Dopo essere rimasti a sedere a lungo, o almeno così mi parve, anche se probabilmente non era passato più di qualche istante, non riuscii più a tollerare le mie sensazioni. Mi avvicinai al bordo del ruscello, mi inginocchiai sulla terra soffice e vomitai il pasto che avevo mangiato in compagnia di Vodalus. Quando il mio stomaco fu completamente vuoto, rimasi lì, tremante e scosso dai conati, a sciacquarmi il volto e la bocca mentre la corrente portava via il cibo e il vino semidigeriti che avevo rigettato.
Dopo essere riuscito a rialzarmi, tornai da Jonas e gli dissi: — Dobbiamo andare via.
Lui mi fissò come se provasse pietà di me, e penso che la provasse davvero. — Siamo circondati dai guerrieri di Vodalus.
— Vedo che tu non hai vomitato come ho fatto io. Ma hai sentito chi sono i loro alleati. E forse Chuniald ha mentito.
— Ho sentito le nostre guardie camminare fra le piante… non sono poi tanto silenziose. Tu hai la spada, Severian, e io ho un coltello, ma gli uomini di Vodalus sono armati di archi. Ho osservato che la maggior parte dei commensali ne possedeva uno. Possiamo cercare di nasconderci dietro i tronchi come gli aluatti…
Capii cosa volesse dire e commentai: — Gli aluatti vengono uccisi ogni giorno.
— Ma nessuno dà loro la caccia di notte. E fra meno di un turno di guardia sarà buio.
— Verrai con me se aspetterò fino ad allora? — Allungai la mano.
Jonas la strinse. — Severian, mio povero amico, mi hai raccontato di aver visto Vodalus e la Castellana Thea insieme a un altro uomo vicino a una tomba profanata. Non sapevi che cosa avessero intenzione di fare di ciò che avevano riesumato?
Lo avevo immaginato, naturalmente, ma all’epoca si era trattato di una certezza remota e apparentemente priva di importanza. — A quel punto mi resi conto di non avere nulla da dire; anzi, non riuscivo nemmeno a pensare a nulla, solo ad augurarmi che venisse presto la notte.
Gli uomini di Vodalus vennero a prenderci prima che sopraggiungesse l’oscurità; si trattava di quattro individui massicci che dovevano essere stati contadini e che erano armati di berdichi, più un quinto uomo che aveva l’aria di un armigero e che portava uno spadone da ufficiale. Probabilmente quei sudditi erano tra la folla davanti al podio al nostro arrivo; comunque, sembravano decisi a non correre rischi: ci circondarono con le armi pronte, mentre ci salutavano come amici e compagni. Jonas simulò disinvoltura e si mise a chiacchierare con loro mentre ci scortavano lungo i sentieri della foresta; io non riuscivo a distogliere la mente dalla prova che ci aspettava, e avanzavo come se fossi diretto alla fine del mondo.
Mentre eravamo in cammino, Urth distolse la faccia dal sole. Il chiarore delle stelle non riusciva minimamente a scalfire il fogliame, ma le nostre guide conoscevano tanto bene la strada che non rallentammo quasi mai. A ogni passo mi veniva da domandare se saremmo stati costretti a partecipare al pasto, ma sapevo già che rifiutando o anche solo esitando avrei distrutto la fiducia che Vodalus riponeva in me e avrei messo in pericolo la mia libertà e forse anche la mia vita.
Le nostre guardie, che inizialmente erano state riluttanti a rispondere alle battute scherzose di Jonas, diventavano sempre più gioviali man mano che la mia disperazione aumentava e giunsero a conversare come se fossero dirette a una bevuta o a un bordello. Eppure, per quanto riuscissi a cogliere la nota d’anticipazione presente nelle loro voci, la maggior parte delle frasi irridenti che pronunciavano mi erano incomprensibili come per un bambino lo sono quelle libertine.
— Andrai lontano, questa volta? Annegherai di nuovo? — disse l’uomo che stava in fondo alla fila, una voce disincarnata nel buio.
— Per Erebus, sprofonderò tanto che non mi rivedrai più fino al prossimo inverno.
Una voce che riconobbi essere quella dell’armigero chiese: — Qualcuno di voi l’ha vista di nuovo? — Gli altri avevano parlato con ostentazione, ma nelle parole di quell’uomo colsi una specie di avidità che non avevo mai avvertito prima. Pareva un viaggiatore sperduto che domanda notizie della patria.
— No, Valdgravio.
— Alcmund dice che va bene, che non è vecchia ma neppure troppo giovane — aggiunse un’altra voce.
— Non sarà una nuova tribade, spero. — Non…
La voce si interruppe, o forse io smisi di farvi caso. Avevo avvistato un barlume fra le piante.
Dopo alcuni passi vidi le torce e udii il rumore di molte voci. Qualcuno, più avanti, ci intimò di fermarci, e l’armigero avanzò a dare sottovoce la parola d’ordine.
Mi ritrovai seduto a terra con Jonas alla mia destra e una bassa sedia di legno intagliato alla mia sinistra. L’armigero si era messo alla destra di Jonas e gli altri presenti, come se fossero stati in attesa del nostro arrivo, si erano disposti in cerchio; nel centro una fumosa lanterna arancione pendeva dai rami di un albero.
Solo un terzo dei partecipanti all’udienza nella radura era presente in quel momento, e a giudicare dai vestiti e dalle armi dedussi che si trattava delle persone del rango più elevato, forse in compagnia dei combattenti favoriti. C’erano quattro o cinque uomini per ogni donna, ma le donne apparivano bellicose quanto i loro compagni e addirittura più smaniose che il banchetto avesse inizio.
Dopo una breve attesa, Vodalus uscì teatralmente dall’oscurità e attraversò il cerchio. Tutti i presenti si levarono in piedi e si rimisero a sedere quando Vodalus si fu accomodato nella sedia accanto a me.
Quasi subito un servitore che indossava la livrea di una grande casata si fece avanti e si fermò al centro del cerchio, sotto la lanterna arancione. Portava un vassoio sul quale vidi una grande bottiglia, una più piccola e un calice di cristallo. Si levò un brusio… senza parole, il rumore di cento piccoli rumori soddisfatti, di respiri affannosi e di schiocchi di lingua sulle labbra. L’uomo con il vassoio rimase immobile fino a quando i rumori si spensero, quindi avanzò verso Vodalus a passi misurati.
Alle mie spalle, la dolce voce di Thea disse: — L’alzabo di cui ti ho parlato si trova nella bottiglia più piccola. L’altra contiene un composto di erbe che calma lo stomaco. Bevi un sorso abbondante della mistura.
Vodalus si volse a guardarla stupito.
Thea entrò nel cerchio, passando fra Jonas e me, quindi fra Vodalus e l’uomo con il vassoio, infine prese posto alla sinistra di Vodalus. Vodalus si chinò verso di lei: fece per dirle qualcosa, ma dopo aver constatato che l’uomo con il vassoio aveva già iniziato a rimestare il contenuto delle bottiglie entro il calice, sembrò concludere che non era il momento opportuno.
Il vassoio venne mosso in tondo per imprimere al liquido un leggero movimento circolare. — Molto bene — disse Vodalus. Afferrò il calice con entrambe le mani e se lo portò alle labbra. Poi lo passò a me. — Come ti ha spiegato la castellana, ne devi bere un sorso abbondante. Se ne ingoi di meno, non basterà e non ci sarà più comunione. Se ne prendi troppo, non ti darà alcun beneficio e la droga, che è preziosissima, andrà sprecata.
Bevvi come mi era stato ordinato. Il miscuglio era amaro come veleno e dava una sensazione di freddo e di fetido; mi fece tornare in mente un lontanissimo giorno invernale, nel quale mi era stato ordinato di pulire la tubatura esterna da cui fuoriuscivano i rifiuti dell’alloggio degli artigiani. Per un istante credetti che il mio stomaco si sarebbe ribellato, come era già successo in riva al fiume, anche se in verità non avevo più niente da vomitare. Mi sentii soffocare, ma ingoiai il liquido e passai il calice a Jonas, accorgendomi che la mia bocca si stava rapidamente riempiendo di saliva.
Anche Jonas incontrò le mie stesse difficoltà, o anche di più, ma infine riuscì a bere e diede il calice al valdgravio che aveva guidato le nostre guardie. Continuai a seguire il recipiente con lo sguardo, mentre veniva fatto passare lentamente intorno al cerchio. Il liquido in esso contenuto bastò per una decina di persone, quindi l’uomo dalla livrea lucido l’orlo, lo riempì nuovamente e tutto riprese.
A poco a poco, l’uomo parve perdere la forma solida per diventare una silhouette, una figura colorata e intagliata nel legno. Mi ricordai delle marionette che avevo visto in sogno la notte in cui avevo diviso il letto con Baldanders.
Anche il cerchio del quale facevo parte, che sapevo essere composto da trenta o quaranta persone, pareva ritagliato da un foglio di carta e ripiegato come una corona-giocattolo. Vodalus alla mia sinistra e Jonas alla mia destra erano ancora normali, ma l’armigero mi appariva già semidipinto, come Thea.
Quando l’uomo con la livrea giunse a lei, Vodalus si alzò e agilmente, come sospinto dalla brezza notturna, si incamminò verso la lanterna arancione. Sembrava molto distante in quella luce, e tuttavia io riuscivo a sentire il suo sguardo, come si sente il calore di un braciere che arroventa i ferri.
— Prima della comunione deve essere profferito un giuramento — disse, e le piante sopra di noi annuirono solennemente. — Per la seconda vita che state per ricevere, giurate che non tradirete mai coloro che sono qui? E che obbedirete, senza esitazioni e senza scrupoli, fino alla morte se necessario, a Vodalus come vostro capo prescelto?
Tentai di annuire come le piante, e quando mi resi conto che non era sufficiente, dissi: — Acconsento. — E Jonas disse: — Sì.
— E giurate che obbedirete, come se si trattasse dello stesso Vodalus, a ogni persona che Vodalus porrà sopra di voi?
— Sì. — Sì.
— E che anteporrete questo giuramento a tutti gli altri pronunciati prima e dopo?
— Sì — rispose Jonas.
— Sì — risposi io.
La brezza non spirava più. Era come se uno spirito agitato avesse presenziato a quel raduno e poi fosse svanito all’improvviso. Vodalus era nuovamente sulla sedia vicino a me. Si piegò per parlarmi; se la sua voce era annebbiata, non me ne accorsi, ma qualcosa nel suo sguardo mi disse che era sotto l’effetto dell’alzabo quanto me.
— Non sono un erudito — iniziò. — Ma so che secondo alcuni le cause più nobili sono unite ai mezzi più vili. Le nazioni vengono unite dal commercio e l’avorio e i legni preziosi degli altari e dei reliquiari sono tenuti insieme dagli intestini bolliti di animali ignobili; gli uomini e le donne sono uniti dagli organi di escrezione. Nello stesso modo siamo uniti voi e io… Nello stesso modo saremo tutti uniti fra qualche istante a un essere mortale che per breve tempo rivivrà intensamente in noi grazie agli effluvi estratti dalle ghiandole di una bestia fra le più immonde. Così i fiori sbocciano dal fango.
Io annuii.
— Questo ci è stato insegnato dai nostri alleati, coloro che aspettano che l’uomo venga nuovamente purificato e sia pronto a unirsi a loro nella conquista dell’universo. Venne portato dagli altri per scopi immondi che essi intendevano tenere segreti. Te ne sto parlando perché tu, quando andrai alla Casa Assoluta, probabilmente li incontrerai: quelli che la gente comune chiama cacogeni e che gli uomini di cultura chiamano extrasolari o ieroduli. Dovrai stare in guardia per non attirare la loro attenzione; se ti osserveranno attentamente capiranno, da certi segni, che hai provato l’alzabo.
— La Casa Assoluta? — Sebbene per un solo istante, il pensiero dissolse le nebbie della droga.
— Sì. Là c’è un mio seguace al quale devo trasmettere alcune istruzioni e ho saputo che la compagnia di commedianti di cui facevi parte vi sarà ammessa per un tiaso fra pochi giorni. Ti riunirai a loro e approfitterai dell’occasione per consegnare quello che ti darò… — Vodalus si frugò nella tunica, — …a chi ti dirà: Il veliero pelagico avvista la terraferma. E se dovessi ricevere in cambio qualche messaggio, lo potrai confidare a chi ti dirà: Io vengo dai penetrali delle querce.
— Mio signore — dissi, — mi gira la testa. — Poi, mentendo: — Non riesco a rammentare le parole… veramente, le ho già dimenticate. Ti ho sentito dire che Dorcas e gli altri verranno ammessi alla Casa Assoluta?
Vodalus mi mise in mano un oggetto che non era un coltello vero e proprio, ma ne aveva la forma. Lo guardai: si trattava di un acciarino, simile a quelli usati per accendere il fuoco. — Ricorderai — disse. — E non dimenticherai il giuramento che mi hai fatto, mai. La maggior parte di coloro che vedi qui vennero, così credono, una volta sola.
— Ma sieur, la Casa Assoluta…
Le flautate note di un’aupanga riecheggiarono fra le piante, dal lato opposto del cerchio.
— Fra poco dovrò andare a scortare la sposa, ma non temere. Qualche tempo fa incontrasti un mio seguace…
— Hildegrin! Sieur, non ci capisco nulla.
— Lui si serve anche di quel nome, fra gli altri, sì. Trovò abbastanza insolito vedere un torturatore tanto lontano dalla Cittadella, un torturatore che parlava di me… al punto da farti sorvegliare, nonostante non avesse idea del fatto che in quella notte tu mi salvasti la vita. Purtroppo, coloro che ti sorvegliavano ti persero di vista alle Mura; da allora hanno seguito i tuoi compagni di viaggio nella speranza che tu li raggiungessi. Ho immaginato che un esule sarebbe stato pronto a schierarsi con noi e a salvare il mio povero Barnoch in modo che noi potessimo liberarlo. La scorsa notte sono venuto io stesso a Saltus per parlarti, ma l’unico risultato che ho ottenuto è stato di farmi rubare il destriero. Perciò oggi era indispensabile riuscire a prenderti con ogni mezzo, per impedire che tu esercitassi le tue arti sul mio servitore; ma speravo ancora di riuscire a legarti alla nostra causa, così ho voluto che ti portassero da me vivo. Questa impresa mi è costata tre uomini e me ne ha fatti guadagnare due. Adesso si tratta di verificare se questi due valgano più degli altri tre.
Si alzò, ondeggiando leggermente. Io ringraziai santa Caterina di non dovermi alzare a mia volta, perché ero certo che le gambe non mi avrebbero retto. Qualcosa di informe, bianco, alto il doppio di un uomo, aleggiava fra le piante al cinguettio dell’aupanga. Tutti voltarono la testa per guardare e Vodalus gli andò incontro. Thea si sporse al di sopra della sedia vuota per parlarmi: — Non è bellissima? Hanno compiuto un miracolo.
Si trattava di una donna seduta su una lettiga d’argento, sorretta a spalla da sei uomini. Per un istante pensai di vedere Thecla… sembrava lei, nella luce arancione. Poi mi resi conto che era solo la sua immagine… forse modellata nella cera.
— Dicono che sia pericoloso — sussurrò Thea, — quando uno ha conosciuto in vita il condiviso: i ricordi comuni possono intorpidire la mente. Eppure io che le volevo bene rischierò questa confusione e siccome ho capito dalla tua espressione, quando mi hai parlato di lei, che anche tu l’avresti voluto, non ho detto niente a Vodalus.
Vodalus aveva sollevato la mano per toccare il braccio dell’immagine mentre veniva condotta all’interno del cerchio; e insieme all’immagine giunse un odore dolce e inconfondibile. Ricordai gli aguti serviti al banchetto durante la consegna delle maschere, con il manto di noce di cocco alle spezie e gli occhi di frutti in conserva, e capii che quello che stavo vedendo era solo una ricostruzione assai somigliante di un essere umano, composta di carne arrostita.
In quel momento sarei probabilmente impazzito, se non fosse stato per l’alzabo, che si ergeva fra la mia percezione e la realtà come un gigante nella nebbia, attraverso il quale era possibile vedere tutto senza capire niente. Avevo dalla mia parte anche un’altra alleata: la conoscenza che cresceva dentro di me, la consapevolezza che, se avessi accettato e avessi trangugiato una parte della sostanza di Thecla, le tracce della sua mente che altrimenti sarebbero scomparse nella putrefazione sarebbero entrate a far parte del mio essere e, sebbene attenuate, sarebbero sopravvissute fino alla mia morte.
Acconsentii. Quanto stavo per fare non mi sembrava più così immondo e terrificante. Aprii ogni parte di me a Thecla, e ornai l’essenza della mia personalità con sentimenti di benvenuto. E giunse anche il desiderio, generato dalla droga, un appetito che nessun altro cibo avrebbe potuto saziare, e voltandomi intorno scorsi la stessa fame su tutti i volti.
Il servitore in livrea, che probabilmente era uno dei vecchi dipendenti di Vodalus andato in esilio con lui, si unì ai sei che avevano trasportato Thecla all’interno del cerchio e li aiutò a deporre a terra la lettiga. Per alcuni istanti le loro spalle mi ostruirono la vista. Quando si separarono, lei non c’era più: non rimaneva altro che le carni fumanti disposte su una tovaglia bianca.
Mangiai e aspettai, implorando il perdono. Lei meritava il sepolcro più sontuoso, marmi inestimabili di squisita armonia. Invece probabilmente era stata sepolta nella mia stanza da lavoro di torturatore, con il pavimento ben lavato e gli strumenti seminascosti sotto ghirlande di fiori. L’aria della notte era fresca, ma io stavo sudando. Aspettai che lei venisse, e avvertii le gocce di sudore scorrere sul mio petto nudo, e tenni lo sguardo fisso al suolo per il timore di vederla nei volti degli altri, prima di sentire la sua presenza in me stesso.
Proprio quando avevo perso ogni speranza… lei arrivò e mi riempì come una melodia riempie una cassetta. Ero insieme a lei, e correvo in riva all’Acis quando eravamo bambini. Conoscevo l’antica villa circondata da un lago scuro, la vista che si godeva dalle polverose finestre del belvedere e lo spazio segreto nell’angolo insolito che si trovava fra due stanze e nel quale andavamo a sederci a mezzogiorno per leggere a lume di candela. Conoscevo la vita che si svolgeva alla corte dell’Autarca, nella quale il veleno aspettava in una coppa di diamanti. Capivo che cosa volesse dire, per chi non aveva mai visto una cella o una frusta, essere prigioniera dei torturatori, e cosa significassero l’agonia e la morte.
Scoprii che per lei ero stato più di quanto avessi creduto, e finalmente piombai in un sonno nel quale i miei sogni erano interamente imperniati su di lei. Non si trattava solo di ricordi… anche prima avevo posseduto ricordi in grande quantità. Tenevo nelle mie le sue povere mani fredde e non indossavo più gli stracci di un apprendista, e nemmeno la fuliggine di un artigiano. Eravamo una cosa sola, nudi, felici e puliti, e sapevamo che lei non esisteva più, e che io ero ancora vivo, e non combattevamo contro questa realtà, ma con i capelli intrecciati leggevamo lo stesso libro e parlavamo e cantavamo di altre cose.