PARTE QUARTA l’avventura di Gorm

Capitolo primo L’attacco al confine

Una colonna di fumo si disegnò nell’aria, si spezzò in sbuffi quando s’infiammò altro materiale più combustibile. Simon fermò il cavallo sull’altura per volgersi a guardare il teatro di un altro disastro delle forze di Karsten, di un’altra vittoria delle sue truppe. Non riusciva ad immaginare per quanto tempo ancora la fortuna li avrebbe aiutati. Ma finché durava, avrebbero continuato ad irrompere nelle pianure, proteggendo la ritirata di quella gente dai capelli scuri e dai volti seri che arrivava a gruppi familiari, in schiere bene armate o equipaggiate, oppure alla spicciolata, con un’andatura incerta imposta dalle ferite e dallo sfinimento. Vortgin aveva svolto bene il suo compito. La vecchia razza, o meglio ciò che ne restava, si stava ritirando oltre un confine che i Falconieri tenevano aperto, e si rifugiava in Estcarp.

Gli uomini che non avevano responsabilità di famiglia o di clan, e che avevano buone ragioni per incontrarsi con gli eserciti di Karsten a spade snudate, rimanevano tra le montagne, formando un contingente sempre più numeroso al comando di Koris e Simon. Poi restò soltanto Simon, perché il Capitano della Guardia venne richiamato ad Estcarp per riprendere il suo comando.

Era una guerriglia come quella che Simon aveva imparato in un altro tempo e in un’altra terra; questa volta era doppiamente efficace perché gli uomini ai suoi ordini conoscevano il territorio molto meglio degli avversari. Tregarth scoprì che gli uomini taciturni ed austeri da lui guidati avevano una strana affinità con quella terra, con gli animali e gli uccelli. Forse non ne venivano serviti come i Falconieri erano serviti dai loro rapaci ben addestrati: ma lui aveva visto accadere cose strane… un branco di cervi accorso per confondere, calpestandole, le tracce lasciate dai cavalli, uno sciame di corvi che aveva denunciato un’imboscata di Karsten. Ora ascoltava, credeva, e si consultava con i suoi sergenti prima di ogni mossa decisiva.

Quelli della vecchia razza non erano nati per la guerra, sebbene maneggiassero da esperti spada e lanciadardi. Per loro, si trattava di un compito sgradevole, da sbrigare in fretta e da dimenticare. Uccidevano rapidamente, in modo pulito, ed erano incapaci di commettere le bestialità che i gruppi discesi dalle montagne avevano scoperto nei luoghi dove i profughi erano stati circondati e catturati.

Una volta, mentre abbandonava uno di quei luoghi, pallido, facendosi forza per dominare la nausea, Simon si stupì nell’udire il commento del giovane che, in quello scontro, era stato il suo luogotenente.

«Non lo fanno di loro volontà.»

«Ho già visto queste cose,» rispose Simon. «Commesse da esseri umani contro altri esseri umani.»

L’altro, che aveva dovuto abbandonare le sue terre una trentina di giorni prima, salvandosi a stento, scosse il capo.

«Yvian è un soldato, un mercenario. La guerra è il suo mestiere. Ma uccidere così significa seminare l’odio più nero. Ed Yvian è il signore di questa terra: non farebbe mai a brani volontariamente il suo dominio, non lo porterebbe alla rovina… è un uomo troppo intelligente. Non darebbe certo l’ordine di commettere simili azioni.»

«Eppure abbiamo visto parecchi spettacoli del genere. Non possono essere tutti l’opera di una sola banda comandata da un sadico.»

«È vero. Per questo sono convinto che ci stiamo battendo contro uomini invasati.»

Invasati! L’antico significato che aveva quel termine nel suo mondo si affacciò nella mente di Simon… posseduti dai demoni. Bene, lo si poteva anche credere, dopo aver veduto ciò che avevano veduto. Posseduti dai demoni… oppure… il ricordo della strada per Forte Sulcar lo colpì: posseduti da un demone… o privati dell’anima! Ancora Kolder?

Da quel giorno, per quanto gli ripugnasse, Simon prese nota di quei ritrovamenti, sebbene non riuscisse mai a cogliere sul fatto i responsabili. Avrebbe voluto consultarsi con la strega, ma lei era andata a nord insieme a Briant ed alla prima ondata di profughi.

Attraverso la rete delle bande di guerriglieri lanciò una richiesta d’informazioni. E di notte, in un quartier generale provvisorio dopo l’altro, ricostruiva i frammenti. Le prove concrete erano scarse, ma Simon si convinse che alcuni dei comandanti di Karsten non agivano secondo le loro consuetudini, e che nell’esercito del Duca s’era infiltrato un gruppo alieno.

Alieni! Come sempre, l’enigma della strana diseguaglianza lo assillava. Interrogando i suoi profughi, venne a sapere che le macchine che essi conoscevano da sempre erano venute «d’oltremare» in epoche remote: erano venute d’oltremare le macchine ad energia portate dai mercanti di Forte Sulcar, adattate dalla vecchia razza in modo che producessero calore e luce; anche i Falconieri erano venuti d’oltremare con i sorprendenti comunicatori portati dai loro falchi. E anche i Kolder venivano d’oltremare… un termine vago… un’origine comune per tutto?

Tutto ciò che riusciva a scoprire, Simon Tregarth lo comunicava ad Estcarp per mezzo di messaggeri, chiedendo che cosa potevano dirgli le streghe, in cambio. Era sicuro soltanto d’una cosa: finché avesse reclutato uomini della vecchia razza, non avrebbe dovuto temere infiltrazioni. La qualità che dava loro l’affinità con la terra e gli animali selvatici permetteva anche di riconoscere gli alieni.

Tra le montagne erano stati scoperti altri tre falsi falchi. Ma erano andati tutti distrutti durante la cattura, e Simon aveva potuto esaminare solo frammenti sfracellati. La loro provenienza e lo scopo per cui erano stati lanciati continuavano a restare misteriosi.

Ingvald, il luogotenente karsteniano, gli venne accanto per guardare la scena atroce che s’erano lasciati alle spalle.

«Il grosso della schiera, con il bottino, ormai è lontano tra le colline, Capitano. Questa volta il saccheggio aveva uno scopo preciso; e con quell’incendio piazzato attraverso il nostro cammino, non sapranno neppure cosa sia caduto nelle nostre mani. Ci sono quattro casse di dardi, oltre ai viveri.»

«Troppo, per una colonna volante.» Simon aggrottò la fronte, tornando a pensare ai problemi immediati. «Si direbbe che Yvian speri di creare un avamposto centrale in queste zone e di farne la base per le scorrerie. Forse intende portare un contingente più cospicuo verso il confine.»

«Non capisco,» disse lentamente Ingvald. «Perché è sucesso tutto all’improvviso? Non siamo… non eravamo fratelli di sangue delle popolazioni costiere. Quando giunsero dal mare, ci respinsero verso l’entroterra. Ma per dieci generazioni siamo rimasti in pace con loro: ciascuno si faceva i fatti suoi senza infastidire l’altro. Noi della vecchia razza non amiamo la guerra, e questo attacco improvviso è immotivato. Eppure, quando è stato sferrato, si è svolto in modo tale da indurci a supporre che fosse pianificato da molto tempo.»

«Ma forse non da Yvian.» Simon mise il cavallo al trotto, e Ingvald procedette al suo fianco. «Voglio un prigioniero, Ingvald, un prigioniero come quelli che si sono divertiti nel modo che abbiamo visto nel prato della fattoria, al bivio!»

Una scintilla brillò negli occhi scuri che si levarono verso di lui. «Se mai ne prenderemo uno, Capitano, verrà condotto da te.»

«Vivo e in condizioni di parlare!» precisò Simon.

«Vivo e in condizioni di parlare,» promise l’altro. «Perché anche noi pensiamo che si possano apprendere molte cose da uno di quegli individui. Ma non li troviamo mai: troviamo solo i risultati delle loro attività. E credo che li lascino apposta, come minaccia e come avvertimento.»

«È un enigma.» Simon rifletteva a voce alta, affrontando ancora una volta il suo problema onnipresente. «Qualcuno, si direbbe, è convinto che la brutalità possa costringerci alla sottomissione. E non si rende conto che un uomo può essere spinto nella direzione esattamente opposta, con simili metodi. Oppure…» aggiunse dopo un attimo di pausa, «tutto questo viene compiuto deliberatamente per indurci a scagliarci con tutto il nostro furore contro Yvian e Karsten, per incendiare il confine e impegnarvi le forze di Estcarp, e poi colpire altrove?»

«Forse è vera l’una e l’altra cosa,» suggerì Ingvald. «So, Capitano, che tu stai cercando un’altra presenza tra le forze di Karsten, e ho sentito parlare di quello che è stato trovato a Forte Sulcar, e degli uomini che verrebbero venduti a Gorm. Di una cosa siamo sicuri: nessun essere che non sia veramente umano può venire tra noi senza che ce ne accorgiamo… così come abbiamo sempre saputo che tu non sei del nostro mondo.»

Simon trasalì e si voltò, ma vide che l’altro sorrideva tranquillamente.

«Sì, Uomo di un altro mondo, la tua storia si è diffusa… Ma sapevamo già che non eri dei nostri… anche se stranamente il tuo sangue è affine al nostro. No, i Kolder non possono insinuarsi tanto facilmente nei nostri consigli. E i nemici non possono avventurarsi tra i Falconieri, perché i falchi li denuncerebbero.»

Simon girò la testa, interessato. «E come?»

«Un uccello o un mammifero può percepire un alieno più rapidamente ancora di quanto lo possa qualcuno dotato del Potere. E coloro che sono simili agli uomini di Gorm si troverebbero contro uccelli e mammiferi. Perciò i Falchi del Nido servono due volte i loro addestratori e garantiscono la sicurezza delle montagne.»

Ma prima che quel giorno avesse termine, Simon scoprì che la vantata sicurezza delle montagne non era più forte dei corpi fragili dei rapaci. Stavano esaminando le provviste sottratte al convoglio, e Simon sceglieva una parte da destinare al Nido, quando udì il grido d’una sentinella e la risposta di un Falconiere. Simon si fece avanti, lieto dell’occasione di lasciare che quello provvedesse a trasportare la parte assegnata al Nido, risparmiando un viaggio ai suoi uomini.

Il cavaliere non aveva rispettato la consuetudine. L’elmo a forma di testa di falco era chiuso, come se procedesse tra estranei. E non fu soltanto questo a sbalordire Simon. Gli uomini del suo gruppo stavano all’erta, e si avvicinavano in cerchio. Anche Simon avvertiva quel fremito di sospetto, quella sensazione del resto già nota.

Senza riflettere, si lanciò verso il cavaliere taciturno: gli afferrò la cintura con entrambe le mani. Provò uno stupore fuggevole nel vedere che il falco appollaiato sul corno della sella non si scatenava per reagire all’attacco contro il suo padrone. Il Falconiere, colto di sorpresa, non ebbe tempo di estrarre un’arma. Ma si riprese prontamente, e si gettò su Simon con tutto il suo peso, rovesciandolo al suolo, e con le mani guantate di maglia metallica cercò di stringergli la gola.

Fu una lotta assurda, contro un essere dai muscoli d’acciaio e dalla carne di ferro; dopo pochi secondi, Simon comprese di aver tentato l’impossibile… ciò che era racchiuso nell’uniforme del Falconiere non poteva venire domato a mani nude. Per fortuna non era solo: altre mani strapparono via l’aggressore, lo inchiodarono al suolo nonostante la sua resistenza frenetica.

Simon, massaggiandosi la gola dolorante, si sollevò sulle ginocchia.

«Toglietegli l’elmo!» ansimò. Ingvald prese a slacciare le cinghie, e finalmente riuscì a staccarle.

Si avvicinarono agli uomini che tenevano fermo il prigioniero, il quale continuava a dibattersi. I Falconieri erano una razza caratterizzata da un tipo fisico dominante… capelli rossastri ed occhi giallobruni come quelli dei loro servitori alati. A giudicare dall’aspetto, quello era un autentico esemplare della razza. Eppure Simon e tutti i suoi compagni compresero che non si trattava di un normale esponente del popolo delle montagne.

«Legatelo stretto!» ordinò Simon. «Credo, Ingvald, che abbiamo trovato quanto cercavamo.» Si avvicinò al cavallo che aveva portato al campo lo pseudo-falconiere. Il manto era lucido di sudore, e fili di bava pendevano dal morso: sembrava avesse corso a lungo, disperatamente. E gli occhi erano stralunati, cerchiati di bianco. Ma quando Simon tese la mano verso le redini non cercò di fuggire; rimase a testa bassa, scosso da grandi brividi.

Il falco era rimasto immobile, senza sbattere le ali e senza aprire minacciosamente il becco per dissuadere Simon dall’avvicinarsi. Tregarth staccò il rapace dal posatoio, e nell’attimo in cui le sue dita si strinsero intorno a quel corpo alato, comprese che non era una creatura viva.

Tenendolo tra le mani, si girò verso il suo luogotenente. «Ingvald, chiama Lathor e Karn.» Erano i due esploratori più esperti del suo esercito. «Mandali al Nido. Dobbiamo sapere fin dove si è diffusa la cancrena. Se scoprono che non è ancora accaduto nulla di male, dovranno mettere in guardia i Falconieri. Come prova di ciò che diranno,» continuò, chianandosi per raccogliere l’elmo del prigioniero, «dovranno consegnare questo. Credo che sia stato fabbricato veramente dai Falconieri, comunque.» Si avvicinò all’uomo legato che continuava a tacere e a guardarli con un’espressione d’odio furibondo. «Non posso credere che costui sia uno di loro.»

«Non dobbiamo portare anche lui?» chiese Karn. «O il falco?»

«No. Non apriamo porte che non siano già sfondate. Abbiamo bisogno di costui, per un po’.»

«La grotta accanto alla cascata, Capitano,» propose Waldis, un ragazzo della tenuta di Ingvald, che aveva seguito il padrone sulle montagne. «Una sentinella all’ingresso può bastare a difenderla: e nessuno ne saprà nulla, tranne noi.»

«Bene. Provvedi, Ingvald.»

«E tu, Capitano?»

«Voglio scoprire da dove veniva costui. Può darsi che sia arrivato dal Nido. Se è vero, prima sapremo il peggio, e meglio sarà.»

«Non lo credo, Capitano. Almeno, se è venuto dal Nido, non ha seguito la via più diretta. Siamo molto ad ovest della fortezza. E lui è arrivato dal sentiero che porta al mare. Santu,» continuò Ingvald, rivolgendosi ad uno degli uomini che aveva contribuito a legare il prigioniero, «vai a metterti di guardia su quel sentiero, e manda qui Caluf, che è stato il primo a fermarlo.»

Simon mise la sella al suo cavallo, e aggiunse un sacco di viveri. Sopra le razioni gettò l’imitazione del falco. Non sapeva ancora se era una delle copie volanti: ma era il primo che fosse caduto intatto nelle sue mani. Finì di sistemare tutto nel momento in cui sopraggiungeva Caluf.


«Sei sicuro che venisse da occidente?» gli chiese Simon.

«Lo giurerò sulla Pietra di Engis, se lo vuoi, Capitano. I Falconieri non amano il mare, anche se talvolta si mettono al servizio dei mercanti come fanti di marina. Ma è passato direttamente tra le rocce che portano alla cala scoperta da noi cinque giorni fa, e aveva l’aria di conoscere bene la strada.»

Simon si sentiva turbato. La cala appena scoperta era stata un raggio di speranza; offriva la possibilità di stabilire comunicazioni migliori con il nord. Non era resa pericolosa dagli scogli che orlavano gran parte della costa, e Simon aveva pensato di farvi attraccare piccoli vascelli, per trasportare al nord i profughi e per riportare carichi di provviste e d’armi per i combattenti del confine. Se quella cala era in mani nemiche, lui doveva saperlo, e subito.

Mentre lasciava la radura in compagnia di Caluf e di un altro cavaliere, Simon riprese a pensare su due livelli diversi. Prendeva nota del territorio circostante, scrutando i punti di riferimento e le caratteristiche naturali che potevano venire sfruttate per azioni offensive e difensive. Ma sotto quell’attività superficiale, ispirata dalle costanti preoccupazioni per la sicurezza, i viveri, i ripari, continuava a inseguire i suoi pensieri.

Una volta, in carcere, aveva avuto il tempo di esplorare le profondità del suo essere. Ed i sentieri che aveva scoperto gli erano apparsi squallidi, l’avevano spinto ad un distacco gelido che non si era più mutato. Poteva usare come copertura il dare-ed-avere della vita di caserma, il cameratismo sul campo: ma nulla aveva mai superato quella barriera… lui non l’aveva mai permesso.

Conosceva la paura. Ma era un’emozione transitoria che di solito lo spronava all’azione. A Kars era stato attirato in un modo diverso, e s’era battuto per liberarsi. Un tempo aveva creduto che, varcando la porta schiusa da Petronius sarebbe ridiventato un uomo completo: ma fino ad ora, questo non si era avverato. Ingvald aveva parlato di possessione demoniaca… ma cosa accadeva se un uomo non era in pieno possesso di se stesso?

Era sempre un uomo che se ne stava in disparte, osservando un altro occupato a vivere. Alieno… i guerrieri che comandava sapevano questo, di lui. Forse era un altro degli strani frammenti sparpagliati in quel mondo, frammenti che non collimavano, come le macchine uscite da un altro tempo e l’enigma dei Kolder? Sentiva di essere sull’orlo di una scoperta, una scoperta che avrebbe significato moltissimo non soltanto per lui ma anche per la causa che aveva scelto.

Poi quel secondo io distaccato svanì, quando Simon scorse il ramo di un albero, deformato dai temporali di montagna ed ancora privo di foglie. Spiccava contro il cielo pomeridiano, e il carico che portava ordinatamente appeso ai cappi, era sconvolgente.

Spronò il cavallo, poi lo fermò, levando lo sguardo verso i tre minuscoli corpi che dondolavano nella brezza, con i becchi aperti, gli occhi vitrei, gli artigli penduli, le zampe ancora cinte dai geti scarlatti con i piccoli dischi argentei. Tre falconi veri, con il collo spezzato, lasciati appesi lì perché venissero scoperti dal primo viaggiatore diretto da quella parte.

«Perché?» chiese Caluf.

«Un avvertimento, forse, o qualcosa di più.» Simon smontò, buttando le redini all’altro. «Aspetta qui. Se non torno entro un periodo di tempo ragionevole, torna da Ingvald e riferiscigli tutto. Non seguirmi: non possiamo permetterci di perdere uomini inutilmente.»

I suoi due compagni protestarono, ma Simon li azzitti con un ordine brusco, prima di addentrarsi tra i cespugli. Era chiaro che qualcuno era stato lì: rametti spezzati, orme di stivali sul muschio, il frammento di un geto strappato. Si stava avvicinando alla spiaggia; sentiva il suono della risacca, e quello che lui cercava era venuto certamente dalla cala.

Simon aveva percorso due volte quel sentiero, e cercò di ricordare la zona. Purtroppo, la valletta che scendeva sulla riva non offriva alcun riparo, e le rocce che la fiancheggiavano erano altrettanto spoglie. Avrebbe dovuto andare lassù, con una lunga deviazione ed una scalata faticosa. Ostinatamente, si accinse all’impresa.

Salì come si era arrampicato verso la Tomba di Volt: crepe, cornicioni, appigli. Poi si trascinò sul ventre fino al ciglio dello strapiombo e guardò giù.

Simon si era aspettato molte cose… una striscia nuda di sabbia senza tracce d’invasione, una schiera di guerrieri di Karsten, una nave all’ancora. Ma ciò che vide era molto diverso. In un primo momento pensò alle illusioni di Estcarp… forse ciò che stava laggiù era proiettato dalla sua mente, era un vecchio ricordo rinato per sconcertarlo… Poi, esaminando più attentamente la liscia curva metallica comprese che, sebbene somigliasse vagamente ad alcuni mezzi visti in passato, era diversa così come il falso falco era diverso da quelli veri.

Evidentemente era un mezzo marino, sebbene non avesse sovrastrutture, né alberi, né eliche. Appuntita a poppa ed a prua, aveva la forma dello spaccato longitudinale di un siluro. Sulla superficie superiore appiattita c’era un’apertura; e intorno stavano tre uomini. I contorni delle loro teste, sullo sfondo argenteo della nave, erano quelli degli elmi dei Falconieri. Ma Simon era certo che costoro non erano Falconieri.

Ancora una volta si trovava di fronte all’eterno mistero di quella terra, perché le navi dei mercanti, a Fort Sulcar, erano vascelli a vela appartenenti ad una civiltà che ignorava la meccanica; ma quella nave sembrava uscita dal futuro del suo mondo! Come potevano esistere fianco a fianco due livelli di civiltà tanto diversi? Anche questo era opera dei Kolder? Alieni, alieni… ancora una volta si sentiva sul punto di comprendere… d’intuire…

Per un istante, allentò la vigilanza. Solo il robusto elmo scelto tra il bottino di un convoglio di Karsten gli salvò la vita. Il colpo sferrato dal nulla stordì Simon. Sentì odore di piume bagnate, e qualcosa d’altro… semiaccecato e stordito tentò di alzarsi… e fu colpito di nuovo. Questa volta vide il nemico involarsi verso il mare. Un falcone, ma… vero o falso? Portò con sé quell’interrogativo nella nube nera che lo inghiottì.

Capitolo secondo Tributo a Gorm

La pulsazione dolorosa di un tamburo gli riempiva il cranio e gli squassava tutto il corpo. In un primo momento Simon, ritornando con riluttanza alla lucidità, riuscì solo a trovare la forza per resistere a quella sofferenza. Poi comprese che l’urto doloroso non era soltanto dentro di lui, ma anche all’esterno. Ciò su cui giaceva batteva e batteva ritmicamente. Era imprigionato nel cuore tenebroso di un tam-tam.

Quando aprì gli occhi, scoprì che non c’era luce; e quando tentò di muoversi si accorse di avere i polsi e le caviglie strettamente legati.

La sensazione di essere rinchiuso in una bara divenne tanto forte che dovette mordersi le labbra per non gridare. Era così impegnato a combattere la sua guerra personale contro l’ignoto che solo dopo qualche minuto si accorse che, dovunque fosse, non era l’unico prigioniero.

Alla sua destra, di tanto in tanto qualcuno gemeva debolmente. Alla sinistra, un altro vomitava, aggiungendo un nuovo fetore all’atmosfera ammorbata di quella prigione. Simon, stranamente rassicurato da quei suoni così poco promettenti, chiamò:

«Chi è? E dove siamo? Qualcuno lo sa?»

Il gemito s’interruppe in un respiro convulso. Ma l’uomo che vomitava non riuscì a controllare gli spasimi, o non comprese.

«Chi sei?» Era un bisbiglio, alla sua destra.

«Uno delle montagne. E tu? È una prigione di Karsten questa?»

«Sarebbe meglio se lo fosse, montanaro! Sono stato nelle segrete di Karsten. Sì, sono stato nella stanza degli interrogatori d’una di quelle segrete. Ma era sempre meglio di qui.»

Simon stava riordinando i suoi ricordi recenti. S’era arrampicato su una scogliera per spiare la cala. Aveva visto in porto lo strano vascello, e poi era stato attaccato da un uccello che non poteva essere un uccello! E la possibile spiegazione era una sola… si trovava nella stessa nave!

«Siamo nelle mani dei compratori d’uomini di Gorm?» chiese.

«Proprio così, montanaro. Non eri con noi quando quei diavoli di Yvian ci hanno consegnato ai Kolder. Sei uno dei Falconieri che hanno intrappolato più tardi?»

«Falconieri! Oh, Uomini degli Alati!» Simon alzò la voce, la udì echeggiare tra le pareti invisibili. «Quanti siete? Ve lo chiedo io, che appartengo agli scorridori!»

«Siamo tre, scorridore. Tuttavia Faltjar è stato portato qui esanime, come un uomo ferito a morte, e non sappiamo se è ancora vivo.»

«Faltjar! La guardia dei passi meridionali! Come è stato catturato… e voi?»

«Abbiamo sentito parlare di una cala dove le navi osavano attraccare, e un messaggero di Estcarp ha annunciato che forse sarebbe stato possibile inviarci rifornimenti via mare, se quella cala fosse stata trovata. Il Signore delle Ali ci ha ordinato di andare ad esplorare. E siamo stati abbattuti dai falchi, mentre eravamo in cammino. Ma non erano i nostri falchi: quelli si sono battuti per noi. Poi ci siamo svegliati sulla spiaggia, spogliati degli usberghi e delle armi; e ci hanno portati a bordo di questa nave che non ha eguali al mondo. Lo affermo io, che sono Tandis, e che per cinque anni ho prestato servizio come fante di marina degli uomini di Sulcar. Ho veduto molti porti, e più navi di quante un uomo possa contarne in una settimana: eppure non ne ho mai vista una simile.»

«È nata dalla stregoneria di Kolder,» sussurrò la voce debole alla destra di Simon. «Sono venuti a prenderci: ma come si può contare il tempo quando si è chiusi in una tenebra senza fine? È notte o giorno? E che giorno è? Ero finito nelle carceri di Kars perché avevo dato rifugio ad una donna e ad un bambino della vecchia razza, quando hanno suonato il Corno. Poi hanno tolto dalla prigione tutti i giovani e ci hanno portato ad un’isola del delta. E là ci hanno esaminati.»

«Chi?» chiese impaziente Simon. Lì c’era qualcuno che aveva visto i misteriosi Kolder: avrebbe potuto ottenere finalmente qualche informazione precisa.

«Non riesco a ricordarlo.» La voce era un sottile filo di suono, e Simon si tese, per quanto glielo permettevano i legami, per afferrarla. «Gli uomini di Gorm operano una magia: e la testa gira, e tutti i pensieri fuggono. Si dice che siano demoni del grande freddo, venuti dall’estremità del mondo… e lo credo.»

«E tu, Falconiere, hai visto coloro che ti hanno catturato?»

«Sì, scorridore, ma ciò che ho visto non può esserti di grande aiuto. Coloro che ci hanno portati qui erano uomini di Karsten… semplici involucri senza intelligenza… mani e schiene forti al servizio dei loro padroni. E i padroni già portavano gli indumenti tolti a noi, per ingannare meglio i nostri amici.»

«Ma uno di essi è stato catturato a sua volta,» gli disse Simon. «Perciò rallegrati, falconiere, perché forse potrà permettere la soluzione del mistero.» Soltanto allora si chiese se c’erano orecchie, in quelle pareti, per ascoltare ciò che dicevano i prigionieri. Ma se anche c’erano, probabilmente quell’annuncio sarebbe servito a diffondere il disagio fra i carcerieri.

C’erano dieci uomini di Karsten, tutti tratti dalle prigioni, tutti arrestati per qualche reato di lesa maestà nei confronti del Duca. A loro si erano aggiunti i tre Falconieri catturati nella cala. Quasi tutti sembravano storditi o semi-incoscienti. Se riuscivano a ricordare qualcuno degli eventi che li avevano portati alla prigionia, quei ricordi s’interrompevano all’arrivo all’isola nei pressi di Kars, o sulla spiaggia della cala.

Tuttavia, mentre Simon insisteva nel fare domande, cominciò ad emergere una certa uniformità, almeno per quanto riguardava le loro colpe e il loro temperamento. Erano tutti uomini capaci d’iniziativa, con un certo addestramento militare, dai Falconieri che vivevano per tutta la vita in caserme monastiche e che facevano della guerra la loro professione, fino al suo primo informatore, l’uomo di Kars, un piccolo proprietario terriero che aveva comandato una milizia. La loro età andava dai diciotto anni ai trenta o poco più e, nonostante i maltrattamenti subiti nelle segrete del Duca, erano tutti in buone condizioni fisiche. Due appartenevano alla nobiltà minore ed erano abbastanza istruiti. Erano i più giovani: due fratelli rastrellati dalle forze di Yvian sotto l’accusa di aver aiutato qualcuno della vecchia razza.

Non c’era nessuno, lì, che appartenesse alla vecchia razza, tuttavia; e i prigionieri affermarono concordemente che, in tutte le zone del ducato, uomini, donne e bambini di quella stirpe erano stati messi a morte subito dopo la cattura.

Uno dei giovani nobili, che le pazienti domande di Simon avevano strappato alle preoccupazioni per il fratello ancora privo di sensi, fornì il primo dato concreto.

«La guardia che ha colpito Garnit — e che i Ratti di Nore possano divorarlo per l’eternità! — aveva detto di non portare anche Renston. Eravamo fratelli di sangue fin dal giorno in cui abbiamo cinto la spada, e noi andavamo a portargli viveri ed armi perché potesse cercare di raggiungere il confine. Ci hanno inseguiti e catturati, anche se ne abbiamo lasciati tre sul terreno. Quando uno degli scherani del Duca si è accinto a legare anche Renston, gli è stato detto che era inutile, perché non c’era un prezzo per quelli del vecchio sangue e i compratori d’uomini non li avrebbero presi.

«Quello ha protestato che Renston era giovane e forte quanto noi, e che avrebbero dovuto pagarlo altrettanto. Ma l’incaricato del Duca ha detto che quelli della vecchia razza si spezzano ma non si piegano; e poi ha trapassato Renston con la sua stessa spada.»

«Si spezzano ma non si piegano,» ripeté lentamente Simon.

«Un tempo la vecchia razza era una cosa sola con il popolo delle streghe di Estcarp,» aggiunse il giovane nobile. «Forse i diavoli di Gorm non possono divorarli facilmente come quelli di un altro sangue.»

«È per questo,» aggiunse bisbigliando l’uomo che stava accanto a Simon, «che Yvian si è scagliato così prontamente contro la vecchia razza? Ci avevano sempre lasciati in pace, a meno che dessimo loro fastidio. E tutti coloro che li frequentavano sapevano bene che non erano malvagi, nonostante la loro antica sapienza e i loro strani costumi. Yvian ha ricevuto l’ordine di agire così? E chi gli dà gli ordini, e perché? È possibile, miei fratelli nella sfortuna, che la presenza di costoro tra noi costituisca una barriera contro Gorm e il male che rappresenta, e che debbano essere annientati perché Gorm possa ampliare il suo dominio?»

Era un’ipotesi intelligente, e molto vicina ai sospetti di Simon. Questi avrebbe voluto fare altre domande: ma tra i gemiti e i lamenti dei prigionieri ancora semisvenuti, udì un sibilo regolare, un suono che cercò subito di identificare. Il fetore di quel luogo era fortissimo, e serviva a mascherare un pericolo che Simon riconobbe troppo tardi… l’ingresso del vapore in un ambiente dove la riserva d’aria era limitata.

Gli uomini tossirono, sforzandosi di respirare, e poi si accasciarono inerti. Un solo pensiero tranquillizzò Simon: il nemico non si sarebbe preso la briga di caricare quattordici uomini a bordo della nave solo per ucciderli con il gas. Perciò Simon fu l’unico di quegli infelici che non resistette al vapore, ma lo respirò lentamente, ricordando in modo vago lo studio di un dentista nel suo mondo.

… Parole che non erano parole, ma un suono confuso emesso da una voce acuta, e che aveva la bruschezza di un ordine imperioso. Simon non si mosse. Quando ricordò dove si trovava, l’istinto di conservazione gli impose di restare immoto.

La voce continuò.

Il dolore alla testa era solo un indolenzimento smorzato. Era sicuro di non trovarsi più sulla nave: era disteso su qualcosa che non pulsava e non si muoveva. Ma era stato spogliato degli indumenti, e il luogo in cui si trovava era gelido.

Colui che parlava si stava allontanando: la voce si ritirò, senza una risposta. Ma il tono era stato così chiaramente un ordine che Simon non osava muoversi, per non tradirsi di fronte a qualche subordinato silenzioso.

Per due volte, lentamente, contò fino a cento: e non udì alcun suono per quell’intero periodo. Alzò le palpebre e poi le riabbassò in fretta, colpito da una luce abbagliante. Ciò che riuscì a scorgere era sconvolgente, quasi quanto la vista della strana nave.

Non aveva una grande esperienza in fatto di laboratori, ma senza dubbio le file di provette, le bottiglie e i matracci sugli scaffali direttamente di fronte a lui potevano trovarsi solo in un luogo di quel genere.

Era solo? E perché l’avevano portato lì? Studiò centimetro per centimetro tutto ciò che riusciva a vedere. Evidentemente, non era steso al suolo. La superficie su cui stava sdraiato era dura… un tavolo?

Lentamente, cominciò a girare la testa con la massima prudenza. Vide un tratto di parete nuda e grigia: all’estremità del suo campo visivo c’era una linea che poteva delimitare una porta.

Non c’era altro, in quella parte della stanza. Girò di nuovo la testa e scoprì nuove stranezze. Altri cinque corpi, nudi come lui, erano stesi su altrettanti tavoli. Erano morti o svenuti… Simon era convinto che fossero solo privi di sensi.

Ma c’era qualcun altro. La figura alta e magra volgeva le spalle a Simon; lavorava sul primo uomo della fila. Poiché era completamente coperta da una tunica grigia, stretta alla cintura, ed una calotta della stessa stoffa nascondeva la testa, Simon non aveva idea della razza cui apparteneva l’essere che lavorava con silenziosa efficienza.

Un supporto carico di bottiglie e di tubi pendenti era accostato al primo uomo. L’essere inserì gli aghi nelle vene, gli adattò sulla testa immobile una calotta metallica. Con un sussulto di paura, Simon comprese che stava assistendo alla morte di un uomo: non la morte fisica, ma la fine che avrebbe ridotto il corpo ad una cosa, come quelle che aveva visto uccidere sulla strada per Forte Sulcar e che lui stesso aveva contribuito ad uccidere durante la difesa della cittadella.

E decise che non avrebbe subito la stessa sorte. Provò a muovere cautamente mani e braccia, piedi e gambe: la sua unica fortuna stava nel fatto che era l’ultimo della fila, non il primo. Era piuttosto irrigidito, ma era in grado di controllare i propri muscoli.

L’essere in grigio aveva finito con la sua prima vittima, e stava accostando al secondo un altro supporto. Simon si levò a sedere. Per un paio di secondi si sentì girare la testa e si aggrappò al tavolo, lieto che non avesse scricchiolato quando lui aveva cambiato posizione.

L’essere era completamente assorto nel suo complicato lavoro. Temendo che il tavolo si rovesciasse sotto il suo peso, Simon posò i piedi sul pavimento, e riprese a respirare solo quando fu saldamente eretto.

Guardò l’uomo che gli stava più vicino, sperando di vederlo svegliarsi. Ma il ragazzo — poiché era solo un adolescente — giaceva inerte ad occhi chiusi; il suo petto si sollevava e si abbassava ad intervalli anormalmente lunghi.

Simon si avviò verso gli scaffali: solo là avrebbe potuto trovare un’arma. Anche se fosse riuscito a raggiungere la porta, sarebbe stato troppo rischioso tentare la fuga, fino a che non avesse saputo qualcosa di più circa quel luogo. E non poteva neppure pensare di andarsene abbandonando altri cinque uomini alla morte… o a un destino peggiore della morte.

Scelse l’arma: una bottiglia semipiena di un liquido giallo. Sembrava di vetro, ma era molto più pesante. Il collo sottile offriva una buona presa, e Simon girò intorno alla fila di tavoli, avvicinandosi a quella su cui stava lavorando lo sconosciuto.

I suoi piedi nudi non facevano alcun rumore sul pavimento, mentre si accostava all’essere ignaro. La bottiglia si levò nell’aria con tutta la forza dell’indignazione di Simon, e si abbatté sulla testa coperta dal copricapo grigio.

Senza un grido, la figura si accasciò, crollando in avanti, e trascinando con sé la calotta metallica che si accingeva a collocare sulla testa della vittima. Simon stava per stringere la gola del caduto: poi vide che la parte posteriore del cranio era sfondata, e ne sgorgavano fiotti di sangue scuro. Sollevò il corpo, lo tolse dalla corsia tra i tavoli, per guardare in viso quello che — ne era sicuro — doveva essere un Kolder.

Ciò che aveva immaginato lungamente era molto più sbalorditivo della realtà. Quello era un uomo: o almeno, era simile a molti altri uomini che Simon aveva conosciuto. Aveva un viso piuttosto piatto, con gli zigomi larghi e il naso minuto, il mento troppo piccolo e affilato per armonizzarsi con la metà superiore della faccia. Ma non era un demone alieno… qualunque cosa vivesse entro quel cranio rotondo.

Simon trovò i fermagli della tunica grigia e la sfilò. Sebbene gli ripugnasse toccare il copricapo sporco di sangue, si fece forza e prese anche quello. In fondo alla stanza c’era un lavabo, e Simon vi gettò la calotta per ripulirla. Sotto la tonaca, l’uomo portava un indumento aderente senza allacciature né aperture, a quanto pareva, e Simon finì per accontentarsi di quella lunga veste.

Non poteva far nulla per i due uomini che erano già stati collegati ai supporti, perché non capiva nulla di quelle macchine complicate. Ma passò da uno all’altro dei tre uomini non ancora sottoposti al trattamento. Cercò di svegliarli, ma senza riuscirvi. Sembravano drogati: adesso, capiva ancora meno come mai era riuscito a sfuggire alla stessa sorte, se quelli erano i compagni di prigionia con cui aveva parlato a bordo della nave.

Deluso, Simon andò alla porta: non aveva serrature o maniglie, a quanto pareva; ma provò e riprovò e si accorse che rientrava nella parete di destra. Si affacciò, e vide un corridoio dalle pareti, il soffitto e il pavimento dello stesso grigio monotono del laboratorio. Sembrava deserto, sebbene vi fossero altre porte. Si diresse verso la più vicina.

Aprendola con la stessa prudenza con cui aveva ripreso a muoversi dopo essere rinvenuto, Simon vide un gruppo di uomini che i Kolder avevano portato a Gorm… se quello era Gorm. C’erano almeno venti corpi, distesi in varie file e ancora vestiti. Erano tutti incoscienti, scoprì Simon esaminandoli frettolosamente. Forse avrebbe potuto guadagnare ancora un po’ di tempo per quelli che giacevano nel laboratorio. Mosso da quella speranza, tornò a prendere i tre e li trascinò lì, accanto ai loro compagni.

Durante l’ultima visita al laboratorio, Simon lo frugò cercando qualcosa che potesse servirgli come arma; trovò una cassetta di coltelli chirurgici, e prese il più lungo. Con la lama, tagliò l’indumento dell’uomo che aveva ucciso, lo spogliò e lo distese su un tavolo, in modo che la testa sfracellata rimanesse nascosta, rispetto alla porta. Se avesse conosciuto qualche sistema per bloccare l’uscio, l’avrebbe usato.

Con il coltello infilato nella cintura della tonaca rubata, Simon ripescò la calotta e la mise, fradicia com’era. Senza dubbio c’erano cento armi mortali nei barattoli, nelle bottiglie e nelle provette, ma non era in grado di distinguerle. Per il momento avrebbe dovuto affidarsi ai pugni e al coltello, per restare libero.

Simon tornò nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. Per quanto tempo sarebbe rimasto indisturbato l’uomo che aveva ucciso? C’era qualcuno che sarebbe venuto a controllare di lì a poco, o forse gli restava ancora un po’ di tempo?

Due delle porte del corridoio non cedettero alle sue spinte. Ma in fondo, ne trovò una terza leggermente socchiusa, ed entrò in quello che non poteva essere altro che un alloggio.

I mobili erano austeri, funzionali, ma le due sedie e il letto a cassone erano più comodi di quanto sembrassero. Simon fu attratto da qualcosa che poteva essere una scrivania od un tavolo. La perplessità lo spronava, perché la sua mente rifiutava di collegare il luogo in cui si trovava al mondo che aveva generato Estcarp, il Nido ed i vicoli tortuosi di Kars: questo luogo apparteneva al futuro.

Non poté aprire i compartimenti della scrivania, sebbene in ciascuno vi fosse una depressione in cui si poteva infilare un dito. Perplesso, sedette sui calcagni, dopo aver provato ad aprire l’ultimo.

Anche nelle pareti c’erano compartimenti dello stesso tipo, con le stesse depressioni. Ma anch’essi erano chiusi. Simon strinse i denti, pensando di usare il coltello come leva.

Poi girò su se stesso, appoggiandosi con le spalle alla parete, fissando la stanza ancora vuota. Perché dall’aria, davanti a lui, usciva una voce che parlava in una lingua incomprensibile: ma il tono era quello d’una domanda che esigeva una risposta immediata.

Capitolo terzo La rocca grigia

Lo stavano osservando. Oppure ascoltava qualcosa di affine ad un sistema d’altoparlanti? Quando Simon fu certo di essere solo nella stanza, ascoltò attentamente le parole che non poteva capire e che doveva cercare d’interpretare in base all’inflessione. La voce ripeté ciò che aveva detto… almeno, Simon era convinto di riconoscere parecchi suoni. E la ripetizione significava che qualcuno lo vedeva?

Tra quanto tempo l’interlocutore invisibile avrebbe mandato lì qualcuno? Subito, quando si fosse accorto che non avrebbe ottenuto risposta? Era chiaramente un avvertimento, un invito a muoversi… ma dove doveva andare? Simon tornò nel corridoio.

All’estremità più vicina era chiuso da una parete cieca; perciò doveva provare dall’altra parte, passando di nuovo davanti alle altre porte. Ma anche lì si trovò di fronte ad una superficie grigia. Ricordando le allucinazioni di Estcarp, Simon passò le mani su quella distesa liscia. Ma se c’era un’apertura, era nascosta da qualcosa di ben diverso da un’illusione. Era sempre più certo che i Kolder, qualunque cosa fossero, erano una razza completamente diversa dalle streghe, e realizzavano la loro magia secondo altri schemi. La loro azione era basata su facoltà esterne, non su un Potere interiore.

Per gli uomini di Estcarp gran parte della tecnologia del suo mondo sarebbe apparsa una magia. E forse, in quel momento, tra tutte le Guardie di Estcarp Simon era l’unico capace di razionalizzare e di comprendere, almeno in parte, ciò che si trovava in Gorm: era preparato ad affrontare coloro che usavano le macchine e la scienza delle macchine molto meglio delle streghe, anche se quelle erano capaci di evocare una flotta con pochi pezzetti di legno.

Avanzò lungo il corridoio, passando le mani prima su una parete e poi sull’altra, in cerca di irregolarità che denunciassero la presenza di un’uscita. Oppure la porta che cercava si trovava in una delle stanze? Senza dubbio, la fortuna non l’avrebbe accompagnato ancora a lungo.

Dall’aria risuonò di nuovo un comando in quella strana lingua: era impossibile ignorarne la veemenza. Simon, intuendo il pericolo, restò immobile, quasi aspettandosi di venire inghiottito da una botola o di ritrovarsi avviluppato in una rete materializzata all’improvviso. In quel momento scoprì l’uscita, ma non nel modo che aveva sperato: in fondo al corridoio, un tratto della parete rientrò, mostrando uno spazio illuminato. Simon sfilò il coltello dalla cintura e fronteggiò quel varco, pronto all’attacco.

Il silenzio venne rotto di nuovo dal latrato della voce disincarnata: e Simon sospettò che forse i padroni di quel luogo non avevano ancora sospettato la sua vera posizione. Forse, se potevano vederlo, la veste e la calotta che indossava li inducevano a crederlo uno di loro, che si comportava stranamente e al quale era stato ordinato di presentarsi altrove.

Deciso a recitare il ruolo che aveva scelto, Simon si avvicinò alla porta con maggiore sicurezza esteriore e minore cautela. Tuttavia, per poco non cedette al panico, quando la porta si chiuse dietro di lui, e scoprì di essere imprigionato in una specie di cabina. Solo quando sfiorò una parete e la sentì vibrare leggermente comprese che si trovava in un ascensore. Inspiegabilmente, quella scoperta lo rassicurò. Era sempre più convinto che i Kolder rappresentassero una forma di civiltà simile a quella del suo mondo. Era più rassicurante recarsi in ascensore ad affrontare un nemico… più di quanto lo fosse, per esempio, trovarsi in una stanza piena di nebbia e vedere un amico trasformarsi in uno sconosciuto ripugnante nel volgere di pochi istanti.

Eppure, nonostante quel senso di vaga familiarità, Simon non sentiva attenuarsi il gelo interiore. Poteva accettare come normali i prodotti dei Kolder, ma non riusciva ad accettare l’atmosfera di quel luogo: era troppo aliena. E non solo aliena — perché ciò che è strano non è necessariamente pericoloso — ma in qualche modo, il luogo era totalmente ostile a lui ed alla sua razza. No, non era aliena, decise una parte della sua mente durante quel rapido tragitto, ma inumana, mentre le streghe di Estcarp erano umane…

La vibrazione della parete cessò. Simon si scostò, senza sapere dove si sarebbe aperta quella porta… perché era sicuro che si sarebbe aperta, e quella certezza trovò conferma dopo un attimo.

Questa volta c’erano suoni, all’esterno: un ronzio soffocato, e voci lontane. Uscì, cautamente, e si trovò in una piccola alcova, adiacente ad una stanza. Ancora una volta, una parziale familiarità controbilanciò la stranezza. Un ampio tratto di parete era coperto da una mappa. Le coste profondamente dentellate, le zone montuose… le aveva già viste. Qua e là, sulla mappa, c’erano minuscoli punti luminosi di vari colori. Quelli lungo la costa, intorno alla scomparsa fortezza di Sulcar e la baia di Gorm erano violetti, mentre quelli che costellavano le pianure di Estcarp erano gialli, quelli nel territorio di Karsten verdi, quelli nelle distese di Alizon erano rossi.

Sotto la mappa c’era un tavolo altrettanto lungo: a intervalli, stavano macchine che di tanto in tanto sferragliavano, o lanciavano piccoli segnali luminosi. Seduti tra una macchina e l’altra, con le spalle rivolte verso di lui, concentrati esclusivamente sui loro apparecchi, c’erano altri individui che portavano vesti e calotte grige.

Un po’ in disparte c’era un secondo tavolo, o una scrivania colossale, dove sedevano altri tre Kolder. Quello al centro aveva sulla testa una calotta metallica da cui partivano fili e cavi sottilissimi, fissati ad un quadro dietro di lui. Il viso era inespressivo, gli occhi chiusi. Tuttavia, l’uomo non dormiva: di tanto in tanto, le sue dita si muovevano con rapidi scatti su una tastiera di bottoni e di leve inserita sul banco. Simon ebbe l’impressione di trovarsi nel centro nevralgico delle operazioni; e quella sensazione si rafforzò durante i secondi in cui poté assistere indisturbato alla scena.

Le parole che gli vennero rivolte bruscamente, questa volta, non uscivano dall’aria: le aveva pronunciate l’uomo alla sinistra della figura centrale. Fissò Simon: il suo volto piatto mostrò dapprima impazienza e poi, gradualmente, la constatazione che l’individuo appena entrato non apparteneva alla sua razza.

Simon scattò. Non poteva sperare di raggiungere quel tavolo, ma uno di coloro che manovravano le macchine sotto la mappa era alla sua portata. Lo colpì con il taglio della mano, con una violenza che avrebbe potuto spezzare la spina dorsale, ma fece perdere i sensi alla sua vittima. Usando come scudo quel corpo inerte, Simon arretrò verso la parete dov’era l’altra porta, sperando di raggiungere quell’uscita.

Con suo grande stupore, l’uomo che per primo l’aveva notato non tentò di ostacolarlo fisicamente. Si limitò a ripetere, lentamente e chiaramente, nella lingua degli indigeni continentali:

«Torna alla tua unità. Presentati al comando della tua unità.»

Mentre Simon continuava ad avanzare di traverso come un granchio in direzione della porta, uno degli uomini che fino a poco prima stava vicino al suo prigioniero girò gli occhi, sbalordito, da Tregarth agli uomini seduti al tavolo in fondo, e poi tornò a guardare Simon. Gli altri alzarono lo sguardo dalle macchine con lo stesso stupore, mentre il loro ufficiale si alzava in piedi. Evidentemente, si erano aspettati che Simon obbedisse con la massima prontezza.

«Torna alla tua unità! Subito!»

Simon rise. E il risultato della sua reazione fu sbalorditivo. I Kolder, ad eccezione dell’uomo con la calotta metallica, che sembrava non accorgersi di nulla, erano tutti in piedi. Quelli al tavolo centrale guardarono ancora i loro due superiori, come in attesa di ordini. E Simon pensò che, se avesse urlato di dolore, quelli non sarebbero rimasti altrettanto esterrefatti… la sua reazione ai loro ordini li aveva completamente sconcertati.

L’uomo che aveva dato l’ordine posò la mano sulla spalla del compagno con la calotta in testa, scuotendolo gentilmente, con un gesto che, nonostante la sua discrezione, esprimeva un vivo allarme. L’uomo con la calotta aprì gli occhi e si guardò intorno con impazienza e poi con evidente stupore. Fissò Simon, come se prendesse la mira.

Non fu un attacco fisico, ma un colpo violentissimo di un’energia invisibile che Simon non seppe definire. Ma quel colpo l’inchiodò alla parete, incapace di muoversi.

Il corpo che aveva usato come scudo gli scivolò dalle braccia pesanti e si afflosciò sul pavimento; persino respirare divenne uno sforzo impegnativo. Se fosse rimasto sotto la pressione di quella mano ciclopica, non sarebbe riuscito a sopravvivere. Ma la conoscenza dei Poteri di Estcarp aveva acuito la sua intelligenza. Pensò che la forza di cui era prigioniero non era fisica, e perciò poteva essere combattuta con la mente.

Aveva conosciuto quel potere solo attraverso i metodi di Estcarp, e non era stato addestrato ad usarlo. Ma chiamando a raccolta tutta la sua forza di volontà, Simon si concentrò sul tentativo di alzare un braccio, e lo vide muoversi così lentamente da temere che il suo sforzo fosse destinato al fallimento.

Quando ebbe appoggiato un palmo contro la parete cui l’inchiodava l’energia, alzò l’altra mano. Impegnando i muscoli e la volontà, lottò per spingersi lontano. C’era un’ombra di stupore sul volto largo, sotto quella calotta?

Ciò che Simon fece subito dopo non nacque da un ragionamento conscio. Certamente, non fu per sua volontà che la sua destra si sollevò all’altezza del cuore e le sue dita tracciarono nell’aria un simbolo, tra lui e l’uomo dalla calotta.

Era la terza volta che Simon vedeva quel simbolo. La mano che l’aveva tracciato le altre due volte era stata la mano della strega, e le linee avevano brillato per un istante d’un fuoco ardente.

Ora il simbolo lampeggiò ancora, ma di un candore crepitante. E in quel momento, Simon poté muoversi. La pressione s’era ridotta. Corse verso la porta, approfittando di quella possibilità momentanea di fuga per avventurarsi in quel territorio sconosciuto.

Ma fu solo un momento. Sulla porta si trovò di fronte uomini armati. Era impossibile equivocare l’estatica concentrazione degli occhi che si volsero verso di lui mentre irrompeva nel corridoio. Erano schiavi di Kolder, e solo uccidendoli sarebbe riuscito a passare.

Gli uomini si avvicinarono in silenzio, e quel silenzio era carico di minaccia. Simon scelse, fulmineamente, e sfrecciò verso di loro. Slittò verso destra e placcò alle caviglie l’uomo più vicino alla parete, facendolo cadere in modo da proteggersi le spalle.

Il pavimento liscio gli diede un aiuto inaspettato. Lo slancio li portò entrambi oltre i due compagni della guardia. Simon sferrò un colpo con il coltello, dall’alto in basso, e sentì la bruciatura di una lama lungo le costole, sotto le braccia. Scossa da una tosse convulsa, la guardia rotolò a terra, e Simon le strappò dalla cintura il lanciadardi.

Sparò appena in tempo al primo degli altri, e il colpo di spada diretto verso il suo collo trafisse invece il ferito. Quel secondo prezioso gli permise di mirare al terzo ed ultimo nemico.

Aggiunse altri due lanciadardi alle sue armi e proseguì. Fortunamente il corridoio non terminava davanti ad una porta nascosta: c’era una scala, intagliata nella pietra, che saliva contro un muro dello stesso materiale, in contrasto con le superfici lisce e grige e delle stanze che Simon aveva attraversato poco prima.

I suoi piedi nudi trassero leggeri scricchiolii dalla pietra. Uscì in un corridoio simile a quelli che aveva visto nel forte di Estcarp. Per quanto potesse essere funzionale e futuribile il nucleo interno di quel luogo, il guscio esterno era quasi identico agli edifici che lui conosceva.

Simon si nascose per due volte, stringendo il lanciadardi, quando vide venire verso di lui contingenti di indigeni trasformati dai Kolder. Non poteva sapere se era stato dato un allarme generale, o se erano impegnati in un normale giro di ronda, perché procedevano al trotto e non andavano a controllare nei passaggi laterali.

In quei corridoi dove la luce non cambiava mai, il tempo non aveva significato. Simon non sapeva se fosse giorno o notte, né da quanto tempo si trovasse nella fortezza dei Kolder. Ma provava fame e sete, sentiva il freddo che penetrava attraverso la tonaca, il disagio dei piedi nudi.

Se avesse avuto un’idea della planimetria di quel labirinto in cui tentava di fuggire, almeno! Si trovava sull’isola di Gorm? Oppure nella misteriosa città di Yle che i Kolder avevano fondato sulla costa continentale? O in un quartier generale segreto degli invasori? Perché era un quartier generale, ne era certo.

Il desiderio di trovare un nascondiglio temporaneo e qualche provvista lo spinse ad esplorare le stanze di quel piano. Non c’erano mobili simili a quelli che aveva visto prima. Le cassapanche di legno scolpito, le sedie, i tavoli, erano tutti prodotti dell’artigianato locale. E in alcune stanze c’erano tracce di partenze frettolose o di rapide perquisizioni, ormai coperte dalla polvere, come se quelle camere fossero abbandonate da molto tempo.

In una di esse, Simon trovò alcuni indumenti che gli andavano abbastanza bene. Ma gli mancava ancora un usbergo di maglia, e qualche altra arma, oltre a quelle che aveva tolto alle guardie. Ma soprattutto aveva bisogno di cibo, e cominciò a chiedersi se avrebbe dovuto ritornare ai piani inferiori per trovarlo.

Benché pensasse a scendere, Simon continuò a salire tutte le rampe e tutte le scale che trovava. Vide che tutte le finestre erano bloccate: solo la luce artificiale gli permetteva di vedere, e il chiarore era sempre più fioco, via via che aumentava la distanza tra lui e i quartieri occupati dai Kolder.

Un’ultima scala, molto stretta, aveva l’aria di essere usata più spesso; e Simon si tenne pronto a sparare, mentre la saliva. Si trovò davanti ad una porta. Si mosse senza difficoltà, quando la sospinse, e si trovò davanti ad un tetto piatto. Su una parte di quella distesa era stato eretto un tendone: e là sotto c’erano oggetti che non sbalordirono troppo Simon, dopo quello che aveva visto poco prima. Le ali tozze erano inclinate all’indietro rispetto ai musi ottusi; e nessuno di quei veicoli poteva trasportare più di un pilota e un paio di passeggeri. Ma erano senza dubbio aerei. Il mistero della presa di Forte Sulcar era risolto: se il nemico aveva usato una flotta aerea come quella…

I veicoli potevano offrire a Simon una via di scampo, se non c’erano altre possibilità. Ma dove si trovava? Osservando l’hangar improvvisato per scoprire se era sorvegliato, Tregarth si portò furtivamente verso l’orlo del tetto, sperando di vedere qualche elemento che gli consentisse di orientarsi.

Per un momento, si chiese se era tornato a Forte Sulcar… Forte Sulcar ricostruito. Sotto di lui si stendeva un porto, con navi all’ancora e file di edifici che fiancheggiavano strade dirette verso i moli. Ma la planimetria era diversa da quella della città dei mercanti. Era più grande, e mentre a Sulcar c’erano più magazzeni che abitazioni, lì era il contrario. Sebbene fosse mezzogiorno, a giudicare dalla posizione del sole, non c’era segno di vita in quelle strade, e nulla indicava che le case fossero abitate. Eppure non presentavano i segni di decadenza che tradivano un abbandono completo.

Poiché l’architettura ricordava quella di Karsten e di Estcarp, con poche differenze di scarsa importanza, non poteva trattarsi della Yle edificata dai Kolder. Quindi doveva essere su Gorm — forse in Sippar — il centro del cancro che le forze di Estcarp non erano mai riuscite a trafiggere.

Se la città era veramente senza vita, avrebbe dovuto essere abbastanza facile, per Simon, raggiungere il porto e trovare il modo di arrivare al continente orientale per via mare. Ma dato che l’edificio era completamente isolato dal mondo esterno, forse il tetto era l’unica via d’uscita, ed avrebbe fatto meglio ad esplorarlo.

L’edificio su cui si trovava era il più alto della piccola città: forse era l’antico castello dove aveva regnato il clan di Koris. Se il Capitano fosse stato con lui, il problema si sarebbe semplificato. Simon fece il giro di tre lati del tetto, e scoprì che non c’erano altri tetti adiacenti: da ogni parte c’era una strada.

Con una certa riluttanza, Simon tornò agli aerei. Era assurdo affidarsi ad una macchina che non sapeva pilotare. Però poteva ispezionarne una. Simon aveva acquistato coraggio dal fatto che da parecchio tempo nessuno aveva cercato di contrastargli il passo. Tuttavia prese le sue precauzioni per evitare sorprese. Incuneò il coltello nella serratura della porta del tetto, bloccandola: sarebbe stato necessario un ariete per aprirla.

Tornò all’aereo più vicino. Quando lo spinse, l’apparecchio scivolò allo scoperto: era molto leggero e maneggevole. Simon tirò un pannello nel muso tozzo e ispezionò il motore. Era diverso da tutti quelli che conosceva: e lui non era un ingegnere né un meccanico. Ma aveva abbastanza fiducia nell’efficienza dei Kolder per credere che fosse in grado di volare… se lui fosse stato capace di pilotarlo.

Prima di continuare l’esplorazione, Simon esaminò le altre quattro macchine, usando il calcio d’uno dei lanciadardi per sfasciarne i motori. Se fosse stato costretto ad affidarsi all’aria, non voleva diventare il bersaglio di un inseguimento.

Fu quando alzò il suo martello improvvisato per l’ultima volta che il nemico attaccò. Non aveva sentito battere alla porta bloccata, né scalpiccii di passi sulla scala. Vi fu solo la spinta silenziosa della forza invisibile. Questa volta non cercava di tenerlo immobile, ma di trascinarlo verso la fonte di quell’ondata d’energia. Simon si aggrappò all’aereo, per ancorarsi. Invece lo trascinò con sé all’aperto… Non poteva arrestare la sua marcia attraverso il tetto.

E non lo stava portando verso la porta. Con una fitta di terrore, Simon si rese conto che la sua destinazione non era il dubbio futuro dei livelli più bassi, ma la morte rapida di un tuffo dal tetto.

Lottò con tutta la volontà: muoveva un passo riluttante dopo l’altro, inframmezzati da periodi di lotta tormentosa. Provò di nuovo a tracciare nell’aria il simbolo che prima l’aveva salvato. Forse perché adesso non fronteggiava personalmente il nemico, quel simbolo non gli arrecò alcun sollievo.

Poteva rallentare l’avanzata, procrastinando per secondi o minuti la fine inevitabile. Tentò di dirigersi verso la porta, ma non ci riuscì: aveva sperato, disperatamente, che l’altro interpretasse la sua azione come un gesto di resa. Ma ormai Simon sapeva che lo volevano morto: la decisione che avrebbe preso lui stesso, se avesse avuto il comando, in quel luogo.

C’era l’aereo che aveva pensato di tenere come ultima riserva. Bene, ormai non aveva altra via di scampo! E si trovava tra lui e l’orlo del tetto verso cui veniva trascinato.

Era una speranza quasi irrisoria, ma non ne aveva altre. Simon cedette alla pressione per due passi, poi ne mosse un terzo, rapidamente, come se le sue forze stessero cedendo. Un altro passo… la sua mano si posò sull’apertura del compartimento di pilotaggio. Compiendo lo sforzo supremo di quella strana battaglia, si buttò all’interno.

L’attrazione lo fece urtare contro la parete opposta dell’abitacolo, e il leggero apparecchio ondeggiò sotto i suoi movimenti convulsi. Fissò quello che doveva essere il quadro degli strumenti. C’era una leva alzata, all’estremità di una sottile fenditura, ed era l’unico oggetto che sembrava mobile. Lanciando un’invocazione a Poteri che non erano quelli di Estcarp, Simon riuscì a sollevare la mano pesante e ad abbassare la leva.

Capitolo quarto La città dei morti

Puerilmente, Simon si era aspettato di venire trasportato nell’aria, ma l’apparecchio corse in avanti, acquistando velocità. Il muso urtò il basso parapetto con forza sufficiente per far compiere una capriola completa all’aereo. Simon si rese conto che stava precipitando: non da solo, come aveva sperato il suo tormentatore, ma racchiuso in quell’abitacolo.

Poi, di colpo, si accorse che non stava precipitando verticalmente: scendeva come lungo un piano inclinato. Disperatamente, afferrò di nuovo la leva, la tirò leggermente verso l’alto.

Poi vi fu uno schianto, seguito da una tenebra senza vista, senza suoni, senza sensazioni.

Una scintilla d’ambra rossa lo fissava dall’oscurità. E c’era un suono fievole che si ripeteva… il ticchettio di un orologio, uno sgocciolio d’acqua? E poi c’era l’odore. Fu l’odore a spingere Simon ad agire. Era un fetore dolciastro, nauseante che gli stringeva le narici e la gola: un fetore di putredine e di morte.

Si accorse di essere seduto; e una luce fioca mostrava il relitto che lo teneva in quella posizione. Ma la pressione ossessiva che l’aveva aggredito sul tetto era svanita: era libero di muoversi, se poteva, e di pensare.

A parte alcune ammaccature dolorose, era evidentemente sopravvissuto all’incidente senza lesioni o ferite. L’apparecchio doveva avere attutito il colpo. E l’occhio rosso nell’oscurità era una spia accesa sul quadro della leva. Lo sgocciolio era vicino.

Anche l’odore era vicino. Simon si girò sul sedile e spinse. Vi fu un tintinnio di metallo contro metallo, e un’ampia sezione dell’abitacolo cedette. Simon si trascinò faticosamente fuori dalla sua gabbia. In alto c’era uno squarcio incorniciato da travi spezzate. Mentre stava guardando, un altro pezzo di tetto cedette e cadde sull’aereo già malridotto. Doveva essere precipitato sul tetto di uno degli edifici vicini, sfondandolo. Se ne era uscito vivo e ragionevolmente indenne lo doveva ad uno strano capriccio del destino.

Doveva essere rimasto privo di sensi per qualche tempo, poiché il cielo aveva il pallore della sera. E la fame e la sete lo tormentavano. Doveva trovare viveri e acqua.

Ma perché il nemico non l’aveva ancora individuato? Certamente chiunque, sull’altro tetto, avrebbe potuto assistere alla fine del suo volo mancato. A meno che… se quelli non avessero saputo del suo tentativo… se l’avessero seguito solo per mezzo di un contatto mentale… Allora avrebbero saputo soltanto che era piombato oltre il parapetto, che la caduta era finita con un vuoto… e l’avevano interpretato come la sua morte. Se era vero, allora, era libero, anche se si trovava ancora nella città di Sippar!

Per prima cosa doveva trovare viveri e acqua, e poi scoprire dove si trovava, in relazione al resto del porto.

Simon trovò una porta: dava su una scala che scendeva verso la strada, come lui aveva sperato. L’aria era pesante, contaminata da quell’odore. Ormai l’aveva identificato: e lo fece esitare… gli ripugnava quello che doveva trovarsi là sotto.

Ma là sotto c’era l’unica via d’uscita, e quindi doveva scendere. Le finestre non erano bloccate e la luce formava chiazze fioche su ogni pianerottolo. C’erano anche numerose porte, ma Simon non ne aprì neppure una, poiché gli sembrava che in quei punti il fetore nauseante fosse più forte.

Scese un’altra rampa, e giunse in un corridoio che finiva davanti ad una grande porta: pensò che doveva dare sulla strada. Qui, Simon si azzardò ad esplorare, e in una stanza scoprì il pane coriaceo che rappresentava la base delle razioni militari di Estcarp, insieme ad un barattolo di frutta conservata. I resti ammuffiti di altre provviste indicavano che nessuno era stato lì da molto tempo. L’acqua sgorgava da un tubo, e Simon bevve prima di ingozzarsi di cibo.

Era difficile mangiare, nonostante la fame, perché quell’odore sembrava permeare ogni cosa. Sebbene fosse stato solo in quell’edificio, al di fuori della cittadella, Simon temeva che il suo mostruoso sospetto fosse fondato: escludendo l’edificio centrale e i suoi pochi abitanti, Sippar era la città dei morti. I Kolder dovevano avere eliminato spietatamente i vinti che non potevano essere loro utili. Non solo li avevano massacrati, ma li avevano lasciati insepolti nelle loro case. Come monito contro la ribellione dei pochi rimasti vivi? O solo perché non se ne curavano? Sembrava che quell’ultima ipotesi fosse la più verosimile; e lo strano senso di affinità che Simon aveva provato per gli invasori si spense di colpo.

Simon portò via tutto il pane che riuscì a trovare e una bottiglia piena d’acqua. Stranamente, la porta che conduceva sulla strada era sbarrata dall’interno. Coloro che un tempo vivevano lì si erano barricati nell’edificio e si erano suicidati in massa? Oppure erano stati spinti ad uccidersi dalla stessa pressione usata per costringerlo a buttarsi dal tetto?

La strada era deserta come l’aveva vista dall’alto. Ma Simon camminò rasente ai muri, scrutando tutti i portoni bui, le imboccature di tutti i vicoli. Tutte le porte erano chiuse: nulla si muoveva, mentre lui avanzava verso il porto.

Intuiva che se avesse provato, avrebbe scoperto che quelle porte erano sbarrate, anche se là dentro c’erano soltanto i morti. Erano periti poco dopo che Gorm aveva accolto i Kolder per soddisfare le ambizioni di Orna e di suo figlio? Oppure la fine era venuta più tardi, negli anni trascorsi da quando Koris era fuggito ad Estcarp e l’isola era rimasta isolata dal resto dell’umanità? Non aveva importanza per nessuno… forse per uno storico. Quella era una città di morti — morti nel corpo e, nel forte, morti nello spirito — eccettuati i Kolder, che forse potevano essere morti in un altro senso, e forse conservavano solo una parvenza di vita.

Mentre camminava, Simon si imprimeva nella mente il percorso. Gorm poteva venire liberata solo se il forte centrale fosse stato distrutto, di questo era sicuro. Ma pensava che aver lasciato quegli edifici deserti intorno al loro covo era stato un grave errore da parte dei Kolder. A meno che avessero difese e sistemi d’allarme nascosti in quelle case, sarebbe stato uno scherzo far sbarcare un contingente di truppe e nasconderlo.

Koris aveva parlato delle spie che Estcarp aveva mandato sull’isola, nel corso degli anni. E del fatto che lo stesso Capitano non aveva potuto tornare in patria a causa di una misteriosa barriera. Dopo la sua esperienza con le armi dei Kolder, Simon era possibilista. Lui era riuscito a liberarsi, prima nella sala del quartier generale e poi impadronendosi di un aereo. Il fatto che i Kolder non avessero cercato di dargli la caccia dimostrava che dovevano crederlo morto.

Ma era difficile pensare che non vi fosse qualcuno — o qualcosa — intento a sorvegliare la città silenziosa. Perciò si tenne al coperto, fino a che raggiunse i moli. C’erano diverse navi, straziate dalle tempeste; alcune erano state spinte contro la riva, e le sartie erano grovigli putridi, le fiancate sventrate; altre erano quasi completamente allagate, e solo i ponti superiori emergevano dall’acqua. Nessuno di quei vascelli aveva più navigato da molti anni!

Tra Simon e il continente si estendeva l’ampiezza della baia. Se quel porto era Sippar, e non aveva motivo di credere che non lo fosse, ora si trovava di fronte al lungo braccio di terra su cui gli invasori avevano edificato Yle, il braccio che terminava in un dito di cui Forte Sulcar era stato l’unghia. Dopo la caduta della roccaforte dei mercanti, era probabile che le forze dei Kolder controllassero ormai l’intero promontorio.

Se fosse riuscito a trovare una piccola imbarcazione ed a prendere il largo, Simon sarebbe stato costretto a seguire la rotta più lunga ad est, lungo la baia, verso la foce del fiume Es, e poi fino ad Estcarp. Ed era ossessionato dalla certezza che il tempo non combatteva più dalla sua parte.

Trovò la barca che cercava, un piccolo guscio custodito in un magazzeno. Sebbene Simon non fosse un marinaio, prese tutte le possibili precauzioni per assicurarsi che fosse in grado di tenere il mare. E attese che fosse completamente buio prima di prendere i remi; digrignò i denti per il dolore delle ammaccature e remò energicamente, zigzagando tra i relitti putridi della flotta gormiana.

Quando li ebbe superati, si azzardò ad alzare il piccolo albero… e urtò a capofitto contro le difese dei Kolder. Non vide e non udì nulla, quando si accasciò sul fondo della barca, tappandosi le orecchie con le mani, chiudendo gli occhi per ripararsi dal tumulto del suono silenzioso e di luce invisibile che s’irradiava da un punto del suo cervello. Aveva pensato che la lotta contro la pressione della volontà l’avesse reso consapevole del potere dei Kolder, ma quel sovvertimento nel cervello era anche peggio.

Per quanto rimase entro quella nube? Pochi minuti, un giorno o un anno? Stordito e muto, Simon non riusciva a comprenderlo. Giaceva abbandonato in una barca che oscillava seguendo le onde, ma obbediva alla lieve spinta del vento sulla vela. E dietro di lui c’era Gorm, morta e buia nel chiaro di luna.

Prima dell’alba, Simon venne raccolto da un vascello della guardia costiera proveniente dall’Es, e ormai aveva recuperato la lucidità, sebbene si sentisse ancora la mente sconvolta. Cambiando cavallo alle varie postazioni, raggiunse la città di Estcarp.

Nel forte, nella stessa sala dove aveva incontrato per la prima volta la Guardiana, Simon partecipò a un consiglio di guerra e riferì la sua avventura a Gorm, e i suoi contatti con i Kolder agli ufficiali di Estcarp ed alle donne che ascoltavano impassibili. Mentre parlava, cercava con gli occhi una delle streghe, ma non la trovò.

Quando ebbe terminato (gli avevano rivolto poche domande, lasciando che raccontasse a modo suo, mentre Koris stringeva le labbra, impietrito, nel sentir descrivere la città dei morti), la Guardiana chiamò con un cenno una delle altre donne.

«Ora, Simon Tregarth, prendile le mani, e pensa all’uomo con la calotta in testa, ricorda ogni dettaglio del suo abbigliamento e del suo viso,» ordinò la Guardiana.

Sebbene non ne comprendesse lo scopo, Simon obbedì. Di solito, pensò ironicamente, si obbediva alle streghe di Estcarp.

Prese tra le sue quelle mani fresche ed asciutte, e raffigurò mentalmente la veste grigia, la strana faccia con la metà inferiore che contrastava stranamente con la metà superiore, la calotta metallica, l’espressione di potenza e poi di perplessità apparsa su quei lineamenti quando Simon si era ribellato. Le mani della donna si ritrassero, e la Guardiana parlò di nuovo.

«Hai visto, sorella? Puoi modellare?»

«Ho visto,» rispose la donna. «E posso modellare ciò che ho visto. Poiché ha usato il potere nel duello di volontà, l’impressione dovrebbe essere forte. Tuttavia…» La strega abbassò lo sguardo sulle mani, muovendo le dita come se si preparasse a qualche compito, «Tuttavia non so se potremo servircene. Sarebbe stato meglio se fosse scorso il sangue.»

Nessuno fornì spiegazioni, e Simon non ebbe tempo di fare domande, perché Koris lo prese in disparte, appena il consiglio si sciolse, e lo condusse alla caserma. Appena furono nella stanza che gli era spettata prima della partenza per Forte Sulcar, Simon chiese al Capitano:

«Dov’è la signora?» Era irritante non poterne dire il nome: quella stranezza delle streghe lo infastidiva più che mai. Ma Koris comprese.

«Sta controllando le postazioni di confine.»

«Ma è al sicuro?»

Koris scrollò le spalle. «Chi di noi è al sicuro, Simon? Ma stai certo che le donne del Potere non corrono rischi inutili. Ciò che custodiscono in se stesse non può venire sprecato alla leggera.» Si era accostato alla finestra, volgendo il viso alla luce, con gli occhi intenti come se non volesse vedere altro che la pianura oltre la città. «Dunque Gorm è morto.» Lo disse con voce pesante.

Simon si sfilò gli stivali e si sdraiò sul letto. Era stanchissimo e indolenzito.

«Ti ho detto ciò che ho visto, nient’altro. C’è vita nel forte centrale di Sippar. Non ho trovato esseri viventi altrove, ma non ho cercato molto.»

«Vita? Che genere di vita?»

«Questo devi chiederlo ai Kolder, o forse alle streghe,» ribatté Simon insonnolito. «Né gli uni né le altre sono simili a te ed a me, e forse considerano la vita in un modo diverso.»

Si accorse appena che il Capitano si era allontanato dalla finestra e gli stava accanto, nascondendo con le ampie spalle la luce del giorno.

«Sto pensando, Simon Tregarth, che anche tu sei diverso.» Ancora una volta, il tono era pesante, senza sonorità. «E vedendo Gorm, come hai considerato la sua vita… o la sua morte?»

«Atroce,» mormorò Simon. «Ma anche questo dovrà venire giudicato a suo tempo.» E si stupì delle parole che aveva scelto, mentre si stava addormentando.

Dormì, si svegliò, mangiò voracemente, e si riaddormentò. Nessuno venne a cercarlo, e si disinteressò di quel che succedeva nel forte di Estcarp. Riposava come un animale che accumulasse il riposo sotto la pelle, come un orso accumula strati di grasso in vista dell’ibernazione. Quando si svegliò di nuovo, si sentì pronto, impaziente, fresco come non gli era accaduto da tanto tempo… prima di Berlino. Berlino… cosa… dove era Berlino? Ormai i suoi ricordi erano sepolti sotto nuove realtà.

E il ricordo che tornava più spesso ad assillarlo era la stanza della casa di Kars, dove gli arazzi lisi coprivano le pareti ed una donna lo guardava con gli occhi colmi di stupore, mentre tracciava con la mano un simbolo fiammeggiante nell’aria. Poi c’era l’altro momento, quando lei era rimasta, nauseata e stranamente sola, dopo aver operato una sordida magia per Aldis, contaminando il suo dono per il bene della sua causa.

Mentre Simon stava disteso, fremente di vita in ogni nervo e in ogni cellula, liberato dai dolori, dalla tensione della fame e della concitazione, mosse la mano destra e se la posò sul cuore. Ma non sentì il calore della propria pelle: cullava nella memoria qualcosa di diverso, mentre un canto che non era un canto fluiva da lui, e nell’altra mano aveva afferrato una sostanza che non sapeva di possedere.

Sopra ogni altra cosa, più della vita tra gli scorridori del confine, più dell’esperienza della prigionia… quelle scene silenziose e passive lo dominavano. Sebbene prive di azione fisica, possedevano per lui un interesse segreto che non osava definire o spiegare troppo minuziosamente.

Ma ben presto dovette scuotersi. Mentre dormiva, Estcarp aveva radunato tutte le sue forze. I fari sulle alture avevano portato messaggeri dalle montagne, dal Nido, da tutti coloro che erano disposti ad opporsi a Gorm ed alla fine atroce minacciata da Gorm. Mezza dozzina di vascelli di Sulcar, rimasti senza patria, erano attraccati nelle cale scoperte dai Falconieri; le famiglie degli equipaggi erano sbarcate sane e salve, e le navi erano state armate e preparate per l’attacco. Ormai tutti erano convinti che bisognava muovere guerra a Gorm prima che fosse Gorm ad aggredirli.

C’era un accampamento alla foce dell’Es: e c’era una tenda eretta sulla riva dell’oceano. Dal suo ingresso si poteva vedere l’ombra dell’isola, simile a un banco di nubi sopra le acque. E in attesa del segnale, oltre la punta dove le rovine del loro forte erano battute dalle onde, indugiavano le navi, cariche di uomini di Sulcar, Falconieri e scorridori del confine.

Ma prima era necessario abbattere la barriera che cingeva Corni, e questo spettava a coloro che detenevano il Potere di Estcarp. Perciò, senza sapere perché dovesse far parte di quel gruppo, Simon si ritrovò seduto ad un tavolo che sembrava destinato ad un gioco. Ma non c’era una superficie a blocchi alternati di colori: davanti ad ogni seggio c’era un simbolo dipinto. I presenti formavano uno strano assortimento, per un comando supremo.

Simon scoprì che gli era stato assegnato il posto accanto alla Guardiana: il simbolo, lì, copriva due spazi. Era un falco bruno, incorniciato da un ovale dorato; e sopra l’ovale stava una corona a tre punte. Alla sua sinistra, un rombo verdazzurro racchiudeva un pugno che stringeva un’ascia. E più oltre, un quadrato rosso incastonava un pesce cornuto.

A destra, oltre la Guardiana, c’erano altri due simboli che Simon non poteva distinguere senza sporgersi in avanti. Due streghe sedettero in silenzio davanti a quei segni, posandovi sopra le mani. Vi fu un movimento sulla sinistra; e Simon, alzando la testa, provò uno strano senso di sollievo quando incontrò uno sguardo fermo nel quale c’era qualcosa di più del riconoscimento della sua identità. Ma lei non parlò, e Simon imitò quel silenzio. Il sesto ed ultimo dei presenti era il giovane Briant, pallidissimo: fissava il pesce dipinto davanti a lui come se fosse vivo, e come se dovesse tenerlo prigioniero con lo sguardo entro quel mare scarlatto.

La donna che aveva stretto la mano di Simon mentre egli pensava all’uomo di Gorm entrò nella tenda, seguita da altre due, ognuna delle quali portava un piccolo braciere d’argilla esalante un fumo dolcissimo. Li posarono sull’orlo del tavolo, e l’altra donna posò l’ampio canestro che aveva portato. Tolse il telo che lo copriva e scoprì una fila di piccole immagini.

Prese la prima, e andò a mettersi davanti a Briant. Per due volte passò nel fumo la statuetta, poi la tenne davanti agli occhi del ragazzo. Era un manichino splendidamente lavorato, con i capelli d’oro rosso, e con un aspetto così realistico che Simon immaginò fosse il ritratto di un uomo vivente.

«Fulk.» La donna pronunciò il nome e depose la statuetta al centro del quadrato scarlatto, esattamente sul pesce dipinto. Briant non poteva impallidire: la sua carnagione trasparente era sempre esangue. Ma Simon lo vide deglutire convulsamente, prima di rispondere.

«Fulk di Verlaine.»

La donna tolse dal canestro una seconda figura e, quando si avvicinò alla vicina di Simon, questi poté rendersi meglio conto della perfezione del suo lavoro. Infatti la donna teneva tra le mani, facendola passare nel fumo, un’immagine perfetta di colei che aveva chiesto un incantesimo per tenere legato a sé Yvian.

«Aldis.»

«Aldis di Kars,» riconobbe la donna seduta accanto a Simon, mentre i piedi minuscoli della statuetta venivano posati sul pugno che stringeva l’ascia.

«Sandar di Alizon.» Una terza statuetta per la posizione più lontana, sulla destra.

«Siric.» Un’immagine ventruta dalle vesti fluenti per l’altro simbolo di destra.

Poi la donna prese l’ultima figurina, studiandola per un momento prima di passarla tra il fumo. Quando venne a mettersi davanti a Simon e alla Guardiana, non pronunciò nomi, ma gliela mostrò perché la riconoscesse. E Simon vide il piccolo simulacro del comandante di Gorm. A quanto poteva ricordare, la somiglianza era perfetta.

«Gorm!» riconobbe Simon, sebbene non sapesse dare un nome più preciso al Kolder. E la donna posò scrupolosamente la statuetta sul falco bruno ed oro.

Capitolo quinto Il gioco del potere

Cinque immagini posate sui simboli delle loro terre, cinque rappresentazioni perfette di esseri viventi, quattro uomini ed una donna. Ma perché? Per quale scopo? Simon guardò di nuovo verso destra. I minuscoli piedi dell’effigie di Aldis erano circondati dalle mani della strega, quelli della figura di Fulk dalle dita di Briant. Entrambi fissavano assorti le immagini, e Briant sembrava turbato.

L’attenzione di Simon si concentrò sulla figura che gli stava davanti. Nella sua mente guizzarono vaghi ricordi di antiche favole. Avrebbero dovuto trafiggere i pupazzi con gli spilloni, per fare soffrire e morire gli originali?

La Guardiana gli prese la mano, con la stessa stretta che lui aveva conosciuto a Kars durante la metamorfosi. Nello stesso tempo, la donna posò l’altra mano, a semicerchio, intorno alla base della figurina. Simon posò la sua, in modo che le loro dita, toccandosi, racchiudessero il Kolder.

«Ora ognuno di voi deve pensare alla persona che ha effigiata davanti, e con cui ha avuto una prova di potere o un legame di sangue. Scacciate dalla mente tutto il resto, tranne la persona che dovete raggiungere e piegare al nostro volere. Perché ora vinceremo il Gioco del Potere su questo tavolo… o falliremo!»

Gli occhi di Simon erano fissi sulla figura del Kolder. Non sapeva se avrebbe potuto distoglierli, volendo. Pensava di essere stato chiamato a partecipare a quella bizzarra procedura perché lui, solo, tra tutti coloro che appartenevano alle forze di Estcarp, aveva visto il comandante di Gorm.

Il volto minuscolo, adombrato dalla calotta metallica, ingrandì, assunse proporzioni naturali. Simon lo fronteggiava attraverso lo spazio come l’aveva fronteggiato attraverso quella sala, nel cuore di Sippar.

Gli occhi erano di nuovo chiusi; l’uomo era impegnato nella sua attività misteriosa. Simon continuò a studiarlo, e poi seppe che tutto l’antagonismo per i Kolder, tutto l’odio scatenato in lui da quanto aveva scoperto nella città, dal loro modo di trattare i prigionieri, si concentravano nella sua mente: era come se componesse piccoli pezzi per ricavarne un’arma formidabile.

Simon non era più nella tenda agitata dai venti del mare, dove la sabbia soffiava su un falco dipinto. Stava invece davanti al Kolder nel cuore di Sippar, e con la sua volontà gli imponeva di aprire gli occhi chiusi, di guardarlo, di prepararsi ad un combattimento mentale.

Gli occhi si aprirono, e Simon fissò le pupille scure, vide le palpebre sollevarsi di più, come per riconoscere la minaccia che si serviva di lui come punto di concentrazione, come il calderone in cui ogni terrore ed ogni pericolo poteva venire portato all’ebollizione.

Gli occhi dell’uno fissavano gli occhi dell’altro. Le impressioni del volto piatto, della calotta metallica, di tutto, tranne quegli occhi, svanì, poco a poco. Come Simon aveva sentito il flusso del potere passare dalla sua mano a quella della strega, a Kars, adesso sapeva che l’energia ribollente in lui veniva continuamente alimentata da un calore più grande di quello che potevano generare le sue emozioni, che lui era un’arma per lanciare un dardo fatale.

All’inizio, il Kolder l’aveva contrastato con sicurezza; ora cercava di liberarsi da quel legame tra occhio ed occhio, tra mente e mente, riconoscendo troppo tardi d’essere preso in trappola. Ma la trappola era scattata, e per quanto lottasse, l’uomo non poteva sciogliersi da ciò che aveva accettato nell’arrogante fiducia verso la sua forma di magia.

Simon sentì tutta la tensione erompere bruscamente da lui, passare da lui all’altro. Gli occhi furono sommersi dal panico, il panico lasciò il posto ad un terrore abietto che continuò a bruciare fino a quando non trovò più nulla per alimentarsi. Simon comprese di avere di fronte solo un guscio vuoto, che avrebbe obbedito alla sua volontà, come i gusci vuoti di Gorm obbedivano alla volontà dei loro padroni.

Impartì i suoi ordini. Il potere della Guardiana alimentava il suo; lei osservava e attendeva, pronta ad aiutarlo, ma senza avanzare suggerimenti. Simon era certo dell’obbedienza del suo nemico come era sicuro della vita che ardeva dentro di lui. Ciò che controllava Gorm si sarebbe sgretolato, la barriera sarebbe caduta, finché quello strumento avesse continuato ad operare senza ostacoli da parte dei suoi simili. Ora Estcarp aveva un alleato robot all’interno della fortezza.

Simon alzò la testa, aprì gli occhi, e vide il tavolo dipinto su cui le sue dita stringevano ancora quelle della Guardiana intorno ai piedi della statuina. Ma il manichino non era più perfetto. Entro la cavità della calotta metallica, la testa era una massa informe di cera fusa.

La Guardiana allentò la stretta, ritrasse la mano e l’abbandonò inerte. Simon girò la testa, vide sulla sinistra un viso teso e sbiancato, con gli occhi cerchiati, mentre la donna che aveva concentrato il potere su Aldis si abbandonava sul suo seggio. E anche la figuretta della dama aveva la testa devastata.

L’immagine che era stata battezzata con il nome di Fulk di Verlaine si era rovesciata, e Briant stava raggomitolato su se stesso, con il viso nascosto tra le mani, i capelli incolori incollati sul cranio dal sudore.

«È fatto.» Fu la Guardiana a rompere il silenzio. «Ciò che il Potere può fare, ha fatto. In questo giorno abbiamo operato potentemente, come mai ha fatto il sangue di Estcarp. Ora spetta al fuoco e alla spada, al vento e all’onda, di servirci se vorranno, e se gli uomini li useranno!» Era un filo di voce esausta.

Le rispose qualcuno che si accostò alla tavola per fermarsi davanti a lei, accompagnato dal lieve tintinnio del metallo contro il metallo che distingueva un uomo in pieno assetto di guerra. Koris teneva contro il fianco l’elmo con il falco per cimiero: alzò l’Ascia di Volt.

«Stai certa, Signora, che vi sono uomini pronti ad usare ogni arma accordataci dalla Fortuna. I fari sono accesi, le nostre navi ed i nostri eserciti si muovono.»

Simon, sebbene avesse l’impressione che la terra ondeggiasse sotto i suoi piedi, si alzò. La donna che stava seduta alla sua sinistra si mosse prontamente. Tese la mano, ma prima di toccare quella di lui la lasciò ricadere sul tavolo. E non espresse a parole quella negazione che Simon poteva leggere nelle linee tese del suo corpo.

«La guerra, ora completata secondo il vostro Potere,» disse lui, come se fossero soli, «è tipica di Estcarp. Ma io non sono di Estcarp, e resta l’altra guerra che è il mio genere di potere. Ho giocato il vostro gioco come tu volevi, signora; ora cercherò di giocare il mio!»

Mentre girava intorno al tavolo per raggiungere il Capitano, un’altra persona si alzò, esitando, puntellandosi con la mano al tavolo per sostenersi. Briant fissava la statuetta davanti a sé, ed il suo volto era cupo, perché la figura, sebbene fosse caduta, era intatta.

«Non ho mai affermato di avere il Potere,» disse sottovoce. «E sembra che in questa guerra io sia stato sconfitto. Forse non sarà così con la spada e lo scudo!»

Koris si mosse, come per protestare. Ma la strega che era stata a Kars parlò prontamente:

«Qui c’è libertà di scelta per tutti coloro che cavalcano o navigano sotto la bandiera di Estcarp. Che nessuno forzi tale scelta.»

La Guardiana annuì in segno di assenso. I tre uscirono dalla tenda sulla riva del mare: Koris, vibrante, vivo, con la bella testa eretta sulle spalle grottesche, le narici dilatate per aspirare qualcosa che non era soltanto l’aria salmastra; Simon, che si muoveva più lentamente, in preda ad una stanchezza nuova, ma sostenuto dalla decisione di arrivare fino in fondo a quell’avventura; e Briant, che si assestava l’elmo sulla testa bionda, si avvolgeva intorno alla gola la sciarpa di maglia metallica, gli occhi fissi nel vuoto come se fosse dominato da qualcosa di più forte della sua volontà.

Il Capitano si rivolse agli altri due, quando raggiunsero le barche che li attendevano per portarli alle navi. «Verrete con me sull’ammiraglia, perché tu, Simon, dovrai fungere da guida, e tu…» guardò Briant ed esitò. Ma il ragazzo, sollevando il mento, lo fissò con aria di sfida. Simon sentì come uno scambio enigmatico tra i due, mentre attendeva che Koris rispondesse a quella sfida silenziosa.

«Tu, Briant, ti metterai tra i miei uomini e resterai con loro!»

«Io, Briant,» rispose il ragazzo con un tono quasi impudente, «starò alle tue spalle, Capitano di Estcarp, quando vi sarà una buona ragione per farlo. Ma combatterò con la mia spada e impugnerò il mio scudo, in questa e in qualunque altra battaglia!»

Sembrò per un momento che Koris stesse per ribattere: ma poi li chiamarono dalle barche. E quando avanzarono nell’acqua per salire a bordo, Simon notò che il ragazzo aveva cura di tenersi il più lontano possibile dal comandante, per quanto lo permetteva la piccola imbarcazione.

La nave che rappresentava la punta di diamante dell’attacco di Estcarp era un peschereccio: le Guardie erano stipate a bordo quasi spalla a spalla. Gli altri eterogenei mezzi di trasporto si accodarono mentre avanzavano sulle acque della baia.

Erano abbastanza vicini per vedere la flotta che imputridiva nel porto di Gorm quando risuonò il richiamo dei vascelli di Sulcar, e i mercantili con il loro carico di Falconieri, profughi di Karsten e superstiti di Sulcar aggirarono un promontorio.

Simon non sapeva dove avesse attraversato la barriera durante la fuga da Gorm: forse stava conducendo al disastro la sua flotta. Potevano solo sperare che il Gioco del Potere avesse attenuato la difesa.

Tregarth stava ritto a prua del peschereccio, scrutando il porto della città morta, in attesa di scoprire i primi sintomi della presenza della barriera. O forse sarebbero stati attaccati da una di quelle navi metalliche, inattaccabili?

Il vento gonfiava le vele e, per quanto le navi fossero sovraccariche, tagliavano le onde e mantenevano le posizioni prestabilite. Un relitto proveniente dal porto, che aveva ancora abbastanza vele lacere per prendere il vento ed aveva spezzato gli ormeggi, attraversava la loro rotta: una grande fascia d’alghe verdi sotto la linea di galleggiamento rallentava il suo procedere.

Sul ponte non c’era segno di vita. Da una nave di Sulcar, una sfera descrisse un arco, sollevandosi pigramente nell’aria, e piombò a schiantarsi sul ponte del relitto. Dallo squarcio della tolda si levarono rosse lingue di fiamma che divorarono avidamente il legno secco: la nave, bruciando, andò alla deriva verso il largo.

Simon sorrise a Koris, assillato da un’eccitazione tesa. Ormai era sicuro che avevano superato il primo punto pericoloso.

«Abbiamo varcato la tua barriera?»

«Sì, a meno che l’abbiano avvicinata alla terraferma!»

Koris appoggiò il mento sull’Ascia di Volt, mentre scrutava le dita scure dei moli di quella che un tempo era stata una città fiorente. Sogghignava, come un lupo che mostra le zanne prima della battaglia.

«Si direbbe che questa volta il Potere abbia funzionato,» commentò. «Ora facciamo la nostra parte.»

Simon avvertì come una fitta premonitrice. «Non sottovalutarli. Abbiamo superato solo la prima difesa, forse la più debole.» L’euforia iniziale era svanita rapidamente. Intorno a lui c’erano spade, asce, lanciadardi. Ma nel cuore del forte dei Kolder c’era una scienza di parecchi secoli più avanzata, che da un momento all’altro poteva causare una brutta sorpresa.

Mentre si addentravano nel porto per cercare di raggiungere i moli passando tra i vascelli che marcivano all’ancora, in Sippar continuava a non vedersi alcun segno di vita. Ma il silenzio cupo della città morta scendeva sugli invasori, smorzando il loro ardore, smussando l’entusiasmo e la sensazione di trionfo suscitata dal superamento della barriera.

Koris lo sentì. Passò tra la massa degli uomini che attendevano di sbarcare, cercò il comandante della nave e gli chiese di affrettare l’attracco. Ma si sentì ricordare seccamente che, sebbene il Capitano della Guardia di Estcarp potesse essere onnipotente sulla terraferma, doveva lasciare il mare a quelli che lo conoscevano, e che il comandante non aveva nessuna intenzione di mandare il suo vascello a speronare uno dei relitti.

Simon continuava a scrutare la costa, scrutando l’imboccatura di ognuna di quelle strade deserte, levando di tanto in tanto gli occhi verso la mole cieca che era il cuore di Sippar sotto molti punti di vista. Non avrebbe saputo dire che cosa temeva… una squadriglia di aerei, un esercito che si riversasse dalle strade ai moli. Non incontrare nulla di nulla era più sconcertante che affrontare le armi di Kolder portate da torme di schiavi. Era troppo facile, e Simon non riusciva a nutrire piena fiducia nel Gioco del Potere; una parte di lui rifiutava di credere che avessero sconfitto tutto ciò che vi era in Gorm, solo perché una minuscola statuetta era finita con la testa fusa.

Raggiunsero la riva senza incidenti; quelli di Sulcar sbarcarono più avanti, sulla costa, per tagliare la strada agli eventuali rinforzi che potevano provenire da altri punti dell’isola. Esplorarono le strade ed i vicoli che Simon aveva percorso giorni prima, controllarono le porte sbarrate, frugarono negli angoli bui. Ma a quanto poterono scoprire, non c’era nulla che vivesse e si muovesse entro il guscio vuoto della capitale di Gorm.

Erano ormai vicini alla fortezza centrale quando venne il primo segno di resistenza: non dall’aria, e non sotto forma di onde invisibili, ma a piedi, e con le armi in mano, come gli uomini di quel mondo avevano combattuto per generazioni.

All’improvviso le vie si popolarono di guerrieri che si muovevano rapidi, ma senza far rumore, senza lanciare grida di battaglia, e avanzavano decisi e minacciosi. Alcuni portavano le uniformi caratteristiche di Sulcar, altri di Karsten, e Simon vide tra loro alcuni elmi dei Falconieri.

La carica silenziosa veniva compiuta da uomini che non erano soltanto sacrificabili, ma non pensavano a proteggere se stessi, come quelli dell’imboscata sulla strada del mare. Si avventarono sulle forze d’invasione con l’impatto di un carro armato su una compagnia di fanti. Simon cominciò a sparare con il lanciadardi, ma Koris caricò con l’Ascia di Volt, come un turbinante strumento di morte, per aprire un varco attraverso le linee nemiche.

Gli schiavi dei Kolder erano degni avversari, ma erano privi della scintilla d’intelligenza che li avrebbe spinti a ridisporsi in formazione, per sfruttare meglio la superiorità numerica. Sapevano solo di dover attaccare finché restava loro un po’ di forza, finché erano ancora in piedi. E attaccavano, con l’insana insistenza dei dementi. Era un macello insensato che disgustava persino i veterani della Guardia, mentre s’impegnavano per difendersi e guadagnare terreno.

L’Ascia di Volt non era più lucente; tuttavia Koris la lanciò in aria per dare il segnale dell’avanzata. I suoi uomini serrarono le file, lasciandosi alle spalle una via che non era più vuota, sebbene fosse priva di vita.

«Questo aveva lo scopo di attardarci.» Simon raggiunse il Capitano.

«Lo credo anch’io. E adesso cosa dobbiamo attenderci? La morte dall’aria, come è avvenuto a Forte Sulcar?» Koris scrutò il cielo: e rivolse l’attenzione ai tetti.

E quei tetti suggerirono un altro piano al suo compagno.

«Non credo che potrete fare irruzione nella fortezza a livello del suolo,» cominciò Simon, e udì una risata sommessa echeggiare sotto la visiera abbassata del Capitano.

«Non è vero. Io conosco certe vie d’accesso che forse neppure i Kolder hanno saputo scoprire. Un tempo, questa era la mia tana.»

«Ma io ho un piano,» l’interruppe Simon. «Sulle navi ci sono corde in abbondanza, e grappini d’abbordaggio. Lascia che un gruppo proceda attraverso i tetti, mentre tu rintracci le tue tane, e forse potremo stringerli fra due fuochi.»

«Va bene!» concesse Koris. «Tu tenta le vie dell’aria, poiché una volta le hai già percorse. Scegli i tuoi uomini, ma non prenderne più di venti.»

Per due volte furono attaccati dalle schiere silenziose dei morti viventi, ed ogni volta lasciarono numerosi compagni sul terreno, quando finirono di abbattere gli schiavi di Kolder. Alla fine, le forze di Estcarp si separarono. Simon e venti uomini della Guardia sfondarono una porta e salirono verso un tetto, tra i vecchi miasmi di morte. Il senso dell’orientamento non aveva tradito Tregarth; il tetto vicino presentava uno squarcio irregolare. Era lì che era finito con il suo aereo.

Si scostò per lasciar passare i marinai che lanciarono i grappini d’abbordaggio verso il parapetto dell’altro tetto, sopra le loro teste, dall’altra parte della via. Gli uomini si legarono al fianco le spade, strinsero le cinture, fissarono decisi quel doppio cavo gettato attraverso il vuoto. Simon aveva preso con sé soltanto uomini abituati alle alte montagne. Ma adesso, al momento decisivo, aveva più dubbi che speranze.

Salì per primo: la corda ruvida gli scalfiva le mani, imponeva alle sue spalle una tensione che sentiva farsi più insopportabile ad ogni momento.

Poi l’incubo finì. Sciolse una terza corda che portava arrotolata alla cintura, e ne gettò l’estremità appesantita ad uno dei compagni, girando intorno ad una delle colonne che sostenevano il tendone, per aiutarlo a salire.

Gli aerei che aveva sfasciato erano ancora dove li aveva lasciati, ma i pannelli dei motori aperti e gli utensili sparsi qua e là testimoniavano che qualcuno era venuto a ripararli. Era impossibile capire perché le riparazioni non fossero state ultimate. Simon ordinò a quattro uomini di sorvegliare il tetto e le corde, e insieme agli altri scese ai piani sottostanti.

Anche lì regnava lo stesso silenzio che predominava nella città. Percorsero corridoi, scesero le scale, passando davanti alle porte chiuse: e si udiva solo il suono leggero dei loro passi. Il forte era deserto?

Si addentrarono nel cuore dell’edificio cieco, aspettandosi di incontrare da un momento all’altro una schiera di invasati. La luce diventò più intensa; c’era nell’aria un cambiamento indefinibile, e suggeriva che, se quei piani adesso erano deserti, non lo erano stati fino a poco tempo prima.

Simon ed i suoi uomini giunsero all’ultima scala di pietra che ricordava così bene. In fondo, quella pietra sarebbe stata rivestita dalle pareti grige dei Kolder. Simon si affacciò, ascoltando. In basso, molto in basso, c’era finalmente un suono, regolare come il battito del suo cuore.

Capitolo sesto Piazza pulita a Gorm

«Capitano.» Tunston gli si avvicinò. «Che cosa incontreremo laggiù?»

«In questo, la tua previsione vale la mia,» rispose Simon quasi distrattamente, perché in quel momento si accorse che non percepiva alcun senso di pericolo, neppure in quello strano luogo di morte e di vita parziale. Eppure là sotto c’era qualcosa, altrimenti non si sarebbe sentito quel rumore.

Simon si avviò per primo, con il lanciadardi in pugno, scendendo i gradini cautamente, ma a passi svelti. C’erano porte chiuse che resistettero ai loro tentativi di aprirle, fino a quando giunsero nella sala con la mappa sulla parete.

I tonfi salivano dal pavimento sotto i loro piedi, facevano vibrare le pareti, e saturavano i loro orecchi e i loro corpi con quel ritmo lento.

Le luci della mappa erano spente. Non c’erano più macchine sul tavolo, e non c’erano più gli uomini grigio-vestiti che le azionavano, sebbene i morsetti metallici e qualche filo abbandonato indicassero i punti in cui si trovavano un tempo. Ma all’altro tavolo sedeva ancora una figura con la calotta sul capo: era immobile come Simon l’aveva vista l’altra volta.

In un primo momento, Simon credette che l’uomo fosse morto. Si accostò al tavolo, scrutando intento il Kolder. A quanto gli pareva di capire, era lo stesso uomo che aveva tentato di visualizzare per l’artista di Estcarp. E si sentì fuggevolmente compiaciuto per l’esattezza del suo ricordo.

Ma… Simon si fermò. L’uomo non era morto, sebbene tenesse gli occhi chiusi ed il corpo immobile. Una mano era posata sul quadro dei comandi, e Simon vide un indice premere un pulsante.

Tregarth scattò. Ebbe un istante di tempo per vedere gli occhi aprirsi, il volto torcersi per il furore… e forse per la paura. Poi afferrò il cavo che andava dalla calotta al quadro fissato alla parete. Lo strappò, staccando parecchi fili sottili. Qualcuno gridò un avvertimento; e vide la canna di un’arma puntare su di lui. Il Kolder era entrato in azione.

Simon si salvò solo perché la calotta ed i cavi intralciarono i movimenti del Kolder. Con il lanciadardi, colpì violentemente quella faccia piatta dalla bocca ringhiante e silenziosa, dagli occhi pieni d’odio. Il colpo lacerò la pelle, facendo sgorgare sangue dalla guancia e dal naso. Simon afferrò il polso dell’avversario e lo torse, e una sottile pellicola di vapore schizzò verso il soffitto, anziché verso il suo volto.

Piombarono sul sedile da cui si era alzato il Kolder. Vi fu uno schiocco secco, e il fuoco divampò sul collo e sulla spalla di Simon. Un urlo soffocato gli echeggiò nelle orecchie. Il volto, sotto il velo di sangue, era alterato dalla sofferenza, eppure il Kolder continuava a combattere con forza ferrea.

Quegli occhi, sempre più grandi, riempivano la sala… Simon stava precipitando entro quegli occhi. Ma poi gli occhi sparirono, vi fu solo una strana finestra velata dalla nebbia in un altro luogo… forse in un altro tempo. Tra le colonne apparve una schiera di uomini, abbigliati di grigio, a bordo di macchine che gli erano sconosciute. Si voltavano a sparare alle loro spalle, mentre si muovevano: erano gli ultimi superstiti di un contingente in fuga.

Gli uomini proseguirono, in colonna; e Simon provò, come loro, una disperazione, ed un freddo di cui non aveva mai conosciuto l’esistenza, un’emozione che schiantava la mente ed il cuore. La Porta… superata la Porta, allora avrebbero avuto il tempo: tempo di ricostruire, di essere ciò che volevano essere. Dietro di loro stavano un impero annientato, un mondo devastato… davanti a loro un mondo nuovo di cui impadronirsi.

I fuggitivi scomparvero. Sìmon vide solo una faccia pallida, arrossata dalla ferita che lui stesso aveva inferto. Intorno a loro aleggiava l’odore della stoffa e della carne bruciacchiata. Per quanto tempo era durata la visione della valle… meno di un secondo? Lui stava ancora lottando, sforzandosi di spezzare contro il sedile il polso dell’avversario. Per due volte colpì: poi le dita si allentarono, e la pistola a vapore cadde dalla loro stretta.

Per la prima volta, dopo quell’unico urlo, il Kolder emise un suono, un piagnucolio spezzato che nauseò Simon. Una seconda, fuggevole visione di quegli uomini in fuga… un attimo di rammarico appassionato che fu come un colpo per l’uomo che involontariamente lo condivideva. Si dibatterono sul pavimento, e Simon cercò di trascinare il Kolder contro un cavo crepitante. Simon sbatté con forza la calotta metallica dell’avversario sul pavimento. Per l’ultima volta, un frammento di visione si trasmise dall’uomo e lui, e in quell’attimo Simon comprese… forse non che cos’erano i Kolder… ma da dove erano venuti. Poi non vi fu più nulla, e Simon si scostò dal corpo inerte, si sollevò a sedere.

Tunston si chinò e cercò di staccare la calotta dalla testa inerte. Rimasero tutti sconcertati, quando risultò evidente che non si trattava di una calotta ma di una parte permanente di quel corpo.

Simon si alzò in piedi. «Lascialo!» ordinò alla Guardia. «E stai attento che nessuno tocchi quei fili.»

Poi si accorse che la vibrazione nelle pareti e nel pavimento, la sensazione di vita erano svaniti, lasciando uno strano vuoto. Quel Kolder era stato forse il cuore che, cessando di battere, aveva ucciso la cittadella, così come la sua razza aveva ucciso Sippar.

Simon si diresse verso la rientranza dove stava l’ascensore. L’energia era finita, e non c’era modo di scendere ai piani inferiori? Ma la porta della cabina era aperta. Affidò il comando a Tunston, e prendendo con sé due Guardie, chiuse la porta.

Ancora una volta, la fortuna parve accompagnare gli uomini di Estcarp, perché la chiusura del pannello mise in azione il meccanismo dell’ascensore. Simon si aspettava di trovarsi nel piano del laboratorio, quando la porta si fosse riaperta. Ma quando la cabina si arrestò, si trovò di fronte a qualcosa di tanto diverso che per un momento restò immobile, mentre i due uomini lanciavano esclamazioni di sorpresa.

Erano sulla sponda di un porto sotterraneo, odoroso di mare e di qualcosa d’altro. L’illuminazione era incentrata su un molo circondato dall’acqua ai due lati, che puntava verso l’esterno, nell’oscurità. E su quel molo c’erano i corpi di numerosi uomini: uomini come loro, non Kolder.

Mentre i morti viventi che avevano affrontato nei combattimenti per le strade erano vestiti ed armati, questi erano nudi, o portavano solo indumenti sbrindellati, come se da molto tempo non si preoccupassero più dell’esigenza di vestirsi.

Alcuni si erano accasciati accanto a piccoli camion ancora carichi di casse. Altri giacevano in fila, come se fossero crollati mentre marciavano schierati. Simon andò ad osservare il più vicino. L’uomo era veramente morto: ed era morto almeno da un giorno.

Evitando i cadaveri, i tre di Estacarp si spinsero fino all’estremità del molo, ma tra i morti non trovarono neppure un uomo armato. E nessuno era del sangue di Estcarp. Se quelli erano stati gli schiavi dei Kolder, appartenevano tutti ad altre razze.

«Guarda, Capitano.» Una delle Guardie che seguivano Simon s’era fermato accanto ad un cadavere e l’osservava meravigliato. «Non ho mai visto un uomo come questo. Guarda il colore della sua pelle, dei capelli: non è di queste terre!»

Lo sventurato schiavo dei Kolder giaceva riverso come se dormisse. Il corpo, coperto solo da uno straccio intorno ai fianchi, era di un colore brunorossiccio, ed i capelli erano crespi. Evidentemente, i Kolder avevano gettato le loro reti in regioni lontane.

Senza sapere perché, Simon arrivò fino all’estremità del molo. Forse Sippar era stata eretta, in origine, sopra un’immensa caverna sotterranea, o forse gli invasori l’avevano scavata per i loro scopi, probabilmente connessi alla nave adibita al trasporto dei prigionieri. Quello era il porto della flotta dei Kolder?

«Capitano!» L’altra guardia l’aveva preceduto, senza interessarsi ai cadaveri che cercava di evitare. S’era fermato all’estremità del molo di pietra e accennava a Simon di raggiungerlo.

Vi fu un movimento nelle acque, che salirono lambendo il molo, e costrinsero i tre uomini a ritirarsi. Sebbene la luce fosse limitata, videro qualcosa di grosso che affiorava.

«Giù!» ordinò Simon. Non avevano tempo di ritornare all’ascensore: potevano solo sperare di confondersi tra i cadaveri.

Si buttarono a terra, vicini: Simon appoggiò la testa sul braccio, con il lanciadardi spianato, e guardò quel tumulto. L’acqua ruscellava dalla mole che stava salendo. Distinse la prua aguzza e la poppa egualmente affusolata. Aveva intuito esattamente: era una delle navi dei Kolder entrata in porto.

Si chiese se il suo respiro suonava rumoroso come gli pareva che fosse quello dei due uomini distesi accanto a lui. Erano vestiti, a differenza dei morti intorno a loro: forse due occhi acuti avrebbero potuto scorgere lo scintillio dei loro usberghi e qualche arma Kolder li avrebbe inchiodati prima che potessero tentare di difendersi?

Ma quella nave argentea, dopo essere salita alla superficie, non si mosse più; si limitò a dondolarsi sulle onde della caverna come se fosse morta anch’essa. Simon la scrutò attentamente e poi trasalì, quando l’uomo che gli stava accanto gli toccò il braccio, mormorando.

Ma Simon non aveva bisogno di quel richiamo per osservare. Aveva visto a sua volta il secondo vortice d’acqua, che sospinse la prima nave verso il molo. Ormai era chiaro: nessuno le governava. Quasi non osando credere che il vascello fosse abbandonato, i tre rimasero nascosti. Solo quando emerse la terza nave, e fece roteare le altre due spostando l’acqua, Simon accettò l’evidenza e si alzò in piedi. Quelle navi non avevano nessuno, a bordo, oppure erano in avaria totale. Andavano alla deriva senza guida: due si scontrarono con un tonfo.

Sui ponti non si scorgevano aperture: nulla indicava che portassero equipaggi e passeggeri. Ma lo spettacolo offerto dal molo sembrava indicare che la situazione doveva essere diversa: c’era stato un carico affrettato dei vascelli, per attaccare o per ritirarsi da Gorm. E se lo scopo fosse stato un attacco, gli schiavi sarebbero stati uccisi?

Sarebbe stata una follia salire a bordo d’uno di quei siluri argentei, senza alcuna preparazione. Ma sarebbe stato opportuno tenerli d’occhio. I tre ritornarono all’ascensore. Una delle navi urtò contro il molo, se ne staccò di poco, ondeggiando.

«Rimarrete qui?» Era una domanda, quella che Simon rivolse ai suoi uomini, più che un ordine. Le Guardie di Estcarp erano abituate a cose molto strane, ma quello non era il posto più adatto per piazzare un uomo riluttante.

«Quelle navi… dovremmo scoprirne i segreti,» rispose uno degli uomini. «Ma non credo che usciranno mai più di qui, Capitano.»

Simon accettò quel dissenso larvato. Insieme, abbandonarono il porto sotterraneo ai relitti ed ai morti. Prima di risalire con l’ascensore, Simon ne esaminò l’interno, per cercare i comandi. Voleva raggiungere un piano da cui fosse possibile mettersi in contatto con il contingente di Koris, senza tornare di nuovo alla sala della mappa.

Ma le pareti della cabina erano completamente spoglie. Delusi, chiusero la porta, aspettandosi di venir ricondotti di sopra. Quando la vibrazione delle pareti attestò che erano in moto, Simon ricordò nitidamente il corridoio del laboratorio, e desiderò di raggiungerlo.

La cabina si fermò, la porta si aprì, ed i tre si trovarono di fronte ad altri uomini sorpresi ed armati. Solo quegli istanti di sbalordimento risparmiarono un errore fatale, perché uno del gruppo che stava all’esterno chiamò Simon per nome: era Briant.

Poi la figura inconfondibile di Koris si fece largo.

«Da dove saltate fuori?» chiese il Capitano. «Dal muro?»

Simon riconobbe il corridoio in cui stavano: era quello cui aveva pensato. Ma perché la cabina l’aveva condotto lì, come se reagisse al suo desiderio? Al suo desiderio!

«Avete trovato il laboratorio?»

«Abbiamo trovato molte cose, ma sono quasi tutte incomprensibili. E non abbiamo trovato ancora un Kolder! E voi?»

«Un Kolder, e adesso è morto… o forse sono morti tutti!» Simon pensò alle navi nella caverna, a ciò che potevano avere a bordo. «Non credo che corriamo il rischio d’incontrarli, ormai.»

Nelle ore che seguirono, la profezia di Simon si rivelò esatta. Tranne l’uomo dalla calotta metallica, non c’erano più Kolder, in Gorm. E coloro che avevano servito i Kolder erano tutti morti. Li trovarono a squadre, a compagnie, a piccoli gruppi nei corridoi e nelle stanze della fortezza. Giacevano come se si fossero accasciati all’improvviso, come se la forza che li faceva agire fosse cessata di colpo, ed essi fossero piombati nel nulla cui avrebbero dovuto appartenere già da tempo, nella pace che i padroni avevano loro negata.

Le Guardie trovarono altri prigionieri nella stanza dopo il laboratorio. Alcuni erano stati compagni di prigionia di Simon. Si svegliarono storditi dal sonno drogato, incapaci di ricordare ciò che era avvenuto da quando erano stati gassati: ma ringraziarono i loro dei per essere stati portati a Gorm troppo tardi per seguire la tragica sorte dei loro predecessori.

Koris e Simon guidarono alcuni marinai di Sulcar al porto sotterraneo e, a bordo di una barca, esplorarono la caverna. Trovarono soltanto pareti di roccia. L’uscita doveva trovarsi sotto la superficie, e Simon pensò che fosse stata bloccata prima che le navi potessero fuggire.

«Se l’uomo con la calotta controllava tutto,» mormorò Koris, «allora la sua morte deve averle imprigionate qui. Inoltre, poiché tu avevi già lottato con lui da lontano per mezzo del Potere, forse già da tempo impartiva ordini confusi.»

«Forse,» ammise distrattamente Simon. Pensava a ciò che aveva appreso dal Kolder, in quegli ultimi secondi di vita. Se il resto delle forze nemiche era veramente rinchiuso in quelle navi, allora Estcarp aveva veramente ragione di rallegrarsi.

Con una cima, trascinarono una delle navi a fianco del molo. Ma le chiusure del portello apparivano enigmatiche; Koris e Simon lasciarono ai marmai di Sulcar il compito di risolvere il problema e tornarono al forte.

«È un’altra delle loro magie.» Koris chiuse dietro di loro la porta dell’ascensore. «Ma evidentemente l’uomo con la calotta non la controllava, perché noi possiamo usarla ancora adesso.»

«Questa si può controllare come faceva il Kolder.» Simon si appoggiò alla parete: si sentiva invadere dalla stanchezza. La loro vittoria non era conclusiva; aveva il presentimento che altre lotte l’attendevano. Ma quelli di Estcarp avrebbero creduto a ciò che lui aveva da dire? «Pensa al corridoio in cui ci siamo incontrati, raffiguralo nella tua mente.»

«Davvero? Koris si tolse l’elmo: si appoggiò con le spalle alla parete di fronte e chiuse gli occhi, concentrandosi.

La porta si aprì. Videro il corridoio del laboratorio, e Koris rise, divertito come un ragazzo.

«Anch’io, Koris il Deforme, posso operare questa magia. Si direbbe che tra i Kolder il Potere non fosse limitato soltanto alle donne.»

Simon richiuse la porta, pensò intensamente alla sala della mappa. Solo quando la raggiunsero rispose all’osservazione del suo compagno.

«Forse è questo che ora dobbiamo temere, Capitano. I Kolder avevano una loro forma del Potere, e hai visto come la usavano. Forse Gorm, adesso, racchiude i tesori della loro sapienza.»

Koris gettò l’elmo sul tavolo, sotto la mappa, si appoggiò all’ascia e guardò Simon.

«È un tesoro che ci consigli di non saccheggiare?» Aveva compreso immediatamente.

«Non so.» Simon si lasciò cadere su una sedia: appoggiò la fronte sui pugni e fissò la superficie del tavolo. «Non sono uno scienziato, un maestro di questo genere di magia. Gli uomini di Sulcar si lasceranno tentare da quelle navi, Estcarp da tutto quello che c’è qui.»

«Tentare?» Qualcuno ripeté quella parola, e i due uomini si voltarono. Simon si alzò, quando vide la donna che si sedeva quietamente un po’ discosta da loro, mentre Briant le stava accanto come se fosse il suo scudiero.

La strega portava l’elmo e l’usbergo, ma Simon sapeva che l’avrebbe riconosciuta comunque, anche se si fosse camuffata con una metamorfosi.

«Tentare,» ripeté lei. «Hai scelto bene la parola, Simon. Sì, noi di Estcarp verremo tentati; è per questo che io sono qui. Questa lama è a doppio taglio, e noi potremo ferirci, se non saremo prudenti. Dovremo rifiutare questa strana sapienza, o distruggere tutto ciò che abbiamo scoperto, e metterci al sicuro; oppure rischieremo di aprire inconsapevolmente la strada ad un secondo attacco dei Kolder, poiché non è possibile preparare una difesa, se non si conoscono bene le armi contro cui ci si deve battere.»

«Non dovrete temere molto, da parte dei Kolder,» disse Simon, lentamente. «Fin dall’inizio sono sempre stati poco numerosi. Se qualcuno è riuscito a fuggire di qui, possiamo sempre inseguirli fino alla fonte, e chiuderla.»

«Chiuderla?» Fu Koris a formulare quella domanda.

«Durante la lotta finale con il loro capo, lui ha rivelato il segreto.»

«Non sono originari di questo mondo?»

Simon girò la testa di scatto. La strega gli aveva letto nella mente, o si trattava di un’informazione che prima non aveva inteso rivelare?

«Lo sapevi?»

«Non so leggere nelle menti, Simon. Ma noi lo sappiamo da molto tempo. Sì, sono venuti qui… come sei venuto tu… Ma, credo, per motivi diversi.»

«Erano in fuga, e volevano scampare da un disastro provocato da loro stessi, poiché avevano scatenato le fiamme nella loro patria. Non credo che abbiano osato lasciare aperta quella porta alle loro spalle, ma dobbiamo accertarcene. Il problema più assillante è ciò che si trova qui.»

«E tu credi che se c’impadroniremo della loro sapienza, il male che essa racchiude possa corromperci. Non so. Estcarp ha vissuto sicura a lungo, grazie al suo Potere.»

«Signora, qualunque sia la decisione, non credo che Estcarp rimarrà com’è. Deve partecipare pienamente alla vita attiva, o accontentarsi di ritrarsene, piombando nella stagnazione, che è una forma di morte.»

Era come se fossero soli, in quella sala, e Briant e Koris non avessero parte nel futuro di cui discutevano. La strega lo incontrò, mente a mente, in un’eguaglianza che Simon non aveva mai sentito in nessun’altra donna.

«Ciò che dici è vero, Simon. Forse l’antica solidità del mio popolo dovrà spezzarsi. Vi saranno coloro che aspireranno alla vita ed a un mondo nuovo, e coloro che rifuggiranno da un mutamento. Ma questo dissidio appartiene al futuro, ed è solo una conseguenza di questa guerra. Cosa si dovrebbe fare di Gorm, secondo te?»

Simon sorrise stancamente. «Io sono un uomo d’azione. Andrò in cerca della porta usata dai Kolder, e cercherò di renderla inoffensiva. Dammi gli ordini, signora: e verranno eseguiti. Ma per il momento, io sigillerei questo luogo, in attesa che sia possibile prendere una decisione. Altri potrebbero tentare di portar via ciò che si trova qui.»

«Sì. Karsten ed Alizon sarebbero felici di saccheggiare Sippar.» La strega annuì, vivacemente. Si portò la mano sul petto, e strinse la gemma del Potere.

«Questa è la mia autorità, Capitano,» disse, rivolta a Koris. «Sia come ha detto Simon. Questa cittadella d’una scienza aliena deve venire sigillata, e il resto di Gorm deve essere ripulito perché possa venirvi insediata una guarnigione, in attesa del momento in cui potremo decidere il futuro di ciò che si trova qui.» Sorrise al giovane ufficiale. «Lascio l’isola al tuo comando, Sire Difensore di Gorm.»

Capitolo settimo L’avventura del nuovo inizio

Un rossore cupo salì dal collo di Koris, fino all’attaccatura dei capelli chiari. Poi rispose: le linee amare incise intorno alla bocca ben modellata erano profonde, e lo facevano sembrare più vecchio.

«Tu dimentichi, signora,» disse, battendo l’Ascia di Volt sul piano del tavolo, di piatto, «che molto tempo fa Koris il Deforme fu cacciato da queste rive?»

«E cosa avvenne poi a Gorm, ed a coloro che ti scacciarono?» chiese la strega, quietamente. «Qualcuno ha mai detto ’il deforme Capitano di Estcarp’?»

La mano di Koris si contrasse sul manico dell’arma, e le nocche spiccarono bianche. «Trova un altro Sire Difensore per Gorm, signora. Ho giurato per Nornan che non sarei mai ritornato qui. Per me, questo è un luogo doppiamente maledetto. Credo che Estcarp non abbia motivo di lagnarsi del suo Capitano; e non credo che questa guerra sia già vinta.»

«In questo ha ragione, sai,» intervenne Simon. «I Kolder sono probabilmente pochi, e può darsi che siano quasi tutti imprigionati dentro le navi, nella caverna. Ma noi dobbiamo risalire fino alla loro Porta, e assicurarci che non radunino le forze disperse per lanciare una seconda offensiva. Ed Yle? E hanno una guarnigione a Forte Sulcar? Fino a che punto sono infiltrati in Karsten ed Alizon? Forse siamo all’inizio di una lunga guerra, e non stringiamo in pugno la vittoria definitiva.»

«Sta bene.» La strega accarezzò la gemma. «Poiché tu hai queste idee così precise, diventa governatore di Gorm, Simon.»

Koris si affrettò a parlare prima che Tregarth potesse rispondere. «Sono d’accordo. Tieni Gorm con le mie benedizioni, Simon, e non temere: non cercherò mai di togliertela, in nome della mia eredità.»

Ma Simon stava scuotendo la testa. «Io sono un soldato. E vengo da un altro mondo. Il detto afferma ’cane mangia cane’… la pista dei Kolder è mia.» Si toccò la testa; se avesse chiuso gli occhi avrebbe visto, lo sapeva, non l’oscurità ma una stretta valle in cui uomini furibondi combattevano un’azione di retroguardia.

«Vi spingerete fino ad Yle e Forte Sulcar e non oltre?» Per la prima volta, Briant ruppe il silenzio.

«E dove vorresti che andassimo?» chiese Koris.

«A Karsten!» Se Simon aveva mai giudicato incolore e privo di personalità quel ragazzo, in quel momento dubitò della sua valutazione.

«E cosa c’è, a Karsten, che abbia tanta importanza per noi?» La voce di Koris aveva un tono quasi spavaldo. Eppure c’era qualcosa d’altro che Simon percepiva ma non riusciva ad identificare. Era in corso una partita, ma lui non ne conosceva lo scopo né le regole.

«Yvian!» Quel nome venne lanciato verso il Capitano come una sfida, e Briant fissò Koris come se si aspettasse di vederla raccogliere. Simon guardò i due giovani. Com’era avvenuto prima, quando lui e la strega avevano dialogato attraverso il tavolo, ora questi due duellavano senza preoccuparsi dei presenti.

Per la seconda volta, il rossore colorò le guance di Koris, poi defluì, lasciando il suo volto pallido e deciso, il volto di un uomo impegnato in una lotta che detestava, ma che non osava evitare. Per la prima volta, dimenticò l’Ascia di Volt, girò intorno al tavolo con l’eleganza agile che contrastava sempre con il suo corpo disarmonico.

Briant, animato da una strana espressione di sfida e di speranza, lo attese: restò immobile quando le mani del Capitano si posarono sulle sue spalle in una stretta rabbiosa.

«È questo che vuoi?» Le parole uscirono dalle labbra di Koris come se gli venissero strappate una ad una dalla tortura.

All’ultimo momento, forse, Briant cercò di sfuggirgli. «Voglio la mia libertà,» rispose a voce bassa.

Koris lasciò ricadere le mani. Rise con un’amarezza così straziante che Simon si sentì rabbrividire per il riflesso di quella sofferenza.

«Puoi avere la certezza che l’avrai, a suo tempo!» Il Capitano sarebbe indietreggiato, se Briant non l’avesse afferrato a sua volta per le braccia, con la stessa concitazione dimostrata poco prima dall’altro.

«Voglio la mia libertà soltanto per poter compiere un’altra scelta. E l’ho compiuta… ne dubiti? Oppure c’è un’Aldis che possiede il potere cui non posso aspirare?»

Aldis? Simon ebbe la sensazione di intuire un primo barlume di verità.

Koris strinse con le dita il mento di Briant, sollevando il volto del ragazzo. Una volta tanto, il Capitano poteva guardare qualcuno dall’alto, anziché dal basso.

«Tu propugni il principio ’colpo di spada per colpo di spada’, no?» commentò. «Quindi Yvian ha la sua Aldis: se la godano pure, quei due, finché possono. Ma credo che Yvian abbia fatto una pessima scelta. E poiché un’ascia ha concluso un matrimonio, un’altra ascia può annullarlo!»

«Il matrimonio esiste solo nelle formule blaterate da Siric,» scattò Briant, ancora in tono di sfida, ma senza dibattersi nella nuova stretta del Capitano.

«È necessario che tu dica questo a me,» chiese sorridendo Koris, «Signora di Verlaine?»

«Loyse di Verlaine è morta!» ripeté Briant. «Non ti porterò in dote quell’eredità, Capitano.»

La fronte di Koris si aggrottò leggermente. «Non è necessario neppure che tu mi dica questo. È uno come me, invece, che deve conquistarsi una moglie offrendole gioielli e terre. E poi non potrà mai essere sicuro…»

Lei gli staccò la mano dal braccio, gliela posò sulla bocca, per farlo tacere. C’era una collera ardente nei suoi occhi e nella sua voce, quando rispose:

«Koris, il Capitano di Estcarp non deve parlare così di se stesso, e tanto meno ad una donna come me, senza eredità di terre o di bellezza!»

Simon si mosse: sapeva che quei due avevano dimenticato la loro presenza. Toccò gentilmente la spalla della strega di Estcarp e le sorrise.

«Lasciamo che combattano la loro battaglia,» mormorò.

Lei rise silenziosamente, secondo la sua abitudine. «Questa discussione delle reciproche indegnità li porterà presto a non parlare più ed a definire il loro futuro.»

«Immagino che lei sia l’erede scomparsa di Verlaine, sposata per procura al Duca Yvian?»

«Infatti. Grazie al suo aiuto sono uscita illesa da Verlaine, dov’ero prigioniera. Fulk non è un nemico gradevole.»

Il sorriso di Simon s’incupì.

«Credo che Fulk e i suoi saccheggiatori riceveranno una lezione nell’immediato futuro: questo li domerà,» commentò, ben sapendo che lei aveva l’abitudine a certi eufemismi. A lui bastava che ammettesse di dover la salvezza a quella ragazza. Da parte di una donna del Potere, quell’ammissione alludeva ad un grande pericolo. All’improvviso, provò l’impulso di prendere una delle navi di Sulcar, caricarvi i suoi guerrieri delle montagne e far vela verso il sud.

«Senza dubbio sarà così,» disse la strega, confermando ciò che Simon aveva detto di Fulk con la sua abituale serenità. «Come hai detto, siamo ancora in guerra, e non l’abbiamo vinta definitivamente. A suo tempo, penseremo anche a Verlaine e Karsten. Simon, il mio nome è Jaelithe.»

Quell’annuncio giunse così improvviso che per un lungo istante l’uomo non comprese. E poi, conoscendo le consuetudini di Estcarp, le leggi che l’avevano legata tanto a lungo, trasse un profondo respiro di stupore di fronte a quella resa totale: il suo nome, il possesso personale più prezioso nel regno del Potere, che non doveva mai essere rivelato, per non cedere anche la propria identità!

Come Koris aveva abbandonato l’ascia sul tavolo, lei aveva lasciato la sua gemma, quando si era portata in disparte con Simon. Per la prima volta, Tregarth si accorse anche di questo. Lei si era disarmata volutamente, aveva abbandonato tutte le sue difese, affidando nelle sue mani ciò che credeva fosse la propria vita. Poteva immaginare ciò che quella resa aveva significato per lei, ma solo oscuramente. Si sentì privo di ogni capacità, di ogni facoltà, deforme come si riteneva Koris.

Eppure si fece avanti, tese le braccia per attirarla a sé. E mentre piegava la testa verso la testa di lei, cercando le labbra che attendevano le sue, Simon sentì che per la prima volta la realtà era veramente cambiata. Ora faceva parte di un disegno in rapida evoluzione, e la sua vita si intesseva con la vita di lei, nella trama di quel mondo. E nulla l’avrebbe spezzata per il resto dei suoi giorni… né lui l’avrebbe mai permesso.


FINE
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