Enoch girò le spalle al contenitore e prese il blocco di legno. Aveva lasciato una modesta pozza umida sul pavimento.
Si avvicinò alla finestra per esaminarlo meglio: era nero, massiccio e di grana compatta; in un angolo c’era ancora un pezzetto di corteccia. Si vedeva che era stato segato e che qualcuno lo aveva modellato perché entrasse nel serbatoio dove ora riposava il thubano.
Enoch ricordò un articolo di giornale che aveva letto un paio di giorni prima: uno scienziato sosteneva che su un mondo liquido non possa svilupparsi un’intelligenza superiore. Lo scienziato sbagliava di grosso, perché i thubani vivevano in un elemento liquido e nella galassia esistevano molte razze che si erano sviluppate allo stesso modo. Se mai fosse venuto il momento di partecipare alla cultura galattica, l’uomo non solo avrebbe dovuto imparare nuove cose, ma avrebbe dovuto ricredersi su molte altre.
Per esempio, il limite di velocità della luce.
Se niente potesse muoversi più veloce della luce, il sistema di trasporto galattico sarebbe impraticabile.
Ma non bisognava criticare l’umanità per aver creduto in quel limite: le sue premesse si basavano sull’osservazione. E poiché la scienza umana non aveva ancora scoperto niente che fosse in grado di procedere a una velocità superiore, era arrivata alla conclusione che non si potesse infrangerla. Del resto, si trattava di supposizioni.
Il sistema di impulsi che trasportava gli esseri da una stella all’altra era istantaneo, indipendentemente dalla distanza.
Enoch rifletté a lungo e ammise che era difficile credere a una realtà del genere.
Eppure, pochi istanti prima la creatura che ora riposava nel serbatoio si trovava in un’altra stazione. Il materializzatore aveva creato non solo un modello del suo corpo, ma anche il modello della forza vitale, cioè l’energia che gli dava la vita. Poi, questo modello fatto di impulsi aveva attraversato gli abissi dello spazio, raggiungendo quasi istantaneamente la stazione ricevente; qui era servito a creare una copia del corpo, della mente, della memoria e della vita della creatura che giaceva come morta ad anni-luce di distanza. Nel serbatoio il nuovo corpo, la nuova mente e memoria avevano preso istantaneamente forma, creando un essere identico al primo ma appena formato. La sua identità (riferita alla coscienza) continuava senza soluzione, a parte una brevissima interruzione nei pensieri. Il nuovo essere era dunque lo stesso.
La facoltà di inviare modelli fatti di impulsi aveva i suoi limiti, ma non quello della velocità: in effetti, gli impulsi viaggiavano da un punto all’altro della galassia in un batter d’occhio. Durante il viaggio, e in determinate condizioni, i modelli potevano collassare, e per questo erano state create le stazioni intermedie, a migliaia. Le nuvole di polvere e gas o la presenza di zone ad alta ionizzazione potevano distruggere i modelli, e nelle regioni della galassia in cui quei pericoli erano più frequenti, la distanza fra un balzo e l’altro era ridotta al minimo per evitare rischi. Le zone ad alta concentrazione di gas e polveri dovevano essere comunque aggirate.
Enoch sarebbe stato curioso di sapere quanti corpi morti, copie della creatura che ora riposava nel serbatoio, giacevano nelle stazioni che aveva attraversato durante il viaggio. Fra poche ore, quando il modello della creatura fosse ripartito su onde a impulsi, anche il corpo che aveva davanti sarebbe finito.
Una lunga sfilza di cadaveri si snodava fra le stelle, e ognuno sarebbe stato distrutto da un getto di acido o gettato in serbatoi interrati; ma la creatura avrebbe continuato a viaggiare fino a destinazione. Perché viaggiavano? Per quali scopi andavano da una stella all’altra? A volte, parlando con qualcuno degli esseri che sostavano alla stazione, Enoch era riuscito a sapere qualcosa, ma per lo più non accennavano ai motivi del viaggio. E lui, essendo un guardiano, non aveva il diritto di fare domande.
Dentro di sé li chiamava "i miei ospiti", anche se non sempre, perché c’erano creature che non avevano affatto bisogno di un ospite. In ogni caso, era lui l’uomo che badava all’andamento della stazione, preparava il necessario per accogliere i viaggiatori e provvedeva a farli ripartire quando era venuto il momento. Era lui che pensava alle piccole necessità e cortesie di cui potessero aver bisogno.
Tornò a esaminare il pezzo di legno, pensando che Winslowe sarebbe stato contento di riceverlo. Non era facile trovare un legno così scuro e di grana altrettanto fine.
Chissà cosa avrebbe detto il postino, se avesse saputo che le sue statuine erano ricavate da blocchi di legno che venivano da lontani pianeti. Doveva essersi domandato spesso dove l’amico trovasse quegli strani materiali, ma non glielo aveva mai chiesto. Per la stessa ragione non si era permesso di domandare chi fosse Enoch, e come mai gli andasse incontro tutti i giorni alla cassetta delle lettere.
Questa, pensò il guardiano, era vera amicizia.
Ma anche il blocco di legno che teneva in mano era una prova di amicizia: la cortesia delle stelle per l’umile custode di una remota stazione, nascosta fra i boschi di un mondo alla periferia della galassia.
Evidentemente, durante tutti quegli anni si era sparsa la voce che un certo guardiano faceva raccolta di legni esotici, per cui non solo esseri di razze che considerava ormai amiche, ma anche estranei come quello che giaceva nel serbatoio, gliene portavano dei pezzi in regalo.
Posò il legno sulla scrivania e si avvicinò al frigorifero, da cui tolse un pezzo di formaggio che Winslowe gli aveva portato qualche giorno prima e un sacchetto di frutta, dono di un viaggiatore arrivato ieri da Sirrah X.
"Frutta analizzata" aveva detto il visitatore. "Può mangiare senza danno. Non fa scherzi al suo metabolismo. Lei già assaggiata? No? Peccato, è deliziosa. Prossima volta porterò di più. Lei piace."
Enoch prese una pagnotta schiacciata dalla credenza vicino al frigorifero: faceva parte della razione fornitagli regolarmente dalla Centrale Galattica. Fatta con un cereale sconosciuto sulla Terra, la pagnotta aveva sapore di noci, con un lieve e gradevole aroma di spezie.
Mise il cibo su quello che chiamava "il tavolo di cucina", anche se non c’era una cucina. Mise il bricco del caffè sul fornello e tornò alla scrivania.
La lettera era ancora aperta e la chiuse in un cassetto.
Strappò l’incarto marrone che avvolgeva i giornali e li sistemò in un mucchio. Scelse il "New York Times" e sedette sulla sua poltrona preferita, per mettersi a leggere.
ACCORDI PER UNA NUOVA CONFERENZA DI PACE, lesse in prima pagina.
La crisi durava da più di un mese, e non era che l’ultima di una lunga serie che teneva il mondo con il fiato sospeso da anni. Ma la cosa peggiore, secondo Enoch, era che si trattava di crisi volute: uno o l’altro dei contendenti spingeva le cose per ottenere qualche vantaggio, facendo una mossa azzardata nell’eterna partita a scacchi per la conquista della supremazia politica che durava dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Gli articoli del "Times" sulla conferenza avevano un sapore disperato, quasi fatalista, come se i giornalisti e forse anche i diplomatici coinvolti sapessero che l’incontro non avrebbe avuto alcun esito positivo: "Gli osservatori della capitale" scriveva un corrispondente da Washington "sono convinti che la conferenza attuale non servirà, come pure qualche volta è successo in passato, a ritardare uno scontro aperto né a far avanzare la prospettiva di un accordo. Anzi, molti osservatori non nascondono il timore che l’incontro farà divampare ancora di più le fiamme della controversia, senza offrire, in compenso, nuovi sbocchi per il compromesso. L’opinione pubblica ritiene comunemente che una conferenza serva a soppesare con calma e buona volontà i punti di una contesa, ma in questo caso gli osservatori ottimisti sono veramente pochi".
Il bollitore del caffè era al massimo ed Enoch posò il giornale per andare a toglierlo dal fuoco. Prese una tazza dalla credenza e la posò sul tavolo.
Ma prima di mettersi a mangiare andò alla scrivania, aprì un cassetto e pescò il diagramma al quale stava lavorando, tenendolo aperto sul piano. Mentre lo studiava tornò a domandarsi fino a che punto fosse valido, ed ebbe la sensazione che in più punti un suo senso l’avesse.
Si era basato sulla teoria statistica dei Mizar, ma per la natura stessa del progetto aveva dovuto cambiare alcuni dati e sostituire dei valori: per l’ennesima volta si chiese se in qualche passaggio avesse commesso un errore. I cambiamenti e le sostituzioni avevano annullato la validità del sistema? E in questo caso, come avrebbe potuto correggerli?
I fattori erano: il ritmo d’incremento della popolazione terrestre e la cifra totale a cui ammontava; il tasso di mortalità, il valore del denaro, l’aumento del costo della vita, la frequentazione dei luoghi di culto, i progressi della medicina e della tecnologia, gli indici industriali, il mercato del lavoro, le tendenze del commercio mondiale e molti altri, compresi alcuni che lì per lì avrebbero potuto sembrare incongrui. Fra questi, la fluttuazione dei prezzi delle opere d’arte, le località prescelte per i viaggi e gli spostamenti, la velocità dei trasporti e l’incidenza delle malattie mentali.
Il metodo statistico elaborato dai matematici di Mizar, se applicato correttamente, era valido ovunque; ma per adattarlo alla situazione terrestre Enoch era stato costretto a fare alcune variazioni. Ora si chiese se, a causa di questa forzatura, si potesse ancora considerare esatto.
Guardò il diagramma e rabbrividì: se non aveva commesso errori e i suoi calcoli erano giusti, la Terra stava precipitando a capofitto verso un’altra e più terribile guerra, verso la distruzione nucleare. Lasciò liberi gli angoli della carta che si arrotolò su se stessa, a cilindro.
Decise di assaggiare uno dei frutti di Sirrah e lo assaporò lentamente, per gustarne il sapore delicato. Era buono come la straordinaria creatura alata che glielo aveva regalato.
Un tempo aveva coltivato la speranza che il diagramma basato sulla teoria dei Mizar mostrasse il modo, se non di impedire tutte le guerre, almeno di prolungare il mantenimento della pace. Ma erano speranze vane; il diagramma non conteneva il minimo accenno a una via di pace. Inesorabilmente, anche se lentamente, ci si avvicinava alla catastrofe.
Quanti altri conflitti avrebbe potuto sopportare la gente della Terra? Le nuove armi non erano state messe alla prova e nessuno era in grado di fare una valutazione, sia pure approssimativa, del loro potere distruttivo.
La guerra era già abbastanza brutta quando gli uomini si affrontavano faccia a faccia, ma in un grande conflitto moderno enormi carichi di distruzione avrebbero attraversato il cielo per inghiottire intere città; e le armi non avrebbero puntato agli obiettivi militari, ma a tutta la popolazione.
Enoch fu tentato di svolgere nuovamente la carta, poi vi rinunciò: a che serviva continuare a guardarla? La conosceva a memoria, non c’era speranza. Poteva studiarla e farsi domande fino al giorno del giudizio, non sarebbe cambiato niente: ancora una volta, travolto da un’esplosione di furore cieco e disperato, il mondo stava avviandosi sulla strada della guerra.
Enoch continuò a mangiare e trovò che il frutto era anche più buono di quanto non gli fosse parso assaggiandolo. "La prossima volta ne porterò di più" aveva detto l’essere alato. Ma sarebbe passato molto tempo prima del suo ritorno, e chissà se sarebbe tornato… C’erano viaggiatori che passavano una volta sola; altri venivano tutte le settimane, ma erano pochi: vecchi viaggiatori abitudinari che erano diventati suoi intimi amici.
Poi c’era stato il gruppo degli splendenti, ricordò Enoch. Era successo parecchi anni prima, ma avevano preso accordi speciali per fermarsi alla stazione più a lungo, in modo da trattenersi a chiacchierare con lui intorno al tavolo. Arrivavano carichi di bagagli e cose da bere e da mangiare, come se andassero a un picnic.
A un certo punto le visite erano cessate. Da anni non ne vedeva uno, e gli mancavano perché erano stati i compagni migliori.
Enoch bevve un’altra tazza di caffè, seduto pigramente a ricordare i bei giorni con gli splendenti.
A un tratto un lieve fruscio attrasse la sua attenzione; alzò gli occhi e la vide seduta sul divano, con la gonna a cerchio che era stata di moda nel 1860.
— Mary! — esclamò sorpreso, balzando in piedi.
Lei sorrideva in quel suo modo particolare ed era bella, Enoch pensò, come nessun’altra era stata bella.
— Mary — ripeté. — Sono così felice di averti qui.
Appoggiato alla mensola del camino, con la divisa blu dell’Unione, la sciabola al fianco e i gran favoriti neri, apparve un altro dei suoi vecchi amici.
— Ciao, Enoch — disse David Ransome. — Speriamo di non disturbare.
— Non disturbate mai — lo rassicurò Enoch. — Come possono dar fastidio gli amici?
Se ne stava ritto accanto al tavolo e il passato era tornato da lui; il passato bello e riposante, sereno e profumato di rose che non lo aveva mai abbandonato.
In distanza si sentivano suonare pifferi e tamburi, e nella confusione dei finimenti da battaglia i ragazzi marciavano verso il fronte guidati dal colonnello, che nella splendida uniforme da parata cavalcava il grande stallone nero. Le bandiere del reggimento garrivano alla brezza di giugno.
Enoch attraversò la stanza, e raggiunto il divano s’inchinò a Mary.
— Col tuo permesso, madame - disse.
— Prego, siediti — rispose lei. — Però, se hai da fare…
— Per niente. Speravo che sareste venuti.
Enoch sedette sul divano, non troppo vicino a lei, che teneva le mani intrecciate educatamente in grembo. Avrebbe voluto stringerle fra le sue, ma sapeva che era impossibile.
Perché Mary non era realmente là.
— Non ti vedo da quasi una settimana — disse Mary. — Come va il lavoro, Enoch?
Lui scosse la testa. — I problemi ci sono sempre. Mi sorvegliano ancora e il diagramma preannuncia guerra.
David si staccò dal camino e attraversò la stanza, poi sedette su una sedia aggiustando la sciabola. — La guerra come la combattono di questi tempi dev’essere un brutto affare. Non certo come la combattevamo noi, Enoch.
— No — ammise Enoch. — Niente a che vedere. E mentre una guerra è brutta di per sé, adesso c’è un problema più grave. Se ci sarà un’altra guerra mondiale, la nostra gente verrà bandita per secoli, se non per sempre, dalla possibilità di entrare a far parte della confraternita dello spazio.
— Forse non sarebbe un male — obiettò David. — Può darsi che non siamo abbastanza maturi per unirci a quelli dello spazio.
— È probabile — ammise Enoch. — Ne dubito anch’io. Ma un giorno potremmo diventarlo, e se ci sarà un’altra guerra questo giorno si farà sempre più lontano. Bisogna fingere almeno un po’ di civiltà, per unirsi alle altre razze.
— Forse non verranno a saperlo — disse Mary. — Voglio dire, non verranno a sapere della guerra, dato che passano solo da questa stazione.
Enoch scosse la testa.
— Impossibile. Credo che ci sorveglino. E, a ogni modo, leggono i giornali.
— Quelli a cui sei abbonato?
— Li tengo da parte per Ulisse: guarda, quel mucchio là nell’angolo. Li porta alla Centrale Galattica; ha vissuto molti anni qui e la Terra gli interessa molto. Quando li ha letti, credo che vengano mandati ai quattro angoli della galassia.
— Figurati cosa penserebbero gli uffici commerciali dei rispettivi giornali — osservò David. — Una diffusione da capogiro.
Enoch sorrise fra i denti.
— C’è un quotidiano della Georgia — disse ancora David — che si vanta di coprire il Sud capillarmente. Loro dicono: "come la rugiada". Dovrebbero pensare a qualcosa di simile su scala galattica.
— Potrebbe essere un guanto — intervenne Mary, pronta. — "Copriamo la galassia come un guanto". Che ve ne pare?
— Ottimo — disse David.
— Povero Enoch — riprese Mary, contrita. — Noi ce ne stiamo qui a scherzare e lui ha tanti problemi.
— Non miei personali — rispose lui. — Ma confesso che mi preoccupano. Io non ho altro da fare che starmene dentro la stazione. Una volta chiusa la porta, tutti i problemi del mondo restano fuori.
— Credo che tu abbia ragione — disse David — nel ritenere che le altre razze ci tengano d’occhio. Con l’intenzione, magari, di invitarci a far parte della comunità quando sarà il momento. Altrimenti, perché avrebbero costruito una stazione sulla Terra?
— Continuano ad allargare la loro rete — spiegò Enoch. — Avevano bisogno di una stazione nel sistema solare per estendere le diramazioni in questo braccio della spirale.
— Capisco, ma perché proprio la Terra? — insisté David. — Avrebbero potuto installarla su Marte e mettere uno dei loro come guardiano. Sarebbe stato lo stesso.
— Ci ho pensato spesso — dichiarò Mary. — Volevano una stazione sulla Terra e un terrestre come guardiano. Dev’esserci una ragione.
— L’ho sperato anch’io — disse Enoch. — Ma ho paura che siano venuti troppo presto. Presto per la razza umana, almeno. Non siamo abbastanza cresciuti, è come se fossimo ancora dei ragazzi.
— È un peccato — aggiunse Mary. — Avremmo tanto da imparare. Loro sanno molte cose più di noi… pensate come intendono la religione, per esempio.
— A dire il vero — intervenne Enoch — non so se si possa parlare di religione. Le mancano tutte le trappole che noi associamo all’idea religiosa; inoltre non si basa sulla fede, ma sulla conoscenza. Quella gente sa.
— Alludi alla forza spirituale.
— Sì, la quale esiste come tutte le altre fonti di energia che formano l’universo. La forza spirituale è una realtà come lo spazio, il tempo, la gravità e gli altri elementi che compongono l’universo invisibile. E quella gente può entrarvi in contatto…
— Ma non credi che anche gli uomini siano in grado di sentirla? — l’interruppe David. — Non la conoscono, ma la sentono e cercano di raggiungerla. Poiché non possiedono la conoscenza devono accontentarsi della fede, ma con la fede sono arrivati molto lontano. La fede è radicata in noi fin dai tempi preistorici: allora era rozza e primitiva, ma era sempre un inizio, un anelito.
— Può darsi — ammise Enoch. — Ma non si tratta della forza spirituale di cui parlo io. Ci sono altri strumenti, più concreti, di cui la razza umana potrebbe servirsi: metodi scientifici, filosofici. Nomina qualunque branca della scienza e ti dimostrerò che contiene qualcosa in più, qualcosa che noi ancora trascuriamo.
Mentre parlava, la sua mente tornò alla sorprendente realtà della forza spirituale e alla macchina ancora più straordinaria che avevano costruito in epoche immemorabili: l’apparato attraverso il quale le popolazioni galattiche erano in grado di mettersi in contatto con la forza. Aveva un nome intraducibile, anche approssimativamente: "Talismano" era il termine che più si avvicinava, ma era troppo rozzo. Comunque, era così che l’aveva chiamato Ulisse quando gliene aveva parlato, qualche anno prima.
Nella galassia esistevano molte cose, innumerevoli concetti che le lingue terrestri non potevano esprimere adeguatamente. Il Talismano era qualcosa di più di un talismano e la macchina che portava questo nome era qualcosa di più di una macchina: funzionava in base a principi meccanici, ma non solo. Per capirne lo scopo bisognava prendere in considerazione il linguaggio del paranormale, una sorta di energia psichica sconosciuta sulla Terra. Ma c’era dell’altro; Enoch aveva letto molto sulla forza spirituale e il Talismano, e ricordava di essersi reso conto, leggendo, di quanto fosse difficile capire, di quanto la specie umana fosse indietro.
Il Talismano poteva essere usato solo da esseri dotati di una mente speciale e di altre qualità (un diverso tipo di anima?). "Sensitivi" era una parola che, secondo Enoch, rendeva abbastanza bene le facoltà di quegli esseri, ma non era sicuro che fosse la più calzante. Il Talismano era affidato alla custodia dei più capaci, dei più efficienti, dei più devoti (ignorava quale fosse il termine idoneo) tra i sensitivi galattici, che lo trasportavano da una stella all’altra in una specie di eterna processione. E su ogni pianeta, attraverso il Talismano e il suo custode, la gente entrava in contatto individuale con la forza.
Al solo pensiero, Enoch si sentì venire i brividi. L’estasi ineffabile della ricerca e del contatto con la forza spirituale che aleggiava sulla galassia e, probabilmente, su tutto l’universo… E nell’estasi, la certezza che la vita avesse un posto speciale nel grande schema dell’esistenza, che ognuno, per quanto piccolo, insignificante e debole, contasse qualcosa nell’immensa distesa dello spazio e del tempo.
— Cosa c’è, Enoch? — domandò Mary. — Sei turbato.
— Niente — rispose lui. — Stavo solo pensando. Scusami, non mi distrarrò ancora.
— Stavi parlando — gli ricordò David — di quello che potremmo scoprire nella galassia. Per esempio, il nuovo sistema matematico di cui ci hai accennato una volta…
— La matematica di Arturo — precisò Enoch. — Non so molto più di quello che vi ho detto, è troppo complessa. Ma è fondata sul simbolismo del comportamento.
Era dubbio persino che si potesse definirla matematica, pensò Enoch, anche se l’analisi dimostrava che in fondo si trattava di quello. Comunque, era una disciplina di cui gli scienziati terrestri avrebbero potuto servirsi per usare le scienze sociali con la stessa logica ed efficienza che la matematica ci garantisce nel progettare gli oggetti di uso quotidiano.
— E le conquiste biologiche della razza che vive nella costellazione di Andromeda — intervenne Mary. — Gli esseri che hanno colonizzato tanti strani pianeti…
— So a cosa ti riferisci. Ma la Terra, al contrario degli andromedani, non è ancora abbastanza matura e progredita per servirsene, anche se potrebbe applicarle con successo in molti campi.
Rabbrividì al pensiero dell’uso che ne facevano gli andromedani. E questo dimostrava una volta di più che lui era un uomo legato alla Terra, con tutte le remore, i pregiudizi e gli atteggiamenti psicologici propri della mente umana. Il comportamento degli andromedani era dettato dal più elementare buon senso: quando è impossibile colonizzare un pianeta così come si è, bisogna trasformarsi in creature capaci di vivere su quel pianeta. Solo allora è possibile conquistarlo. Se devi trasformarti in un verme, ti trasformi in un verme, oppure in un insetto, una conchiglia o qualunque sia l’animale adatto a quel determinato ambiente. Ma non cambi soltanto il tuo corpo: anche la mente deve trasformarsi.
— Per non parlare — continuò Mary — di tutti i loro preparati e medicine. Sistemi di cura che potrebbero essere applicati anche sulla Terra. Il pacchetto che ti ha mandato la Centrale Galattica…
— Sì, un pacchetto di medicinali che curano qualunque malattia. Forse è la cosa che mi fa soffrire di più: sapere che nella credenza ho il rimedio per tutto e non posso darlo a chi ne ha bisogno.
— Ma potresti spedirle come campioni alle associazioni mediche o a qualche ospedale — disse David.
Enoch scosse la testa. — Ci ho pensato, ma non devo dimenticare la galassia. Ho degli obblighi verso la Centrale, ha preso infinite precauzioni perché questa stazione non venisse scoperta. Poi ci sono Ulisse e gli altri amici. Non posso intralciare i loro progetti né tantomeno tradirli. Malgrado tutto, la Centrale Galattica e il lavoro che svolge sono più importanti della Terra.
— Un bel dilemma — commentò David con una punta d’ironia.
— Proprio così. Una volta, parecchi anni fa, ho pensato di scrivere degli articoli per le riviste scientifiche, escluse quelle di medicina perché è un campo che ignoro completamente. In fondo, i farmaci sono sullo scaffale insieme alle istruzioni per l’uso, anche se si tratta solo di un certo quantitativo di pillole, unguenti, polveri e sciroppi. Dispongo di molte cognizioni che, una volta divulgate, troverebbero un’applicazione utile. A patto che a servirsene fosse chi è in grado di capire, chi le sfruttasse come punto di partenza per cercare in nuove direzioni.
— Non funzionerebbe — obiettò David. — Tu non hai alcuna preparazione tecnica o scientifica, non hai frequentato le scuole e l’università. Le riviste scientifiche non ti pubblicano, se non puoi nemmeno dimostrare chi sei.
— L’ho pensato anch’io, perciò non ho mai scritto. Sapevo che sarebbe stato inutile e che non avrei potuto biasimare i direttori delle riviste. La stampa scientifica non è aperta al primo venuto e loro ne sono responsabili. Inoltre, anche se avessero letto con attenzione e pubblicato i miei interventi, avrebbero fatto indagini sul mio conto e la stazione sarebbe stata scoperta.
— Insomma, se anche riuscissi nel tuo scopo — concluse David — non la faresti franca, perché devi difendere la segretezza della Centrale.
— Se fossi riuscito nello scopo, almeno sotto questo particolare aspetto, non avrei tradito nessuno — ribatté Enoch. — Mi sarei limitato a suggerire alcune idee agli scienziati terrestri. Certo, sarebbe rimasto il problema fondamentale di non rivelare la fonte delle informazioni.
— In realtà avresti potuto dire ben poco — obiettò David. — Voglio dire che anche la tua conoscenza è limitata. Quasi tutta la scienza galattica è al di là della strada che l’uomo batte attualmente.
— Appunto — ammise Enoch. — Prendiamo, per esempio, l’ingegneria mentale di Mankalinen III. Se fosse conosciuta sulla Terra, si potrebbero guarire tutte le malattie nervose. I manicomi si vuoterebbero e potrebbero servire ad altri scopi. Non ce ne sarebbe più bisogno. Ma solo gli abitanti di Mankalinen III potrebbero spiegarci come applicare la loro scienza; io so soltanto che esiste, punto. Loro dovrebbero insegnarci tutto il resto.
— Quello che vuoi dire — concluse Mary — è che nella galassia esistono innumerevoli scienze senza nome, almeno per l’umanità. Discipline alle quali non abbiamo mai pensato.
— Come quella che riguarda noi due, per esempio — fece l’ufficiale.
— David! — gridò Mary.
— È inutile fingere che siamo persone — ribatté l’altro, bruscamente.
— Per me lo siete — intervenne Enoch. — Siete i miei più cari amici, tutto quello che mi rimane. Che ti prende, David?
— Credo sia venuto il momento di ammettere cosa siamo in realtà: illusioni. Siamo stati creati ed esistiamo solo per uno scopo: venire qui a parlare con te, sostituire i veri amici che non hai.
— Mary! — esclamò Enoch. — Non dirmi che anche tu la pensi così. Non puoi.
Tese le braccia verso di lei ma le lasciò cadere, terrorizzato al pensiero di quello che stava per fare. Era la prima volta che aveva cercato di toccarla.
— Scusami, Mary, non avrei dovuto farlo.
Lei aveva gli occhi lucidi di pianto.
— Vorrei che potessi, invece — mormorò. — Oh, quanto lo vorrei.
— David! — chiamò Enoch senza voltarsi.
— David se n’è andato — rispose Mary.
— Non tornerà — mormorò Enoch.
Mary scosse la testa.
— Che cos’è successo, Mary? Cosa ho fatto?
— Niente — rispose lei. — Solo che ci hai fatto troppo simili a persone vere. Siamo diventati sempre più umani, sempre di più. Non siamo marionette, bambole senza vita, ma persone. Credo che David sia seccato di questo… non di essere ormai una persona, ma di non poterlo essere fino in fondo. Quando eravamo semplici bambole non ci facevamo caso, perché non avevamo sentimenti maturi.
— Mary, ti prego — disse lui. — Per favore, perdonami.
Sporgendosi verso di lui, col viso illuminato da una profonda tenerezza, Mary disse: — Non ho niente da perdonarti, anzi credo che dovremmo ringraziarti. Sei tu che ci hai creato col tuo amore e il tuo bisogno di noi, ed è meraviglioso sapere di essere amati e necessari.
— Ma non sono più io a crearvi — protestò Enoch. — È tanto tempo che non lo faccio. Adesso venite a trovarmi spontaneamente, di vostra volontà…
"Da quanti anni?" si chiese Enoch. Da almeno cinquanta. Mary era stata la prima, David era venuto poi. Di tutti i personaggi che erano seguiti, Mary e David restavano i primi, i più intimi e cari.
Ma prima di tentare aveva passato anni e anni a studiare la scienza senza nome creata dai taumaturghi di Alphard XXII.
Un tempo sarebbe stata giudicata magia nera, ma non lo era. Piuttosto, si trattava dell’elaborazione di alcuni aspetti naturali dell’universo, anche se la razza umana non ne sospettava l’esistenza e forse non li avrebbe mai scoperti. Per il momento la mentalità scientifica dell’uomo non era orientata verso quel genere di ricerche, e senza ricerche non si arriva a niente.
— David — proseguì Mary — ha intuito che non possiamo continuare così per sempre, limitandoci alle nostre garbate visite di cortesia. È venuto il momento di guardare in faccia quello che siamo veramente.
— E gli altri? — domandò Enoch.
— Mi spiace, Enoch, ma la pensano tutti allo stesso modo.
— Ma tu? Come la pensi tu, Mary?
— Non lo so — disse lei. — Per me è diverso, perché ti voglio bene.
— Anch’io.
— No, non è questo che voglio dire. Non capisci? Sono innamorata di te.
Enoch la fissò, inebetito. Gli parve che il mondo esterno fosse scosso da un rombo di tuono, che il tempo e la vita corressero velocissimi mentre lui restava immobile.
— Se le cose fossero rimaste com’erano in principio! — esclamò lei. — Eravamo contenti di esistere e i nostri sentimenti erano così rudimentali che ci pareva di esser felici come un bambino che corre al sole. Ma siamo cresciuti, e io forse più degli altri.
Gli sorrise, con gli occhi pieni di lacrime.
— Non prendertela tanto, Enoch.
— Cara — confessò lui — mi sono innamorato di te fin dalla prima volta che ti ho vista… forse anche prima. — Allungò una mano per toccarla, ma subito la ritrasse.
— Non sapevo… forse ho fatto male a parlarti così — disse Mary. — Se non ti avessi detto che anch’io ti amavo, avresti potuto sopportare tutto questo.
Enoch annuì, affranto.
— Dio, non meritavamo una cosa simile — esclamò Mary chinando la testa. — Non abbiamo fatto niente per meritarcelo.
Poi sollevò lo sguardo: — Se potessi almeno toccarti.
— Potremmo continuare come prima — propose lui. — Potresti venire sempre a trovarmi. E poi…
— Non servirebbe — l’interruppe Mary, scuotendo la testa. — Non riusciremmo a sopportarlo più.
Enoch sapeva che aveva ragione. Sapeva che ormai tutto era finito. Per cinquant’anni gli amici erano venuti a tenergli compagnia, ma ora non sarebbero più tornati. L’incantesimo si era rotto e il regno della fantasia era andato in frantumi. E lui sarebbe rimasto più solo che mai, più di quanto fosse quando non la conosceva.
Mary non sarebbe tornata e lui non avrebbe più avuto la forza di evocarla, ammesso che fosse possibile. Il suo amore immaginario, il suo mondo immaginario, l’unico mondo e l’unico amore che avesse mai avuto, se n’erano andati per sempre.
— Addio, cara — le disse.
Ma era tardi. Mary era già scomparsa. Da una gran distanza, gli parve di sentire il sibilo lamentoso che indicava l’arrivo di un messaggio.