2 Bobby Jackson

In una grande città come Lakeview gli avvenimenti non si colle­gano l’uno all’altro. Non c’è una trafila, nel pettegolezzo, che si possa seguire, risalendola, da vicino a vicino di casa. Si può co­minciare da qualsiasi parte, ma bisogna muoversi in fretta se si ha intenzione di raccogliere tutte le prove prima che le lacune della memoria ci facciano sfuggire qualche particolare importante dan­do l’impressione di non aver fatto tutto quel che avremmo potuto fare.

Per prima cosa feci qualche indagine all’ufficio postale, in tre o quattro negozi, alla biblioteca e all’Athletic Club. Dappertutto, insomma, dove il “figlio del banchiere” poteva contare di trovare un’accoglienza rispettosa da parte degli adulti. Lasciamo da par­te il Q.I. 150. In questi casi può essere d’impiccio, controbilan­ciato però, egregiamente, dall’essere “figlio del banchiere”.

A volte mi capitò di ascoltare commenti come: “È un ragazzino sveglio. Ascolta senza interrompere e ha una parola gentile per tutti. È intelligente, sì, ma non cerca mai di sbalordire la gen­te come si sentono in dovere di fare tanti bambini prodigio. Sì, è proprio a posto. Mi dicono che sia molto popolare a scuola. Un grande piccolo atleta, non uno di quei saputelli col naso sempre sui libri”.

Avrei avuto delle riserve da fare su quel tipo di complimenti, ma stetti sempre ben attento a non farlo capire.

Le mie indagini dettero dei risultati. Devo ammettere però, per dire la verità, che allora non sapevo nemmeno io quali infor­mazioni stessi cercando. In un certo senso, brancolando nel buio recitavo a soggetto.

Non sorridete. Questo è il modo migliore di recitare quando si è profondamente convinti di avere inciampato in qualcosa di grosso.

Feci fiasco completo in circa metà dei posti dove recitai la par­te del ragazzetto sveglio che cerca di sapere tutto il possibile sul conto di gente nuova del posto, come i Martin. Feci tutto il possi­bile perché la mia sembrasse solo curiosità infantile, e non c’è ra­gazzo al mondo che, ogni tanto, non manifesti un tipo di curiosità del genere. Volendola analizzare appare inspiegabile. Ma è ac­cettata per il semplice fatto che in ogni uomo si nasconde un bambino, e la curiosità pettegola costituisce una specie assai dif­fusa di passatempo.

In metà di quei posti, dunque, non feci progressi; in un altro quaranta per cento ottenni delle informazioni banali che non vale la pena di trascrivere. Ma alla fine riuscii a ricavare qualcosa. In­nanzitutto il vechio e loquace signor Donigan delle Ferramenta e Chincaglierie “Acme”. Sì, il signor Martin c’era stato due volte. Cos’aveva comprato? Niente di speciale. Un tubetto di colla attaccatutto e un martello di media grandezza. Ha parlato anche con altri? Sì, certo. Specialmente con Will Sanders. Sanders se ne stava curvo sul banco a rimirare con aria vogliosa un temperi­no laccato di rosso — uno di quelli che hanno un mucchio di lame quando Martin era entrato nel negozio e gli si era avvicinato con una parola di scusa, pregandolo di farsi un po’ in là perché voleva ammirare anche lui il temperino.

Ora, Will Sanders era un tipo. Tanto per dirne una, portava sempre camicie di flanella, e sembrava uno di quei proprietari di bazar di cinquant’anni fa. Se ne incontrano ancora, di tipi simili, nelle cittadine, specie in quelle del sud, ma in una città industria­le abbastanza sviluppata sono praticamente estinti come i dino­sauri. Non appartiene all’America televisiva dei nostri giorni. Sotto molti aspetti era un relitto, un simpatico vecchio squinter­nato. Viveva tutto solo in una baracca da eremita alla periferia e, per tirare a campare, allevava galline livornesi. Che ci crediate o no, suo nonno aveva conosciuto Custer e per un pelo non era sta­to a Little Big Horn.

Martin e Sanders avevano parlato per una decina di minuti e poi se n’erano andati insieme, continuando a parlare come vecchi commilitoni a un raduno di veterani.

Altro? No… Niente di speciale, ma lo trascrissi sul mio libricino nero perché mi sembrava importante. Ecco quello che sco­prii a proposito di Martin in altri cinque posti. Gli piaceva par­lare con la gente… con qualsiasi tipo di persona. Ma ogni indi­geno a cui rivolse la parola era un tipo a sé, con delle caratteri­stiche che lo facevano spiccare sugli altri. Li elencherò in fretta. Fred Halstrom, meccanico di garage fino alla punta dei capelli: il tipo che guarda dentro al motore delle macchine con aria ra­pita, quasi che nelle sue vene scorresse fuoco ardente di benzina succhiata da tutte le auto che avesse riparato. I motori erano tutto per lui.

C’era Samuel Thompson, professore di ginnastica della scuola superiore di Lakeview: tipico americano idolo dei giovani in ma­glione e calzoni da ginnastica che sperano di entrare a far parte di qualche Lega Universitaria e che sono sicuri di riuscire a laurear­si a Princeton o a Yale. Sapeva giocare a polo, nuotare, battere un record di pista e segnare un goal meglio di chiunque altro ab­bia mai conosciuto.

Seguiva, sulla lista, Clifford Andrews. Clifford era un topo di biblioteca, quel tipo di persona che impara, si può dire, per pro­fessione, non tanto per ampliare le sue cognizioni, quanto perché imparare lo eccita. Direte che come vocazione non è certo molto eccitante, ma in fondo anche i cirripedi e i tarli hanno diritto ai loro momenti di estasi.

E poi Theodore Murch, impiegato nella banca di mio padre. Ovvero la versione cittadina dell’uomo vestito di grigio delle me­tropoli. No, cancellate questa limitazione geografica. Incontran­dolo alla stazione della metropolitana di Wall Street, a New York, lo si sarebbe preso per un giovane impiegato di un’agenzia di cambio.

Per finire, gli ultimi due: Jack Seaton e Stanley Webb. Cittadi­ni medi… medi in tutto… fino all’eccesso. La loro normalità era di quel tipo che salta agli occhi e fa pensare a quello che dice Orwell nella Fattoria degli Animali: “Tutti gli esseri sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”.


Tornai a casa alle cinque del pomeriggio e salii direttamente in camera mia. Mamma mi chiamò dal soggiorno, e poiché non ri­sposi alzò la voce di un paio di ottave.

— Sei tu, Bobby? Dove sei stato tutto il pomeriggio?

È un tipo d’interrogatorio, questo, che può essere scocciante qualora si facciano delle concessioni a talune limitazioni fonda­mentali. Ma mia madre ha un buon carattere e mi vergognai di me quasi immediatamente.

Mi fermai sul pianerottolo, e risposi. — Ho incontrato Freddy Jason davanti alla biblioteca, e abbiamo bevuto un paio di gazzose.

— Gazzose? Tutto il pomeriggio? Ma, Bobby…

Entrai in camera mia, chiusi la porta, e dopo aver fatto un po’ di palleggio, andai a guardarmi nello specchio. Fui soddisfatto di quello che vidi. Ho il mento volitivo e non devo irrigidire la ma­scella perché lo si noti. Tutte le volte che mi guardo allo specchio ne prendo atto.

Poi mi sedetti sul letto a pensare. Il quadro stava diventando sempre più chiaro, e la verità mi balenò così viva che mi parve che tutta la stanza ne fosse illuminata.

“Ci stanno studiando” pensai. “Sono qui come osservatori. Stanno cercando di scoprire tutto quello che possono sulla razza umana. Studiano uomini e donne con spiccate caratteristiche in­dividuali, insomma i tipi speciali. Hanno intuito che gli uomini e le donne di questo tipo possiedono, in grado elevato, tutte le li­mitazioni, le risorse e le energie costruttive che hanno reso la vita dell’Uomo sulla Terra un paradosso e un mistero anche per l’uo­mo stesso”.

Studiarci sarebbe come… be’, come osservare una mosca della frutta che ha subito qualche mutamento pur restando sempre una mosca della frutta. Il fatto di per sé che questa particolare mosca sia un po’ diversa, fa di lei un ideale esemplare da laboratorio. Partendo dal presupposto che l’osservatore sia dotato di intelli­genza e intuito eccezionali, l’esame di questo insetto potrebbe ri­sultare molto più soddisfacente e fornire molte più informazioni sulle mosche in genere che non un qualunque altro esemplare preso a caso. Infine: dal particolare al generale.

Forse la verità mi sfuggiva e le mie erano supposizioni erronee. Comunque, mi persuasi che dovevo tornare dai Martin. Non ave­vo quasi più dubbi, ormai, ma mi occorreva una prova sicura. Il pericolo era gravissimo. Dovevo tornare presto da loro, altri­menti quello che era capitato a me poteva succedere anche a qualcun altro. Un uomo deve affrontare le sue responsabilità, e questo vale anche per un ragazzo. Per un ragazzo, in special mo­do, che si è imbattuto in cose strane che non può ignorare anche perché ci deve vivere accanto. Finché i Martin non venivano smascherati, tutta Lakeview era in pericolo, tutta l’America… e il mio pensiero si ferma qui, perché la paura è troppa. Non posso aspettare che una Lakeview in preda al panico prenda le misure necessarie. Se questo avviene, quando avviene, può essere trop­po tardi. E come si può mettere in allarme la città se io non ho prove per suffragare quella che senza dubbio può sembrare la più pazzesca e improbabile delle storie?

Di una cosa sola ero sicuro. Helen Martin aveva fatto qualcosa alla struttura fondamentale della mia mente, qualcosa che mi aveva fatto dubitare della mia identità e mi aveva convinto di es­sere un gatto. Per un terribile istante io ero diventato il gatto del­la signora Parker e, attraverso la pupilla dilatata dei suoi occhi, avevo fissato un ragazzo che non ero più io.

Gli antropologi dicono che l’uomo primitivo era davvero con­vinto di trovarsi contemporaneamente in più luoghi. Non posse­deva il senso del tempo quale lo concepiamo noi. L’uomo primiti­vo poteva pensare a se stesso come vivente nel medesimo istante sia passato sia presente. Forse non nel futuro, ma questo solo perché la sua capacità di fantasia non era sufficientemente svilup­pata per dargli la possibilità di pensare al futuro in termini con­creti. Spazio e tempo, tuttavia, non imponevano restrizioni alla sua mente, ed egli era sicuro di potersi recare ovunque contemporaneamente, così come noi siamo sicuri che i tramonti sono spesso rossi e che prima di morire conosceremo il dolore e la sof­ferenza.

Inoltre, e questo è l’aspetto più importante, l’uomo primitivo era fermamente convinto di poter essere nello stesso tempo uma­no e animale. Naturalmente non era possibile, e anche lui doveva esserne oscuramente consapevole. Ma la sua convinzione — o su­perstizione se preferite — era talmente forte in lui che la sua con­cezione della vita doveva essere davvero straordinaria.

Ma se l’identificarsi con ogni parte dell’universo fisico non era solo un tendere alla fantasia? Se invece si fosse trattato di una fa­coltà, una guida comune a tutto il genere umano, sopita e sepolta nell’uomo moderno dalla corazza d’acciaio della civiltà?

Supponete, per un solo minuto, che questa facoltà, per quanto sopita e nascosta, sepolta, ci sia vera e reale nella maggior parte di noi e che possa essere ridestata, scossa, eccitata, da un certo genere di sonda mentale. Ebbene, in questo caso, non c’è il mini­mo dubbio che lo spietato esame di Helen Martin abbia agito co­me sonda nel mio cervello risvegliando quella facoltà. Come ciò sia avvenuto lo ignoro, ma era avvenuto.

È difficile esaminare anche i piccoli animali da laboratorio e sottoporli ad alcuni test preliminari senza sconvolgerli un poco. I topolini bianchi, durante i test sperimentali, si riducono sovente a un ammasso di nervi tremanti. Anche i microrganismi sui vetri­ni si comportano — com’è stato provato — in modo strano, quasi avvertissero su di loro il vento gelido dell’ignoto.

Mi alzai e girai gli occhi intorno alla stanza. La maggior parte della gente l’avrebbe giudicata una normalissima camera da ra­gazzo, e del resto a me sarebbe spiaciuto se l’avessero giudicata in modo diverso. È la stanza di un ragazzo, di un quattordicenne. Con le cose giuste che piacciono ai quattordicenni e quindi piac­ciono anche a me perché sono e voglio essere un ragazzo di quat­tordici anni: anche se spesso mi sento diverso dai miei coetanei.

Appesa al muro c’è una mia fotografia, scattata quando avevo dodici anni, alla partenza della finale delle gare di corsa piana ju­nior; e un’altra, più piccola, dei miei genitori che remano sul la­go, scattata da me, sulla spiaggia, con una decrepita Hawkeye Brownie. Poi una libellula sudamericana grande quanto la mia mano, montata su cotone, sottovetro. Tre bandierine universitarie e una di una squadra di baseball. Sulla mensola, una gran coppa d’argento vinta al golf da papà e, su un tavolo vicino alla fine­stra, un guanto da baseball e una maschera a gabbia da “catcher”. Vicino all’armadio c’è anche una “pera” da pugilato.

Stavo appunto avviandomi per tirare qualche pugno alla “pe­ra”, quando mi tornarono in mente i Martin e mi sentii correre giù per la schiena un brivido gelido. Una premonizione, che mi invitava a far presto. Dovevo scoprire altre cose prima che fosse troppo tardi.

Non parlai molto a cena, mentre mamma serviva carne fredda e un’insalata di cetrioli e lattuga, insieme a un bicchiere di latte per me e a un cocktail Manhattan per papà. Prima del pasto sera­le, a papà piace bere una bevanda robusta, che gli tira su il mora­le per tutto il pasto. Diventa più calmo e gentile, il che per me va benone. Parla di cose che m’interessano, e non del suo lavoro quotidiano.

Caso mai v’interessi, non ho alcun complesso freudiano nei confronti di mio padre. Lo considero molto in gamba. È il tipo del professore universitario che coltiva grandi sogni e ha l’abilità di saper scegliere e ottenere il meglio dalla vita. Ma a causa del suo profondo senso di responsabilità sociale ha finito col dedicar­si agli affari bancari, il che, del resto, per mamma e per me va be­nissimo.

Non aprii bocca finché il pasto non fu quasi terminato, ma al­lora fui costretto a parlare. Papà fece esplodere una bomba. An­che lui si era vagamente interessato ai Martin, e, di punto in bianco, dichiarò:

— C’è qualcosa di strano in quel Martin.

— Che cosa, papà? — non potei fare a meno di chiedere.

— Ecco, qualche volta si comporta in modo davvero singolare. Si avvicina alla gente e fa domande sul loro lavoro, sui loro inte­ressi.

— Dici delle sciocchezze, Roger — intervenne la mamma. — Hai dimenticato che i Martin si sono installati da poco in casa Oakham. Tu invece sei nato a Lakeview. Non hai mai dovuto lot­tare contro la resistenza dei bramini locali. I Martin si sono inse­riti in un ambiente in cui quasi tutti quelli che possiedono una ca­sa sono sospettosi e pieni di sussiego coi nuovi venuti. Probabil­mente cercano solo di mostrarsi cordiali e di abbattere qualche barriera. Il miglior modo per farsi degli amici è di parlare alla gente dei problemi che li interessano.

— Non si tratta solo dei bramini locali — disse papà. — Anche se, a voler esser giusti, non sono come li descrivi tu. Una quaran­tina d’anni fa vivevano qui molte vecchie famiglie, ma quasi tutti i loro componenti adesso sono nella tomba, compresi gli Oakham. Qualche famiglia si è arricchita e si è trasferita in zone con pascoli più floridi. Ma per tornare ai Martin, al signor Martin in particolare… ebbene, ciò che mi colpisce è la sua infernale curio­sità nei riguardi di tutti, non solo dei vicini.

— Anche nei tuoi, Roger?

Papà scosse la testa. — No, ha parlato con me solo una volta, qualche giorno fa, quando è venuto in banca per aprire un conto. In quell’occasione si è comportato in modo molto educato e for­male. Anzi, ti dirò che ho avuto l’impressione che facesse di tutto per sembrare il meno invadente possibile. È sempre molto cor­diale e gentile, ma qualche volta assume un’espressione strana, così mi hanno detto, e l’ho notata anch’io. Ha degli occhi gelidi, celeste-chiarissimo, che sembrano trapassarti da parte a parte.

— L’ho notato anch’io, papà — intervenni.

Lui mi guardò con aria di rimprovero come se una dichiarazio­ne tanto precipitosa di accordo fosse infantile e indegna di me, come infatti era. Papà mi conosceva molto bene. Si accorgeva sempre quando io cercavo di sapere qualche cosa e, nel tentati­vo, mi dimostravo maldestro.

Provai un approccio. — Papà — dissi.

— Sì, figliolo?

— Credi davvero che lavori in un ufficio in città? Mi sembra strano che nessuno l’abbia mai visto entrare o uscire da un uffi­cio.

— Non saprei — rispose papà. — Quando ha aperto il conto ha dato solo l’indirizzo di casa Oakham. Non è necessario dare referenze di affari, quando si apre un conto in banca. Per lo me­no non è obbligatorio, qualora sia possibile dare altre informa­zioni sul proprio conto. Il modulo da compilare per aprire un conto è semplice come l’ABC. Bisogna scrivere il nome dei geni­tori, l’indirizzo e firmare. Trattandosi di un conto corrente fac­ciamo poche domande relative alle possibilità finanziarie del ri­chiedente, al fatto se ha conti presso altre banche, eccetera. E se è in grado di dare un indirizzo d’affari e un paio di referenze, tan­to meglio. Ma non insistiamo per avere il suo indirizzo di lavoro.

— Ha aperto un conto corrente? — chiesi.

— Sì, e abbastanza cospicuo. Un grosso deposito è indizio di per se stesso di una solidità finanziaria e noi riteniamo per garan­tito che chiunque depositi una grossa somma in banca non se la sia procurata in modo disonesto. Una banca non è l’ufficio dello sceriffo.

— Ha depositi anche in altre banche? — insistetti.

Papà si accigliò e mi guardò insospettito. — Bobby, cosa c’è? — Mi stai sottoponendo a un interrogatorio. Perché?

— Niente, papà. Non è importante.

— Non capisco nemmeno perché debba interessarti. Ma, se vuoi proprio saperlo, aveva depositi in due banche di Midland Beach, dove ha vissuto per tre o quattro anni prima di venire qui. Ma io non ho alcuna intenzione di prendere l’autobus per andare a Midland a chiedere informazioni sul suo conto. Il signor Plummer è mio amico e non mi sembra il caso di far venire a un colle­ga direttore di banca l’idea che sono un po’ matto. Lo stesso dica­si per il signor Streeter della Midland Risparmi e Prestiti.

Papà cominciava a innervosirsi e perciò avrei fatto meglio a la­sciar perdere. Invece continuai imperterrito.

— Perché non l’hai messo con le spalle al muro quando ha aperto il conto? — chiesi. — Non avresti potuto chiedergli che la­voro fa?

— Non ne ho avuto l’occasione. È stato Murch a trattare con lui. Ricorda solo di avergli fatto riempire il modulo e del collo­quio non ricorda un cavolo.

— Ti prego, Roger — disse la mamma. — Devi proprio parla­re così davanti a Bobby?

— Sì, devo. Altrimenti non mi rispetterebbe. Sa che mi sta fa­cendo un sacco di domande balorde per nessun motivo se non perché mi è capitato di dire che nel contegno di Martin c’è qual­cosa che ha risvegliato la mia curiosità. Non è vero, figliolo?

— Sicuro — risposi. — Papà è un essere umano, mamma. Co­sa diavolo…

Mamma si affrettò a distogliere lo sguardo, perché non trovava divertente quel che dicevo e probabilmente non lo era. Ma dove­vo difendere il diritto di papà di ricorrere a qualche parola un po’ forte quando le circostanze lo richiedevano. Era anche un mio di­ritto.

E poi condividevo le sensazioni di papà. La stranezza, la fred­dezza di Martin, la sua completa diversità dagli altri abitanti di Lakewìev. Anzi, la mia sensazione era molto più profonda, a causa di ciò che sapevo. Mi ero dondolato su un cancello, ero sta­to invitato a bere una limonata ghiacciata ed ero precipitato in una specie di viaggio piuttosto sgradevole e quantomeno strano, diverso. Infine, se c’era del mistero nei Martin, la chiave per sco­prirlo era sicuramente più vicina a me che non a papà.

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