovo il giudice, a bassa voce. «Esse stavano già morendo, ancora prima della Distruzione. Megalopoli, annegata nelle proprie fogne, soffocata dai propri gas di scarico, schiacciata e sommersa dalla propria popolazione. ’Città’ suona come una parola musicale al tuo orecchio, ma cosa ne sai tu, in realtà, delle città?»
Avevano toccato questo argomento già altre volte.
«La nonna mi diceva…»
«Che allora lei era una ragazzina, e le ragazzine ben difficilmente avrebbero potuto vedere il sudiciume, le brutture, la povertà ammassata, il vizio. Le città erano come vampiri, che succhiavano tutta la vita del paese e la distruggevano. Gli uomini non erano più degli individui, ma unità di una vasta macchina, tutti modellati su un unico disegno, con gli stessi gusti e le stesse idee, la stessa educazione di massa che non educava ma copriva con una coperta di parole l’ignoranza. Perché vuoi far ritornare tutto questo?»
Una vecchia discussione, però applicata in maniera del tutto inattesa. Len balbettò:
«Non ho pensato alle città, in un modo o nell’altro. E non capisco cosa c’entri con questo il nuovo magazzino del signor Dulinsky.»
«Len, se tu non sei onesto con te stesso, la vita non sarà mai onesta con te. Uno stupido potrebbe dire che non vede e non capisce, ed essere onesto, ma non è questo il tuo caso. A meno che tu non sia ancora così bambino da non pensare oltre i fatti immediati.»
«Sono abbastanza vecchio da potermi sposare,» disse Len, con calore. «E questo dovrebbe rendermi di un’età sufficiente ad affrontare qualsiasi altra cosa.»
«È vero,» disse Taylor. «È vero. Ecco, comincia a piovere. Aiutami a chiudere le finestre.» Le chiusero, e Taylor accese la candela. Lo studio, ora, era soffocante, afoso, chiuso e intollerabile. «È un peccato, sì, è un vero peccato,» disse Taylor, «Che le finestre debbano essere sempre chiuse nel momento in cui comincia a soffiare un vento fresco. Sì, hai l’età giusta per sposarti, e credo che anche Amity abbia avuto qualche sua idea, in questo senso. È una possibilità che vorrei tu prendessi in considerazione, tra l’altro.»
Il cuore di Len cominciò a battere forte, come accadeva ogni volta che si trattava direttamente o indirettamente di Amity. Si sentì follemente eccitato, e nello stesso tempo gli parve che una trappola fosse stata predisposta, pronta a scattare davanti ai suoi piedi. Si mise di nuovo a sedere, e la pioggia cominciò a battere sulle finestre come grandine.
Taylor disse, lentamente:
«Refuge è un ottimo paese, così com’è. Potresti vivere bene, qui. Potrei toglierti dalla vita dei moli, e fare di te un avvocato, e col tempo diventeresti un uomo importante. Avresti molto tempo libero per studiare, e tutta la sapienza del mondo la troveresti nei libri di questa biblioteca. E poi c’è Amity. Queste sono le cose che io potrei darti. Cosa ti offre, invece, Dulinsky?»
Len scosse il capo.
«Io faccio il mio lavoro, e lui mi paga. Non c’è altro.»
«Tu sai che sta violando la legge.»
«È una legge stupida. Un magazzino in più o in meno…»
«Un magazzino in più, in questo caso, rappresenta una violazione del Trentesimo Emendamento, che è la legge fondamentale della nostra terra. Non potrà essere trascurata con tanta leggerezza, questa violazione.»
«Ma non è giusto. Nessuno, qui a Refuge, vuole vedere crescere costantemente Shadwell, che sottrae al nostro paese una fetta sempre più grande di commercio, solo perché non ci sono magazzini e capannoni e depositi a sufficienza, da noi, per ospitare tutto il traffico.»
«Un nuovo magazzino,» disse Taylor, riprendendo puntigliosamente le parole di Len, «E poi nuovi moli per servirlo, e nuovi alloggi per i mercanti, e presto ci vorrà un altro magazzino ancora, ed è in questo modo che nascono le città. Len, Dulinsky ti ha mai parlato di Bartorstown?»
Il cuore di Len, che aveva battuto così tumultuosamente per Amity, parve ora fermarsi per un’improvvisa paura. Rabbrividì e rispose quella che era la perfetta verità:
«No, signore. Mai.»
«Me l’ero chiesto diverse volte. Si comporta esattamente come potrebbe comportarsi un uomo di Bartorstown. È vero, però, che conosco Mike da quando eravamo ragazzi, e non ricordo nessuna influenza… no, penso proprio di no. Ma questo potrebbe non essere sufficiente a salvarlo, Len, né potrebbe essere sufficiente a salvare te.»
Len disse, lentamente:
«Credo di non capire, signore.»
«Tu ed Esaù siete forestieri. La gente è disposta ad accettarvi, finché non agirete in modo contrario alle loro usanze… ma se vi comporterete in maniera diversa, dovrete stare in guardia.» Appoggiò i gomiti sulla scrivania, e guardò negli occhi Len, nel vacillante lume della candela. «Tu non mi hai detto tutta la verità sul tuo conto.»
«Non ho detto nessuna bugia.»
«Questo non è sempre necessario. Comunque, posso indovinare ugualmente quello che non mi ha detto. Sei un ragazzo di campagna. Sarei pronto a scommettere che tu eri un Nuovo Mennonita. E sei scappato da casa. Perché?»
«Penso,» disse Len, scegliendo le parole con la stessa attenzione con cui un uomo che si trova sull’orlo di un pozzo fa attenzione ai suoi passi, «Che sia stato perché mio padre e io non riuscivamo a metterci d’accordo su quanto io potessi imparare, e come.»
«Fino a questo punto», disse Taylor, pensieroso. «E non oltre. È sempre stata una linea difficile da tracciare. Ogni setta deve decidere da sola, e, in un certo modo, anche ogni individuo deve farlo. Tu hai già trovato il tuo limite, Len?»
«Non ancora.»
«Trovalo,» disse Taylor, «Prima che tu vada troppo oltre.»
Rimasero seduti, in silenzio, per un lungo momento. La pioggia scendeva a torrenti, e un fulmine cadde così vicino che si udì un sibilo prima del tuono, e la casa tremò, come per un’esplosione.
«Capisci, Len, per quale motivo è stato approvato il Trentesimo Emendamento?» domandò Taylor.
«Perché non vi siano più città.»
«Sì, ma capisci il ragionamento sul quale si basa questa proibizione? Io sono stato allevato ed educato in una certa credenza, e pubblicamente non mi sogno di contraddirla, neppure in minima parte, ma qui, in privato, posso dire che non credo che Dio abbia fatto distruggere le città perché erano luoghi di peccato. Ho letto troppa storia per crederlo. Il nemico ha bombardato le grandi città chiave perché offrivano degli eccellenti bersagli, centri di popolazione, centri di produzione e distribuzione, senza i quali il paese sarebbe stato come un corpo con la testa mozzata. Ed è andata proprio così. Il sistema di alimentazione e di rifornimento, enormemente complicato, si è disintegrato, e le città che non erano state bombardate furono abbandonate per necessità, perché erano non solo pericolose, ma inutili, e tutti vennero costretti a ripiombare nelle leggi elementari della sopravvivenza, la prima delle quali era la ricerca del cibo.
«Gli uomini che fecero le nuove leggi erano decisi a impedire che una cosa simile si ripetesse. La popolazione era dispersa, in quel momento, ed essi intendevano mantenerla così, vicina alle fonti di sussistenza, eliminando la possibilità di creare nuovi, grossi obiettivi per qualsiasi potenziale nemico. Così approvarono il Trentesimo Emendamento. Fu una legge saggia. Era adatta al popolo, accontentava le sue esigenze, e provvedeva al suo bene. Il popolo aveva avuto di recente una lezione indimenticabile sul fatto che le città potevano trasformarsi in trappole di morte. La popolazione era enormemente ridotta, e il ricordo della Distruzione era così orribile, che nessuno poteva pensare che un orrore simile si ripetesse. Il popolo non voleva più le città, e gradualmente questa volontà diventò un articolo di fede. Il paese è stato sano e prospero, grazie al Trentesimo Emendamento, Len. Lascialo stare.»
«Forse avete ragione,» disse Len, fissando accigliato la candela. «Ma quando il signor Dulinsky dice che il paese ha ricominciato veramente a ingrandirsi, e non dovrebbe essere fermato da leggi sorpassate, credo che anche lui abbia ragione.»
«Non lasciarti ingannare da lui. Non si preoccupa del paese. È un uomo che possiede quattro magazzini, e ne vuole possedere cinque, ed è in collera perché la legge glielo proibisce.»
Il giudice si alzò in piedi.
«Dovrai decidere da solo ciò che è giusto. Ma desidero che una cosa ti sia chiara fin d’ora. Io devo pensare a mia figlia, e a mia moglie, e a me stesso. Se vorrai continuare con Dulinsky, dovrai lasciare la mia casa. Niente più passeggiate con Amity. Niente più libri. E ti avverto che, se sarò chiamato a giudicarti, ti giudicherò.»
Anche Len si alzò in piedi.
«Sì, signore,» disse.
Taylor gli posò una mano sulla spalla.
«Non essere sciocco, Len. Pensaci bene.»
«Ci penserò.»
Uscì dallo studio, sentendosi in collera e pieno di risentimento, e nello stesso tempo convinto che il giudice avesse detto delle cose sensate. Amity, il matrimonio, un posto sicuro nella comunità, un futuro, delle radici, niente più Dulinsky, e niente più dubbi. E niente più Bartorstown. Niente più sogni. Avrebbe smesso di cercare senza mai trovare.
Pensò al matrimonio con Amity, a quello che sarebbe stato. L’idea lo spaventava, come quando un puledro vedeva i finimenti per la prima volta, lo faceva sudare. Sicuramente, niente più sogni. Pensò a suo fratello James, che ormai doveva essere diventato padre di tanti piccoli Mennoniti, e si domandò se, in complesso, Refuge fosse poi molto diverso da Piper’s Run, e se Amity fosse un bene così prezioso, da giustificare tutta la strada che lui aveva percorso per raggiungerla. Amity, e Piatone, anche. Lui non aveva letto Piatone, a Piper’s Run, e ne aveva letto le opere a Refuge, ma anche Piatone non gli pareva l’intera risposta.
Niente più Bartorstown. Ma l’avrebbe mai trovata, comunque? Era tanto pazzo da pensare di cambiare una ragazza per una cosa che era, in fondo, solamente un fantasma?
Il corridoio era buio, ma veniva rischiarato dagli intermittenti, lividi bagliori dei fulmini. E ci fu un lampo intenso quando egli passò ai piedi delle scale, e in quel breve chiarore egli scorse Esaù e Amity nell’alcova triangolare del sottoscala. Erano stretti l’uno all’altra, ed Esaù baciava Amity appassionatamente, e Amity non protestava.
Era il pomeriggio del sabato. Erano in piedi, all’ombra del roseto, e Amity lo guardava incollerita.
«Non mi hai visto fare niente di simile, e se lo dirai a qualcuno, ti darò del bugiardo!»
«Non ho bisogno di dirlo a nessuno. Io so quello che ho visto, e lo sai anche tu,» le rispose Len.
La sua grossa treccia bionda ondeggiava, per i movimenti repentini della sua testa.
«Non sono promessa a te.»
«Ti piacerebbe esserlo, Amity?»
«Forse. Non lo so.»
«E allora, perché baciavi Esaù?»
«Be’, perché,» rispose lei, in tono ragionevole, «Come faccio a sapere quale dei due mi piace di più, se non provo prima?»
«Va bene,» disse Len. «Va bene, allora.» Tese le mani, e l’attirò a sé, e poiché ricordava in qual modo l’aveva stretta Esaù, fu piuttosto rude. Per la prima volta la strinse veramente con forza, e sentì com’era morbido e sodo il suo corpo, e come si curvava. Gli occhi di Amity erano vicini ai suoi, così vicini che diventavano solo di un colore azzurro senza forma, e si sentì stordito, e chiuse gli occhi, e trovò le sue labbra nel buio.
Dopo qualche tempo, la scostò un poco da sé, e disse:
«E ora chi preferisci?» Stava tremando, ma sulle guance di Amity c’era solo un lieve rossore, e lo sguardo di lei era piuttosto calmo. Gli sorrise.
«Non lo so,» disse lei. «Dovrai riprovare…»
«È questo che hai detto a Esaù?»
«Che t’importa sapere quello che ho detto a Esaù?» Di nuovo, la treccia bionda dondolò sulla sua schiena. «Pensa agli affari tuoi, Len Colter.»
«Questi potrebbero essere affari miei.»
«Chi l’ha detto?»
«L’ha detto tuo padre, se proprio ci tieni a saperlo.»
«Oh,» disse Amity. «L’ha detto lui.» Improvvisamente, fu come se una pesante cortina fosse calata a dividerli. Lei indietreggiò, e la sua bocca s’indurì.
«Amity,» le disse. «Ascolta, Amity, io…»
«Tu lasciami in pace. Hai capito, Len?»
«Cosa c’è di diverso, adesso? Prima mi sembravi così ansiosa… in tutti questi mesi, e pochi minuti fa…»
«Ansiosa! È tutto quello che sai. E se pensi di poterti permettere, solo per il fatto di avere circuito mio padre dietro le mie spalle, di…»
«Non ho circuito nessuno, Amity! Ascolta!» La prese di nuovo, l’attirò a sé.
Lei sibilò, tra i denti:
«Lasciami andare, non appartengo a te, non appartengo a nessuno! Lasciami andare…»
Lui continuò a stringerla, lottando contro di lei. La sua ribellione lo eccitava, e rise, e chinò il capo per baciarla di nuovo.
«Amity, andiamo, io ti amo…»
Lei soffiò come una gatta, e gli graffiò la guancia. La lasciò andare, allora, e Amity non era più così bella, il suo volto era contratto, brutto, e i suoi occhi cattivi. Lei corse via, lungo il sentiero. L’aria era tiepida e il profumo delle rose era intenso, intorno a lui. Per qualche tempo rimase immobile, guardando il sentiero lungo il viale era fuggita, e poi ritornò lentamente nella casa, e nella camera che divideva con Esaù.
Esaù era sdraiato sul letto, semiaddormentato. Si limitò a grugnire, e a girarsi sul fianco, quando Len entrò nella stanza. Len aprì lo sportello dell’armadietto. Ne prese un piccolo zaino di tela robusta, e cominciò a riporvi le sue cose, metodicamente, infilando ogni oggetto nello zaino con forza eccessiva. Era rosso in viso, e la sua espressione era cupa e accigliata.
Esaù si girò di nuovo. Batté le palpebre, guardò Len, e disse:
«Cosa credi di fare?»
«Sto facendo i bagagli.»
«I bagagli!» Esaù si drizzò a sedere sul letto, completamente sveglio. «Perché?»
«Perché la gente di solito fa i bagagli? Me ne vado.»
Esaù mise un piede sul pavimento.
«Sei diventato matto? Cosa vuoi dire… così, semplicemente, vuoi andartene? Credi che io non abbia qualcosa da dire, eh?»
«No, non hai niente da dire, su questo, almeno. Tu puoi fare quello che vuoi. Spostati, voglio quegli stivali.»
«Va bene! Ma tu non puoi… aspetta un momento! Cos’hai sulla guancia?»
«Cosa?» Len si passò il dorso della mano sulla guancia. La ritirò con una macchiolina rossa. Amity lo aveva graffiato profondamente.
Esaù cominciò a ridere.
Len si rialzò.
«Cosa c’è di tanto buffo?»
«Finalmente ti ha dato il fatto tuo, eh? Oh, non raccontarmi che è stato il gatto a graffiarti. So riconoscere i graffi di un gatto. Bene. Ti avevo detto di tenerti lontano da lei, ma non mi hai voluto ascoltare. Io…»
«Credi che lei ti appartenga?» domandò Len, a bassa voce.
Esaù sorrise.
«Avrei potuto dirti anche questo.»
Len lo colpì. Era la prima volta in vita sua che colpiva qualcuno con autentica collera. Vide che Esaù cadeva all’indietro sul letto, con gli occhi spalancati per la sorpresa, e una sottile striscia rossa che gli usciva dall’angolo della bocca, e tutto parve accadere molto lentamente, dandogli tutto il tempo per sentirsi colpevole e confuso e riempirlo di pentimento. Gli pareva di avere colpito un fratello. Ma era ancora in collera. Sollevò lo zaino, e si avviò alla porta, ed Esaù balzò dal letto, e lo afferrò per la spalla, costringendolo a girarsi.
«Mi hai picchiato, eh? Avanti, riprovaci!» disse, ansando. «Ti sei azzardato a farlo, sporco…» insultò Len con un epiteto che aveva appreso tra gli scaricatori dei moli, e agitò il pugno, con violenza.
Il pugno di Esaù partì, e Len fu lesto ad abbassarsi. Le nocche di Esaù gli sfiorarono il viso, e colpirono il legno solido della porta. Esaù gettò un grido di dolore, e cominciò a saltellare per la stanza, tenendo la mano sotto l’altro braccio, e imprecando. Len fece per dire qualche parola, per esprimere il suo dispiacere, ma cambiò idea, e si voltò di nuovo, pronto ad andarsene.
E il giudice Taylor era là fuori, nel corridoio.
«Smettila,» disse a Esaù, ed Esaù smise di lamentarsi, immobilizzandosi al centro della stanza. Taylor guardò i due giovani, e il suo sguardo indugiò sullo zaino che Len aveva in mano. «Ho parlato adesso con Amity,» disse, e Len capì che, dietro i suoi modi austeri, il giudice Taylor ribolliva di collera. «Mi dispiace molto, Len. A quanto sembra, ho commesso un errore.»
«Sì, signore,» disse Len. «Me ne stavo andando.»
Taylor annuì.
«In ogni modo,» disse, «Quanto ti ho detto è vero. Ricordalo.» Fissò poi, duramente, Esaù.
«Lasciatelo andare,» disse Esaù. «Io non mi muovo.»
«Io penso di sì,» disse Taylor.
«Ma lui…»
«L’ho colpito io per primo,» disse Len.
«Questo non ha importanza,» disse il giudice. «Raccogli le tue cose, Esaù.»
«Ma perché? Io guadagno abbastanza per pagare l’affitto. Non ho fatto niente…»
«Non so ancora esattamente ciò che hai fatto, ma molto o poco che sia, ora è finito. Questa stanza non è più da affittare. E se ti sorprendo di nuovo a ronzare intorno a mia figlia, ti farò cacciare da questa comunità. È chiaro?»
Esaù lo guardò, furioso, ma non disse niente. Cominciò ad ammucchiare le sue cose sul letto. Len uscì, passando davanti al giudice, percorse il corridoio, e scese le scale. Uscì dalla porta posteriore, e passando davanti alla cucina riuscì a vedere, attraverso la porta socchiusa, Amity curva sul tavolo, che singhiozzava disperatamente, e la signora Taylor che la fissava con un’espressione inorridita e strana, con una mano alzata, come se avesse voluto accarezzarla sulla spalla, ma si fosse improvvisamente fermata a metà e avesse dimenticato il gesto.
Len uscì dal cancello posteriore, evitando accuratamente il roseto.
Il sabato era una coltre silenziosa e pesante sulla comunità. Len percorse i vicoli, camminando frettoloso nella polvere. Non aveva idea di dove stesse andando, ma l’abitudine e la conformazione generale di Refuge lo portarono al fiume, e sui moli, là dove i quattro grandi magazzini di Dulinsky erano allineati. Si fermò là, incerto e imbronciato, e solo allora cominciò a comprendere che la situazione era cambiata radicalmente, per lui, nel giro di pochi minuti.
Il fiume scorreva verde come vetro di bottiglia, e tra gli alberi dell’altra riva i tetti di Shadwell scintillavano sotto il sole caldo. C’erano diversi battelli fluviali ormeggiati al molo. Gli uomini di quei battelli erano in città, o dormivano sottocoperta. Niente si muoveva, all’infuori del fiume, e delle nubi, e di un gattino che si divertiva a giocare da solo sul ponte di uno dei battelli. Alla sua destra, più avanti, c’era il grande rettangolo spoglio là dove sarebbe sorto il nuovo magazzino. Le fondamenta erano già state gettate. Tronchi e assi erano disposti in grandi pile precise, e c’era una segheria, sotto la quale si vedeva una montagnetta di segatura gialla. Due uomini, distanti tra loro, se ne stavano a oziare all’ombra. Len corrugò la fronte. Lo guardavano, come se fossero stati di guardia.
Forse era così. Il mondo era stupido, e pieno di gente stupida. Gente paurosa, che temeva di vedersi crollare addosso il cielo se anche una minima cosa fosse stata cambiata. Un mondo stupido. Lo odiava. Amity viveva in esso, e sempre in esso era nascosta Bartorstown, da qualche parte, in modo che nessuno potesse mai scoprirla, e la vita era oscura e piena di frustrazioni di ogni genere.
Stava ancora rimuginando tra sé tutti questi tenebrosi pensieri, quando Esaù arrivò sul molo.
Esaù portava le sue cose in un fagotto preparato frettolosamente, e il suo viso era rosso e minaccioso. Aveva il labbro tumefatto, da un lato. Gettò rabbiosamente il fagotto a terra, si mise davanti a Len, e dichiarò:
«Ho un paio di cose da sistemare con te.»
Len respirò forte dal naso. Non aveva paura di Esaù, e si sentiva così depresso e abbattuto che una rissa sarebbe stata accolta come un diversivo gradito. Non era alto come il cugino, ma aveva le spalle più larghe e massicce. Si mise in posizione, e attese.
«Perché ti è venuta voglia di andare via, e ci hai fatto sbattere fuori entrambi?» domandò Esaù.
«Io me ne sono andato. Tu sei stato sbattuto fuori.»
«Ho un bel cugino, io. Che cosa hai detto al vecchio Taylor, per fargli fare quello che ha fatto?»
«Niente. Non ne ho avuto bisogno.»
«Cosa intendi dire?»
«Non gli vai a genio, ecco cosa voglio dire. Non provocarmi a una rissa, se proprio non ne hai intenzione, Esaù.»
«Te la sei presa, eh? Be’, prenditela pure, e io ti dirò una cosa. E potrai riferirla al giudice. Nessuno potrà tenermi lontano da Amity. La vedrò tutte le volte che ne avrò voglia, e farò tutto quello che vorrò con lei, perché a lei vado a genio, piaccia o non piaccia a suo padre.»
«Sei un chiacchierone,» disse Len. «È l’unica cosa che sai fare, delle grandi chiacchiere e basta.»
«Starei zitto, se fossi in te,» disse Esaù, amaramente. «Se non fosse stato per te, non sarei mai partito da casa. Ci sarei anche adesso, forse avrei già tutta la fattoria, e una moglie, e dei bambini, se ne avessi voluto… non sarei un vagabondo che gira il paese alla ricerca di…»
«Silenzio!» ordinò perentoriamente Len.
«D’accordo, ma sai cosa voglio dire… e non so neppure dove andare a dormire, stanotte. Tu mi hai portato solo dei guai, Len, e adesso ne combini anche con la mia ragazza.»
Sopraffatto dall’indignazione, Len disse:
«Esaù, sei un maledetto, lurido bugiardo.»
Ed Esaù lo colpì.
Len si era infuriato a tal punto da dimenticare la sua posizione di guardia, e il colpo lo prese di sorpresa. Gli cadde il cappello, e sentì un intenso dolore allo zigomo. Respirò affannosamente, e avanzò verso Esaù. Si colpirono, e caddero avvinghiati sul molo, per qualche minuto, e d’un tratto Esaù disse:
«Smettila, smettila, sta arrivando qualcuno, e lo sai cosa ci aspetta, se scoprono che stiamo lottando di sabato.»
Si separarono, respirando affannosamente. Len raccolse il cappello, cercando di assumere un atteggiamento indifferente. Con la coda dell’occhio, vide che Mike Dulinsky e altri due uomini stavano arrivando sul molo.
«La finiremo più tardi,» bisbigliò a Esaù.
«Certo.»
Si misero da un lato. Dulinsky li riconobbe, e sorrise. Era un uomo grande e grosso, che tendeva alla pinguedine. Aveva degli occhi penetranti che parevano vedere ogni cosa, anche le cose più segrete, ma erano occhi freddi, che non si riscaldavano mai, neppure quando sorridevano. Len ammirava Mike Dulinsky, e lo rispettava. Ma non provava un affetto vero e proprio, per lui. I due uomini che lo accompagnavano erano Ames e Whinnery, entrambi proprietari di magazzini.
«Bene,» disse Dulinsky. «Siete venuti a dare un’occhiata al progetto?»
«Non proprio,» disse Len. «Noi… ehm… potremmo avere il permesso di dormire nell’ufficio, stanotte? Noi… noi non siamo più a pensione dai Taylor.»
«Oh?» disse Dulinsky, inarcando le sopracciglia. Ames fece un rumore ironico, che non era esattamente una risata. «Ma certo. Fate come se foste a casa vostra. Avete la chiave con voi? Bene. Venite, venite, signori.»
Si allontanò con Whinnery e Ames. Len raccolse il suo zaino, ed Esaù il suo fagotto, e s’incamminarono lungo il molo per raggiungere l’ufficio, un lungo capannone a due piani dove si svolgevano tutte le pratiche riguardanti i magazzini. Len aveva la chiave dell’ufficio, perché uno dei suoi compiti era quello di aprirlo, tutte le mattine. Mentre armeggiava intorno alla serratura, Esaù si voltò a guardare, e disse:
«Li ha accompagnati a vedere le fondamenta del magazzino. Non hanno l’aria troppo felice.»
Anche Len si voltò. Dulinsky stava agitando le braccia, e parlava animatamente, ma Ames e Whinnery sembravano preoccupati, e scuotevano ripetutamente il capo.
«Ci sarà bisogno di qualcosa di più di un discorso, per convincerli,» disse Esaù.
Len brontolò qualcosa, ed entrò. Pochi minuti più tardi, dopo avere riposto i pochi oggetti che possedevano in un armadietto vuoto, sentirono entrare qualcuno. Era Dulinsky, solo. Li fissò negli occhi, con espressione dura, e disse:
«Anche voi avete paura? Anche voi avete intenzione di voltarmi le spalle, e tagliare la corda?»
Non lasciò loro il tempo di rispondere, e indicò, con un breve cenno del capo, il molo, oltre la porta.
«Loro hanno paura. Anche loro vogliono costruire nuovi magazzini. Vogliono che Refuge cresca e li faccia diventare sempre più ricchi, ma non vogliono assumersi nessun rischio. Prima di agire, vogliono vedere che cosa succede a me. Bastardi. Ho tentato di convincerli che, se lavorassimo tutti uniti… Perché il giudice vi ha sbattuti fuori? È per causa mia?»
«Be’,» disse Len. «Sì.»
Esaù si voltò a fissarlo, sorpreso, ma non disse niente.
«Ho bisogno di voi,» disse Dulinsky. «Avrò bisogno di tutti gli uomini che potrò procurarmi. Spero che vogliate restare con me, ma non cercherò di trattenervi contro la vostra volontà. Se siete preoccupati, se avete paura, farete bene ad andarvene adesso.»
«Non so cosa ne pensi Len,» disse Esaù, sogghignando. «Ma io intendo restare.» Non pensava certamente ai magazzini, in quel momento.
Dulinsky si volse a fissare Len, che arrossì, e guardò il pavimento.
«Non lo so,» disse. «Non è che io abbia paura, ma può darsi che io voglia, semplicemente, abbandonare Refuge, e proseguire lungo il fiume.»
«Non dovrai pentirti di avere deciso di restare qui,» disse Dulinsky. «E non intendo forzarti.»
«Lo so che non intendete farlo,» disse Len, ostinato. «Ma desidero riflettere, prima di prendere una decisione, nell’uno o nell’altro senso.»
«Resta qui,» disse Dulinsky. «E diventerai ricco. Un mio bisnonno venne qui dalla Polonia, e non riuscì mai a diventare ricco perché tutto era già stato costruito. Ma ora c’è tutto da ricostruire, e il momento è quello giusto per ricominciare. Io intendo farlo, e diventare ricco. Lo so bene, quello che può averti detto il giudice. È un negativista. Ha paura di credere in qualcosa. Io no. Io credo nella grandezza di questo paese, e so che le catene arcaiche che ci tengono stretti devono essere spezzate, se questo paese dovrà di nuovo crescere. Le catene non si spezzeranno da sole. Qualcuno… uomini come me e come voi… dovrà farlo.»
«Sì, signore,» disse Len. «Ma desidero ugualmente riflettere.»
Dulinsky lo studiò per un attimo, e poi sorrise.
«Non ti convinci facilmente, vero? Non è una brutta cosa… Va bene, rifletti quanto vuoi.»
Poi se ne andò. Len guardò Esaù, ma la collera era scemata, ormai, e non se la sentiva di ricominciare la rissa. Disse:
«Vado a fare due passi.»
Esaù scrollò le spalle, e non lo seguì. Len camminò lentamente lungo i moli, pensando alle barche dirette a occidente, chiedendosi se tra esse alcune fossero segretamente dirette a Bartorstown, domandandosi quale senso avesse andare ciecamente da un luogo all’altro, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto, o potuto, fare. Raggiunse la fine del molo, e scese da esso, passando accanto al luogo nel quale sarebbe sorto il nuovo magazzino. I due uomini lo osservarono attentamente, fino a quando non si fu allontanato.
Forse non aveva pensato consciamente di prendere quella direzione, ma dopo qualche altro minuto di vagabondaggio senza mèta apparente, egli si ritrovò ai limiti del recinto dei mercanti, una vasta area di terra battuta, dove i carri erano allineati tra lunghe file di stalle e di recinti per le contrattazioni e di alloggi permanenti per gli uomini. Len andava spesso là, in parte perché il lavoro che svolgeva per Dulinsky lo richiedeva, ma c’era un motivo più profondo per questa sua preferenza. In quel luogo si udivano tutte le storie e le voci e i pettegolezzi delle grandi strade polverose, e a volte si udivano perfino notizie su Piper’s Run, e c’era la speranza inestinguibile di ascoltare, un giorno, la parola che aveva aspettato di udire per tanti e tanti mesi, per tanti anni.
Non aveva mai sentito niente. Non aveva mai visto neppure un volto familiare, in particolare quello di Hostetter, e questo era strano, perché lui sapeva che Hostetter andava regolarmente a sud, d’inverno, e avrebbe dovuto attraversare il fiume, in qualche punto. Len era stato a tutti i traghetti, ma Hostetter non era mai comparso. Spesso si era domandato, in quegli anni, se Hostetter fosse ritornato per sempre a Bartorstown, o se gli fosse accaduto qualcosa… se fosse morto come Soames, il mercante biondo.
Il recinto dei mercanti era silenzioso, ora, perché non si facevano affari di sabato, e gli uomini sedevano pigramente e chiaccheravano all’ombra, o erano da qualche parte, per assistere alle funzioni religiose del pomeriggio. Len li conosceva quasi tutti, almeno di vista, ed essi conoscevano lui. Si unì a loro, lieto di trovare compagnia per distrarre la propria mente, almeno per un momento, dai problemi che l’angustiavano. Alcuni di essi erano Nuovi Mennoniti. Len provava sempre una certa vergogna, quando era in mezzo a loro, e un senso di colpa, e un senso di nostalgia, perché gli riportavano alla memoria le tante cose care alle quali avrebbe preferito non pensare mai. Non aveva mai lasciato capire a nessuno che, un tempo, era stato uno di loro.
Parlarono per qualche tempo. Le ombre si allungarono, e un venticello fresco cominciò a soffiare dal fiume. Intorno si cominciò a sentire l’odore del fumo e del cibo che cuoceva, e Len ricordò che non sapeva dove andare a cena, ora che la casa del giudice Taylor gli era preclusa. Così domandò ai mercanti se poteva restare con loro.
«Certo, sei il benvenuto!» disse un Nuovo Mennonita che si chiamava Fisher. «Sai cosa ti dico? Se andassi a prendere un po’ di legna per il fuoco, sarebbe una cosa splendida.»
Len prese la carriola, e la spinse verso il confine del recinto, dove si trovavano le grandi cataste di legna. Per arrivare là, dovette passare accanto alle stalle. Riempì la carriola di legna da ardere, e si voltò, per ritornare dai mercanti. Quando ebbe raggiunto un certo punto, accanto alle stalle, le linee dei carri lo nascosero, rendendolo invisibile dagli alloggi e dagli uomini, che erano in quel momento tutti affaccendati intorno ai fuochi. Le stalle erano buie. Un odore caldo di cavalli usciva da esse, insieme al rumore quieto, regolare, delle grandi mandibole che ruminavano.
Dall’oscurità uscì anche una voce, una voce che pronunciò il suo nome.
«Len Colter.»
Len si fermò.
Era una voce soffocata e frettolosa, quella, molto acuta, e insistente. Si guardò intorno, ma non riuscì a vedere niente. Doveva venire dalle stalle, o da uno dei carri.
«Non cercarmi, a meno che tu non voglia metterci entrambi nei guai,» disse la voce. «Devi solo ascoltare. Ho un messaggio per te, da parte di un amico. Mi ha detto d’informarti che non troverai mai quello che cerchi. Ti dice di ritornare a casa, a Piper’s Run, e di vivervi in pace. Ti dice…»
«Hostetter,» bisbigliò Len. «Siete Hostetter?»
«…di andare via da Refuge. Ci sarà un bagno di fuoco, e tu vi brucerai. Vattene, Len. Torna a casa. E adesso continua a camminare, come se nulla fosse accaduto.»
Len ricominciò a camminare. Ma disse, nell’oscurità delle stalle, con un grido soffocato di trionfo, quasi di esultanza:
«Voi sapete che esiste un solo luogo dove voglio andare! Se volete che io lasci Refuge, dovrete portarmi là.»
La voce rispose, con un sospiro sommesso:
«Ricorda la notte della predica. Non potrai sempre essere salvato.»
Due settimane dopo, l’intelaiatura del nuovo magazzino aveva già preso forma, e gli uomini cominciavano a lavorare sul tetto. Len lavorava dove gli veniva ordinato, a volte nella squadra dei lavori, altre volte in ufficio, quando le carte si ammucchiavano oltre il limite di guardia. Faceva questo in uno stato di continua eccitazione, e di grande tensione, eseguendo gran parte dei movimenti e dei gesti meccanicamente, con la mente concentrata su altre cose. Era come un uomo che fosse in attesa del verificarsi di un’esplosione.
Aveva traslocato in una baracca, nella sezione dei mercanti, lasciando Esaù unico proprietario della soffitta di Dulinsky. Ogni minuto libero lo trascorreva là, nella sua baracca, dimenticando quasi completamente Amity, dimenticando totalmente ogni cosa, a eccezione della speranza che adesso, da un momento all’altro, dopo tutti quegli anni, le cose avrebbero potuto sistemarsi nel modo che lui desiderava. Ripeteva mentalmente, mille e mille volte, ogni parola che la voce aveva detto, cercando di comprenderne i riposti significati, cercando di trarne ogni possibile scintilla di speranza. Riascoltava quella voce e quelle parole nei suoi sonni leggeri e inquieti. E non avrebbe lasciato Refuge, né Dulinsky, ora, per nessun motivo al mondo.
Sapeva che c’era un pericolo. Cominciava a respirarlo nell’aria, e a leggerlo sui volti di alcuni uomini che passavano di là, a osservare i lavori, sempre più di frequente mano a mano che i grandi tronchi del magazzino venivano sistemati al loro posto. C’erano troppi stranieri tra loro. La campagna, intorno a Refuge, era popolosa e prospera, buona terra coltivabile, le cui fattorie erano solo in minima parte abitate da Nuovi Mennoniti. Nei giorni di mercato c’erano sempre dei contadini nella comunità, e i predicatori di campagna e i mercanti andavano e venivano, ed era evidente che la notizia si stava propagando ovunque. Len sapeva di correre un grosso rischio, lo sapeva bene, e sapeva di non comportarsi correttamente, forse, nei confronti di Hostetter… se era stata proprio sua la voce… che aveva corso il rischio di farsi scoprire, per dargli quell’avvertimento. Ma era fieramente determinato a rimanere là. Non se ne sarebbe andato. Di questo ne era certo, e nessuno, nessuno avrebbe potuto cambiare la sua decisione.
Era molto in collera con Hostetter, e con gli uomini di Bartorstown.
Ormai era più che evidente che essi dovevano avere saputo fin dal primo momento dove si trovavano lui ed Esaù, dopo la loro partenza da Piper’s Run. Lo avevano sempre saputo, certo. Ripensandoci, ricordava ora che in più di una decina di occasioni qualche mercante era capitato provvidenzialmente sulla loro strada, aiutandoli a tirarsi fuori da qualche situazione spiacevole, e adesso era sicuro che quei casi non erano stati fortuiti. Ed era altrettanto sicuro che il suo mancato incontro con Hostetter, il fatto che lui non avesse mai più visto il mercante da quel giorno a Piper’s Run, dovevano essere fatti ancor meno casuali. Hostetter li aveva deliberatamente evitati, e probabilmente gli uomini di Bartorstown avevano rinunciato all’uso delle comodità offerte da certe comunità e da certi villaggi, quando i cugini Colter si erano trovati in quei posti. Era stato per questo, e solo per questo, che essi avevano cercato così alacremente, per tanti anni, senza riuscire a trovare alcun indizio. Hostetter sapeva benissimo che, in tutti quegli anni, gli uomini di Bartorstown avevano fatto di tutto per impedire ai due giovani di coltivare qualsiasi speranza, per soffocare il loro desiderio di scoprire la loro città, per allontanarli da quello che era stato il loro obiettivo. E, nello stesso tempo, gli uomini di Bartorstown avrebbero potuto facilmente, in qualsiasi momento, prenderli e portarli là dove essi desideravano andare. Len si sentiva come un bambino che scopre di essere stato ingannato dagli adulti. Avrebbe voluto trovare Hostetter, mettergli addosso le mani.
Non aveva detto nulla a Esaù. Aveva completamente taciuto l’avvertimento, la voce, le conclusioni che aveva raggiunto. Il suo affetto per Esaù era molto diminuito. Non si fidava completamente di lui. Pensava che ci sarebbe stato tutto il tempo per parlarne in seguito, e nel frattempo tutti erano più al sicuro, compreso Esaù, se Len avesse tenuto la bocca chiusa, e non avesse rivelato ad altri il suo segreto.
Len rimase nell’ambiente dei mercanti, senza fare domande, senza dire niente, tenendosi semplicemente pronto, là, con le orecchie tese e gli occhi aperti. Ma non vide nessuno che lui conoscesse, e nessuna voce segreta gli parlò furtivamente dall’ombra, dopo quella sera. Se si trattava di Hostetter, il mercante, questi non si faceva vedere. Si teneva nascosto, e bene, perché non c’era alcuna traccia della sua presenza a Refuge.
Ed era molto, molto difficile che qualcuno come Hostetter potesse rimanere nascosto a Refuge. Len decise che, se si trattava veramente di Hostetter, egli doveva trovarsi sull’altra riva del fiume, a Shadwell. E immediatamente Len provò il desiderio fortissimo di andare là. Forse, lontano dalle persone che lo conoscevano troppo bene, il mercante avrebbe tentato di stabilire un nuovo contatto.
Non aveva nessuna scusa per andare a Shadwell, ma non impiegò molto tempo a trovarne una. Una sera, mentre aiutava Dulinsky a chiudere l’ufficio, disse:
«Ho pensato che non sarebbe una cattiva idea andare a Shadwell, a sentire qual è l’opinione corrente su quello che state facendo. Dopotutto, se riuscite nel vostro intento, toglierete loro il pane di bocca. Potrei andare io a controllare.»
«Lo so benissimo, quello che pensano,» disse Dulinsky. Chiuse violentemente un cassetto, e guardò dalla finestra la nera intelaiatura della costruzione che sorgeva sullo sfondo azzurro del cielo. Dopo un momento, aggiunse, «Oggi ho visto il giudice Taylor.»
Len aspettò. In quei giorni, era sempre irascibile e nervoso. Gli sembrò che trascorressero delle ore, prima che Dulinsky decidesse di proseguire la frase.
«Mi ha detto che, se non mi fermerò nella costruzione, lui e le autorità della comunità mi arresteranno, insieme a tutti coloro che lavorano con me.»
«Pensate che lo faranno?»
«Gli ho ricordato, con una certa forza, che non ho violato nessuna legge locale. Il Trentesimo Emendamento è una legge federale, un campo nel quale lui non ha alcuna giurisdizione.»
«Che cosa ha risposto?»
Dulinsky si strinse nelle spalle:
«Quello che mi aspettavo. Se io non obbedissi all’ingiunzione, lui seguirebbe la solita prassi. Notificherebbe subito la cosa alla corte federale nel Maryland, chiedendo di essere investito dell’autorità necessaria, o, in via subordinata, chiedendo l’invio di un ufficiale federale qui a Refuge.»
«Oh, be’,» disse Len, «Per questo ci vorrà del tempo. E l’opinione della gente…»
«Sì,» disse Dulinsky. «L’opinione della gente è la mia unica speranza. E Taylor lo sa. Gli anziani lo sanno. Il vecchio Shadwell lo sa. Questa faccenda non aspetterà l’arrivo di qualche giudice federale del Maryland. Sarà risolta prima.»
«Otterrete la maggioranza all’adunanza di domani sera,» disse Len, con fiducia. «Refuge ce l’ha con Shadwell, che le toglie buona parte degli affari. La gente è in gran parte con voi.»
Dulinsky borbottò:
«Forse non è un’idea malvagia, la tua… quella di andare a Shadwell. L’adunanza è importante. A seconda del suo esito, avrò successo oppure cadrò, e se Shadwell si prepara a venire qui, per procurarmi dei guai, voglio saperlo. Ti darò qualche incarico da sbrigare, ufficialmente, in modo da non dare troppo l’impressione di essere andato là a spiare. Non fare domande, limitati a vedere quello che puoi raccogliere. Oh, e non portare con te Esaù.»
Len non ne aveva avuto alcuna intenzione, ma domandò:
«Perché no?»
«Tu hai il fegato e l’intelligenza sufficienti per tenerti fuori dai guai. Lui no, sfortunatamente. Sai dove passa la notte, di solito?»
«Be’,» disse Len, sorpreso. «Qui, suppongo. Perché?»
«Forse. Lo spero. Prendi il traghetto del mattino, Len, e torna nel primo pomeriggio. Voglio che tu sia qui per l’adunanza. Ho bisogno di tutte le voci che possano gridare Viva Mike!»
«Va bene,» disse Len. «Buonanotte, signor Dulinsky.»
Camminò sul molo, lentamente, passando accanto al nuovo magazzino. Di là veniva un profumo di legno nuovo, e la massa era robusta e piacevole alla vista, dava l’impressione di qualcosa di concreto, di solido. Len pensava che costruire era una cosa molto buona. Per il momento, era d’accordo con Dulinsky. Condivideva le sue idee, a quel riguardo, con tutta la forza di cui era capace.
Una voce lo chiamò, dall’ombra di una pila di travi, intimandogli di fermarsi, e lui disse:
«Salve, Harry, niente paura… sono io.»
Proseguì per la sua strada. Ora gli uomini di guardia erano diventati quattro. Erano armati di robusti bastoni di legno, e dei fuochi ardevano per tutta la notte, illuminando il perimetro della costruzione. Capiva bene quello che provava Mike Dulinsky: l’uomo veniva spesso là, come se fosse stato troppo inquieto per dormire.
Neppure Len riuscì a dormire bene, quella notte. Rimase alzato, chiacchierando del più e del meno, dopo cena, e poi andò a letto, ma pensava al giorno dopo, pensava che al mattino avrebbe percorso Shadwell per raggiungere il recinto dei mercanti, e vi avrebbe trovato Hostetter, Sì, sarebbe andata proprio così. Lui avrebbe avvicinato Hostetter, con calma, e gli avrebbe detto qualcosa, qualcosa di non compromettente, ma che l’altro avrebbe capito. E Hostetter avrebbe annuito, dicendo, «Va bene, va bene, è inutile continuare a ostacolarti. Ti porterò dove vuoi andare. Hai vinto, Len.» Quella scena continuava a ripetersi nella sua mente, e lui sapeva bene che si trattava di una di quelle cose che si sognavano quando si era bambini, e ancora non si sapeva nulla sulla realtà. Poi cominciò a pensare a Dulinsky, che si era chiesto dove avesse passato tutte le notti Esaù, e allora il sonno scomparve. Anche Len desiderava una risposta a quella domanda.
Pensò di saperla, quella risposta. Ed era sorprendente notare quale forza avesse quel pensiero. Lui si era detto e ripetuto che Amity non aveva importanza. E allora, perché era così turbato?
Si alzò, allora, e uscì nella notte calda. Il recinto dei mercanti era buio e silenzioso, un silenzio rotto soltanto da qualche tonfo che giungeva dalle stalle, il movimento pesante e sonnolento dei grandi cavalli. Attraversò il recinto, e risalì le strade sonnolente del paese, prendendo deliberatamente la strada più lunga, per non passare accanto al nuovo magazzino. Non aveva alcun desiderio di fermarsi a scambiare qualche parola con le guardie.
La strada più lunga lo portava a passare accanto alla casa del giudice Taylor. Là non si muoveva nulla, e nessuna luce trapelava dalle finestre. Individuò la finestra della camera di Amity, e poi provò un senso di vergogna, e si allontanò, dirigendosi ai moli.
La porta dell’ufficio di Dulinsky era chiusa, ma ora anche Esaù aveva la chiave, e questo non significava nulla. Len esitò. L’effluvio umido del fiume era forte nell’aria, un presagio di pioggia, e il cielo era rannuvolato. I fuochi dei guardiani ardevano, più lontano, lungo l’argine. C’era molto silenzio, e, stranamente, l’ufficio aveva l’aria di un edificio vuoto. Len aprì la porta, usando la sua chiave, ed entrò.
Esaù non c’era.
Len rimase immobile, per diversi secondi, dapprima pervaso da una collera cupa e sorda, poi calmandosi, gradualmente, provando un senso di disgusto e di disprezzo per la stupidità di Esaù. In quanto ad Amity, se era quello che lei voleva, poteva accomodarsi ed essere felice. Lui non era in collera. Non molto, almeno.
La branda di Esaù era intatta: nessuno l’aveva toccata. Len sollevò la coperta, piegandola con cura. Mise gli stivali di ricambio di Esaù sotto il bordo della branda, raccolse una camicia sporca e l’appese con cura a un chiodo. Poi accese la lampada, accanto al letto di Esaù, la regolò in modo che la fiammella ardesse al minimo, e la lasciò accesa. Poi uscì, lasciando la porta dell’ufficio chiusa a chiave.
Era molto tardi, quando rientrò nel recinto dei mercanti. Malgrado ciò, rimase per molto tempo seduto sul gradino della sua baracca, guardando la notte e pensando. Pensieri pieni di solitudine.
Al mattino, egli si fermò in ufficio, per prendere la lettera che Dulinsky aveva preparato per giustificare il suo viaggio a Shadwell, ed Esaù era là, con un volto così grigiastro, livido e vecchio che Len provò, quasi, un senso di compassione per lui.
«Cosa ti succede?» domandò.
Esaù rispose con una specie di brontolio minaccioso.
«Mi sembri spaventato a morte,» disse Len, deliberatamente. «Qualcuno ti ha minacciato, per il magazzino?»
«Bada agli affari tuoi, accidenti a te!» ringhiò Esaù, e Len sorrise interiormente. Che sudasse, che sudasse copiosamente. Certo si domandava chi fosse stato là, durante la notte, quando lui era stato dove non avrebbe dovuto essere. E si doveva tormentare, chiedendosi chi fosse al corrente… e quali fossero le sue intenzioni. La paura gli avrebbe fatto bene.
Scese al molo più vicino, e prese il traghetto, un grande battello piatto e massiccio con una specie di cassero che proteggeva il motore a vapore e la legna che lo alimentava. Una pioggia insistente, uggiosa, aveva cominciato a cadere, e la riva opposta era nascosta dalla nebbia. Un mercante diretto a sud, con un carico di lana e di pelli conciate, stava attraversando il fiume a sua volta. Len lo aiutò a guidare i cavalli, e poi sedette con lui sul carro, ricordando quali cose magiche fossero stati i carri quando lui era stato un ragazzo. La Fiera di Canfield pareva qualcosa di strano, lontana un milione di anni. Il mercante era un uomo magro, con una barba biondiccia, che gli ricordava molto Soames. Rabbrividì, e abbassò lo sguardo, fissando il fiume, là dove le acque lente e imperiose scorrevano eternamente verso occidente. Una lancia stava risalendo la corrente, a fatica, tra grandi spruzzi di schiuma. La lancia salutò con un ululato lamentoso della sirena il traghetto, e il traghetto rispose, e poi da oriente una terza voce parlò, e una processione di chiatte discese lentamente, a buona distanza da loro, chiatte cariche di carbone che scintillava lucido e nero sotto la pioggia.
Shadwell era un centro piccolo, e nuovo, e primitivo, in un certo senso, e cresceva così in fretta che dovunque si girasse lo sguardo si vedevano degli edifici in costruzione. Il porto era tutto un ronzio di attività, e su una collinetta, dietro i moli, la grande casa di Shadwell se ne stava torva, a guardare lo scenario con i suoi occhi di vetro.
Len s’incamminò lentamente verso l’ufficio del magazzino al quale era destinata la sua lettera. Molti degli uomini che avrebbero dovuto essere impegnati nelle costruzioni, quel mattino, non erano al lavoro, a causa della pioggia. C’era una piccola squadra di operai, riunita sul portico di un negozio. Len ebbe l’impressione di venire osservato con troppa attenzione, ma probabilmente questo era dovuto al fatto che lui era uno straniero disceso dal traghetto. Entrò nell’ufficio, e consegnò la lettera a un ometto piccolo e anziano che si chiamava Gerrit, che la lesse frettolosamente e poi squadrò Len, come se fosse stato un animale viscido, uscito strisciando dalla fanghiglia delle acque basse della riva.
«Potete dire a Mike Dulinsky,» disse, «Che io seguo le parole del Buon Libro, che mi proibiscono di avere commercio con gli uomini empi e gli operatori d’iniquità. E in quanto a voi, vi suggerisco di fare lo stesso. Ma voi siete giovane, e i giovani sono sempre amici del peccato, così non sprecherò il fiato. Andatevene».
Gettò la lettera in un cestino dei rifiuti, e voltò le spalle a Len. Len si strinse nelle spalle, e uscì dall’ufficio. Attraversò la piazza fangosa, diretto al recinto dei mercanti. Uno degli uomini, sotto il portico del negozio, scese i gradini, e con aria distratta si avvicinò all’ufficio di Gerrit. Stava piovendo più forte, ora, e rivoletti di acqua giallastra scorrevano dappertutto sul terreno nudo.
C’erano moltissimi carri nel recinto, ma nessuno di loro portava sul tendone il nome di Hostetter. Quasi tutti gli uomini erano al riparo, a causa della pioggia. Non vide nessuno che conosceva, e nessuno gli rivolse la parola. Dopo qualche tempo, voltò le spalle ai carri, e tornò indietro.
La piazza era piena di uomini. Erano in piedi sotto la pioggia, e l’acqua gialla e fangosa si muoveva intorno ai loro stivali, ma a loro pareva indifferente. Tutti guardavano dalla stessa parte… tutti guardavano Len.
Uno di loro disse:
«Voi siete di Refuge».
Len annuì.
«Lavorate per Dulinsky».
Len si strinse nelle spalle, e fece per passare oltre.
Altri due uomini si misero ai suoi fianchi, e gli afferrarono le braccia. Lui cercò di liberarsi, ma essi lo tennero stretto, uno da ciascun lato, e quando cercò di divincolarsi scalciando, gli bloccarono anche le gambe.
Il primo uomo disse:
«Abbiamo un messaggio per Refuge. Potete riferirlo voi. Non lasceremo che prendano ciò che è nostro di diritto. Se non ci penseranno loro a fermare Dulinsky, lo fermeremo noi. Siete capace di ricordare il messaggio?»
Len lo guardò freddamente, ma era spaventato. Non disse niente.
«Fateglielo ricordare, ragazzi,» disse il primo uomo.
I due uomini che lo tenevano stretto furono raggiunti da altri due. Insieme, costrinsero Len ad abbassarsi, con il viso nel fango. Lui si rialzò, e quando fu di nuovo sulle mani e sulle ginocchia, essi lo colpirono con calci precisi, freddi e violenti, gettandolo di nuovo nel fango, poi afferrandolo per le braccia e costringendolo a girarsi. Poi qualcun altro lo prese, e un altro, e un altro ancora, sballottandolo e colpendolo per tutta la piazza, in un silenzio innaturale, rotto soltanto da grugniti dovuti allo sforzo: nessuno gli fece veramente male, ma nessuno gli diede la possibilità di reagire. Quando ebbero finito, se ne andarono, e lo lasciarono, stordito e ansante, seduto nel fango, con la bocca piena di fango e di acqua. Riuscì a rimettersi in piedi, allora, e si guardò intorno, ma ora la piazza era deserta. Scese al traghetto, e salì a bordo, benché la partenza fosse ancora lontana. Era fradicio e intirizzito, e tremava, anche se non avvertiva un vero e proprio senso di freddo.
Il capitano del traghetto era nato a Refuge. Aiutò Len a pulirsi, e gli diede una coperta, prendendola dalle proprie provviste. Poi Len guardò le strade di Shadwell.
«Li ammazzo,» disse Len. «Giuro che li ammazzo.»
«Certo,» disse il capitano del traghetto. «E vi dirò una cosa. Sarà meglio che non vengano a Refuge a provocare guai, altrimenti si accorgeranno che cosa significa andare in cerca di guai».
Nel primo pomeriggio la pioggia cessò di cadere, e alle cinque, quando il traghetto si ormeggiò di nuovo a Refuge, il cielo si stava già rasserenando. Len andò subito da Dulinsky, a raccontare quello che era accaduto, e Dulinsky assunse un’espressione grave e scosse il capo.
«Mi dispiace, Len,» disse. «Avrei dovuto saperlo. Non avrei dovuto permetterti di fare questo».
«Ebbene,» disse Len, «Non mi hanno fatto alcun male, in realtà, e adesso voi sapete come stanno le cose. Certamente verranno qui, all’adunanza. Potete scommetterci».
Dulinsky annuì. I suoi occhi cominciarono a brillare, di quella sua fiamma fredda, e poi egli si fregò le mani.
«Forse è quello che volevamo,» disse. «Presto, va’ a cambiarti e a mangiare qualcosa. Ci vediamo dopo».
Len s’incamminò verso la baracca che era diventata la sua casa, ma Dulinsky lo aveva già preceduto, e tutti i moli erano pieni di uomini di guardia, e le guardie del nuovo magazzino erano state raddoppiate.
Nel recinto dei mercanti, Fisher vide Len, gli si avvicinò, e domandò, apprensivo:
«Cosa è successo, Len?»
«Ho avuto dei guai con quelli di Shadwell,» rispose Len, ancora troppo in collera per provare il desiderio di parlarne. Entrò nella sua baracca, e chiuse la porta, e cominciò a spogliarsi, togliendosi gli abiti che erano diventati duri e impastati, per il fango rappreso.
E per tutto il tempo, continuò a porsi delle domande.
Si domandò se Hostetter lo avesse abbandonato. E si domandò inoltre se Hostetter, o chiunque altro, fosse stato realmente in grado di fare qualcosa, quando il momento sarebbe venuto. Ricordò la voce, che aveva detto qualcosa… qualcosa sul fatto che non sempre lui avrebbe potuto essere salvato.
Quando si fece buio, uscì dalla baracca, e si avviò verso la piazza del paese, per partecipare all’adunanza.
La piazza principale di Refuge era vasta ed erbosa, con alberi che mandavano ombra durante l’estate. La chiesa, austera e spoglia e autoritaria, dominava la piazza dal lato settentrionale. Sui lati orientale e occidentale c’erano edifici più piccoli, magazzini, case, una scuola, sul lato meridionale sorgeva il municipio, non proprio alto come la chiesa, ma più largo, pieno di ali che ospitavano le aule del tribunale, gli archivi, i numerosi uffici necessari a condurre ordinatamente la vita di un paese di quelle dimensioni. I negozi e gli edifici pubblici erano chiusi, ora, immersi nel buio, e Len notò che diversi bottegai avevano abbassato le serrande.
La piazza era piena di gente: sembrava che ci fossero tutti gli uomini e le donne di Refuge, in piedi sull’erba umida, oppure in movimento da un capannello all’altro, chiacchierando con i vicini, e non soltanto gli abitanti di Refuge erano là, ma altri, contadini venuti dalla campagna, un manipolo di Nuovi Mennoniti. Una specie di pulpito era stato eretto al centro della piazza. Era una costruzione permanente, e veniva usata soprattutto dai predicatori ospiti, per pubbliche preghiere all’aperto, ma anche gli uomini politici se ne servivano, durante le elezioni locali o nazionali. Mike Dulinsky intendeva servirsene, quella sera. Len ricordò quello che gli aveva narrato la nonna, sui vecchi tempi, quando un oratore poteva parlare a tutti i cittadini del paese, attraverso le scatole della tivù, nello stesso momento, e si chiese con un brivido di eccitazione se quella notte non fosse stata l’inizio della lunga strada del ritorno a quel tipo di mondo… Mike Dulinsky, che parlava a un manipolo di persone, in un villaggio chiamato Refuge, sull’oscuro Ohio. Aveva letto a sufficienza i libri di storia del giudice Taylor per sapere che a volte le cose accadevano proprio così: una piccola causa provocava grandi effetti. Il suo cuore cominciò allora a battere più veloce, ed egli cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro, deciso a fare in modo che Dulinsky potesse parlare, malgrado qualsiasi ostacolo o qualsiasi impedimento.
Il predicatore, fratello Meyerhoff, uscì dalla porta laterale della chiesa. Quattro diaconi erano con lui, insieme a un quinto uomo che Len non riconobbe fino a quando il piccolo gruppo non fu entrato nel circolo di luce prodotto da uno dei falò che ardevano nella piazza. Il quinto uomo era il giudice Taylor. Essi proseguirono, e Len li smarrì tra la folla, ma era sicuro che essi fossero diretti al palco degli oratori. Li seguì, allora, lentamente. Era a metà strada, ormai, sull’erba umida e nello spazio aperto, quando Mike Dulinsky giunse dall’altro lato, e ci fu un’animazione improvvisa, un generale avvicinarsi al centro, e la folla si ammassò, improvvisamente, tanto che per passare lui fu costretto a spingere. C’erano sei uomini con Dulinsky, che portavano delle lanterne all’estremità di lunghi pali. Sistemarono i pali in circolo, intorno al palco degli oratori, in modo che formassero una colonna di luce nel buio. Dulinsky salì sul podio, e cominciò a parlare.
Qualcuno tirò la manica di Len, ed egli si voltò. Era Esaù, che gli faceva cenno di uscire dalla folla.
«Ci sono delle barche sul fiume,» disse Esaù, quando furono in disparte, dove nessuno poteva udirli. «Vengono da questa parte. Avvertilo tu, Len, io devo ritornare ai moli». Si guardò intorno, furtivamente. «Hai visto Amity?»
«Non l’ho vista. C’è il giudice».
«Oh, Signore,» disse Esaù. «Ascolta, io devo andare. Se vedi Amity, dille che non ci sarò, per un po’ di tempo. Lei capirà».
«Davvero? Credevo che ti vantassi di non lasciarti…».
«Oh, fa’ silenzio. Di’ a Dulinsky che stanno arrivando. E sta attento, Len. Non metterti nei guai più di quanto non sia necessario».
«A me sembra che quello nei guai sia un altro… tu, per l’esattezza,» disse Len. «Se non vedo Amity, riferirò il messaggio a suo padre, che ne dici?»
Esaù imprecò, e sparì nell’oscurità. Len cominciò di nuovo ad attraversare la folla. Erano tutti in silenzio, ascoltavano, con espressione grave e occhi intenti. Dulinsky stava parlando con appassionata sincerità. Era il suo momento, quello, e intendeva sfruttarlo completamente, e dire tutto quello che aveva da dire.
«…questo è accaduto ottant’anni or sono. Ora nessun pericolo ci minaccia, perché dovremmo continuare a vivere sotto l’ombra di una paura che non ha più alcuna ragione?»
Un mormorio a metà soffocato e a metà ansioso percorse la folla. Dulinsky non lo lasciò spegnere.
«Ve lo dirò io il perché!» gridò. «È perché i Nuovi Mennoniti sono saliti in sella, e hanno sempre tenuto il governo fin da allora. Essi non amano la crescita, non amano il cambiamento. Il loro credo rifiuta entrambe le cose, e non solo il loro credo, ma anche la loro avidità. Sì, ho detto avidità! Essi sono contadini. Non vogliono vedere i centri di commercio, come Refuge, diventare ricchi e grassi, non vogliono una concorrenza sul mercato, e soprattutto non vogliono che gente come noi li faccia alzare dai loro comodi sedili al Congresso, là dove essi possono fare tutte le leggi. Così ci proibiscono di costruire un nuovo magazzino, quando noi ne abbiamo bisogno. Ora credete che questo sia onesto, giusto, o santo? Voi, fratello Meyerhoff, credete che i Nuovi Mennoniti debbano dirci sempre come dobbiamo vivere, o anche la nostra Chiesa della Santa Riconoscenza dovrebbe poter dire una parola in merito?»
Il fratello Meyerhoff rispose:
«Non si tratta di loro o di noi. Si tratta di voi, Dulinsky, e voi state bestemmiando!»
Un coro di voci, in prevalenza femminili, approvò quelle parole. Len si spinse fino ai piedi del palco. Dulinsky si sporgeva, guardando Meyerhoff. C’erano delle goccioline di sudore sulla fronte dell’uomo.
«Io sto bestemmiando?» domandò. «Ditemi in qual modo».
«Voi siete stato in chiesa. Voi avete letto il Libro, e avete ascoltato i sermoni. Voi sapete che l’Onnipotente ha ripulito la terra dalle città, e ha ordinato ai Suoi figli da Lui salvati di seguire sempre le vie della giustizia, di amare le cose dello spirito e non le cose della carne! Nelle parole del profeta Nahum…»
«Ma io non voglio costruire una città,» disse Dulinsky. «Io voglio costruire un magazzino».
Ci furono delle risatine nervose, subito soffocate. Il viso di Meyerhoff era scarlatto, sopra la barba. Len salì i gradini, e parlò brevemente a Dulinsky, che annuì. Len scese di nuovo. Avrebbe voluto dire a Dulinsky di lasciare in pace i Nuovi Mennoniti, ma non osava farlo, per paura di rivelarsi.
«Chi,» domandò Dulinsky a Meyerhoff, «Vi ha parlato di città?» Fece una pausa, e poi puntò il braccio, drammaticamente, «Siete stato voi, giudice Taylor?»
Nel chiarore delle lanterne, Len vide che il volto del giudice Taylor era stranamente pallido e sofferente. La sua voce, quando egli parlò, era calma, ma risuonò per tutta la piazza.
«C’è un emendamento nella Costituzione degli Stati Uniti che vi proibisce di fare questo. Non ci sono discorsi che potranno cambiare questo, Dulinsky».
«Ah!» disse Dulinsky, in tono soddisfatto, come se il giudice Taylor fosse caduto in una trappola. «Ma è qui che sbagliate! Sono i discorsi, esattamente, quelli che potranno cambiarlo! Se parleranno abbastanza persone, e se parleranno abbastanza a lungo e abbastanza forte, l’emendamento verrà cambiato, in modo che un uomo possa costruire un magazzino, se ne ha bisogno per riparare della farina o delle pelli, o una casa, se ne ha bisogno per mettere al riparo la sua famiglia». Alzò ancora la voce, gridando, «Pensate a questo, gente! I vostri figli sono costretti a lasciare Refuge, e molti altri dovranno andarsene, perché non possono costruire altre case, quando si sposano. Ho ragione?»
Ottenne molti consensi, a quella domanda. Dulinsky sogghignò. Ai margini oscuri della folla apparve un uomo, poi un altro e un altro ancora. Venivano dal fiume.
E Meyerhoff disse, con voce che vibrava di collera:
«In tutte le epoche, sempre, gli increduli hanno preparato la via al male».
«Forse,» disse Dulinsky. Stava guardando oltre la testa di Meyerhoff, ai margini della folle. «E sono disposto ad ammettere di essere un incredulo». Diede un’occhiata a Len, il segnale convenuto, mentre la folla ammutoliva, sbalordita da quelle parole. Poi egli continuò, in fretta, e con calma:
«Sono un incredulo, perché non credo nella povertà, nella fame, nella miseria. Non conosco nessuno che creda in queste cose, a parte i Nuovi Ismaeliti, ma non ricordo neppure che essi abbiano avuto grande considerazione presso di noi. Anzi, se ricordate, fummo noi a scacciarli dalle nostre terre. Non credo, non crederò mai che un bambino sano e normale debba essere legato con robuste cinghie, per impedirgli di diventare più alto di quanto qualcuno creda sia opportuno. Io…»
Il giudice Taylor passò accanto a Len, e salì i gradini del palco. Dulinsky parve sorpreso, e si fermò nel bel mezzo della frase. Taylor lo incenerì con uno sguardo ardente, e disse:
«Un uomo può fare qualsiasi cosa con le parole». Si rivolse alla folla. «Io vi darò dei fatti, e vedremo poi se Dulinsky riuscirà a cancellarli con le parole. Se voi violate la legge che limita l’espansione della comunità, non influenzerete soltanto Refuge. L’influenza si estenderà a tutta la campagna che la circonda. Ora, i Nuovi Mennoniti sono gente pacifica e laboriosa, e il loro credo proibisce di ricorrere alla violenza. Essi seguiranno le vie prescritte dalla legge, anche se si tratta di vie lente e difficili. Ma ci sono altre sette nella campagna, e il loro credo è diverso. Essi pensano che sia loro dovere impugnare la falce del Signore».
Tacque, e nel silenzio Len avvertì l’ansia della folla.
«Sarà meglio che voi pensiate a quello che state facendo, e non solo una volta,» disse Taylor, «Prima di spingerli a brandire quella falce contro di voi».
Ci furono degli applausi, dai margini della folla. Dulinsky domandò, in tono sprezzante:
«Di che cosa avete paura, giudice… dei contadini, o degli uomini di Shadwell?» Si sporse dalla balaustra, e fece un ampio cenno. «Venite qui, gente di Shadwell, venite dove possiamo vedervi. Non dovete avere paura, siete gente coraggiosa. Ho un ragazzo, qui, che ha conosciuto tutto il vostro coraggio. Len, vieni un momento qui.»
Len obbedì, evitando lo sguardo del giudice Taylor. Dulinsky lo condusse fino alla balaustra.
«Alcuni di voi conoscono Len Colter. Io l’ho mandato questa mattina a Shadwell, per affari. Volete dirci qual è stata l’accoglienza che gli avete riservata, gente di Shadwell, oppure vi vergognate?»
La folla cominciò a brontolare, e a voltarsi.
«Cosa succede?» gridò una voce rude e profonda, dai margini della piazza. «Non gli è piaciuto il sapore del fango di Shadwell?» Gli uomini di Shadwell risero tutti, e poi un’altra voce, una che Len ricordava troppo bene, lo chiamò, dicendo, «Gli avete riferito il messaggio?»
«Sì,» disse Dulinsky. «Di’ alla nostra gente quel messaggio, Len. Parla forte, in modo che tutti possano ascoltare».
Il giudice Taylor disse improvvisamente, a bassa voce, tra i denti:
«Rimpiangerete questa notte». Scese di corsa i gradini.
Len guardò le ombre, irato.
«Intendono fermarvi,» disse alla gente di Refuge. «Quelli di Shadwell vi impediranno di crescere. È per questo che sono qui, stanotte». La sua voce salì ancora di un’ottava, fin quasi a incrinarsi. «Non m’importa sapere chi abbia paura di loro,» disse. «Io no!» Scavalcò la balaustra, lanciandosi sul terreno, e avanzò, tra la folla. Tutta la collera impotente che aveva provato durante l’umiliante scena del mattino era ritornata su di lui, cento volte moltiplicata, ora, e non gli importava realmente sapere quello che avrebbero fatto gli altri, o quello che sarebbe accaduto a lui. Si aprì un varco tra la folla, e poi la strada fu improvvisamente aperta, davanti a lui, e gli uomini di Shadwell erano riuniti in un gruppo compatto, e lo aspettavano. La voce di Dulinsky stava gridando qualcosa, in cui i nomi di Refuge e Shadwell erano uniti dalla parola paura. La folla cominciava a muoversi. Una donna stava urlando. Gli uomini di Shadwell avevano cominciato a tirare fuori dei bastoni dalle grandi giubbe che li coprivano. Len balzò su di loro come una pantera. Un grande ruggito si alzò dalla folla, e la rissa ebbe inizio.
Len atterrò il suo uomo, tempestandolo di pugni. C’era un turbine di gambe intorno a lui, e molta gente cadeva. Si udivano molte grida, ora, e gli stivali si muovevano selvaggiamente. Qualcuno colpì Len alla nuca. Il mondo si capovolse, per un momento, e quando ritornò stabile egli avanzava già, vacillando, in mezzo a un piccolo vortice ribollente di uomini che ansavano, e afferrava la giacca di qualcuno, e muoveva i pugni, alla cieca. Il vortice girava e si sollevava e lo catapultò contro una serranda di un negozio, e passò oltre. Così rimase là, confuso, scuotendo la testa, perdendo sangue dal naso. La folla si era dispersa. Le lanterne ardevano ancora intorno al pulpito, al centro della piazza, ma non c’era nessuno là, e nessuno rimaneva sullo spazio erboso che lo circondava, e c’erano solo delle tracce, dei cappelli e dei bastoni spezzati nell’erba. La rissa si era spostata. Len ne udiva il rumore che si allontanava per le strade e i vicoli che portavano ai moli. Grugnì, e cominciò a correre in quella direzione. Era contento che papà non lo potesse vedere, ora. Sentiva qualcosa di rovente e di strano, dentro di sé, e quella sensazione ardente e irragionevole gli piaceva. Voleva combattere ancora.
Quando raggiunse i moli, quelli di Shadwell si stavano ammucchiando sulle barche in gran fretta, agitando i pugni e gridando minacce. Gli uomini di Refuge erano tutti allineati sulla banchina, aiutandoli ad andarsene più in fretta. Due o tre uomini di Shadwell erano in acqua, e i compagni li stavano tirando a bordo. L’aria era piena di ululati e di miagolii di scherno. Mike Dulinsky era là, al centro del tumulto, con il suo abito nero strappato, e i capelli scompigliati, e con la camicia macchiata di sangue per una ferita alla bocca.
«Volete fermarci, vero?» stava gridando agli uomini di Shadwell. «Voi insegnate il da farsi a quelli di Refuge, siete voi a dare gli ordini, vero?»
Gli uomini che circondavano Dulinsky lo presero improvvisamente, e lo issarono sulle spalle, gridando di entusiasmo. Gli uomini di Shadwell si allontanarono lentamente e malinconicamente sulle acque scure del fiume. Quando furono fuori vista, la folla si girò, e sempre portando in trionfo Dulinsky, e applaudendolo, raggiunse il luogo nel quale i falò ardevano intorno all’intelaiatura del magazzino. Girarono più volte intorno alla costruzione, e anche le guardie applaudirono e lanciarono grida di trionfo. Len osservò la scena, sentendosi stordito, ma trionfante, poi, guardandosi intorno, vide delle luci splendere dalla direzione del recinto dei mercanti. Guardò, accigliandosi, e negli intervalli tra uno scroscio di applausi e un coro di evviva, nell’entusiasmo del magazzino, egli riuscì a cogliere delle voci di uomini, più lontane, e un rumore di cavalli. Preoccupato, cominciò a camminare, in direzione del recinto.
Lanterne e torce ardevano, tutt’intorno, per illuminare la scena. Gli uomini stavano portando fuori dalle stalle i loro cavalli, e li attaccavano ai carri, e si affrettavano a riempire i carri di merci, e tutti parevano sul punto di partire. Len rimase a guardare la scena per un paio di minuti, incredulo, e tutto il senso di trionfo e di eccitazione lo abbandonò. Si sentiva stanco, e il naso gli faceva male.
Vide Fisher, e si avvicinò a lui, e tenne fermi i primi cavalli, mentre il mercante lavorava.
«Perché ve ne andate tutti?» domandò.
Fisher gli diede un’occhiata dura e severa, di sotto la tesa del suo cappello piatto.
«I contadini se ne sono andati, pieni di intenti bellicosi,» disse. «Ritorneranno e porteranno guai, e noi non vogliamo aspettare».
Si assicurò che tutto fosse in ordine, e salì a cassetta. Len si scostò, e Fisher lo guardò dall’alto, e c’era qualcosa, nei suoi occhi, che gli ricordava lo sguardo di papà, di tanto, tanto tempo prima.
«Avevo un’opinione migliore di te, Len Colter,» disse Fischer. «Ma coloro che prendono una brace ardente verranno bruciati. Che il Signore abbia misericordia di te!»
Agitò le redini, e gridò ai cavalli, e il suo carro cigolò e si mosse, e anche gli altri carri si mossero, e Len rimase solo a seguirli con lo sguardo.
Le due del pomeriggio di una giornata calda e soffocante. Gli uomini stavano mettendo le tavole sui lati settentrionale e orientale del capannone, lavorando all’ombra. Refuge era calma, così calma che il suono dei martelli risuonava come le campane nel mattino del sabato. Quasi tutte le barche se ne erano andate dai moli, e le banchine erano deserte.
Esaù disse:
«Pensi che verranno?»
«Non lo so». Len osservò i tetti lontani di Shadwell, dall’altra parte del fiume, e scrutò su e giù per l’ampia distesa delle acque. Neppure lui sapeva esattamente cosa cercasse: Hostetter, un volto conosciuto, qualcosa, qualsiasi cosa per spezzare quel senso di vuoto e di attesa. Per tutta la mattinata, dall’alba, carri pieni di donne e bambini avevano lasciato il paese, e c’erano stati anche degli uomini, sui carri, e molti fagotti che contenevano le proprietà delle famiglie.
«Non faranno niente,» disse Esaù. «Non oseranno».
La sua voce non era convinta. Len lo scrutò, e vide che aveva il volto teso e nervoso. Erano in piedi, sulla porta dell’ufficio, e non facevano niente, respiravano soltanto il calore soffocante e il silenzio. Dulinsky era andato in paese, e Len disse:
«Vorrei che fosse già di ritorno».
«Ci sono degli uomini sulle strade, di guardia. Se ci fossero delle notizie, saremmo i primi a saperle».
«Sì,» disse Len. «Credo di sì».
I martelli producevano un suono insistente, aspro, sul legno giallo e fresco. Ai margini del magazzino, tra gli alberi che circondavano il perimetro di costruzione, diversi uomini oziavano, e osservavano. Altri uomini erano sui moli, inquieti, nervosi, raccolti a gruppetti per parlare un poco, gruppetti che poi si scioglievano e si ricomponevano in un gioco continuo, gente che andava avanti e indietro senza sapere esattamente che fare. Tutti lanciavano delle occhiate furtive in direzione dell’ufficio, e soprattutto di Len e di Esaù che stavano in piedi sulla soglia, e tutti guardavano gli operai che lavoravano al magazzino, ma nessuno si avvicinava e tentava di conversare. Questo non piaceva affatto a Len. Gli dava l’impressione di essere molto solo e molto ingombrante, e lo preoccupava, poiché gli pareva di sentire il dubbio e l’incertezza e l’apprensione di quegli uomini, uomini che si erano posti contro qualcosa di nuovo e non sapevano che cosa fare. Di quando in quando delle borracce venivano passate di mano in mano, ma questo accadeva raramente, e solo uno o due uomini erano vistosamente ubriachi.
Impulsivamente, Len salì sul molo, e gridò a un gruppo di uomini che stavano intorno a un albero a discutere:
«Che notizie ci sono dal paese?»
Uno di loro scosse il capo.
«Ancora niente».
Si trattava di uno di coloro che avevano gridato con maggiore vigore il nome di Dulinsky, durante il trionfo della notte, ma ora il suo volto non mostrava più alcun entusiasmo. Improvvisamente si curvò, e raccolse un sasso, e lo gettò contro un gruppetto di ragazzi che attendevano in disparte, evidentemente desiderosi di assistere a qualcosa di spettacolare.
«Via!» gridò. «Non è un gioco per divertirvi, questo. Filate!»
Se ne andarono, ma non troppo lontano. Len ritornò sulla porta dell’ufficio. Era un caldo soffocante, l’aria era immobile, pesante. Esaù si mosse, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Len».
«Cosa vuoi?»
«Cosa faremo, se vengono?»
«Come faccio a saperlo? Dovremo combattere, suppongo. Vedremo quel che accadrà. Come faccio a saperlo?»
«Be’, io so una cosa,» disse Esaù, con aria di sfida. «Non ho intenzione di rompermi il collo per Dulinsky. All’inferno anche lui».
«Va bene, prova a escogitare qualcosa». C’era un senso di collera, ora, che pervadeva Len, una cosa ancora vaga e indistinta, priva di una direzione precisa, ma sufficiente a renderlo nervoso e impaziente. Forse era perché lui aveva paura, e la paura lo mandava in collera. Ma sapeva qual era il corso dei pensieri di Esaù, e non voleva che l’altro li esponesse a voce alta.
«Ci puoi scommettere,» disse Esaù. «Sì, ci puoi scommettere. Il magazzino è suo, non mio. Che sia lui a combattere per difenderlo. Lui non rischierebbe certamente la pelle per difendere qualcosa di mio. Io…»
«Zitto,» disse Len. «Guarda».
Il giudice Taylor si stava avvicinando, lungo i moli. Esaù imprecò, nervosamente, e scivolò all’interno dell’ufficio, per non farsi vedere. Len aspettò, consapevole dello sguardo di tutti gli uomini fisso su di lui, come se quanto stava per accadere fosse stato di grande importanza.
Taylor venne alla porta, e si fermò.
«Di’ a Mike che voglio vederlo,» disse.
Len rispose:
«Non è qui».
Il giudice lo studiò, cercando di capire se Len gli avesse detto o no la verità. Il suo volto era livido, e gli occhi erano stranamente duri e febbricitanti.
«Sono venuto,» disse, «Per offrire a Mike l’ultima opportunità».
«È in paese, da qualche parte,» disse Len. «Forse potrete trovarlo là».
Taylor scosse il capo.
«È la volontà del Signore,» disse, e si voltò, e se ne andò. Giunto all’angolo dell’ufficio, si fermò di nuovo, e disse, «Ti avevo avvertito, Len. Ma non esiste peggior cieco di colui che non vuole vedere».
«Aspettate!» disse Len. In due passi raggiunse il giudice, e lo guardò negli occhi, e rabbrividì, «Voi sapete qualcosa. Di che si tratta?»
«La volontà del Signore,» disse il giudice, «Ti verrà rivelata quando verrà il momento».
Len si avvicinò ancora, e lo afferrò per il colletto del suo bellissimo abito, e lo scosse:
«Parlate per voi, giudice!» disse, irato. «Il Signore deve essere nauseato di vedere che tutti si nascondono dietro di Lui! Non succede niente, in questo paese, senza che voi ci mettiate lo zampino. Cosa c’è, adesso?»
Un po’ del fuoco ipocrita che aveva invaso gli occhi del giudice si spense. Egli abbassò lo sguardo, scandalizzato, incredulo che Len lo avesse preso per la giacca così rudemente. Len lo lasciò andare.
«Mi dispiace,» disse. «Ma io voglio sapere».
«Sì,» disse a bassa voce il giudice Taylor. «Sì, tu vuoi sapere. È stato sempre questo il tuo guaio. Non ti dissi io stesso di trovare il tuo limite, prima che fosse troppo tardi?»
Il suo volto si addolcì, divenne gentile, pieno di autentico dispiacere.
«È un peccato, Len. È un vero peccato. Avrei potuto volerti bene come a un figlio».
«Che cosa avete fatto?» domandò Len, avvicinandosi ancora.
E il giudice rispose:
«Non ci saranno più città. Esiste una legge, e bisogna obbedire».
«Voi avete paura,» disse Len, lentamente, in tono sinceramente sorpreso. «Ora lo capisco, voi avete paura. Voi pensate che se qui sorgesse una nuova città, le bombe ricomincerebbero a piovere dal cielo, e voi sareste indifeso sotto di esse. Avete detto ai contadini che non avreste fatto niente per fermarli?…»
«Taci!» gridò il giudice, e sollevò la mano.
Len si fermò, e si mise in ascolto. E così fecero gli uomini che si trovavano sotto gli alberi e sui moli. Esaù uscì dalla porta. E, al magazzino, gli operai posarono i loro martelli, uno dopo l’altro.
C’era un suono che pareva un canto lontano.
Era debole, ma questo era soltanto perché il suono veniva da molto, molto lontano. Era profondo, sonoro; un suono maschio, marziale e terrificante, che veniva con la solenne inevitabilità della tempesta che non si ferma né devia dalla sua strada. Len non riuscì a distinguere le parole, ma dopo avere ascoltato per qualche minuto, capì di che cosa si trattava. ’I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore.’
«Addio, Len,» disse il giudice, e se ne andò, camminando con la testa eretta e il volto pallido e inflessibile sotto il sole ardente di luglio.
«Dobbiamo andare via,» bisbigliò Esaù. «Dobbiamo lasciare questo posto».
Ritornò precipitosamente in ufficio, e Len sentì che i suoi piedi si muovevano velocissimi sulla scaletta di legno, per raggiungere la soffitta. Len esitò per un momento. Poi cominciò a correre, in direzione della città, verso l’inno lontano che si avvicinava sempre di più. Ho preparato un vangelo di fuoco scritto su file di acciaio brunito… Gloria! gloria! Alleluia, la Sua verità è in marcia. Un nodo di paura stringeva ora lo stomaco di Len, un nodo stretto e freddo, e l’aria soffocante si era trasformata in ghiaccio, una morsa di ghiaccio che serrava la sua pelle. La Sua mano ha mutato il fuoco in gelo, Alleluia! Anche gli uomini che si trovavano sui moli e sotto l’ombra degli alberi si muovevano, percorrendo altre strade, dapprima incerti, poi sempre più decisi, e poi anch’essi si misero a correre. Tutti erano usciti dalle loro case, tutti coloro che erano rimasti a Refuge. Donne, vecchi, bambini, che non avevano scelto la via delle campagne e il barcollare pesante dei carri, ascoltavano, si chiamavano a gran voce, chiamavano gli uomini che correvano per le strade, chiedendo cosa stesse accadendo, chi stesse arrivando. Gli eserciti del Signore sono in marcia, una spada infuocata ha bruciato la Terra, lode alla spada ardente del Signore, Alleluia, Alleluia! Len giunse precipitosamente nella piazza, e un carro passò davanti a lui, rotolando veloce sulle ruote, così vicino che la schiuma intorno al morso del cavallo lo spruzzò. C’era un’intera famiglia sul carro, l’uomo ritto a cassetta, con lo sguardo di un folle, con la mano alzata per far schioccare la frusta, con le donne che urlavano abbracciate, dietro, e i bambini stretti e piangenti. C’era della gente nella piazza, gruppetti divisi, alcuni si dirigevano verso la strada che portava a settentrione, altri correvano smarriti, senza mèta, donne che chiedevano se qualcuno avesse visto i loro mariti e i loro figli, chiedendo, sempre chiedendo, cosa succede, cosa sta accadendo? Len correva tra quella gente smarrita, verso la strada di settentrione, la grande arteria che portava a nord.
Dulinsky era là, ai confini del paese, dove la grande strada polverosa solcava i campi di grano quasi maturo per la mietitura. C’erano circa duecento uomini con lui, armati di bastoni e di sbarre di ferro, con fucili e moschetti, con picconi e asce. Avevano l’aspetto risoluto e ansioso. Il volto di Dulinsky, arrossato dal sole, era rosso solo in superficie. Sotto l’abbronzatura era pallido. Continuava a strofinarsi le mani sui pantaloni, passando il pesante bastone da una mano all’altra. Len si fece avanti, si mise accanto a lui. Dulinsky gli lanciò un’occhiata, ma non disse niente. La sua attenzione era rivolta a nord, dove un compatto muro di polvere giallo-bruna avanzava, spandendosi attraverso la strada e sul grano. Il suono dell’inno giungeva da quella parete in marcia, con un ritmico calpestio di piedi, e attraverso i contorni si distinguevano dei bagliori, qua e là, come se lucenti superfici di metallo riflettessero il sole.
«È il nostro paese,» disse Len. «Non hanno alcun diritto su di esso. Possiamo batterli».
Dulinsky si asciugò il viso sulla manica della camicia. Grugnì. Avrebbe potuto essere una domanda, o una risata. Len si guardò intorno, osservò gli uomini di Refuge.
«Combatteranno,» disse.
«Davvero?» domandò Dulinsky.
«Erano tutti con voi, stanotte».
«Questo era stanotte. Ora è giorno».
Il muro di polvere veniva avanti, ed era pieno di uomini. Si fermò, e la polvere venne soffiata via dal vento, o si posò sul terreno, ma gli uomini rimasero, diritti, una grande macchia solida che sbarrava la strada polverosa, e traboccava ai lati, sul grano calpestato. I riflessi brillanti diventarono lunghe, ricurve lame di falci, e falcetti, e qua e là canne di fucile.
«Qualcuno deve avere camminato tutta la notte,» disse Dulinsky. «Guardali. Ci sono tutti i maledetti contadini pidocchiosi di tre contee». Si asciugò di nuovo il viso, e parlò agli uomini che si trovavano dietro di lui. «State calmi, ragazzi. Non vi faranno niente». Fece qualche passo avanti, con espressione altezzosa e impassibile, con gli occhi che lanciavano rapidi sguardi saettanti di qua e di là.
Un uomo dai capelli bianchi e dal severo volto abbronzato come cuoio antico si fece avanti per incontrarlo. Portava un fucile da caccia nell’incavo del braccio, e il suo passo era quello di un contadino, pesante e ondeggiante. Ma egli raddrizzò il capo, e gridò agli uomini di Refuge che attendevano sulla strada, e c’era qualcosa, nella sua voce aspra e stridente, che fece ricordare a Len il predicatore di quella notte.
«Fatevi da parte!» gridò. «Non vogliamo uccidere, ma possiamo farlo, se vi saremo costretti, così fatevi da parte, in nome del Signore!»
«Aspettate un minuto,» disse Dulinsky. «Solo un minuto, per favore. Questo è il nostro paese. Posso chiedervi quali interessi pensate di avere, qui?»
L’uomo lo fissò duramente, e disse:
«Non avremo città in mezzo a noi!»
«Città,» disse Dulinsky. «Città!» Scoppiò a ridere. «Ora ascoltatemi, signore. Voi siete Noah Burdette, vero? Vi conosco bene, di vista e reputazione. Avete una grande fama di predicatore nella regione intorno ai Twin Lakes».
Fece qualche altro passo avanti, parlando con tono gentile e calmo, come un uomo convinto di volgere a proprio favore la discussione.
«Voi siete un uomo onesto e sincero, signor Burdette, e capisco che agite in base a informazioni che credete veritiere. Così sono sicuro che sarete contento di sapere che le vostre informazioni sono sbagliate, e non c’è alcun bisogno di ricorrere alla violenza. Io…».
«La violenza!» lo interruppe Burdette. «Non è quella che io cerco, ma non indietreggio di fronte a essa, quando si tratta di combattere per una buona causa». Squadrò Dulinsky, lentamente, deliberatamente, con il volto duro come pietra. «Anch’io vi conosco, di nome e reputazione, e potete risparmiare il fiato. Volete tirarvi da parte?»
«Ascoltate,» disse Dulinsky, e nella sua voce entrò una nota di disperazione. «Vi hanno detto che io tento di costruire una città, qui, ed è una pazzia! Io cerco solo di costruire un magazzino, e ne ho pieno diritto, come voi avete diritto di costruire un nuovo fienile. Non potete venire qui a darmi degli ordini, come io non ho il diritto di venire a farlo nella vostra fattoria!»
«Io sono qui,» disse Burdette.
Dulinsky si voltò, per un momento, guardando la strada alle sue spalle. Len si avvicinò a lui, come se avesse voluto dirgli che era al suo fianco. E poi il giudice Taylor si avvicinò, attraversando le fila disordinate e rade degli uomini di Refuge, dicendo:
«Disperdetevi, tornate alle vostre case, e restateci. Non vi sarà fatto alcun male. Deponete le vostre armi, e tornate a casa».
Tutti esitarono, guardandosi l’un l’altro, guardando Dulinsky e la solida massa dei contadini. E Dulinsky disse al giudice, in tono d’infinito disprezzo:
«Voi, maledetta pecora vigliacca! Voi avete organizzato tutto questo».
«Avete già fatto abbastanza danni, Mike,» disse il giudice, pallidissimo, ergendosi in tutta la sua statura. «Non c’è bisogno che tutti gli abitanti di Refuge ne soffrano. Fatevi da parte».
Dulinsky guardò con ira prima lui, e poi Burdette.
«Cosa intendete fare?»
«Mondare il male,» disse lentamente Burdette, «Come il Libro ci dice di fare, bruciandolo col fuoco».
«Per dirla in parole povere,» fece Dulinsky, «Voi intendete bruciare i miei magazzini, e tutte le altre cose che avrete voglia di bruciare. E io vi dico che non lo farete, accidenti a voi». Si volse, e gridò agli uomini di Refuge. «Ascoltatemi, idioti, credete che abbiano intenzione di limitarsi al mio magazzino? Faranno bruciare tutto il paese. Non capite che questo è il momento cruciale, quello che deciderà come vivrete per i prossimi decenni? Volete essere degli uomini liberi, o dei maledetti schiavi striscianti?»
La sua voce si alzò, diventò un ruggito.
«Avanti, combattete per le vostre case e per il vostro paese, che Dio vi maledica, combattete!»
Si voltò, e si lanciò contro Burdette, sollevando il bastone sopra la propria testa, pronto a colpire.
Senza fretta e senza pietà, Burdette alzò il fucile e sparò.
Lo sparo produsse un rumore fortissimo, nel silenzio. Dulinsky si arrestò di botto, come se avesse urtato una parete solida. Rimase in piedi per un secondo o due, e poi il bastone gli cadde dalle mani, e le braccia gli ricaddero sui fianchi, contraendosi intorno allo stomaco. Le ginocchia si piegarono, ed egli cadde lentamente in ginocchio nella polvere.
Len si lanciò avanti a sua volta.
Dulinsky si volse a fissarlo, con un’espressione di immensa, attonita sorpresa. La sua bocca si aprì. Apparentemente, tentò di dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscì soltanto uno spruzzo di sangue. E poi, d’un tratto, il suo volto diventò vacuo e remoto, come una finestra quando qualcuno spegne la candela nella stanza. Cadde in avanti, e giacque immobile.
«Mike,» disse il giudice Taylor. «Mike?» Guardò Burdette, e i suoi occhi cominciarono a dilatarsi. «Che cosa avete fatto?»
«Assassino,» disse Len, e la parola era diretta sia a Burdette che al giudice. La sua voce si spezzò, e poi diventò un grido aspro. «Maledetto vigliacco assassino!» Sollevò i pugni, e si avventò contro Burdette, ma la linea dei contadini aveva cominciato a muoversi, come se la morte di Dulinsky fosse stata il segnale atteso, e Len venne travolto come un uomo caduto nel fronte di un’onda impetuosa. Burdette se ne era andato, e ora di fronte a lui c’era un giovane contadino tarchiato, con un lungo collo e le spalle curve e la stessa bocca del giovane che aveva gridato la sua accusa contro Soames. Brandiva un palo in mano, un palo come quelli usati per le staccionate dei pascoli, e lo calò sulla testa di Len, ridendo, una risata chioccia e frettolosa e sgradevole, e i suoi occhi scintillavano di un’immensa eccitazione. Len cadde nella polvere. Pesanti stivali passarono sopra il suo corpo, lo scalciarono, si mossero intorno a lui, come un’onda inarrestabile, coprendolo di lividi e di dolore e di polvere, ed egli si rannicchiò, istintivamente, proteggendosi la testa e il collo con le braccia, per non essere schiacciato. Era tutto molto buio intorno a lui, ora, come se fosse improvvisamente calata la notte, e gli uomini di Refuge erano lontanissimi, dietro a un velo tenebroso e ondeggiante, ma riuscì a vederli, mentre se ne andavano in tutte le direzioni, confondendosi nell’aria afosa, fino a quando la strada non fu deserta davanti ai contadini, e nulla più si frappose tra loro e il paese. E così essi avanzarono su Refuge nel pomeriggio soffocante e torrido, sollevando di nuovo la polvere della loro marcia, e quando la polvere si posò di nuovo erano rimasti soltanto Len, e il cadavere di Dulinsky disteso nella polvere e calpestato, a pochi metri da lui, e il giudice Taylor, in piedi, in mezzo alla strada, nella stessa posizione di prima, il giudice Taylor che stava fermo là, immobile, e fissava Dulinsky.
Lentamente, Len si rialzò in piedi. La testa gli doleva sordamente, e provava un senso di nausea che lo faceva vacillare, ma il desiderio di allontanarsi da quel luogo era così intenso, così imperioso, che egli costrinse il proprio corpo a camminare, malgrado tutto. Girò intorno al cadavere di Dulinsky, evitando con cura le macchie scure che imbrattavano la polvere in quel punto, e passò davanti al giudice Taylor. Non si parlarono, né si guardarono. Len proseguì, camminando verso Refuge, fino a quando non si trovò a pochi metri dalla piazza, dove c’era un frutteto ai margini della strada, e poi s’incamminò tra i meli, e quando pensò di essere riparato dalla vista di coloro che potevano trovarsi sulla strada, scivolò a sedere sull’erba alta, mise la testa tra le ginocchia, e vomitò. Un gelo terribile era sceso sul suo corpo, che era scosso da un tremito continuo. Aspettò che tutto questo passasse, insieme ai conati di nausea, e poi si alzò nuovamente in piedi, e proseguì, tenendosi a occidente, al riparo degli alberi.
Si udiva un rumore confuso in distanza, verso il fiume. Uno sbuffo di fumo si sollevò lento nell’aria chiara, e poi un altro, e d’un tratto si udì un sordo, tumultuoso rombo, e l’intera riva del fiume parve scoppiare in fiamme, e il fumo salì ribollente, nero e grasso e molto denso, illuminato in basso dalle fiamme che venivano dai barili di pece e dal petrolio delle lampade. Ora le strade del paese erano ingombre di carri e di cavalli e di gente che correva in preda al panico. Qua e là, qualcuno aiutava un ferito. Len li evitò, passando per i vicoli e attraversando i campi periferici. Il fumo diventava sempre più nero e denso, saliva ribollendo nel cielo e nascondeva l’azzurro e trasformava il sole in un livido, minaccioso disco ramato. E ora nel fumo c’erano delle scintille, e pezzi di materia infiammata scagliati verso l’alto. Quando raggiunse un posto più elevato, Len vide che c’erano degli uomini sui tetti di alcune case, e sulla chiesa e sul municipio, uomini che si passavano dei secchi d’acqua per bagnare gli edifici. Di là, poté vedere anche la riva del fiume. Il nuovo magazzino stava bruciando, e anche gli altri quattro che erano stati di proprietà di Dulinsky, ma la distruzione non si era fermata là. C’era un tramestio, uno scuotere di armi e un ondeggiare di piccoli gruppi di uomini, e lungo tutta la linea dei moli e dei magazzini nuovi fuochi si stavano sviluppando.
Sull’altra riva del fiume, Shadwell osservava ma non si muoveva.
Le stalle e le baracche del recinto dei mercanti erano in fiamme, quando Len vi giunse. Nugoli di scintille erano caduti sulle masse di fieno e biada, e altre scintille cominciavano a consumare le tettoie di legno dei ripari. Len corse nella baracca che aveva occupato, e afferrò il suo zaino di tela, e la sua coperta. Quando uscì dalla porta, sentì che stavano arrivando degli uomini, e si rifugiò frettolosamente tra gli alberi che sorgevano da un lato. Le foglie verdi e asciutte si stavano già increspando, e i rami erano scossi da un bizzarro vento malato. Una banda di contadini stava arrivando dal fiume. Si fermarono ai margini del recinto, ansando, guardandosi intorno con occhi brillanti e feroci. Gli stalli adibiti alle vendite all’asta erano ancora intatti, uno dei contadini, un gigante dalla barba rossa, dalle guance infuocate e dalla voce che rombava come un tuono, puntò il braccio in quella direzione, e urlò qualcosa riguardo ai cambiavalute nel Tempio. Tutti mandarono avide grida, come una muta di cani famelici giunti alla tana del procione, e corsero verso la lunga fila di banchi e capannoni, fracassando tutto ciò che si poteva rompere, e ammucchiando i rottami, e appiccando fuoco a ogni cosa con una torcia brandita da uno di essi. Poi essi proseguirono, calpestando e fracassando e incendiando tutto ciò che incontravano sulla loro strada. Len pensò al giudice Taylor, che se ne stava da solo al centro della strada, intento a fissare il cadavere di Dulinsky. Avrebbe avuto molte altre cose da osservare, prima che quella giornata fosse finita.
Proseguì con cautela tra gli alberi, avvicinandosi al fiume, sempre tenendosi al riparo, attraverso un crepuscolo spettrale e sulfureo. L’aria era soffocante per il sentore di bruciato, di pece e legno e olio e pelli. La cenere cadeva, come una neve grigia e bruciante. Poteva sentire la campana del paese che suonava disperatamente a distesa, segnalando l’incendio, ma non poté vedere molto in quella direzione, a causa del fumo e degli alberi. Poi arrivò sulla riva del fiume, in un punto molto distante da quello del nuovo magazzino, e cominciò a percorrere la strada che portava ai moli, guardandosi intorno, cercando Esaù.
Tutta la riva del fiume, per quanto poteva scorgere davanti a lui, era una solida parete di fiamma. Il calore aveva cacciato tutti, e alcuni erano discesi lungo la riva del fiume, oltre il rudere del nuovo magazzino, uomini con gli occhi bianchi e sbarrati nei volti anneriti dalla fuliggine, uomini dalle mani ustionate e dagli abiti strappati e bruciati e lo sguardo pieno di disperazione. Tre o quattro erano curvi su qualcuno che stava disteso sul terreno, gemendo e sussultando, e c’erano altri seduti qua e là, come se si fossero spinti fino a quel punto, e poi si fossero arresi. Quasi tutti, però, si limitavano a stare in piedi a guardare, come impietriti. Un uomo aveva ancora in mano un secchio pieno d’acqua.
Len non vide Esaù tra loro, e cominciò ad avere paura. Si avvicinò a diversi uomini, e chiese loro notizie, ma essi si limitarono a scuotere il capo, o non risposero, tenendo gli occhi fissi sulla scena di distruzione, incapaci di sentire e di vedere altre cose che non fossero le fiamme e la devastazione. Finalmente uno di loro, un impiegato di nome Watts, che era venuto spesso in ufficio per affari, disse, in tono amaro:
«Non preoccupatevi di lui. È salvo più di tutti noi».
«Cosa volete dire?»
«Voglio dire che nessuno l’ha visto da quando è cominciato il disastro. È scappato, lui e la ragazza».
«La ragazza?» domandò Len, sorpreso dal tono di voce di Watts.
«La figlia del giudice Taylor, e chi se non lei? E dov’eravate voi… nascosto in qualche buco, lontano? E dov’è Dulinsky? Credevo che quel figlio di puttana fosse un grande combattente… da come l’avevo sentito vantarsi!»
«Io ero sulla strada a nord,» disse Len. «E Dulinsky è morto. Così penso che abbia combattuto più duramente di tutti quanti voi».
Un uomo che era vicino si era voltato, nell’udire pronunciare il nome di Dulinsky. Sotto la maschera di sporcizia e di fumo, i capelli striati e gli abiti bruciacchiati e laceri, Len impiegò un po’ di tempo prima di riconoscere Ames, il proprietario di magazzini che era venuto al fiume con Dulinsky e con l’altro uomo, quel mattino, per osservare il nuovo magazzino e scuotere il capo quando Dulinsky aveva chiesto di rimanere uniti.
«Morto,» disse. «È morto davvero?»
«Gli hanno sparato. È stato un contadino, un certo Burdette».
«Morto,» disse Ames. «Mi dispiace. Avrebbe dovuto vivere. Avrebbe dovuto vivere abbastanza a lungo per poter essere impiccato». Alzò le braccia, e agitò i pugni, verso le fiamme e il fumo. «Guardate, guardate che cosa ci ha fatto!»
«Non era solo,» disse Watts. «I Colter erano con lui, fin dall’inizio».
«Se anche voi foste rimasti al suo fianco, tutto questo non sarebbe accaduto,» disse Len. «Ve lo aveva chiesto, signor Ames. A voi, e a Whinnery, e a tutti gli altri. L’aveva chiesto all’intero paese. E che cosa è successo? Avete ballato tutti, e lo avete festeggiato e applaudito, la notte scorsa… sì, c’eravate anche voi, Watts, vi ho visto!… e poi non appena si è sentito odore di guai, siete scappati tutti, come conigli. Non c’è stato nessuno, sulla strada a nord, nessuno che abbia alzato un dito! Hanno lasciato a Mike il compito di combattere, e di farsi ammazzare».
Len aveva alzato la voce, parlando in tono duro e aspro, senza neppure rendersi conto di quanto stava facendo. Gli uomini che erano stati abbastanza vicini per sentire si erano avvicinati.
«A me sembra,» disse Ames, «Che, per essere uno straniero, vi stiate interessando maledettamente ai fatti nostri. Perché? Cosa vi fa pensare che spetti a voi tentare di cambiare le cose? Ho lavorato duramente per tutta la vita, e onestamente, per costruire quello che avevo, e poi venite voi, e Dulinsky…».
Si interruppe. Le lacrime gli uscivano dagli occhi, e scendevano sul volto sporco di fuliggine, e la bocca gli tremava, come quella di un bambino.
«Sì,» disse Watts. «Perché? Da dove venite? Chi vi ha mandato, per darvi il diritto di chiamarci vigliacchi perché non abbiamo voluto violare la legge?»
Len si guardò intorno. C’erano degli uomini tutt’intorno a lui, ora. I loro volti erano maschere grottesche di collera e di fumo. Il fumo si innalzava in una nube fuligginosa, e le fiamme rombavano, un suono che pareva il brontolio di un enorme felino, felice perché stava consumando la ricchezza di Refuge. In paese, la campana aveva smesso di suonare.
Qualcuno pronunciò il nome di Bartorstown, e Len cominciò a ridere.
Watts allungò le mani, e lo colpì.
«Buffo, vero? Va bene, da dove venite?»
«Da Piper’s Run. Ci sono nato e cresciuto».
«Perché non ci siete rimasto? Perché siete venuto qui a provocare guai?»
«Mente,» disse un altro uomo. «Certo che viene da Bartorstown! Sono loro che vogliono far tornare le città».
«Non importa,» disse Ames, con voce sorda e minacciosa. «Lui c’era dentro, ha aiutato Dulinsky, c’era dentro fin dall’inizio». Si voltò, e le sua mani si mossero avidamente, come cercando di afferrare qualcosa. «Dovrebbe esserci rimasto un pezzo di corda non bruciata, a Refuge».
Istantaneamente, la gente parve invasata.
«Una corda,» disse qualcuno. «Sì. La troveremo». E un altro disse, «Cercate quell’altro straniero bastardo. Li impiccheremo entrambi allo stesso albero». Alcuni cominciarono a correre lungo la riva del fiume, e gli altri cominciarono a esplorare i cespugli, alla ricerca di Esaù. Watts e altri due afferrarono Len, e lo fecero cadere a terra, tempestandolo con una gragnuola di pugni e di calci. Ames rimase in disparte, e osservò la scena, e il suo sguardo andava alternativamente da Len all’incendio.
Gli uomini ritornarono. Non avevano trovato Esaù, ma avevano trovato una corda, la fune che era servita per ormeggiare una lancia, a poca distanza da quel punto. Watts e gli altri sollevarono Len, costringendolo ad alzarsi in piedi. Uno di essi fece un rozzo nodo scorsoio, e infilò il collo di Len nel cappio. La corda era bagnata. Era vecchia e logora e molle, e odorava di pesce. Len scalciò, violentemente, e riuscì a liberare le braccia. Lo presero di nuovo, e lo trascinarono e lo spinsero verso gli alberi, una massa confusa e compatta di uomini che avanzava disordinatamente, in impeti improvvisi di movimento, con Len che si dibatteva al centro, usando tutte le sue armi, i pugni, i calci, le ginocchia e i gomiti, tentando di liberarsi. E pur nella confusione del momento, pur nel cuore della lotta, egli si rendeva conto confusamento, con quell’istintiva, bizzarra consapevolezza che prendeva gli uomini vicini alla morte, di non combattere contro degli uomini, ma contro il vasto, spaurito, ottuso continente, da un mare all’altro, e da nord a sud, milioni di case e di persone e di campi e di villaggi, che dormivano tutti comodamente, al sicuro, e non volevano essere disturbati. La corda era fredda, e gli graffiava il collo, e lui aveva paura, e capiva di non poter lottare contro le idee, contro le convinzioni e contro il modo di vivere di cui quegli uomini rappresentavano soltanto una minuscola, trascurabile parte.
Era stordito, confuso, per il pestaggio violento ricevuto, e per il colpo alla testa ricevuto sulla strada a nord, e per gli stivali che avevano calpestato il suo corpo, e così non riuscì a capire con esattezza quanto stesse accadendo: solo che, a un certo punto, gli parve che ci fossero molti più uomini, molti più corpi intorno a lui, un più violento, ondeggiante tumulto. Venne gettato da una parte, rudemente. Le mani che lo avevano tenuto stretto avevano apparentemente lasciato la presa. Urtò un tronco d’albero, e scivolò lungo di esso, cadendo a sedere sul terreno. C’era un volto, sopra di lui. Aveva gli occhi azzurri e una barba color sabbia, con due ampie fasce grige, una a ciascun lato della bocca. Disse a quel volto:
«Se non foste in tanti, potrei uccidervi tutti».
E il volto gli rispose:
«Tu non vuoi uccidere me, Len. Avanti, ragazzo, alzati».
Gli occhi di Len si riempirono improvvisamente di lacrime.
«Signor Hostetter,» disse. «Signor Hostetter». Alzò le braccia e si aggrappò a lui, e gli parve di essere ritornato indietro, a un’altra ora di oscurità e di terrore, e Hostetter lo fece alzare in piedi vigorosamente, e gli tolse la corda dal collo,
«Corri,» gli disse. «Corri come il diavolo».
Len si mise a correre. Era confuso, smarrito, eppure si mise a correre. C’erano diversi altri uomini insieme a Hostetter, e dovevano avere caricato duramente la massa della gente di Refuge, con i pali e i ramponi delle loro barche, perché gli uomini di Refuge erano stati dispersi. Ma essi non intendevano lasciar scappare Len senza combattere, e l’intervento di Hostetter e dei suoi uomini li aveva convinti di avere visto giusto, parlando di un complotto della gente di Bartorstown. Ora erano decisi a mettere le mani anche su Hostetter, e gridavano, e imprecavano, si radunavano di nuovo e cercavano tutto quello che si poteva usare come un’arma, sassi, rami caduti, pezzi di terra. Len vacillò, barcollò, durante la corsa, e Hostetter gli mise una mano sotto il braccio, e lo sorresse.
«La barca ci aspetta,» disse. «Più in giù».
Degli oggetti cominciarono a volare nell’aria, intorno a loro. Una pietra colpì alla schiena Hostetter, ed egli incassò la testa tra le spalle, abbassando il cappello dalla larga tesa, come un lottatore. Entrarono in un’alta macchia d’alberi, e sbucarono dall’altra parte, e poi Len parve immobilizzarsi, s’irrigidì, pur continuando a correre.
«Esaù!» gridò. «Non possiamo andarcene senza Esaù».
«È già a bordo,» disse Hostetter. «Avanti, non rallentare!»
Continuarono a correre, attraverso il pendio di un pascolo che declinava fin quasi sul ciglio dell’acqua, e le mucche si dispersero lentamente, con le code in aria, impassibili, imperturbabili, nel loro angolo sicuro. In fondo al declivio c’era un’altra macchia d’alberi, che cresceva direttamente sulla riva, e nascosta tra di essi c’era una grossa barca a vapore. Sulla coperta c’erano due uomini armati di grandi asce, pronti a tagliare le gomene. Il fumo cominciò a sbuffare più forte dalla ciminiera solitaria, come se un fuoco già pronto fosse stato improvvisamente attizzato con violenza. Len vide Esaù, che si sporgeva dalla murata, e c’era qualcuno accanto a lui, una persona dai capelli biondi e dalla lunga gonna.
C’era una tavola che andava dalla riva alla murata. La percorsero, e furono sul ponte, e Hostetter gridò un ordine agli uomini che brandivano le asce. I sassi avevano ripreso a volare nell’aria, ed Esaù afferrò Amity e la trascinò dall’altra parte, al riparo della cabina. Le asce saettarono. Si udirono altre grida, e gli uomini di Refuge, guidati da Watts, e da altri due, corsero verso la plancia. Len non vide Ames tra loro. Le gomene furono recise, e caddero serpentine nell’acqua. Hostetter, Len, e altri uomini, presero dei lunghi pali, e cominciarono a spingere con forza, appoggiandoli alla riva. La plancia cadde in acqua, insieme a Watts e agli altri due uomini che vi erano sopra. Ci fu un brontolio e uno sferragliare, sotto coperta, il ponte parve tremare, e delle scintille cominciarono a uscire dal fumaiolo. La barca cominciò a muoversi nella corrente. Watts era immerso fino alla cintola nell’acqua fangosa, e li minacciava agitando i pugni, un uomo che non aveva combattuto per salvare il proprio paese, ma che era disposto a tutto per vendicare i suoi rancori.
«Ora vi conosciamo!» gridò, e la sua voce giunse sottile, per la distanza che ormai li separava. «Non ve la caverete!»
Gli uomini che si ammassavano sulla riva, dietro di lui, gridarono a loro volta. Le loro voci si fecero più deboli, ma la nota d’odio rimase, insieme alla minaccia dei loro gesti. Len si volse a guardare in direzione di Refuge. Ormai erano quasi al centro del fiume, e lui poteva vedere oltre la riva. Il fumo nascondeva quasi completamente il paese, ma quello che vedeva era sufficiente. Ciò che i contadini di Burdette avevano risparmiato, ora veniva reclamato imperiosamente dall’incendio che si allargava.
Len scivolò a sedere sul ponte umido, con la schiena appoggiata alla cabina. Mise le braccia intorno alle ginocchia, e vi appoggiò la testa, e provò un desiderio irresistibile di piangere, di piangere come un bambino, ma era troppo stanco anche per fare questo. Rimase seduto là, semplicemente, cercando di rendere la sua mente vuota come tutto il resto del suo corpo in quel momento. Ma non poteva farlo, e nella sua mente continuava a vedere Dulinsky fermarsi di botto, e cadere lentamente in ginocchio nella polvere calda della strada di settentrione, e sentiva l’odore di un grande incendio, e nelle sue orecchie risuonava la voce aspra di Burdette, che diceva:
«Non ci saranno città in mezzo a noi!»
Era molto strano, vedere quelle cose, sentirle, in un succedersi monotono che non lasciava spazio ad altri pensieri, ad altri sentimenti, ad altre cose.
Dopo qualche tempo, si accorse che c’era qualcuno in piedi, davanti a lui. Sollevò il capo, e vide Hostetter, che teneva il cappello in mano e si asciugava stancamente la fronte con la manica della giacca.
«Ebbene, ragazzo,» disse, «Sei riuscito a soddisfare il tuo desiderio. Andiamo a Bartorstown».
Era notte, una notte calda e tranquilla. C’era la luna, che illuminava la superficie del fiume e trasformava le rive in due masse di ombra nera. La barca scivolava sbuffando dolcemente, con il fumaiolo che sbuffava pigro, e le semplici macchine protette dal legno e dai teli impermeabili. Len aveva trovato un posto sul ponte. Aveva dormito per qualche ora, e adesso sedeva con la schiena appoggiata a un grosso sacco, osservando il fluire dell’acqua piena d’argento.
Hostetter si avvicinò, camminando lentamente nello spazio angusto lasciato libero a prua, seguito da una scia di aroma di tabacco, che veniva dalla sua vecchia pipa. Vide Len seduto in quell’angolo, e si fermò.
«Ti senti meglio?»
«Sono nauseato,» disse Len, con tanta veemenza da non lasciare dubbi sul significato delle sue parole. Hostetter annuì.
«Ora capisci quello che ho provato io, quella notte, quando uccisero Bill Soames».
«Assassini,» disse Len. «Vigliacchi. Bastardi». Li maledisse, fino a quando le parole non gli si soffocarono in gola. «Avreste dovuto vederli fermi in mezzo alla strada, e sui campi. E poi Burdette gli ha sparato. Lo ha ucciso, come si uccide un verme trovato in mezzo al grano».
«Sì,» disse Hostetter, lentamente. «Avremmo potuto tirarti fuori prima, se non fossi andato ad aiutare Dulinsky. Povero diavolo. Ma non sono molto sorpreso».
«Non avreste potuto aiutarlo, voi?»
«Noi? Vuoi dire Bartorstown?»
«Lui desiderava le stesse cose che voi volete. Crescita, progresso, intelligenza, un futuro. Non avreste potuto aiutarlo?»
C’era una nota tagliente, nella voce di Len, ma Hostetter si limitò a togliersi la pipa di bocca, e a domandare, sommessamente:
«Come?»
Len rifletté per qualche secondo. Dopo un breve silenzio, disse:
«Suppongo che non vi fosse possibile».
«Non avremmo potuto aiutarlo, senza un esercito. Noi non abbiamo un esercito, e se lo avessimo non lo useremmo. Ci vuole una forza quasi onnipotente per cambiare il modo di pensare e di vivere della gente. Avevamo una forza simile soltanto ieri, ieri per come scorre il tempo per le nazioni, e non vogliamo più saperne, perché i suoi frutti sono stati amari».
«Era di questo che aveva paura il giudice. Il cambiamento. E così è rimasto immobile, a guardar morire Dulinsky». Len scosse il capo. «Ed è morto per niente. Ecco per che cosa è morto… per niente».
«No,» lo corresse Hostetter, con voce quieta. «Non direi questo. Ma ci vuole molto, molto di più di un solo Dulinsky. Ce ne vogliono molti come lui, uno dopo l’altro, in molti posti diversi…».
«E altri Burdette, e altri incendi».
«Sì. E un giorno ne verrà uno al momento giusto, e il cambiamento avverrà allora».
«C’è molto da aspettare».
«Le cose stanno così. E allora tutti i Dulinsky diventeranno martiri di un grande ideale. Nel frattempo, essi sono i disturbatori della pace. E maledizione, Len, sai bene che in un certo senso hanno ragione. Sono comodi e felici. Chi sei, tu… o chiunque altro… per dire loro che tutto deve essere cambiato?»
Len si volse a guardare Hostetter, nel chiarore d’argento della luna.
«È per questo che ve ne state in disparte a osservare?»
Hostetter disse, con una lievissima traccia d’impazienza nella voce.
«Non credo che tu abbia ancora compreso bene chi siamo, e che cosa siamo. Non siamo i superuomini che tu pensi. Dobbiamo già impiegare tutte le nostre capacità e i nostri sforzi per sopravvivere, senza tentare di cambiare un paese che non vuole essere cambiato».
«Ma come potete dire che essi hanno ragione? Massacratori ignoranti come Burdette, ipocriti come il giudice…».
«Uomini onesti, Len, entrambi. Sì, onesti davvero. Entrambi si sono alzati, stamattina, infiammati di nobili pensieri e di buoni propositi, e sono andati a fare ciò che era giusto, secondo il loro modo di vedere. Non è mai stato commesso un solo atto, fin dal principio del tempo, dal bambino che ha rubato un candito al dittatore che si è macchiato di genocidio, che non fosse stato compiuto da una persona convinta di avere tutte le più valide giustificazioni. Si tratta di un espediente mentale, qualcosa che si chiama razionalizzazione, e ha fatto più male alla razza umana di qualsiasi altra catastrofe che si sia abbattuta sul mondo».
«Sì, forse quanto voi dite può valere per Burdette,» disse Len, riluttante. «È uguale a quell’uomo che predicava, quella famosa notte. Ma il giudice no. Il giudice sapeva bene quello che sarebbe accaduto».
«Non sul momento. È questo il brutto, Len. I dubbi vengono sempre dopo, e quando è generalmente troppo tardi. Prendi il tuo caso, Len. Quando sei fuggito da casa, avevi dei dubbi su ciò che stavi facendo? Ti sei detto qualcosa come, diciamo, ’Sto facendo una cosa cattiva, renderò molto infelici i miei genitori’, o qualcosa del genere?»
Len abbassò il capo, fissando le acque inargentate per molto tempo, senza dare risposta. Infine disse, con voce stranamente sommessa:
«Come stanno? Tutti bene?»
«L’ultima volta che li ho visti stavano bene. Non ci sono stato, questa primavera».
«E la nonna?»
«È morta, è stato un anno a dicembre».
«Sì, capisco,» disse Len. «Era molto, molto vecchia». Era strano quello che lui provava pensando alla nonna, come se una parte della sua vita se ne fosse andata con lei. Improvvisamente, con dolorosa chiarezza, la rivide seduta sul gradino, sotto il sole, intenta a guardare i fiammeggianti alberi di ottobre, e a parlare del vestito rosso che aveva avuto tanto, tanto tempo prima, quando il mondo era stato un posto diverso.
Disse:
«Papà non riusciva mai a farla star zitta».
Hostetter annuì.
«La mia nonna era uguale».
Ci fu di nuovo silenzio. Len rimase seduto a fissare il fiume d’argento, a pensare alle cose di ieri, e il passato era un fardello pesante sopra di lui, e lui non voleva più andare a Bartorstown. Voleva andare a casa.
«Tuo fratello si sta comportando molto bene,» sorrise Hostetter. «Ora ha due bambini».
«Sono contento».
«Piper’s Run non è cambiato molto».
«No,» disse Len. «No, penso di no». E poi aggiunse, «Oh, per favore, state zitto!»
Hostetter sorrise.
«Questo è il vantaggio che ho su di te. Io torno a casa. Ed è passato molto tempo».
«Allora voi non siete affatto della Pennsylvania».
«La mia famiglia veniva di là. Io sono nato a Bartorstown».
Un’antica ira sorda si risvegliò nel cuore di Len, e lo pungolò.
«Ascoltate,» disse. «Voi sapevate per quale motivo eravamo scappati. Dovete avere saputo fin dall’inizio dove eravamo, e che cosa stavamo facendo».
«Mi sentivo un po’ responsabile, è vero,» ammise Hostetter. «Vi ho sempre seguito».
«Va bene,» disse Len. «Perché ci avete costretti ad aspettare così a lungo? Sapevate dove volevamo andare».
Hostetter disse:
«Ti ricordi di Soames?»
«Non lo dimenticherò mai».
«Si era fidato di un ragazzo».
«Ma…» cominciò Len. «Io non avrei…» Poi ricordò in qual modo Esaù aveva posto Hostetter in una brutta situazione, senza volerlo. «Sì, credo di capire quello che intendete dire».
«Abbiamo una legge inviolabile, a Bartorstown. Questa legge dice di non immischiarsi nelle cose del paese. Grazie a essa, abbiamo potuto sopravvivere, per tutti questi anni, quando bastava il nome di Bartorstown a fare impiccare una persona. Soames ha violato quella legge. Anch’io la sto violando, adesso, ma ho avuto il permesso di farlo. E, credimi, è stata la più grande impresa del secolo, ottenere il permesso. Ho parlato a Sherman per una settimana intera, fino a perdere la voce…».
«Sherman,» disse Len, raddrizzando la testa. «Sì, Sherman. Quello che voleva sapere notizie di Byers…».
«Cosa diavolo stai dicendo?» esclamò Hostetter, sbalordito.
«L’ho sentito alla radio,» disse Len, e una parte della vecchia emozione ritornò a invaderlo, come l’improvviso bagliore del fulmine in un temporale d’estate. «Le voci che parlavano, nella notte in cui feci uscire le mucche dal fienile, e andammo a cercarle al fiume, ed Esaù lasciò cadere al suolo la radio. Il rocchetto era sfuggito dal suo incavo, e sono uscite le voci… ’Sherman vuole sapere,’ ho sentito. E qualcosa a proposito del fiume. Fu solo per questo che discendemmo l’Ohio».
«Oh, sì,» disse Hostetter. «Sì, la radio. È stata quella a dare inizio all’intera faccenda, vero? Dovrei chiedere qualcosa a Esaù, come prezzo per avermela rubata. E soprattutto per tutto quello che ho sudato, quando ho scoperto che non c’era più». Hostetter rabbrividì. «Cristo! Quando penso che c’è mancato un pelo… che per poco non ha denunciato tutto, facendomi scoprire… Sai, non avrei mai potuto tornare indietro vivo. Non ci sarei mai riuscito. La tua gente mi avrebbe chiesto, semplicemente, di andarmene e non mostrare mai più il mio viso, ma le parole corrono, e la voce si sarebbe sparsa molto più rapidamente di quanto avrei potuto viaggiare. Sono stato costretto a gettare ai lupi Esaù, allora, e non direi la verità se mi dichiarassi spiacente di averlo fatto. Ma è stato un vero peccato che anche tu sia stato immischiato, questo sì».
«Non ho mai pensato di farvene una colpa. Avevo detto a Esaù che la faccenda non sarebbe stata semplice come lui credeva».
«Be’, devi ringraziare i contadini: se non fosse stato per loro, non sarei mai riuscito a convincere Sherman a darmi il permesso di raccogliervi. Gli ho detto che non sareste riusciti a cavarvela: l’una o l’altra parte vi avrebbe fatto la festa, e io non volevo avere il vostro sangue sulla coscienza. Alla fine ha ceduto: ma una cosa devo dirtela, Len. La prossima volta, quando qualcuno ti darà un buon consiglio, cerca per favore di seguirlo».
Len si passò la mano sul collo, dove la corda aveva prodotto qualche livido.
«Sì, signor Hostetter. E grazie. Non dimenticherò mai quello che avete fatto».
Con grande fermezza, parlando come aveva spesso parlato papà una volta, Hostetter disse:
«Non dimenticarlo. Non per me, in particolare, né per Sherman, ma per tutte le persone e per tutte le idee che potrebbero dipendere proprio dal fatto che tu lo dimentichi».
Len disse, lentamente:
«Temete di non potervi fidare di me?»
«Non si tratta precisamente di una questione di fiducia».
«Di che si tratta, allora?»
«Stiamo andando a Bartorstown».
Len si accigliò, cercando di comprendere quale fosse il significato delle parole di Hostetter.
«Ma è esattamente dove volevo andare. È per questo che… che tutto è accaduto».
Hostetter sollevò la tesa del cappello piatto sulla fronte, in modo che il suo viso fosse illuminato dal chiarore della luna. I suoi occhi scrutarono con fermezza Len.
«Tu stai andando a Bartorstown,» ripeté. «Nella tua mente, hai creato un posto che è completamente frutto dei tuoi sogni e della tua fantasia, e l’hai chiamato con quel nome, ma non è quella la tua destinazione. Tu stai andando a Bartorstown, quella vera, quella che esiste realmente. E, probabilmente, la troverai molto diversa dal luogo che hai creato nella tua mente. Può darsi che la vera Bartorstown non ti piaccia. Può darsi che i tuoi sentimenti diventino violenti, insostenibili. Ed è per questo che ti dico di non dimenticare che ci sei debitore di qualcosa».
«Ascoltate…» disse Len. «Si può imparare, a Bartorstown? Si possono leggere dei libri, e discutere le cose che altrove nessuno può menzionare, si possono usare le macchine, e pensare realmente?»
Hostetter annuì.
«E allora mi piacerà». Len guardò il paesaggio oscuro e silenzioso che scivolava nella notte, la campagna sonnolenta, assassina, odiosa. «Non voglio vedere mai più queste cose. Mai più».
«Egoisticamente,» disse Hostetter, «Spero veramente che tu riesca ad adattarti. Avrò già abbastanza guai, per spiegare la presenza della ragazza a Sherman. Lei non era compresa negli accordi. Ma non avrei saputo cos’altro fare, in queste circostanze».
«Stavo appunto pensando a lei,» disse Len. «Perché?»
«Ebbene, era venuta fino ai magazzini per accompagnare Esaù, per cercare di aiutarlo a fuggire. Ha detto che non poteva ritornare dai suoi genitori, e che intendeva restare con Esaù. E ne aveva tutte le buone ragioni, naturalmente».
«Perché?» domandò Len.
«Non lo sai?»
«No».
«Per la miglior ragione del mondo,» disse Hostetter. «Sta aspettando un bambino».
Len rimase immobile, a bocca aperta, per un lungo momento. Hostetter si alzò in piedi. E un uomo uscì dalla cabina, e gli disse:
«Sam sta parlando a Collins, alla radio. È meglio che scendiate, Ed».
«Ci sono dei guai?»
«Be’, sembra che l’amico che abbiamo gettato in acqua, laggiù, abbia intenzione di mantenere le sue minacce. Collins dice che due rimorchiatori sono partiti al sorgere della luna. Non rimorchiano niente, e sono gremiti di uomini. Uno è di Refuge, l’altro di Shadwell».
Hostetter si accigliò, scosse la cenere dalla pipa, spegnendola accuratamente sotto i tacchi. Disse a Len:
«Abbiamo chiesto a Collins di restare di guardia, per ogni evenienza. Lui abita su una casa galleggiante, ed è la nostra unità mobile. Be’, andiamo. Ecco cosa succede a un cittadino di Bartorstown. Tanto vale che cominci ad abituarti».
Len seguì Hostetter e l’altro uomo, che si chiamava Kovacs, nella cabina, che occupava quasi due terzi della lunghezza della barca, e serviva soprattutto come tettoia per proteggere la stiva, più che per fornire qualche comodità all’equipaggio. C’erano delle cuccette strette sistemate sulle pareti, e Amity era distesa su una di esse, con i capelli in disordine e il viso pallido e gonfio di pianto. Esaù sedeva sul bordo della cuccetta, e le stringeva la mano. Apparentemente era là da molto tempo, e aveva una strana espressione, che Len non gli aveva mai visto prima, intenta, preoccupata e ansiosa.
Len guardò Amity. Lei gli parlò, senza guardarlo negli occhi, e lui la salutò, e gli parve di parlare a una persona diversa, a un’estranea. Pensò, provando un palpito che era già molto debole, alla ragazza dai capelli biondi che aveva baciato sotto il roseto, e si domandò come mai quella ragazza fosse scomparsa così presto, sparita insieme alle rose. Ora Amity era una donna, la donna di un altro uomo, già segnata dalle preoccupazioni e dalle angosce della vita, e lui non la conosceva.
«Hai visto mio padre, Len?» domandò. «Sta bene? È salvo?»
«Era sano e salvo, l’ultima volta che l’ho visto,» le disse Len. «I contadini non avevano niente contro di lui. Non l’hanno sfiorato neppure con un dito».
Esaù si alzò.
«Ora cerca di dormire un poco. Ne hai bisogno, ti farà bene». Le accarezzò la mano, e poi abbassò una specie di tenda, formata da una coperta inchiodata alla parete, in alto. Lei gemette un poco, protestando, e disse a Esaù di non allontanarsi troppo. «Non preoccuparti di questo,» la rassicurò Esaù, con una lievissima traccia di esasperazione nella voce. «Non c’è nessun posto dove andare, qui». Diede una rapida occhiata a Len, poi guardò Hostetter.
Len disse:
«Congratulazioni, Esaù».
Esaù arrossì un poco, un lieve rossore che gli invase il volto. Poi raddrizzò le spalle, ritrovando un poco della sua aria di sfida, e guardò negli occhi Len, e disse, in tono quasi di sfida:
«Credo che sia meraviglioso, davvero. E tu sai benissimo com’era la cosa, Len, prima. Cioé, prima non potevamo sposarci, a causa del giudice».
«Certo, certo,» disse Len. «Lo so».
«E ti dirò un’altra cosa,» disse Esaù. Len provò quasi il desiderio di sorridere, vedendolo così diverso da come lo aveva sempre conosciuto. «Sarò un padre migliore di quanto non lo sia stato per me mio padre».
«Non saprei,» rispose Len. «Mio padre era il padre più buono del mondo, eppure anch’io non ho saputo corrispondere ai suoi desideri».
Seguì Hostetter e Kovacs nella stiva, alla quale si accedeva per una stretta e ripida scala.
La barca non pescava molto, ma era lunga venti metri e larga sei, e ogni metro di spazio era riempito di ceste, balle e sacchi. Emanava un intenso aroma di legno e di acqua di fiume, di farina e di stoffa, di pece e molte altre cose che Len non riuscì a identificare. Dietro la parete della stiva, a poppa, si udiva soffocato e tonante il ritmo costante del motore. Sotto il portello era stato lasciato uno spazio angusto, una specie di pozzo, in modo che un uomo potesse scendere la scala e controllare che tutto il carico fosse in perfetto ordine, e la scala sembrava un solido pezzo di costruzione fissato sul ponte. Ma una tavola quadrata dell’impiantito era stata tolta, e c’era un piccolo pozzo, là, e nel pozzo c’era una cosa che Len riconobbe subito… una radio, anche se era più grande di quella che lui ed Esaù avevano posseduto, ed era diversa sotto diversi punti di vista. Un uomo era seduto accanto alla radio, e stava parlando, con una lanterna appesa sopra di lui, per avere luce.
«Eccoli qui, adesso,» disse. «Aspettate un momento». Si voltò, e si rivolse a Hostetter. «Collins pensa che la cosa migliore sarebbe quella di mettersi in contatto con Rosen alle cascate. Il fiume è abbastanza basso, ora, e penso che con un po’ d’aiuto potremmo scrollarceli di dosso là».
«Vale la pena di tentare,» commentò Hostetter. «Cosa ne pensate, Joe?»
Kovacs dichiarò che, secondo lui, Collins aveva ragione.
«Una cosa è sicura… non vogliamo altri scontri, e se proseguirano così ci raggiungeranno. I rimorchiatori sono veloci».
Anche Esaù li aveva seguiti. Era fermo accanto a Len, e ascoltava.
«Watts?» domandò.
«Penso di sì. Deve essere andato anche a Shadwell, per trovare aiuto e uomini. Incredibile!»
«Sono completamente pazzi,» disse Kovacs. «Non possono prendersela con i contadini, e così se la prendono con noi. inoltre, siamo selvaggina dovunque ci trovino». Era un omone giovane, abbronzato dal sole. Aveva l’aria di chi non si lascia spaventare facilmente, e in quel momento non appariva spaventato; c’era qualcosa di notevole, però, nella sua decisione di non lasciarsi prendere dalla gente di Refuge, qualcosa che fece pensare Len, dandogli uno strano brivido.
Hostetter fece un cenno all’uomo che sedeva davanti alla radio.
«D’accordo, Sam. Chiamate Rosen».
Sam si congedò da Collins, e cominciò ad armeggiare con i bottoni.
«Dio,» esclamò Esaù, quasi singhiozzando. «Ricordi come abbiamo lavorato, su quei bottoni, senza ascoltare neppure un bisbiglio, e poi i libri, e poi, e poi…» Si interruppe, e scosse il capo, sconsolato.
«Se non aveste casualmente ascoltato durante la notte,» disse Hostetter, «Non avreste mai sentito niente. Len mi ha accennato alla cosa». Era curvo dietro alle spalle di Sam, ora, in attesa.
«L’idea era stata di Len,» disse Esaù. «Lui pensava che di giorno fosse troppo rischioso usarla, per timore di essere visti o sentiti da qualcuno».
«Come in questo momento,» disse Kovacs. «Abbiamo alzato l’antenna… fin troppo evidente, con la luce sufficiente. E c’è una splendida luna».
«Fate silenzio, tutti,» disse Sam, curvo sulla radio. «Come diavolo credete che io possa… Ehi, gente, volete lasciarmi libero un canale, almeno per un momento? È una situazione di emergenza.» Una confusione di voci dall’altoparlante si solidificò in una sola voce, che disse:
«Qui Petto, al traghetto indiano. Devo ritrasmettere?»
«No,» disse Sam. «Voglio Rosen; è entro la mia portata. Volete abbassare, per favore? Abbiamo dei banditi alle calcagna.»
«Oh,» disse la voce di Petto. «Fate un fischio, se avete bisogno di aiuto.»
«Grazie.» Sam ricominciò ad armeggiare con i bottoni e le manopole, e continuò a chiamare Rosen. Len rimase vicino alla scaletta, e osservò, e ascoltò, e gli parve in retrospettiva di avere passato quasi tutta la sua vita a Piper’s Run in ginocchio sull’argine del Pymatuning, tentando di fare uscire delle voci da una scatoletta ostinata. Ora, sommerso da un’ondata di meraviglia e di stanchezza, vedeva, e sentiva, e non riusciva a rendersi conto che ormai ne faceva parte, che aveva raggiunto l’obiettivo dei suoi sogni.
«È molto più grossa di quella che avevamo noi,» disse Esaù, avvicinandosi. I suoi occhi brillavano, come avevano brillato sulla riva del fiume di casa, e la lieve piega di debolezza della sua bocca si smarriva in quella sua eccitazione improvvisa. «Come funziona?» domandò, e il ragazzo curioso di Piper’s Run era ritornato, e Len aveva gli occhi scintillanti a sua volta, e tutto quanto era accaduto parve per un momento smarrito nelle nebbie del fiume. «Che cos’è un’antenna? Come…»
Kovacs gli diede qualche vaga spiegazione sulle batterie e i transistor. La sua mente era distratta, i suoi pensieri erano concentrati su altre cose. Lo sguardo di Len era attirato irresistibilmente dal volto di Hostetter, un po’ ombreggiato dalla falda del cappello… il familiare cappello bruno degli Amish, il familiare taglio dei capelli e della barba… e stava pensando a papà, e a suo fratello James che ora aveva due bambini suoi, e alla nonna che ormai non avrebbe più rimpianto il vecchio mondo che l’aveva vista nascere, e alla piccola Esther, che doveva essere già alta, ora, e girò il capo, per non vedere più Hostetter, ma solo l’ombra impersonale dietro il circolo di luce della lanterna, un’ombra piena di forme indistinte e prive di significato, il carico di una barca su un fiume molto, molto lontano da casa sua. Il motore borbottava, con il suo battito costante, monotono, lento e sicuro, con un lieve sospiro che ricordava il respiro regolare di qualcuno che dormiva profondamente, in un sonno sereno. Poteva sentire il rumore delle pale della ruota che battevano l’acqua, e ora si accorgeva che c’erano molti altri suoni, lo scricchiolare del legno della barca, e il gorgoglio dell’acqua che scivolava oscura sotto la chiglia. E fu assalito in quel momento da uno dei suoi momenti di disorientamento, un selvaggio intervallo di meraviglia, nel quale si chiedeva che cosa stesse facendo in quel luogo, e razionalizzò a sua volta, pensando che molte cose erano accadute, nel corso delle ultime ventiquattro ore, e che lui era stanco, terribilmente stanco.
Finalmente, ora, Sam stava parlando con Rosen.
«Ora cercheremo di aumentare la velocità. Dovrebbe essere subito dopo l’alba, se non ci areniamo su qualche banco di sabbia.»
«Be’, fate attenzione,» rispose la voce gracchiante di Rosen, dall’altoparlante. «Il canale è pericoloso, ora.»
«Non scende niente per le rapide?»
«Niente, solo il legname. Le chiuse sono numerose. Non voglio fare niente di sospetto, a meno che non sia assolutamente necessario: ho passato anni e anni a stabilirmi qui, e a ottenere la piena fiducia, e basterebbe l’ombra di un dubbio…»
«Non mi sembra il sistema adatto per la mia barca,» disse Kovacs. «Abbiamo ancora un lungo viaggio da percorrere, e vorrei che arrivasse a destinazione con il fondo tutto d’un pezzo. Deve esserci qualche altro sistema.»
«Lasciatemi pensare,» disse Rosen.
Ci fu una lunga pausa, durante la quale egli cercò di trovare una soluzione. Gli uomini aspettavano, intorno alla radio, ansiosi.
Piuttosto timidamente, una voce parlò:
«Sono di nuovo Petto, del traghetto indiano.»
«Va bene. Cosa c’è?»
«Be’, ho avuto una… una specie d’idea. Il fiume è basso, ora, e il canale è stretto. Non dovrebbe essere molto difficile bloccarlo.»
«Avete un’idea precisa?» domandò Hostetter.
«C’è una draga che lavora proprio alla fine della punta,» disse Petto. «Gli uomini vengono a passare la notte al villaggio, così non dobbiamo temere che qualcuno anneghi. Ora, se vi riuscisse di passare di là quando sarà ancora buio, e io fossi pronto a lasciare libera la draga… il fiume fa una curva, qui, e la corrente farebbe ruotare la draga, e la porrebbe di traverso, e scommetto che neppure una canoa potrebbe passare, prima che la draga venga recuperata.»
«Petto,» disse Sam, «Siete una meraviglia. Avete sentito, Rosen?»
«Ho sentito. Sembra una soluzione.»
«Lo è,» disse Kovacs. «Ma quando arriveremo lì, fateci passare dalle chiuse in fretta, per precauzione.»
«Sarò pronto,» disse Rosen. «Ci vediamo.»
«Benissimo,» disse Sam. «Petto?» Cominciarono a parlare, discutendo di segnali e di tempi, parlando delle condizioni del canale tra la loro posizione attuale e il traghetto indiano. Kovacs si voltò, e guardò Len ed Esaù.
«Venite,» disse. «Ho un lavoro per voi. Sapete qualcosa sui motori a vapore?»
«Qualcosa,» disse Len.
«Benissimo. Tutto quello che dovrete fare è di tenere acceso il fuoco. Abbiamo fretta.»
«Certo,» disse Len, lieto di avere qualcosa da fare. Era molto stanco, ma poteva accettare di stancarsi ancora di più, se questo avesse impedito alla sua mente di girare e girare intorno ai vecchi ricordi e ai pensieri sgradevoli, e di vedere l’immagine del volto di Dulinsky morente, che già cominciava a confondersi con il ricordo del volto di Soames. Salì la scaletta, seguendo Kovacs. Nella cabina, scoprirono che Amity doveva essersi addormentata, perché non si mosse, quando essi passarono. Esaù si muoveva in punta di piedi, e lanciava occhiate nervose alla coperta che copriva la cuccetta della ragazza. Per un momento, furono sfiorati dall’aria notturna, più fresca e pulita, e poi scesero di nuovo nel pozzo, dove si trovava il motore. Là trovarono un odore di ferro rovente e di carbone, e un uomo rosso e sudato con una grossa pala, che si spostava continuamente da un punto all’altro. Kovacs disse:
«Ti ho portato degli aiutanti, Charlie. Dobbiamo andare svelti.»
Charlie annuì.
«Ci sono delle altre pale, da questa parte.» Aprì lo sportello, e cominciò ad ammucchiare il carbone. Len si tolse la camicia. Esaù cominciò a farlo, ma si fermò, guardando il meccanismo.
«Credevo che fosse diverso.»
«Che cosa?» domandò Kovacs.
«Be’, il motore. Voglio dire che, venendo da Bartorstown, potete avere tutti i tipi di motori che volete, e pensavo…»
Kovacs scosse il capo:
«Legna e carbone sono gli unici combustibili esistenti. Dobbiamo usare quelli. Inoltre, ci si ferma in moltissimi posti, lungo il fiume, e molte persone salgono a bordo, e la prima cosa che vogliono vedere è il motore. Lo riconoscerebbero in pochi secondi, se fosse differente dai soliti. E se si guastasse? Cosa fareste, mandereste a prendere i pezzi mancanti fino a Bartorstown?»
«Già,» disse Esaù. «Già, penso che abbiate ragione.» Era visibilmente deluso. Kovacs se ne andò. Esaù finì di togliersi la camicia, prese una pala, e si mise al lavoro, accanto a Len. Alimentarono il fuoco, mentre Charlie si occupava dello sfiatatoio, e teneva d’occhio la valvola di sicurezza. Il tonfo del pistone si fece sempre più veloce, e la barca acquistò velocità, seguendo la corrente. Finalmente Charlie disse loro di riposarsi per un momento, e si fermarono, appoggiati alle pale, coperti di sudore e rossi in viso. Ed Esaù disse:
«Temo che Bartorstown sia molto diversa da come l’avevamo immaginata.»
«Come tutto il resto, immagino,» disse Len.
Passò un tempo infinitamente lungo prima che un uomo scendesse a dire che la corsa era finita, e che Len ed Esaù potevano sospendere il loro lavoro. I due si arrampicarono sul ponte, e Len sentì l’urto sulla barca, mentre il mozzo della ruota veniva invertito. Non era la prima volta che questo accadeva, durante la notte, e Len pensò che Kovacs doveva avere, o essere egli stesso, il diavolo come pilota.
Si appoggiò alla parete della cabina, rabbrividendo nella fresca aria notturna. Era l’ora pigra e oscura nella quale la luna aveva già lasciato il cielo, e il sole non era ancora salito a darle il cambio. La riva era una bassa macchia nera, con una cornice di nebbia fluttuante nel buio. Davanti sembrava curvarsi, come una parete solida, come se il fiume terminasse là, e tra un momento la barca si sarebbe scontrata con quella parete invalicabile. Len sbadigliò, e ascoltò il concerto delle rane. La barca girò, seguendo la curva del fiume. Nell’ansa della curva c’era un villaggio, e le forme quadrate delle case s’intravvedevano appena. Vicino alla punta ardevano due luci rosse, apparentemente sospese nell’aria, a mezza altezza.
A prua venne mostrata una lanterna, e coperta tre volte in rapida successione. Da un punto molto in basso, a livello delle acque, giunse la risposta, una serie di brevi lampi di luce. Conoscendone l’esistenza, Len poté scorgere vagamente una canoa con un uomo a bordo, e poi, improvvisamente, la vasta, spettrale forma di una draga parve balzare contro di lui dalle tenebre. Scivolò oltre, una massa scheletrica simile a una casa diroccata posata su di una piattaforma bassa, massiccia, dai grandi contrappesi di ferro. Poi fu dietro di loro, e Len osservò le luci rosse di posizione. Per molto tempo non parvero muoversi, e poi gli parve che si spostassero un poco, e poi un poco di più, e alla fine con una lentezza inesorabile e massiccia descrissero un lungo arco verso la riva opposta e si fermarono, e il rumore risuonò nel fiume silenzioso un attimo dopo.
Esaù disse:
«Saranno fortunati, se riusciranno a tirarla fuori di là prima di ventiquattro ore.»
Len annuì. Ora sentiva allentarsi la tensione, o forse questa sensazione era dovuta al fatto che per la prima volta, dopo molte settimane, si sentiva al sicuro. Ora gli uomini di Refuge non potevano seguirlo, e gli avvertimenti che avrebbero potuto mandare lungo il fiume sarebbero arrivati troppo tardi per fermarli.
«Ora penso di riposare un poco,» disse, e andò nella cabina. Amity era sempre addormentata, dietro la tenda che la riparava. Len scelse la cuccetta più lontana da quella della giovane donna, e si addormentò quasi immediatamente. L’ultimo pensiero che balenò nella sua mente fu quello di Esaù che diventava padre, e non pareva una cosa giusta o possibile, in un certo senso. Poi il volto di Watts s’intrufolò nei suoi pensieri, e si sollevò intorno un tremendo odore di umidità, e di pesce. Len si sentiva soffocare, e piangeva, e poi l’oscurità scese in dense volute sopra di lui, immobile e silenziosa e profonda.
Attraversarono il canale il mattino dopo, insieme a una lunga processione di zattere, rimorchiatori, barche a vapore, chiatte, che scendevano con la corrente fino al golfo, grandi barche di mercanti che sembravano i carri che percorrevano le vie polverose di terraferma, andando in piccoli paesi solitari serviti soltanto dalle strade d’acqua. Fu una lenta avanzata, quella, anche se Kovacs disse che Rosen li faceva passare attraverso le chiuse con una rapidità superiore al normale, e c’era molto tempo da trascorrere seduti, a guardarsi intorno, con le mani in mano. Il sole era spuntato in un mare di nebbia. La nebbia si era diradata, ora, ma il caldo era cambiato, non era più il caldo asciutto e limpido del giorno prima. C’era foschia, l’aria era afosa e pesante, e bastava il minimo movimento per coprire il corpo di sudore. Kovacs fiutò l’aria, e disse che minacciava tempesta.
«Verso la metà del pomeriggio,» disse Hostetter, osservando il cielo con occhi socchiusi.
«Già,» disse Kovacs. «Sarà meglio trovare un ormeggio sicuro.»
Se ne andò, intento a dirigere i lavori sulla sua barca. Hostetter era seduto sul ponte, nell’ombra sottile e precaria offerta dalla tettoia della cabina, e Len sedeva accanto a lui. Amity era ritornata nella sua cuccetta, ed Esaù era con lei. Di quando in quando, Len riusciva a sentire il mormorio delle loro voci, attraverso le finestrelle lunghe e strette, ma non si riusciva a cogliere neppure una parola.
Hostetter seguì con lo sguardo Kovacs, con una certa invidia, e poi abbassò lo sguardo sulle proprie mani, grandi e callose, mani che avevano stretto per tutta la vita le redini dei cavalli.
«Mi mancano molto,» disse.
«Che cosa?» domandò Len, che era immerso nei suoi pensieri.
«I miei cavalli. Il carro. Mi sembra strano, dopo tanti anni, restarmene qui seduto, senza fare niente. Non sono sicuro che mi piacerà.»
«Credevo che foste contento di tornare a casa.»
«Sì, infatti. Ed era tempo, davvero, perché ancora ci sono molti dei miei vecchi amici. Ma questa faccenda di condurre due vite ha degli inconvenienti, delle trappole nelle quali è facile cadere. Sono stato via da Bartorstown per quasi trent’anni, ormai, e in tutto quel tempo ci sono tornato soltanto una volta. Dei posti come Piper’s Run sono casa mia, adesso, quasi quanto il posto dove sono nato. Sai, quando ho annunciato, l’estate scorsa, che mi ritiravo dal lavoro attivo, a Piper’s Run mi hanno chiesto di stabilirmi tra loro… e vuoi sapere una cosa? Ho provato la tentazione di accettare.»
Rimase pensieroso, guardando gli uomini al lavoro sul ponte e intorno alle chiuse senza realmente vederli.
«Suppongo che ritornerà tutto come prima, per me,» disse. «Dopotutto, il posto dove si è nati e cresciuti è uno solo… eppure mi sembrerà strano, dover ricominciare a radermi la barba. E porto questi vestiti da tanto tempo…»
L’acqua usciva gorgogliando dalla chiusa, e la barca affondava lentamente, tanto che si doveva sollevare il capo per vedere la sommità dell’argine. Il sole batteva implacabile, e non c’era un soffio di vento ad alleviare la calura, in quella sacca chiusa. Len socchiuse gli occhi, e tirò indietro i piedi, perché erano al sole e bruciavano.
«Chi siete, voi?» domandò.
Hostetter si voltò a fissarlo.
«Un mercante.»
«Voglio dire… chi siete davvero. Cosa fare a Bartorstown.»
«Il mercante.»
Len corrugò la fronte.
«Davvero non capisco. Credevo che tutti gli abitanti di Bartorstown fossero qualcosa di diverso. Scienziati, costruttori di macchine… cose di questo genere.»
«Io sono un mercante,» ripeté Hostetter. «Kovacs è un barcaiolo. Rosen è un buon amministratore, e tiene il canale in ordine e in perfetta efficienza, perché per noi è d’importanza vitale. Petto, al traghetto indiano… sai, conoscevo il padre di Petto, ed era un eccellente specialista di elettronica, ma il ragazzo è un mercante come me, solo che si trattiene molto più a lungo in un solo posto. Ci sono soltanto alcuni scienziati e tecnici potenziali in qualsiasi comunità, quindi anche a Bartorstown. E loro hanno bisogno di tutti noi, per andare avanti. Dall’inizio del tempo, ci sono stati degli scienziati e degli studiosi, e dei mercanti e degli amministratori e degli operai che li hanno aiutati a portare avanti il lavoro.»
«Volete dire…» domandò lentamente Len, che stava cominciando a rivedere tante idee preconcette che si erano formate da anni nella sua mente. «Volete dire che per tutto questo tempo, per tutti questi anni, il vostro lavoro è stato veramente quello di…»
«Di un mercante,» ripeté Hostetter. «Sì. Ci sono circa quattrocento persone a Bartorstown, senza contare noi che viviamo nel mondo esterno. Devono tutti mangiare, e indossare dei vestiti. Poi ci sono molte altre cose necessarie, il ferro e le leghe metalliche e le sostanze chimiche e le spezie, e così via. Tutte queste cose, naturalmente, devono essere portate a Bartorstown dall’esterno.»
«Capisco,» disse Len. Poi, dopo una lunga pausa, disse, in tono malinconico. «Quattrocento persone. A Refuge ce n’erano più del doppio.»
«Si tratta di un numero che supera del novanta per cento quello che avrebbe dovuto esserci. In origine, c’erano trentacinque o quaranta uomini, tutti specialisti, che lavoravano su questo progetto segretissimo, alle dipendenze del governo. Poi, quando è cominciata la reazione più violenta, dopo la guerra, e la situazione si è fatta molto brutta, costoro portarono molti altri uomini, con le loro famiglie, scienziati, professori, gente che non era più popolare nel mondo esterno, tutt’altro. Noi siamo stati fortunati. Esistevano moltissime altre installazioni segrete, in questo paese, ma Bartorstown è l’unica che non sia stata scoperta, o tradita, o abbia dovuto essere abbandonata.»
Len si strinse le ginocchia, con occhi scintillanti.
«Cosa facevano, là, quei quaranta uomini… gli specialisti?»
Un’espressione bizzarra apparve negli occhi di Hostetter. Ma egli si limitò a dire:
«Cercavano di trovare la risposta a un certo problema. Non posso dirti di che cosa si tratta, Len. Posso dirti soltanto che quella risposta non è stata trovata.»
«Stanno ancora cercando?» domandò Len. «Oppure non potete dirmi neppure questo?»
«Aspetta di arrivare là. Allora potrai fare tutte le domande che vorrai, e avrai le risposte dalle persone autorizzate a dartele. Io non sono autorizzato.»
«Quando arriverò là,» mormorò Len. «Sapete, ancora non mi sembra vero. Quando arriverò a Bartorstown… me lo sono detto milioni di volte, l’ho sognato milioni di volte, ma adesso è reale, e non ci credo. Quando arriverò… io, Len Colter… a Bartorstown.»
Sii prudente. Non è un nome da ripetere troppo a voce alta.»
«State tranquillo. Ma… com’è, laggiù?»
«Come aspetto fisico,» disse Hostetter, «È un buco. Piper’s Run, Refuge, Louisville… la comunità che vedi laggiù… sono tutte metropoli, al suo confronto.»
Len guardò il tranquillo, ridente villaggio che si snodava lungo il canale, e la grande pianura verde che si stendeva più oltre, spruzzata dai puntini delle fattorie e del bestiame al pascolo, e disse, ricordando le immagini e le sensazioni di un sogno:
«Niente luci? Niente torri?»
«Luci? Be’, sì e no. Torri… temo di no.»
«Oh,» disse Len, e tacque. La barca scivolava sulle acque, che gorgogliavano dolcemente nella scia, e respirare era un vero e proprio sforzo. Dopo qualche tempo Hostetter si tolse il largo cappello, e si asciugò la fronte, e disse:
«Oh, no, è troppo caldo. Non può durare.»
Len guardò il cielo. Era sereno e di un azzurro intenso; ma anche lui disse:
«Il tempo sta per rompere. Penso che avremo una brutta tempesta.» Rivolse di nuovo la sua attenzione al villaggio. «Una volta quella era una città, non è vero?»
«Una grande città.»
«La ricordo, ora, il suo nome era stato dato in onore del re di Francia. Signor Hostetter…»
«Sì?»
«Che cosa è accaduto a quegli altri paesi… voglio dire, ai paesi come la Francia?»
«Sono all’incirca nella nostra situazione… quelli che hanno vinto. Dio solo sa che cosa ne è stato degli sconfitti. L’intero mondo è ritornato indietro, somiglia molto all’epoca nella quale Louisville era di queste stesse dimensioni, e questo canale è stato scavato dal lavoro degli uomini. Molti temevano che l’uomo avesse cambiato il mondo, e invece il mondo è ritornato indietro, molto in fretta, come ai primi tempi. Come nei primi tempi, quando gli uomini erano ansiosi di crescere e di cambiare.»
«Rimarrà sempre così?»
«Niente,» disse Hostetter, «Rimane mai uguale.»
«Ma non sarà durante la mia vita,» mormorò Len, ripetendo le parole del giudice Taylor. «Né durante quella dei miei figli.» E nella sua mente c’era il suono lontano e triste della caduta da altissimi edifici costruiti su un mare di nuvole.
«Nel frattempo, però,» disse Hostetter. «Questo è un buon mondo. Cerca di godertelo.»
«Un buon mondo, dite,» ripeté Len, amaramente. «Un mondo pieno di gente come Burdette, e come Watts, e come gli uomini che hanno ucciso Soames?»
«Len, il mondo è stato sempre pieno di uomini così, e lo sarà sempre. Non chiedere l’impossibile.» Guardò il viso di Len, e poi sorrise. «Ma anch’io commetto lo stesso errore. Anch’io sto domandando l’impossibile.»
«Cosa intendete dire?»
«È una questione di età,» disse Hostetter. «Non ti preoccupare. Ci penserà il tempo a porvi rimedio.»
Passarono attraverso le ultime chiuse, e ritornarono sul fiume, sotto le grandi cascate. Verso la metà del pomeriggio, l’intero orizzonte settentrionale era diventato di un nero violaceo, e un grande silenzio minaccioso era calato sulla terra. «Brutta faccenda,» disse Kovacs, e mandò di nuovo Len ed Esaù sottocoperta, a rifornire di carbone le macchine. La barca proseguì lungo la corrente, a tutto vapore, con una grande scia di schiuma. L’immobilità dell’aria si fece maggiore, il calore aumentò, soffocante, fino a quando non parve che il mondo fosse sul punto di scoppiare, e poi i primi brontolii della tempesta si udirono in lontananza, dominando anche il rumore della macchina. Finalmente Sam si affacciò alla sommità della scaletta, e gridò a Charlie di lasciar perdere, e di prepararsi all’attracco. Sudati e barcollanti, Len ed Esaù uscirono all’aperto, trovandosi in un fantastico mondo oscuro, nel quale il cielo era stato calato sulla terra come un mantello d’inchiostro. Si stavano fermando, ormeggiando in mezzo al fiume, al riparo di un’isola, la cui riva settentrionale si ergeva come una scogliera protettiva.
«Ci siamo,» annunciò in tono lugubre Hostetter.
Si misero tutti al riparo, nella cabina. Il vento arrivò per primo, facendo ondeggiare gli alberi e facendo cadere i rami più teneri. Poi cadde la pioggia, portata dal vento impetuoso a raffiche solide, che nascondevano ogni cosa alla vista, e si mescolavano con le foglie e i rami portati dal vento d’uragano. E poi cominciarono i lampi, e i tuoni, e il rumore secco degli alberi che venivano sradicati dalle folate più violente, e poi, dopo molto, molto tempo, rimase soltanto la pioggia, che scendeva diritta e pesante, come se qualcuno, in alto, la stesse rovesciando a catinelle. Salirono sul ponte, allora, assicurandosi che tutto fosse a posto, rabbrividendo perché l’aria si era fatta fredda e pungente, e poi ritornarono nella cabina, e dormirono a turno. La pioggia diminuì d’intensità, fin quasi a fermarsi, e poi ritornò di nuovo impetuosa, con l’arrivo di una nuova bufera, e durante il suo turno di guardia Len poté vedere tutto l’orizzonte illuminato dai lampi, mentre le nuvole tempestose danzavano nel cielo una danza incomprensibile, avanzando e indietreggiando, portate dalla massa di aria fredda che scendeva dal nord. Verso mezzanotte, attraverso il tamburellare della pioggia, ora costante e uggiosa, e il lontano brontolio iroso del tuono, Len cominciò a sentire un suono diverso, e capì che era il fiume che si stava gonfiando per l’ondata di piena.
Ripartirono all’alba, un’alba limpida nella quale tutto il mondo sembrava essere stato rimesso a nuovo, lavato e meraviglioso, e una brezza fresca soffiava increspando le acque, da un cielo che pareva di porcellana dipinta, solcato qua e là da nuvolette bianche, e solo i rami strappati degli alberi, e le acque del fiume gonfie e limacciose e piene di rottami, ricordavano la furia selvaggia degli elementi, durante la lunga notte. A mezzo miglio dal punto in cui Kovacs aveva ormeggiato la barca, essi sorpassarono un rimorchiatore, con tutto il suo corteo di zattere, scagliato dalla forza della tempesta sulla riva sud, e più avanti, dopo un paio di miglia, c’era un mercantile, in secca sulla riva, dove era stato spinto dal vento.
Fu quello l’inizio di un lungo viaggio, e, per Len, l’inizio di un lungo e strano periodo che nella sua mente assunse la qualità di un sogno. Seguirono l’Ohio fino alla foce, e poi andarono a nord, avventurandosi nel Mississippi. Ora risalivano la corrente, arrancando lenti e sicuri lungo un canale che cambiava continuamente direzione tra le rive, e la barca pareva sempre sul punto di urtare i pali di segnalazione imbiancati a calce. Consumarono tutto il carbone, e continuarono con la legna presa a una stazione di rifornimento dell’Illinois, e avanzarono ancora fino alla foce del Missouri, e successivamente, per giorni e giorni, arrancarono per risalire le rapide del Big Muddy. Faceva sempre caldo. C’erano temporali, e pioggia, e verso la metà di agosto le notti cominciarono a farsi più fredde, portando con loro i primi, lontani aliti dell’autunno. A volte il vento soffiava così violentemente contro di loro da costringerli ad ormeggiare la barca e ad aspettare, osservando il traffico che seguiva la corrente svilupparsi davanti ai loro occhi, velocissimo e sicuro. A volte, dopo la pioggia, l’acqua si gonfiava e cominciava a scorrere così precipitosa da impedir loro qualsiasi misurazione, e poi scemava con altrettanta celerità, mostrando loro come si fosse spostato l’insidioso canale, e allora dovevano sudare per ore e ore, impiegando tutte le loro energie, per liberare la barca dai banchi di sabbia nei quali era rimasta intrappolata. L’acqua fangosa bloccava la macchina, e così dovevano fermarsi a pulirla, e molte volte dovevano fermarsi per procurarsi la legna. Ed Esaù si lamentava, borbottando:
«Questo è un modo di viaggiare molto disgraziato, per uomini di Bartorstown!»
«Esaù, ascolta,» disse Hostetter. «Se avessimo degli aeroplani, saremmo felici di usarli. Ma non abbiamo aeroplani, e questo modo di viaggiare è molto migliore di quello ancora più semplice, e cioé andare a piedi… come scoprirai presto.»
«Dobbiamo viaggiare ancora molto?» domandò Len.
Hostetter indicò un punto a occidente.
«Fino alle Montagne Rocciose.»
«Quanto tempo ci vorrà ancora?»
«Un mese. Forse qualcosa di più, se ci saranno degli ostacoli. Forse qualcosa di meno, se tutto andrà liscio.»
«E non volete dirci niente, su quello che troveremo?» domandò Esaù. «Com’è il posto, qual è il suo aspetto, come si vive?»
Ma Hostetter si limitò a fornire la stessa, breve risposta che aveva sempre dato a quelle domande:
«Lo scoprirete da soli, quando arriverete là.»
Non voleva parlare con loro di Bartorstown. Aveva fatto quella dichiarazione, affermando che Piper’s Run era un posto più piacevole, e poi non aveva più voluto dire altro. E neppure gli altri uomini si rivelavano più loquaci. Benché i giovani rivolgessero la domanda in ogni maniera possibile, cercando di deviare la conversazione in modo tanto sottile da strappare qualche indizio, gli uomini della barca parlavano di qualsiasi argomento, amabilmente, tranne che di Bartorstown. E Len capì che non ne parlavano, perché avevano paura di dire qualsiasi cosa.
«Avete paura che noi possiamo denunciare i vostri segreti,» disse un giorno a Hostetter. E poi, non per esprimere un rimprovero, ma per constatare un fatto, aggiunse, «Penso che ancora non vi fidiate di noi.»
«Non è una questione di fiducia. È, semplicemente, che nessun uomo di Bartorstown ne parla, e ormai dovresti sapere che è inutile fare delle domande.»
«Mi dispiace,» disse Len. «Vedete, abbiamo pensato a queste cose per tanto, tanto tempo. Penso che avremo molto da imparare.»
«Sì, molto,» disse Hostetter, pensieroso. «Non sarà facile, te lo assicuro. Vi sono molte cose che contrastano con qualsiasi credenza nella quale siete stati allevati, e per quanto voi vogliate ripudiare quello che avete appreso durante l’adolescenza, qualcosa rimane sempre.»
«Questo non mi preoccupa,» interloquì Esaù.
«No, infatti,» disse Hostetter. «Non ne dubito. Ma Len è diverso.»
«Come, diverso?» domandò Len, un po’ offeso.
«Esaù fa ogni cosa a orecchio, è superficiale,» disse Hostetter. «Tu invece ti preoccupi.» Più tardi, quando Esaù se ne fu andato in cabina, Hostetter posò la mano sulla spalla di Len, e sorrise, guardandolo fisso, e Len ricambiò il sorriso, e disse:
«Certe volte mi ricordate moltissimo papà.»
«Non mi dispiace,» disse Hostetter. «No, non mi dispiace affatto.»
Le caratteristiche del paesaggio cambiavano. La grande, ondulata terra boscosa e verdeggiante cominciò a spianarsi, e gli alberi a diradarsi, e il cielo diventò una cosa enorme, che si stendeva incredibile attraverso una pianura verde e grigia, che pareva continuare fin oltre l’orlo del mondo, attirando nelle sue immensità vuote lo sguardo fino a far dolere l’occhio, e costringendo chi guardava a cercare avidamente qualcosa, un albero o almeno un arbusto, che interrompesse quella distesa uniforme e senza confini e gli orizzonti vuoti. C’erano dei villaggi prosperi, sulle rive del fiume, e Hostetter disse che era un’eccellente terra coltivabile, malgrado il suo aspetto, ma Len odiava la piatta monotonia di quella visione, dopo le lussureggianti valli alle quali era abituato. Di notte, però, c’era qualcosa di grandioso, una sensazione di vastità ventose sfolgoranti di migliaia di stelle, tante quante Len non ne aveva mai viste prima.
«Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi,» spiegò Hostetter. «Ma anche questa terra possiede una propria bellezza. Quasi tutti i posti sono belli, se tu non chiudi gli occhi e la mente e rifiuti di vedrli. È per questo che sono pentito di avere detto quelle cose, su Bartorstown.»
«Però eravate molto serio,» disse Len. «Sapete che cosa penso? Penso che vi dispiaccia di tornare.»
«Cambiare è sempre difficile, è sempre una fonte di dispiacere,» disse Hostetter. «Ti abitui a fare le cose in un certo modo, ed è sempre una lacerazione, una violenza, l’idea di cambiare.»
Len ebbe un pensiero che, stranamente, non si era mai insinuato nella sua mente prima di quel momento. Domandò:
«Voi avete famiglia, a Bartorstown?»
Hostetter scosse il capo.
«Sono sempre stato un vagabondo, non ho mai voluto dei legami.»
Entrambi, inconsciamente, si volsero a guardare indietro, a poppa, dove Esaù era seduto accanto ad Amity.
«Ed è così facile averne,» concluse Hostetter.
C’era qualcosa di possessivo nell’atteggiamento di Amity, nel modo in cui piegava la testa verso Esaù, e appoggiava la sua mano su quella di lui. Stava arrotondandosi, e la sua bocca aveva un’espressione petulante, e prendeva la sua maternità, sebbene ancora lontana, con grande serietà. Len rabbrividì, ricordando i suoi approcci e le sue ore spensierate nel roseto.
«Sì,» disse Hostetter, che lo stava fissando attentamente. «Sono d’accordo con te. Ma devi ammettere che, in un certo senso, l’uno merita l’altra.»
«Il fatto è che non riesco a vedere Esaù nelle vesti di un padre.»
«Potresti avere delle sorprese,» disse Hostetter. «E poi, lei lo terrà in riga. Non essere così sicuro, ragazzo. Verrà anche il tuo turno.»
«No, se me ne accorgerò prima,» disse Len.
Hostetter ridacchiò di nuovo.
La barca tesseva la sua via verso la foce del Piatte. Len lavorava, e mangiava, e dormiva, e negli intervalli tra queste cose, rifletteva. Gli era stato tolto qualcosa, e pensandoci riuscì a comprendere di che cosa si trattava, e perché questo l’avrebbe reso infelice. Gli avevano tolto l’immagine di Bartorstown che aveva portato con sé, la visione che lo aveva seguito per tutta la lunga strada percorsa dopo avere lasciato la propria casa. Ormai quella magica visione era scomparsa, e al suo posto c’era soltanto una piccola raccolta di fatti e una vuota attesa che doveva essere colmata. Bartorstown… un’installazione militare di prima della guerra, segretissima, destinata a qualche misteriosa ricerca, il cui nome veniva da Henry Waltham Bartor, il Segretario alla Difesa che l’aveva fatta costruire… stava sostenendo una dolorosa trasformazione dalla morte alla realtà. La realtà doveva ancora venire, e nel frattempo non c’era niente, e Len sentiva confusamente che qualcosa era scomparso, e gli pareva che qualcuno fosse morto, qualche persona a lui cara. E infatti qualcuno era morto: la nonna, certo, e le due cose erano così strettamente intrecciate, nella sua mente, che non poteva fare a meno di pensare a Bartorstown senza pensare anche alla nonna, ricordando le cose che aveva detto, cose proibite, autentiche sfide, che avevano reso furioso papà. Si domandò se lei non avesse saputo che lui stava andando là. Se lo augurava. Sarebbe stata contenta.
Una sera ormeggiarono la barca a una bassa banchina in mezzo al nulla, dove non si vedeva nulla, salvo l’erba della prateria e il cielo senza fine, e non si udiva alcun suono, salvo quello del vento mai stanco di soffiare, e l’incessante scorrere del fiume. Al mattino, cominciarono a scaricare, e verso mezzogiorno Len si fermò un momento per riprendere fiato, e asciugarsi il sudore. E allora vide una colonna di polvere in lontananza, nella prateria, che veniva verso il fiume.
Hostetter annuì.
«Sono i nostri uomini, che portano i carri. Da qui devieremo per raggiungere la valle del Piatte, e raccoglieremo il resto della compagnia in un punto vicino a South Fork.»
«E poi?» domandò Len, provando un fremito della vecchia eccitazione.
«E poi percorreremo l’ultimo tratto.»
Poche ore dopo arrivarono i carri, otto grandi carri massicci, costruiti per il trasporto delle merci, e tirati da muli. Gli uomini che li conducevano erano bruni e asciutti, e, quando si toglievano i cappelli, si vedeva che la parte superiore della fronte era bianca, e c’era una rete di piccole rughe bianche attorno agli occhi, prodotte dallo strizzare degli occhi al sole. Salutarono Kovacs e i barcaioli come vecchi amici, e strinsero la mano a Hostetter con calore, come per dargli il bentornato a casa. Poi uno di loro, un vecchio dallo sguardo penetrante e dalle spalle enormi, che parevano in grado di reggere da sole il peso di un carro, se i muli si fossero stancati, guardò socchiudendo gli occhi Len ed Esaù, e disse a Hostetter:
«Così sono questi i vostri ragazzi.»
Il vecchio li osservò ancora, squadrandoli ben bene.
«Mio figlio era nelle regioni dell’Ohio due o tre anni fa. Be’, mi ha raccontato che non si parlava d’altro che dei ragazzi di Hostetter. Dov’erano, e cosa facevano, e bisognava avvertirlo subito se andavano da qualche parte, e così via. Una bella storia.»
«Mi sembrano delle esagerazioni,» disse Hostetter. Il suo volto era rosso come un mattone, ora. «E poi, due ragazzi che conosco da quando sono nati, in fondo…»
Il vecchio terminò il suo esame, e si fermò davanti a Len e a Esaù. Con grande solennità, porse loro la mano, che pareva un antico ramo di quercia nodosa, e scambiò con loro una lunga stretta.
«I ragazzi di Hostetter,» disse. «Sono contento che siate arrivati qui, prima che il mio vecchio amico Ed si prendesse un grosso esaurimento nervoso.»
Se ne andò, ridendo. Hostetter sbuffò, e cominciò a portare casse e balle di stoffa sui carri, con evidente malagrazia. Len sogghignò, e Kovacs scoppiò in una tonante risata.
«Il fatto è che non stava scherzando,» disse Kovacs, indicando il vecchio con un cenno del capo. «Ed ha fatto lavorare tutte le radio di quella parte del paese, per seguirvi.»
«Be’, accidenti,» brontolò Hostetter, «Erano solo due ragazzi, voi che cosa avreste fatto al mio posto?»
Quella notte si accamparono vicino al fiume, e il giorno dopo caricarono i carri, con grande cura, sistemando ogni cosa al suo posto, e lasciando uno spazio libero per Amity, dove la giovane donna avrebbe potuto stare comoda, e dormire. Kovacs era diretto verso l’Alto Missouri, e poco dopo mezzogiorno mise la caldaia in pressione, e ripartì a tutto vapore. I muli vennero radunati da due o tre uomini, che cavalcavano piccoli cavalli nervosi di un tipo che Len non aveva mai visto. Len aiutò gli uomini a mettere i finimenti alle bestie, e poi prese posto su uno dei carri. Le lunghe fruste schioccarono, e i conducenti urlarono. I muli si mossero, e i carri rotolarono lenti sull’erba della prateria, con un grande cigolio e una stridula protesta degli assali. Verso sera, attraverso quella terra piatta, Len poté ancora vedere la barca che risaliva il corso del fiume. Al mattino era ancora là, ma più lontana, e nel corso della giornata egli non la vide più. E la prateria divenne immensa e solitaria.
Il Piatte scorreva vasto e poco profondo tra colline di sabbia. Il sole era implacabile sulle loro teste, e il vento soffiava incessantemente, e la landa pianeggiante pareva distendersi all’infinito. Len ricordava l’Ohio con infinita nostalgia. Ma dopo qualche tempo, quando cominciò ad abituarsi a quello scenario strano, cominciò ad accorgersi dell’esistenza di un intero nuovo mondo nella prateria, di un modo di vivere che non era brutto, quando ci si riusciva a liberare dalle catene dell’abitudine che parlavano di colline e valli, di laghi e boschi ondulati, di pioggia e di aratura e di semina. Gli arbusti polverosi che crescevano sulle rive dei fiumi diventarono ai suoi occhi belli come querce secolari, e le fattorie che sorgevano, quasi tenendosi aggrappate al fiume, erano una visione più desiderabile dei villaggi della sua terra, perché erano molto più rare e separate tra loro. Le fattorie erano primitive, battute dal sole, ma erano abbastanza comode, e Len trovò simpatica la gente, le donne brune e forti e gli uomini che parevano perdere una parte di se stessi quando si separavano dai loro cavalli. Al di là delle colline sabbiose si stendeva la prateria, e sulla prateria c’erano immensi armenti selvaggi, e branchi di cavalli selvaggi, le risorse che permettevano a quei cacciatori e a quei mercanti di vivere e guadagnare bene. Hostetter disse che gli animali selvaggi erano i discendenti degli animali delle grandi fattorie-modello di prima della guerra, che erano stati liberati nel totale sommovimento che era avvenuto dopo l’abbandono delle città, e il conseguente crollo del vecchio sistema di rifornimento e di richiesta.
«I loro pascoli giungono fino al Messico,» disse, «E ormai non c’è più un confine, da quella parte. I vecchi agricoltori delle terre aride se ne sono andati da molto tempo. Per qualche generazione, ormai, nessun aratro ha scalfito le pianure, e l’erba sta ritornando, perfino nei peggiori deserti creati dall’uomo, come aveva stabilito il buon Dio.» Respirò profondamente, e il suo sguardo spaziò fino all’orizzonte. «C’è qualcosa di significativo, vero, Len? Voglio dire, in un certo senso l’Est è chiuso, pieno di colline e di boschi, e dall’altro lato di una valle fluviale, come difeso dal resto della terra.»
«Non riuscirete a farmi dire che l’Est non mi piace,» disse Len. «Ma comincia a piacermi anche questo posto. È così grande e così vuoto, che non riesco a soffocare l’impressione di poter precipitare da un momento all’altro.»
La prateria non era soltanto immensa e vuota: era anche arida. Il vento soffiava e graffiava il suo viso, risucchiando da lui i liquidi, come una sanguisuga impalpabile. Lui beveva e beveva, e c’era sempre sabbia sul fondo della tazza, e lui aveva sempre sete. I muli percorrevano miglia e miglia tirando i carri, ma così gradualmente, attraverso un paesaggio così montono e uniforme, che Len aveva l’impressione di non essersi mosso di un metro. Attraverso le profonde gole nelle colline sabbiose il bestiame selvaggio scendeva ad abbeverarsi, e di notte i lupi della prateria abbaiavano e ululavano per quietarsi in rispettoso silenzio quando si udiva la voce più profonda e più paurosa di qualche vero lupo di passaggio. A volte procedevano per giorni senza incontrare una fattoria o un segno di vita umana, e poi passavano vicino a un accampamento dove i cacciatori avevano fatto buona preda ed erano intenti a salare la carne e a dare la prima concia al cuoio. E il tempo passava. E come il tempo sul fiume, pareva eterno e fuori delle cose.
Raggiunsero il luogo dell’appuntamento a South Fork, in una prateria ingiallita e sbiadita dal sole, ma ancora più verde della abbagliante desolazione sabbiosa che si stendeva intorno a perdita d’occhio, interrotta soltanto dal fluire di un fiume dalle acque povere. Quando ripresero la strada la carovana era formata da trentuno carri, e da più di settanta uomini. Alcuni erano venuti direttamente dalle Grandi Pianure, altri erano giunti dal nord e dall’ovest, ed erano carichi di ogni cosa, dalla lana alla ghisa alla polvere da sparo. Hostetter disse che altre carovane di carri venivano dall’Arkansas e dal grande paese che si stendeva a sud-ovest, e che altre carovane seguivano ancora l’antica pista attraverso le montagne, dai paesi di occidente. Tutte le provviste dovevano essere raccolte prima dell’inverno, perché Le Pianure erano un luogo ostile e crudele quando il vento del nord soffiava aspro, e l’unico passo che conduceva a Bartorstown era bloccato dalla neve.
Di quando in quando, in punti particolari, essi trovavano dei gruppi di uomini accampati, ad attenderli, e allora la carovana si fermava, e iniziavano le contrattazioni, e in un certo punto, dove un altro fiume si versava nel South Fork, e c’era un villaggio fatto di quattro case, altri due carri carichi di pelli e di carne essiccata si unirono alla carovana. E Len disse, quando fu sicuro di essere solo con Hostetter, senza orecchie indiscrete ad ascoltare:
«Questa gente non ha sospetti? Voglio dire, sulla nostra destinazione?»
Hostetter scosse il capo.
«Non ne hanno bisogno. Lo sanno.»
«Loro sanno che andiamo a Bartorstown?»
Len fissò l’altro, incredulo.
«Sì,» disse Hostetter. «Ma non sanno di saperlo. Vedrai tu stesso, quando arriveremo là.»
Len non fece altre domande, ma rifletté molto su quelle parole, e gli parve di trovarsi di fronte a una cosa priva di senso.
I carri rumoreggiarono pesanti nel caldo e nel riverbero abbagliante della sabbia. E nel tardo pomeriggio di un giorno nel quale le Montagne Rocciose parevano galleggiare azzurrine e nebbiose all’orizzonte occidentale, come una grande tenda impalpabile tirata per chiudere il cielo, si udì un grido improvviso, che veniva da molto più avanti. Il grido venne passato di bocca in bocca, lungo tutta la carovana, di conducente in conducente, e i carri si fermarono pesantemente. Hostetter prese il suo fucile, e Len chiese:
«Cosa succede?»
Hostetter disse:
«Penso che tu abbia sentito parlare dei Nuovi Ismaeliti.»
«Sì.»
«Be’, adesso stai per vederli.»
Len seguì il gesto di Hostetter, che socchiudeva gli occhi per proteggersi dalla luce rosseggiante del tramonto. E alla sommità di una collina bassa e nuda egli vide un gruppo di persone, non più di una cinquantina, riunite e intente a guardare in basso.
Balzò a terra, imitando Hostetter. Il conducente rimase a cassetta, in modo da poter spostare il carro per formare una linea di difesa, se fosse venuta la necessità. Esaù li raggiunse, insieme ad alcuni altri uomini, e al vecchio dagli occhi penetranti e dalle spalle poderose, che si chiamava, come Len aveva scoperto più tardi, Wepplo. Quasi tutti erano armati di fucili.
«Cosa facciamo?» domandò Len, e il vecchio rispose:
«Aspettiamo.»
Aspettarono. Due uomini e una donna scesero lentamente dalla collina, e il capocarovana si fece avanti, altrettanto lentamente, per incontrarli, seguito da mezza dozzina di uomini armati, che gli proteggevano le spalle. E Len spalancò gli occhi.
Le persone riunite sulla collina erano una consorteria di spaventapasseri, figure grottesche formate da vecchie ossa e da strisce di cuoio scolorito. C’era qualcosa di orribile, nell’accorgersi che tra di essi c’erano dei bambini, che guardavano con occhi pieni dell’usuale meraviglia dei bambini gli stranieri e i carri. Vestivano di pelli di capra, proprio come la Bibbia raffigurava la veste di Giovanni Battista, o lunghe vesti di semplice stoffa bianca e sporca, che parevano semplici lenzuoli. I capelli erano lunghi, e scendevano disordinatamente sulle spalle e sulla schiena, e gli uomini avevano delle barbe incolte, che arrivavano quasi alla cintura. Erano magri, scheletrici, e anche i bambini avevano un aspetto selvaggio e famelico. Gli occhi erano profondamente scavati, e forse era soltanto un effetto prodotto dal sole basso sull’orizzonte, ma Len ebbe la netta impressione che i loro occhi ardessero e bruciassero di una luce propria, come gli occhi di un cane idrofobo che un giorno aveva visto a Piper’s Run.
«Ci attaccheranno?» domandò.
«Ancora non si può dire,» rispose Wepplo. «A volte sì, a volte no. Dipende.»
«Dipende?» domandò Esaù. «Da che cosa?»
«Dal fatto che siano stati ’ispirati’, oppure no. Generalmente, si limitano a vagabondare nei deserti, e a pregare, e a fare molto santo digiuno. Ma poi, improvvisamente, uno di loro comincia a urlare, e a sbavare, e si getta a terra torcendosi e scalciando, e questo è un segno che essi sono stati colpiti dallo speciale favore del Signore. Così tutti gli altri cominciano a ballare e a urlare e a fustigarsi con rami spinosi o staffili… gli staffili, vedete, sono l’unico oggetto personale che la loro religione permette loro di possedere… e quando si sono lavorati l’un l’altro a questo modo, arrivando al grado di cottura giusta, si riuniscono e scendono a massacrare qualche agricoltore che ha offeso il Signore riempiendosi la pancia di cibo e proteggendo la sua famiglia con un solido tetto. Quando sono ispirati, sono imbattibili, come macellai, con delle vittime umane.»
Len rabbrividì. I volti degli Ismaeliti lo riempivano di spavento. Ricordava i volti dei contadini, quando avevano marciato su Refuge, e ricordava lo spavento provato di fronte alla loro ferrea determinazione. Ma erano stati differenti. Il loro fanatismo esplodeva solo quando era provocato. Questa gente, invece, viveva di fanatismo, per il fanatismo, e lo serviva, con assoluta dedizione, senza ragionare, senza pensare.
Sperò con tutte le sue forze che gli Ismaeliti non decidessero di attaccare.
Non attaccarono la carovana. I due uomini e la donna dall’aspetto scarmigliato e selvaggio… la donna era una creatura ossuta, i cui spigoli apparivano attraverso il sudario che le copriva il corpo, e una massa di capelli neri che le coprivano le spalle… erano troppo lontani, perché si potessero sentire le parole, ma dopo qualche minuto il capocarovana si voltò, e parlò agli uomini che si trovavano alle sue spalle. Due di costoro ritornarono ai carri. Si diressero verso un carro particolare, e Wepplo grugnì.
«Niente massacro, questa volta. Vogliono soltanto un po’ di polvere.»
«Polvere da sparo?» domandò Len, incredulo.
«A quanto sembra, la loro religione non li obbliga a morire, letteralmente, di fame, e ogni loro gruppo… questo è solo uno dei molti gruppi che vagano nei deserti… possiede due fucili. Ho saputo, però, che non hanno mai sparato a un vitello, o a una mucca tenera e giovane, ma soltanto ai vecchi tori, che sono abbastanza coriacei da mortificare la carne di chiunque.»
«Ma la polvere da sparo!» disse Len. «Non se ne servono, poi, anche contro gli agricoltori?»
Il vecchio scosse il capo.
«Uccidono con i coltelli e con le unghie, quando uccidono. Suppongo che, in questo modo, siano più vicini al loro lavoro. Inoltre, hanno pochissima polvere da sparo, il minimo sufficiente per sopravvivere.» Indicò i due uomini, che stavano ritornando verso la collina portando una borsa piena a metà. Un lieve suono, per metà lamentoso e per metà imperioso, giunse dal secondo carro verso il fondo, rispetto a quello dove si trovavano, ed Esaù disse:
«Oh, Signore, è Amity che mi sta chiamando. Probabilmente è spaventata a morte.»
Si voltò, e andò immediatamente da quella parte. Len rimase a osservare i Nuovi Ismaeliti.
«Da dove vengono?» domandò, cercando di ricordare quello che aveva sentito dire sul loro conto. Erano una delle primissime sette nate dopo la Distruzione, e una delle più rigorose ed estremiste, ma non ne sapeva molto di più.
«Alcuni erano già qui, fin dall’inizio,» disse Hostetter. «Sotto altri nomi, naturalmente, e non così pazzi, perché la pressione della società li teneva sotto controllo, ma erano comunque un seme molto fertile anche prima della Distruzione. Altri vennero qui, spontaneamente, quando il movimento dei Nuovi Ismaeliti prese forma, e cominciò veramente a funzionare. Moltissimi altri vennero ricacciati dall’Est, essendo dei naturali provocatori di guai che la gente normale desiderava allontanare il più possibile: di paese in paese, vennero respinti in questa che, dopotutto, è la loro terra naturale.»
La piccola borsa di polvere da sparo cambiò di mano. Len disse:
«Con che cosa la pagano?»
«Con niente. Comprare e vendere sono il contrario della santità, e poi, non avrebbero niente da offrire. A pensarci bene, non so per quale motivo, alla fine, gliela diamo. Penso,» continuò Wepplo, «Che si tratti soprattutto dei bambini. Vedi, qualche volta se ne trova uno tra i rovi, smarrito, proprio come il cucciolo di un lupo della prateria; se lo si trova in tempo, e lo si alleva bene, diventa come tutti noi, magari anche più intelligente. Pensare che quei bambini muoiano di fame non fa piacere a nessuno. Così diamo la polvere da sparo.»
La donna sollevò le braccia, anche se Len non riuscì a capire se questo fosse stato in segno di benedizione o di maledizione. Il vento agitò i lunghi capelli neri, rivelando il volto, e Len scoprì con stupore che era giovane, e avrebbe potuto essere graziosa se le guance non fossero state così scavate, e gli occhi così febbrili e folli. Poi la donna e i due uomini salirono di nuovo in cima alla collina, e cinque minuti più tardi se ne andarono tutti, nascosti dalle gole e dalle cime sabbiose. Ma quella notte gli uomini di Bartorstown raddoppiarono le guardie.
Due giorni più tardi riempirono di acque ogni borraccia, secchio o barile, e lasciarono il fiume, dirigendosi verso sud-ovest, in una terra deserta e vuota, bruciata dal sole, battuta dal vento, e secca come un vecchio teschio. Stavano salendo, ora, verso distanti bastioni di roccia rossa con masse confuse di cime che si levavano azzurre e lontane più oltre. I muli e gli uomini faticavano insieme, avanzando lentamente, e Len imparò a odiare il sole.
Guardava le lontane vette crudeli e aspre, e si poneva domande prive di risposta. Poi, quando l’acqua fu quasi finita, giunsero a una rossa scarpata che curvava verso occidente, e nella quale c’era un’apertura larga come due carri, e Hostetter disse:
«Quello è il primo passo.»
Entrarono in fila nel passo. Il terreno era liscio come una strada artificiale, ma era ripido, e tutti camminavano a piedi, ora, per rendere più agevole la fatica dei muli, eccettuata Amity. Dopo qualche tempo, senza un ordine percepibile, e senza qualsiasi ragione evidente, si fermarono.
Domandò il perché.
«Una normale precauzione,» disse Hostetter. «Non siamo generalmente invasi dai visitatori, come potrai immaginare osservando il paesaggio, ma nemmeno un coniglio può entrare da questo passo senza essere visto, e la consuetudine è quella di fermarsi per lasciarsi osservare. Se qualcuno non lo fa, sappiamo immediatamente che si tratta di un estraneo.»
Len girò il collo, ma non riuscì a vedere altro che rocce rosse. Esaù camminava al loro fianco, e c’era anche Wepplo. Wepplo notò la perplessità dei giovani, e scoppiò in una risata allegra:
«Ragazzi miei, vi stanno squadrando ben bene, in questo preciso momento, a Bartorstown. Sì, proprio così. Vi studiano bene, e se non trovano di loro gradimento la vostra faccia, premono un bottoncino e, boom!» Spalancò le braccia, comicamente, e Len ed Esaù si abbassarono istintivamente. Wepplo sogghignò di nuovo.
«Cosa volete dire, boom?» domandò Esaù, impermalito, guardandosi intorno con aria minacciosa. «Vorreste dire che qualcuno che si trova a Bartorstown potrebbe ucciderci qui? Siete pazzo!»
«È verissimo, invece,» interloquì con voce pacata Hostetter. «Ma non c’è niente da preoccuparsi. Sanno che ci siete anche voi.»
Len sentì la schiena tramutarsi in un solo brivido di gelo.
«Come è possibile che ci vedano?»
«Grazie agli scrutatori,» disse Hostetter, indicando con un gesto vago le rocce. «Nascosti nelle fessure, dove non potete vederli. Uno scrutatore è una specie di occhio, molto lontano dal corpo. Chiunque attraversi il suo campo di visione viene visto a Bartorstown… che dista ancora un giorno di marcia.»
«E per fare queste cose, devono semplicemente premere qualcosa?» domandò Esaù, inumidendosi le labbra.
Wepplo spalancò di nuovo le braccia, e ripeté, ridendo:
«Boom!»
«Dev’esserci qualcosa di veramente segreto, laggiù,» disse Esaù, «Per prendere tutte queste precauzioni.»
Wepplo aprì la bocca, e Hostetter disse:
«Che ne direste di andare a dare una mano laggiù? Quel carro ha dei problemi.»
Wepplo chiuse di nuovo la bocca, e si curvò sul timone di un carro che, apparentemente, procedeva normalmente. Len guardò attentamente Hostetter, ma questi gli voltava la schiena, e tutta la sua attenzione pareva concentrata sul compito di spingere il carro. Len sorrise, e non disse niente.
Al di là del passo c’era una strada. Era una strada eccellente, ampia e uniforme, e Hostetter disse che era stata fatta molto, molto tempo prima della Distruzione, e la chiamò strada di arroccamento. Si sviluppava a zig-zag seguendo i contorni di una montagna, e Len poté vedere i segni sulla roccia, dove enormi denti d’acciaio avevano scavato. Salirono lentamente, con i muli che sbuffavano e borbottavano, e gli uomini che li aiutavano, e Hostetter indicò una spaccatura irregolare nella montagna, molto alta, contro il cielo, e disse:
«Domani.»
Il cuore di Len cominciò a battere più forte, e i nervi parvero percorsi da un fremito in tutto il suo stomaco. Ma si limitò a scuotere la testa, e Hostetter domandò:
«Cosa ti succede?»
«Non avrei mai pensato che ci fosse una strada per arrivarci. Voglio dire, proprio una strada.»
«Come pensavi che potessimo entrare e uscire?»
«Non lo so. Non lo so quello che pensavo,» disse Len. «Ma credevo che ci fossero delle mura, o delle guardie, o qualcosa di simile. Naturalmente, possono fermare gli intrusi nella gola, là in basso…»
«Potrebbero farlo. Non è mai successo, però.»
«Volete dire che la gente può passare di là, semplicemente? E risalire questa strada? E valicare il passo, per giungere a Bartorstown?»
«Sì e no,» disse Hostetter. «Non hai mai sentito dire che il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo dove tutti possono vederlo?»
«Non capisco,» disse Len. «Non capisco.»
«Capirai.»
«Lo spero.» Gli occhi di Len erano di nuovo eccitati, splendevano di quella luce particolare che si associava sempre ai suoi sogni di Bartorstown, ed egli ripeté, sommessamente, «Domani,» come se avesse voluto accarezzare quella parola, come se l’avesse trovata di un sapore squisito.
«La strada è stata lunga e difficile, vero?» disse Hostetter. «Il tuo desiderio di venire doveva essere veramente grande, per averti fatto aspettare con tanta tenacia.» Tacque per un momento, osservando l’alto passo. Poi disse, «Non avere fretta, Len. Devi dare tempo al tempo. Non troverai tutto quello che hai sempre sognato, ma non avere fretta. Non prendere delle decisioni affrettate.»
Len si volse, e lo osservò, con espressione grave:
«È da quando siamo partiti che ho l’impressione che vogliate mettermi in guardia. Sì, proprio così. Volete mettermi in guardia, contro qualcosa che non so.»
«Cerco soltanto di dirti di… di non essere impaziente. Devi lasciare a te stesso la possibilità di adattarti.» Improvvisamente, quasi irato, esclamò, «Questa è una vita dura, ecco cosa cerco di dirti. È dura per tutti, anche a Bartorstown, e non promette di diventare più facile, e non ti devi aspettare uno spendente paradiso, una terra dei sogni, per poi restare con il cuore spezzato davanti a una delusione.»
Fissò duramente Len, un breve sguardo, e poi voltò il capo, respirando più forte e muovendo istintivamente le mani, come un uomo che sia turbato e non voglia mostrarlo. E Len disse allora, lentamente:
«Voi odiate questo posto.»
Non riusciva a crederlo. Era impossibile. Ma quando Hostetter disse:
«È ridicolo, come posso odiarlo?» in quel momento Len capì che era vero.
«Perché siete ritornato? Avreste potuto rimanere a Piper’s Run.»
«Anche tu avresti potuto farlo.»
«Ma è diverso.»
«No, invece! Tu hai una buona ragione, e anch’io.» Continuò a camminare per un minuto, a capo chino. Poi aggiunse, «Una sola cosa, Len. Non pensare mai di ritornare indietro.»
Si allontanò in fretta, e Len rimase indietro, e non poté vederlo da solo per tutto il resto del giorno e della notte. Ma si sentiva scosso, sconvolto, esattamente come sarebbe accaduto se, ai vecchi tempi, papà gli avesse detto improvvisamente che Dio non esisteva.
Non disse niente a Esaù. Continuò a guardare il passo, e a porsi mille domande, domande senza risposta. Nel tardo pomeriggio furono abbastanza in alto, tra le montagne, da avere una buona visione della strada già percorsa, oltre il contrafforte della scarpata rossa, là dove il deserto si stendeva solitario e ardente. Una terribile sensazione di dubbio era calata su di lui. La roccia gialla e rossa, i picchi aguzzi che si protendevano verso il cielo, la luce impietosa che non veniva mai addolcita da una nuvola, o ammorbidita da una pioggia, il deserto grigio e la povere e l’arsura, i vasti silenzi risonanti dove nulla viveva all’infuori del vento, tutte queste cose parevano schernirlo, con la loro indifferenza cupa, con la loro totale mancanza di speranza. Lui avrebbe voluto tornare indietro… no, non a casa, perché là avrebbe dovuto affrontare lo sguardò di papà, e neppure a Refuge. Semplicemente, in un posto dove ci fosse stata vita, e acqua, ed erba verde e lucida. In un posto dove le orribili rocce nude non si ergessero da ogni parte, come…
Come che cosa?
Come la verità, quando tutti i sogni le venivano strappati, come veli inutili?
Non era un pensiero allegro. Cercò di ignorarlo, ma ogni volta che vedeva Hostetter, ricominciava a tormentarlo. Hostetter sembrava cupo e pensieroso, e scomparve subito dopo la cena, consumata nell’improvvisato accampamento. Len andò a cercarlo, o meglio, cominciò a farlo, ma poi la ragione gli disse che non era il caso.
Erano accampati sulla cima del passo, dove si apriva un vasto spazio su entrambi i lati della strada. Il vento ululava, impetuoso, e il freddo era pungente. Poco prima che calasse l’oscurità, Len notò alcune lettere scolpite in una parete di roccia che sovrastava la strada. Erano in parte cancellate dal tempo, sgretolate dalle stagioni, ma erano grandi, e poté leggerle. Dicevano: FALL CREEK 13 MIGLIA.
Hostetter era scomparso, e così Len andò a cercare Wepplo, e gli chiese il significato di quelle lettere.
«Non sai leggere, ragazzo? Significano esattamente quello che dicono. Fall Creek, tredici miglia. Da qui a là.»
«Tredici miglia,» disse Len, «Da qui a Fall Creek. Va bene. Ma cos’è Fall Creek?»
«Un paese,» disse Wepplo.
«Dov’è?»
«Nel Canyon di Fall Creek.» Puntò il braccio. «Tredici miglia.»
Stava sogghignando. Len cominciava a detestare il senso dell’umorismo di quel vecchio.
«Cosa c’entra Fall Creek?» domandò. «Cosa c’entra con noi, voglio dire?»
«Be’,» disse Wepplo. «C’entra con noi, eccome! Se non c’entra Fall Creek, vorrei sapere cos’altro al mondo può entrarci! Non lo sapevi, ragazzo? È là che stiamo andando.»
Poi scoppiò in un’altra risata. Len batté frettolosamente in ritirata. Era furioso con Wepplo, furioso con Hostetter, furioso con Fall Creek. Era furioso col mondo intero. Si raggomitolò nella sua coperta, e giacque così, tremando e maledicendo ogni cosa. Era terribilmente stanco. Ma impiegò molto tempo per addormentarsi, e poi cominciò a sognare. Sognò che lui stava cercando Bartorstown. Sapeva di essere quasi arrivato, ma c’era nebbia, e faceva buio, e la strada continuava a cambiare direzione, sempre mutevole. Continuava a chiedere a un vecchio come avrebbe potuto arrivarci, ma il vecchio non aveva mai sentito parlare di Bartorstown, e rispondeva soltanto, monotono, che mancavano tredici miglia a Fall Creek.
Il giorno dopo valicarono il passo. Len e Hostetter erano cupi e scontrosi, e non parlavano molto. Prima di mezzogiorno iniziarono la discesa, e da quel momento fu molto più facile avanzare. I muli procedevano svelti, come se avessero saputo di essere quasi a casa. Gli uomini diventarono allegri ed eccitati. Esaù continuava ad avvicinarsi a Hostetter, ogni volta che riusciva a liberarsi da Amity, e domandava:
«Ci siamo?»
E Hostetter annuiva, e diceva:
«Quasi.»
Uscirono dal passo con il sole pomeridiano negli occhi. La strada si congiunse con un’altra, che correva lungo il fianco di una parete rocciosa, e in fondo alla parete c’era una gola ampia, con l’ombra bluastra della parete opposta che già ne riempiva gli anfratti. Hostetter puntò il braccio. La sua voce non era né eccitata, né felice, né triste.
«Eccola.»