Ci obbligarono a metterci con le spalle al muro e ci legarono le mani. Poi ci drappeggiarono i mantelli sulle spalle per nascondere i lacci, come se stessimo camminando con le mani dietro la schiena, e ci portarono nel cortile, dove un immenso baluciterio si dondolava sulle zampe e teneva sulla schiena un semplice howdah di ferro e corno. L’uomo che mi teneva per il braccio sinistro colpì la bestia nell’incavo del ginocchio con un pungolo per farla piegare, e noi venimmo costretti a salire.
Quando io e Jonas eravamo arrivati a Saltus, eravamo passati attraverso colline di detriti e scorie provenienti dalle miniere, colline composte soprattutto di mattoni e di pietra frantumata. Quando mi ero allontanato dal villaggio attratto dalla falsa lettera di Thecla, ero passato al galoppo in mezzo ad altre colline, nonostante il mio tragitto si fosse snodato soprattutto in mezzo alla foresta.
Quella volta passammo fra i mucchi di scorie dove non esistevano sentieri. Là, oltre a numerosi rifiuti, i minatori avevano abbandonato tutto quello che proveniva dal passato sepolto e che avrebbe potuto contaminare il villaggio e il loro mestiere. Ogni genere di immondizia era accatastata in mucchi alti anche dieci volte o più il baluciterio… statue oscene, deformi e corrose, e ossa umane con ancora attaccati frammenti di pelle rinsecchita e ciuffi di capelli. Erano diecimila, fra uomini e donne; aspirando a una resurrezione privata avevano reso i loro corpi imperituri e giacevano come ubriachi dopo una baldoria, con i sarcofaghi cristallini rossi, le membra abbandonate in un disordine grottesco, gli abiti imputriditi e lo sguardo fisso al cielo.
All’inizio io e Jonas avevamo rivolto delle domande ai nostri carcerieri, ma eravamo stati ridotti al silenzio con le percosse. Da quando il baluciterio ci aveva condotto in mezzo a quella desolazione, si erano tranquillizzati e così domandai loro dove fossimo diretti. Lo sfregiato rispose: — Nella foresta, casa degli uomini liberi e di belle donne.
Pensai ad Agia e chiesi se fossero al suo servizio. Lo sfregiato rise e scrollò la testa. — Il mio padrone è Vodalus dei Boschi.
— Vodalus!
— Ah — esclamò l’uomo. — Allora lo conosci. — Diede una gomitata all’uomo dalla barba nera che viaggiava con noi. — Vodalus ti tratterà sicuramente bene, dal momento che ti sei offerto tanto volentieri di straziare uno dei suoi servitori.
— Lo conosco davvero — dissi. Stavo per raccontare allo sfregiato il mio incontro con Vodalus e di come gli avessi salvato la vita l’anno prima di diventare capitano degli apprendisti, ma dubitai che Vodalus potesse ricordarsi di quell’episodio, perciò dissi solo che se avessi saputo chi serviva Barnoch non avrei mai accettato di torturarlo. Mentii, naturalmente; perché lo sapevo e avevo giustificato il pagamento con il pensiero che avrei potuto risparmiare a Barnoch qualche sofferenza. Fu una menzogna inutile; tutti e tre si misero a ridacchiare, compreso il guidatore che stava a cavalcioni del collo del baluciterio.
Quando smisero di ridere dissi: — Questa notte sono uscito dal paese spingendomi a nord-est. È quella la nostra direzione?
— Così eri andato là. Il nostro padrone era venuto a cercarti e ha fatto ritorno a mani vuote. — Lo sfregiato sorrise e compresi che si sentiva soddisfatto per aver portato a termine una missione in cui aveva fallito lo stesso Vodalus.
Jonas mormorò: — Siamo diretti a nord, come puoi constatare dal sole.
— Esatto — disse lo sfregiato, che doveva avere un buon udito. — Verso nord, ma non per molto. — Quindi, per occupare il tempo, mi descrisse il modo in cui il suo padrone trattava i prigionieri; per la maggior parte erano metodi incredibilmente primitivi, che generavano più effetti teatrali che vera sofferenza.
Come se una mano invisibile avesse tirato una tenda su di noi, l’ombra delle piante cadde sull’howdah. Il luccichio di miliardi di schegge di vetro restò indietro con gli occhi dei morti e ci addentrammo nella verde frescura della foresta. In mezzo a quei tronchi poderosi persino il baluciterio, nonostante fosse tre volte più alto di un uomo, appariva come una bestiola minuta e noi che viaggiavamo sulla sua groppa sembravamo i pigmei di una fiaba per bambini, diretti alla minuscola rocca di un re dei folletti.
Mi venne da pensare che quelle piante erano state ben poco più basse prima che io nascessi e che erano già così quando io da bambino giocavo fra i cipressi e le tombe tranquille della nostra necropoli. E moltissimo tempo dopo la mia morte, sarebbero rimaste ancora uguali, a bere l’ultima luce del sole morente. Compresi che non aveva che pochissimo peso, sulla bilancia delle cose, il fatto che io vivessi o morissi, nonostante la mia vita per me fosse preziosa. E accompagnato da simili pensieri mi costruii uno stato d’animo che mi permise di afferrare anche la più piccola possibilità di sopravvivenza, nonostante non mi curassi molto di salvarmi. Fu grazie a tale stato d’animo che vissi, e con me è stato tanto amichevole che mi sono sforzato spesso di ritrovarlo, anche se non sempre vi sono riuscito.
— Severian, come va?
Era stato Jonas a interrogarmi. Lo guardai, credo, con un certo stupore. — Bene. Ti sembrava che stessi male?
— Per un momento sì.
— Stavo solo pensando che questo posto mi è famigliare e mi sforzavo di capirne il motivo. Mi ricorda molti giorni estivi nella Cittadella. Queste piante sono alte quasi quanto le torri che si ergono laggiù, molte delle quali sono avvolte dall’edera, così che nelle belle giornate estive la luce, in mezzo a loro, assume questa tonalità smeraldina… e anche qui c’è silenzio…
— Sì?
— Tu devi aver viaggiato a lungo sulle barche, Jonas.
— A volte.
— È una cosa che ho sempre desiderato poter fare e mi è capitato di provarlo solo quando io e Agia abbiamo preso il traghetto per i Giardini Botanici e quando abbiamo attraversato il Lago degli Uccelli. Il dondolio è molto simile a quello di questa bestia, ed è altrettanto silenzioso, tranne quando capita che un remo sollevi uno spruzzo immergendosi in acqua. Adesso ho la sensazione di navigare attraverso la Cittadella.
Nel sentire quelle parole Jonas assunse un’espressione tanto seria che io scoppiai a ridere e mi sollevai, con l’intenzione, credo, di guardare oltre la fiancata dell’howdah per dimostrare con qualche commento che mi stavo solo abbandonando alle mie fantasie.
Tuttavia, mi ero appena alzato quando lo sfregiato si levò in piedi a sua volta e tenendo la punta dello stiletto a un pollice dalla mia gola mi ordinò di sedermi. Per fargli dispetto scossi il capo.
Lo sfregiato mosse l’arma. — Siediti oppure ti sbudello!
— E perdere in tal modo la gloria di consegnarmi? Non credo che lo faresti. Aspetta che gli altri riferiscano a Vodalus che mi avevi preso e che mi hai pugnalato mentre avevo le mani legate.
In quell’istante il mio destino segnò una svolta. L’uomo con la barba che teneva Terminus est cercò di sguainarla e non conoscendo il sistema giusto per snudare una spada tanto lunga — che consiste nell’afferrare l’impugnatura con una mano e la parte superiore del fodero con l’altra e nell’allargare le braccia per estrarre la lama — provò a tirare verso l’alto, come se stesse strappando un’erbaccia in un campo. Mentre stava eseguendo quella goffa manovra fu colto alla sprovvista da un sobbalzo del baluciterio e urtò lo sfregiato. I fili della lama, talmente affilati da poter tranciare un capello, tagliarono i due uomini; lo sfregiato si gettò all’indietro e Jonas, puntando un piede dietro il suo e premendogli la gamba con la pianta dell’altro piede, riuscì a gettarlo oltre il parapetto.
Nel frattempo, l’uomo con la barba aveva lasciato cadere Terminus est e si stava guardando la ferita, che era molto lunga sebbene superficiale. Conoscevo quell’arma come conosco la mia mano; mi ci volle solo un istante per accovacciarmi e per girarmi, quindi afferrai l’impugnatura e, incuneandola fra i talloni, tagliai le cinghie che mi legavano i polsi. In quel momento l’uomo sguainò il pugnale e forse mi avrebbe ucciso se Jonas non lo avesse colpito in mezzo alle gambe.
Il nostro carceriere si piegò in due e, prima ancora che potesse raddrizzarsi, io ero in piedi e brandivo la mia spada.
La contrazione dei muscoli lo fece scattare, come succede talvolta quando il cliente non viene fatto inginocchiare; penso che lo spruzzo di sangue fu per il guidatore la prima avvisaglia di quanto era accaduto, dal momento che il tutto si era svolto tanto rapidamente. Si volse a guardarci e io lo abbattei con un colpo da maestro, mulinando la spada con una sola mano in un fendente orizzontale mentre mi sporgevo dall’howdah.
La sua testa era appena caduta quando il baluciterio passò in mezzo a due grandi piante, tanto vicine da farlo sembrare un topo che passasse in un crepaccio del muro. Dall’altra parte degli alberi si estendeva la radura più aperta che avessi mai visto in quella foresta… vidi erbe e felci, e sprazzi di luce, non schermati dal verde e ricchi come l’orpimento, scherzavano sulle zolle. In quel luogo Vbdalus aveva fatto erigere un trono protetto da un baldacchino intrecciato di rampicanti fioriti e lo vidi là, seduto con la Castellana Thea al fianco, pronto a giudicare e a ricompensare i suoi seguaci.
Jonas non vide niente di tutto questo, perché era ancora disteso sul fondo dell’howdah e si stava liberando le mani con il pugnale. Io invece osservai tutto benissimo, e mi tenevo diritto, bilanciandomi contro gli ondeggiamenti del baluciterio e tenendo alta la spada che era rossa di sangue fino all’impugnatura. Cento volti si girarono verso di noi, incluso quello dell’esultante seduto sul trono e quello ovale della sua consorte; e nei loro sguardi vidi quello che essi dovevano avere davanti agli occhi: il grande animale che trasportava sul collo, a cavalcioni, un uomo decapitato, e che aveva le zampe anteriori intrise di sangue; e poi vidi me stesso, sulla sua groppa, con la spada e il manto di fuliggine.
Se fossi sceso e avessi cercato di scappare, o se avessi provato a incitare il baluciterio per farlo accelerare, sarei morto. Invece, grazie allo stato d’animo che si era impadronito di me, rimasi immobile e l’animale, senza che nessuno lo guidasse, continuò a farsi strada fra i seguaci di Vodalus che si scostavano in fretta al suo passaggio fino a quando si trovò davanti al podio che fungeva da sostegno per il trono e il baldacchino. Allora si fermò e il morto cadde in avanti ai piedi di Vodalus. Io, sporgendomi dall’howdah, colpii la bestia dietro una zampa e la costrinsi a inginocchiarsi.
Vodalus sorrise, un sorriso a denti stretti che diceva molte cose e fra esse il divertimento. — Ho mandato i miei uomini a prendere il tagliatore di teste e vedo che ci sono riusciti — disse.
Salutai con la spada, tenendo l’impugnatura davanti agli occhi come ci era stato insegnato a fare quando un esultante veniva ad assistere a un’esecuzione nel Grande Cortile. — Sieur, ti hanno portato l’anti-tagliatore di teste… una volta la tua testa sarebbe rotolata sul terreno da poco scavato se non fosse stato per me.
Allora Vodalus mi guardò con più attenzione, fissò il mio volto invece della spada e del mantello e dopo un istante disse: — Sì, eri proprio tu. È trascorso tanto tempo?
— Abbastanza, sieur.
— Ne parleremo in privato, ma adesso ho degli impegni più pressanti. Mettiti lì. — Mi indicò un punto a sinistra del podio.
Scesi dal baluciterio e Jonas mi seguì, e due stallieri portarono via l’animale. Aspettammo e sentimmo Vodalus impartire ordini e illustrare i suoi piani, ricompensare e punire, per circa la lunghezza di un turno di guardia. Tutta la tanto esaltata solennità delle colonne e degli archi non è altro che un’imitazione, in sterile pietra, dei tronchi e dei rami della foresta, e in quel momento mi parve che l’unica differenza fosse nel colore grigio o bianco delle une e verde pallido degli altri. Allora credetti di capire per quale motivo tutti i soldati dell’Autarca e tutti i seguaci degli esultanti non riuscivano a vincere Vodalus… lui occupava la fortezza più imponente di Urth, molto più grande della nostra Cittadella, alla quale l’avevo paragonata poco prima.
Infine congedò la folla, rimandando tutti, uomini e donne, al loro posto, e scese dal podio per parlare con me, piegandosi come io avrei potuto fare con un bambino.
— Una volta mi hai servito — disse. — Perciò ti verrà risparmiata la vita, qualsiasi cosa succeda, anche se forse sarà necessario che tu resti qui per qualche tempo. Sapendo che adesso la tua vita non è più in pericolo, mi servirai ancora?
Il giuramento di fedeltà all’Autarca che avevo pronunciato durante la mia nomina ad artigiano non era abbastanza forte da resistere al ricordo di quella sera nebbiosa dalla quale ho iniziato la mia narrazione. I giuramenti sono semplicemente deboli espressioni d’onore in confronto ai benefici che concediamo ad altri, vere e proprie espressioni dello spirito. Se salviamo una persona una volta, siamo suoi per tutta la vita. Ho sentito dire più volte che la gratitudine non esiste. Non è vero… quelli che lo affermano l’hanno sempre cercata nella direzione sbagliata. Chi è in grado di beneficare un altro, si mette, per un istante, al livello del Pancreatore, e la gratitudine di tale elevazione lo costringerà a servire l’altro per tutti i suoi giorni. Fu questo che dissi a Vodalus.
— Bene! — disse, battendomi un colpo sulla spalla. — Vieni. Non lontano da qui c’è un pasto che ci aspetta. Se tu e il tuo amico mangerete insieme a me, vi spiegherò che cosa occorre fare.
— Sieur, ho già disonorato una volta la mia corporazione. Ti chiedo solo di non essere obbligato a farlo di nuovo.
— Niente di quello che farai verrà risaputo — rispose Vodalus. E per me fu sufficiente.