Il mare era cupo e grigio, del colore della lama di un’ascia che non avrebbe mai acquistato lucentezza per quanto venisse levigata, di uno specchio d’acciaio appannato da un’umidità che era impossibile rimuovere. E il cielo era piatto: era difficile distinguere la linea che separava l’aria dall’acqua.
Loyse si rannicchiò sul cornicione, sotto la finestra. Temeva l’abisso, perché quella torretta che sporgeva dalle mura stava affacciata direttamente sopra le rocce maligne e spumeggianti della costa, e lei soffriva di vertigini. Eppure spesso saliva lassù perché, quando si guardava in quel vuoto, turbato solo, talvolta, dal volo di un uccello in picchiata, si poteva vedere la libertà.
Le sue mani sottili, dalle dita lunghe, premevano la pietra ai lati della feritoia, mentre si sporgeva un poco più in avanti, sforzandosi di vedere ciò che temeva, come si sforzava di fare molte cose che il suo corpo e la sua mente avrebbero voluto rifiutare. Per essere la figlia di Fulk, bisognava costruirsi una corazza interiore di ghiaccio e di ferro che nessuna ferita della carne, nessuna tentazione dello spirito poteva schiantare. E lei era impegnata ad erigere quella roccaforte interiore da più della metà degli anni della sua breve vita.
C’erano state molte donne a Verlaine, perché Fulk era un uomo dagli appetiti gagliardi. E Loyse le aveva viste venire ed andare fin dall’infanzia, e le aveva studiate freddamente. A nessuna Fulk aveva accordato il titolo di consorte, nessuna gli aveva dato altri figli… Quello era il grande rammarico di Fulk e, fino ad ora, la grande soddisfazione di Loyse. Verlaine, infatti, non spettava a Fulk per diritto di sangue: era passata a lui solo grazie al matrimonio con la madre di Loyse, e finché Loyse viveva, Fulk poteva continuare a tenersela, insieme ai ricchi diritti di saccheggio sulla spiaggia e nell’entroterra. A Karsten c’erano i parenti della madre di Loyse, che si sarebbero affrettati a rivendicare la signoria, se lei fosse morta.
Ma se Fulk avesse avuto un figlio maschio da una delle donne ben disposte — o mal disposte — che si era portate nell’enorme letto della stanza padronale, allora avrebbe potuto rivendicare ben più del diritto di restare signore di Verlaine per tutta la vita, in forza delle nuove leggi emanate dal Duca. Secondo l’antica consuetudine, per l’eredità valevano i diritti della madre; ma ora valevano quelli del padre, e solo nel caso che non vi fossero eredi maschi prevaleva la vecchia legge.
Loyse amava il suo filo sottile di potere e di sicurezza e vi si aggrappava perché era la sua unica speranza. Se Fulk fosse stato ucciso in una delle scorrerie di confine, o assassinato da qualche vendicativo rappresentante d’una famiglia spodestata, lei e Verlaine avrebbero trovato la libertà. Ah, allora tutti avrebbero veduto cosa sapeva fare una donna! Avrebbero scoperto che lei non si era limitata a piangere in segreto, per tutti quegli anni, come credeva tanta gente.
Si scostò dal cornicione e attraversò la stanza. Era fredda per il soffio del mare, e resa tetra dalla mancanza del sole. Ma lei era abituata al freddo ed all’oscurità: ormai facevano quasi parte del suo essere.
Passò oltre il letto a baldacchino, e si fermò davanti ad uno specchio. Non era lo specchio di una dama raffinata, ma uno scudo rombico, levigato e lucidato con ore di paziente fatica, che rifletteva un’immagine leggermente distorta. E guardare quell’immagine, affrontare con fermezza ciò che le diceva, faceva egualmente parte della rigorosa disciplina che Loyse imponeva a se stessa.
Era minuta: ma quella era l’unica caratteristica femminile che aveva in comune con le donne che davano piacere ai seguaci di suo padre, o con quelle più aggraziate che Fulk teneva per sé. La sua figura era snella e diritta come quella di un ragazzo, e solo le lievi curve proclamavano la sua femminilità. I capelli, intrecciati sulle spalle, scendevano fin sotto la cintola: erano folti, ma lisci e di un biondo così pallido da sembrare bianchi come quelli di una vecchia, quando non li investiva la luce del sole: e le ciglia e le sopracciglia, egualmente incolori, conferivano al suo volto un’espressione stranamente vacua, priva d’intelligenza. La pelle, tirata sulle ossa delicate del viso e del petto, era liscia e pallida; persino le labbra sottili erano del rosa più fievole. Era una creatura sbiancata, cresciuta nel buio: ma in lei c’era una vitalità forte quanto la lama flessibile che un esperto schermitore preferisce all’arma più goffa e pesante degli inesperti.
All’improvviso, le sue mani si congiunsero, si strinsero convulsamente. Poi le staccò, le lasciò ricadere lungo i fianchi: ma sotto le ampie maniche erano ancora strette a pugno, con le unghie piantate nel palmo. Loyse non si voltò verso la porta, non mostrò di aver notato il cigolio della serratura. Sapeva fino a che punto poteva spingersi nella sua sottile sfida a Fulk, e non indietreggiava mai da quel limite. Qualche volta, pensava con disperazione, suo padre non si accorgeva neppure della sua ribellione!
La porta sbatté contro la parete. Il signore di Verlaine trattava sempre ogni barriera come se dovesse espugnare una fortezza nemica. Entrò con il passo di un uomo che ha appena strappato le chiavi d’una città dalla punta della spada di un comandante sconfitto.
Se Loyse era la creatura incolore del buio, Fulk era il signore del sole e della luce sfolgorante. La bella figura cominciava a mostrare i segni della sua vita movimentata, ma era ancora magnifica: la testa coronata dai capelli d’oro rosso era portata con arroganza principesca, i lineamenti cesellati erano appena un po’ appesantiti. Molti, a Verlaine, veneravano il loro signore. Aveva una generosità aperta e capricciosa, quand’era soddisfatto, e i suoi vizi erano ben compresi e condivisi dai suoi uomini.
Loyse scorse l’immagine riflessa nello specchio, e le parve che facesse sbiadire ancora di più la sua. Ma non si voltò.
«Salve, Nobile Fulk.» La sua voce era atona.
«Nobile Fulk, eh? È così che parli a tuo padre, ragazza? Vieni qui e una volta tanto dimostra di avere nelle vene qualcosa di più del ghiaccio!»
Le posò una mano sulla spalla, sotto la treccia, e la costrinse a girarsi, stringendola con una forza che le avrebbe lasciato un livido per una settimana. L’aveva fatto apposta: lei lo sapeva, ma non mostrò di essersene accorta.
«Sono venuto a portarti una notizia che farebbe spiccare salti di gioia a una ragazza come si deve, e tu mi guardi con quella faccia da pesce morto,» protestò giovialmente Fulk. Ma l’espressione che aveva negli occhi non era allegria.
«Non mi hai ancora dato la notizia, mio signore.»
Le dita di Fulk strinsero più forte, come cercassero le ossa per stritolarle.
«Sicuro, non te l’ho data! Eppure è una notizia che farebbe battere il cuore ad ogni ragazza! Nozze e letto, ragazza mia, nozze e letto!»
Volutamente, Loyse finse di fraintenderlo: ma provava una paura che non aveva mai conosciuto.
«Hai deciso di dare una dama a Verlaine, mio signore? Che la fortuna ti conceda una bella sposa.»
Fulk non allentò la stretta; la scrollò, simulando un ammonimento scherzoso, ma con una forza che la faceva soffrire.
«Sarai una donna da niente, ma non sei stupida, anche se credi di ingannare gli altri. Dovresti essere ormai una femmina, alla tua età. Almeno, adesso avrai un consorte per farne la prova. E ti consiglio di non tentare i tuoi trucchi con lui. Preferisce compagne di letto molto docili!»
Ciò che Loyse aveva sempre temuto più di ogni altra cosa era accaduto: e non riuscì a trattenersi in tempo dal tradire i suoi sentimenti.
«Un matrimonio richiede il libero consenso…» Poi s’interruppe, vergognandosi di quell’incrinatura momentanea.
Fulk rideva, felice di averle strappato quella protesta. Spostò la mano, stringendole la nuca in una morsa che le fece sfuggire dalle labbra un’esclamazione soffocata. Poi, come se muovesse un pupazzo inanimato, la fece girare su se stessa, volgendola verso lo scudo, tempestandola di parole che la ferivano più di qualunque percossa.
«Guarda quella specie di ricotta che tu chiami faccia! Credi che un uomo potrebbe accostarvi le labbra senza chiudere gli occhi ed augurarsi di essere altrove? Rallegrati, ragazza, di aver qualcosa, oltre quella faccia e quel corpo ossuto, per allettare un corteggiatore. Acconsentirai liberamente a prendere per marito chiunque ti voglia. E sii lieta di avere un padre capace di concludere un negoziato come quello che ho ottenuto per te. Faresti meglio a buttarti in ginocchio ed a ringraziare i tuoi dei, perché Fulk sa provvedere alla sua famiglia!»
Le sue parole erano un rombo di tuono; Loyse non vedeva immagini nello specchio, ma solo gli orrori nebulosi della sua fantasia. A quale dei bruti che facevano parte del seguito di Fulk stava per essere gettata… a tutto vantaggio di suo padre?
«Lo stesso Karsten…» Nell’esultanza crescente di Fulk c’era una sorta di stupore. «Karsten, pensa! E questa massa informe di pasta malcotta parla di consenso! Sei veramente stupida!» La lasciò, con una spinta improvvisa che la mandò a sbattere contro lo scudo. Il metallo urtò rumorosamente sulla parete. Loyse si sforzò di mantenere l’equilibrio, vi riuscì, e si volse verso il padre.
«Il Duca!» Non poteva crederlo. Perché il signore di un ducato doveva chiedere in moglie la figlia di un barone della costa, anche se la stirpe di sua madre era antica e nobilissima?
«Sì, il Duca!» Fulk sedette ai piedi del letto, dondolando i piedi. «Un colpo di fortuna! Una buona stella ha sorriso sulla tua culla, ragazza mia. L’araldo di Karsten è arrivato questa mattina, con l’offerta di nozze dell’ascia per te.»
«Perché?»
Fulk smise di agitare i piedi. Non fece smorfie, ma la sua espressione era seria.
«Vi sono molte buone ragioni, come dardi puntati contro la sua schiena!» Alzò le mani e cominciò ad enumerare sulle dita.
«Primo: il Duca, nonostante tutta la sua potenza, era un comandante di mercenari prima d’impadronirsi di Karsten, e credo che non sappia neppure chi è sua madre, per non parlare del padre. Ha schiacciato i nobili che hanno cercato di osteggiarlo. Ma questo è avvenuto una decina di anni fa, e adesso non ha più voglia d’indossare l’armatura per stanare con il fuoco i ribelli dalle loro rocche. Ha conquistato il ducato, e vuole goderselo in pace. Una moglie proveniente dai ranghi di coloro che ha contrastato in passato è un dono di pace. E anche se Verlaine non è la signoria più ricca di Karsten, il sangue della sua stirpe è nobilissimo… non me lo ripeterono forse abbastanza quando venni qui a corteggiare tua madre? Eppure io non ero privo di blasone: ero il figlio minore di Farthom, delle colline del nord!» Torse le labbra, ricordando certi torti subiti in passato.
«E poiché tu sei l’erede di Verlaine, vai benissimo.»
Loyse rise. «Non può essere vero, mio signore, che io sia l’unica fanciulla in età da marito di tutto Karsten.»
«È giusto. E il Duca potrebbe cercare altrove. Ma come ho detto, figlia carissima, tu offri certi altri vantaggi. Verlaine è una signoria costiera, con diritti antichissimi, e il Duca ha ambizioni più pacifiche, adesso, della conquista violenta. Che ne diresti, Loyse, se qui ci fosse un porto capace di attirare tutto il traffico del nord?»
«E cosa farebbe Forte Sulcar se venisse a sorgere un simile porto? Coloro che giurano nel nome di Sul sono gelosi delle loro prerogative.»
«Coloro che giurano nel nome di Sul, forse, presto non potranno più giurare,» ribatté Fulk, con una calma sicurezza carica di convinzione. «Hanno vicini turbolenti, che diventano sempre più pericolosi. Ed Estcarp, cui potrebbero rivolgersi per chiedere aiuto, è un guscio vuoto, divorato dalla dedizione alla stregoneria. Basta una spinta, e quella terra cadrà nella polvere immonda che avrebbe dovuto seppellirla già da molto tempo.»
«Quindi, per la mia stirpe e per il progetto di un porto, il Nobile Yvian si offre di sposarmi,» insistette Loyse, ancora incapace di credere che fosse vero. «Eppure, quel possente signore è veramente libero di inviare qui la sua ascia per concludere un matrimonio? Io vivo reclusa in una fortezza lontana da Kars, tuttavia ho sentito parlare di una certa Aldis che dà ordini, prontamente obbediti da tutti coloro che portano le insegne del Duca.»
«Yvian avrà Aldis e… sì, una cinquantina d’altre come lei, e questo non ti riguarda, ragazza. Dagli un figlio… se il tuo sangue annacquato può formare un uomo, del che io dubito! Dagli un figlio, e tieni la testa alta alla tavola ducale, ma non infastidirlo con la pretesa che ti faccia più compagnia di quanto impone la cortesia. Rallegrati degli onori: e se sei saggia, tratterai con gentilezza Aldis e le altre. Yvian non ha fama di essere un uomo paziente o facile alla tolleranza.» Fulk scese dal letto e si accinse ad uscire. Ma prima di andarsene, sganciò una piccola chiave dalla catena che portava alla cintura, e la gettò alla figlia.
«Nonostante la tua faccia spettrale, non dovrai andare a nozze senza quello che ti spetta. Ti manderò Bettris: lei ha occhio per gli ornamenti e ti aiuterà a scegliere vesti adatte. E veli per coprirti il viso: ne avrai bisogno! E tieni d’occhio Bettris; non permettere che prenda per sé più di quanto possa portar via con tutte e due le mani!»
Loyse afferrò la chiave con un gesto così impaziente che Fulk rise. «In questo sei femmina… gli ornamenti ti piacciono come alle altre. Ancora un paio di tempeste, tanto, e potremo rimpiazzare quello che ti porterai via.»
Uscì, lasciando la porta spalancata. Quando Loyse lo seguì per richiuderla, tenne stretta nella mano la chiave, come se fosse un tesoro. Per mesi, per anni, aveva sognato di entrare in possesso di quel piccolo oggetto metallico. Adesso le era stato consegnato ufficialmente, e nessuno le avrebbe impedito di cercare ciò che voleva veramente, nel magazzeno di Verlaine.
Diritto di saccheggio sui relitti, sopra le onde e sulla riva! Dal giorno in cui Forte Verlaine era stato edificato sulle alture, tra due promontori pericolosi, il mare aveva portato ai suoi signori una ricca messe. E il magazzeno era un’autentica sala del tesoro, che si apriva soltanto per ordine del signore. Fulk doveva essere convinto di aver concluso un buon affare con Yvian, per permetterle di far bottino indiscriminatamente. Loyse non si preoccupava della compagnia di Bettris. La più recente concubina di Fulk era avida quanto bella, e non avrebbe degnato d’uno sguardo ciò che avrebbe scelto Loyse, purché avesse avuto la possibilità di cercare qualcosa per sé.
Loyse fece saltare la chiave dalla mano destra alla sinistra, e per la prima volta un sorriso incurvò le sue labbra pallide.
Fulk sarebbe rimasto sorpreso delle scelte che lei avrebbe compiuto nel tesoro di Verlaine! E forse si sarebbe stupito, se avesse saputo quante cose conosceva delle mura che lui considerava come barriere inviolabili. Il suo sguardo guizzò per un momento verso la parete cui era appeso lo specchio.
Poi sentì bussare frettolosamente alla porta. Loyse sorrise di nuovo, questa volta con un’espressione di disprezzo. Bettris non aveva impiegato molto ad obbedire agli ordini di Fulk. Ma almeno, quella donna non osava entrare nella stanza della figlia del suo amante senza essere invitata a farlo. Loyse andò alla porta.
«Il Nobile Fulk…» cominciò la ragazza che stava sulla soglia: la sua bellezza formosa era vivida quanto quella virile di Fulk.
Loyse mostrò la chiave. «Eccola.» Non chiamò per nome l’altra, non le diede alcun titolo, ma scrutò le spalle tornite che erompevano dalla veste drappeggiata sulle curve lussureggianti. Dietro Bettris c’erano due servitori che reggevano un grosso cofano. Loyse inarcò le sopracciglia, e l’altra rise, nervosamente.
«Il Nobile Fulk vuole che tu scelga le vesti da sposa, signora. Ha detto di non aver riguardi.»
«Il Nobile Fulk è generoso,» rispose Loyse con voce atona. «Vogliamo andare?»
Le donne evitarono la grande sala della fortezza, perché la stanza del tesoro si trovava ai piedi della torre in cui erano gli appartamenti privati della famiglia. Loyse ne era lieta; si teneva sempre lontana dall’animazione della casa di suo padre. E quando giunse finalmente alla porta aperta dalla sua chiave, si compiacque nel vedere che solo Bettris osava seguirla all’interno. I servi spinsero avanti il grosso cofano e si ritirarono.
Tre globi fissati al soffitto irradiavano luce su scrigni e casse, balle e sacchi. Bettris si allisciò la veste sui fianchi, con il gesto d’una venditrice che, al mercato, si accinge a contrattare. I suoi occhi scuri sfrecciavano da un mucchio all’altro; e Loyse, riponendo la chiave nella borsa, si affrettò ad alimentarne l’avidità.
«Non credo che il Nobile Fulk ti negherebbe di scegliere qualcosa anche per te. Anzi, me l’ha detto lui stesso: ma vorrei avvertirti di essere discreta e non troppo avida.»
Le mani grassocce volarono dai fianchi di Bettris al seno semiscoperto. Loyse si diresse verso il tavolo posto al centro della stanza, alzò il coperchio di uno scrigno. Batté le palpebre, nel vedere le ricchezze che vi erano racchiuse. Mai, prima di quel momento, si era resa conto che le rapine compiute da Verlaine nel corso degli anni avessero fruttato tanto. Da un groviglio di catene e di collane liberò una grande spilla, ornata di pietre rosse e d’intarsi, un gingillo che non era di suo gusto, ma che s’intonava con la bellezza straripante della sua accompagnatrice.
«Qualcosa del genere,» suggerì, porgendola.
Le mani di Bettris si protesero, poi si ritrassero di scatto. Socchiudendo le labbra rosse, la donna deviò lo sguardo dalla spilla a Loyse, e da Loyse alla spilla. Vincendo la ripugnanza, la fanciulla accostò il massiccio gioiello alla scollatura della veste dell’altra, dominando l’impulso di ritrarsi al contatto di quella carne morbida.
«Ti sta bene, prendila!» Nonostante il suo desiderio, le parole di Loyse erano brusche come un ordine. Ma l’altra abboccò all’amo. Concentrando l’attenzione sulle gemme, la donna si accostò al tavolo: e Loyse, per il momento, si sentì libera di fare ciò che voleva.
Sapeva cosa cercare, ma non era certa del posto in cui si doveva trovare. Lentamente, la fanciulla si mosse tra i mucchi di casse di cofani. Alcuni erano macchiati da incrostazioni saline, e da altri esalavano lievi profumi esotici. Dopo aver messo tra sé e Bettris una piccola barriera di casse, trovò uno scrigno che le parve promettente.
L’aspetto fragile di Loyse era ingannevole. Come aveva dominato le proprie emozioni in attesa di quel giorno, aveva allenato inflessibilmente anche il proprio corpo. Il coperchio era pesante, ma lo sollevò. E l’odore d’olio, la vista delle stoffe scolorite, le dissero che era sulla pista buona. Scostò i drappi, temendo di macchiarsi le mani e di rivelare la natura della sua ricerca. Poi estrasse un usbergo di maglia, appoggiandoselo contro le spalle per misurarselo. Troppo grande… forse non sarebbe riuscita a trovare nulla che si adattasse alla sua figura esile.
Frugò ancora. Un secondo giaco… un terzo… la cassa doveva essere appartenuta ad un armaiolo. In fondo ce n’era uno che doveva essere stato confezionato su misura per il figlioletto di qualche sovrano. Loyse lo prese, e vide che richiedeva ben pochi cambiamenti, per adattarsi alla sua figura. Rimise il resto nella cassa, e arrotolò il giaco perché occupasse il minor spazio possibile.
Bettris era affascinata dal cofano dei gioielli, e Loyse era certa che s’era già nascosta addosso più di un monile. Ma questo le lasciava la possibilità di proseguire le sue ricerche, muovendosi apertamente tra la cassa portata dai servitori e le sue fonti di rifornimento e aggiungendo stoffe di seta e di velluto ed un mantello di pelliccia per coprire il resto.
Per compiacere Bettris e per stornare i sospetti, Loyse scelse anche diversi gioielli, e poi chiamò i servi perché portassero la cassa nella sua stanza. Temeva che Bettris pretendesse di aiutarla a togliere gli oggetti dal cofano. Ma il suo trucco aveva funzionato; la donna smaniava dalla voglia di andare ad esaminare il suo bottino, e non si trattenne.
Con una rapidità quasi furiosa, temperata dalla prudenza e dalla precisione di un piano studiato minuziosamente in anticipo, Loyse si mise al lavoro. Scaricò sul letto le pezze di stoffa scelte frettolosamente, i pacchi di merletti e di ricami. Poi s’inginocchiò, sgombrando la cassapanca dove era riposto il suo guardaroba attuale. Diverse cose erano già pronte da molto tempo. Ma c’era tutto il resto. Con una cura che non aveva riservato alle stoffe più splendide, Loyse radunò la dote che intendeva portarsi via da Verlaine, indosso, nella borsa, nelle sacche della sella.
L’usbergo di maglia, vestiti di cuoio, armi, elmo, monete d’oro, una manciata di gioielli. Su questi buttò di nuovo i suoi abiti, assestandoli con la meticolosità di una brava massaia. Il suo respiro era un po’ affrettato: ma aveva già chiuso la cassapanca e stava spiegando sul letto il resto del suo bottino quando udì il passo nel corridoio… Fulk che tornava a riprendersi la chiave.
Impulsivamente, Loyse prese un velo bordato di fili d’argento, lieve come una ragnatela costellata di rugiada, e se lo drappeggiò sulla testa e sulle spalle: le stava malissimo, lo sapeva, ma adesso che aveva realizzato il suo intento si sentiva abbastanza generosa per permettere che suo padre ridesse di lei. Tenendo il velo sul capo, andò a mettersi in posa davanti allo scudo che fungeva da specchio.
Le circostanze su cui Loyse aveva contato per trovare la libertà si volsero contro di lei nei giorni seguenti. Infatti, anche se Yvian di Karsten non venne personalmente a Verlaine per vedere la sposa che aveva scelto e l’eredità che lei gli avrebbe portato, inviò un seguito adeguato per farle onore. Loyse venne chiamata ad assistere all’arrivo, e sotto la maschera d’impassibilità ribolliva d’impazienza e di disperazione crescente.
Alla fine, puntò tutte le sue speranze sul banchetto nuziale, perché senza dubbio in quell’occasione i fumi del vino avrebbero annebbiato la mente di tutti, nel forte. Fulk teneva a far colpo sui cortigiani del Duca con la sua prodigalità. Avrebbe fornito i tesori liquidi della sua signoria, e quella sarebbe stata l’occasione migliore per la realizzazione dei piani di Loyse.
Ma prima scoppiò la tempesta: una furia di vento e di onde quale Loyse non aveva mai visto, sebbene conoscesse quella costa fin dalla nascita. Gli spruzzi erano così alti da investire le finestre della sua stanza. Bettris e l’ancella che Fulk aveva mandato per aiutarla a preparare gli abiti tremavano ogni volta che il pugno del vento scuoteva le pietre della mura.
Bettris si alzò, lasciando cadere sul pavimento un rotolo di splendida seta verde e spalancando gli occhi scuri. Mosse le dita e tracciò il sacro segno imparato nell’infanzia, nel suo villaggio dimenticato.
«Una tempesta stregata,» disse con un filo di voce, sopraffatto dall’urlo della bufera. Loyse udì solo un mormorio.
«Non siamo ad Estcarp.» Loyse accostò un pezzo di merletto al raso e l’imbastì. «Noi non abbiamo potere sul vento e sulle onde, e quelli di Estcarp non ne lasciano i confini. È una tempesta, ecco tutto. E se vuoi far piacere al Nobile Fulk, non devi tremare ad ogni mareggiata, perché sono piuttosto frequenti, a Verlaine. Come credi,» chiese, soffermandosi per infilare un ago, «che sia stato acquisito il nostro tesoro?»
Bettris si voltò verso di lei, con le labbra tirate sui dentini affilati in un ghigno da volpe. «Io sono nata sulla costa, e ho visto molte tempeste. Sì, dopo andavo sulla spiaggia con i raccoglitori. Ed è più di quanto tu ti sia mai degnata di fare, mia signora! Ma non ho mai visto una tempesta simile, e non ne ho mai sentita descrivere una eguale in tutta la mia vita! C’è il male, in essa, ti dico… un grande male!»
«È male per coloro che devono affidarsi alle onde.» Loyse posò il suo lavoro. Si accostò alla finestra; ma non scorse nulla oltre le trine di spuma che nascondevano la semioscurità del giorno.
L’ancella non fingeva neppure di lavorare. Si era rannicchiata accanto al focolare dove il corallo marino bruciava convulsamente, e si dondolava avanti e indietro, premendosi le mani sul petto come per placare un dolore. Loyse le andò vicino. Provava poca pietà e poco interesse per le donne del castello… da Bettris alle sguattere. Ora, controvoglia, chiese: «Stai male, ragazza?»
La ragazza era più linda di quanto lo fossero di solito le sue pari. Forse le era stato ordinato di pulirsi, prima di presentarsi a lei. Ma quando alzò la testa, il suo viso attirò l’attenzione della figlia di Fulk. Non era una ragazza di villaggio, una contadinella trascinata nella fortezza per il piacere d’un cortigiano e poi rimasta a fare la sguattera. Il suo volto era la maschera d’una paura che da tanto tempo era parte di lei da averla modellata come un vasaio modella l’argilla. Eppure, sotto la paura, c’era qualcosa d’altro.
Bettris rise con voce stridula. «Non è il mal di pancia che la divora, solo il ricordo. Anche lei è stata gettata a terra dal mare. Non è così, sguattera?» Colpì con la morbida scarpa di pelle il fianco della ragazza, e per poco non la fece cadere nel fuoco.
«Lasciala in pace!» Per la prima volta, Loyse lasciò balenare la sua fiamma interiore. Si era sempre tenuta lontano dalla spiaggia, dopo le tempeste, perché non poteva far nulla per contrastare il dominio di Fulk, e non voleva vedere cose che non avrebbe più potuto dimenticare.
Bettris si agitò, a disagio. Di fronte a Loyse si sentiva sempre incerta, e non osò risponderle.
«Caccia via quell’idiota. Non lavorerà finché infuria la tempesta… e neppure dopo, per un po’. È un peccato, perché è esperta nell’uso dell’ago, altrimenti già da molto tempo sarebbe finita a ingrassare le anguille.»
Loyse si accostò al grande letto su cui era stata già stesa molta della sua roba. C’era uno scialle, piuttosto semplice tra le sete fulgide e le stoffe preziose. Lo prese e lo portò accanto al camino, lo gettò sulle spalle dell’ancella tremante. Senza badare allo sbalordimento di Bettris, s’inginocchiò, posò le mani sulle mani della ragazza e, guardando quel volto teso, si sforzò di far dimenticare ad entrambe le truci usanze di Verlaine che, in modi diversi, le avevano profondamente cambiate.
Bettris le tirò la manica.
«Come osi?» scattò Loyse.
L’altra non cedette, con un sogghigno ironico sulle labbra carnose. «Si sta facendo tardi, signora. Il Nobile Fulk sarebbe contento di sapere che ti occupi di questa sguattera mentre lui s’incontra con i dignitari del Duca per la firma del contratto nuziale? Devo dirgli perché non vuoi venire?»
Loyse la guardò freddamente. «Farò il volere del mio signore in questo, come in altre cose, ragazza. Non pensare di dar lezione a me!»
Lasciò con riluttanza le mani dell’ancella, e le disse: «Rimani qui. Nessuno ti verrà vicino. Capisci? Nessuno!»
L’altra aveva capito? Aveva ripreso a dondolarsi avanti e indietro, straziata dall’antica sofferenza impressa nella sua mente offuscata, anche dopo che le cicatrici erano svanite dal suo corpo.
«Non c’è bisogno che tu mi vesta.» Loyse si rivolse a Bettris, e l’altra arrossì. Non era capace di tenerle testa, e lo sapeva.
«Ti sarebbe utile conoscere un po’ gli incantesimi noti a tutte le donne, signora,» rispose bruscamente. «Potrei insegnarti ad indurre un uomo a voltarsi al tuo passaggio. Se mettessi solo un poco di tinta scura sulle ciglia e le sopracciglia, e un po’ di pomata rosa sulle labbra…» Aveva dimenticato l’irritazione: il suo istinto creativo riprese il sopravvento. Scrutò Loyse con aria critica, impersonalmente, e la fanciulla si sorprese ad ascoltarla, nonostante il disprezzo che provava per Bettris e tutto ciò che rappresentava. «Sì, se tu volessi ascoltarmi, signora, forse riusciresti a distogliere gli occhi del tuo signore da quella Aldis per il tempo necessario ad accorgersi di te. E vi sono anche altri modi per incantare un uomo.» Si passò sulle labbra la punta della lingua. «Posso insegnarti molte cose, signora: e sarebbero armi molto utili, per te.» Si fece più vicina: la luce dei lampi si rifletteva nei suoi occhi.
«Yvian mi ha chiesta così come sono,» rispose Loyse, respingendo l’offerta di Bettris e tutto ciò che Bettris rappresentava. «Quindi dovrà accontentarsi di quel che avrà!» E questo è vero più di quanto tu possa immaginare, aggiunse tra sé.
Bettris scrollò le spalle. «Si tratta della tua vita, signora. E prima che finisca, scoprirai che non puoi piegarla al tuo volere.»
«Ho mai potuto farlo?» chiese sottovoce Loyse. «E adesso vai. Come hai detto, si fa tardi, ed io ho molto da fare.»
Assistette alle cerimonie della firma del contratto con l’abituale, tranquilla rassegnazione. Gli uomini che il Duca aveva inviato per condurre la sposa a Kersten erano tre tipi molto diversi, e lei li studiò con interesse.
Hunold era stato compagno di Yvian ai tempi in cui il Duca era un mercenario. Aveva una reputazione, come soldato, che era giunta persino in una località isolata come Verlaine. Stranamente, il suo aspetto non si accordava con la sua fama e con la sua occupazione. Loyse si era aspettata di vedere un uomo simile al siniscalco di suo padre — forse un po’ più raffinato — ma si trovò davanti ad un cortigiano affettato, languido, abbigliato di sete, che sembrava non aver mai sentito sulle spalle il peso di un usbergo. Il mento arrotondato, gli occhi dalle lunghe ciglia, le guance lisce gli conferivano un ingannevole aspetto giovanile ed un’aria quasi tenera. E Loyse, cercando di confrontare quell’uomo con ciò che aveva sentito raccontare sul suo conto, provò un senso di paura.
Siric, che rappresentava il Tempio della Fortuna, e che l’indomani avrebbe pronunciato le parole rituali mentre lei posava le mani sull’ascia di guerra, facendola sposa di Yvian come se fosse stato lo stesso Duca a stringerla, era vecchio. Aveva il volto rubizzo, e sulla sua fronte bassa pulsava una vena azzurra. Mentre ascoltava o parlava con mormorii sommessi, masticava continuamente minuscoli dolciumi, pescandoli in una scatola che il suo servitore gli teneva sempre a portata di mano; e la gialla veste sacerdotale si tendeva su una pancia di proporzioni notevoli.
Il Nobile Duarte apparteneva all’antica nobiltà. Ma, a sua volta, non sembrava molto in armonia con il suo ruolo. Piccolo e magro, con un tic che gli faceva fremere il labbro inferiore e l’aria turbata di un uomo costretto a svolgere una missione che detestava, parlava solo quando veniva interrogato. Ed era l’unico dei tre che prestasse qualche attenzione alla sposa. Loyse si accorse che la guardava con aria pensierosa, ma nel suo atteggiamento non c’era nulla che esprimesse pietà o una promessa d’aiuto. Si sarebbe detto, piuttosto, che lei fosse il simbolo di molti guai che avrebbe voluto allontanare dalla sua strada.
Loyse era lieta che la consuetudine le permettesse di sottrarsi al banchetto di quella sera. L’indomani avrebbe dovuto assistere all’inizio del pranzo di nozze: ma non appena avesse incominciato a scorrere il vino… sì… allora! Aggrappandosi a quel pensiero, si affrettò a ritornare nella sua stanza.
Aveva dimenticato la cucitrice, e trasalì nel vedere una figura profilata contro la finestra. Il vento si andava placando: la tempesta era ormai quasi passata. Ma c’era un altro suono: il lamento di una sofferenza disperata. E l’aria salmastra l’investì, spirando dalla finestra aperta.
Esasperata dalle preoccupazioni, tesa al pensiero di ciò che doveva accadere e che doveva prepararsi ad affrontare durante le prossime ventiquattro ore, Loyse attraversò fulmineamente la stanza e afferrò la finestra, scostando la ragazza per richiuderla. Sebbene il vento fosse cessato, le nubi erano ancora squarciate dai lampi. E in uno di quei bagliori, Loyse vide ciò che l’altra doveva osservare già da molto tempo.
Sospinte verso le zanne delle rocce, c’erano navi… due… tre navi. Erano vascelli ben diversi dai mercantili di piccolo cabotaggio che lei aveva visto trascinare alla catastrofe dalla corrente infida, ricchezza e maledizione di Verlaine. Quelle navi potevano solo far parte della flotta di qualche principe navigatore. Eppure, nei lampi incessanti che le permettevano di scorgerle solo per pochi secondi, Loyse non riuscì a notare la minima attività a bordo dei vascelli: nessuno tentava di sventare il disastro. Erano vascelli fantasma che veleggiavano verso la morte, senza che gli equipaggi mostrassero di preoccuparsene.
Le lanterne dei cacciatori di relitti, dei predatori della costa, si stavano già muovendo a grappoli, uscendo dalla porta di Verlaine. Un uomo che si trovasse sul posto al momento opportuno avrebbe potuto nascondere qualche ricca preda tutta per sé, nella confusione generale, anche se la mano pesante di Fulk e la pronta impiccagione di coloro che venivano colti in flagrante avevano ridotto al minimo quei furti. Avrebbero gettato le reti per tirare a terra i relitti galleggianti, eseguendo compiti cui erano allenati da molto tempo. E in quanto a coloro che fossero giunti a riva ancora vivi… Loyse trascinò via la ragazza, chiuse e sbarrò la finestra.
Ma, con sua sorpresa, il viso che l’ancella volse verso di lei non era più turbato da antichi terrori. Negli occhi scuri si leggeva intelligenza, eccitazione, una forza crescente.
Teneva la testa leggermente inclinata, come se cercasse di captare un suono nel fragore bronzeo del temporale. Era sempre più evidente: qualunque fosse stata la sua posizione sociale prima che il mare la portasse a Verlaine, non era una comune ragazza da caserma.
«Ciò che è rimasto a lungo nell’edificio.» Il tono della ragazza era remoto: parlava come se attingesse ad un’esperienza diretta che Loyse non sapeva immaginare. «Scegli, scegli bene. Perché questa notte si decide il fato di intere nazioni, e di molti uomini!»
«Chi sei?» chiese Loyse, mentre la ragazza continuava a trasformarsi sotto i suoi occhi. Non era un mostro; non assumeva forma di bestia o d’uccello come, a quanto si diceva, potevano fare le streghe di Estcarp. Ma ciò che era rimasto nascosto, ferito quasi mortalmente, dentro il suo essere, aveva ripreso a lottare per ritrovare la vita.
«Chi sono? Nessuno… niente. Ma sta per giungere qualcuno più grande dell’io che viveva un tempo. Scegli bene, Loyse di Verlaine… e vivrai. Scegli male… e morirai, come io sono morta, poco a poco, giorno per giorno.»
«Quella flotta…» Loyse si voltò a mezzo verso le finestre. Possibile che fossero invasori, temerari al punto di sacrificare le navi pur di assicurarsi una testa di ponte sul promontorio e di aprirsi la strada verso Verlaine? Era un pensiero assurdo. Le navi erano spacciate; pochi marinai sarebbero giunti vivi a riva, e là avrebbero scoperto che gli uomini di Verlaine avevano preparato loro una feroce accoglienza.
«Flotta?» le fece eco la ragazza. «Non c’è nessuna flotta… solo la vita… o la morte. Tu hai in te qualcosa di noi, Loyse. Dai buona prova di te, e vinci!»
«Qualcosa di voi? Chi sei… che cosa sei?»
«Io sono nessuno; sono nulla. Chiedimi piuttosto che cos’ero, Loyse di Verlaine, prima che la tua gente mi strappasse al mare.»
«Che cos’eri?» chiese l’altra, obbediente, come una bambina che reagisse al comando di un’adulta.
«Ero una di Estcarp, donna della costa. Ora capisci? Sì, io avevo il Potere… fino a quando mi fu strappato nella sala, qui sotto, mentre gli uomini ridevano e acclamavano. Perché il dono è nostro — suggellato in noi donne — finché i nostri corpi rimangono inviolati. Per Verlaine ero solo un corpo di femmina, null’altro. Perciò persi ciò che mi faceva vivere e respirare… persi me stessa.
«Puoi comprendere cosa significa perdere te stessa?» Scrutò Loyse. «Sì, quasi credo che tu lo sappia, perché ora ti accingi a proteggere ciò che è tuo. Il mio dono è scomparso, schiacciato come si può schiacciare l’ultima brace di un fuoco indesiderato; ma ne sono rimaste le ceneri. Quindi ora so che qualcuna, più grande di quanto avessi mai sperato di diventare, sta per giungere sospinta dalla tempesta. E lei deciderà più d’uno dei nostri futuri!»
«Una strega!» Loyse non rabbrividì: la sua eccitazione divampò. Il potere delle donne di Estcarp era leggendario. Lei aveva assorbito avidamente tutte le dicerie che erano giunte dal nord, sul conto di quelle donne e dei loro doni. E adesso si sentiva bruciare per l’occasione perduta. Perché non aveva saputo prima dell’esistenza di quella donna, perché…
«Sì, una strega. Ci chiamano così, quando ci capiscono poco. Ma non credere di poter sapere di più da me, Loyse. Io sono soltanto il tizzone di un fuoco spento da molto tempo. Impiega la tua volontà e la tua intelligenza per aiutare colei che sta per giungere.»
«Volontà e intelligenza!» Loyse rise, bruscamente. «Ho l’intelligenza e la volontà, ma non ho potere, qui. Non l’ho mai avuto. Nessun soldato mi obbedirà, o frenerà la mano al mio ordine. Faresti meglio a rivolgerti a Bettris. Quando mio padre è in buona con lei, Bettris riesce talvolta a farsi obbedire dai suoi uomini.»
«Dovrai solo approfittare dell’occasione quando si presenterà.» L’altra si lasciò scivolare lo scialle dalle spalle, lo ripiegò con cura e lo posò sul letto, mentre si avviava verso la porta. «Approfitta dell’occasione ed usala bene, Loyse di Verlaine. E questa notte dormi profondamente, perché la tua ora non è ancora giunta.»
Uscì dalla porta prima che Loyse potesse muoversi per trattenerla. E poi la stanza le parve stranamente vuota, come se l’ancella avesse portato via una vita pulsante che aveva atteso in un angolo buio.
Lentamente, Loyse si tolse la veste da cerimonia, tornò ad intrecciarsi i capelli senza l’aiuto dello specchio. Inspiegabilmente, non voleva guardare in quello specchio, ora, perché aveva quasi la sensazione che qualcosa d’altro potesse sbirciare al di sopra della sua spalla. Molte azioni empie ed immonde erano state compiute nella grande sala di Verlaine, da quando Fulk ne era diventato il padrone. Ma ora Loyse era convinta che a decidere la sua sorte futura era stato l’atto che aveva avuto come vittima la donna di Estcarp.
Era così assorta nei suoi pensieri da dimenticare, quasi, di essere alla vigilia delle nozze. Per la prima volta da quando li aveva nascosti, non tirò fuori gli indumenti in fondo alla cassapanca, per esaminarli e rallegrarsi della prospettiva che le offrivano.
Lungo la spiaggia il vento gemeva, sebbene non scagliasse più in alto le montagne di spruzzi. E coloro che si erano radunati in attesa della messe delle onde e delle rocce erano impazienti. La flotta che era apparsa così splendida dalla camera di Loyse, era ancora più imponente vista dalla riva.
Hunold si strinse il mantello intorno alla gola e guardò nell’oscurità. Non erano navi di Karsten, e quel naufragio poteva tornare utile al Ducato. Era fermamente convinto che stavano per assistere agli ultimi momenti di una forza nemica. Ed era un bene che, date le circostanze, lui fosse lì a tener d’occhio Fulk. Le dicerie avevano ingigantito il bottino di Verlaine. E quando Yvian avesse sposato quella pallida nullità, avrebbe potuto chiedere conto di tutto il tesoro, in nome della moglie. Sì, la Fortuna aveva sorriso, quando aveva inviato Hunold sulla spiaggia, quella notte, ad osservare e ad ascoltare ed a raccogliere gli elementi per un rapporto al Duca.
Ormai certi che le navi condannate non sarebbero riuscite a superare il promontorio, gli uomini usciti dal forte piazzarono le lanterne lungo la riva. Se quegli sciocchi a bordo dei vascelli avessero cercato di arrivare a terra in prossimità di quei fari, tanto meglio: avrebbero risparmiato ai saccheggiatori il tempo e la fatica di dar loro la caccia.
E così fu che i raggi, protesi al di sopra delle onde, inquadrarono la prima prua. Era alta, sollevata dai frangenti: si alzarono grida tra gli spettatori, e scommesse furono frettolosamente offerte ed accettate circa il punto in cui sarebbe andata a sfasciarsi. Si sollevò e poi si avventò in avanti, verso le rocce. E poi… scomparve.
Quelli sulla spiaggia si trovarono di fronte all’impossibile. In un primo momento alcuni, i più ricchi d’immaginazione, furono certi di aver visto il relitto d’una nave sfasciata, certi che si dibattesse vicino alle loro reti. Ma non c’era nulla, tranne la spuma dell’acqua battuta dal vento. Niente nave e niente relitto.
Nessuno si mosse. In quel momento, erano tutti inchiodati, incapaci di credere ai loro occhi. Si stava avvicinando un’altra di quelle navi superbe. Puntava verso il tratto di rocce su cui Hunold stava a fianco di Fulk, come se un timoniere invisibile ne guidasse la rotta. Avanzava maestosa, e nessun uomo era aggrappato alle sartie, nessun essere vivente era visibile sul ponte.
Ancora una volta le onde sollevarono il loro carico per scagliarlo sulle zanne della scogliera. E questa volta era così vicino alla riva che Hunold pensò che un uomo avrebbe potuto balzare sul ponte deserto, dal luogo in cui lui si trovava. La prua si alzò, si alzò, e la polena fantasticamente scolpita mostrò al cielo le fauci spalancate. Poi si abbassò… e le acque turbinarono.
E scomparve!
Hunold tese la mano, afferrò la spalla di Fulk, e vide nel pallore stravolto del viso dell’altro lo stesso terrore incredulo. E quando la terza nave si avvicinò, puntando diritta verso la scogliera, gli uomini di Verlaine fuggirono urlando in preda al panico. Le lanterne abbandonate illuminarono la spiaggia dove le reti fluttuavano sull’acqua, senza aver catturato neppure una tavola sfasciata.
Più tardi, una mano afferrò quella rete, l’afferrò e la strinse nell’ultimo, disperato sforzo per aggrapparsi alla vita. Un corpo rotolò nella risacca, ma la rete resistette, e la mano resistette. Poi vi fu la lunga, lenta avanzata verso la riva, fino a quando una figura esausta e dolorante giacque prona sulla sabbia e si addormentò.
In generale, gli abitanti di Verlaine ammettevano che la flotta scomparsa fosse stata un’illusione inviata dai demoni. E Fulk non sarebbe riuscito a costringere uno solo dei suoi uomini a scendere sulla spiaggia, la mattina dopo. Anzi, non tentò neppure di dare un simile ordine.
Era necessario concludere le nozze prima che a Kars giungesse la notizia ed offrisse un legittimo pretesto per rifiutare l’erede di Verlaine. Per placare le paure superstiziose che i tre agenti ducali potevano nutrire, Fulk, con una certa riluttanza, li condusse nella sala del tesoro, offrendo a ciascuno di loro un prezioso ricordo, e scegliendo una spada tempestata di gemme quale pegno della sua ammirazione per il valore guerresco del Duca. Tuttavia continuava a sudare, e stentava a reprimere l’impulso di andare ad ispezionare gli angoli bui della scala e del corridoio.
Notò che nessuno dei suoi ospiti faceva allusione a quanto era accaduto sulla scogliera, e si chiese se quello era un buono o un cattivo segno. Solo quando furono nella sala del consiglio privato, un’ora prima della cerimonia, Hunold trasse dalla sopravveste foderata di pelliccia un piccolo oggetto e lo mostrò delicatamente in una chiazza di pallido sole.
Siric piegò la pancia sulle ginocchia e sbuffò un paio di volte, tendendosi incuriosito a guardarlo.
«Che cos’è, Nobile Comandante? Che cos’è? Hai rubato il giocattolo ad un marmocchio del villaggio?»
Hunold sollevò l’oggetto nel cavo della mano. Sebbene fosse modellato rozzamente, la forma era piuttosto evidente… una barca, E per albero c’era uno stecco spezzato.
«Questa, Voce Reverendissima,» rispose sottovoce Hunold, «è la possente nave, o una delle possenti navi che abbiamo visto avventarsi verso la catastrofe, questa notte. Sì, è un giocattolo: ma non uno dei soliti. E per la sicurezza di Karsten debbo chiederti, Nobile Fulk, quali rapporti intrattieni con le figlie delle tenebre… le streghe di Estcarp.»
Fulk, punto sul vivo, fissò la barca di legno. Il suo volto impallidì, poi si oscurò, quando il sangue lo invase. Ma lottò furiosamente per calmarsi. Se avesse sbagliato, ora, avrebbe perduto la partita.
«Avrei mandato gli spigolatori alle scogliere per ricevere una flotta di barche giocattolo e per saccheggiarle?» Riuscì a simulare una serenità che non provava. «Immagino che tu l’abbia ripescato dal mare questa mattina, Nobile Comandante. Ma che cosa t’induce a credere che facesse parte di una magia di Estcarp, o che le navi viste da noi fossero nate da questo trucco?»
«Questa è stata raccolta sulla sabbia stamattina, sì,» ammise Hunold. «E conosco da un pezzo le illusioni delle streghe. A conferma, abbiamo trovato qualcosa d’altro sulla spiaggia, i miei uomini ed io; un grande tesoro, tale da rivaleggiare con quelli che ci hai mostrati e che il mare ha portato alla tua fortezza. Marc; Jothen!» Alzò la voce, e due scudieri del Duca entrarono, portando una prigioniera strettamente legata, che sembravano trattare con evidente imbarazzo.
Fulk era abituato a vedere prigionieri incrostati di sale e strappati alle fauci del mare, e li trattava in modo sbrigativo. Ed una volta, per giunta, s’era trovato di fronte ad un problema identico e l’aveva risolto per il meglio. Hunold lo aveva sconvolto, ma solo per un momento. Ormai aveva ritrovato tutta la sua sicurezza.
«Dunque,» disse, riassestandosi sul seggio con il sorriso di chi assiste al divertimento di individui meno raffinati ed evoluti, «avete preso una strega.» Squadrò arditamente la donna. Era magra, ma c’era spirito, in lei… sarebbe stato divertente. Forse Hunold avrebbe voluto incaricarsi di domarla. Nessuna di quelle streghe era mai bella; e quella aveva l’aria di aver lottato per un mese contro le onde. Studiò più attentamente le vesti che coprivano quel corpo scarno.
Erano di cuoio… gli indumenti che si portavano sotto gli usberghi di maglia metallica! Quindi aveva preso le armi, quella. Fulk si scosse. Una strega armata e quella flotta fantasma! Forse Estcarp aveva deciso di muoversi… e di muoversi contro Verlaine? Estcarp aveva molti conti da regolare con lui, sebbene fino ad ora nessuno, lassù al nord, avesse dato segno di essere al corrente delle sue attività. Ma era meglio accantonare quel problema per esaminarlo più tardi: ora doveva pensare a Hunold ed a ciò che avrebbe dovuto fare per conservare l’alleanza di Karsten.
Evitò scrupolosamente di incontrare gli occhi della prigioniera. Ma cercò di riaffermare la sua vecchia superiorità.
«A Kars non si sa ancora, Nobile Comandante, che queste streghe possono piegare un uomo alla loro volontà, con il solo potere degli occhi? Vedo che i tuoi scudieri non hanno preso precauzioni contro un attacco del genere.»
«Si direbbe che tu conosca piuttosto bene queste streghe.»
Prudenza, si disse Fulk. Hunold non si era assicurato un posto alla destra di Yvian grazie alla sola forza del suo braccio. Era meglio non provocarlo troppo: bastava dimostrargli che il signore di Verlaine non era né un traditore né uno sciocco.
«Estcarp ha già pagato altri tributi al nostro promontorio,» disse sorridendo.
Vedendo quel sorriso, Hunold lanciò un ordine ai suoi uomini. «Tu, Marc! Buttale il mantello sulla testa!»
La donna non si era mossa, non aveva proferito alcun suono, quando l’avevano condotta lì dentro. Era come avessero a che fare con un corpo privo d’anima e di mente. Forse era stordita dalle traversie subite in mare, dall’urto contro qualche roccia della scogliera. Tuttavia, nessuno degli uomini di Verlaine avrebbe allentato la vigilanza solo perché la prigioniera non gridava o implorava o si dibatteva inutilmente. Mentre le pieghe del mantello le si avvolgevano intorno alla testa ed alle spalle, Fulk si sporse dal seggio e parlò: le sue parole erano dirette alla donna, più che agli uomini cui sembrava rivolgersi… nella speranza di strapparle qualche reazione che gli rivelasse il suo stato di coscienza.
«E non ti ho neppure detto, Nobile Comandante, come si possono disarmare queste streghe? È una procedura molto semplice… e qualche volta piacevole.» Deliberatamente, si addentrò nei dettagli più osceni.
Siric rise, sorreggendosi con le mani la pancia sussultante. Hunold sorrise.
«Voi di Verlaine conoscete veramente piaceri molto sottili,» ammise.
Solo il Nobile Duarte rimase in silenzio, fissandosi le mani posate sulle ginocchia, mentre agitava nervosamente le dita. Un lento, cupo rossore si diffuse sulle guance magre, sotto la corta barba da vecchio.
La figura avviluppata non si mosse, non protestò.
«Portatela via.» Fulk diede l’ordine, in una piccola dimostrazione di potere. «Consegnatela al siniscalco, che la terrà al sicuro per il nostro futuro piacere. Per ogni piacere, infatti, c’è il momento giusto.» Era ridiventato un ospite tutto cortesia, sicuro della propria posizione. «Ed ora dobbiamo pensare al piacere del nostro Duca… la consegna della sua sposa.»
Fulk attese. Nessuno avrebbe potuto intuire la tensione con cui ascoltò le successive parole di Hunold. Fino a quando Loyse non fosse stata davanti all’altare, nella cappella poco usata, con le mani sull’ascia, mentre Siric pronunciava la formula di rito, Hunold poteva chiamarsi fuori, in nome del suo padrone. Ma quando Loyse fosse diventata Duchessa di Karsten, sia pure nominalmente, Fulk sarebbe stato libero di procedere per la strada che aveva scrupolosamente preordinata e tracciata.
«Sì, sì.» Siric sbuffò e si alzò faticosamente in piedi, affrettandosi ad assestare le pieghe della cappa. «Il matrimonio… Non dobbiamo fare aspettare la signora, eh, Nobile Duarte? Sangue giovane, sangue impaziente. Venite, venite, miei signori… alle nozze!» Quella parte spettava a lui e una volta tanto quel giovane soldato di ventura dagli occhi di ghiaccio non avrebbe potuto avere il ruolo principale. Era molto più dignitoso e conveniente che il Nobile Duarte, della più antica schiatta nobiliare di Karsten, portasse l’ascia e sposasse per procura la promessa del loro sovrano. Era stato un suo saggio suggerimento, quello, ed Yvian l’aveva ringraziato con calore, prima della loro partenza da Kars. Sì, Yvian avrebbe scoperto… anzi, stava scoprendo che con il potere della Confraternita del Tempio e l’appoggio delle vecchie famiglie nobili, non avrebbe più dovuto ascoltare i mestatori come Hunold. Con la celebrazione del matrimonio, il sole di Hunold si sarebbe avviato al tramonto!
Faceva freddo. Loyse procedette in fretta lungo la balconata della grande sala che era il cuore del forte. Era rimasta mentre tutti brindavano, ma non aveva neppure risposto ai pii auguri di felicità che le venivano rivolti… felicità! Loyse non sapeva neppure cosa fosse. Voleva solo la libertà.
Quando sbatté la porta dietro di se, sistemò le tre sbarre che avrebbero potuto resistere persino ad un ariete, e si mise al lavoro. Si strappò i gioielli dalla gola, dalla testa, dalle orecchie e dalle dita, e li gettò in un mucchio. Scostò con un calcio la lunga veste orlata di pelliccia. Alla fine, si mise davanti allo specchio, sopra uno scialle, troppo emozionata per sentire il freddo che filtrava dalle pareti circostanti; sciolse i capelli e se li lasciò ricadere sulle spalle, in un manto che le copriva i fianchi nudi. Ciocca per ciocca, li aggredì implacabilmente con le forbici, lasciandoli cadere sullo scialle. Prima li tagliò all’altezza del collo, e poi più attentamente e con maggiore impaccio, riducendoli corti, come ci si poteva aspettare di vederli sotto un camaglio metallico ed un elmo. I trucchi che aveva rifiutato di usare nonostante i consigli di Bettris, ora li adottò con scrupolosa concentrazione. Strofinò delicatamente un miscuglio di fuliggine sulle sopracciglia pallide, e poi sulle ciglia corte e folte. Era così intenta ai dettagli che non aveva considerato il risultato d’insieme. Ora, scostandosi un po’ dallo specchio, scrutò con aria critica la propria immagine, stupita da ciò che vedeva.
Il suo morale migliorò: era quasi sicura che avrebbe potuto attraversare la grande sala senza che Fulk la riconoscesse. Corse al letto e cominciò a vestire gli indumenti che aveva preparato. La cintura con le armi si adattava alla perfezione intorno alla sua vita. Fece per prendere le sacche da sella, ma la sua mano si mosse lentamente. Perché era così riluttante ad abbandonare Verlaine? Aveva subito le cerimonie di quel giorno nascondendo i suoi propositi, tenendoli celati come il tesoro più prezioso. E sapeva che il banchetto era l’occasione migliore per fuggire. Loyse pensava che nessuna sentinella in servizio dentro o fuori del forte sarebbe stata troppo zelante, quella notte… E inoltre, lei conosceva un’uscita segreta.
Eppure qualcosa la tratteneva, facendole sprecare momenti decisivi. Il desiderio di tornare sulla balconata affacciata sulla sala, di spiare i banchettanti, la spinse verso la porta senza che quasi se ne rendesse conto.
Cosa aveva detto l’ancella? qualcuna stava arrivando sulle ali della tempesta… approfitta dell’occasione ed usala bene, Loyse di Verlaine! Ebbene, quella era la sua occasione, ed era disposta a servirsene con tutta la saggezza che la vita nella casa di Fulk l’aveva costretta ad acquisire.
Tuttavia, quando si mosse, non si diresse verso il passaggio segreto, ignoto a Fulk ed ai suoi uomini, bensì verso la porta. E mentre lottava contro l’impulso assurdo ed avventato, la sua mano scostò le sbarre, e lei si trovò nel corridoio. I tacchi degli stivali ticchettavano sulla scala che l’avrebbe condotta alla balconata.
Come il calore del centro del forte non saliva a riscaldarla, il rumore era solo un brusio in cui nessuna voce, nessun canto la raggiungeva sotto forma di parole comprensibili. Gli uomini bevevano e mangiavano, e ben presto avrebbero pensato ad altri spassi. Loyse rabbrividì, e tuttavia continuò ad indugiare, fissando la lunga tavola e coloro che vi sedevano, come se fosse necessario controllare i loro movimenti.
Siric, che nella cappella di Verlaine era riuscito ad assumere per breve tempo una sua dignità — o forse erano stati i paramenti a conferirla fugacemente al suo corpo gonfio — era di nuovo tutto pancia, e si ingozzava del contenuto d’una fila interminabile di piatti, sebbene i suoi commensali fossero passati già da un po’ al vino.
Bettris, che non aveva alcun diritto di sedere là fino alla partenza di Loyse — e lo sapeva benissimo, perché Fulk pretendeva, capricciosamente, il rispetto delle formalità — era stata attenta a cogliere il momento propizio. Ora, ornata della sgargiante spilla proveniente dal tesoro, si appoggiava al bracciolo scolpito del seggio del suo amante. Ma, notò Loyse da spettatrice attenta, di tanto in tanto Bettris lanciava di sottecchi occhiate calcolatrici al Nobile Comandante Hunold, mentre lasciava che le sue spalle bianche e tornite, incorniciate dalla stoffa rossovino della veste, accentuassero quel subdolo richiamo.
Il Nobile Duarte stava raggomitolato, occupando solo due terzi del suo seggio, e guardava nel calice che teneva in mano come se vi leggesse un messaggio che avrebbe preferito ignorare. Il taglio semplice della veste color prugna, l’espressione contratta del volto di vecchio, gli davano quasi l’aspetto di un mendicante in quell’assemblea festosa, e non fingeva neppure di divertirsi.
Loyse pensò che doveva andarsene… subito! Con gli abiti di pelle e l’usbergo di maglia, avvolta in un mantello da viaggio che la faceva apparire come un’ombra scura tra le molte ombre, irriconoscibile per gli occhi obnubilati dal vino, sarebbe stata al sicuro per un po’. Ed era freddo, più freddo di quando la brina dell’inverno screziava le mura, sebbene fosse già primavera avanzata. Loyse mosse un passo, poi un altro, prima che l’ordine muto che l’aveva condotta lì la spingesse di nuovo alla balaustrata.
Hunold si stava tendendo verso suo padre, per parlargli. Era un bell’uomo: l’interesse di Bettris per lui era prevedibile. Il suo volto astuto, con i capelli che avevano il colore del manto di una volpe, aveva un colorito virile vivido quanto quello di Fulk. Fece un gesto rapido con le mani, e Fulk proruppe in una grande risata: l’eco giunse fino alle orecchie di Loyse.
Ma sul volto di Bettris era apparsa un’improvvisa espressione delusa. Strinse la manica di Fulk, posata sul bracciolo del seggio, e le sue labbra formarono parole che Loyse non riuscì ad intuire. Fulk non girò neppure la testa per guardarla. Alzò la mano di scatto per scostarla, spingendola lontano dal tavolo, e Bettris cadde goffamente nella polvere, dietro i seggi.
Il Nobile Duarte si alzò, posando il calice. Le bianche mani esili venate d’azzurro strinsero l’ampio collo di pelliccia della veste, come se egli fosse il solo, tra tutti, a sentire il freddo che intirizziva Loyse. Parlò lentamente: si capiva che stava esprimendo una protesta. E dal modo in cui voltò le spalle alla tavola, apparve chiaro che non si aspettava una risposta educata da parte dei suoi commensali.
Hunold rise, e Fulk batté il pugno sul tavolo per chiamare il coppiere, mentre il più vecchio degli inviati del Duca si avviava fra le tavole degli invitati meno importanti, ai piedi del podio, per salire la scala che portava al suo appartamento.
Vi fu un movimento, alla porta della sala. Entrarono alcuni uomini armati e corazzati, e si diressero verso il podio. Il clamore si attenuò, mentre le guardie avanzavano, tenendo in mezzo un prigioniero. Loyse vide che sospingevano un uomo con le mani legate dietro la schiena; ma non comprese perché gli avessero infilato la testa in un sacco, in modo che quello procedeva a tentoni, barcollando, reagendo agli strattoni.
Fulk mosse il braccio, sgombrando un tratto del piano del tavolo, fra sé e Hunold, e fece volare via il calice di Duarte: il vino rimasto spruzzò Siric, che protestò energicamente senza che nessuno gli desse ascolto. Da una tasca, il signore di Verlaine estrasse un paio di monete, le gettò in aria e lasciò che roteassero sul tavolo prima di cadere mettendo in mostra una faccia. Le spinse verso Hunold, offrendogli il diritto del primo tiro.
Il Nobile Comandante le prese, le esaminò con un commento scherzoso, poi le lanciò. I due uomini chinarono la testa, poi Fulk raccolse le monete per tirarle a sua volta. Bettris, come dimentica del rude trattamento di poco prima, si era avvicinata di nuovo, e fissava i dischi roteanti con occhi ansiosi come quelli degli uomini. Quando le monete caddero, si aggrappò di nuovo al seggio di Fulk, come se il risultato le avesse dato un coraggio nuovo, mentre Fulk rideva e rivolgeva un ironico gesto di saluto all’ospite.
Hunold si alzò e girò intorno al tavolo. Gli uomini che circondavano il prigioniero si scostarono al suo avvicinarsi; non cercò di rimuovere il sacco che gli copriva la testa, ma le sue dita afferrarono il giubbotto di cuoio macchiato, per aprirne i fermagli. Con uno strattone, lo lacerò fino alla cintola, e dai presenti si levò un grido.
Il Nobile Comandante strinse con la mano la spalla della prigioniera, volgendosi a fronteggiare i sogghigni degli uomini. Poi, dimostrando una forza sorprendente per quella sua figura snella, se la issò sulla spalla, incamminandosi verso la scala. Fulk non fu il solo a protestare per il mancato spettacolo, ma Hunold scosse il capo e proseguì.
Fulk l’avrebbe seguito? Loyse non attese. Come avrebbe potuto opporsi a Fulk… o anche a Hunold? E perché, tra tutte le donne che in passato erano state prede involontarie di Fulk e dei suoi uomini, lei doveva aiutare proprio quella? Sebbene lottasse contro la consapevolezza di dover intervenire, si sentiva trasportata, costretta ad agire contro la sua volontà.
Si affrettò a rientrare nella sua camera: era molto più facile correre con quell’abbigliamento che con le vesti adatte al suo sesso. Ancora una volta, le tre sbarre scesero con un tonfo. Loyse si tolse il mantello, senza badare all’immagine dell’esile giovinetto riflessa dallo specchio. E poi l’immagine si alterò, quando lo specchio diventò una porta.
Oltre il varco c’era soltanto l’oscurità. Loyse doveva affidarsi alla memoria, alle innumerevoli esplorazioni che aveva compiuto fin da quando, tre anni prima, aveva scoperto per caso quell’aspetto di Verlaine che nessun altro pareva sospettare.
C’erano gradini; li contò mentre li scendeva correndo. Un corridoio e, in fondo, una brusca svolta. Loyse faceva scorrere la mano lungo la parete per guidarsi, cercando di calcolare la strada esatta per giungere a destinazione.
Incontrò un’altra scala: ma questa saliva. Poi apparve un cerchietto di luce su una parete: uno spioncino, che doveva guardare entro una stanza occupata. Loyse si alzò in punta di piedi, per sbirciare all’interno. Sì, era una delle camere da letto degli ospiti.
Il Nobile Duarte, ancora più avvizzito e scarno senza la sopravveste dall’ampio collo di pelliccia, passò davanti al letto e si fermò davanti al fuoco, tendendo le mani verso le fiamme, muovendo le labbra sottili come se masticasse una parola od un pensiero che non poteva sputare.
Loyse proseguì. Il secondo spioncino era buio: senza dubbio quella era la stanza assegnata a Siric. Affrettò il passo per raggiungere l’ultimo, dove un cerchietto dorato indicava la presenza della luce. Era così sicura che cercò la serratura del passaggio segreto senza neppure guardare.
Borbottii… suoni di una zuffa. Loyse premette con tutte le sue forze la molla segreta. Ma nessuno l’aveva mai oliata: non c’era stata ragione di tenerla in buono stato d’efficienza. Si bloccò. Loyse arretrò e puntellò la spalla contro la porta, poggiando entrambe le mani contro l’altra parete dello stesso passaggio, ed usando tutte le sue energie; e quando la porta si aprì, riuscì a non cadere aggrappandosi ai bordi dell’apertura.
Si girò di scatto, sguainando la spada con la prontezza che aveva acquisito esercitandosi continuamente in segreto. La faccia sbalordita di Hunold si volse verso di lei dal letto, dove stava lottando per tener ferma la vittima che si dibatteva. Con prontezza felina, scivolò dalla parte opposta, lasciando la donna, e balzò verso la cintura appesa alla spalliera della sedia più vicina.
Loyse aveva dimenticato il modo in cui si era vestita, e non pensò che Hunold poteva vedere in lei un altro maschio venuto a guastargli il divertimento. L’uomo aveva estratto fulmineamente il lanciadardi: lei aveva in mano la spada e il gesto di Hunold era in contrasto con le tradizioni più antiche. Ma la mira era un po’ esitante, tra l’intrusa e la donna distesa sul letto che, sebbene avesse le mani legate, si trascinava verso di lui sopra le coperte gualcite.
Spinta dall’istinto più che da un piano preciso, Loyse afferrò la sopravveste che Hunold si era tolta e gliela scagliò contro; forse fu quel gesto a salvarle la vita. Le fitte pieghe della stoffa deviarono la mira, e il dardo si piantò vibrando nel sostegno del baldacchino, anziché nel petto di Loyse.
Con un torrente d’imprecazioni, Hunold scostò con un calcio la stoffa aggrovigliata e si voltò di scatto verso la donna. Lei non cercò di fuggire: gli stava di fronte con una strana calma. Schiuse le labbra e lasciò cadere un oggetto ovale, dondolante da una corta catenella ancora stretta fra i denti.
Il Nobile Comandante non si mosse. I suoi occhi, sotto le palpebre socchiuse, cominciarono a seguire il lento movimento pendolare della gemma.
Loyse era giunta ai piedi del letto, e si soffermò nel vedere quella scena che sembrava uscita da un incubo. La donna si mosse lentamente e Hunold, gli occhi fissi sulla gemma, la seguì. Lei presentò a Loyse le braccia legate, mentre il suo corpo formava una parziale barriera tra la fanciulla e l’uomo.
Gli occhi di Hunold giravano da sinistra a destra e da destra a sinistra: poi, quando la gemma si fermò, rimase immobile. Aprì la bocca in un’espressione stordita: lungo l’attaccatura dei suoi capelli si formavano gocce di sudore.
L’impulso che l’aveva condotta fin lì, muovendola come una pedina nel gioco condotto da qualcun altro, dominava ancora Loyse. Tagliò con la spada le corde che legavano i polsi della donna, recidendo i nodi crudeli, liberando le braccia violacee. E quando l’ultima corda cadde, la donna abbandonò pesantemente le mani lungo i fianchi, come se non riuscisse a farle muovere.
Hunold si scosse. La mano che stringeva il lanciadardi descrisse un cerchio, ma lentamente, come piegata da una pressione enorme. Il suo viso luccicava di sudore: una goccia si raccolse sul labbro inferiore, gli cadde sul petto ansante.
Aveva gli occhi vivi, ardenti d’odio e di panico crescente. Eppure la mano continuava a muoversi, ed egli non riusciva a distogliere lo sguardo dalla gemma opaca. La spalla gli tremava. Loyse, a pochi passi di distanza, percepiva la sofferenza atroce di quella lotta vana. Hunold non voleva più uccidere: voleva solo salvarsi. Ma per il Nobile Condottiero di Kars non c’era scampo.
L’estremità della canna toccò la bianca pelle morbida nel punto in cui la gola s’innestava nel torace. L’uomo gemette sommessamente, come un animale in trappola, prima che il grilletto scattasse.
Vomitando un fiotto di sangue, liberato dalla morsa della volontà che l’aveva forzato ad uccidersi, Hunold avanzò barcollando. La donna si scostò a lato, agilmente, trascinando con sé Loyse. Hunold cadde contro il letto e si accasciò con la testa e le spalle penzoloni, le ginocchia sul pavimento come in un gesto di preghiera, mentre le sue mani si aggrappavano spasmodicamente alle coperte.
Per la prima volta, la donna guardò in faccia Loyse. Tentò di sollevare verso la bocca una di quelle mani orribilmente gonfie, forse per afferrare la gemma. E quando si accorse di non riuscirvi, tornò ad aspirare la gemma tra le labbra, e indicò con un cenno imperioso il varco nella parete.
Loyse non era più tanto sicura di sé. Per tutta la vita aveva sentito parlare della magia di Estcarp. Ma erano stati racconti di cose lontane, che non impegnavano la fede dell’ascoltatore. Bettris le aveva descritto la scomparsa della flotta lungo la scogliera, mentre l’aiutava a vestirsi per la cerimonia nuziale. Ma lei era così assorta nei suoi piani e nelle sue paure, in quel momento, che l’aveva considerata un’esagerazione.
Ciò che aveva veduto trascendeva la sua capacità di comprensione; si sottrasse alla vicinanza della strega, procedendo a tentoni nel passaggio segreto: desiderava soltanto di poter porre tra lei e l’altra un solido muro. Ma la donna la seguiva con agilità, dimostrando di possedere ancora notevoli riserve d’energia, nonostante il rude trattamento subito.
Loyse non aveva nessuna voglia di indugiare accanto al cadavere di Hunold. E temeva che Fulk, defraudato dello spasso, facesse irruzione da un momento all’altro. Tuttavia, chiuse il pannello dall’interno con estrema riluttanza. E rabbrividì in tutto il corpo quando l’altra la toccò con una mano intormentita, perché le facesse da guida. Infilò le dita nella cintura che teneva ancora insieme le vesti lacere della strega, e la trascinò via.
Si diresse verso la sua camera. Restava così poco tempo. Se Fulk avesse seguito il Nobile Comandante… se il valletto di Hunold fosse entrato per caso in quella stanza… o se per una ragione qualunque suo padre fosse venuto a cercarla…! Doveva uscire da Verlaine prima dell’alba, con la strega o senza la strega! Con improvvisa decisione, rimorchiò la sconosciuta lungo i passaggi bui.
Ma quando si ritrovò di nuovo nella luce, Loyse non si sentì capace di mostrarsi insensibile. Cercò qualche pezzo di tela morbida per lavare e fasciare i polsi dell’altra; frugò tra i suoi abiti per offrirle qualcosa con cui coprirsi.
Finalmente la strega riacquistò il controllo del proprio corpo, e si portò sotto il mento appuntito le mani socchiuse. Lasciò cadere dalle labbra la gemma. Evidentemente, non voleva che Loyse la toccasse, e dal canto suo la ragazza non era disposta a farlo.
«Mettimela al collo, ti prego.» Era la prima volta che la strega parlava.
Loyse prese la catenella, aprì il fermaglio e l’allacciò sotto i capelli scomposti che dovevano essere stati tagliati con fretta inesperta come i suoi… e forse per la stessa ragione.
«Ti ringrazio, Signora di Verlaine. Ed ora, se non ti spiace…» Aveva la voce rauca, come se la sua gola fosse inaridita. «Vorrei un po’ d’acqua.»
Loyse le accostò la coppa alle labbra. «Non è necessario che mi ringrazi,» rispose, con tutto l’ardire che riuscì a trovare in se stessa. «Si direbbe che porti con te un’arma più potente dell’acciaio!»
Sopra l’orlo della coppa, gli occhi della strega sorridevano. Loyse, scoprendo quella gentilezza, perse un po’ delle sua paura. Ma era ancora giovane, goffa, insicura di sé, e si risentiva rabbiosamente di quelle emozioni.
«Era un’arma che non ho potuto usare fino a quando tu hai distolto l’attenzione del nobile Comandante. Non posso permettere che cada in altre mani, neppure per salvarmi la vita. Ma basta…» Sollevò le mani, esaminò le fasciature ai polsi. Poi scrutò la stanza in disordine, notò sul pavimento lo scialle carico di capelli recisi, e le sacche da sella sulla cassapanca.
«Non hai intenzione di recarti dal tuo sposo, Duchessa?»
Forse fu il tono della sua voce, forse fu il suo potere a fare scattare qualcosa nell’animo di Loyse, che rispose sinceramente.
«Non sono duchessa di Karsten, signora. Oh, hanno pronunciato le parole del rito alla presenza dei nobili di Yvian, e poi mi hanno reso omaggio in ginocchio.» Sorrise vagamente, ricordando l’impaccio di Siric. «Non sono stata io a scegliere Yvian. Ho accettato queste nozze solo per poter fuggire.»
«Eppure sei venuta in mio aiuto,» l’interruppe l’altra, osservandola con quegli occhi scuri fino a quando Loyse si sentì sconvolta.
«Perché non potevo fare altrimenti!» scattò allora. «Qualcosa mi ha trattenuta qui. Un tuo incantesimo, signora?»
«In un certo senso, in un certo senso. Ho fatto appello, a modo mio, a chiunque entro queste mura fosse in grado di udirmi. Si direbbe che noi abbiamo in comune qualcosa di più del pericolo, Signora di Verlaine.» Sorrise, apertamente. «0 meglio, dato che hai cambiato guisa per questa partenza, Signore di Verlaine.»
«Chiamami Briant: sono un mercenario senza stemma sullo scudo,» suggerì Loyse, che aveva preparato quell’identità già da diversi giorni.
«E dove andrai, Briant? A cercare di arruolarti a Kars? Oppure al nord? A nord ci sarà grande richiesta di mercenari senza stemma.»
«Estcarp è in guerra?»
«Diciamo che le viene mossa guerra. Ma è un’altra faccenda.» La strega si alzò. «Potremo discuterne quando saremo fuori da queste mura… poiché sono certa che tu conosci una via per uscirne.»
Loyse si buttò sulle spalle le sacche da sella, si assestò il cappuccio del mantello sull’elmo senza cimiero. Quando si mosse per spegnere i globi luminosi, la strega indicò lo scialle abbandonato sul pavimento. Irritata dalla propria dimenticanza, la fanciulla lo prese e gettò le ciocche recise nel fuoco morente.
«Ben fatto,» disse l’altra. «Non lasciare nulla che potrebbe venire usato per farti tornare… i capelli hanno questo potere.» Poi guardò la finestra centrale.
«Si affaccia sul mare?»
«Sì.»
«E allora lascia una falsa pista. Fai che Loyse di Verlaine muoia!»
Fu questione di un attimo spalancare la finestra e gettar fuori la splendida veste da sposa. Ma la strega le suggerì di fissare un brandello di biancheria all’orlo scabro del davanzale di pietra.
«Così,» disse, «non credo che cercheranno con troppo accanimento altre vie d’uscita da questa stanza.»
Varcarono di nuovo la porta segreta, e si avviarono nell’oscurità. Loyse spiegò che dovevano seguire il muro di destra e scendere lentamente. Sotto le loro mani, il muro divenne più umido, e l’aria si caricò degli odori umidi del mare, contaminati da un’antica putredine. Continuarono a scendere, fino a quando il mormorio delle onde prese a pulsare attraverso il muro. Loyse contò i gradini.
«Ecco! Ora viene il passaggio che conduce al luogo strano.»
«Il luogo strano?»
«Sì. Non mi piace indugiarvi, ma non abbiamo scelta. Dobbiamo attendere la luce dell’alba, perché ci guidi.»
Continuò ad avanzare, lottando con la riluttanza che cresceva gradatamente dentro di lei. In passato era giunta fin lì tre volte, ed ogni volta aveva dovuto combattere quella guerra silenziosa con il proprio corpo. Riconobbe la crescente apprensione, la minaccia che s’irradiava dalla tenebra promettendo qualcosa di peggio della sofferenza fisica. E tuttavia procedette, tenendo le dita agganciate alla cintura della compagna per trascinarla dietro di sé.
Nell’oscurità, Loyse udì l’altra trattenere il respiro, e poi parlare, in un bisbiglio sommesso, come se nelle vicinanze vi fosse qualcosa che poteva ascoltare le sue parole.
«Questo è un Luogo del Potere.»
«È un luogo strano,» ripeté ostinatamente Loyse. «Non mi piace: ma qui è la porta che ci farà uscire da Verlaine.»
Sebbene non potessero vedere, sentivano di essere passate dal corridoio ad un’area più vasta. Loyse intravvide un punto luminoso, in alto… il faro di una stella librata al di sopra di un crepaccio nella pietra.
Ma poi venne un altro barlume fioco che si ravvivò all’improvviso, come se qualcuno avesse scostato una cortina. Il lucore si muoveva nell’aria al di sopra del livello del suolo… era una macchia grigia, rotonda. Loyse udì una cantilena sommessa, parole che non conosceva. E quel suono vibrava nell’aria stranamente carica. Quando la luce divenne più forte, Loyse comprese che proveniva dalla gemma della strega.
Provò un formicolio sulla pelle: l’aria, intorno a loro, era satura d’energia. Loyse provava un senso di avidità… non avrebbe saputo dire per che cosa. Nelle altre visite in quel luogo aveva avuto paura, ed aveva dovuto soffermarsi per dominarla. Adesso aveva lasciato la paura alle spalle, ma non sapeva definire quella nuova sensazione.
La strega, rivelata dalla luce della gemma che portava sul seno, ondeggiava, estatica in volto. Il fiume di parole continuava ad uscirle dalle labbra… era una supplica, un’argomentazione, un incantesimo protettivo? Loyse non lo sapeva. Sapeva solo che entrambe erano avvolte da un’immensa ondata di un’energia che s’irradiava dalla sabbia e dalla roccia sotto i loro piedi, dalle pareti che le attorniavano: qualcosa che aveva dormito per lunghi secoli e che adesso s’era ridestato all’improvviso.
Perché? E cos’era? Loyse girò su se stessa, guadando nella tenebra che i suoi occhi non potevano penetrare. Che cosa stava in agguato al di là della fievole gora di luce dispensata dalla gemma?
«Dobbiamo andare!» Fu la strega a dirlo, incalzante. Teneva gli occhi scuri spalancati e tendeva la mano verso Loyse. «Non sono in grado di controllare forze più grandi della mia! Questo luogo è antico, alieno alla razza umana ed ai poteri che noi conosciamo. Qui un tempo venivano adorate divinità cui nessuno ha più eretto altari negli ultimi mille anni. E sento levarsi un residuo della loro antica magia! Dov’è l’uscita? Dobbiamo tentare di varcarla finché possiamo.»
«La luce della tua gemma…» Loyse chiuse gli occhi, rievocando i ricordi di quel luogo, come aveva sondato la propria memoria per ritrovare gli altri passaggi segreti. «Là,» disse, riaprendo le palpebre, tendendo la mano davanti a sé.
Passo passo, la strega si mosse in quella direzione, e la luce l’accompagnò, come Loyse aveva sperato. Alla loro destra c’era una scala dai larghi gradini rozzamente intagliati nella roccia e levigati dal tempo. Loyse sapeva che portava davanti ad un blocco piatto, segnato da solchi sinistri e piazzato sotto uno squarcio della volta, così che ad intervalli la luce del sole o della luna l’inondava d’oro o d’argento.
Girarono intorno a quella piattaforma di larghi gradini, e procedettero verso la parete. La luce della gemma rischiarò il mucchio di terra franata, ai piedi della porta di Loyse. Sarebbe stato rischioso arrampicarsi in quel buio sulla montagnola di pietra e di argilla, ma la fretta concitata della strega la turbava.
Come Loyse aveva temuto, la scalata fu un’impresa difficile. Sebbene la sua compagna non si lagnasse, immaginava che doveva essere un tormento, per lei, usare le mani martoriate. Quando poteva, la fanciulla la spingeva e la tirava; spesso il terreno cedeva sotto i loro piedi, minacciando di trascinarle di nuovo giù. Poi uscirono, e si buttarono sull’erba ruvida, circondate dall’aria salmastra: un barlume grigiastro, nel cielo, annunciò che la notte era quasi finita.
«Mare o terra?» chiese la strega. «Cerchiamo una barca lungo la spiaggia, oppure ci affidiamo alle nostre gambe e ci addentriamo fra le colline?»
Loyse si sollevò a sedere. «Niente di tutto ciò,» rispose vivacemente. «Siamo al limitare dei pascoli, tra la fortezza ed il mare. In questa stagione, i cavalli in soprannumero vengono lasciati liberi di vagare qui, fino a che c’è di nuovo bisogno di loro. E in una capanna, presso il cancello, vi sono le selle ed i finimenti dei mandriani. Ma può darsi che vi sia una guardia.»
La strega rise. «Una guardia? Troppo poco per resistere a due donne decise ed alla loro volontà, questa notte, o meglio questa mattina. Mostrami la capanna, e farò in modo che tu possa prendere ciò che vuoi, senza che nessuno ne sappia nulla.»
Giunsero al limitare del pascolo. I cavalli, Loyse lo sapeva, dovevano essere vicini alla capanna, dove due giorni prima della tempesta era stato messo un blocco di sale. La gemma si era spenta, quando erano uscite dalla caverna ed avevano dovuto procedere con cautela.
Una lanterna ardeva sopra la porta della casupola, e Loyse vide i cavalli che si muovevano avanti e indietro. Non le interessavano i pesanti destrieri da guerra, selezionati per portare in sella un uomo in armatura. Ma c’erano gli animali più piccoli, dal pelame ruvido, usati per la caccia tra le colline; erano capaci di resistere alle privazioni e di procedere più a lungo dei cavalli più costosi preferiti da Fulk.
Nel cerchio della luce della lanterna si muovevano due di quei cavalli… era come se il suo pensiero li avesse chiamati. Sembravano irrequieti, e agitavano le teste scrollando le criniere scomposte: ma si avvicinarono. Loyse posò le sacche da sella e fischiò sommessamente. I due cavalli si accostarono, sbuffando, con i ciuffi che spiovevano sugli occhi, e le chiazze del pelame invernale non ancora caduto li facevano apparire screziati nella luce fioca.
Se si fossero dimostrati docili, quando lei avesse preso i finimenti! Girò lentamente intorno agli animali e si avvicinò alla capanna. Non c’era traccia della guardia. Aveva abbandonato il suo posto per partecipare al banchetto? Sarebbe stata la sua fine, se Fulk l’avesse scoperto.
Loyse spinse la porta, che cigolò aprendosi. Poi sbirciò in un locale che aveva l’odore dei cavalli e del cuoio oliato, sì, e della bevanda forte che gli abitanti del villaggio preparavano con miele ed erbe, così potente da stordire persino Fulk al terzo boccale. Loyse scostò con la punta dello stivale una fiasca che rotolò via, versando un liquido appiccicoso. Il guardiano del pascolo giaceva su un pagliericcio e russava sonoramente.
Due briglie, due selle leggere, del tipo usato dai cacciatori e dai messaggeri. Non fu difficile sollevarle dai pioli e dallo scaffale. Poi Loyse uscì, e la porta si richiuse dietro di lei.
I cavalli rimasero docili, mentre lei metteva le briglie e fissava le selle, stringendole il più possibile. Ma quando le due donne furono giunte sulla strada alta che era l’unica via per uscire da Verlaine, la sua compagna chiese, per la seconda volta:
«Dove andiamo, scudo senza stemma?»
«Le montagne.» Quasi tutti i piani concreti di Loyse avevano riguardato solo la meccanica della fuga da Verlaine. Non aveva pensato ad altro. Essere libera, lontana da Verlaine le era parsa un’impresa così difficile che aveva dedicato tutti i suoi pensieri alla soluzione di quel problema, senza preoccuparsi troppo di ciò che sarebbe accaduto dopo che avesse raggiunto la pista delle montagne.
«Hai detto che Estcarp è in guerra?» Non aveva mai pensato di avventurarsi oltre la fascia accidentata del territorio dei fuorilegge, tra Verlaine ed il confine meridionale di Estcarp; ma adesso che era in compagnia di una strega di quella terra, poteva essere la scelta migliore.
«Sì, Estcarp è in guerra, scudo senza stemma. Ma hai pensato a Kars, duchessa? Ti piacerebbe visitare in segreto il tuo regno, per vedere qual è il futuro che hai gettato via?»
Loyse, sbalordita, spronò con le ginocchia la sua cavalcatura ad un trotto imprudente per quella strada accidentata.
«Kars?» ripeté senza capire.
Quel pensiero le turbinò nella mente. Sì, non voleva essere la moglie di Yvian. Ma Kars era il centro delle terre meridionali, e avrebbe potuto trovare qualche parente, nel caso che in seguito avesse avuto bisogno d’aiuto. In una città tanto grande, uno scudo senza stemma e fornito di danaro poteva perdersi facilmente. E se anche Fulk fosse riuscito a scoprire le sue tracce, non avrebbe pensato di cercarla a Kars.
«Estcarp deve attendere ancora un po’,» stava dicendo la strega. «C’è molta inquietudine. Ed io vorrei saperne di più, e conoscere chi è che soffia sul fuoco. Kars è un buon punto di partenza.»
Loyse si rese conto di essere stata manovrata, ma non si sentiva ofesa. Le sembrava invece di aver finalmente trovato il bandolo di una matassa aggrovigliata che, se lei avesse osato seguirla, l’avrebbe condotta dove aveva sempre desiderato giungere.
«Andremo a Kars,» acconsentì quietamente.