8 Bobby Jackson

Mi svegliai dal peggiore incubo che avessi mai avuto. Avevo pas­sato il pomeriggio a pescare sull’estremità orientale del lago, e stavo tornando a casa attraverso i boschi quando sentii una voce dire: “Bobby, Bobby, corri! Scappa se vuoi salvare la vita! Ti cir­condano, ma non possono ancora vederti. Devono metterti a fuoco, il che è difficile e richiede tempo. Comincia a correre e non guardarti indietro. Solo così ti salverai”.

Allora mi voltai e cominciai a correre. Ma le mie gambe diven­tavano più pesanti a ogni passo, e avanzavo così lentamente che mi sembrava di attraversare un mare di colla.

“Bobby” incalzò la voce “che cosa ti trattiene? Non fare lo stu­pido! Basta che tu corra, ma sembra che tu non voglia proprio salvarti”.

“Non posso” gridai, il che era stupido dato che la voce era den­tro di me. “Non vedi che faccio fatica a muovermi?”.

“Sciocchezze, Bobby. Non sei nelle sabbie mobili. Prova a fare uno sforzo. Vuoi che ti prendano?”

Adesso sui boschi gravava un pesante silenzio ed era peggio delle grida precedenti.

Ebbi la sensazione che tutti mi avessero abbandonato, come se tutti i miei amici di un tempo fossero a poppa di una nave che si allontanava attraverso i boschi lungo uno scivolo e mi fissassero con aria di freddo rimprovero perché non avevo fatto una cosa.

Allora ricominciai a correre, e la pesantezza alle gambe scom­parve improvvisamente, mentre io barcollavo da un albero al­l’altro come un daino ferito. Mi sembrava di fuggire davanti a centinaia di cacciatori sparpagliati nel bosco e intenti ad abbatte­re tutti i cartelli di divieto di caccia per essere certi di non avere noie con la legge, prima di avventarsi contro di me.

“Bobby, qui non ci sono cacciatori di daini” riprese a gridare la voce. “Sono cacciatori di uomini e per questo genere di sport la caccia è sempre aperta”.

“Chi sono?” urlai. “Devo saperlo! Dimmelo!”

“Chi lo sa, Bobby? Vengono da molto lontano, forse da altri soli… sì, forse perfino dalla Grande Nebulosa di Andromeda. Bada che non ti prendano, Bobby. Corri, corri!”

D’un tratto non potei più vedere la foresta per colpa degli al­beri. Ognuno di essi era diventato enorme e tutti stavano reclina­ti verso di me con i rami intrecciati, e quando alzai lo sguardo vi­di che quella crudele rete vegetale stava scendendo.

Mi svegliai madido di sudore freddo. Anche il pigiama era ba­gnato. Alzai le lenzuola e mi guardai. Per un attimo ebbi l’im­pressione d’essere tutto imbrattato del fango scuro della foresta.

Strinsi gli occhi, li riaprii e la terrificante visione scomparve. Il sole entrava a fiotti nella camera. Era spuntato un altro giorno. Ero ancora sano di corpo e di mente.

La mamma stava bussando alla porta, ed era stato questo, pro­babilmente, a svegliarmi. — Bobby — chiamò. — Sono le otto meno un quarto. Farai tardi un’altra volta.

— Cosa significa “un’altra volta”, mamma? — risposi. — Quando mai sono arrivato in ritardo a scuola?

Lei aprì la porta ed entrò senza aprir bocca.

— Cosa succede, adesso? — chiesi. — Cos’ho fatto?

— Hai da ridire su ogni mia parola — disse lei. — Sotto questo aspetto stai diventando anche peggio di tuo padre. E per giunta sei testardo. Quando te ne vai in giro per tutta la giornata e io ti chiedo di farmi il favore di prendere un’aspirina, ribatti che non hai mai avuto un raffreddore in vita tua. Quando…

— Ti prego, mamma. Ho fatto un sogno orribile e non ho vo­glia di discutere. Lasciami vestire.

— Secondo te sono molto noiosa, vero, Bobby?

Si mise a sedere sul letto e mi attirò a sé. — Non sono poi una madre tanto cattiva, eh, Bobby? Dimmi la verità.

— Be’…

— A volte non posso fare a meno di irritarmi con te. Sei tal­mente testardo.

— Be’… forse in questo hai ragione, mamma.

— Ti fa bene ammetterlo, vero? Perché non lo fai più spesso? Così non ci sarebbe bisogno di discutere.

— Questo è quello che preferisco in te, mamma. Dici “discute­re” e non “litigare”. Non credere che non lo apprezzi.

— Talvolta ne dubito.

Si alzò prima che potessi rispondere e si avviò verso la porta. — I cereali sono in caldo e il caffè è quasi pronto — disse, con una mano sulla maniglia. — Non metterci troppo a vestirti. Me­no male che non devi anche farti la barba.

— Fra non molto mi toccherà farla — dissi. — E allora il caffè si raffredderà tutte le mattine. Sono molto meticoloso in tutto quello che faccio.

— Per allora forse sarai sposato e te ne sarai andato di casa. Compiango la ragazza…

Uscì richiudendosi la porta alle spalle. Non era certamente la peggiore madre del mondo e a volte mi sembrava la migliore; al­tre volte invece mi irritava al punto da farmi pensare che c’era dell’incomunicabilità fra noi due.

Non mi piace schizzare dal letto, infilarmi i vestiti, neppure sa­pendo di fare tardi a colazione. Preferisco andare alla finestra e respirare l’aria fresca settembrina, guardare oltre il prato e vede­re se mi riesce di scorgere un pettirosso o qualche altro uccelletto raro per Lakeview.

L’osservazione degli uccelli non è uno dei miei passatempi pre­feriti. Ma ho parecchi taccuini di appunti che mi avrebbero fatto guadagnare una pacca sulle spalle dal presidente della locale se­zione della Società Audubon… questo se avessi continuato a pa­gare la quota d’iscrizione.

Di solito sto cinque minuti alla finestra, poi vado ad aprire il cassetto per scegliere, nella mia collezione di camiciole sportive, quella che non metto da più tempo.

Tutto questo mi fa ritardare, è ovvio, e mi sembra di vedere la mamma che borbotta e si preoccupa perché i cereali si raffredda­no, e papà seccato per il suo andirivieni che, come un tornado, gli scompiglia il giornale, mentre passa dalla pagina finanziaria a quella sportiva e poi al notiziario, e non bada se fa rumore vol­tando le pagine o anche se qualcuna scivola a terra.

Quel giorno decisi di stupirla una volta tanto. Non c’erano pet­tirossi né altri uccelletti sul prato, e la camicia sportiva che avevo indossato il giorno prima era ancora pulita. Così la infilai, mi die­di una pettinata e una spazzolata, e scesi cinque minuti dopo es­sermi affacciato alla finestra.

Non saprei spiegare perché un paio di volte al mese prepara le frittelle, oltre al caffè, ai cereali e alle uova strapazzate. Comun­que, quella era una delle mattine in cui papà avrebbe dovuto es­ser felice di sedersi a tavola, e mi spiacque vedere che non diceva niente alla mamma. Come al solito, teneva il giornale aperto da­vanti a sé, e c’erano due pagine sparse sul pavimento.

Quando mi sentì arrivare, depose il giornale e disse: — Salve, figliolo. Bella mattina, eh? — e riprese a voltare le pagine, forse per accertarsi che il meteorologo avrebbe concesso al sole di bril­lare tutto il giorno.

Mamma uscì dalla cucina e gli posò davanti un bricco di panna. — Roger, non hai molto tempo — disse.

Io sedetti davanti al piatto dei cereali, irritato perché anch’io, come mio padre, ero schiavo del tempo. Cosa sarebbe successo se fossi arrivato tardi a scuola? Il signor Dyson mi avrebbe inflitto un compito per castigo? Poco probabile. Mi avrebbe spiegato a tu per tu che l’essere figlio di un banchiere e il possedere un Q.I. molto elevato mi conferivano certi privilegi, ma che io tutta­via gli creavo un problema, perché il ritardare, da parte di un “di­rigente”, sia pure della mia età, non era consono alla posizione.

“Sai com’è, Bobby. Se facessi un’eccezione per te, finirei col trovarmi nei pasticci”.

Non si creano problemi alle persone che si apprezzano e così ecco che finivo, daccapo, vittima della puntualità, dell’orario.

Io dovevo essere a scuola alle nove. Papà era più fortunato perché poteva prendere l’autobus alle nove e mezzo, se voleva arrivare in banca puntuale alle dieci, invece di sciropparsi una passeggiata di trentacinque isolati. Mamma, da parte sua, non badava alle differenze e spronava tutt’e due ad affrettarci…

A un tratto papà mise da parte il giornale e guardò la mamma e poi me come se avesse letto qualcosa che gli pareva incredibile.

Mamma era stupita. Non capita spesso che papà si emozioni per qualche notizia, e quando succede vuol dire che è scoppiata una guerra da qualche parte, o che un direttore di banca, deside­roso di mostrarsi compiacente, ha accettato un assegno di due milioni di dollari che poi risulta essere rubato.

— Anderson mi diceva ieri che temeva di vedere stampata la notizia — disse papà. — Io ero sicuro che non la stampassero. In­vece aveva ragione lui. Purtroppo un funzionario di polizia non può evitare che un giornalista ficcanaso gli faccia fare la figura dello scemo.

— Cos’è successo, papà? — domandai.

— Ieri, in Clarke Street, lo sceriffo Anderson ha fermato un giovanotto che era persuaso di essere diventato un gatto — spie­gò papà.

Mi sembrò che la stanza si mettesse a vorticare, e rimasi senza fiato.

— Cosa c’è di tanto strano? — intervenne la mamma. — Se si tratta di un pazzo…

— È la versione dello sceriffo che è pazzesca — interruppe papà. — E Anderson invece non è certo pazzo. Lo conosco da vent’anni e non posso assolutamente credere che menta a proposito di una cosa che è convinto di avere visto. Ci deve essere una spie­gazione…

— Che cos’ha visto, papà? — riuscii a dire.

— Un gatto… sia pure per un istante… che sembrava convinto di essere un uomo — rispose papà. — Tutta quanta la faccenda…

— Dagli il giornale, così può leggere da solo la notizia — disse la mamma. — Se ne fai un romanzo sceneggiato, arriverà tardi a scuola.

Allora papà perse la pazienza. — Quando Bobby mi fa una do­manda seria preferisco rispondergli io. Ti spiace?

— Certo che mi spiace. Ma se vuoi perdere l’autobus, conti­nua pure.

— Posso permettermi di perdere l’autobus due o tre volte alla settimana. Una passeggiata di due miglia mi fa bene. Vorrei che la smettessi di spingermi fuori di casa!

Mamma strinse le labbra e tornò in cucina senza aggiungere al­tro. In qualsiasi altro momento io sarei stato dalla parte di papà. Ma guardavo le frittelle dolci che lei gli aveva preparato solo per fargli piacere e non potei fare a meno di pensare che avrebbe po­tuto rispondere più gentilmente. Tuttavia ero ancora così scosso per la notizia che mi aveva riferito, che ci pensai solo per un mo­mento.

Volevo che continuasse a parlare, perché quel che si riesce a ri­cavare da un giornale è solo una serie di fatti visti attraverso gli occhi del cronista. Qualche volta non sono riferiti esattamente, o solo in modo troppo scarno.

Papà possiede il raro dono di interpretare i fatti con molta fan­tasia. La sua teoria è quella di non lasciarli congelare finché di­ventano così secchi e friabili da frantumarsi in mucchietti di bri­ciole. Il fatto solo di aver parlato personalmente con lo sceriffo Anderson, e quindi ascoltato la sua versione dell’accaduto, m’induceva a credere che se avessi insistito, con le domande giuste — e aggiungendo alla sua la mia interpretazione — saremmo giunti a una conclusione positiva.

— Perché è stato arrestato quel giovane, papà? — chiesi. — Dava fastidio?

— Prima di tutto — rispose papà, guardando il giornale come se si fosse pentito di non aver chiesto alla mamma un paio di for­bici per ritagliare l’articolo e farlo poi leggere a Graham e Creighton, in banca — si comportava in modo molto strano. Si era fermato davanti alla vetrina di un negozio e fissava la sua im­magine nel vetro. Quello che vide, chissà perché, dovette spa­ventarlo, in quanto retrocedette tutto curvo. Per caso, passava di lì lo sceriffo, e in quel punto non c’erano altre persone.

— E allora, papà?

— Chi ha giurato di servire la Legge ha delle particolari re­sponsabilità. Tu, o io, o qualunque altro privato cittadino veden­do un giovane — a proposito, si chiama Charles Bellamy — che si comportava a quel modo, non vi avremmo forse badato. Ma lo sceriffo no. Si avvicinò al signor Bellamy per chiedergli cosa avesse. E lui, invece di rispondergli, arretrò verso la vetrina, sof­fiando contro lo sceriffo.

— Vuoi dire che soffiava… come fanno i gatti?

Papà mi guardò stupito a quella domanda. — Be’, pare di sì. Ma tutti possono soffiare a quel modo.

Naturalmente aveva ragione. È facile come fischiare. Basta soffiar forte tra i denti e contro il palato. Ma è una forma di lin­guaggio espressivo, a suo modo, e per produrlo ci vuole il con­corso del cervello. In altre parole, non si può soffiare o ridere o piangere senza che il cervello non impartisca istruzioni al centro del linguaggio. Ma basta questo a provare che quel giovane era diventato un gatto? No. Poteva aver soffiato per disprezzo, per sfida… ma io sapevo che doveva esserci sotto dell’altro, altri­menti il News-Chronicle non avrebbe pubblicato la storia.

Papà dovette giudicare sciocca la mia domanda — e invece non lo era affatto — perché capii che stava perdendo la pazienza.

— Bobby — disse — credo che tua madre avesse ragione. Qua, tieni il giornale, e leggi.

Mi passò la pagina, ma io gli afferrai la mano e dissi: — Ti guardavo mentre leggevi, e ho notato che ti ha colpito, nonostan­te avessi parlato con Anderson. Se la leggo da solo, può anche darsi il caso che mi sfugga proprio quella cosa che ti ha colpito particolarmente per la sua stranezza.

Papà mi guardò scuotendo la testa: — Sei uno strano ragazzo, Bobby. Qualche volta stento a credere di essere tuo padre. Quando avevi sei o sette anni, non ho mai capito perché avevi l’abitudine di darmi un libro da leggere, per esempio i Racconti Narrati Due Volte di Hawthorne, perché poi potessi raccontarteli con le mie parole, la sera, prima di addormentarti. In questo mo­do, però, sono sicuro che perdevi il meglio del libro.

— Mi piaceva quello che ci mettevi di tuo, papà — dissi. — Se­condo me, Hawthorne non aveva modo di conoscere le reazioni di una mente del ventesimo secolo alle leggende antiche. Non parlo della mente di un bambino di sei anni, ma di quella di un adulto dotato di fantasia. Tu vedevi le cose che a me potevano sfuggire, e che Hawthorne non poteva aver preso in considera­zione. Com’è possibile che uno scrittore nato nel 1804 potesse compiere un così grande balzo avanti nel tempo?

— D’accordo, d’accordo — cedette papà. — Hai detto abba­stanza. Quando parli così mi fai un po’ paura. Sempre.

Sapevo con esattezza quel che pensava: “Forse ho procreato un essere eccezionale. Un ragazzo che avrebbe potuto essere fi­glio del Mago Merlino e avere Einstein come nonno”.

— Dimentichi che ho scorso frettolosamente l’articolo — disse papà. — Se tua madre non fosse così impaziente d’incominciare i lavori di casa, potrei leggere comodamente il giornale e scindere le notizie importanti da quelle che non lo sono. Non serve a nien­te fare una cosa, sia pure leggere il giornale, se non la si fa seria­mente e a fondo. — A questo punto papà mi sorprese con un sor­riso: — Così parlavano i padri ai figli nell’epoca vittoriana: “Guarda come la piccola laboriosa ape migliora via via che tra­scorre ogni ora”. Purtroppo questo ridicolo modo di pontificare non è ancora completamente estinto. I padri sono sempre stati e saranno sempre persone piene di pregiudizi, e non solo agli occhi dei figli, ma anche ai loro stessi occhi. Essere padri fa dimentica­re, a volte, che nella testa di un ragazzo possono esserci idee vali­de e originali che dovrebbero attirare la nostra attenzione.

Non so se io sia mai riuscito a stupire papà come lui talvolta stupisce me. “Tale il padre, tale il figlio” contiene una grande ve­rità. I geni sono i geni e non ci si può far niente. Se papà fosse stato una persona un po’ fuori dal comune che tipo di individuo sarei stato io?

— Quando quel giovanotto ha soffiato contro lo sceriffo, che cosa è successo? — chiesi. — Anderson deve essersi preso un bel colpo.

— Be’… ebbe l’impressione di trovarsi davanti a uno squili­brato, e lo afferrò per un braccio cercando di calmarlo con le pa­role del caso.

“Adesso ci siamo” pensai.

— E la sua impressione era giusta? — chiesi, con un senso di nascente timore. Non era facile per me dimenticare la sensazione che avevo provato in casa Oakham, quando avevo visto il gatto della signora Parker avvicinarsi furtivo e tutt’a un tratto m’ero ri­trovato a guardare nella stanza attraverso i suoi occhi, tanto vici­ni al pavimento, e avevo incominciato a provare le sensazioni di un gatto.

Talvolta capita di aspettare con impazienza parole che già si sa quali saranno e di temere tuttavia il momento in cui si abbatte­ranno contro la nostra mente come un’onda di marea, lasciando­ci senza neppure una fragile zattera a cui aggrapparsi.

— Alludi all’impressione che quel Bellamy fosse uno squili­brato? — disse papà. — Certo. Anderson aveva ragione di pen­sarlo. Continuava a soffiare, e poi lo prese per il braccio arti­gliandogli il polso. Anderson si arrotolò la manica e mi fece ve­dere i segni quando mi raccontò l’episodio. Si comportava pro­prio come un animale infuriato.

Un animale infuriato! Che cosa sarei diventato io, se Helen Martin non…

La stanza tornò a vorticare e io non riuscii a sentire quel che papà stava dicendo. Non ero pronto a ricevere la spiegazione che temevo, e provai un gran sollievo quando lo udii pronunciare pa­role che mi rassicurarono un po’.

— Lo interrogarono più tardi, dopo averlo chiuso in cella, quando ormai si era calmato. Rispose a tutte le domande di Anderson. Ha venticinque anni e vive in Bretan Street con sua ma­dre, che è vedova. C’era un cronista del News in carcere, e Anderson era talmente sconvolto che non si rese conto di parlare troppo. — Papà tacque per un istante, e quando proseguì aveva un’espressione turbata. — Hai mai visto un gatto camminare, Bobby? — mi chiese. — Dico… camminare eretto, come un uo­mo, e agitare freneticamente le zampe anteriori? Io no di certo, e quel che Anderson credette di aver visto poteva anche essere una cosa diversa. Mi disse che il gatto sbucò all’improvviso da dietro una macchina parcheggiata lungo il viale, e avanzò verso di lui agitando la testa. Incespicò una volta, e sembrava che avesse una gran fretta di raggiungere lo sceriffo prima che Bellamy gli cavas­se gli occhi.

— Come puoi essere sicuro che i movimenti del gatto fossero umani? — dissi io. — C’è una bella differenza fra le dimensioni di un gatto e quelle di un uomo, e mi sembra difficile giudicare. Forse il gatto era spaventato e correva come se avesse preso una scossa elettrica. Capita, a volte, che i gatti si comportino così sen­za motivo. Sono bestie strane.

— Lo so — disse papà. — La tua è un’osservazione acuta, Bob­by. Forse anche Anderson la pensò allo stesso modo, sulle prime. Ma poi il gatto gli afferrò le mani con le zampe anteriori, cercando di trascinarlo. Tieni presente che ti sto raccontando quello che mi ha detto Anderson. Gli strinse forte il polso, non tanto però da graffiarlo, e continuava a tirare. Aveva le orecchie appiattite ed emetteva dei suoni apparentemente umani. Lo sceriffo ebbe l’im­pressione che volesse dirgli qualcosa… Dio solo sa cosa.

— Forse di lasciar stare Bellamy, perché non c’è niente di più pericoloso di un’interferenza esterna quando sta succedendo qualcosa di soprannaturale — ribattei io, per subito pentirmene.

Papà mi guardò con aria incredula: l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era una mia presa di posizione in favore di Anderson. — Parli come se credessi sul serio alla storia dello sceriffo! — esclamò.

Questo era esattamente ciò che volevo fargli pensare. Per evi­tare che si avvicinasse troppo alla verità, mi affrettai a dire: — Poco fa dicevi alla mamma che secondo te Anderson non menti­va. Per azzuffarsi con Bellamy e pensare che il gatto volesse farlo smettere, lo sceriffo doveva essere piuttosto sottosopra, e tutta la scena deve essergli parsa spaventosa e soprannaturale.

— Hai ragione — disse papà. — Però, su questo punto era piuttosto vago, forse perché quel che accadde poi fu ancora più incredibile. Ricorda: io non faccio che ripetere le sue parole. Per un momento, perdette completamente la testa e tirò un calcio al gatto facendolo volare attraverso tutto il marciapiede. Era spa­ventato, come lo sarebbe stato chiunque al suo posto. La bestiola gli si era aggrappata al polso e lui pensava che fosse impazzita e quindi pericolosa, specie in quel momento, poi, in cui doveva te­nere a bada anche un uomo fuori di sé… Il calcio sistemò il gatto che, riavutosi, scappò come un fulmine e si nascose in un garage vicino. Non appena fu scomparso, Bellamy si calmò completa­mente. Si mise a fissare lo sceriffo con aria stupefatta come se si fosse appena svegliato da un incubo. Con una smorfia di dolore si appoggiò alla vetrina, coprendosi la faccia con le mani. Ander­son dice che tremava tutto e borbottava delle parole strane: “Fuori dal mio corpo” diceva. “Oh Dio… come?”

Io commisi l’errore di prendere un cucchiaino e di rimetterlo a posto, ma per fortuna papà non si accorse che mi tremava la mano.

— Sei sicuro che disse proprio così, papà? Non aggiunse altro?

— No, se non più tardi quando Anderson pensò di aver sba­gliato arrestandolo, perché non ci si guadagnava niente a tenerlo chiuso in una cella.

Dall’aria accigliata di papà, capii che lo sceriffo era rimasto po­co soddisfatto di quello che Bellamy gli aveva detto.

Ma questo non diminuì la mia curiosità. — Chissà che spiega­zione complicata avrà dovuto tirar fuori! — esclamai. — Era lo­gica?

— Rispose a tutte le domande di Anderson — disse papà — ma non spiegò niente.

— Com’è possibile?

— Grazie all’alibi più antico e più valido che si possa trovare. Disse di non ricordare d’essere venuto alle mani con lo sceriffo. Non ricordava nemmeno il gatto, né perché si fosse fermato a guardare la vetrina. Una cosa inspiegabile… e una completa per­dita della memoria. — A questo punto papà scosse la testa. — Un’amnesia che duri settimane o mesi è difficile da simulare. Ma quando deve coprire un periodo di un’ora o poco più, immedia­tamente prima dello shock, la si può simulare in modo perfetto, pur di stare attenti a rispondere con prudenza alle domande. Po­vero sceriffo Anderson! Dovette vedersela anche con la madre del giovanotto, che arrivò come una furia, pronta, se necessario, a fargli ottenere la libertà provvisoria, e decisa comunque a far uscire immediatamente il figlio. La madre disse che crisi simili si erano già verificate due volte e che il minimo che Anderson avrebbe dovuto fare sarebbe stato di trattare Bellamy con genti­lezza e rispetto e di accompagnarlo a casa. Un neurologo le ave­va spiegato che la cosa non era grave; che forse il ragazzo aveva studiato troppo. Fra qualche mese si laureerà in medicina e se un ignorante di sceriffo non sapeva il suo dovere e si comportava co­me uno stupido — uno stupido oltretutto insensibile, in quella cir­costanza specifica — tutto il mondo accademico sarebbe insorto per dargli quel che meritava.

Io ero molto più scosso di quanto volevo che papà sospettasse e ricorsi alla prima scusa che mi venne in mente per cambiare di­scorso.

— Non capisco perché il News-Chronicle abbia pubblicato una simile storia, papà — dissi. — È un giornale del Partito riformista e nelle ultime elezioni ha sostenuto lo sceriffo Anderson. Perché esporlo al ridicolo?

Papà abboccò come prevedevo. Un’esca politica, sociale, o economica, non manca mai di attirarlo, bandendo dalla sua men­te qualunque altro pensiero. Immediatamente si mise a vivisezio­nare il giornalismo moderno con tutti i suoi aspetti buoni, cattivi e innocui.

— Bobby, nonostante la tua intelligenza, a volte mi stupisci — disse. — Come puoi essere così ingenuo? Cosa credi che ne sa­rebbe della tiratura di un qualunque giornale se si attenesse solo alle notizie attendibili? L’articolo di fondo è una cosa, la cronaca un’altra. In effetti…

Avrei potuto smettere di discutere, a quel punto. Erano quasi le nove, ma avevo la testa in subbuglio perché sapevo che Bella­my, uscendo di prigione, aveva tenuto per sé un mucchio di cose che io avrei voluto tanto sapere.

Forse al News-Chronicle non avevano l’indirizzo di Bellamy, tuttavia non mi sarebbe stato difficile procurarmelo. Per il momento volevo solo addormentare gli eventuali sospetti di mio pa­dre. Mi chiesi che cosa avrei potuto dire per convincerlo che non pensavo più al suo colloquio con Anderson, o che per lo meno lo giudicavo meno importante dell’aderenza — o della mancanza di essa — a una linea politica da parte del giornale nel procurare le notizie. Trovai la risposta senza fatica e, soppesatala, la giudicai valida.

— Se la notizia ha un valore reale — dissi — nessun giornale può ignorarla. Ma, dopotutto, è facile conformare una notizia al­l’orientamento politico del giornale. Per riuscirci, basta esporre le cose in modo che quanto è sfavorevole alle persone del pro­prio partito passi in seconda linea, e lo si attribuisca, magari, al­l’opinione di qualche esaltato. Così, può sembrare sciocco, e la persona di cui si parla merita comunque rispetto e ammirazione.

— Adesso esageri! — disse papà. — Come puoi solo pen­sare…

Mamma uscì dalla cucina prima che potesse finire, e io emisi un sospirone di sollievo.

— È mai possibile che vi comportiate così? — esclamò guar­dando l’orologio. — Sono proprio molto arrabbiata, Roger. Dico sul serio. Fai apposta per farlo arrivare tardi a scuola.

Con mia gran meraviglia, papà assunse un’aria colpevole. Non avevo mai visto mamma tanto arrabbiata, e immagino che lui sa­pesse che aveva ragione di esserlo.

— D’accordo — disse, alzandosi e raccogliendo le sue pagine del giornale che erano cadute per terra. — Abbiamo avuto una piccola discussione e non mi ero accorto che si faceva tardi. Non ti preoccupare… arriverà in tempo.

— Mi preoccupo, e tu lo sai — disse la mamma. — È molto importante che non faccia assenze. Quest’anno non ne ha fatta ancora una e non è mai arrivato tardi.

— Cosa importerà, fra vent’anni? — sospirò papà.

— Che modo di parlare! Come puoi essere così cinico nei ri­guardi di tuo figlio? Pensa se un tuo impiegato sparisse con un milione di dollari. Diresti che fra vent’anni al comitato di presi­denza della banca non importerebbe più niente.

— Non gliene importerebbe nemmeno adesso — disse papà — dato che la banca è assicurata.

— Ma qualcuno ci rimetterebbe — insisté mamma. — Qualcu­no ne soffrirebbe. Se si trattasse di azioni negoziabili, cosa ne sarebbe dei dividendi? Gli azionisti ne sarebbero danneggiati! Tut­to quel che si fa o si manca di fare mette in moto una catena di conseguenze per cui qualcuno finisce col pagare. Se Bobby sta­mattina arrivasse tardi a scuola per colpa tua…

— Va bene, va bene! — tagliò corto papà. — Mi hai messo a posto come si deve.

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