Leigh Brackett La città proibita

Nessuna città, nessun paese, nessuna comunità con popolazione superiore a duemila abitanti, o con più di duecento fabbricati per miglio quadrato, dovrà essere costruita, o ne verrà permessa l’esistenza, in qualsiasi regione degli Stati Uniti d’America.

Costituzione degli Stati Uniti

TRENTESIMO EMENDAMENTO

Libro Primo

1.

Len Colter sedeva all’ombra del muro della scuderia, mangiava pane e burro, e meditava un peccato. Aveva quattordici anni, e li aveva vissuti tutti nella fattoria, a Piper’s Run, dove le opportunità di peccare davvero erano fortunatamente poche. Ma ora Piper’s Run era a più di trenta miglia di distanza, e lui stava dando uno sguardo al mondo, colorato di distrazioni e allettante di possibilità. Si trovava alla Fiera di Canfield. E per la prima volta in vita sua, Len Colter si trovava di fronte a una decisione importante.

E si accorgeva che era difficile.

«Papà non finirà più di darmele, se verrà a saperlo,» disse.

Il cugino Esaù disse:

«Hai paura?»

Esaù aveva compiuto quindici anni tre settimane prima, e questo significava che non avrebbe dovuto andare più a scuola con i bambini. Era ancora ben lungi dall’essere contato tra gli uomini, ma aveva comunque compiuto un gran passo, e Len ne era impressionato. Esaù era più alto di Len, e aveva gli occhi neri che brillavano e scintillavano come quelli di un puledro indomito, perennemente in cerca di qualcosa che non riusciva mai a trovare, forse perché ancora non sapeva che cosa fosse, le sue mani erano irrequiete, e molto abili.

«Ebbene?» domandò Esaù. «Hai paura o no?»

Len avrebbe voluto mentire, ma sapeva che Esaù non si sarebbe lasciato ingannare neppure per un momento. Prese tempo, si mosse, nervosamente, mangiò l’ultimo boccone di pane, succhiò il burro rimasto sulla punta delle dita, e disse:

«Sì.»

«Uh!» disse Esaù. «Pensavo che tu cominciassi a crescere. Quest’anno avresti dovuto restare a casa con i bambini. Paura di una bastonata!»

«Ne ho già fatto l’esperienza,» protestò Len. «E se credi che papà non sappia darle sode, vieni a provare, una volta o l’altra. E non ho nemmeno pianto, da due anni a questa parte. Be’, non molto, almeno.» Rimase un poco a meditare, sollevando le ginocchia e circondandole con le braccia, tenendo il mento posato sulle mani. Era un ragazzo magro, sano, dal volto serio. Indossava pantaloni fatti in casa, e robusti stivali lavorati a mano, tutti coperti di polvere, e una camicia di cotone ruvido, a trama grossa, con un collaretto stretto, e senza colletto. Aveva i capelli castano chiaro, tagliati sopra le spalle, e una frangia che arrivava fin sopra gli occhi, mentre in testa portava un copricapo marrone, di forma piatta e rotonda, con una larga falda.

Len apparteneva ai Nuovi Mennoniti, che portavano dei cappelli marrone per distinguersi dai primi Vecchi Mennoniti, che li portavano neri. Nel ventesimo secolo, cioé due generazioni prima, c’erano stati soltanto i Vecchi Mennoniti e gli Amish, che avevano contato solo poche migliaia di persone, ed erano stati considerati stravaganti ed eccentrici perché si erano ostinati a seguire i vecchi sistemi di lavorazione manuale, e non avevano voluto saperne delle città e delle macchine. Ma quando le città avevano cessato di esistere, e gli uomini avevano scoperto che nel mondo così trasformato proprio loro erano stati i più adatti a sopravvivere, i Mennoniti si erano rapidamente moltiplicati, fino a raggiungere un numero di diversi milioni.

«No,» disse Len, lentamente. «Non è delle bastonate che ho paura. È di papà. Sai come la pensa lui, intorno a queste prediche. Me le proibisce. E zio David le proibisce a te. Sai come la pensano. Non voglio che papà si arrabbi con me… non per questo.»

«Più che bastonarti, che cosa può fare? Niente,» disse Esaù.

Len scosse il capo.

«Non lo so.»

«Va bene, allora. Non venire.»

«Tu ci vai… di sicuro?»

«Di sicuro. Ma non ho bisogno di te.»

Esaù si appoggiò al muro, e parve dimenticare Len, che mosse le punte degli stivali avanti e indietro, formando due irregolari ventagli nella polvere, e continuò a riflettere. L’aria calda era impregnata dell’odore di cibo e animali, insieme agli odori del fumo di legna e ai profumi delle cucine. C’erano delle voci nell’aria, molte voci, tutte mescolate e confuse in un insistente, onnipresente brusio. Pareva di essere vicini a uno sciame di api, o di ascoltare l’alzarsi e abbassarsi del vento tra gli alti pini, ma era qualcosa di più. Era il mondo che parlava.

Esaù disse:

«Si gettano a terra, e cominciano a rotolarsi e a urlare.»

Len respirò profondamente, e si sentì percorrere da un brivido. La grande fiera si stendeva all’infinito, da tutte le parti, ingombra di carri e carrozzoni, baracche e recinti, bestie e persone, e quello era l’ultimo giorno. Una notte ancora da trascorrere giacendo sotto i carrozzoni, raggomitolati nelle coperte per proteggersi dal fresco di settembre, osservando i fuochi che ardevano rossi e misteriosi, e facendosi molte domande sugli stranieri che dormivano intorno a quei fuochi. Domani il carro si sarebbe rimesso in movimento, sobbalzando e tintinnando, di nuovo a Piper’s Run, e lui non avrebbe rivisto una cosa simile per un altro anno. O forse mai più. Nel bel mezzo della vita possiamo trovarci nel cuore della morte. Oppure avrebbe potuto rompersi una gamba, l’anno prossimo, o papà avrebbe potuto dirgli di rimanere a casa, come aveva dovuto restare questa volta suo fratello James, per sorvegliare la nonna e il bestiame.

«Anche le donne,» disse Esaù.

Len si strinse più forte le ginocchia.

«Come fai a saperlo? Non ci sei mai stato.»

«Me l’hanno detto.»

«Le donne,» bisbigliò Len. Chiuse gli occhi, e dietro le palpebre apparvero visioni di prediche selvagge, quali mai un Nuovo Mennonita aveva ascoltato, di grandi fuochi fumosi e vaghe eccitazioni, e di una figura, che somigliava molto a sua mamma con la cuffia e le voluminose gonne tessute in casa, distesa a terra e agitata, che scalciava come la piccola Ester quando era di cattivo umore. La tentazione calò di nuovo su di lui, e fu perduto.

Si alzò in piedi, e guardò Esaù, e disse:

«Vengo anch’io.»

«Ah!» disse Esaù, e si alzò in piedi a sua volta. Tese la mano, e Len la strinse. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, e sorrisero. Il cuore di Len batteva più forte, e il ragazzo provava un senso di colpa, come se il padre fosse stato dietro di lui, ascoltando ogni sua parola; ma anche in questo pensiero c’era qualcosa di esaltante. C’era un diniego dell’autorità, un’affermazione di se stesso, una sensazione di esistere. Gli parve, improvvisamente, di essere diventato più alto e più forte, e negli occhi di Esaù gli parve di leggere un nuovo rispetto.

«Quando andiamo?» domandò.

«Più tardi, quando sarà buio. Tienti pronto. Ti avvertirò io.»

I carri dei fratelli Colter erano disposti fianco a fianco: non sarebbe stato difficile passare da uno all’altro. Len annuì.

«Fingerò di essere addormentato, ma non lo sarò.»

«Meglio di no,» disse Esaù. La sua stretta si fece più forte, così forte da lasciare il ricordo. «E mi raccomando di non dire niente, d’accordo?»

«Oh!» protestò Len, e strinse le labbra, offeso. «Per chi mi hai preso? Non sono più un bambino!»

Esaù sogghignò, assumendo il tono cameratesco che si usa tra uomini.

«Naturalmente no. Allora è stabilito. Adesso andiamo a dare un’altra occhiata ai cavalli. Vorrei dare notizie a mio padre di quella cavalla nera che vuole trattare.»

S’incamminarono insieme lungo il muro della scuderia. Era la scuderia più grande che Len avesse mai visto, quattro o cinque volte più lunga di quella di casa sua. Le vecchie travi erano state aggiustate e rifatte, e il tempo le aveva rese grige e uniformi, ma qua e là sporgeva il legno originale, e si potevano ancora scorgere delle tracce di vernice rossa. Len guardò quelle tracce, poi si fermò e il suo sguardo spaziò sul terreno della fiera, ed egli socchiuse gli occhi, in modo che tutto ondeggiasse e fluttuasse davanti a lui.

«Cosa stai facendo, adesso?» domandò Esaù, impaziente.

«Cerco di vedere.»

«Be’, non puoi vedere niente a occhi chiusi. E poi cosa intendi dire… cosa cerchi di vedere?»

«Com’erano gli edifici quando erano tutti dipinti, come ha detto la nonna. Ricordi? Quando lei era piccola…»

«Già,» disse Esaù. «Alcuni rossi, altri bianchi. Doveva essere un vero spettacolo.» Anche lui socchiuse gli occhi. Le baracche e gli edifici ondeggiarono, ma rimasero senza colore.

«In ogni caso,» disse Len, rinunciando alle sue fantasticherie, «Scommetto che non hanno mai avuto una fiera come questa.»

«Ma cosa stai dicendo?» esclamò Esaù. «La nonna ha detto che prima qui c’era un milione di persone, e un milione di quelle automobili, o carri, o come si chiamavano, tutti allineati in fila a perdita d’occhio, con il sole che batteva sulle parti metalliche, facendole scintillare. Pensa, un milione!»

«Ah!» disse Len. «Non è possibile. Dove avrebbero potuto trovare lo spazio per accamparsi?»

«Stupido, non avevano bisogno di accamparsi! La nonna ha detto che venivano qui, da Piper’s Run, in meno di un’ora, e che potevano tornare indietro nella stessa giornata.»

«Lo so benissimo che lo ha detto la nonna,» osservò Len, pensieroso. «Ma tu ci credi davvero?»

«Certo che ci credo!» Gli occhi neri di Esaù brillarono. «Avrei voluto vivere in quei giorni. Quante cose avrei fatto!»

«Per esempio?»

«Per esempio avrei guidato uno di quei carri, e senza risparmiare sulla velocità! E magari, mi sarebbe piaciuto anche volare.»

«Esaù!» esclamò Len, profondamente scosso. «Non farti mai sentire da tuo padre… a dire cose simili!»

Esaù arrossì un poco, e mormorò che non aveva paura, ma si guardò ugualmente intorno, visibilmente a disagio. Girarono l’angolo della scuderia. Sul frontone, in alto, sopra la porta, c’erano quattro numeri fatti di pezzi di legno inchiodati. Len li guardò. C’era un uno, e poi un nove con un pezzo caduto dalla coda, un cinque, con la piccola stanghetta anteriore mancante, e infine un due. Esaù diceva che quello era l’anno nel quale era stata costruita la scuderia, cioé prima ancora della nascita della nonna. Questo indusse Len a pensare alla casa di riunione di Piper’s Run… la nonna la chiamava ancora «la chiesa»… sopra la quale c’era una data, parzialmente nascosta da un pergolato di lillà. Quella data era 1842… prima di quando chiunque fosse esistito, pensò Len. Scosse il capo, sopraffatto dal senso dell’antichità del mondo.

Entrarono e guardarono i cavalli, parlando in tono esperto di garretti e di metatarsi, ma tenendosi in disparte dagli uomini che sostavano in piccoli gruppi davanti a uno o a un altro dei molti stalli, lenti di parola e rapidi d’occhi. Erano quasi tutti dei Nuovi Mennoniti, e differivano da Len e da Esaù solo per l’altezza e per le splendide barbe che si stendevano a ventaglio sui loro petti, anche se le labbra superiori erano accuratamente rasate. Alcuni, però, portavano dei lunghissimi baffi, e cappelli flosci di diverse fogge, e i loro abiti non seguivano alcun modello particolare. Len guardò costoro di sottecchi, con intensa curiosità. Quegli uomini, o altri simili a loro… forse altri tipi di uomini, che lui non aveva ancora visto… si riunivano segretamente nei campi e nei boschi, e predicavano, e urlavano, e si rotolavano sul terreno. Gli pareva di sentire la voce di suo padre, che diceva, «La religione di una persona, la sua setta, sono affar suo. Ma quella gente non ha una religione, né appartiene a una setta. Sono una massa, con i terrori di una massa, la crudeltà di una massa, guidata da uomini in parte pazzi, in parte astuti, che li mettono gli uni contro gli altri.» E poi taceva e si faceva scuro in volto quando Len faceva altre domande, e diceva, «Ti proibisco di andare, ecco tutto, nessuna persona timorata di Dio può prendere parte a simili malvagità.» Ora capiva, e non si meravigliava che suo padre non avesse voluto parlare di quelle donne che si rotolavano a terra e probabilmente mostravano la loro biancheria e tutto il resto. Len rabbrividì di eccitazione, e desiderò che la notte giungesse presto.

Esaù decise che, sebbene la cavalla nera in questione avesse il collo un po’ troppo sottile e incavato, sarebbe stata adatta a venire sellata, anche se lui, personalmente, avrebbe scelto il bellissimo stallone baio in fondo alla fila. Sarebbe stato veloce come il vento, quello! Ma bisognava pensare sempre alle donne, che avevano bisogno di animali sicuri e docili. Len assentì, ed i due ragazzi vagabondarono un po’ qua e là, e poi Esaù disse:

«Andiamo a vedere come procedono le trattative per quelle vacche?»

Naturalmente, quelli che si occupavano delle trattative erano papà e lo zio David, e Len scoprì di non sentirsela troppo di vedere papà, in quel momento. Così suggerì invece di scendere a vedere i carri dei mercanti, le vacche le si potevano vedere sempre… e se ne vedevano tante, nella fattoria!… ma i carri dei mercanti erano un’altra cosa. Tre, forse quattro volte in un’estate capitava di vederne uno a Piper’s Run, e qui ce n’erano diciannove, tutti insieme in un sol posto, nello stesso tempo.

«E poi,» proseguì Len, con pura e semplice bramosia, «Non si può mai sapere: il signor Hostetter potrebbe darci ancora di quei confetti.»

«Ci credo proprio!…» fu il commento scettico di Esaù, che lo seguì ugualmente, però.

I carri dei mercanti erano tutti allineati in una fila, con i timoni in fuori e il retro appoggiato contro un lungo capannone. Erano dei carri enormi, con grandi tende e ogni genere di cose appese ai sostegni interni, tanto da somigliare a profonde, odorose caverne su ruote.

Len li guardava sempre a occhi spalancati. Per lui quelli non erano carri, ma vascelli avventurosi venuti da rive lontane. Aveva spesso ascoltato i discorsi casuali dei mercanti, e quelle frasi, quelle parole, quei commenti noncuranti gli avevano dato una vaga visione di un’intera landa sconfinata e senza città, la verde, torpida, comoda e fertile campagna nella quale solo poche persone molto, molto vecchie potevano ricordare le maestose, terribili città che avevano dominato il mondo prima della Distruzione. La sua mente conservava un confuso caleidoscopio nel quale si mescolavano le terre lontane delle quali parlavano i mercanti: le piccole colonie di naviganti e i villaggi dei pescatori sulle coste dell’Atlantico, le distese di legname e gli accampamenti dei boscaioli negli Appalachiani, le infinite distese di terre coltivate dai nuovi Mennoniti nel Midwest, le fattorie sulle colline e le capanne dei cacciatori al sud, i grandi fiumi a ovest, con le zattere e le chiatte che collegavano le rive e solcavano le acque tumultuose, le grandi pianure al di là dei fiumi, con i cavalieri, e le fattorie, e le sterminate mandrie di bestiame selvaggio, le maestose, solenni montagne incappucciate di bianco, e la terra, e il mare, ancora più lontano, a ovest. Una terra immensa, ora, come lo era stata centinaia di anni prima, e per le sue strade polverose e tra i villaggi sonnolenti si muovevano quei grandi carri dei mercanti, che avanzavano sulle ruote enormi, si fermavano, sostavano, e riprendevano a muoversi.

Il carro del signor Hostetter era il quinto, e Len lo conosceva molto bene, perché il signor Hostetter lo portava a Piper’s Run tutte le primavere, durante il suo viaggio a nord, e tutti gli autunni, durante il ritorno a sud, da molti più anni di quanti Len potesse personalmente ricordare. Degli altri mercanti passavano di là, di quando in quando, senza alcuna regola fissa, ma il signor Hostetter era quasi uno del posto, anche se veniva da un luogo della Pennsylvania.

«Se offrissimo di dar da mangiare e da bere ai suoi cavalli?» disse Len, sempre aggrappandosi all’idea dei confetti: non si poteva mendicare, ma il lavoratore aveva sempre diritto alla ricompensa.

Esaù scrollò le spalle.

«Possiamo tentare.»

Il lungo capannone, aperto sul davanti ma chiuso sul retro, per proteggere dalla pioggia, era diviso in stalli, uno per ogni carro. Non rimaneva molto, ormai, negli stalli, dopo due giorni e mezzo di contrattazioni, ma le donne stavano industriosamente discutendo il prezzo delle pentole di rame, e dei coltelli prodotti dalle fucine dei villaggi orientali, e del cotone venuto dal sud, e degli orologi prodotti nel New England. L’enorme cassa che conteneva i dolciumi era stata venduta quasi subito, con tutti i suoi tesori di zucchero, ma Len separava che il signor Hostetter avesse tenuto da parte qualche cosa per i vecchi amici.

«Ehi,» disse Esaù. «Guarda!»

Lo stallo del signor Hostetter era vuoto e deserto.

«Tutto esaurito.»

Len osservò lo stallo, corrugando la fronte. Poi disse:

«I suoi cavalli dovranno ugualmente mangiare, no? E forse possiamo aiutarlo a caricare la merce acquistata sul carro. Andiamo dall’altra parte.»

Uscirono dalla porta sul retro dello stallo, chinandosi sotto il carrozzone per passare dall’altra parte. Le grandi ruote, con i cerchi di ferro larghi sei pollici, erano più alte di Len, e la tenda torreggiava in alto come una nube, con EDW. HOSTETTER, MERCANZIE VARIE dipinto in lettere precise che il sole e la pioggia avevano sbiadito.

«È qui,» disse Len. «Lo sento parlare.»

Esaù annuì. Oltrepassarono la ruota anteriore. Il signor Hostetter si trovava dalla parte opposta, proprio di fronte a loro.

«Sei pazzo,» diceva il signor Hostetter. «Ti ripeto che…»

La voce di un altro uomo lo interruppe.

«Non preoccuparti tanto, Ed. È tutto a posto. Io devo…»

L’uomo s’interruppe di colpo, quando Len ed Esaù apparvero, dopo avere aggirato la parte anteriore del carro. L’uomo era in faccia a loro, mentre il signor Hostetter voltava le spalle ai ragazzi: era un uomo giovane e alto, dai lunghi capelli biondicci e una folta barba, vestito in cuoio. Era un mercante del Sud, e Len lo aveva visto altre volte nel capannone. Il nome sulla tenda che copriva il suo carro era William Soames.

«Abbiamo visite,» disse al signor Hostetter. Non pareva preoccupato, ma il signor Hostetter si voltò subito. Era un uomo alto e robusto, muscoloso e un po’ goffo, dalla carnagione scura e dagli occhi azzurri, con due larghe bande grige nella barba color sabbia, una da ciascun lato della bocca. I suoi movimenti erano sempre lenti, e il suo sorriso era sempre amichevole. Ma questa volta si girò molto rapidamente, e non sorrideva affatto, e Len si fermò come se qualcuno lo avesse colpito fisicamente. Guardò il signor Hostetter come se fosse stato davanti a un estraneo; e il signor Hostetter lo fissò con uno strano sguardo irato e ostile.

Esaù mormorò, tra i denti:

«Credo che siano occupati, Len. Meglio andarcene.»

«Cosa volete?» domandò Hostetter.

«Niente,» disse Len. «Avevamo solo pensato che, forse…» ma non finì la frase, perché la voce gli mancava in gola.

«Pensato che cosa?»

«Che avremmo potuto dar da mangiare ai vostri cavalli,» disse Len, debolmente.

Esaù lo prese per il braccio.

«Voleva ancora dei confetti,» disse a Hostetter. «Sapete come sono fatti i ragazzi! Len, vieni.»

Soames scoppiò in una risata.

«Non credo che ne abbia più. Ma che ne diresti di un po’ di noci? Sono ancora meglio dei confetti.»

Infilò la mano in tasca e tirò fuori quattro o cinque noci. Le mise nella mano di Len.

«Grazie,» disse Len, guardando prima lui e poi il signor Hostetter.

Quest’ultimo disse, con calma:

«Tutti i miei cavalli sono a posto. Filate, adesso, ragazzi.»

«Sissignore,» disse Len, e corse via. Esaù lo seguì. Quando furono dietro l’angolo del capannone, si fermarono, e si divisero le noci.

«Ma che cosa aveva?» domandò, a un certo punto, Len, alludendo al signor Hostetter. Era sbalordito, come se il suo vecchio Shep, alla fattoria, si fosse voltato a ringhiare contro di lui.

«Be’,» disse Esaù, rompendo i sottili gusci bruni delle noci, «Lui e il forestiero stavano semplicemente trattando qualche affare, ecco tutto». Era furioso contro Hostetter, e così diede uno spintone a Len. «Tu e i tuoi confetti! Andiamo, è quasi ora di cena. O hai dimenticato che dobbiamo andare in un certo posto, stanotte?»

«No,» disse Len, e ci fu una deliziosa sensazione di paura e di eccitazione, dentro di lui. «Non ho dimenticato».

2.

Fu quella strana sensazione confusa a tenere sveglio Len, inizialmente, dopo che si fu sistemato per la notte sotto il carro di famiglia. Una sensazione fatta di inquietudine, nervosismo, ed eccitazione. L’aria era fresca, fuori, la coperta era calda, lui era piacevolmente sazio, dopo un’ottima e abbondante cena, e la giornata era stata lunga e faticosa. Le palpebre cominciavano a farsi pesanti, e tutto si faceva indistinto e remoto, mentre una piacevole coltre di oscurità scendeva su di lui, e poi, pang!, quel nervo particolare pareva scattare, avvertendolo, e lui ritornava teso e attento, e ricordava Esaù e la predica.

Dopo qualche tempo, cominciò a udire dei rumori. Mamma e papà russavano nel carro, sopra la sua testa, e il terreno della fiera era buio, tranne che per le ceneri rossigne degli ultimi fuochi. Tutto avrebbe dovuto essere immerso nel silenzio, ma non era così. I cavalli si muovevano, e i finimenti tintinnavano. Sentì un piccolo carro muoversi, cigolando e tintinnando, e più lontano, da qualche parte, un carrozzone pesante si muoveva con un cupo sferragliare, e i cavalli sbuffavano, tirandolo. Gli stranieri, i non Mennoniti come il biondo mercante vestito in pelle, erano partiti tutti, subito dopo il tramonto, dirigendosi al luogo della predica. Ma quelli che stavano andando alla predica in quel momento erano gli altri, coloro che non desideravano farsi vedere. Len dimenticò di aver sonno, pervaso da una nuova eccitazione. Rimase ad ascoltare gli zoccoli invisibili e le ruote furtive, e cominciò a pentirsi di avere promesso di andare alla predica.

Si mise a sedere, a gambe incrociate, sotto il carrozzone, tenendo la coperta intorno alle spalle, per proteggersi dal fresco notturno. Esaù non era ancora venuto. Len si volse a fissare, nella direzione del carro dello zio David, sperando che Esaù si fosse addormentato. La strada da percorrere era lunga, faceva freddo ed era buio, e si sarebbero fatti sorprendere certamente. Oltre a questo, lui si sentiva colpevole… si era sentito in colpa per tutta la cena, e non aveva sostenuto lo sguardo di suo padre. Era la prima volta in vita sua che, deliberatamente e per propria scelta, lui disobbediva a suo padre, e sapeva che la colpa doveva risplendere a lettere di fuoco su tutto il suo volto. Ma papà non si era accorto di nulla, e chissà per quale motivo questo lo faceva sentire peggio, e non meglio. Voleva dire, infatti, che papà aveva tanta fiducia in lui da non preoccuparsi di cercare sul suo volto le tracce della colpa.

Ci fu un movimento, nel buio, sotto il carro dello zio David, ed era Esaù, che si avvicinava silenziosamente, carponi.

Ora glielo dico, pensò Len. Gli dirò che ho cambiato idea, che non voglio venire.

Esaù scivolò più vicino. Sorrideva, e i suoi occhi scintillavano, nel riverbero del fuoco che covava sotto la cenere. Avvicinò il capo a quello di Len, e bisbigliò:

«Dormono tutti. Arrotola la coperta, come se tu ci fossi ancora dentro… così, per precauzione.»

Non ci vado, pensò Len. Ma le parole non uscirono mai dalle sue labbra. Arrotolò la coperta, obbediente, e scivolò furtivamente nella notte, seguendo Esaù. E non appena si fu allontanato dal carro, non appena l’oscurità ebbe nascosto il tendone e il riverbero del fuoco, fu contento. L’oscurità era piena di animazione, di movimento, del senso di andare a una destinazione precisa, con un’eccitazione segreta, e anche lui stava andando, anche lui partecipava a quel movimento e a quell’eccitazione. Il sapore delle cose proibite era dolcissimo nella sua bocca, e le stelle non gli erano mai sembrate così grandi e così luminose.

Avanzarono prudenti, fino a quando raggiunsero un sentiero aperto, e allora cominciarono a correre. Un calesse dalle altissime ruote passò veloce accanto a loro, superandoli, con il cavallo veloce e trafelato, ed Esaù ansò:

«Vieni, vieni!»

Rise, e anche Len rise, correndo. Pochi minuti dopo uscirono dal terreno della fiera, e si ritrovarono sulla strada principale, con i piedi che affondavano nella polvere alta di tre settimane senza pioggia. La polvere era sospesa nell’aria, agitata dal passaggio di molte ruote, sollevata dal vento dei carri e agitata di nuovo, prima ancora che avesse potuto posarsi. Delle figure di cavalli apparvero torreggianti nel buio, enormi e spettrali, scuotendo schiuma dai morsi. Tiravano un carro con il tendone aperto, e l’uomo che sedeva a cassetta aveva l’aspetto di un fabbro, con braccia enormi e muscolose e una corta barba bionda. Al suo fianco sedeva una donna robusta, dalle guance rosse, che portava uno straccio intorno alla testa, al posto di una cuffia, e aveva le gonne che si agitavano nel vento. Da sotto il tendone appariva una fila di piccole teste gialle come il grano. Esaù corse più forte, affiancandosi al carro, gridando, seguito da vicino da Len. L’uomo tirò le redini, arrestando i cavalli, e li guardò. Anche la donna li guardò, e poi entrambi scoppiarono in una risata.

«Guardali!» esclamò l’uomo. «Dei piccoli cappelli piatti. Dove andate senza la mamma, piccoli cappelli piatti?»

«Andiamo alla predica,» disse Esaù, furibondo per i «cappelli piatti», e più furibondo ancora per i «piccoli», ma non abbastanza furibondo per lasciare perdere l’occasione di ottenere un passaggio. «Possiamo venire con voi?»

«Perché no?» disse l’uomo, e rise di nuovo. Disse qualcosa sui Gentili e sui Samaritani che Len non riuscì a comprendere bene, e qualcos’altro sull’ascoltare una Parola, e poi disse loro di salire, perché erano già in ritardo. I cavalli non si erano completamente fermati, anche se la loro andatura era stata rallentata, e Len ed Esaù correvano tra gli sterpi ai lati della strada, senza farsi distanziare. Si arrampicarono agilmente sul retro del carro, e si gettarono, ansanti, sulla paglia che copriva il fondo, e l’uomo incitò a gran voce i cavalli, che si lanciarono di nuovo al galoppo, facendo sobbalzare e ondeggiare il carro, mentre la polvere penetrava dalle fessure del fondo, bianca e insistente. La paglia era piena di polvere. C’era un grosso cane accovacciato su di essa, e c’erano sette bambini, e tutti fissavano Esaù e Len con occhi grandi, rotondi e ostili. I due ragazzi sostennero lo sguardo, e poi il più grande dei bambini puntò il braccio su di loro, e disse:

«Guardate che buffi cappelli.»

Tutti risero, a queste parole.

«Cosa te ne importa?» rispose Esaù.

«Me ne importa perché questo è il mio carro, e voi ci siete sopra, e se non vi piace la compagnia potete scendere».

Poi continuarono a beffarsi dei loro vestiti, e Len ribollì di collera, pensando che loro non avevano alcun diritto di parlare. Erano scalzi, tutti e sette, e non avevano cappello in testa, anche se, a onor del vero, apparivano tutti sani e robusti, e benestanti, e soprattutto puliti. Malgrado tutto non rispose alle provocazioni, e anche Esaù rimase zitto. Tre o quattro miglia erano un percorso molto lungo, troppo lungo se lo si doveva percorrere a piedi, di notte.

Il cane era molto amichevole, invece. Venne a leccare i loro volti con la lunga lingua ruvida, e si accovacciò imparzialmente sull’uno e sull’altro, coprendoli di attenzione per tutta la durata del viaggio. E Len si domandò se la donna seduta a cassetta sarebbe scesa sul terreno della predica, rotolandosi a terra, e se l’uomo si sarebbe rotolato a terra con lei. Pensò che sarebbero apparsi molto stupidi, in questo caso, e ridacchiò, e d’un tratto scoprì di non essere più in collera contro i sette bambini gialli che continuavano a criticare pesantemente i loro vestiti e il loro aspetto.

Finalmente il carro si fermò tra molti altri, disposti in un campo aperto, molto vasto, che scendeva con un dolce pendio verso un piccolo fiume, largo solo sei o sette metri, ora che si era nel pieno della stagione asciutta, e poco profondo, tra gli alti argini. Len pensò che doveva esserci molta gente, almeno quanta ce ne era stata alla fiera, solo che tutti erano ammassati, vicinissimi, disposti in una specie di approssimativo circolo, con molta gente seduta al centro. Un carro piatto, con i cavalli staccati, venne spinto vicino all’argine del fiume. Tutti erano voltati verso il carro, e un uomo era in piedi sopra di esso, illuminato da un grande falò. Era un uomo giovane, alto, col torace largo. La barba nera gli scendeva fin quasi alla cintola, lucida come le penne di un corvo in primavera, ed egli la scuoteva muovendosi, agitando la testa e gridando. Aveva la voce alta e penetrante, e non giungeva in un flusso costante di parole, ma a brevi frammenti che parevano lacerare l’aria, improvvisi e penetranti come lame di pugnale, arrivando chiari fino alle ultime file, prima che quello successivo venisse scagliato contro coloro che ascoltavano. Ci volle un minuto buono, prima che Len capisse che l’uomo stava predicando. Era abituato a prediche del tutto diverse, nelle riunioni del sabato, quando papà, o lo zio David, o chiunque altro lo volesse, potevano alzarsi e parlare con Dio, o di Dio. Essi lo facevano sempre con calma, con voce posata e tenendo le mani giunte.

Era stato a osservare dall’alto del carro. In quel momento, prima ancora che le ruote si fermassero, Esaù gli diede una gomitata, e disse:

«Vieni!»

Saltò giù, oltre l’asse posteriore del carro. Len lo seguì. L’uomo gridò loro qualcosa a proposito della Parola, e tutti e sette i bambini fecero smorfie e boccacce. Len disse, educatamente:

«Grazie per il passaggio».

Poi si mise a correre dietro a Esaù.

Da quel punto, il predicatore sembrava piccolo e lontano, e Len non poteva capire molto di ciò che diceva. Esaù bisbigliò:

«Penso che sia meglio avvicinarci… da questa parte, ma non fare rumore». Len annuì. I due ragazzi scivolarono tra i carri, e notarono che c’erano altre persone che, apparentemente, preferivano rimanere nascoste. Si mantenevano ai margini della folla, fra i carri, e Len poteva intravedere soltanto le figure oscure i cui contorni erano disegnati dal riflesso del fuoco. Alcuni si erano tolti il cappello, ma il taglio degli abiti e dei capelli denunciavano la loro origine in maniera altrettanto inequivocabile. Appartenevano al popolo di Len. Sapeva quello che provavano. Lui stesso provava una certa vergogna, al pensiero di essere visto là in mezzo.

Mentre lui ed Esaù avanzavano faticosamente verso il fiume, la voce del predicatore si faceva più forte. C’era qualcosa di stridente, in essa, qualcosa che muoveva il sangue e lo spirito, come il grido di uno stallone furioso. Le parole giunsero più distinte:

«…divennero idolatri, seguendo le vie di strani dèi. Voi lo sapete bene, amici. I vostri stessi genitori ve l’hanno detto, le vostre nonne e i vostri vecchi nonni ve l’hanno confessato, come i cuori della gente erano pieni di malvagità e di bestemmia, e di bramosia e lussuria…».

Len sentì la pelle formicolare per l’eccitazione. Seguì Esaù, che s’insinuava tra una confusione di ruote e di zampe di cavalli, trattenendo il respiro. E finalmente raggiunsero un punto dal quale potevano vedere, al riparo di uno spazio d’ombra tra le ruote di un carro, senza essere notati, mentre il predicatore era a pochissimi metri da loro.

«Perché essi peccarono di lussuria, fratelli miei! Essi bramavano tutto ciò che era strano, e nuovo, e innaturale. E Satana vide che così era, e accecò i loro occhi, gli occhi celestiali dell’anima, facendoli diventare dei bambini sciocchi, che gridavano di gioia cercando il lusso e i beni materiali, e tutti i piaceri che inaridivano l’anima. Ed essi dimenticarono Dio».

Un gemito e un ondeggiamento parvero attraversare la folla che sedeva sul terreno. Len impugnò saldamente due raggi delle ruote, e infilò la testa tra di essi, sporgendosi.

Il predicatore balzò fino all’orlo del carro. Il vento notturno agitava la sua lunga barba, e i lunghissimi capelli neri, e dietro di lui il fuoco bruciava e generava fumo e scintille, e anche gli occhi del predicatore parevano ardere dello stesso fuoco, enormi e neri. Egli tese avanti il braccio, puntandolo contro la folla, e disse, in uno strano, aspro bisbiglio che aveva la forza e l’intensità di un grido:

«Essi dimenticarono Dio!»

Di nuovo, l’ondeggiamento e il mugolio, un suono cupo, profondo, lamentoso. Questa volta il mugolio fu più forte, l’ondeggiamento più pronunciato. Il cuore di Len aveva cominciato a battere precipitosamente.

«Sì, fratelli! Essi dimenticarono. Ma Dio dimentica? No, io vi dico. Egli non dimentica! Egli li vedeva. Egli osservava le loro iniquità. Egli vedeva che il Diavolo si era impadronito di loro, e vedeva che essi ne erano contenti… sì, amici miei, essi amavano il vecchio Satana, il Traditore, e non volevano lasciare le sue vie per le vie del Signore. E perché? Perché le vie di Satana erano più facili e più comode, e c’era sempre un nuovo vizio, c’era sempre un nuovo piacere ad attenderli dietro l’angolo del sentiero che conduceva in basso…»

Len si accorse che Esaù, rannicchiato al suo fianco nella polvere, stava fissando il predicatore con gli occhi scintillanti, e la bocca spalancata. Anche il battito del cuore di Len si fece più tumultuoso. La voce del predicatore aveva l’effetto di una sferzata, una sferzata che agiva su nervi che lui non aveva mai saputo di avere. A un certo punto, dimenticò completamente la presenza di Esaù. Rimase aggrappato ai raggi delle ruote, e pensò, avidamente, «Va’ avanti, va’ avanti!»

«E così che cosa fece Iddio, quando Egli vide che i Suoi figli si erano allontanati da Lui? Voi sapete che cosa Egli fece, fratelli miei! Voi lo sapete!»

Il lamento e l’ondeggiamento, e il lamento diventò un cupo, basso, minaccioso ululato.

«Egli disse: "Essi hanno peccato! Hanno peccato contro le Mie leggi, e contro i Miei profeti, che li misero in guardia, già nell’antica Gerusalemme, dalle facili lusinghe dell’Egitto e di Babilonia! E si sono esaltati nel loro orgoglio. Si sono arrampicati fino ai cieli che sono il Mio trono, e hanno squarciato la terra che è lo sgabello dei Miei piedi, e hanno liberato il sacro fuoco che sta nel cuore stesso delle cose, e che Io soltanto, il Signore Geova, posso toccare!" E Dio disse ancora, "Malgrado tutte le loro nequizie, io sono un Dio pietoso, lento all’ira ed eterno nell’amore. Che essi si purifichino, dunque, dei loro peccati!"»

L’ululato si fece più alto, e per tutto il vasto campo aperto ci fu un tendere di braccia e un movimento di teste.

«"Che si purifichino dei loro peccati!"» gridò il predicatore. Il suo corpo era teso come la corda d’un arco, vibrante, e le scintille formavano come un’aureola, dietro di lui. «Dio parlò, ed essi furono mondati da ogni nequizia, fratelli! Con i loro stessi peccati vennero castigati. Vennero arsi col fuoco che essi avevano creato, sì, e le loro torri superbe svanirono nel grande fuoco della collera di Dio! E col fuoco e la fame e la sete e il terrore vennero scacciati dalle loro città, dai luoghi di nequizia e di lussuria, i nostri stessi padri, e i padri dei nostri padri, che avevano peccato, e i luoghi d’iniquità vennero distrutti, come fu per Sodoma e Gomorra».

In qualche parte della folla una donna gridò e cadde all’indietro, battendo la testa sul terreno. Len non se ne accorse neppure.

La voce del predicatore calò di nuovo in quel bisbiglio intenso e potente più di cento grida.

«E così noi venimmo risparmiati, per misericordia di Dio, perché potessimo trovare la sua via, e seguirla».

«Alleluia!» gridò la folla. «Alleluia!»

Il predicatore sollevò le mani. La folla si calmò. Len trattenne il respiro, in attesa. I suoi occhi fissavano i neri occhi ardenti dell’uomo sul carro. Li vide socchiudersi, come gli occhi di un gatto quando sta per balzare sulla preda, solo che quegli occhi non erano del colore giusto.

«Ma,» disse il predicatore. «Satana è ancora con noi».

Le file della folla si spinsero avanti, con un gemito ferale, e vennero tenute a freno, completamente soggiogate, dalle mani del predicatore.

«Lui vuole riprenderci. Sì, il Diavolo ricorda bene com’era quando aveva tutte quelle donne dolci e belle a servirlo, e tutti gli uomini ricchi e molli, e le città tutte risplendenti di luci, come suoi altari! Lui ricorda, e rivuole tutte queste cose! Così egli ci invia i suoi emissari… oh, fratelli miei, non sapreste mai distinguerli dalla brava gente timorata di Dio, con i loro modi suadenti e i loro abiti semplici e severi! Ma essi si aggirano in segreto facendo proseliti, insidiando con la tentazione i nostri ragazzi e i nostri giovani, facendo dondolare davanti ai loro occhi ingenui il frutto proibito del serpente, e sulla fronte di ognuno di essi c’è il marchio della bestia… il marchio di Bartorstown!»

Len trasalì, e tese ancor più le orecchie, nell’udire quel nome. In passato, aveva sentito il nome di Bartorstown solo una volta, dalla voce della nonna, e lo ricordava bene, per la durezza con cui papà le aveva imposto di tacere. La folla ululò, e alcuni balzarono in piedi. Esaù si fece più vicino a Len, vibrante di eccitazione:

«Non è grandioso?» bisbigliò. «Non è grandioso?»

Il predicatore si guardò intorno. Questa volta non calmò la folla, lasciò che tutti si calmassero da soli, per l’ansia di ascoltare ciò che egli aveva ancora da dire. E in quel momento Len avvertì la presenza di qualcosa di nuovo nell’aria. Non capì che cosa fosse, ma si trattava di qualcosa di eccitante, tanto eccitante da riempirlo del desiderio di balzare in piedi e urlare e saltare su e giù, e nello stesso tempo si trattava di una cosa che lo riempiva d’incertezza, d’inquietudine. Era una cosa che la folla e il predicatore comprendevano, una muta corrente d’intesa tra loro…

«Ora,» disse l’uomo in piedi sul carro, con calma, «Ci sono alcune sette, tutta gente timorata di Dio… non dico che non tentino di esserlo… che pensano che basti dire a uno di questi emissari di Satana: "Vattene, abbandona la nostra comunità, e non ritornare mai più". Ora, forse, costoro non si rendono conto che ciò che dicono, in verità, è, "Va’ a corrompere qualcun altro, noi vogliamo mantenere la nostra casa pulita"». Un secco, improvviso movimento delle sue mani soffocò un grido della folla, come se egli avesse messo un tappo nella bocca di tutti. «No, amici miei. Questo non è il nostro metodo. Noi pensiamo ai nostri vicini come pensiamo a noi stessi. Noi onoriamo la legge del governo che dice che non ci dovranno essere più città. E noi onoriamo soprattutto la Parola di Dio, che dice che se il nostro occhio destro ci è motivo di scandalo, dobbiamo cavarcelo e gettarlo, e che se la nostra mano destra ci è motivo di scandalo, noi dobbiamo tagliarcela, e che il giusto non avrà parte alcuna con gli operatori d’iniquità, no, neppure se costoro fossero i nostri fratelli, o i nostri padri, o perfino i nostri figli!»

Venne allora dalla folla un suono che infiammò Len, gli schiuse la gola, e gli riempì di bruciore gli occhi. Qualcuno gettò della nuova legna sul falò. Il fuoco sprizzò altissimo rugghiando in un torrente di scintille e in un bagliore giallo di fiamma, e ora c’era della gente che si rotolava per terra, uomini e donne, artigliando la terra con le dita e urlando. I loro occhi erano tutti bianchi, e non era affatto una cosa buffa. E sopra la folla e la luce del fuoco si levò la voce del predicatore, un ululato acuto e potente, come il grido di un grande animale nella notte.

«Se c’è della malvagità tra voi, cacciatela!»

Un ragazzo magro, con la barba che appena spuntava sul mento, balzò in piedi. Puntò il braccio. Gridò, «Io lo accuso!» e la schiuma apparve agli angoli della sua bocca.

In un punto ci fu un improvviso, violento movimento. Un uomo era balzato in piedi, tentando di fuggire, e diversi altri lo avevano preso. Le loro spalle si muovevano, le loro gambe danzavano, e la folla intorno si agitava, spingendo e tirando. Finalmente lo trascinarono indietro, e Len poté vederlo chiaramente. Era il mercante biondo, William Soames. Ma il suo volto era diverso, ora, pallido, e pauroso, e raggelato.

Il predicatore gridò qualcosa sulla radice e sui rami. Era accovacciato ora sull’orlo del carro, con le braccia levate alte, le mani protese verso il cielo. Cominciarono a spogliare il mercante. Gli strapparono la robusta giacca di cuoio dalla schiena, e strapparono i pantaloni di pelle dalle gambe, lasciandolo bianco e nudo. Portava ai piedi degli stivali leggeri, e uno gli venne tolto, mentre l’altro venne dimenticato, e rimase al suo posto. Poi tutti si ritirarono, scostandosi da lui, in modo che egli rimanesse solo al centro di uno spazio aperto. Qualcuno lanciò un sasso.

Il sasso colpì Soames alla bocca. Egli vacillò un poco, e sollevò le braccia, ma un altro sasso lo raggiunse, e un altro ancora, e pezzi di legno e di terriccio, e la sua pelle bianca fu ben presto tutta macchiata e segnata. Soames cercò di voltarsi prima da una parte, poi dall’altra, cadde, incespicò, si piegò in due, tentando di trovare una via di scampo, cercando di evitare i colpi. Aveva la bocca aperta e i denti apparivano insanguinati, sangue che scorreva dagli angoli della bocca e macchiava la barba, ma Len non poté sentire se egli stesse gridando oppure no, perché la folla urlava, un suono ingordo, affannoso, acuto, osceno, e le pietre continuavano a cadere sull’uomo. Poi tutta la folla cominciò a spostarsi verso il fiume, trascinando Soames con sé. Il mercante si avvicinò, passando vicino al carro, vicino all’ombra dove Len se ne stava a guardare, aggrappato ai raggi, e Len poté vedere chiaramente i suoi occhi. Gli uomini lo pressavano da vicino, con gli stivali che calpestavano pesantemente la polvere, e anche le donne venivano, con i capelli scarmigliati e le pietre in mano. Soames cadde dall’argine nelle acque poco profonde del fiume. Gli uomini e le donne lo seguirono, e lo coprirono, come le mosche coprono un pezzo in decomposizione dopo un macello, e le loro mani si alzavano e si abbassavano, si alzavano e si abbassavano.

Len girò il capo, e guardò Esaù. Stava piangendo, e il suo viso era bianco come il marmo. Esaù aveva le mani strette intorno allo stomaco, premute forte, e il suo corpo era curvo, e gli occhi erano enormi e fissi. Improvvisamente, egli si voltò e fuggì via, carponi, come un animale in fuga sul terreno. Len si affrettò a seguirlo, muovendosi sulle mani e sulle ginocchia, come un gambero, con l’aria scura e vorticante intorno a lui. Ora riusciva solo a pensare alle noci che Soames gli aveva regalato. Si sentì male, e dovette fermarsi a vomitare, premuto da qualcosa di terribilmente freddo e pesante. La folla stava ancora rumoreggiando, sulla riva del fiume. Quando Len si rialzò, Esaù era già scomparso nel buio.

Preso dal panico, cominciò a fuggire tra le carrozze e i carri, chiamando, «Esaù! Esaù!», ma non ci fu risposta, o, se c’era, non poté udirla perché il rumore della morte violenta risuonava nelle sue orecchie troppo forte. Sbucò alla cieca in uno spazio aperto, e là incontrò un’alta, torreggiante figura che allargò le lunghe braccia e lo prese.

«Len,» disse. «Len Colter».

Era il signor Hostetter. Len sentì che le ginocchia gli si piegavano. Tutto diventò molto buio e silenzioso, ed egli udì la voce di Esaù, e poi quella del signor Hostetter, ma quei suoni erano lontani e sottili, come voci portate dal vento in una giornata afosa. Poi si trovò su un carro, enorme e pieno di odori insoliti, e il signor Hostetter stava spingendo dentro al carro Esaù, dopo di lui. Esaù aveva il volto di un fantasma. Len disse:

«Avevi detto che sarebbe stato divertente».

Esaù rispose:

«Non avrei mai pensato che loro…». Singhiozzò, e sedette accanto a Len, con la testa sulle ginocchia.

«State fermi,» ordinò il signor Hostetter. «Devo prendere una cosa».

Se ne andò. Len si alzò, e andò a guardare, con gli occhi irresistibilmente attirati verso il chiarore del fuoco e verso la folla che gemeva, singhiozzava, urlava, ondeggiava avanti e indietro, gridando che tutti erano salvi. Gloria, gloria, alleluia, il frutto del peccato è la morte, alleluia!

Il signor Hostetter corse attraverso lo spazio aperto, verso il carro di un altro mercante, fermo accanto a una macchia d’albero. Len non riuscì a leggere il nome sul telone, ma fu sicuro che quello doveva essere il carro di Soames. Anche Esaù stava guardando, ora. Il predicatore aveva ricominciato a parlare, tenendo alte le braccia, con le mani al cielo.

Il signor Hostetter balzò giù dall’altro carro, e tornò indietro di corsa. Portava sotto il braccio un cofanetto, lungo circa trenta centimetri. Salì di nuovo a cassetta, e Len si affrettò ad accostarsi a lui, dall’interno del carro.

«Per favore,» supplicò. «Posso sedere accanto a voi?»

Hostetter gli porse il cofanetto.

«Mettilo dentro, presto. D’accordo, vieni qui. Dov’è Esaù?»

Len si voltò a guardare. Esaù era raggomitolato sul fondo del carro, con il volto nascosto in un mucchio di stoffa. Lo chiamò, ma Esaù non rispose.

«È svenuto,» disse Hostetter. Srotolò la frusta con uno schiocco imperioso, e gridò ai cavalli. I sei grandi bai si mossero come una sola bestia, tendendo i finimenti, e il carro si mosse pesantemente. Cominciò ad acquistare velocità, e il chiarore del falò rimase indietro, insieme alla voce della folla. C’era solo la strada buia, e gli alberi neri che la circondavano, c’era l’odore della polvere e la pace dei campi vicini. I cavalli rallentarono, allora, acquistando un’andatura meno precipitosa. Il signor Hostetter mise il braccio intorno alle spalle di Len, che si aggrappò a lui.

«Perché l’hanno fatto?» domandò.

«Perché hanno paura».

«Di che cosa?»

«Di ieri,» disse il signor Hostetter. «Di domani». Improvvisamente, con uno scoppio di collera violenta, egli li maledisse. Len lo fissò, con gli occhi e la bocca spalancati. Hostetter strinse le labbra, duramente, interrompendo a metà una parola, e scosse il capo. Len sentì che egli tremava in tutto il corpo. Quando il signor Hostetter parlò di nuovo, la sua voce era normale… o quasi.

«Resta con la tua gente, Len. Non ne troverai di migliore».

Len mormorò:

«Sì, signore».

Nessuno parlò, dopo quel breve scambio. Il carro procedeva sobbalzando sulla strada polverosa, e il movimento intontì Len, non l’intontimento sano della sonnolenza, ma quell’intontimento sconvolto da apprensioni e angosce che viene dopo che tutte le forze sono state consumate, quelle del corpo e quelle della mente. Esaù era silenzioso, sul fondo del carro, silenzioso e immobile. Finalmente i cavalli rallentarono ancora l’andatura, procedendo al passo, e Len vide che erano ritornati nel terreno della fiera.

«Dov’è il vostro carro?» domandò Hostetter, e Len glielo disse. Quando furono vicini a esso, il fuoco ardeva di nuovo nella notte, e papà e lo zio David erano in piedi, accanto alle fiamme. Sembravano cupi e irati, e quando i ragazzi scesero dal carro essi non dissero niente, limitandosi a ringraziare Hostetter per averli riportati al carro. Len guardò suo padre. Avrebbe voluto gettarsi in ginocchio e supplicare, «padre, ho peccato». Ma non riuscì a fare altro che rimanere là, sconvolto e attonito, singhiozzando e tremando di nuovo.

«Cosa è successo?» domandò suo padre.

Hostetter glielo disse in cinque parole:

«C’è stata una lapidazione».

Papà guardò Esaù e lo zio David, e poi guardò Len, e sospirò.

«Solo molto di rado essi fanno una cosa simile, e doveva essere proprio questa volta. L’avevamo proibito ai ragazzi, ma loro hanno voluto andare ugualmente, e così hanno visto». Disse a Len, «Calma, ragazzo, ora. Calma, è tutto passato». Lo spinse, non senza dolcezza, verso il carro. «Avanti, Lennie, prendi la tua coperta e dormi».

Len s’insinuò sotto il carro, e si avvolse addosso la coperta, e giacque là, immobile. Un senso di oscurità e di debolezza scese su di lui, e il mondo cominciò a scivolare via, portando con sé il ricordo del volto in agonia di Soames. Attraverso il tendone udì che il signor Hostetter diceva:

«Ho cercato di mettere in guardia quell’uomo nel pomeriggio, dicendogli che quei fanatici stavano facendo insinuazioni sul suo conto. L’ho seguito là, stanotte, per dirgli di andarsene. Ma sono giunto troppo tardi, non c’era più niente che io potessi fare».

Lo zio David domandò:

«Era colpevole?»

«Di fare proseliti? Dovreste saperlo meglio di me. Gli uomini di Bartorstown non vanno in giro a fare proseliti».

«Allora veniva da Bartorstown?»

«Soames veniva dalla Virginia. Lo conoscevo come mercante, e come amico».

«Colpevole o no,» disse in tono cupo papà, «È una cosa blasfema, indegna di un cristiano. Ma finché ci saranno dei capi pazzi o astuti, capaci di giocare sulle vecchie paure, una folla come quella diventerà sempre crudele».

«Tutti noi,» rispose Hostetter, «Abbiamo le nostre vecchie paure».

Salì di nuovo a cassetta, e se ne andò. Ma Len si addormentò ancora prima che il rumore delle ruote fosse cessato.

3.

Erano passate tre settimane, meno un giorno o due, e a Piper’s Run era ottobre, e sabato pomeriggio. Len sedeva solo sul gradino della veranda, dietro la fattoria.

Dopo qualche tempo la porta si aprì, dietro di lui, e capì dai passi strascicati e dal tonfo del bastone che stava uscendo la nonna. Ella si appoggiò con una mano ossuta e sorprendentemente forte al suo braccio, e discese i due scalini, e poi sedette, piegandosi come un ramo secco quando si spezza.

«Grazie, grazie,» disse la nonna, e cominciò a sistemare i diversi strati di sottane intorno alle vecchie caviglie.

«Vuoi una coperta?» domandò Len. «O vuoi il tuo scialle?»

«No, fa caldo, al sole».

Len sedette di nuovo accanto a lei. Con le sopracciglia aggrottate e la bocca in giù, sembrava vecchio quasi quanto la nonna, e molto più austero. Lei lo scrutò con attenzione, socchiudendo gli occhi, e Len cominciò a sentirsi inquieto, comprendendo che la nonna era venuta a cercare proprio lui.

«Sei molto pensieroso in questi giorni, Lennie».

«Penso di sì».

«Non sarai risentito, vero? Io odio la gente risentita».

«No, nonna».

«Tuo padre aveva ragione a punirti. Gli hai disobbedito, e adesso sai che te l’aveva proibito per il tuo bene».

Len annuì.

«Lo so».

Papà non era ricorso alla solenne bastonatura che Len aveva previsto. In realtà, era stato molto più gentile di quanto Len avesse potuto mai sognare. Aveva parlato molto seriamente di ciò che Len aveva fatto, e di ciò che aveva visto, e aveva concluso affermando che Len non sarebbe andato alla fiera, l’anno prossimo, e forse neppure l’anno successivo, a meno che, per allora, non avesse dimostrato di essere nuovamente degno di fiducia. Len pensava che papà si era comportato molto bene, ed era stato buono con lui. Lo zio David aveva frustato invece Esaù fino all’ultimo centimetro di pelle. E poiché in quel momento Len pensava che non avrebbe mai più voluto rivedere la fiera, la proibizione non era una punizione vera e propria.

Disse tutte queste cose alla nonna, che sorrise, il suo sorriso vecchio e sdentato, e gli accarezzò il ginocchio.

«Tra un anno la penserai diversamente. Sarà allora che la punizione comincerà a farti soffrire».

«Può darsi».

«Be’, dunque non te la sei presa, e allora deve esserci qualcosa d’altro. Di che si tratta?»

«Di niente».

«Lennie, ho avuto molto a che fare con i ragazzi, e so benissimo che non è naturale che un ragazzo sano come te se ne stia a rimuginare con aria così triste. E in una giornata simile, soprattutto, anche se è sabato!» Sollevò il capo, guardando il cielo di un azzurro profondo, e respirando l’aria dorata, e poi guardò i boschi che racchiudevano la fattoria, vedendoli non come gruppi di singoli alberi, ma come un glorioso disegno di colori dei quali aveva quasi dimenticato i nomi. Sospirò, per metà di piacere, per metà di rimpianto.

«A quanto sembra, questo è l’unico momento nel quale puoi vedere ancora i veri colori, quando gli alberi entrano nell’autunno. Una volta il mondo era pieno di colori. Non ci crederai, Lennie, ma una volta avevo un vestito rosso come quell’albero».

«Dev’essere stato bello». Cercò d’immaginare la nonna come una bambina vestita di rosso, e non vi riuscì, in parte perché non riusciva a immaginarla altro che vecchia, e in parte perché non aveva mai visto nessuno vestito di rosso.

«Era bellissimo,» disse la nonna, lentamente, e sospirò di nuovo.

Restarono così seduti sul gradino, senza parlare, senza guardare nessun punto in particolare. E poi, improvvisamente, la nonna disse:

«Lo so, lo so quello che hai. Stai ancora pensando all’uomo che hanno lapidato».

Len cominciò a tremare un poco. Non voleva, ma non riusciva ad arrestare quel tremito. E improvvisamente esclamò:

«Oh, nonna, è stato… aveva ancora uno stivale in un piede. Era tutto nudo, tranne quello stivale, e aveva un aspetto così strano. E continuavano a tirargli le pietre…»

Se chiudeva gli occhi, rivedeva ancora tutto… il sangue e il terriccio, insieme, sulla pelle bianca dell’uomo, e le mani della gente, che si alzavano e si abbassavano, si alzavano e si abbassavano…

«Perché l’hanno fatto, nonna? Perché?»

«È meglio che lo chiedi a papà».

«Lui ha detto che avevano paura, e che la paura induce la gente stupida a fare cose cattive, e che io dovrei pregare per loro». Len si passò sul naso il dorso della mano, violentemente. «Non pregherò per loro, neppure una parola, tranne che per augurare loro che qualcuno tiri delle pietre contro i loro volti, come hanno fatto a quell’uomo».

«Hai visto soltanto una cosa cattiva,» disse la nonna, scuotendo il capo, lentamente, da una parte e dall’altra, muovendo la bianca cuffia che le copriva i capelli, tenendo gli occhi chiusi e guardando dentro se stessa. «Se avessi visto tutte le cose che ho visto io, sapresti che cosa può fare la paura. Ed io ero più giovane di te, Lennie».

«È stato terribile, vero, nonna?»

«Io sono una donna vecchia, molto, molto vecchia, e mi capita ancora di sognare… C’erano fuochi nel cielo, fiamme rosse, qua e là e là e là». La sua mano sottile puntava verso tre punti distinti nel cielo, in semicerchio, verso occidente, e da sud a nord. «Erano città che bruciavano. Le città dove andavo sempre con mia madre. E la gente veniva di là, e i soldati, e c’erano dei rifugi in tutti i campi, e la gente gremiva le stalle e le case, dovunque trovava posto, e tutto il nostro bestiame veniva macellato per sfamare i profughi… quaranta capi di bellissime mucche. Quelli erano tempi terribili, terribili. È un miracolo se qualcuno è riuscito a sopravvivere».

«È per questo che hanno ucciso quell’uomo?» domandò Len. «Perché hanno paura che qualcuno possa far tornare tutte quelle cose… le città, e il resto?»

«Non è stato quello che hanno detto alla predica?» domandò la nonna, che lo sapeva molto, molto bene, perche lei stessa era stata quasi ogni giorno a prediche simili, molte decadi prima, quando il terrore aveva portato alla grande, impetuosa esplosione di fede, generando decine di nuove sette, e rafforzando straordinariamente quelle già esistenti

«Sì. Hanno detto che lui induceva in tentazione i ragazzi con un certo frutto, credo fosse quello dell’Albero della Conoscenza, come è scritto nella Bibbia. E dicevano che lui veniva da un posto che si chiama Bartorstown. Che cos’è Bartorstown, nonna?»

«Chiedilo a tuo padre,» disse la nonna, cominciando a frugare nel grembiule e a borbottare, «Dove ho messo il fazzoletto? Ero sicura di averlo preso…»

«Gliel’ho chiesto. Mi ha risposto che un luogo simile non esiste».

«Umf,» borbottò la nonna.

«Mi ha detto che solo i bambini e i fanatici credono alla sua esistenza».

«Be’, non ho intenzione di risponderti in modo diverso, così non cercare di indurmi a farlo».

«No, certo, nonna. Ma è mai esistito quel luogo… forse molto, molto tempo fa?»

La nonna riuscì a trovare il fazzoletto. Si asciugò il volto e gli occhi con esso, e si soffiò il naso, lo ripose nel grembiule, mentre Len aspettava.

«Quando ero bambina,» disse la nonna, «Ci fu quella grande guerra».

Len annuì. Il signor Nordholt, il maestro di scuola, aveva raccontato loro molte cose sulla guerra, e nella mente di Len l’episodio era connesso con il Libro dell’Apocalisse, una cosa grande e spaventosa.

«Durava già da molto tempo, penso,» continuò la nonna. «Ricordo che alla tivù ne parlavano moltissimo, e mostravano le immagini di bombe che producevano delle nubi uguali a enormi funghi, e ognuna poteva da sola spazzar via una città. Oh, sì, Len, c’era una pioggia di fuoco che scendeva dal cielo, e molti ne furono consumati! Il Signore la diede al nemico perché un giorno diventasse la pala con cui nettare la Sua aia.»

«Ma vincemmo noi.»

«Oh, sì, alla fine vincemmo noi.»

«Fu allora che costruirono Bartorstown?»

«Prima della guerra. Fu il governo a costruirla. Questo accadeva quando il governo era ancora a Washington, ed era molto, molto diverso da oggi. Più grande… diverso. Non so, una bambina non si preoccupa molto di queste cose, non ricordo bene. Ma so che costruivano moltissimi posti segreti, e Bartorstown era il più segreto di tutti, si trovava da qualche parte, a ovest… nessuno sapeva dove.»

«Se era così segreto, come facevi a sapere che esisteva?»

«Lo dicevano alla tivù. Oh, certo, non dicevano dove fosse, né a che cosa servisse… e aggiungevano che poteva trattarsi soltanto di una voce, di una notizia non vera. Ma il nome lo ricordo.»

«Allora,» disse Len, sommessamente, «Allora era vero!»

«Ma questo non vuole dire che sia vero oggi… che Bartorstown esista ancora. Si tratta di cose accadute molto, molto tempo fa. Forse ne è sopravvissuto soltanto il ricordo, come ha detto tuo padre, per suggestionare i bambini e i fanatici.» Aggiunse acidamente, a bassa voce, che lei, personalmente, non apparteneva né alla prima, né alla seconda categoria. Poi disse: «Non pensarci, Len, abbandona l’idea, non avere alcun commercio col Diavolo, e lui non ne avrà con te. Non vorrai che ti accada quello che è accaduto a quell’uomo, alla predica?»

Len ricominciò a sudare caldo e freddo. Ma la curiosità lo indusse a domandare ugualmente:

«Bartorstown è un posto così terribile, allora?»

«Deve esserlo,» disse la nonna, con acida saggezza, «Se tutti pensano che lo sia. Oh, lo so! Per tutta la vita ho dovuto tenere a freno la lingua. Io posso ricordare il mondo come era prima. Ero soltanto una bambina, ma grande abbastanza per ricordarlo… avevo quasi la tua età, allora. E ricordo benissimo come diventammo tutti Mennoniti, quando prima nessuno di noi lo era stato. A volte vorrei…» Si interruppe, e guardò di nuovo gli alberi fiammeggianti. «Come mi piaceva quel vestito rosso!»

Un altro silenzio.

«Nonna.»

«Be’, cosa c’è?»

«Com’erano le città, in realtà?»

«È meglio che tu lo chieda a tuo padre.»

«Sai benissimo quello che dice sempre. Inoltre, lui non le ha mai viste. Tu sì, nonna. Tu puoi ricordarle.»

«Il Signore, nella Sua infinita saggezza, le ha distrutte. Non tocca a noi giudicare. Né a te, né a me.»

«Non sto giudicando… sto solo chiedendo. Com’erano le città?»

«Grandi. Cento Piper’s Run non avrebbero fatto la metà neppure della più piccola città. Avevano tutte dei pavimenti solidi, con passeggi ai lati per la gente, e grandi, spaziose strade al centro per le automobili, e c’erano dei grandi edifici che salivano nell’aria, verso il cielo. C’era molto rumore, e l’aria aveva un sapore diverso, e c’era sempre moltissima gente che andava in fretta da qualche parte, avanti e indietro. Mi piaceva sempre andare in città. Nessuno pensava, allora, che fossero delle cose malvage.»

Gli occhi di Len erano grandi e rotondi.

«C’erano dei grandi cinematografi, enormi, con i sedili imbottiti, e dei supermercati grandi due volte il granaio, con dentro ogni sorta di cibi, avvolti in pacchi lucidi e colorati… quante cose che tu non hai mai sentito nominare, Len, si potevano comprare, tutti i giorni della settimana! Lo zucchero bianco, per noi era la cosa più normale e comune. E spezie, e verdure fresche durante tutto l’inverno, congelate in piccole mattonelle. E quante cose c’erano nei negozi! Oh, tante cose che non posso neppure tentare di descriverti, vestiti e giocattoli e lavatrici elettriche e libri e radio e apparecchi tivù…»

Cominciò a dondolarsi un poco avanti e indietro, e i suoi vecchi occhi brillavano.

«Natale,» disse. «Oh, a Natale! Con tutte le vetrine decorate e piene di luci e di musiche! Colori, luci, e gente che rideva. Non era malvagio. Era meraviglioso.»

Len spalancò la bocca. Rimase così, a bocca aperta, mentre un passo pesante vibrò sul pavimento dall’interno, e allora cercò di avvertire la nonna, perché tacesse… ma lei aveva dimenticato la sua presenza.

«Tanti film di cow-boys alla tivù,» borbottò la vecchia, ripercorrendo i sentieri dei decenni tormentosi. «Musica, e donne in bellissimi abiti che lasciavano le spalle scoperte. Pensavo che sarei diventata come loro, un giorno, da grande. Tanti libri illustrati, e il negozio del signor Bloomer con il gelato e le colombe di cioccolato a Pasqua…»

Papà uscì dalla porta. Len si alzò, e scese gli scalini. Papà lo guardò, e Len si fece piccolo piccolo, pensando che nelle ultime settimane la vita era stata fatta solo di guai.

«L’acqua,» disse la nonna, «Che scendeva da rubinetti lucidi e scintillanti, quando lo si desiderava. E il bagno proprio in casa, e la luce elettrica…»

Papà disse a Len:

«Sei stato tu a farla parlare?»

«No, davvero,» disse Len. «Ha cominciato da sola, con un vestito rosso…»

«Tutto facile,» disse la nonna. «Tutto facile, e lucente, e comodo. Così era il mondo. E poi se ne è andato. Così presto.»

Papà disse:

«Mamma.»

Lei lo guardò, obliquamente, e i suoi occhi parevano due scintille sbiadite, che si riaccendevano per brevi istanti. Lei disse:

«Cappello-piatto.»

«Andiamo, mamma…»

«Vorrei che ritornasse tutto,» disse la nonna. «Vorrei avere un vestito rosso, e un apparecchio tivù, e un bagno lindo e bianco di porcellana, e tutte le altre cose. Era un mondo buono. Come vorrei che non fosse mai finito.»

«Ma è finito,» disse papà. «E tu sei una vecchia pazza a giudicare la bontà di Dio.» Non parlava tanto a lei, quanto a Len, ed era molto in collera. «Una, una soltanto di quelle cose ti aiutò forse a sopravvivere? Quelle comodità aiutarono la gente delle città? Sì o no?»

La nonna girò il capo, e non volle rispondere.

Papà scese il gradino, e si mise davanti a lei.

«Mi hai capito, mamma. Rispondimi. Sì o no?»

Gli occhi della nonna si riempirono di lacrime, e la scintilla si spense, in essi.

«Io sono una vecchia,» disse. «Non è giusto che tu mi parli così.»

«Mamma, rispondi: una soltanto di quelle cose aiutò forse la gente delle città, anche una sola persona, a sopravvivere?»

La nonna lasciò ricadere il capo sul mento, e lo mosse a stento da una parte e dall’altra.

«No,» disse papà. «E lo so, perché fosti tu stessa a raccontarmi che il cibo non giungeva più ai mercati, e tutto aveva smesso di funzionare nelle fattorie, perché non c’era più energia elettrica, non c’era più combustibile, non c’era più niente. E solo coloro che avevano sempre vissuto senza tutti i lussi di quella vita, e avevano fatto da soli, con il lavoro delle loro mani, senza avere alcun commercio con le città, soltanto loro hanno potuto sopravvivere senza danno, guidandoci tutti sul sentiero della pace, dell’abbondanza, e dell’umiltà davanti a Dio. E tu osi deridere i Mennoniti! Colombe di cioccolato,» disse ancora, pestando gli stivali sul terreno, con violenza, «Colombe di cioccolato! C’è da stupirsi se il mondo, quel mondo, è crollato?»

Si volse, per comprendere Len nel proprio sostegno.

«Non avete nessun senso di gratitudine nei vostri cuori, nessuno dei due? Non sapete essere riconoscenti del buon raccolto, e della buona salute, e della casa calda, e dell’abbondanza della mensa? Cosa deve darvi di più Dio perché siate felici?»

La porta si riaprì, e apparve sulla soglia mamma Colter, con il volto roseo e tondo e pieno di rimprovero, incorniciato dalla cuffia bianca.

«Elia! Stai alzando la voce con tua madre, e proprio nel giorno di sabato?»

«Sono stato provocato,» disse il padre di Len, e rimase immobile, respirando forte col naso, per un minuto buono. Poi, più calmo, si rivolse a Len. «Va’ nel fienile.»

Len sentì che il cuore gli scendeva fino alle ginocchia. Cominciò ad attraversare l’aia, con passo lento e pesante. La mamma si fece avanti, minacciosamente:

«Elia, il sabato non è il giorno…»

«È per il bene dell’anima del ragazzo,» disse papà, con una voce che escludeva ogni discussione. «Lascia questo a me, te ne prego.»

La mamma scosse il capo, ma ritornò nella casa. Papà seguì Len, che si avviava verso la porta aperta del fienile, e la nonna rimase seduta sul gradino.

«Non me ne importa,» bisbigliò la vecchia. «Quelle cose erano buone.» Dopo un momento ripeté, fieramente, «Buone, buone, buone!» Lacrime cominciarono a scenderle lentamente sulle guance, cadendo sul suo vestito di stoffa fatto a mano.

Nel fienile caldo, immerso nella penombra, e profumato di fieno, papà prese dal chiodo la cinghia, e Len si tolse la giubba. Aspettò, ma papà rimase fermo, guardandolo e corrugando la fronte, facendo scorrere il cuoio tra le dita. Alla fine egli disse:

«No, non è questo il modo,» e riappese la cinghia alla parete.

«Non intendi frustarmi?» bisbigliò Len.

«Non per la pazzia di tua nonna. È molto vecchia, Len, e i vecchi sono simili ai bambini. E poi, ha vissuto anni terribili, e ha lavorato duramente e sempre senza lamentarsi, per una lunga vita… forse non dovrei biasimarla troppo, se rimpiange le cose comode della sua infanzia. E suppongo che non sia possibile pretendere che un ragazzo non ascolti quelle parole.»

Voltò le spalle a Len, camminando su e giù tra i sostegni, e quando si fermò, continuò a voltare le spalle al ragazzo.

«Tu hai visto morire un uomo,» disse. «È questo il tuo problema, vero? È per questo che ti tormenti, e che hai cominciato a fare tutte quelle domande?»

«Sì, papà. Proprio non riesco a dimenticarlo.»

«Non dimenticarlo,» disse papà, con veemenza improvvisa. «Poiché l’hai visto, ricordalo sempre. Quell’uomo ha scelto di seguire un certo sentiero, e quel sentiero lo ha portato a una certa fine. La strada del trasgressore non è mai stata facile, Len. Non sarà mai facile.»

«Lo so,» disse Len. «Ma solo perché è venuto da un posto che si chiama Bartorstown…»

«Bartorstown è molto più di un posto, come tu dici. Non so se esista oppure no, se sia reale come Pipers’s Run, e, anche se esiste, non posso neppure immaginare se una o tutte le cose che si narrano sul suo conto siano vere. Che siano vere o false, in realtà, non ha alcuna importanza. Gli uomini credono che siano vere. Bartorstown è un modo di pensare, Len. Il mercante è stato lapidato a morte perché aveva scelto quel modo di pensare.»

«Il predicatore ha detto che voleva far tornare le città. Bartorstown è una città, papà? Ci sono delle cose simili a quelle che aveva la nonna quando era bambina?»

Papà si voltò, e posò la mano sulla spalla di Len.

«Molte, moltissime volte, Len, in questo stesso posto, mio padre mi ha picchiato, per avere rivolto delle domande simili a questa. Era un bravissimo uomo, ma era simile a tuo zio David, più svelto con la cinghia che con la parola. Ho sentito tutte le storie, da mia madre e da tutti i vecchi della generazione precedente a quella di mia madre, che allora erano ancora vivi e ricordavano il passato assai meglio di lei. E pensavo che tutte quelle cose comode dovevano essere state belle, e mi chiedevo per quale motivo fossero state peccaminose. E mio padre mi diceva che ero destinato all’Inferno, e mi frustava, tanto che neppure riuscivo a rimettermi in piedi. Lui aveva vissuto i tempi della Distruzione, e il timor di Dio era più forte nel suo cuore di quanto non fosse nel mio. È stata una medicina amara, questa, Len, ma forse mi ha salvato. E se ci sarò costretto, ti tratterò allo stesso modo, anche se preferirei che tu non mi costringessi a farlo.»

«Cercherò di non costringerti, papà,» si affrettò a dire Len.

«Spero di no. Perché vedi, Len, è tutto così inutile. Dimentica, per un momento, il fatto che sia o non sia un peccato, e pensa soltanto ai fatti concreti. Tutte le cose di cui parla tua nonna, la tivù, le automobili, le ferrovie, e gli aeroplani, e perfino i missili, tutte quelle cose dipendevano dalle città.» Corrugò la fronte, e gesticolò un poco, cercando di spiegare il concetto. «Concentrazione, Len. Organizzazione. Come il funzionamento di un orologio, ogni rotellina dipende da ogni altra rotellina, per andare avanti. Un uomo non può costruire un’automobile, come un buon lavoratore può costruire un carro solido e funzionante. Ci volevano migliaia di uomini, che lavoravano insieme, in perfetto accordo, e che dipendevano da migliaia di altri uomini che lavoravano in altri posti, per preparare il carburante e gli pneumatici di gomma, affinché le automobili potessero camminare, dopo essere state costruite. Erano le città che rendevano possìbili tutte queste cose, Len, e quando le città scomparvero, tutte quelle cose non furono più possibili. Così non le abbiamo più. E non le avremo mai più.»

«Mai più, fino a quando durerà il mondo?» domandò Len, con la sensazione dolorosa di chi ha perduto qualcosa definitivamente.

«Questo è nelle mani di Dio,» disse il padre di Len. «Ma noi non dureremo quanto il mondo. Len, tanto varrebbe piangere sulla perdita dei Faraoni d’Egitto, che sono lontani da noi come tutte le cose perdute durante la Distruzione.»

Len annuì, pensieroso:

«Però ancora non riesco a capire, papà… perché hanno ucciso quell’uomo?»

Papà sospirò.

«Gli uomini fanno ciò che ritengono giusto, o ciò che ritengono necessario per proteggersi. Una piaga terribile è calata sul mondo. Quelli tra noi che sono riusciti a sopravvivere, hanno lavorato, e lottato, e sudato, per due generazioni, per riprendersi dalla catastrofe. Ora siamo di nuovo prosperi e in pace, e nessuno vuole che quella maledizione ritorni ad abbattersi sulle nostre teste. Quando scopriamo degli uomini che, apparentemente, ne portano il seme, decidiamo di agire contro di loro… secondo le maniere che ci sono proprie, e che sono differenti per ciascuno di noi. Alcuni, lo sai bene, seguono la via della violenza.»

Porse a Len la sua giubba.

«Ecco, puoi indossarla di nuovo. E ora va’ nei campi, e guardati attorno, e pensa a ciò che vedi, e domanda al Signore il dono più grande che Egli può darti, un cuore contento. E vorrei che tu pensassi all’uomo che hai visto morire come a un segno che ti è stato mandato per ricordarti il prezzo della follia, che è uguale a quello del peccato.»

Len indossò la giubba. Annuì, e sorrise a papà, con molto amore.

Papà disse ancora:

«Un’ultima cosa. Esaù ti ha spinto ad andare a quella predica.»

«Non ho detto…»

«Non ti ho fatto una domanda, ho fatto solo una constatazione. Conosco te e conosco Esaù. Ora ti dirò una cosa, e tu non dovrai ripeterla. Esaù è testardo, e si fa un punto d’orgoglio di essere ribelle in qualunque circostanza, credendo di dimostrarsi furbo. È nato per mettersi nei guai, come le scintille nascono per salire nella cappa del focolare, e non voglio che tu stia alle sue calcagna come un cucciolotto fedele. Se questo accadrà di nuovo, ti darò una battuta come non te la sei mai sognata. Hai capito?»

«Sissignore!»

«Allora vai.»

Len non se lo fece dire due volte. Filò dalla porta dell’aia come una freccia. Scavalcò il cancello, attraversò la carreggiata, e si addentrò nel campo occidentale, muovendosi ora con calma, con la testa china, e i pensieri che giravano e giravano e giravano nella sua testa, fino a stordirlo.

Il giorno prima gli uomini avevano tagliato il grano, e i lunghi falcetti avevano fatto whick-whick! sugli steli fruscianti, e i ragazzi avevano riunito i covoni. La mietitura era una delle cose che Lan amava di più. Tutti si riunivano e aiutavano tutti gli altri, e c’era un senso di eccitazione, un senso di vittoria finale nella lunga battaglia iniziata nel giorno della semina, l’idea di prepararsi a trascorrere l’inverno ben riforniti e in pace, qualcosa che era giusto e naturale come il cadere delle foglie e i preparativi degli scoiattoli. Len camminava lentamente, tra le file di stoppie e di alti covoni, e odorò il sole tra il grano seccato, e ascoltò i corvi che gracchiavano da qualche parte, al limitare del bosco, e allora i colori degli alberi cominciarono a giungergli. D’un tratto si rese conto che tutta la campagna era un incendio di bellezza pura, un falò di fuoco frusciante e vivo, e camminò lentamente verso i boschi, tenendo alta la testa, per vedere le creste di porpora e oro contro il cielo. C’era una macchia di sommacchi ai bordi del campo, così trionfalmente scarlatti da fargli chiudere gli occhi. Si fermò davanti a quello splendore, e si volse a guardare indietro.

Di là poteva vedere quasi tutta la fattoria, il preciso disegno dei campi, le staccionate ben curate che si stendevano serpentine a contornarli, le costruzioni raggruppate, dai tetti solidi e perfetti, colorati dalle stagioni e dagli anni di una patina grigio-argentea che scintillava nel sole. Le pecore brucavano placidamente sui pascoli alti, e in quelli più bassi c’erano le mucche, la cavalla da tiro, e i grandi cavalli dai forti muscoli, tutti lustro e grasso. Il fienile e il granaio erano pieni. La cantina degli ortaggi era ben rifornita di tuberi saporiti, la cantina della casa era piena di formaggi e di otri, di pancetta e di strutto, e di prosciutti appena affumicati, e avevano preso tutto quel ben di Dio dalla terra, con le loro mani, con il loro lavoro. Una sensazione di calore cominciò a pervadere Len, e insieme a essa venne un amore appassionato, inesprimibile per il posto che stava guardando, i campi e la casa, il fienile, i boschi, il cielo. Capiva bene, ora, che cosa aveva voluto dirgli suo padre. Questo era buono, e Dio era buono. Capì che cosa intendeva dire papà, parlando di cuore contento. Cominciò a pregare. Quando ebbe finito di pregare si voltò, e si addentrò tra gli alberi.

Vi era stato tante volte che si era formato uno stretto sentiero battuto attraverso il bosco. Ora il passo di Len era leggero, e la sua testa era alta. Il largo cappello s’impigliava tra i rami più bassi, ed egli se lo tolse. Ben presto si tolse anche la giubba. Il sentiero procedeva vicino a una pista lasciata dai cervi. Diverse volte Len si curvò a vedere se non ci fosse qualche traccia recente, e quando attraversò una radura dall’erba alta e folta poté vedere le depressioni rotonde d’erba schiacciata, là dove i cervi avevano riposato.

Pochi minuti più tardi giunse in una lunga radura. La boscaglia si faceva più rada, ricacciata via dai grandi, maestosi aceri che crescevano in quel luogo. Len si mise a sedere, arrotolando la giubba, e poi si distese sulla schiena con la giubba sotto la testa, e guardò in alto, tra il fogliame degli alberi. I rami formavano un mutevole disegno d’ombra, che racchiudeva una nube di foglie dorate, e sopra di essi il cielo era così azzurro e profondo e quieto che pareva facile tuffarsi in esso, e lasciarsi cullare dal suo tepore. Di quando in quando, una breve pioggia di foglie dorate scendeva dai rami, veleggiando lentamente nell’aria quieta, uno sfarfallare pigro e colorato che rischiarava le ombre della radura. Len meditava, ma i suoi pensieri non avevano più una forma precisa. Per la prima volta, dalla notte della predica, erano pensieri semplici e lieti. Dopo qualche tempo, pervaso da un senso di pace totale, scivolò nel torpore del dormiveglia. E poi, d’un tratto, si rizzò a sedere di scatto, con il cuore che batteva forte, e il sudore improvviso sulla fronte.

C’era un rumore nei boschi.

Non era un rumore giusto, come quelli prodotti da un animale, o da un uccello, o dal vento, o dai rami degli alberi. Era uno scoppiettio e un sibilo e uno sfrigolio, tutti mescolati, e nel bel mezzo di quella strana confusione venne un improvviso rombo. Non fu forte, pareva sottile e lontano, eppure pareva venire da vicino. Improvvisamente il rumore finì, come se fosse stato troncato di netto dalla lama di un coltello.

Len rimase immobile, tendendo l’orecchio.

Il rumore si udì di nuovo, ma debolissimo, ora, furtivo, e si mescolava al fruscio prodotto dalla brezza tra i rami più alti degli alberi. Len si mise a sedere, e si tolse le scarpe. Poi avanzò, scalzo e silenzioso, sul tappeto di muschio e d’erba, all’estremità della radura, e poi, cercando di procedere nel modo più silenzioso possibile, avanzò lungo il letto asciutto di un torrentello, fino a quando la boscaglia non si diradò di nuovo in un boschetto di noci. Attraversò il boschetto, s’immerse in una macchia di stramoni, e avanzò carponi, fino a quando non poté guardare dall’altra parte. Il suono non era aumentato d’intensità, ma era più vicino. Molto più vicino.

Oltre gli stramoni c’era un pendio erboso, un prato dove le viole crescevano numerose in primavera. Era un pendio a forma di cuneo, proprio dove il fiume che dava il nome al villaggio si gettava nel lento e limaccioso Pymatuning. C’era un grande albero che sporgeva i suoi rami sul fiume, all’estremità, con metà delle radici esposte dall’erosione del terreno a causa delle molte piene del corso d’acqua. Era il luogo più segreto che si poteva trovare in un pomeriggio di sabato in ottobre, proprio nel cuore dei boschi, nel punto più lontano dalle fattorie che si trovavano su entrambe le rive del fiume.

Esaù era là. Sedeva curvo su un tronco caduto, e il rumore veniva da qualcosa che lui teneva tra le mani.

4.

Len uscì dagli stramoni. Esaù balzò in piedi, impaurito, con aria vistosamente colpevole. Cercò di correre via, e di nascondere l’oggetto dietro la schiena, e di schivare un colpo improvviso, tutto nello stesso tempo, e quando vide che si trattava solo di Len cadde di nuovo a sedere sul tronco, come se le gambe gli si fossero piegate sotto il corpo.

«Perché hai fatto una cosa simile?» domandò, a denti stretti. «Credevo che fosse mio padre.»

Gli tremavano le mani. Stava ancora cercando di nascondere ciò che teneva tra di esse. Len si fermò dov’era, sorpreso dall’evidente spavento di Esaù.

«Che cos’hai?» domandò.

«Niente. Solo una vecchia scatola.»

Era una misera bugia. Len la ignorò. Silenziosamente, si avvicinò a Esaù, e guardò. L’oggetto aveva la forma di una scatola. Era piccolo, largo solo pochi centimetri, e piatto. Era di legno, ma aveva un aspetto diverso da quello di qualsiasi oggetto di legno che Len avesse visto prima di allora. Sul momento, non riuscì a stabilire quale fosse la differenza, ma c’era, ed era evidente. C’erano delle curiose aperture, e diversi bottoni che sporgevano dai lati, e in un punto c’era un rocchetto di filo infilato in un buco, solo che questo filo era metallico. L’oggetto ronzava e bisbigliava da solo.

Sorpreso, e non poco spaventato, Len domandò:

«Che cos’è?»

«Hai presente quella cosa di cui la nonna parla, a volte? La cosa da cui le voci escono nell’aria?»

«La tivù? Ma quella era grande, e si vedevano delle figure.»

«No,» disse Esaù, «Voglio dire quell’altra cosa, quella che aveva soltanto delle voci.»

Len respirò, un respiro lungo e un po’ rauco, e si accorse di tremare un poco, in tutto il corpo.

«Oh-h!» Allungò un dito, timoroso, e toccò la scatola ronzante, la sfiorò appena, per assicurarsi che fosse veramente là. Poi disse, «Una radio?»

Esaù posò l’oggetto sulle ginocchia, tenendolo stretto con una mano. L’altra mano si mosse fulminea, e afferrò la camicia di Len. Il volto di Esaù era così minaccioso, che Len non tentò neppure di divincolarsi, o di reagire. E poi, non avrebbe resistito in nessun modo, per timore che la radio potesse rompersi.

«Se lo dici a qualcuno ti ammazzo,» disse Esaù. «Lo giuro, che ti ammazzo.»

Lo guardò con tale furiosa insistenza, che Len non dubitò neppure per un momento che egli non stesse parlando seriamente. D’altronde, non si sentì di biasimarlo. Rispose:

«Non dirò niente, Esaù. Davvero… lo giuro sulla Bibbia.» I suoi occhi erano attirati irresistibilmente dalla cosa meravigliosa, spaventosa, magica che Esaù teneva sulle ginocchia. «Dove l’hai trovata? Funziona? Riesci a sentire davvero delle voci?» Si chinò, finché il suo mento fu quasi sulla coscia di Esaù.

Esaù lasciò andare la camicia di Len, e toccò di nuovo la liscia superficie di legno della scatola. Così da vicino, Len poté notare che intorno ai bottoni c’erano dei punti consumati dal contatto delle dita, e che c’era un angolo scheggiato. Questi piccoli particolari diedero improvvisamente il senso della realtà dell’oggetto. Qualcuno l’aveva posseduto e usato per molto, molto tempo.

«L’ho rubata,» dichiarò Esaù. «Apparteneva a Soames, il mercante.»

Quel nervo ormai familiare si contrasse e vibrò nello stomaco di Len. Indietreggiò un poco, e guardò Esaù, e poi si guardò intorno, come se si fosse aspettato di vedere una pioggia di pietre uscire dai bordi dei boschi, pietre scagliate da mani implacabili e invisibili.

«Ma tu come l’hai presa?» domandò, abbassando inconsciamente la voce.

«Ricordi quando il signor Hostetter ci ha fatti salire sul carro, e poi è sceso a cercare qualcosa?»

«Sì, è andato a prendere una cassetta dal carro di Soames… oh!»

«Era nella cassetta. C’erano delle altre cose, credo fossero dei libri, e altri oggetti più piccoli, ma era buio, e non osavo fare rumore. Potevo sentire che si trattava di qualcosa di diverso, come le vecchie cose delle quali la nonna parla a volte. Così l’ho nascosta nella camicia.»

Len scosse il capo, più con stupore che con rimprovero.

«E per tutto il tempo noi pensavamo che tu fossi svenuto. Perché l’hai fatto, Esaù? Voglio dire, come hai potuto indovinare che ci fosse qualcosa d’importante nella cassetta?»

«Be’, Soames veniva da Bartorstown, no?»

«È quanto hanno detto alla predica. Ma…» Len s’interruppe, perché la verità era una logica conseguenza di quelle parole. Tutto fu chiaro, per lui, abbagliante come se una grande luce si fosse accesa improvvisamente nella sua mente. Guardò la radio. «Veniva da Bartorstown. Perciò una Bartorstown esiste. È reale.»

«Quando ho visto Hostetter ritornare al carro reggendo quella cassetta, ho dovuto guardarci dentro, per scoprire che cosa conteneva. Non avrei mai toccato delle monete, o altre cose del genere, ma questa…» Esaù accarezzò la radio, rigirandola con delicatezza tra le mani. «Guarda questi bottoni, guarda come è fatta questa parte. Nessun fabbro di nessun villaggio potrebbe mai fare una cosa simile, Len. Deve essere stata fatta a macchina. Il modo in cui è montata, come è fatta dentro…» cercò di guardare attraverso le aperture della griglia, muovendo la radio in modo che la luce filtrasse all’interno. «Dentro ci sono le cose più strane.» Posò di nuovo la radio. «All’inizio non sapevo che cosa fosse. Lo sentivo soltanto. Ma dovevo averla!»

Len si alzò, lentamente. Camminò sull’argine del fiume, e guardò in basso, osservando le acque’ torpide, lente e per metà coperte di foglie rosse e oro.

Esaù disse, nervosamente:

«Che ti prende? Se vuoi fare la spia, dirò che l’hai rubato insieme a me, dirò che…»

«Non ho intenzione di dire niente, io,» lo rimbeccò Len, con ira. «Tu hai avuto questa cosa per tre settimane, e non mi hai detto niente, e io sono capace di mantenere un segreto.»

«Non osavo dirti niente,» rispose Esaù. «Sei molto giovane, Lennie, e hai sempre dato ascolto a tuo padre.» Aggiunse, con un fondo di verità, «Inoltre, non ci siamo quasi più visti, dalla notte della predica.»

«Non importa,» disse Len. Importava naturalmente, e molto, e lui si sentiva ferito e offeso per la mancanza di fiducia dimostrata da Esaù verso di lui, ma non voleva farlo sapere al cugino. «Stavo solo pensando…»

«Che cosa?»

«Be’, il signor Hostetter conosceva Soames. È andato alla predica per cercare di aiutarlo, e poi ha preso la cassetta dal carro di Soames. Può darsi…»

«Sì,» disse Esaù. «L’ho pensato anch’io. Può darsi che anche il signor Hostetter venga da Bartorstown, e non dalla Pennsylvania, come tutti credono.»

Grandi visioni di spaventose e meravigliose possibilità si aprirono nella mente di Len. Rimase là, sull’argine del Pymatuning, mentre le foglie d’oro e porpora scendevano fluttuando lente, e i corvi ridevano della loro aspra risata piena di scherno, e gli orizzonti si allargarono e brillarono intorno a lui fino a stordirlo. Poi ricordò per quale motivo si trovava là, o meglio per quale motivo papà lo aveva mandato nei campi e nei boschi a meditare, e pensò che solo pochi minuti prima lui aveva fatto la pace con Dio e con il mondo, e che quella sensazione era stata meravigliosa. E adesso era tutto scomparso un’altra volta.

Si voltò, finalmente.

«Riesci a sentire delle voci con questa?»

«Non ho ancora sentito niente,» disse Esaù. «Ma voglio insistere, fino a quando ci riuscirò.»

Tentarono l’impresa per tutto il resto del pomeriggio, girando cautamente i diversi bottoni, uno dopo l’altro. Esaù aveva girato un bottone più del dovuto, altrimenti Len non avrebbe mai sentito il rumore che lo aveva attirato là, e gli aveva fatto compiere quella sconcertante scoperta. Nessuno dei due aveva la più remota idea di come funzionasse una radio, né di quale fosse lo scopo dei bottoni, e delle aperture, e del rocchetto di sottile filo metallico. Potevano procedere soltanto per esperimenti, e quello che riuscivano a captare era il rumore ormai familiare, quello fatto di sfrigolii, sibili, e gracidii. Ma perfino quel suono confuso era per loro un vero prodigio. Era un suono che non avevano mai udito prima, pieno di mistero, e dava la sensazione di grandi spazi invisibili, ed era prodotto da una macchina. Non lasciarono la radio fino a quando il sole non fu così basso sull’orizzonte da riempirli di timore, e costringerli ad andarsene. Allora Esaù nascose con ogni cura la radio nel tronco cavo di un albero, avvolgendola prima in un panno, e assicurandosi che il bottone principale fosse girato fino in fondo, fino a produrre un piccolo scatto, il modo per impedire alla radio di produrre anche il più lieve rumore: il rumore avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualche cacciatore, o di qualche pescatore, che fosse passato casualmente di là, ed Esaù non voleva correre questo rischio.

Quell’albero cavo diventò il perno intorno al quale giravano le giornate di Len, e fu la cosa più eccitante che si potesse immaginare, ma anche quella che procurava le maggiori frustrazioni. Ora che aveva una ragione vera per andare là, gli sembrava sempre più difficile, se non impossibile, trovare il tempo e le scuse per addentrarsi nei boschi, che erano stati la mèta di tutte le sue peregrinazioni nei giorni e negli anni precedenti. La stagione cambiò, cominciò a fare freddo, e venne la pioggia, e poi la brina, e poi cadde la neve. Il bestiame doveva essere portato nelle stalle, all’inizio della stagione fredda, e da quel giorno c’era poco tempo a disposizione, nella giornata, occupata completamente dalle necessità di tanti animali da sfamare, lavare, accudire. C’era la mungitura, e poi il pollaio da vedere, e poi da dare una mano alla mamma a mescolare il burro e a portare la legna da ardere per la stufa, e così via.

Dopo le faccende del mattino, che doveva sbrigare quando era appena chiaro, egli percorreva un miglio e mezzo di strada fino al villaggio, su strade che un giorno erano piene di fango, e il giorno dopo ghiacciate e dure come il ferro. Sul lato occidentale della piazza del villaggio, oltre la bottega del fabbro, ma prima di quella del ciabattino, c’era la casa del signor Nordholt, il maestro di scuola, e là, con gli altri ragazzi di Piper’s Run, Len doveva combattere contro l’aritmetica e le lettere, le letture e la storia della Bibbia, fino a mezzogiorno, quando veniva lasciato libero di ritornare a casa, sempre a piedi, e sempre su quella strada difficilmente praticabile. E poi c’erano tutte le altre cose. Spesso Len pensava di avere più da fare di papà e di suo fratello James messi assieme.

Suo fratello James aveva diciannove anni, e stava per sposare la figlia maggiore del signor Spofford, il mugnaio. Era molto simile a papà, grande e grosso e tranquillo, fiero della sua bella barba recente, malgrado essa fosse quasi rosea. Quando il tempo era bello, Len andava con lui e con papà nella legnaia, oppure in giro, a riparare le staccionate o a pulire le siepi, e a volte andavano tutti a caccia, sia per procurarsi la carne che per procurarsi le pelli degli animali, perché nulla veniva sprecato, né gettato via. C’erano cervi, tassi, opossum, procioni e roditori, secondo la stagione dell’anno, e scoiattoli; e si diceva, anche se le voci erano molto vaghe e confuse, che gli orsi che vivevano nelle parti più selvagge della Pennsylvania avessero deciso di scendere dalle loro colline, per spingersi a ovest, fino all’Ohio; e a volte, se l’inverno era molto duro, c’erano voci che parlavano di branchi di lupi a nord, nella regione dei laghi. C’erano delle volpi da tenere lontane dai pollai, e topi da tenere lontani dal grano, e conigli da tenere lontani dal frutteto. E tutte le sere c’era di nuovo la mungitura, e le faccende da sbrigare prima del riposo, e poi la cena, e il letto. Non rimaneva molto tempo, perciò, per la radio.

Eppure, sia da sveglio che nel sonno, la radio non gli usciva mai dalla mente. Due cose erano legate a essa: un ricordo e un sogno. Il ricordo era la morte di Soames. Il tempo lo aveva trasfigurato, fino a renderlo più alto, e più nobile, e più splendido di quanto mai fosse stato qualsiasi mercante dai capelli biondi, e la luce del falò che lo aveva illuminato si era confusa con la gloria del martirio. Il sogno era quello di Bartorstown. Era stato composto pezzo per pezzo dalle storie narrate dalla nonna, e da alcuni frammenti di sermoni, e dalle descrizioni classiche del paradiso. Quella Bartorstown aveva dei bianchi edifici immensi che salivano verso il cielo, ed era piena di suoni e di colori, e di persone vestite in fogge strane, e risplendeva di luce, ed era piena di tutte le cose che la nonna aveva descritto, macchine e generi di lusso e mille e mille piaceri.

La cosa più tormentosa di quella piccola radio era che lui ed Esaù sapevano che si trattava di un legame con Bartorstown, e che se essi avessero saputo usarla avrebbero potuto udire realmente le voci degli uomini di Bartorstown parlare delle meraviglie di Bartorstown. Forse avrebbero potuto scoprire addirittura dove si trovava, e come la si poteva raggiungere, se si desiderava farlo. Ma per Esaù andare nel bosco era difficile almeno quanto per Len, e nei pochi momenti rubati al lavoro quotidiano essi non riuscirono a ottenere dalla radio che dei rumori privi di senso.

La tentazione di rivolgere alla nonna qualche domanda sulle radio era quasi superiore alle capacità di resistenza di Len. Ma non osava farlo, e comunque era sicuro che la nonna non doveva saperne più di quanto ne sapeva lui.

«Abbiamo bisogno di un libro,» disse Esaù. «Ecco quello che ci manca. Un libro che spieghi come funzionano queste cose.»

«Sì,» disse Len. «Certo. Ma come pensi di procurartelo?»

Esaù non rispose.

Le grandi ondate di freddo calarono dal nord e dal nord-ovest, una dopo l’altra. Cadde la neve, che poi si sciolse nel vento caldo venuto dal sud, e poi il pantano che rimase nei campi gelò, per le nuove ondate di freddo, mentre la temperatura si abbassava. Qualche volta piovve, invece, una pioggia gelata e insistente, e i boschi nudi gocciolavano. La pila di concime dietro il fienile si trasformò in una bruna montagna collosa. E Len pensava.

Forse era stato merito dello stimolo offerto dalla radio, o semplicemente lui stava diventando adulto, o entrambe le cose si erano unite… ma lui vedeva le cose che lo circondavano in una luce diversa, come se fosse riuscito a distaccarsi un poco da esse, evitando di farsi confondere alla vicinanza. Questo nuovo tipo di prospettiva non era con lui sempre, certo: anzi, in prevalenza lui era troppo stanco o troppo affaccendato per pensare ad altre cose. Ma di quando in quando vedeva la nonna seduta accanto al fuoco, intenta a lavorare a maglia con le sue mani vecchie e malferme, e si sentiva triste per lei perché era vecchia, e pensava alla lunga vita che aveva avuto e a tutto ciò che aveva visto, mentre la piccola Esther, una copia in miniatura della mamma, con la cuffietta leggera e il piccolo grembiule e tutte le gonne, era giovane e cominciava a vivere allora.

Poi vedeva la mamma, sempre affaccendata intorno a qualcosa, a lavare, cucire, filare, tessere, ricamare, assicurarsi che la tavola fosse ben rifornita di cibo per gli uomini stanchi del lavoro e pieni di sano appetito, una donna solida, sicura, molto dolce e molto tranquilla. Vedeva la casa nella quale viveva, le familiari camere dipinte di bianco delle quali conosceva ogni fessura e sporgenza delle pareti di legno. Era una vecchia casa. La nonna diceva che era stata costruita solo un anno o due dopo la costruzione della chiesa. I pavimenti salivano e scendevano, e le pareti pendevano un poco, ma la casa era ancora solida come una montagna, fatta di grandi tronchi messi insieme dal primo Colter che era venuto là, molte generazioni prima della Distruzione. Una casa vecchia, eppure non era troppo differente dalle nuove case che venivano costruite ora. Quelle che erano state costruite durante l’infanzia della nonna, o subito prima, erano le case dall’aspetto realmente strano, piccole cose dal tetto piatto le cui pareti avevano dovuto essere in prevalenza rinforzate con grandi, robusti tronchi, e le cui finestre chiuse da assi inchiodate erano buchi grandi e privi di ragione. Lui si alzava e cercava di toccare il soffitto, e pensava che l’anno prossimo avrebbe potuto riuscirci. E una grande ondata di amore lo travolgeva, e pensava. Non me ne andrò mai da qui, mai, mai! E la sua coscienza doleva, con una forza quasi fisica, perché lui sapeva di comportarsi male a giocare con la radio proibita e con i sogni proibiti di Bartorstown.

Per la prima volta, lui vedeva davvero suo fratello James, com’era realmente, e lo invidiava. Il suo viso era placido e liscio come quello della mamma, e nei suoi occhi non brillava neppure una scintilla di curiosità. Lui non si sarebbe curato neppure dell’esistenza di venti Bartorstown sull’altra riva del Pymatuning, non avrebbe fatto nulla per raggiungerle, neppure per vederle. Lui voleva soltanto sposare Ruth Spofford e restare dov’era. Len intuiva confusamente che suo fratello James era uno di quei pochi privilegiati che non dovevano mai pregare Dio per ottenere da lui là grazia di un cuore contento.

Papà era diverso. Papà aveva dovuto lottare. La lotta aveva lasciato dei segni sul suo viso, ma erano segni buoni, segni di forza. E la sua serenità era diversa da quella del fratello James. Non era venuta così, spontaneamente. Papà aveva dovuto lottare e sudare per conquistarla, esattamente come si doveva sudare e lottare per avere un buon raccolto da un campo povero. Era qualcosa che si poteva avvertire, quando si era con lui, ed era una cosa bella, una cosa che si sarebbe desiderata anche per sé.

Ma era possibile? Si poteva rinunciare a tutti i misteri e a tutte le meraviglie del mondo? Era possibile non vedere mai tutte quelle cose, né desiderare di vederle? Era possibile soffocare l’ansia e la speranza di udire una voce dal nulla, una voce che usciva da una scatoletta quadrata?

In gennaio, subito dopo Capodanno, ci fu una vera e propria tempesta di ghiaccio, durante un sabato sera. Il lunedì mattina Len si mise in cammino per andare a scuola quando il sole era appena sorto, e ogni albero, ramo, ed erba intirizzita erano rivestiti di una brillante gloria di gelo. Si attardò sulla strada, contemplando i boschi familiari diventati strani e risplendenti come una foresta di vetro… una visione molto più rara e affascinante della coltre di neve che ricopriva spesso i rami, trasformando il paesaggio in una bianca distesa abbagliante… ed era tardi quando attraversò la piazza del villaggio, passando davanti al monumento di pietra eretto in memoria dei caduti di tutte le guerre dai cittadini di Piper’s Run. Un tempo sulla pietra c’era stata un’aquila di bronzo, ma ora non rimaneva altro che un grumo di metallo corroso che ricordava due artigli. Anch’esso era rivestito di ghiaccio, e il terreno era scivoloso, infido. Sui gradini della casa del signor Nordholt era stata cosparsa della cenere Len salì i gradini, arrivò sulla veranda, ed entrò nella casa.

La stanza era ancora fredda, malgrado l’allegro scoppiettare del fuoco nel camino. Aveva il soffitto molto alto, e doppie porte ugualmente alte, e lunghe finestre, così che entrava più freddo di quanto il fuoco potesse eliminarne. I muri erano imbiancati, con molte decorazioni di legno lucido, di grana grossa. Gli studenti erano seduti su rozze panche, prive di schienale, con lunghi tavolini davanti. Erano disposti in ordine di altezza, i più piccoli davanti, i più alti dietro, le ragazze da un lato, i ragazzi dall’altro. Erano ventitré in tutto. Ognuno aveva una lavagnetta liscia, un gessetto, e uno straccio per cancellare, e tutto quello che veniva loro insegnato, a eccezione dell’aritmetica, veniva dalla Bibbia.

Quella mattina sedevano tutti immobili, con le mani in grembo, e ognuno cercava di confondersi nella stanza come un coniglio nella siepe, per non farsi notare. Il signor Nordholt era in piedi davanti a loro: era un uomo alto e magro, con la barba bianca e un’espressione di gentile fermezza che spaventava solo i più piccoli. Ma quella mattina il signor Nordholt era in collera. Era furibondo, lo si vedeva fiammeggiare di sdegno, e i suoi occhi dardeggiarono Len con uno sguardo di fronte al quale egli cercò di farsi più piccolo. Il signor Nordholt non era solo. C’erano anche il signor Glasser, il signor Harkness, il signor Clute, e il signor Fenway, che costituivano la legge e il consiglio di Piper’s Run, e che ora sedevano rigidamente in fila, osservando con occhi tempestosi gli studenti.

«Se ora il signor Colter vorrà avere la cortesia di occupare il proprio posto, gli saremo riconoscenti,» disse gelido il signor Nordholt.

Len scivolò al suo posto nell’ultimo banco, senza fermarsi a togliersi la pesante giacca e la sciarpa che gli circondava il collo. Rimase seduto là, cercando di farsi piccolo piccolo, di assumere un’aria innocente, chiedendosi cosa fosse successo per produrre una simile tempesta, e pensando con un senso di acuta colpa alla radio.

Il signor Nordholt disse:

«Per tre giorni, a Capodanno, io sono stato ad Andover, per fare visita a mia sorella. Non ho chiuso a chiave la porta, andandomene, perché non è mai stato necessario chiudere le porte contro i ladri, a Piper’s Run».

La voce del signor Nordholt era soffocata da un’intensa emozione, e Len ebbe la certezza che doveva essere accaduto qualcosa di veramente brutto. Ripensò frettolosamente alle sue azioni di quegli ultimi tre giorni, ma non trovò niente che gli potesse essere imputato.

«Qualcuno,» annunciò con voce sepolcrale il signor Nordholt, «Si è introdotto in questa casa, durante la mia assenza, e ha rubato tre libri».

Len s’irrigidì. Ricordò le parole che aveva detto Esaù, qualche tempo prima: «Abbiamo bisogno di un libro…».

«Questi libri,» proseguì il signor Nordholt, «Appartengono alla comunità di Piper’s Run. Sono libri anteriori alla Distruzione, e perciò insostituibili. E non servono per uso ozioso o indiscriminato, perciò desidero che siano immediatamente restituiti».

Si fece in disparte, e allora si alzò il signor Harkness. Era un uomo piccolo e massiccio, con le gambe arcuate per avere camminato per tutta la vita dietro a un aratro, e la sua voce aveva un tono rauco, gutturale. Durante le riunioni, era lui a recitare, sempre, le preghiere più lunghe. Egli guardò le file di banchi con due piccoli occhi d’acciaio che usualmente erano amichevoli come quelli di un cane.

«Ora,» disse il signor Harkness, «Rivolgerò una domanda a ciascuno di voi, a turno. Vi chiederò se avete preso i libri oppure no, o se sapete chi li abbia presi. E non voglio menzogne o false testimonianze».

Si avvicinò all’angolo di sinistra e cominciò, camminando lungo i banchi. Len ascoltò i monotoni No, signor Harkness che gradualmente si avvicinavano a lui, e sudò copiosamente, e cercò di sciogliere il nodo freddo che gli bloccava la lingua.

Dopotutto lui non sapeva che si trattasse proprio di Esaù… non poteva averne la certezza. «Non dirai falsa testimonianza», aveva detto il signor Harkness, e darsi un’aria colpevole quando non lo si era, in fondo, era come prestare falsa testimonianza. Inoltre, se avessero fatto delle ricerche troppo accurate, se la loro attenzione si fosse concentrata su di lui, avrebbero potuto scoprire…

Gli occhi e l’indice di Harkness si puntarono su di lui

«No,» disse Len, «No, signor Harkness».

Gli sembrò che tutte le colpe e le paure del mondo pesassero e vibrassero in quelle semplici parole, ma il signor Harkness non indugiò, e passò a interrogare il ragazzo vicino a Len. Quando giunse in fondo all’ultimo banco, disse:

«Benissimo. Forse voi tutti dite la verità, forse no. Lo scopriremo. Ora vi dirò questo: se voi vedete un libro che non appartiene alla persona che lo usa, dovete venire subito da me, o dal signor Nordholt, o dai signori Glasser, Clute e Fenway. Dovete chiedere ai vostri genitori di comportarsi allo stesso modo. Avete capito bene?»

«Sì, signor Harkness».

«E ora, preghiamo. O Dio, che conosci tutte le cose, perdona il bambino o l’uomo che ha violato il Tuo comandamento che proibisce di rubare. Accompagna la sua anima in modo che si allontani dai sentieri del male, e imbocchi la via dell’onestà, e preparalo a sopportare con rassegnazione il castigo…».

Ritornando a casa, Len arrischiò una puntata nei boschi, correndo per compensare la maggiore distanza da percorrere. Il sole aveva sciolto una piccola parte dell’armatura di ghiaccio che aveva avvolto ogni cosa, ma lo scintillare era ancora vivido, e il riverbero gli faceva dolere gli occhi, e il terreno era una lastra di ghiaccio, scivoloso e infido. Quando raggiunse il vecchio albero cavo era stanco, ansava pesantemente, e tremava in tutto il corpo per la fatica.

C’erano tre libri nel cavo dell’albero, avvolti in uno straccio di tela, accanto alla radio, all’asciutto e al sicuro. Le copertine e la carta all’interno lo affascinarono, con i colori sbiaditi che colpivano l’occhio, e la trama inconsueta al tatto. In quei libri c’era qualcosa di strano e indefinibile… qualcosa che li rendeva singolarmente simili alla radio.

Uno era un libro verde scuro intitolato Fisica Elementare. Un altro era sottile e bruno, con un lungo titolo: Introduzione alla Radioattività e alle Scienze Nucleari. Il terzo era grosso e grigio, e si chiamava Storia degli Stati Uniti. Le parole dei primi due titoli non dicevano nulla a Len, tranne che vi riconosceva la parola Radio. Voltò le pagine, in fretta, con dita che tremavano, cercando di assorbire tutto con un solo sguardo, e vedendo soltanto stampa e disegni strani e confusi. Qua e là, sulle pagine, qualcuno aveva sottolineato, oppure scritto a margine: «Lunedì esperimento», o «Fino a qui», o «Scrivere per richieste al solito indirizzo».

Len avvertì un desiderio insaziabile di sapere, una frenesia che non aveva mai conosciuto in passato, perché nulla l’aveva fatta salire alla superficie del suo essere. Quei desideri erano violenti, gli salivano alla testa, così forti da farlo soffrire. Voleva leggere. Voleva prendere i libri e avvolgersi in essi e assorbirli fino all’ultima parola e all’ultima figura. Sapeva benissimo quale fosse il suo dovere, ma non lo fece, non l’avrebbe mai potuto fare. Avvolse amorevolmente i libri nel telo, e li rimise al loro posto, con prudenza, nell’incavo dell’albero. Poi si lanciò di nuovo di corsa nei boschi, sulla strada di casa, e la sua mente cominciava a tessere stratagemmi per ingannare papà e per dare un aspetto innocente ai suoi colpevoli viaggi nei boschi. La sua coscienza mandò un solo pigolio, non più acuto di quello di un pulcino di un giorno, e poi tacque.

5.

Esaù stava per scoppiare in lacrime. Abbassò rabbiosamente il libro che teneva in mano, e disse, furibondo:

«Non capisco cosa significhino le parole, e allora a che cosa mi serve? Semplicemente, ho corso un grosso rischio per niente!»

Aveva letto e riletto il libro di fisica, e quello sulla radioattività, che successivamente era stato messo in disparte, perché apparentemente non aveva niente a che fare con le radio, e comunque era incomprensibile, dalla prima all’ultima riga. Ma il libro di fisica… un altro bizzarro uso della parola, che per poco non aveva indotto Esaù a non prenderlo, quando aveva cercato nella biblioteca del signor Nordholt… conteneva una parte che riguardava le radio. L’avevano letta e riletta, scambiandosi opinioni e commenti, fino a quando le parole strane e impronunciabili non si erano impresse nelle loro menti, fino a quando essi non furono in grado di tracciare diagrammi di onde e circuiti, triodi e oscillatori, anche in sogno… senza capire neppure lontanamente quale fosse il loro significato.

Len raccolse il libro, che Esaù aveva lasciato cadere a terra, e ripulì la copertina dal terriccio. Poi lo aprì di nuovo, guardò una pagina, e scosse il capo. Disse, amaramente:

«Non dice come fa a uscire la voce».

«No. E non dice nemmeno a che cosa servono i bottoni e il rocchetto». Esaù rigirò la radio tra le mani, con aria sepolcrale. Sapevano, ormai, che uno dei bottoni serviva a renderla rumorosa o quieta… viva o morta, pensava inconsciamente Len. Ma tutti gli altri bottoni rimanevano un mistero. Rendendo il rumore molto sommesso, e avvicinando la radio all’orecchio, avevano appreso che il suono usciva da una delle aperture. A che cosa servissero le altre due era un altro mistero. Nessuno dei bottoni, o delle aperture, assomigliava agli altri bottoni o alle altre aperture, e così era logico sospettare che tutti servissero a differenti propositi. Len era sicurissimo che una delle aperture servisse a fare uscire il calore, come il ventilatore nei fienili, perché appoggiando la mano sull’apertura si poteva avvertire un certo aumento del calore, dopo qualche tempo. Ma questo lasciava ancora molti misteri insoluti, uno dei quali era l’enigmatico rocchetto di filo metallico. Tese le mani, e prese la radio da Esaù, perché gli piaceva tenerla tra le mani, per quella specie di fremito sommesso che la pervadeva, qualcosa di simile a una macchia d’erba di palude nel vento.

«Il signor Hostetter deve sapere come funziona,» disse.

Erano ormai sicuri, in cuor loro, che il signor Hostetter, come il signor Soames, fosse venuto da Bartorstown.

Esaù disse:

«Sì. Ma non possiamo chiederglielo».

«No».

Len continuava a rigirare la radio tra le mani, accarezzando i bottoni, il rocchetto, le aperture. Un vento gelido faceva sbattere i rami nudi degli alberi, sopra le loro teste. C’era del ghiaccio nel Pymatuning, e il tronco caduto sul quale il ragazzo sedeva era freddo e pungente come se fosse stato anch’esso di ghiaccio.

«Mi chiedo se, forse…» cominciò, lentamente.

«Sì?»

«Be’, se parlano tra loro con queste radio, non lo faranno certo di giorno, vero? Voglio dire… di giorno la gente potrebbe sentirli. Se fossi io, aspetterei fino a notte, quando la gente dorme».

«Be’, non sei tu a farlo,» disse Esaù, acidamente. Ma rifletté su quelle parole, e gradualmente l’idea si fece strada nella sua mente. «Però scommetto che hai ragione. Scommetto che fanno proprio così! Noi l’abbiamo maneggiata solamente di giorno, e naturalmente di giorno loro non parlano. Prova a immaginare il signor Hostetter, intento a parlare per radio di giorno, nella piazza del mercato, con tutta la gente intorno, e tanti ragazzi pronti a intrufolarsi in tutti i carri!»

Si alzò in piedi, e cominciò a camminare su e giù per la radura, soffiandosi sulle dita intirizzite per scaldarsi.

«Dobbiamo fare dei piani, Len. Dobbiamo riuscire a venire qui durante la notte».

«Sì,» disse Len, entusiasta, e immediatamente si pentì di quanto aveva detto. Non sarebbe stata un’impresa così facile.

«Una caccia al tasso,» disse Esaù.

«No. Mio fratello vorrebbe certamente venire… e anche mio padre».

La caccia all’opossum offriva gli stessi problemi, e la caccia al cervo era un avvenimento che non avrebbe attirato solamente papà e il fratello James, ma molte altre persone delle fattorie vicine.

«Be’, continua a pensarci». Esaù cominciò a riporre i libri e la radio nel nascondiglio. «Io devo tornare a casa».

«Anch’io». Len guardò con rimpianto il grosso volume di storia, desiderando di poterlo portare con sé. Esaù lo aveva preso, impulsivamente, perché vi aveva visto delle immagini di macchine. Era una lettura difficile, piena di nomi strani, e di molte cose che lui non riusciva a capire, ma lo tormentava, ogni volta che si soffermava a leggere qualcosa, dandogli la smania di leggere ancora, di sapere che cosa sarebbe venuto nelle pagine successive. «Forse la cosa migliore sarebbe quella di approfittare della prima occasione per scivolare fuori di casa, e venire qui, indipendentemente l’uno dall’altro. Se tentiamo di venire tutti e due, sarà più difficile».

«Nossignore! Io ho rubato la radio, e ho rubato i libri, e nessuno dovrà sentire una voce senza che io sia qui!»

Aveva un aspetto così ferocemente deciso che Len si affrettò a dirgli di sì.

Esaù si assicurò che tutto fosse a posto, e poi indietreggiò. Guardò l’albero cavo, corrugando la fronte.

«Non credo che serva a molto ritornare qui, prima di allora. E ci sarà da lavorare molto, tra poco, alla fattoria. Cominceranno a nascere gli agnelli, e poi…».

Con un’amarezza profonda e matura che sorprese Len, allora, Esaù aggiunse, con forza:

«C’è sempre qualcosa, c’è sempre qualche ragione per cui non si può sapere, o imparare, o fare qualcosa! Ne sono stanco. E che io sia dannato se intendo passare tutta la vita a questo modo, scavando letame e mungendo le vacche!»

Len ritornò a casa, camminando lentamente lungo il sentiero del bosco, riflettendo profondamente su quelle parole. Poteva sentire che qualcosa cresceva dentro di lui, qualcosa che stava crescendo anche nell’animo di Esaù. Lo spaventava, questo. Non voleva che quella cosa oscura crescesse. Ma sapeva che, se avesse cessato di crescere, lui sarebbe stato parzialmente morto, non fisicamente, ma come le mucche e le pecore, che brucavano l’erba ma non si curavano di ciò che la faceva crescere.

Questo accadeva alla fine di gennaio.

In febbraio, per tutta la campagna uomini e ragazzi andarono con succhielli, e altri attrezzi nei boschi di aceri. I primi segni della primavera imminente cominciarono a respirarsi nell’aria ancora fredda. L’ultima nevicata intensa venne, si accumulò sul terreno e sugli alberi, e si sciolse intiepidita dal nuovo sole. Ci fu un periodo nel quale gelate e disgelo si alternavano, e papà cominciò a preoccuparsi per i nuovi germogli. Il vento soffiava gelido da nord-ovest, e pareva che la primavera non dovesse mai arrivare, ma era là, vicina. Il primo agnello venne al mondo belando. E, come aveva detto Esaù, non c’era tempo per niente, all’infuori del lavoro.

I salici diventarono gialli, e poi di un verde pallido, piumoso. Ci furono alcune giornate tiepide, che toglievano le forze e rendevano sonnolenti e pigri, come le grosse bisce dei fossi che oziavano al sole. Nuovi vitelli schiamazzavano barcollando dietro le madri, e altri ne sarebbero ancora venuti. Le mucche erano nervose e agitate, e nella mente di Len cominciò a formarsi un’idea. Era così semplice che si domandò per quale motivo non gli fosse venuta in mente già da molto tempo. Dopo avere sbrigato le faccende serali, quando suo fratello James ebbe chiuso il fienile, Len ritornò furtivamente indietro, e aprì la porta sul retro. Un’ora dopo erano tutti fuori, nel buio e al freddo, per radunare le mucche che si erano disperse nella campagna, e quando, tornati indietro, le contarono, scoprirono che ne mancavano ancora due. Papà borbottò qualcosa, infuriato, contro la stupida ostinazione di certe bestie che preferivano scappare e nascondersi sotto un cespuglio, dove se accadeva loro qualcosa non c’era nessuno in grado di aiutarle. Diede una lanterna a Len, e gli disse di raggiungere di corsa la fattoria dello zio David, che si trovava a mezzo miglio di distanza, lungo la strada, per chiedere a lui e a Esaù di venire ad aiutarli nelle ricerche. Fu così semplice, dopo tanti piani e tante preoccupazioni.

Len percorse quel mezzo miglio a passo veloce, con la mente intenta a prevedere le più svariate possibilità, e a prepararsi ad affrontarle, con una prontezza all’inganno che non mancò di spaventarlo. Era sempre stato piuttosto pigro, ma non era mai stato un bugiardo, ed era terribile scoprire con quanta rapidità si potessero imparare i vizi peggiori. Cercò di giustificarsi, pensando che in fondo non aveva mai detto a nessuno una bugia in modo diretto. Ma non serviva a niente. Era come uno di quei sepolcri imbiancati di cui si parlava nella Bibbia, belli all’esterno e pieni di corruzione dentro. E alla sua destra, mentre correva, vide i boschi rischiarati dal chiarore delle stelle, cupi e misteriosi nella notte.

La cucina della fattoria dello zio David era calda e accogliente. C’era odore di cavoli e di vapore e di stivali messi ad asciugare, e tutto era così lindo e pulito che Len esitò a entrare, anche se si era pulito gli stivali sui gradini, fuori. C’era uno straccio messo davanti alla porta, e lui rimase fermo là sopra, riferendo il suo messaggio, tentando di riprendere fiato, e cercando, nello stesso tempo, di attirare l’attenzione di Esaù senza assumere un atteggiamento troppo scopertamente colpevole. Lo zio David brontolò e imprecò sommessamente, ma cominciò a infilare gli stivali, e la zia Maria gli andò a prendere la giacca e la lanterna. Len respirò profondamente.

«Mi sembra di avere visto qualcosa di bianco muoversi nei campi, a ovest,» disse. «Avanti, Esaù, andiamo a vedere!»

Ed Esaù lo seguì, con il cappello di traverso e un braccio ancora fuori della giacca. Corsero via, insieme, prima che lo zio David potesse pensare a fermarli e saltarono qua e là sopra le buche colmate dalla pioggia recente, tuffandosi nel campo occidentale, deviando sempre più verso i boschi. Len nascose la lanterna sotto la giacca, in modo che lo zio David non potesse vederla dalla strada, quando entrarono veramente nei boschi, e continuò a tenerla nascosta per qualche tempo, dopo, sapendo che non c’era alcun pericolo di smarrirsi, anche al buio, su quel sentiero che conosceva bene come la propria casa.

«Dopo potremo dire che la lanterna si è spenta,» disse a Esaù.

«Certo,» disse Esaù, con una strana voce tesa. «Facciamo presto».

Si affrettarono. Esaù prese la lanterna, e corse audacemente davanti al cugino. Quando giunsero al posto nel quale i due fiumi s’incontravano, egli posò al suolo la lanterna, e prese dal tronco cavo la radio con mani che tremavano. Len sedette sul vecchio tronco caduto, con la bocca aperta, le mani premute sui fianchi indolenziti. Il Piper’s Run stava ruggendo come un vero fiume, gonfio e impetuoso fino agli argini alti. C’era un vortice di spuma, nel punto in cui le sue acque si gettavano in quelle del Pymatuning. L’acqua era tumultuosa, bianca di spuma, altissima, ora, quasi allo stesso livello del terreno sul quale si trovavano, e rifletteva confusamente il chiarore delle stelle, e la notte era piena di quel suono impetuoso.

Esaù lasciò cadere la radio.

Len balzò avanti, lanciando un grido. Esaù riafferrò la scatola, velocissimo e frenetico, prendendola per il rocchetto sporgente. Il rocchetto si staccò, e la radio continuò a cadere, più piano, però, pendendo dal filo tenuto dalle mani di Esaù. Cadde, con un soffice tonfo, sull’erba dell’anno prima. Esaù rimase a guardare con occhi sbarrati la scatola, l’erba, il rocchetto, e il filo.

«Si è rotta,» disse. «Si è rotta».

Len s’inginocchiò subito sul terreno.

«No, non si è rotta. Guarda». Avvicinò la radio alla lanterna, e la indicò. «Vedi quelle due piccole molle? Il rocchetto può uscire, e il filo si svolge…».

Eccitatissimo, girò il bottone. Era una cosa che non avevano saputo, né tentato, prima di quel momento. Aspettò che iniziasse il ronzio. Questa volta, era molto più forte che in passato. Indicò a Esaù di indietreggiare, e l’altro obbedì, srotolando il filo, e il rumore si fece sempre più forte, e d’un tratto, senza alcun preavviso, una voce d’uomo disse, raschiante e molto, molto lontana:

«…ritornare anch’io alla civiltà il prossimo autunno, spero. Comunque, la roba è sul fiume, pronta da caricare, non appena…».

La voce scomparve in un rombo che pareva prodotto dal vento. Attonito, Esaù srotolò il filo fino in fondo. E una voce debole, debolissima, disse:

«Sherman vuole sapere se avete notizie di Byers. Non si è messo in con…»

E fu tutto. Il rombo e il rischio e il ronzio continuarono, così forti che i due ragazzi ebbero paura che si potessero udire lontano, nei campi dove proseguiva la ricerca delle mucche smarrite. Ancora una, due volte ebbero l’impressione di cogliere delle voci debolissime, in mezzo a quel fragore, ma non riuscirono a distinguere chiaramente altre parole. Len girò il bottone, ed Esaù riarrotolò il filo metallico nel rocchetto, e premette in modo che ritornasse al suo posto: il rocchetto rientrò nel suo spazio, con un lieve scatto delle piccole molle.

I due ragazzi riposero la radio nell’albero cavo, e raccolsero il lume rimasto sul terreno, e si allontanarono, attraverso i boschi notturni. Non parlarono. Non si scambiarono neppure un’occhiata. E nel vacillante chiarore della lanterna, i loro occhi erano grandi e scintillanti.

6.

Dapprima apparve la nube di polvere, in fondo alla strada. Poi la cima del tendone lampeggiò, bianca, colpita dai raggi del sole, un biancore vivissimo tra il verdeggiare degli alberi. Il tendone si fece più grande e più rotondo, e il carro cominciò ad apparire, sotto di esso, e i cavalli che lo tiravano cominciarono ad apparire più chiaramente, dalla confusa macchia nera e tumultuosa della prima apparizione alla fila sgranata di sei grandi cavalli bai che trottavano fieri come imperatori, con i morsi schiumanti e i finimenti tintinnanti.

In alto, a cassetta, sedeva il signor Hostetter, che impugnava orgogliosamente le redini, la barba fluente nel vento, e il cappello e gli abiti ricoperti della polvere bruna della strada.

Len disse:

«Ho paura».

«Perché diavolo hai paura?» domandò Esaù. «Non devi andare, no?»

«E forse neppure tu dovresti andare,» borbottò Len, guardando il ponte di legno che tremava, mentre il carro vi passava sopra ondeggiando, con un grande fragore. «Non credo che sia così facile».

Era giugno, e tutt’intorno le foglie lucide e verdi risplendevano. Len ed Esaù erano fermi vicino a Piper’s Run, proprio ai confini del villaggio, dove la ruota del mulino pendeva inerte nell’acqua, e i martin pescatori saettavano come frecce di fiamma azzurra. La piazza del villaggio era a meno di cento metri di distanza, e là vi era riunita tutta la cittadinanza, tutti coloro che non erano troppo piccoli, o troppo vecchi, o troppo malati per essere portati fuori. C’erano amici e parenti venuti da Vernon e da Williamsfield, da Andover e da Farmdale e da Burghill, e dalle fattorie solitarie sul confine della Pennsylvania, che erano più vicine in linea d’aria a Piper’s Run che a qualsiasi altro villaggio della loro regione. Era la festa delle fragole, il primo grande avvenimento sociale dell’estate, nel quale persone che non si vedevano dalla prima nevicata dell’inverno potevano incontrarsi e parlare e rimpinzarsi allegramente, seduti all’ombra colorata sotto gli olmi.

Una frotta di ragazzi si era messa a correre lungo la strada, incontro al carro. Ora stavano correndo accanto a esso, gridando parole di saluto e domande al signor Hostetter. Le ragazze, e i bambini ancora troppo piccoli per correre, se ne stavano ai margini della piazza, e agitavano le braccia e chiamavano, le ragazze con le loro cuffie e le lunghe gonne che fluttuavano nel vento tiepido, i bambini che parevano le riproduzioni dei loro padri, in miniatura, con piccoli cappelli bruni e abiti tessuti a mano. Poi tutti cominciarono a muoversi, un’ondata che attraversava la piazza e si avvicinava al carro, che procedeva sempre più lento, e infine si fermava, con i sei grandi cavalli che drizzavano il capo e sbuffavano orgogliosi, come se avessero compiuto una grande impresa a portare il carro fin là, e ne fossero giustamente fieri. Il signor Hostetter agitò la mano e sorrise, e un ragazzo si arrampicò a cassetta e gli mise tra le mani un cestino di fragole.

Len ed Esaù rimasero dov’erano, osservando da una certa distanza il signor Hostetter. Len si sentì pervadere da uno strano brivido, in parte dovuto al senso di colpa che provava per la radio rubata, in parte dovuto a un senso di complicità, perché lui conosceva un grande segreto sul conto del signor Hostetter, e questo segreto lo metteva in disparte, lo isolava dagli altri. C’era qualcosa, però, che gli impediva di sostenere lo sguardo del signor Hostetter.

«Come intendi fare?» domandò a Esaù.

«Troverò il modo».

Il ragazzo stava fissando il carro con un’intensità quasi fanatica. Dalla notte durante la quale avevano udito le voci, Esaù era diventato strano, scontroso, qualcosa che era avvenuto dentro di lui, e non fuori, e a volte Len provava l’impressione di non conoscerlo più, di trovarsi con una persona completamente nuova e diversa e imprevedibile. Andrò laggiù, aveva detto, intendendo parlare di Bartorstown, e da quel momento era stato posseduto da quel pensiero, come un invasato, in attesa dell’arrivo del signor Hostetter.

Esaù prese il braccio di Len, improvvisamente, e strinse forte.

«Non vuoi venire con me?»

Len rimase immobile. Non disse niente per un lungo momento, non batté neppure ciglio, e poi rispose:

«No, non posso». Si scostò da Esaù. «Non adesso».

«Forse l’anno prossimo. Gli parlerò di te».

«Sì, forse».

Esaù cercò di dire qualche altra cosa, ma parve non trovare le parole adatte. Len si scostò di qualche altro passo da lui. Cominciò a salire l’argine, dapprima lentamente, e poi più in fretta, e infine si mise a correre, con gli occhi pieni di lacrime calde, brucianti, e la mente in tumulto, con una voce che gli gridava silenziosamente, Vigliacco, vigliacco, lui va a Bartorstown e tu non hai il coraggio di farlo!

Non si voltò indietro.


Il signor Hostetter rimase per tre giorni a Piper’s Run. Furono i giorni più lunghi e più difficili della giovane vita di Len. La tentazione continuava a mormorargli, insinuante. Puoi ancora andare, sei in tempo. E allora la Coscienza gli additava mamma e papà, la casa e il dovere, e la cattiveria di andarsene, di scappare senza una parola. Esaù non aveva degnato neppure di un pensiero lo zio David e la zia Maria, ma Len non poteva comportarsi allo stesso modo con papà e mamma. Sapeva che la mamma avrebbe pianto, e che papà si sarebbe assunto l’intera colpa, tormentandosi al pensiero di non essere stato capace di educare Len, e questa era la causa maggiore della sua mancanza di coraggio. Non voleva avere la responsabilità di rendere infelici i suoi genitori.

C’era anche una terza voce, in lui. Viveva nell’oscurità, celata dietro le altre, e non aveva nome. Era una voce che non aveva mai sentito prima, e che diceva soltanto, No… pericolo! ogni volta che pensava di andarsene con Esaù dal signor Hostetter. Questa voce si mise a parlare così forte, e con tanta fermezza, senza essere interrogata, che Len non riuscì a ignorarla, e infatti quando tentò di non farci caso si trasformò quasi in una costrizione fisica, simile alle redini di un cavallo, che lo spingeva da una parte o dall’altra, gli imponeva una parola o un’azione, impedendogli di fare qualcosa di definitivo, di compromettersi oltre ogni possibilità di ritorno. Fu il primo incontro attivo con il suo subcosciente, e Len non l’avrebbe mai più dimenticato.

Gironzolò per tutto il tempo per la fattoria, cupo, pensieroso, imbronciato, sotto il peso del suo segreto, sbrigando le diverse faccende e trovando tutte le scuse possibili per non andare in città quando la famiglia vi andava, e la mamma cominciò a preoccuparsi, e lo imbottì di tisane e di consigli. E per tutto il tempo le sue orecchie rimasero tese, vibranti come quelle di un animale dei boschi, in attesa di udire il rumore degli zoccoli di un cavallo sulla strada, in attesa di sentire la voce trafelata dello zio David annunciare che Esaù se ne era andato.

Alla sera del terzo giorno sentì finalmente il rumore di zoccoli di cavalli, zoccoli che si avvicinavano velocemente. In quel momento stava aiutando la mamma a sparecchiare la tavola, e la luce era ancora discreta nel cielo, rosseggiante con riflessi violacei a ponente. I suoi nervi si tesero con un’intensità quasi dolorosa. I piatti diventarono scivolosi e troppo pesanti, nelle sue mani. Il cavallo svoltò all’ingresso, entrando nell’aia, con il carro rumoreggiante sui sassi, e poi un secondo cavallo e un altro carro, e ancora un altro cavallo e un altro carro. Papà andò ad affacciarsi alla porta, e Len lo seguì, con un senso di infinita stanchezza, con una specie di malessere che si era impadronito improvvisamente di lui. Si era aspettato un cavallo e un carro, per l’arrivo dello zio David, ma tre…

Lo zio David era là, certo, e sedeva sul suo carro, ed Esaù era accanto a lui, immobile e bianco come un lenzuolo, e il signor Harkness sedeva dall’altro lato. Il signor Hostetter era sul secondo carro, con il signor Nordholt, il maestro di scuola, e il signor Clute che teneva le briglie. Il terzo carro era occupato dal signor Fenway e dal signor Glasser.

Lo zio David scese dal carro. Rivolse un cenno a papà, che si era già incamminato verso i carri. Il signor Hostetter li raggiunse, e poi il signor Nordholt e il signor Glasser. Esaù rimase seduto dove si trovava. Aveva la testa curva sul petto, e non la alzò. Il signor Harkness fissò Len, che era rimasto fermo sulla soglia. Il suo sguardo era offeso, sdegnato, accusatore, e triste. Len lo sostenne per una frazione di secondo, e poi abbassò gli occhi. Ora si sentiva scosso, il malessere era insostenibile, e c’era freddo, malgrado la tiepida sera di giugno, un gran freddo che pareva quello del bosco quando il ghiaccio aveva rivestito di scintille gli alberi e il terreno. Avrebbe voluto voltarsi e mettersi a correre e fuggire, ma sapeva che sarebbe stato inutile.

Gli uomini si avvicinarono, insieme, al carro dello zio David, e lo zio David disse qualcosa a Esaù. Esaù continuò a fissarsi le mani. Non parlò, non mosse il capo, e il signor Nordholt disse:

«Non intendeva dirlo, gli è solo sfuggito. Ma l’ha detto».

Papà si voltò, guardò Len, e disse:

«Vieni qui».

Len si mosse, lentamente. Non alzò il capo per guardare papà, non per la collera che avrebbe potuto leggere sul suo volto, ma per l’espressione triste e addolorata che vi avrebbe trovato.

«Len».

«È vero che avete una radio?»

«Io… sì».

«Tu hai letto certi libri che sono stati rubati? Sapevi dov’erano, e non l’hai detto al signor Nordholt? Sapevi quello che Esaù intendeva fare, e non l’hai detto né a me, né allo zio David?»

Len sospirò. Con un gesto curiosamente simile a quello di un uomo vecchio e stanco, sollevò il capo, e sollevò le spalle.

«Sì,» disse. «Ho fatto tutte queste cose».

Il volto di papà, nelle ombre, del tramonto che incupivano l’aria, si era trasformato in qualcosa di grigio e strano, qualcosa che pareva di granito.

«Benissimo,» disse. «Benissimo».

«Potete venire con noi,» disse il signor Glasser. «Per una distanza così breve, inutile preparare il vostro carro».

«Va bene,» disse papà. E lanciò a Len uno sguardo gelido e imperioso, che voleva dire, Vieni Con Me.

Len lo seguì. Passò davanti al signor Hostetter, che era in piedi, con la testa girata, e sotto la tesa del suo cappello, Len credette di scorgere un’espressione di pietà e di rammarico. Ma passarono senza parlare, ed Esaù non si mosse neppure. Papà salì sul carro, con il signor Fenway, e il signor Glasser salì dopo di lui.

«Dietro,» ordinò papà.

Len si issò pesantemente sul carro, e ogni movimento fu uno sforzo impietoso, per lui. Rimase aggrappato là, e i carri ripartirono in fila, uscirono dall’aia e attraversarono la strada contornando il campo occidentale, dirigendosi verso i boschi.

Si fermarono là dove crescevano i sommacchi. Scesero tutti, e gli uomini parlarono tra di loro. E poi papà si voltò e disse:

«Len!» Puntò il braccio verso i boschi. «Mostraci dov’è.»

Len non si mosse.

Esaù parlò, per la prima volta.

«Tanto vale che tu lo faccia,» disse, con una voce carica di odio. «Lo troveranno comunque, anche se dovranno bruciare l’intero bosco».

Lo zio David lo zittì, con uno schiaffo sulla bocca, e lo chiamò con un appellativo di collera biblica.

Papà disse, di nuovo:

«Len».

Len si arrese. Guidò il gruppo di uomini nei boschi. E il sentiero pareva sempre lo stesso, e così pure gli alberi, e il ruscello, e le familiari macchie di stramoni. Ma qualcosa era cambiato. Qualcosa era scomparso. Erano soltanto alberi, adesso, e stramoni, e il letto sassoso di un rivoletto d’acqua. Non appartenevano più a lui, non erano più il mondo che si faceva bianco di neve e scintillante di ghiaccio e fiammeggiante d’autunno e verdeggiante di tenera primavera. Tutte quelle cose erano chiuse e distanti, e i contorni erano aspri e duri, e i pesanti stivali degli uomini schiacciavano le felci.

Uscirono dagli stramoni nel punto in cui le acque dei due fiumi si riunivano. Len si fermò accanto all’albero cavo.

«Qui,» disse. La sua voce parve strana e diversa, nelle sue orecchie. L’ardore rosso di ponente giungeva chiaro in quel luogo, attraverso le acque e il cielo, dipingendo le foglie e l’erba di un verde livido, dando al bruno Pymatuning riflessi di rame. In alto dei corvi ritornavano a casa, in un lento, grave battito d’ali, lanciando durante il volo le loro risate di scherno. Len pensò che stessero ridendo di lui.

Lo zio David diede una spinta sgarbata, violenta a Esaù.

«Tirala fuori».

Esaù rimase per un momento immobile accanto all’albero. Len lo osservò, e vide l’espressione che egli aveva, nella luce del tramonto. I corvi se ne andarono, e ci fu silenzio.

Esaù infilò la mano nel cavo dell’albero. Tirò fuori i libri, avvolti nel telo, e li porse al signor Nordholt.

«Sono intatti,» disse.

Il signor Nordholt aprì il telo, scostandosi dall’ombra dell’albero, per vedere meglio.

«Sì,» disse. «Sì, sono intatti». Li avvolse di nuovo, gelosamente, e li tenne appoggiati al petto.

Esaù tirò fuori la radio.

Rimase così, tenendola stretta, e improvvisamente gli occhi gli si riempirono di lacrime, lacrime che scintillavano ma non cadevano. Gli uomini erano adesso esitanti. Il signor Hostetter disse, come se avesse già detto la stessa cosa più di una volta, ma avesse avuto paura che qualcuno non l’avesse capita:

«Soames mi aveva chiesto, nel caso gli fosse accaduto qualcosa, di prendere i suoi effetti personali e consegnarli a sua moglie. Mi aveva mostrato il cofano nel quale li conservava. La gente che era andata alla predica stava per assalire e bruciare il suo carro. Non ho avuto certo il tempo di fermarmi per vedere che cosa ci fosse nel cofano».

Lo zio David fece un passo avanti. Egli fece cadere la radio dalle mani di Esaù, con un colpo violento, calando il pugno come un maglio. La radio cadde nel terriccio erboso e nel muschio, ed egli la calpestò, con il suo stivale pesante, molte, molte volte. Poi raccolse ciò che ne restava, e gettò i resti nelle acque brune del Pymatunin.

Esaù disse:

«Ti odio. Vi odio tutti». Li guardò uno dopo l’altro. «Non potete fermarmi. Nessuno di voi può farlo. Un giorno andrò a Bartorstown».

Lo zio David lo colpì di nuovo, e lo prese per i capelli, e lo fece voltare, spingendolo verso gli alberi. Senza voltarsi, disse:

«Penserò io a lui».

Gli altri lo seguirono in fila, dopo che il signor Harkness ebbe frugato nel cavo dell’albero, per assicurarsi che non vi fosse rimasto qualche altro frutto proibito. E il signor Hostetter disse:

«Chiedo che il mio carro venga perquisito».

Il signor Harkness disse:

«Vi conosciamo da tantissimo tempo, Ed. Non credo che questo sia necessario».

«No, lo esigo,» disse Hostetter, parlando forte, in modo che tutti potessero sentire. «Questo ragazzo ha fatto un’accusa che non posso lasciar passare. Chiedo che il mio carro venga perquisito, da cima a fondo, in modo che non possano sussistere dubbi sul fatto che io possieda qualcosa che non dovrei avere. I sospetti, una volta avviati, sono difficili da eliminare, e le notizie viaggiano. Non posso permettere che altre persone pensino di me quello che pensavano di Soames».

Un brivido percorse Len. Si accorse, improvvisamente, che Hostetter stava offrendo, nello stesso tempo, una spiegazione e delle scuse.

Comprese anche che Esaù aveva commesso un errore fatale.

Il viaggio di ritorno, attraverso il campo occidentale, parve molto, molto lungo. Questa volta i carri non entrarono nell’aia. Si fermarono nella strada, e Len e papà scesero, e gli altri si disposero diversamente, in modo che Esaù e lo zio David rimanessero soli sul loro carro. Poi il signor Harkness disse, quando tutto fu pronto:

«Domani desideriamo vedere i ragazzi». La sua voce era calma, una calma minacciosa come quella che precedeva un temporale. Tirò le redini, e il carro si mosse verso il villaggio, seguito dal secondo carro. Lo zio David si diresse dall’altra parte, verso la sua casa.

Esaù si sporse dal carro, e gridò, in tono isterico, a Len:

«Non ti arrendere. Non possono costringerti a smettere di pensare. Non importa quello che possono farti, ma non riusciranno a…».

Lo zio David girò il carro, e lo fece entrare nell’aia della fattoria.

«La vedremo,» disse. «Elia, voglio usare il tuo fienile».

Papà si accigliò, ma non disse niente. Lo zio David attraversò l’aia, dirigendosi verso il fienile, spingendo rudemente Esaù davanti a sé. La mamma uscì di corsa dalla casa. Lo zio David chiamò:

«Tu porta qui Len. Voglio che ci sia anche lui».

Papà si accigliò di nuovo, e poi disse:

«Va bene».

Tese le mani, come per arrestare la mamma, e la prese in disparte, e le mormorò qualche parola, a bassa voce, scuotendo il capo. La mamma guardò Len.

«Oh, no,» disse. «Oh, Lennie, come hai potuto!»

Poi si voltò, e rientrò precipitosamente in casa, nascondendosi il viso nel grembiule, e Len capì che stava piangendo. Papà indicò il fienile. Aveva le labbra strette, ed era molto pallido. Len pensò che a papà non piaceva quello che lo zio David stava per fare, ma che non se la sentiva di discutere.

Neppure a Len piaceva. Avrebbe preferito che la cosa fosse risolta tra lui e papà. Ma quel modo di fare era proprio dello zio David. Lui pensava sempre che un ragazzo non aveva più diritti, o più sensibilità, di qualsiasi altro oggetto o animale della fattoria. Len tremava, al pensiero di entrare nel fienile.

Papà puntò di nuovo il braccio, e Len obbedì.

Era buio, adesso, ma nel fienile era già accesa una lanterna. Lo zio David aveva staccato dal chiodo la cinghia di cuoio. Esaù era di fronte a lui, nell’ampio spazio libero tra le file di sostegni vuoti.

«In ginocchio,» disse lo zio David.

«No».

«In ginocchio!» E la cinghia schioccò.

Esaù emise un suono, tra il lamento e l’imprecazione. Si inginocchiò.

«Non rubare,» disse lo zio David. «Questo è il comandamento, e tu mi hai fatto diventare il padre di un ladro. Non dire falsa testimonianza. Tu mi hai fatto diventare il padre di un bugiardo». Il suo braccio si alzava e si abbassava, scandendo le parole, così che ogni pausa era sottolineata dal secco whuk! del cuoio contro le spalle di Esaù. «Tu sai cosa è scritto nel Libro, Esaù. Chi ama suo figlio lo castiga; chi odia suo figlio risparmia la frusta. E io non intendo risparmiarla».

Esaù non seppe tacere più a lungo. Len voltò le spalle.

Dopo qualche tempo, lo zio David si fermò, respirando affannosamente.

«Qualche tempo fa mi hai sfidato. Hai detto che non avrei potuto farti cambiare idea. La pensi ancora così?»

Rannicchiato sul pavimento, Esaù gridò a suo padre:

«Sì!»

«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»

«Sì!»

«Bene,» disse lo zio David. «Vedremo».

Len cercò di chiudersi le orecchie, di non ascoltare. Pareva che non dovesse mai finire. A un certo punto, papà fece un passo avanti, e disse:

«David…».

Ma lo zio David disse soltanto:

«Pensa a tuo figlio, Elia. Ti avevo sempre detto che eri troppo tenero con lui». Si rivolse di nuovo a Esaù, «Hai cambiato idea, ora?»

La risposta di Esaù fu inintelligibile, ma il tono era quello di una resa abietta.

«Tu!» disse improvvisamente lo zio David a Len, prendendolo per il braccio. «Guardalo, e impara come finiscono l’arroganza e l’insolenza».

Esaù stava strisciando e gemendo sul pavimento del fienile, tra la polvere e il fieno. Lo zio David lo fece girare, con la punta dello stivale.

«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»

Esaù gemeva e piangeva, tenendosi il volto nascosto tra le mani. Len cercò di liberarsi e voltarsi, ma lo zio David lo tenne fermo, con una stretta violenta e irresistibile. Dal suo corpo emanava un odore di sudore e di collera.

«Ecco il tuo eroe,» disse a Len. «Ricordalo, ricordalo bene, quando verrà il tuo turno».

«Lasciami andare,» bisbigliò Len. Lo zio David rise. Spinse via Len, e consegnò a papà la cinghia di cuoio. Poi si piegò, e prese Esaù per il colletto della camicia, e lo costrinse ad alzarsi in piedi.

«Dillo, Esaù. Dillo forte».

Esaù singhiozzava come un bambino piccolo.

«Sono pentito,» disse. «Sono pentito».

«Bartorstown,» tuonò lo zio David, nello stesso tono col quale Nahum doveva avere pronunciato la condanna della città maledetta. «Esci! Vieni a casa, a meditare sui tuoi peccati. Buonanotte, Elia, e ricorda… tuo figlio è colpevole quanto il mio».

Uscirono, nel buio della notte. Un minuto più tardi, Len sentì che il carro si allontanava.

Papà sospirò. Il suo volto era triste e stanco, e profondamente irato, una collera che era molto più spaventosa di quella violenta dello zio David. Disse, lentamente:

«Ho avuto fiducia in te, Len. Mi hai tradito».

«Non volevo farlo».

«Ma l’hai fatto».

«Sì».

«Perché, Len? Sapevi che queste cose erano cattive. Perché le hai fatte?»

Len gridò:

«Perché non ho potuto evitarlo! Io voglio imparare, io voglio sapere

Papà si tolse il cappello, e si rimboccò le maniche.

«Potrei fare una lunga predica su questo argomento,» disse. «Ma l’ho già fatto, ed è stato tutto fiato sprecato. Ricordi quello che ti ho detto allora, Len?»

«Sì, papà». Strinse la mascella e serrò i pugni.

«Mi dispiace,» disse papà. «Non avrei mai voluto fare questo. Ma devo purgarti del tuo orgoglio, Len, come è stato purgato Esaù».

Dentro di lui, Len disse, con fierezza, No, non lo farai non riuscirai a farmi strisciare ai tuoi piedi. Non rinuncerò a Bartorstown e ai libri e alla speranza di conoscere tutte le cose che esistono nel mondo, fuori da Piper’s Run!

Ma vi rinunciò. Nella polvere e nel fieno del fienile, egli rinunciò a tutte quelle cose, e al suo orgoglio con esse. E quella fu la fine della sua fanciullezza.

7.

Aveva dormito, per un poco, un sonno nero e profondo, e poi si era svegliato di nuovo a fissare le tenebre, a sentire il dolore, e a pensare. Il corpo gli doleva, non del familiare dolore di una bastonatura, ma in modo grave, che non avrebbe dimenticato in fretta. Il male più profondo era quello che soffrivano le parti immateriali del suo essere, e così rimase disteso nel buio, a lottare con quella sofferenza, nella piccola stanza sbilenca sotto il grondone, che era ancora soffocante per il sole del lungo pomeriggio. Arrivò quasi l’alba, prima che le cose sorgessero chiare dalla cieca furia del dolore e della collera, del risentimento e della vergogna che turbinavano in lui come venti impetuosi in uno spazio angusto. Poi, forse perché era troppo esausto per essere ancora violento, cominciò a vedere qualcosa, e a capire.

Capì che quando aveva singhiozzato nelle tracce lasciate da Esaù, nella polvere e nel fieno, e quando aveva conosciuto l’abiezione della rinuncia e della resa, aveva mentito. Perché lui non intendeva rinunciare a Bartorstown. Non poteva rinunciare, senza rinunciare anche alla parte più importante di se stesso. Non sapeva ancora, con esattezza, quale fosse quella parte così importante, ma sapeva che c’era, e sapeva anche che nessuno, neppure papà, aveva il diritto di mettere le mani su quella cosa preziosa. Buona o cattiva, giusta o peccaminosa, quella parte di lui si trovava al di là del capriccio passeggero, o dell’atteggiamento, o del gioco fuggevole. Era lui stesso, Len Colter, l’entità individuale, unica, che corrispondeva a quel nome. Non poteva rinunciare a essa e nello stesso tempo continuare a vivere.

Quando ebbe infine compreso tutto questo, si addormentò di nuovo, un sonno più calmo, e si svegliò col sapore amaro delle lacrime in bocca, e vide la finestra chiara e luminosa e il sole che sorgeva all’orizzonte. L’aria era piena di suoni, il grido dei merli e il richiamo impetuoso dei fagiani tra le siepi, il cinguettare di innumerevoli uccelli che iniziavano la loro giornata. Len guardò fuori, oltre il tronco annerito dal fulmine di un acero gigantesco, che aveva un’indomabile sporgenza verdeggiante che continuava a uscire dal tronco rinsecchito, guardò oltre la tettoia del pollaio e la distesa familiare dei campi, là dove il grano maturava al sole; osservò il pendio delle colline e i boschi alti che s’inerpicavano fino alla cresta incoronata da tre grandi pini neri. E una cupa malinconia scese su di lui, perché stava guardando quelle cose buone per l’ultima volta. Non arrivò a quella decisione seguendo una linea di ragionamento consapevole. La conobbe, semplicemente, e immediatamente, nel momento stesso del suo risveglio.

Si alzò, e, ancora tutto indolenzito e rigido, cominciò a sbrigare le sue faccende, pallido e remoto, parlando solo quando qualcuno gli rivolgeva una domanda, evitando lo sguardo della gente. Con la sua ruvida gentilezza, suo fratello James cercò di consolarlo, quando poté parlargli lontano dalle orecchie di papà:

«È per il tuo bene, Lennie, e un giorno ripenserai a queste cose e sarai lieto di essere stato fermato in tempo. Dopotutto, non è la fine del mondo, no?»

Oh, sì, invece, pensò Len. E tutti lo sanno.

Dopo il pranzo, a mezzogiorno, gli dissero di salire a lavarsi e a indossare il vestito che, generalmente, lui portava soltanto al sabato. E poco tempo dopo la mamma salì da lui, con una camicia pulita, ancora calda del ferro, e finse di guardare rigidamente un punto remoto, alle sue spalle. E nel frattempo le lacrime scendevano furtive dai suoi occhi, e lei non se ne accorgeva, e poi d’un tratto lo abbracciò e l’attirò a sé e disse rapidamente, in un bisbiglio:

«Come hai potuto farlo, Lennie, come hai potuto essere così cattivo, e offendere il buon Dio, e disobbedire a tuo padre?»

Len sentì che le sue difese cominciavano a sgretolarsi. Tra un minuto avrebbe cominciato a piangere tra le braccia della mamma, e tutta la sua determinazione se ne sarebbe andata, per il momento. Così la respinse, e disse:

«Ti prego, mamma, mi fai male».

«La tua povera schiena!» mormorò lei. «Avevo dimenticato». Gli prese le mani, allora. «Lennie, sii umile, sii paziente, e vedrai che passerà tutto. Dio ti perdonerà certamente, sei così giovane, e lui è così buono. Sei troppo giovane per capire…».

Papà salì le scale, e il suo arrivo pose fine a quelle parole. Dieci minuti dopo il carro sobbalzava e rumoreggiava, uscendo dall’aia, e Len sedeva rigido al fianco di suo padre, e nessuno dei due parlava. E Len pensava a Dio, a Satana, e agli anziani del villaggio, e al predicatore, a Soames e a Hostetter e a Bartorstown, e tutto era terribilmente confuso, ma lui sapeva una cosa. Dio non lo avrebbe perdonato. Aveva scelto la via del trasgressore, ed era dannato, al di là di ogni speranza. Ma avrebbe avuto Bartorstown, per tenergli compagnia.

Il carro dello zio David si accodò al loro, e andarono insieme al villaggio, con Esaù rannicchiato in un angolo, molto piccolo e molto abbattuto, come se tutte le ossa fossero state tolte dal suo corpo. Quando giunsero nella casa del signor Harkness, papà e lo zio David scesero, e cominciarono a parlare tra loro, lasciando a Len e a Esaù il compito di legare i cavalli. Esaù non si voltò a guardare Len. Evitò in qualsiasi modo di guardarlo. Neppure Len lo guardò. Ma erano fianco a fianco, e Len disse, imperiosamente, in un bisbiglio:

«Ti aspetto al solito posto; fino a quando sarà spuntata la luna, sarò là. Poi me ne andrò».

Si accorse che Esaù s’irrigidiva e trasaliva. Prima che Esaù potesse aprire la bocca, Len sibilò, «Zitto!», poi si voltò e tornò indietro, mettendosi rispettosamente dietro a suo padre.

Ci fu poi una seduta molto lunga e molto sgradevole nel salotto della casa del signor Harkness. C’erano anche il signor Fenway, il signor Glasser, e il signor Cluter e naturalmente il signor Nordholt. Quando ebbero finito, Len ebbe la sensazione di essere stato spellato e rivoltato, come un coniglio sull’aia. Questa sensazione lo fece andare in collera. Lo indusse a odiare tutti quegli uomini barbuti, che parlavano lentamente e gravemente, e che lo spellavano, lo pungevano, lo tormentavano.

Per due volte si accorse che Esaù era sul punto di tradirlo, e si preparò a dare del bugiardo a suo cugino. Ma Esaù riuscì a tenere a freno la lingua, e dopo qualche tempo Len ebbe l’impressione di veder tornare un poco di volontà nella spina dorsale del cugino.

L’esame finì, come Dio volle. Gli uomini si riunirono, e conferirono gravemente tra loro. Alla fine il signor Harkness disse a papà e allo zio David:

«Sono addolorato che questa disgrazia sia ricaduta su di voi, perché siete entrambi bravi uomini e vecchi amici. Ma forse questo servirà a ricordare a tutti che i giovani costituiscono sempre un pericolo, e non ci si deve fidare di loro, e che una vigilanza costante è il prezzo di un’anima cristiana».

Si rivolse poi, molto severamente, ai ragazzi:

«Per voi, ci sarà una fustigazione pubblica, sabato mattina. E poi, se sarete scoperti in colpa una seconda volta, sapete bene quale sarà la punizione che dovrà ricadere sulle vostre teste».

Aspettò. Esaù si guardò gli stivali. Len fissò con fermezza un punto della parete, dietro la testa del signor Harkness.

«Ebbene,» disse seccamente il signor Harkness. «Lo sapete o no?»

«Sì,» disse Len. «Ci farete andare via, e non potremo mai più ritornare». Guardò negli occhi il signor Harkness, e aggiunse, «Non ci sarà una seconda volta».

«Lo spero con tutto il cuore,» disse il signor Harkness. «E raccomando a entrambi di leggere molto la vostra Bibbia, di meditare, e pregare, affinché Iddio vi dia la saggezza, insieme al perdono».

Ci furono altre consultazioni tra gli anziani, e poi i Colter uscirono, e salirono sui loro carri, e si avviarono di nuovo verso casa. Passarono davanti al carro del signor Hostetter in piazza, ma il signor Hostetter non era in vista.

Papà rimase in silenzio per quasi tutta la strada, con una sola eccezione. A un certo punto disse, infatti:

«Mi ritengo colpevole quanto te, Len».

«Sono stato io a farlo,» disse Len. «Non è stata colpa tua, papà. Non puoi dire questo».

«Ho sbagliato qualcosa. Non ti ho saputo insegnare le cose giuste, non sono riuscito a farti comprendere. A un certo punto, non so dove, ti sei allontanato da me». Papà scosse il capo. «Temo che David abbia ragione. Ho troppo risparmiato la frusta».

«Esaù era molto più colpevole,» disse Len, quietamente. «È stato lui a rubare la radio, eppure tutte le bastonature dello zio David non sono riuscite a fermarlo. Non è stata colpa tua in nessun modo, papà. È stata tutta colpa mia». Si sentiva molto male. Chissà perché, sapeva che era questa la sua vera colpa, e non poteva farci niente.

«James non si è mai comportato così», disse papà tra sé, pensieroso. «Non mi ha dato mai alcuna preoccupazione. Com’è possibile che lo stesso seme possa produrre due frutti così diversi?»

Non si dissero altro. Quando tornarono a casa, la mamma, la nonna e James li stavano aspettando. Len venne mandato nella sua camera, e mentra saliva le scale poté sentire papà che narrava in breve quello che era accaduto, e il breve singhiozzo della mamma. E d’un tratto udì la voce della nonna, alta e acuta, quasi stridula, pervasa da una collera tremenda.

«Sei uno stupido e un vigliacco, Elia. Ecco cosa siete tutti, degli stupidi e dei vigliacchi, e il ragazzo vale più di tutti voi messi assieme! Avanti, spezza il suo spirito, se ci riesci, ma spero che tu non ci riesca mai. Spero che tu non gli possa mai insegnare ad avere paura di conoscere la verità».

Len sorrise e un brivido lo pervase, perché sapeva che la nonna aveva parlato così forte per farsi sentire anche da lui, e non solo da papà. Stai tranquilla, nonna, pensò. Non lo dimenticherò.

Quella notte, quando la casa fu immersa nella profonda quiete del sonno, Len si legò al collo gli stivali, e scavalcò la finestra fino a scendere sulla tettoia della cucina estiva, e di là raggiunse il ramo di un pero, per scivolare infine a terra lungo il tronco rugoso. Uscì furtivamente dall’aia e attraversò la strada, e quando fu sul bordo della strada infilò gli stivali. Poi s’incamminò costeggiando il campo occidentale, dove crescevano le alte erbe che promettevano un buon raccolto per l’autunno. I boschi torreggiavano, cupi e misteriosi, davanti a lui. Non si voltò indietro neppure una volta.

C’era buio, e silenzio, e solitudine, là tra gli alberi. Len pensò, Sarà così per molto, molto tempo, e dovrò abituarmi. Quando egli raggiunse la punta tra i due fiumi, sedette al solito posto, sul vecchio tronco rugoso sul quale era stato seduto tante volte, e ascoltò il concerto notturno delle rane e lo scorrere tranquillo del Pymatuning tra le rive. Il mondo sapeva d’immensità, e c’era freddo nella sua schiena, come se qualche corazza protettiva fosse stata sfilata d’un tratto dal suo corpo. Si chiese se Esaù sarebbe venuto.

L’oriente impallidiva di luna, ora, e il chiarore era più intenso a sud-est, un grigiore furtivo che lentamente si mutava in argento. Len aspettò. Non sarebbe venuto, pensava, aveva troppa paura, e lui avrebbe dovuto fare tutto da solo, quel buio e quella solitudine sarebbero stati solo per lui. Si alzò in piedi, tendendo l’orecchio, osservando il primo, minuscolo lembo di luna biancheggiare dietro gli alberi e la collina. E una voce furtiva, dentro di lui, diceva, Puoi ancora alzarti e correre a casa, e salire dalla finestra, e nessuno lo saprà mai. Si tenne stretto al vecchio ramo di un albero, per impedire al suo corpo di andarsene.

Ci fu un improvviso fruscio, e uno scalpiccio nell’oscurità degli alberi, ed Esaù apparve.

Si scrutarono l’un l’altro per un momento, come due gufi, e poi si presero per le mani, e si misero a ridere.

«Una fustigazione pubblica,» disse Esaù, un po’ ansante. «Una fustigazione pubblica, all’inferno. Vadano tutti all’inferno».

«Seguiremo il corso del fiume,» disse Len. «Fino a quando non troveremo una barca».

«E quando l’avremo trovata che faremo?»

«Continueremo. I fiumi incontrano altri fiumi. Ho visto la mappa, nel libro di storia. Se si percorre una distanza sufficiente, si arriva nell’Ohio, che è il fiume più grande che ci sia nei dintorni».

Esaù disse, ostinato:

«Ma perché l’Ohio? È a sud, e tutti sanno che Bartorstown si trova a ovest».

«A ovest, ma dove? L’ovest è un posto maledettamente grande. Ascolta, non ricordi le voci che abbiamo udito? La roba era sul fiume, pronta da caricare, non appena… non appena fosse accaduto qualcosa. Erano degli uomini di Bartorstown che parlavano tra loro, di cose che dovevano andare a Bartorstown. E l’Ohio scorre verso ovest. È la via principale. Dopo ci sono altri fiumi. E le barche devono andarci. Ed è per questo che anche noi andiamo da quella parte».

Esaù rifletté per qualche istante, e poi disse:

«Be’, d’accordo. In ogni caso, è un modo per cominciare. Inoltre, chissà? Continuo a pensare che avevamo ragione, su Hostetter, anche se lui ha mentito a quel proposito. Può darsi che lui informi gli altri, forse parleranno di noi attraverso le loro radio, diranno che siamo fuggiti da casa per trovarli. Forse ci aiuteranno, anche quando potranno farlo senza correre rischi. Chissà?»

«Sì,» disse Len. «Chissà?»

S’incamminarono insieme lungo la riva del Pymatuning, diretti a sud. La luna saliva nel cielo, dando loro la luce. L’acqua era un gorgogliare sommesso tra le rive, e le rane cantavano la loro monotona canzone, e nella mente di Len Colter il nome di Bartorstown suonava come il rintocco di una grande campana.

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