Frank Belknap Long In una piccola città

1 Bobby Jackson

Fu una scoperta spaventosa. L’uomo e la donna che abitavano nella casa di Jonathan Oakham non erano umani. Non chiedete­mi come ho fatto ad accorgermene. Ci sono cose che non si pos­sono spiegare né analizzare. Come capita a quasi tutti, io vivo qualche volta in un mio mondo privato, e non manco mai di al­larmarmi quando qualcosa di decisamente storto scuote questo mondo come un sisma di ottavo grado.

D’accordo, ho solamente quattordici anni. Ma sono un ragaz­zo in gamba. Dicono che ho un quoziente di intelligenza di circa 150, e io me ne accontento, anche se il quoziente d’intelligenza del genio può arrivare a venti punti di più. Un ragazzo con un quoziente d’intelligenza come il mio riesce a tenere nascosto quasi tutto quello che sa, mentre quelli da 170 sono come bam­bini smarriti nel bosco. La spinta del genio che è in loro può es­sere troppo forte. Allungano troppo il collo in un’età ancora im­matura e… sapete come dice quel vecchio adagio: “Se non stai attento, i folletti ti pigleranno”. Al termine folletti, sostituite “cittadini medi”.

Ma torniamo alla coppia di casa Oakham. Si installarono in quel decrepito mausoleo ricoperto d’edera senza dare nell’oc­chio, senza bizzarrie o altro che dessero adito a commenti da par­te dei cittadini.

Cominciarono con lo scegliersi i nomi adatti: signore e signora Martin. Come tutti gli ornitologi sanno, il Martin è una rondine grigia priva di caratteristiche che attirino l’attenzione. Mi sembra di sentire i commenti dei vicini: con un nome simile, lui deve oc­cuparsi di immobili o qualcosa del genere; anche se è ricco, di si­curo non si dà arie; forse ha un figlio o una figlia all’università, da qualche parte, è uno che per i suoi figli vuole il meglio; niente au­to grosse e costose, anche se forse se le potrebbe permettere, e neppure macchinette tipo Jaguar, né locali pretenziosi o sbornie nelle osterie. Lo si capisce subito.

A prima vista Thomas Martin sembrava più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Ma non so come, la definizione “di mezza età” non gli si attagliava, e fu questo che destò in me i primi sospetti. Helen Martin, in modo particolare, quando la si guardava atten­tamente in piena luce, non sembrava né giovane né vecchia. Sembrava davvero che non avesse età.

Certo, non era un particolare che saltava agli occhi. L’impres­sione però rimaneva, inequivocabile. Era proprio una di quelle cose che probabilmente sarebbero sfuggite a un ragazzo con un quoziente di 170, perché lui avrebbe avuto la tendenza a essere troppa scientifico, troppo analitico.

Non mi resta molto per completare il quadro. Da quanto vi ho detto finora, dovete avere sotto gli occhi, grosso modo, la situa­zione. Vi sarete ormai fatti un’idea generale: finalmente nuovi inquilini nella vecchia casa Oakham, un furgone da traslochi che viene scaricato, un sorriso e una carezza al bambino curioso che sta a guardare. Poi, con qualche altro rapido tratto di matita, un conto corrente aperto alla Second National Bank, una capatina all’emporio alimentare più vicino, con il signor Martin che dice: “Oh, sì, lei deve essere la signora Parker, la nostra vicina. Ce l’ha detto l’agente immobiliare…”. Sorrisi e cenni circolari. “Non è una bella cosa? Mia moglie ha pensato che per stasera basteran­no un po’ di burro, latte e uova. Domani avremo tempo di fare tutte le altre spese”.

Poi, per una quindicina di giorni, tutto fila liscio. Conoscono altri vicini, non fanno niente di strano, si rendono simpatici senza mostrarsi invadenti. Stanno bene attenti a non creare possibili at­triti, a non fare niente che possa attirare l’attenzione.

Thomas Martin va al lavoro tutte le mattine con una cartella sotto il braccio, la signora Martin è indaffarata in cucina, o è in cortile a stendere il bucato. Sorrisi ai bambini e ai garzoni dei for­nitori.

E mai possibile che in una piccola città uno riesca a tenere segreto il proprio lavoro? Ci sarebbe da meravigliarsi se fosse così. Certo, per un paio di mesi può anche farlo. “Dove lavora il si­gnor Martin?” “In Cherry Street, mi pare. Non parla molto del suo lavoro”.

“Be’, certo non tutti ci comportiamo così. Ma sembra che lui sia contrario a mescolare gli affari con la famiglia. Cosa c’è di strano?”

Questo, a grandi linee, il quadro… finché entro in scena io.

Se volete, potete immaginarmi, all’inizio, affacciato alla corni­ce del quadro. Cominciai a insospettirmi il giorno stesso del loro arrivo, ma le anomalie rimasero per un po’ soltanto lievi sfuma­ture, finché non notai qua e là alcune piccole bizzarrie di com­portamento.

La signora Martin che fissa un cestino di pomodori al supermercato, per esempio, come se non ne avesse mai visti in vita sua. Li prende, li tasta, sbaglia nel giudicarne il peso. Gli occhi si spalancano per lo stupore quando, avendone fatto cadere uno, lo vede spappolarsi.

E un altro incidente, più notevole. Thomas Martin che cammi­na per strada alle nove del mattino e fa un balzo, con espressione atterrita, vedendo una macchina lontana qualche metro dal mar­ciapiede. È al sicuro, sul marciapiede, eppure si comporta come se al volante ci fosse un pazzo omicida: diventa pallido e stringe la cartella al petto.

Poi il gatto che si spaventò. Era il gatto della signora Parker. Lei lo chiamava Zucchero. Nessuno sapeva il perché, dato che aveva un carattere aggressivo. Era capace di mettersi a battaglia­re con quegli enormi cani, simili a lupi selvatici, che si vedono ogni tanto in giro. Se possedete un lupo nero e vi ci affezionate, magari cercate di farlo passare per un cane. Ecco, lui si azzuffa­va, proprio con quel genere di cani.

Zucchero era indubbiamente un gatto, ma aveva qualcosa di tigresco. Niente era dolce, in lui, a parte il nome. Era una piccola furia sibilante, tutta artigli. Ma avreste dovuto vederlo sulla siepe a cercare di tenere lontana la signora Martin, gli occhi folli di ter­rore, il pelo tutto irto. Continuò a tenere gli occhi fissi e dilatati anche quando la signora Parker lo chiamò dalla sua parte della siepe.

Il rifiuto di accostarsi alla signora Martin, se non a distanza di sicurezza, era così poco consono al suo carattere, che la signora Parker si sentì in obbligo di chiedere scusa alla vicina per il curio­so comportamento della bestia.

— Non capisco cos’abbia Zucchero stamattina. Di solito è così socievole! — (Socievole come uno scorpione su una piastra di lat­ta incandescente!)

Ci sarebbero anche altre cose, ma è ora che v’immaginiate di vedermi scendere dalla collina (la cornice di cui parlavo) per en­trare direttamente nel quadro: un ragazzo mica male, con le len­tiggini, gli occhi celesti e i modi affascinanti. Non sono presun­tuoso, sto solo esponendo dei dati di fatto. In effetti non c’è nien­te di più immaturo e presuntuoso della falsa modestia.

Volevo che Helen Martin mi notasse e mi invitasse in casa sua. Così decisi di fare il ragazzo che si dondola sul cancello.

Un momento… so cosa state pensando. Dite che dondolarsi sui cancelli è roba da bambini piccoli, roba che, dopo le elemen­tari, non si fa più. In linea di massima, avete ragione. Ma c’è mo­do e modo di dondolarsi, e ci sono cancelli e cancelli… tanto che io ho conosciuto degli uomini che lo facevano.

Dovete sapere che casa Oakham aveva un cancello enorme, arrugginito, che oscillava con estrema facilità… un vero pezzo d’antiquariato. Anche uno studente dell’ultimo anno delle supe­riori che si trovasse a non avere altro da fare, passando di lì, avrebbe provato la tentazione di dondolarsi su quel cancello. Magari, solo per il gusto di farlo.

Era il cancello adatto a un uomo robusto e muscoloso, e mi riusciva facile immaginare Falstaff aggrappato saldamente là, che si dondolava avanti e indietro accompagnandosi con un grido to­nante. Falstaff era un uomo enorme, simpatico, e anch’io ho un’aria simpatica, specie quando sono rilassato e mi diverto. Ero sicuro che sarei sembrato l’innocenza in persona, se mi fossi don­dolato con l’aria più naturale del mondo.

Dovevo solo fare in modo di scegliere il momento adatto, quando Helen Martin si trovava in cortile, e la signora Parker oc­cupata in cucina, o di sopra, intenta a tingersi i capelli o a fare confidenze al suo diabolico gatto. Non potevo fare a meno di pensare che era una fortuna per lei aver sposato un uomo suffi­cientemente ricco da mantenerla anche dopo averla lasciata ve­dova.

Il momento adatto si presentò in un torrido pomeriggio di ago­sto. Non soffiava un filo d’aria, e là in fondo, di fronte al punto dove io avevo cominciato a dondolarmi, c’era la signora Martin, all’ombra di un cespuglio di lillà, che si faceva ombra agli occhi con le mani, e mi guardava.

Di solito, la gente non si fa ombra con tutt’e due le mani. Così facendo, il bagliore viene completamente attenuato, ma è un ge­sto che attira l’attenzione. A meno che non lo si faccia apposta per sembrare originali. Provate e vedrete. Un pollice su ciascuno zigomo, e le altre dita che si incontrano a metà della fronte.

È il modo migliore per difendere gli occhi dal sole, questo è vero, ed Helen Martin si sforzava di fare sempre i gesti che le varie circostanze esigono. Così io l’avevo colta ancora una volta in errore, perché quel gesto non viene spontaneo a nessuno, credetemi.

Rimase a fissarmi così un paio di minuti, prima di incamminar­si sul prato per venirmi incontro. Smisi di dondolarmi e aspettai che si fosse avvicinata abbastanza per parlarmi senza dover gri­dare. In un certo senso, quello fu un momento esaltante per me Mi batteva forte il cuore, e sebbene fosse un gesto sciocco e in­sensato, diedi una pacca al cancello e sorrisi come un ebete.

Sapevo alla lettera quello che m’avrebbe detto.

— Sei Bobby Jackson, vero? — disse. — Il figlio del ban­chiere?

Altro piccolo errore. Avrebbe dovuto dire: “Sei il figlio di Jackson, vero? Ti ho visto ieri in banca, che parlavi con tuo pa­dre” o qualcosa del genere. Quel “figlio del banchiere” seguito dal punto di domanda non suonava bene. Forse sottilizzò troppo, ma… be’, è lo stesso che chiedere: “Sei il figlio del fornaio, ve­ro?” Il fornaio, il ciabattino, il fabbricante di candele. Tutti, in città, hanno un determinato lavoro, come nel Medioevo.

Era proprio il tipo di domanda che un visitatore proveniente da Marte o da Venere, e ignaro del modo di vivere americano del ventesimo secolo, avrebbe ritenuto logica, in quanto la maggior parte delle società più complesse hanno attraversato, storica­mente, lo stadio delle corporazioni medievali d’arti e mestieri.

Ma, naturalmente, non le feci capire che avevo notato il suo errore. Allargai un po’ il sorriso ebete e dissi: — Sì, signora Mar­tin, sono Bobby Jackson. Io… io non volevo dondolarmi così for­te sul cancello.

A questo punto lei sorrise. Il sorriso mi colse di sorpresa per­ché era tanto amichevole e caldo. Un sorriso senza errori. Un sorriso assolutamente umano. Per qualche istante la sua faccia non mi sembrò più strana.

— Avrei dovuto immaginarlo — osservò. — Sei quel tipo di ragazzo che non sa resistere davanti a un cancello come questo. Te lo si legge in faccia.

— Di solito non lo faccio — risposi. — Ma ero curioso di senti­re se cigolava, dondolandomi avanti e indietro, come succede di solito ai cancelli vecchi. E questo è indubbiamente vecchissimo. Arrugginito e molto pittoresco.

Era la risposta giusta… o così almeno speravo. “Pittoresco” è una parola usata raramente dai ragazzi di quattordici anni, ma volevo che mi giudicasse un ragazzo alquanto precoce. Non trop­po, ma sveglio e attento. Diverso dagli altri di quel tanto che ba­stava per destare il suo interesse e farle desiderare di conoscermi meglio.

— Capisco perfettamente — disse. — Non devi scusarti. In verità, quel cancello ha affascinato anche me dal momento che l’ho visto. Sono sicura che anche mio marito ci si dondolereb­be, se non fosse così sciocco da temere di perdere la sua digni­tà. Bobby, vuoi entrare a bere una limonata fresca? Fa molto caldo, oggi.

Formulai una risposta con estrema cura. I ragazzi di quattordi­ci anni non badano troppo al parlare forbito, e usano spesso qualche espressione di gergo. — Signora Martin, mi sfagiolereb­be proprio. Se non è una scocciatura per lei.

— Nessuna scocciatura, Bobby. Ne ho una caraffa già pronta. Mio marito preferisce il vino chiaretto diluito con acqua, ghiaccio e molto zucchero. Ma la limonata è migliore.

Si voltò, e io la seguii dentro casa. L’interno era fresco e spa­zioso. Se l’arredo fosse stato scelto da uno specialista del ramo, non avrebbe potuto far meglio.

La seguii in cucina dove c’era la limonata, dentro una grossa caraffa con un doppio beccuccio.

— Siediti, Bobby — mi disse — mettiti comodo.

Mi sedetti al tavolo di cucina, e lei riempì due bicchieri fino al­l’orlo. Altro errore. Non si riempiono i bicchieri a quel modo, a meno di non essere un po’ nervosi. Ma lei maneggiava la brocca con mani ferme. Il bicchiere era troppo pieno, e nel sollevarlo avrei rovesciato un po’ di limonata, ma, a quanto pare, lei non ci aveva pensato.

Un’idea pazzesca mi balenò nel cervello. Cosa mi avrebbe det­to adesso? “Ecco a te, Bobby”? o “Hai un bruscolo in un oc­chio”?

La sua voce dissolse la ridicola piega che stavano prendendo i miei pensieri. Quando ci si trova in uno stato di tensione, capita di distrarsi e di correre dietro i propri pensieri come si fa quando si ripetono versi privi di senso. Come quelli di “Alice”, per esem­pio. Ma lei stava dicendo: — Non c’è niente che rinfreschi, in una giornata torrida, come una bibita ghiacciata. Non trovi, Bobby?

Annuii, e lei tornò a riempirmi il bicchiere, ancora fino al­l’orlo. Ero di nuovo attentissimo, e non le toglievo gli occhi di dosso un istante.

A questo punto devo confessarvi una cosa che forse vi stupirà anche se non ne vedo il motivo. Qualsiasi psicanalista valga i suoi venti dollari all’ora sa che a tredici o a quattordici anni un ragaz­zo normale comincia a comportarsi come un adulto nei riguardi del sesso. Un ragazzo di quattordici anni non deve avere un quo­ziente d’intelligenza di 150 punti per sentirsi turbato alla vista di una bella donna che gli sta vicino e si muove con grazia.

È un’età in cui si comincia ad accorgersi del sesso, in cui i sensi si svegliano.

Una donna di trenta, trentacinque anni può sembrar quasi vecchia a un ragazzo della mia età, ma il turbamento rimane comunque. E quando Helen Martin mi venne vicino io lo pro­vai così intensamente come se avessi avuto venticinque anni. Avevo la sensazione che lei non avesse intenzione di sedurmi, anzi, non aveva neanche la minima idea di quel che mi stava passando per la testa. Con uno sforzo, dominai il turbamento, perché se quel che sospettavo era vero, e lei non era un essere umano, sarebbe stato pericoloso per me mischiare il sesso alle indagini che volevo approfondire.

Continuai a fissarla, studiando la sua espressione, perché sape­vo quanto fosse importante scoprire cosa mi nascondeva. Se lo spettacolo che avevo dato dondolandomi sul cancello non era riuscito a ingannarla, l’avermi invitato a entrare in casa era stata una mossa molto intelligente da parte sua. L’unico modo per indurmi a parlare liberamente era di convincermi della sua sinceri­tà. Facendomi delle domande in modo amichevole aveva una buona possibilità — così almeno doveva avere pensato — di indurmi ad abbassare la guardia.

Continuai a fissarla, e fu allora che mi resi conto del mio ma­dornale errore: lei stava fissando me.

Non distolse gli occhi dalla mia faccia nemmeno quando solle­vò un’altra volta la caraffa per versarmi un secondo bicchiere di limonata. Io non mi resi conto della potenza ipnotica del suo sguardo fino al momento in cui cercai di distogliere gli occhi, e mi accorsi che non potevo farlo.

Forse, se mi ci fossi messo, sarei riuscito a rompere l’incantesi­mo prima che fosse stato troppo tardi. Ma lei sorrideva annuen­do, col bicchiere alzato, e ci volle ben poco perché la paura che serpeggiava nel mio cervello lanciasse un segnale d’allarme.

Quando il segnale arrivò, i suoi occhi cominciarono a ingran­dirsi aprendosi come enormi petali scuri di un fiore, e io scoprii che non potevo muovere le gambe. Anche le braccia erano iner­ti, appesantite.

I suoi occhi continuarono a diventare sempre più grandi, fin­ché il resto della faccia non fu che una macchia indistinta. Per un istante mi sembrò che riempissero tutta la stanza, diventando sempre più enormi, tanto che mi sentii inghiottire da quell’esame spietato.

Per un attimo lottai perché quegli occhi non infrangessero tut­ta la mia resistenza e demolissero l’unica cosa a cui potevo anco­ra aggrapparmi: la consapevolezza della mia identità. Lottai per non perdermi completamente in quell’immensità di iridi scintil­lanti, per rimanere Robert Jackson, figlio del presidente di una banca, un ragazzo con una sua volontà e una sua intelligenza che era deciso a combattere per rimanere quel che era finché un or­rore inimmaginabile non lo costringesse a rinunciare alla lotta.

Fu una battaglia perduta, perché d’un tratto gli occhi scompar­vero e io mi trovai avvolto in un’enorme distesa blu ondeggiante. Non ero più Robert Jackson. Ero una fragile zattera alla deriva su di un oceano sconfinato. Le correnti mi sospingevano qua e là, e le onde si rompevano contro di me schiacciandomi con il loro tenibile peso e facendomi soffocare.

Poi incominciai ad appesantirmi, ad affondare sotto le onde, molto lentamente. Immense creature d’ombra mi passavano ac­canto veloci: mostri cornuti degli abissi con tentacoli iridescenti che mi si avvicinavano pericolosamente e poi sfrecciavano via con un lungo fruscio strascicato. E c’erano anche altri rumori. Un rintocco triste, come se una campana lontana suonasse a morto, e un urlo acuto, ma lontano. E io continuavo ad affon­dare.

— Bobby, Bobby, svegliati! — Qualcosa mi scuoteva per le spalle, ma io non potevo vederla. Potevo solo sentire la sua voce che mi supplicava, che mi incitava a tornare alla superficie di quel mare profondo e agitato. Mi incitava a tornare me stesso: Bobby Jackson.

Sentivo le sue mani che mi trattenevano per le spalle mentre io mi reclinavo sul tavolo, col bicchiere ancora stretto in mano.

Poi, la vidi… ma non come Bobby Jackson. Mi sembrava di es­sere al lato opposto della cucina, vicinissimo alla porta e la vede­vo benissimo, vicino al tavolo, che scuoteva il ragazzo e lo prega­va di tornare me stesso.

Io ero sulla porta e strisciavo verso di lei come un animale. Mi muovevo lentamente, in modo subdolo e, mentre camminavo, sentivo come un rumore graffiante. Ma lei non guardava verso di me. Tutta la sua attenzione era concentrata sul ragazzo vicino al tavolo e quel ragazzo non ero più io!

Come avrei potuto essere Bobby Jackson se lo stavo guardan­do da cinque metri di distanza? Era identico a me. Su questo non c’erano dubbi. Ma era come se fossi stato staccato dal legame d’i­dentità che mi aveva fatto pensare, sentire e agire come Bobby Jackson. Era come se avessi assunto un’identità completamente nuova e diversa. Anche se riuscivo a ricordare che fino a pochi attimi prima ero Bobby Jackson, stavano destandosi in me nuove sensazioni che mi riempivano di orrore.

D’improvviso una lieve corrente che proveniva dallo spiraglio della porta mi passò sulla schiena, e io provai una sensazione nuova e terrificante. Trattenni il fiato e mi accucciai ancora più in basso… Stavo accucciato! La paura che mi faceva tremare si rive­lò appieno affrontandomi con occhi verdi immobili, fissi in un in­cubo crepuscolare che era peggiore dell’oscurità più completa. La porta della cucina era socchiusa ed era entrato furtivamente un gatto, e quel gatto ero io. Ero diventato, sia pure in parte e in un modo frammentario, da incubo, il gatto della signora Parker. Quel diabolico animale, incredibilmente perfido, era riuscito, chissà come, a penetrare nella mente di Bobby Jackson, a scal­zarne l’identità; e quel che io provavo adesso era la consapevo­lezza d’essere un gatto. Come potevo dubitarne?

Non so che cosa mi abbia salvato. Forse l’incantesimo di cui Helen Martin si era servita per farmi abbandonare l’ultimo appi­glio alla realtà aveva avuto un attimo di cedimento, perché ora stava facendo degli sforzi ancora più frenetici per farmi tornare il ragazzo seduto al tavolo. Era come se avesse perso il senso della misura, e ora, sconvolta e sbigottita per quel che aveva fatto, cer­casse di porvi rimedio.

E ancora non so cosa o chi mi abbia salvato. Se gli sforzi di He­len Martin o forse quella parte della mia mente che non si era la­sciata coartare, una parte ancora presente a se stessa che conti­nuava a gridarmi, con urgenza disperata, che un essere umano non poteva essere trasformato in un animale inferiore.

Forse fu questo, e non i disperati tentativi di Helen Martin, a “ridarmi” coscienza di me e del mio corpo.

Mi mossi e aprii gli occhi, e vidi Helen Martin, con un’espres­sione di sollievo e le lacrime agli occhi, così umana, che per un momento mi parve un’infermiera, gentile e comprensiva, con la divisa bianca inamidata. Un’infermiera che mi passava una mano morbida sulla fronte, e facendomi scivolare il termometro sotto la lingua, mi sussurrava: “Adesso riposati, Bobby. Non devi preoccuparti. Va tutto bene”.

Poi, all’improvviso, tutto tornò reale, completamente reale, l’opposto sia dell’incubo sia del sogno rassicurante. Helen Martin disse con voce calma e comprensiva, ma perfettamente naturale: — Dev’essere stato il sole, Bobby. Un colpo di calore. Ti sei don­dolato per un pezzo sul cancello, eh?

— Sì… credo di sì — mentii. — Ed è stata una sciocchezza per­ché ero già stato al sole tutto il giorno. Stamattina ho giocato a pallacanestro per quasi due ore.

— Allora tutto si spiega.

— Non ci ho visto più, per un momento — dissi.

Lei mi batté la mano sulla spalla, e temetti che mi dicesse: “È meglio che tu vada a sdraiarti un momento in salotto, Bobby. Non devi andartene finché non starai meglio”.

Non volevo rimanere un secondo di più in quella casa. Non vo­levo nemmeno che mi pregasse di restare, perché era pericoloso anche ascoltare la sua voce. Adesso ne ero sicuro.

Non avevo mai avuto tanta paura. Non mi vergogno ad am­metterlo. Ero spaventato come dicono che succeda ai selvaggi di fronte a quello che non conoscono, ai sussurri della foresta, agli antenati morti dalle facce spettrali e il passo strascicato.

Solo… che era peggio. Era una cosa sconosciuta, più grande e infinitamente meno umana, come se un vento di morte fosse sce­so dai lontani spazi e mi soffiasse gelido addosso.

La mano della donna si strinse affettuosa sulla mia spalla, e lei disse, in tono sinceramente preoccupato: — Bobby, che c’è? Per­ché mi guardi così?

Naturalmente fingeva, recitava, e mancò poco che tornassi a cedere. Chissà, forse avevo già ceduto, e adesso era ormai trop­po tardi.

Ma mi rifiutai di pensarlo. M’alzai, avvicinandomi alla porta, voltandomi solo una volta a guardarla come per dirle: “Non mi sento bene”, perché la mia partenza sembrasse meno brusca e più naturale, date le circostanze.

Chi può aspettarsi una risposta da un bambino che si è appena ripreso da uno svenimento dovuto a un colpo di sole e vuol corre­re subito a casa? In simili circostanze, un ragazzo desidera solo stare con la sua famiglia. Mi augurai che capisse quali avrebbero dovuto essere i miei sentimenti e che mi lasciasse andare senza costringermi a mentire ancora.

Così fu. Uscii e attraversai il prato correndo come se ne andas­se della mia vita, e solo allora sentii la porta chiudersi sbattendo, come se all’ultimo momento lei avesse capito la verità e si fosse arrabbiata di avermi lasciato andare via vivo.

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