Patricia A. McKillip Il Maestro degli Enigmi di Hed

CAPITOLO PRIMO

Morgon di Hed conobbe l’arpista del Supremo in un giorno d’autunno, quando le navi mercantili attraccarono a Tol per lo stagionale scambio di prodotti. Fu un ragazzino ad avvistare i vascelli panciuti, dalle schioccanti vele a strisce rosse, azzurre e verdi, che in lontananza si facevano strada fra gli snelli scafi dei battelli da pesca, ed a correre su per la costa da Tol fino ad Akren, la dimora di Morgon, Principe di Hed. Egli interruppe una discussione, riferì il suo messaggio, e sedette a un lungo tavolo ormai quasi vuoto per ficcarsi in bocca tutto ciò che era avanzato dalla colazione. Il Principe di Hed, che la sera prima aveva caricato due carri di birra da vendere e ancora stentava a rimettersi dalla fatica, volse due occhi arrossati oltre il tavolo e gridò per chiamare sua sorella.

— Ma Morgon — disse Harl Stone, uno dei suoi fattori, corpulento quanto un sacco di granaglie e con un ciuffo di arruffati capelli, grigi come la pietramola. — E per quel toro bianco di An, che dicevi di volere? Il vino può aspettare…

— E il grano — disse Morgon — che è ancora nel magazzino di Wyndon Amory, nella regione orientale di Hed? Qualcuno dovrà portarlo a Tol per i mercanti. Perché qui intorno nessuno fa mai niente di niente?

— Abbiamo caricato la birra — gli ricordò suo fratello Eliard, con una luce ostile negli occhi chiari.

— Grazie tante. Dove s’è cacciata Tristan? Tristan!

— Insomma! — Seccata, Tristan di Hed comparve dietro di lui, reggendo le estremità ancora scomposte delle trecce scure.

— Adesso pensiamo a procurarci il vino, e lasciamo il toro per la primavera ventura — suggerì Mastro Cannon, che era stato allevato con Morgon. — Siamo maledettamente a corto di vino di Herun; ne abbiamo appena abbastanza per farcelo durare quest’inverno.

Eliard gettò un’occhiata a Tristan e borbottò: — Piacerebbe anche a me non aver altro da fare che sprecare l’intera mattina a spazzolarmi i capelli, e a strofinarmi la faccia col siero di latte.

— Almeno io mi lavo. Voialtri puzzate come il fondo di una botte di birra, dal primo all’ultimo. Chi è stato a insozzarmi di fango tutto il pavimento?

Ciascuno abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe. Solo un anno addietro Tristan era stata una fanciulla bruna, snella come una canna, agile nel correre per i campi a piedi nudi e fiera della sua capacità di fischiare fra i denti anteriori. Adesso trascorreva buona parte del suo tempo a scrutarsi la faccia allo specchio, e aggrottava le sopracciglia alle occhiate degli uomini. Trasferì il suo cipiglio da Eliard a Morgon.

— Che cos’hai da muggirmi dietro a questo modo?

Il Principe di Hed chiuse gli occhi.

— Mi spiace. Non avevo intenzione di muggire. Ciò che voglio è semplicemente chiederti di sbarazzare i tavoli, riordinare un po’, mettere tovaglie pulite, riempire boccali di latte e di vino, far preparare in cucina piatti di carne, formaggio, frutta e verdura. Poi sistemati i capelli, mettiti le scarpe, e vedi di togliere questo fango dal pavimento. I mercanti stanno per arrivare.

— Oh, Morgon… — gemette Tristan. Morgon si volse a Eliard.

— Quanto a te, prendi un cavallo, vai sulla costa orientale e di’ a Wyndon di spedire il suo grano a Tol.

— Ma Morgon, è una cavalcata di un giorno!

— Lo so. Dunque mettiti in viaggio.

I due si fissarono immobili, coi volti un po’ arrossati, mentre i fattori di Morgon assistevano fra il divertito e l’impassibile. Non si somigliavano molto l’un l’altro, i tre figli di Athol di Hed e di Spring Oakland. Tristan, coi suoi vaporosi capelli corvini e il piccolo viso triangolare, aveva preso dalla madre. Eliard, due anni più giovane di Morgon, aveva le spalle ampie e l’ossatura massiccia di Athol, e la stessa bella capigliatura folta. Morgon, con occhi e capelli color della birra chiara, aveva invece ereditato le fattezze della nonna, che i più anziani ancora ricordavano come una snella e orgogliosa donna del sud di Hed: la figlia di Lathe Wold. Ella aveva avuto il vezzo di fissare la gente nel modo in cui ora Morgon guardava Eliard, con remoto distacco, come una volpe che sbirciasse da sotto un mucchio di penne di gallina. Eliard gonfiò le guance e ne esplose uno sbuffo mugghiante che terminò con un sospiro.

— Se avessi un cavallo di An, potrei andare là ed essere di ritorno in tempo per la cena.

— Andrò io — disse Mastro Cannon. Sul suo volto era apparso un velo di rossore.

— Ci vado io — mugolò Eliard.

— No. Vorrei… è già un po’ di tempo che non vedo Arin Amory. Andrò io. — L’uomo consultò Morgon con un’occhiata.

— Per me fa lo stesso — disse Morgon. — Basta che non dimentichi quel che vai a fare. Eliard, tu darai una mano a caricare, giù a Tol. Grim, avrò bisogno di te al mercato… l’ultima volta che ho fatto tutto da solo, per poco non barattavo tre cavalli da tiro per un’arpa senza corde.

— Se tu comperi un’arpa — lo interruppe Eliard, — allora io voglio un cavallo di An.

— E io devo assolutamente avere un vestito di Herun — disse Tristan. — Morgon, ne ho bisogno. Una veste arancione. Poi mi occorrono degli aghi sottili, e un paio di scarpe di Isig, e alcuni bottoni d’argento e…

— Ma cosa credete che cresca nei nostri campi? — le chiese Morgon.

— So cosa danno i nostri campi. E so anche, da sei mesi, a cosa deve girare intorno la mia scopa quando vado a spazzare sotto il tuo letto. Io penso che tu debba mettertela in testa, oppure venderla. È già coperta da tanta di quella polvere che non si distingue neppure il colore delle gemme.

Nella sala cadde un breve silenzio carico di perplessità. Tristan aveva incrociato con fermezza le braccia sul petto, continuando a trattenere le estremità scomposte delle trecce. Il suo mento era sollevato in atto di sfida, ma nello sguardo con cui fronteggiò quello di Morgon c’era una luce d’incertezza. La bocca di Eliard era rimasta aperta. La chiuse con un secco scatto di denti.

— Quali gemme?

— È una corona — disse Tristan. — Ne ho visto una, nell’illustrazione di un libro di Morgon. La portano i Re.

— So cos’è una corona. — Meravigliato Eliard fissò Morgon. — Cosa diavolo hai barattato per averla? Metà dell’isola di Hed?

— Non ho mai saputo che tu desiderassi una corona — osservò con stupore Mastro Cannon. — Tuo padre non ne ha mai avuto una. Tuo nonno non ne ha mai avuto una. Tuo…

— Cannon! — sospirò Morgon. Alzò le mani e si poggiò le palme sugli occhi. Un afflusso di sangue gli aveva imporporato la fronte. — Kern ne aveva una.

— Chi?

— Kern di Hed. Sarebbe il nostro bis-bis-bis-bis-bis-bis-bis-bis bisnonno. No. Mi sono dimenticato un bis. Era fatta d’argento, con una gemma verde a forma di cavolo. Un giorno però la vendette in cambio di venti barili di vino di Herun, sebbene a spingerlo fosse stato…

— Non cambiare discorso — sbottò Eliard, secco. — Dove l’hai avuta? Cosa hai barattato per ottenerla. O forse… — S’interruppe. Morgon si tolse le mani dagli occhi.

— O forse cosa?

— Niente. Piantala di fissarmi così. Stai ancora cercando di sviare il discorso. L’hai comprata, o l’hai rubata, o hai ammazzato qualcuno per averla…

— Suvvia…! — intervenne pacato Grim Oakland, il dignitoso sovrintendente di Morgon.

— O vuoi darci a intendere che un bel giorno l’hai trovata in un setaccio da grano, come un topo morto?

— Non ho ammazzato proprio nessuno! — esplose Morgon. L’acciottolio di stoviglie, in cucina, si interruppe bruscamente. Abbassò la voce, facendosi mordace. — Di cosa mi stai accusando?

— Io non…

— Io non ho fatto del male a nessuno per avere quella corona. Non ho barattato niente che non mi appartenesse; non l’ho rubata…

— Io non stavo…

— È entrata in mio possesso in modo legale. E quale sia stato questo modo, tu non l’hai ancora immaginato. Ti sei posto un enigma, hai dato quattro risposte, e hai sbagliato quattro volte. Se io annaspassi fra gli enigmi a questo modo, oggi non sarei qui a parlare con te. Adesso devo andare a ricevere cortesemente i mercanti, a Tol. Quando avrai deciso che questa mattina puoi permetterti di lavorare, degnati di raggiungermi.

Si avviò all’uscita. Ma era appena giunto ai gradini che dalla veranda scendevano in cortile quando Eliard, col volto arrossato dall’ira, abbandonò gli ospiti allibiti, attraversò il locale con una velocità sorprendente per la sua mole, afferrò Morgon alla vita e lo trascinò in un gran tuffo, facendolo finire sotto di sé, con la faccia nella polvere.

Le galline e le oche si dispersero, starnazzando con indignazione. I fattori, il ragazzino venuto da Tol, la cuoca e la ragazza che lavava i piatti in cucina, corsero sulla veranda mandando esclamazioni sbalordite.

Morgon, senza fiato per il colpo che gli aveva fatto uscire l’aria dai polmoni, giacque immobile mentre sopra di lui Eliard ringhiava fra i denti: — Non te la senti di rispondere a una semplice domanda? Cosa significa, quando dici che oggi non saresti qui a parlare con me? Morgon, cos’hai fatto per quella corona? Dove l’hai avuta? Che hai combinato? Io giuro che ti…

Morgon sollevò la testa, stordito. — L’ho presa in una torre. — Con uno scatto ruotò lateralmente, colse Eliard sbilanciato e lo scaraventò in uno dei cespugli di rose di Tristan.

La zuffa fu breve ma non priva di momenti spettacolari. I fattori di Morgon, che fino all’anno addietro avevano vissuto sotto il placido ed efficiente governo di Athol, osservarono un po’ stupefatti e un po’ sogghignanti il Principe di Hed ruzzolare attraverso una vasta pozza di fango, sollevarsi ancora in piedi, incassare la testa fra le spalle come un toro e caricare muggendo contro il fratello. Eliard si liberò dalla sua presa e replicò con un gancio destro che, colpendo la mascella dell’avversario, risuonò secco quanto un lontano colpo d’accetta in un tronco. Morgon andò giù come un sacco di grano.

Subito Eliard si lasciò cadere in ginocchio accanto al corpo immoto del fratello e ansimò: — Mi dispiace. Mi dispiace. Morgon, ti ho fatto male?

Muta e furiosa Tristan avanzò nel cortile, raccolse un secchio colmo di latte e lo rovesciò in testa ai due.

Sotto la veranda si levarono commenti confusi, gemiti di compatimento, e qualcuno zufolò fra i denti. Mastro Cannon sedette su uno degli scalini e si nascose il volto fra le ginocchia. Eliard abbassò gli occhi sullo sfacelo della sua tunica fangosa. Distrattamente cercò di ripulirsela con le mani, peggiorandone ancora l’aspetto.

— Guarda come mi hai ridotto — si lamentò. — Morgon?

— Hai distrutto la mia pianta di rose — lo rimproverò Tristan. — E guarda cos’hai fatto a Morgon, di fronte a tutti quanti. — Sedette accanto al corpo di Morgon sul terreno bagnato, gli fece girare il volto e glielo asciugò con un lembo del grembiule. Morgon sbatté le palpebre storditamente, le ciglia bagnate di latte. Eliard si spostò a sedere su una pietra.

— Morgon, mi dispiace. Però non credere di poter evitare l’argomento in questo modo.

Morgon sollevò il braccio, ebbe una smorfia e si massaggiò cautamente la mascella. — Che… quale argomento? — mugolò, cupo.

— Non importa — stabilì Tristan. — Non è una cosa per cui due fratelli debbano litigare.

— Cos’è questa porcheria che ho addosso?

— Latte.

— Mi dispiace — ripeté Eliard. Afferrò il fratello per le spalle e fece per tirarlo su, ma lui scosse il capo.

— Lasciami disteso dove sono per un momento. Che ti è preso di saltarmi addosso a quel modo? Prima mi accusi di omicidio, poi cerchi di farmi saltare via la mandibola, e per finire mi inzuppi di latte puzzolente. È disgustoso. Cosa c’era in questo latte, stereo di gallina e fango? Maledetta porcheria…

— Sono stata io — confessò Tristan. — Era il latte dei maiali. Ma tu hai gettato Eliard sul mio cespuglio di rose. — Asciugò delicatamente il labbro inferiore di Morgon, insanguinato. — Davanti a tutti gli ospiti. Sono così umiliata.

— E la colpa di questo è mia? — chiese Morgon. Eliard si massaggiò una costola dolorante e fece udire un grugnito.

— Sei stato tu a farmi perdere la ragione, parlandomi a quel modo. Tu sei scivoloso come un’anguilla. Una cosa però io l’ho capita: questa primavera ti sei procurato una corona, perché prima non l’avevi. E hai detto che se rispondessi agli enigmi male quanto me, oggi non saresti qui. Voglio sapere perché. Avanti, perché?

Morgon restò in silenzio. Dopo qualche istante si alzò a mezzo, sollevò le ginocchia e vi appoggiò il mento. — Tristan, perché hai scelto proprio oggi per tirar fuori questo argomento?

— Avanti prenditela con me adesso — si lamentò passivamente lei. — Io sono qui che vado in giro con le pezze ai gomiti, e tu nascondi perle e gioielli sotto il tuo letto.

— Non avresti le pezze ai gomiti, se avessi detto a Narly Stone di farti qualche vestito che ti vada bene. Stai crescendo, ecco tutto…

— Vuoi piantarla di cambiar discorso!

Morgon risollevò il capo. — Piantala tu di abbaiare. — Spostò lo sguardo da Eliard al gruppetto di ospiti immobili che li fissavano in assoluto silenzio, e sospirò. Si passò le mani sulla faccia e poi fra i capelli. — Ho vinto quella corona in una gara di enigmi che ho fatto ad An, con uno spettro.

— Oh! — La voce di Eliard suonò stridula. — Un cosa?

— Il fantasma di Peven, Nobile di Aum. Quella che sta sotto al mio letto è la corona dei Re di Aum. Essi furono assoggettati da Oen di An seicento anni fa. Peven ha la rispettabile età di cinquecento anni. Fu imprigionato vivo nella sua torre da Oen e dai Re di An.

— Che aspetto ha? — chiese Tristan. La sua voce era un sussurro. Morgon scosse appena le spalle, evitando i loro occhi.

— È un vecchio. Un vecchio nobile, con occhi che sembrano contenere le risposte a mille enigmi. Un tempo scommise che nessuno avrebbe mai potuto vincere una gara di enigmi con lui. Così mi imbarcai su una delle navi dei mercanti, e andai a sfidarlo. Lui affermò che dei grandi nobili di Aum, An e Hel — le tre attuali regioni di An — e perfino dei Maestri degli Enigmi venuti da Caithnard lo avevano sfidato a una gara, ma non gli era mai capitato un contadino di Hed. Io gli risposi che avevo letto molto. Così facemmo questa gara. E la vinsi io. Quindi mi portai la corona a casa e la nascosi sotto il letto, in attesa di decidere cos’avrei potuto farmene. Ora dico, era il caso di sbraitare tanto?

— Costui ha perso, e ti ha dato la corona — riassunse Eliard a occhi socchiusi. — Cosa avresti dovuto dargli, se fossi stato tu il perdente?

Morgon si sfiorò con un dito il labbro ferito. I suoi occhi scivolarono sui campi oltre le spalle di Eliard. — Be’… mormorò infine. — Vedi, dovevo vincere per forza.

Eliard si alzò in piedi di scatto. Volse la schiena a Morgon e fece due passi, a pugni stretti, poi tornò indietro con un secco dietrofront e si mise di nuovo a sedere.

— Tu, dannato pazzo!

— Non ricominciate a picchiarvi — li implorò Tristan.

— Non sono affatto un pazzo — stabilì Morgon. — Ho vinto la gara, o no? — Il suo volto era rigido. Guardò dritto negli occhi di Eliard, come da una grande distanza. — Kern di Hed, il Principe che aveva la corona con la gemma a forma di cavolo…

— Non cercar di cambiare…

— Non lo sto facendo. Kern di Hed, l’unico Principe di Hed oltre il sottoscritto a possedere una corona, un giorno ebbe la dubbia fortuna di essere inseguito da una Cosa senza nome. Forse era soltanto l’effetto del vino di Herun. Questa Cosa chiamava incessantemente il suo nome. Lui fuggì via, corse nella sua casa che aveva sette stanze e sette porte l’una dietro l’altra, e chiuse tutte le porte alle sue spalle finché giunse nella camera più interna, dove fu costretto a fermarsi. Ma subito egli udì il rumore delle porte che si spalancavano, una alla volta, ed ogni volta sentì gridare il suo nome. Sei furono le porte che udì aprirsi, e sei volte il suo nome risuonò, sempre più vicino. E proprio fuori dalla settima e ultima il suo nome fu chiamato ancora. Ma la Cosa non toccò la porta. Egli attese disperato che entrasse, però essa non lo fece. Infine decise di uscire, e aprì la porta lui stesso. La Cosa se n’era andata. Ed egli fu lasciato lì a chiedersi, per tutto il tempo che gli rimase da vivere, cos’era che lo aveva chiamato.

Eliard fissò il fratello, che s’era azzittito. Dopo un po’ domandò, a dispetto di se stesso: — Ebbene, cosa diavolo era?

— Kern non aprì la porta. Questo è l’unico enigma prodotto, per così dire, da Hed. L’interpretazione, secondo i Maestri degli Enigmi di Caithnard, è questa: rispondi a un enigma senza risposta. Io lo proposi.

— Ma questi non sono affari per te! Le faccende di cui devi occuparti sono i campi, non rischiare la vita in una stupida gara di enigmi con un fantasma, e per avere la corona che non vale niente finché te la tieni sotto il letto. Non hai pensato a noi, a quel tempo? Sei partito prima o dopo che loro morissero? Prima o dopo?

— Dopo — disse Tristan.

Eliard sbatté una mano in una pozza di latte. — Lo sapevo!

— Però sono tornato indietro.

— Supponiamo che tu non fossi tornato?

— Io sono tornato! Perché non vuoi cercare di capire, invece di ragionare come se avessi un blocco di legno fra gli orecchi? Il figlio di Athol, coi suoi capelli, i suoi occhi, e le sue visioni…

— No! — gridò Tristan. La mano di Eliard, sollevata e chiusa a pugno, si arrestò a mezz’aria. Morgon abbassò di nuovo il mento sulle ginocchia. Eliard chiuse gli occhi.

— Perché credi che io sia così arrabbiato? — sussurrò.

— Il perché lo so.

— Davvero? Perfino… ancora oggi, a sei mesi di distanza, mi aspetto quasi di sentire la voce di lei in casa, e di vedere lui che esce dal granaio, o che torna dai campi al tramonto. E tu? Come potrò esser sicuro, da oggi in poi, che quando partirai da Hed ti vedremo tornare? Avresti potuto morire in quella torre, per una stupidissima corona, e ci avresti lasciati qui ad aspettare che cosa? Il tuo fantasma? Giura che non farai mai più niente di simile.

— Non posso.

— Sì che puoi.

Morgon sollevò la testa. Fissò Eliard. — Come posso fare una promessa a te ed un’altra a me stesso? Ma ti giuro questo: io tornerò sempre indietro.

— E come sai di…

— Te l’ho giurato.

Eliard abbassò gli occhi nella pozzanghera. — Tutto perché lui ha voluto lasciarti andare a quella scuola. È laggiù che il tuo senso del dovere si è confuso.

— Suppongo che sia così — disse Morgon stancamente. Gettò un’occhiata al sole. — Metà della mattina se n’è andata, e noi siamo qui a sedere nella melma inzuppati di latte marcio fin nei capelli. Perché hai aspettato tanto a chiedermi della corona? — domandò a Tristan. — Questo non è da te.

Lei scosse appena le spalle, senza guardarlo. — Ho visto la tua faccia, il giorno che sei tornato. Cosa pensi di fartene, adesso?

Lui si scostò una ciocca di capelli dagli occhi. — Non lo so. Suppongo che potrei usarla in qualche modo.

— Bene, io ho un piccolo suggerimento.

— Proprio come pensavo. — Si alzò in piedi rigidamente e si volse a Cannon, che sedeva sugli scalini della veranda. — Credevo che tu volessi partire per l’oriente di Hed — disse in tono penetrante.

— Sto andando. Sto andando — annuì Cannon, conciliante. — Wyndon Amory non me l’avrebbe perdonata, se mi fossi perso la fine dello spettacolo. Hai ancora tutti i tuoi denti?

— Credo di sì. — Il gruppetto sulla veranda esitò e cominciò a disperdersi sotto il suo sguardo. Lui si piegò su Eliard e lo aiutò a rimettersi in piedi. — Ti senti a posto?

— Non peggio di come si sentirebbe chiunque, dopo aver attraversato a ruzzoloni un cespuglio di rose. Non so se ho una tunica pulita.

— Ce l’hai — lo informò Tristan. — Ho lavato la tua roba ieri. La casa è sottosopra. Tu… noi siamo sottosopra, e i mercanti saranno qui fra poco. E questo significa che tutte le donne del paese verranno a curiosare fra i loro articoli, nel nostro salone così sporco. Morirò di vergogna.

— Una volta non te ne preoccupavi tanto — commentò Eliard. — Ora non fai che lamentarti. Prima però correvi attorno coi piedi fangosi, e la gonna piena di peli di cane.

— Questo — disse Tristan, gelida, — accadeva quando c’era qualcuno che si prendeva cura della casa. Ora tocca a me occuparmene. — Si allontanò in fretta, con le galline che fuggivano qua e là per togliersi dalla sua strada. Eliard si ravviò i capelli, emise un gemito.

— Mi sembra d’aver ficcato la testa in una latrina. Andiamo. Se tu pomperai per me, io pomperò per te.

I due si spogliarono e si lavarono nella vasca dietro la casa. Poi Eliard andò alla fattoria di Grim Oakland, per aiutare a caricare i carri del grano che andava trasportato nei silos, e Morgon attraversò i campi pieni di stoppie fino alla strada costiera che portava a Tol.

Le tre navi mercantili, con le vele ammainate, avevano appena attraccato al molo. Mentre Morgon si avvicinava sulla banchina, una rampa venne rumorosamente gettata fuori bordo da una di esse, ed egli vide un marinaio condurne giù un cavallo, una elegante giumenta dalle zampe lunghe allevata ad An, ma di pelo nero, con una briglia che nel sole scintillava d’un pulviscolo di gemme. Poi alcuni mercanti lo salutarono dalla prua di una nave, e mentre sbarcavano egli andò loro incontro.

Erano un gruppo d’individui pittoreschi, alcuni abbigliati nei lunghi abiti rossi e arancione tipici di Herun, altri portavano le giacche e i pantaloni di An, o le tuniche strette e fittamente ricamate di Ymris. Erano adorni di anelli e di collane di Isig, e avevano berretti pelosi di Osterland, tutti articoli che generosamente essi donavano, insieme ai coltelli dal manico d’osso e alle spille di rame, ai ragazzini che ammirati e curiosi facevano ressa intorno a loro. Il carico delle navi comprendeva, fra le altre cose, ferro di Isig e vino di Herun.

Grim Oakland comparve sulla banchina poco più tardi, mentre Morgon stava esaminando il vino.

— Ammetto che apprezzo anch’io un buon bicchiere, dopotutto — confessò l’uomo. Morgon ebbe un accenno di sorriso ma tornò subito serio.

— È stato caricato il grano?

— Quasi. Harl Stone sta tirando fuori la lana e le pelli dal tuo magazzino. Sarebbe meglio se tu acquistassi tutto il metallo che hanno portato.

Morgon annuì, e i suoi occhi tornarono ad ammirare la cavalla legata a uno degli anelli sulla banchina. Un marinaio scese dalla nave recando una sella, e la poggiò in equilibrio sulla staccionata accanto all’animale. Morgon accennò in quella direzione con suo boccale.

— A chi apparterrà quella giumenta? Pare che coi mercanti sia venuto qualcun altro. Oppure Eliard ha venduto Akren di nascosto per averla?

— Non lo so — disse Grim, inarcando le sopracciglia rosse e grige. — Ragazzo mio, so che questi non sono affari miei, ma non dovresti lasciare che le tue inclinazioni personali interferiscano coi doveri che per nascita ti competono.

Morgon si versò dell’altro vino. — Non interferiscono affatto.

— Se tu ci lasciassi la pelle, sarebbe un’interferenza eccome!

Lui scrollò le spalle. — C’è Eliard.

Grim fece un sospiro. — Io lo dissi a tuo padre, di non mandarti a quella scuola: ti avrebbe messo strane idee nella testa. Ma niente, non volle darmi ascolto. Gli dissi che era un errore farti stare lontano da Hed tanto tempo: nessuno ha mai fatto niente di simile, e non ne sarebbe mai venuto nulla di buono. E avevo ragione. Non ne è venuto niente di buono. Parlo di questo tuo viaggio in una terra straniera, per fare una gara di enigmi con… con un uomo che avrebbe dovuto avere la decenza di starsene morto e sepolto sottoterra. Questo non è bene. Non è… non è il modo in cui un governante di Hed dovrebbe comportarsi. Non era cosa da farsi.

Morgon tenne il freddo metallo del boccale a contatto con il labbro spaccato. — Peven non poteva fare a meno di andarsene in giro dopo la sua morte. Aveva ammazzato sette dei suoi figli con un uso malaccorto della magia, gettando su se stesso dolore e vergogna. Non poteva riposare in pace sottoterra. Mi disse che dopo così tanti anni aveva qualche difficoltà a ricordare tutti i nomi dei suoi figli. Questo lo tormentava. A Caithnard io avevo però letto i loro nomi, e quindi potei dirglieli. Questo gli risollevò il morale.

La faccia di Grim era rossa come i bargigli di un tacchino. — È una cosa indecente! — sbottò. Si allontanò di qualche passo, andò a sollevare il coperchio di un cestone pieno di sbarre di ferro, poi lo sbatté giù nuovamente. A fianco di Morgon comparve uno dei mercanti.

— Vi sembra buono il mio vino, Signore?

Morgon si volse, annuendo. Il mercante indossava una veste in sottile stoffa verde-foglia di Herun, un berretto di visone bianco, e appesa a una spalla portava un’arpa di legno nero con una tracolla in cuoio candido. Morgon chiese: — Di chi è il cavallo? Dove avete avuto questa arpa?

Il mercante sogghignò, sfilandosela dalla spalla. — Rammentando quanto alla signoria vostra piacciano le arpe, in An mi sono procurato questa per voi. Era l’arpa dell’arpista del Nobile Col di Hel. È piuttosto antica, però guardate com’è ben conservata e bella.

Morgon passò le mani sul legno finemente cesellato. Sfiorò le corde coi polpastrelli, e ne pizzicò una traendone una nota lieve. — Che potrei fare con tutte queste corde? — mormorò. — Devono essere più di trenta.

— Vi piace? Tenetela per un po’ di tempo. Suonatela.

— Io non credo di potermi permettere…

Il mercante lo azzitti sollevando le mani. — Come si può attribuire un prezzo qualsiasi a un’arpa simile? Provatela, prendete dimestichezza con le sue corde. Non fatevi fretta, c’è tutto il tempo per decidere. — Fece scivolare la tracolla oltre la testa di Morgon. — Se vi piacerà, state certo che troveremo con facilità un accordo soddisfacente…

— Non ne dubito. — Colse un’occhiata di Grim Oakland e arrossì.

Morgon portò l’arpa con sé fino alla Sala dei Mercanti di Tol, dove gli uomini venuti dal continente esaminarono la sua birra, il grano e la lana, mangiarono formaggio e frutta, e negoziarono con lui per un’ora mentre Grim Oakland gli stava accanto pronto a dare consigli. Poi sulla banchina furono portati dei carri, vuoti, per caricare il metallo, le botti di vino e i blocchi di sale provenienti dalle saline di Caithnard. Pesanti cavalli da tiro, destinati ai mercanti di An e di Herun, vennero allineati sul molo. I mercanti cominciarono a registrare i sacchi di grano e i barilotti di birra. I carri di Wyndon Amory, del tutto inaspettati, scesero lungo la strada costiera verso mezzogiorno.

Mastro Cannon, che cavalcava dietro uno di essi, smontò di sella accanto a Morgon. — Wyndon li aveva fatti partire ieri, ma uno ha perso una ruota e i conducenti l’hanno riparata alla fattoria di Sil Wold, e hanno trascorso la notte là. Li ho incontrati mentre arrivavano. Ti hanno convinto a comprare un’arpa?

— Quasi. Senti come suona.

— Morgon, tu sai che non distinguo il suono di un’arpa da quello di un secchio sfondato. Hai un labbro che sembra una prugna spiaccicata.

— Allora non farmi ridere — brontolò lui. — Ci pensate tu e Eliard ad accompagnare i mercanti ad Akren? Qui hanno quasi finito.

— E tu cosa resti a fare?

— Voglio comprare un cavallo. E un paio di scarpe.

Cannon inarcò un sopracciglio. — E un’arpa?

— Può darsi. Certo.

L’altro ridacchiò. — Bene. Ora capisco perché vuoi che io porti via Eliard.

Morgon salì su una delle navi e poi scese a curiosare nella stiva, dove una mezza dozzina di cavalli di An erano ancora impastoiati per la traversata. Esaminò zoccoli, denti e pelame, intanto che i marinai accatastavano sacchi di grano nella penombra fra le paratie alle sue spalle. Uno dei mercanti lo raggiunse e chiacchierarono un poco, mentre Morgon lisciava pensosamente il collo muscoloso di uno stallone color del legno appena tagliato. Mezz’ora dopo infine risalì sul ponte, aspirando profonde boccate d’aria pulita. Quasi tutti i carri se n’erano andati; i marinai s’incamminarono verso la Sala dei Mercanti per pranzare. Le onde facevano oscillare le navi, e si frangevano intorno ai massicci tronchi di pino che sorreggevano la banchina. Il giovane andò a sedersi in cima al molo. Distanti dalla riva i pescherecci di Tol si alzavano e abbassavano come anatre sulle onde di un lago. Al di là di essi, sfumato come una linea di carboncino sull’orizzonte, si scorgeva il profilo del continente, il vasto reame del Supremo.

Si appoggiò l’arpa sulle ginocchia e cominciò a suonare una melodia campestre, le cui note imitavano il fruscio della falce nel grano. Poi gli venne in mente una ballata di Ymris, e stava pizzicando allegramente le corde quando un’ombra cadde di traverso sullo strumento. Si volse.

Un uomo che non aveva mai visto prima, e che non era un mercante né un marinaio, stava in piedi al suo fianco. Indossava vesti sobrie, ma la sua elegante tunica azzurra e nera aveva un taglio insolito, e così anche la cintura di borchie quadrate in argento che portava su di essa. Aveva un volto magro, d’ossatura fine, né giovane né vecchio, e i suoi capelli erano un fluttuante casco argenteo.

— Morgon di Hed?

— Sì.

— Io sono Deth, l’arpista del Supremo.

Morgon deglutì. Fece per alzarsi, ma l’arpista lo prevenne e sedette al suo fianco, osservando lo strumento.

— Uon — disse, e indicò a Morgon un nome mezzo nascosto fra gli intarsi. — Era un fabbricante d’arpe a Hel, tre secoli or sono. Soltanto cinque delle sue arpe esistono ancora.

— Il mercante che me l’ha data dice che apparteneva all’arpista del Nobile Col. Siete arrivato…? Dovete essere venuto con loro. Quel cavallo è vostro? Perché non mi avete detto prima che eravate qui?

— Eravate indaffarato; ho preferito aspettare. Questa primavera il Supremo mi ha ordinato di venire a Hed, e di esprimervi le sue condoglianze per la morte di Athol e di Spring. Ma sono rimasto bloccato a Isig dal ritardo del disgelo. A Ymris ho ritardato a causa dell’assedio di Caerweddin. E proprio mentre mi stavo imbarcando per Caithnard mi è stato chiesto di portare un messaggio urgente di Mathom di An, ad Anuin. Mi spiace d’essere arrivato con tanto ritardo.

— Ora rammento il vostro nome — disse lentamente Morgon. — Mio padre usava dire spesso che Deth aveva suonato alle sue nozze. — S’interruppe, come risentendo le parole di lui, e un brivido improvviso lo scosse. — Scusate. Lui lo ricordava con allegria. Amava molto la vostra musica. Mi piacerebbe sentirvi suonare.

L’arpista sedette più comodamente sul bordo del molo e prese l’arpa di Uon. — Cosa preferireste ascoltare?

Malgrado i suoi sforzi per non farlo Morgon fu costretto a sorridere, e sentì una fitta di dolore al labbro. — Suonate… lasciatemi pensare. Suonereste la ballata che stavo cercando di eseguire poco fa?

— Il Lamento di Belu e Bilo — Deth regolò appena una delle corde e cominciò a suonare l’antica ballata.

Belu così chiara e dolce nacque con l’oscuro

Bilo, l’oscuro. Anche la morte li unì.

Piangete per Belu, belle fanciulle,

Piangete per Bilo.

Le dita di lui ricreavano quella tragica storia dalle corde ben tese e scintillanti, e Morgon lo ascoltava immobile, senza distogliere gli occhi dal suo volto calmo e distaccato. L’abilità di quelle mani e la voce addestrata da anni di canti trasformavano in musica il destino di Bilo, la sua sregolatezza e la sua violenza, la morte che aveva lasciato dietro di sé, la morte che lo inseguiva, correndo dietro il suo cavallo, alle spalle di Belu, correndo accanto al suo cavallo come un cane da caccia.

Belu così gentile e fiera seguì l’oscuro Bilo.

E la morte era con loro.

La Morte gridò a Bilo con la voce di Belu,

a Belu, con la voce di Bilo…

Il lungo sospiro sciabordante di un’ondata ruppe il silenzio che era seguito all’ultima nota. Morgon si riscosse. Poggiò una mano sullo scuro profilo dell’arpa ruvido di intarsi.

— Pur di estrarre una melodia simile da questo strumento, sarei disposto a vendere il mio nome e ad andare in giro senza nome.

Deth sorrise. — Questo è un prezzo un po’ troppo alto da pagare, anche per un’arpa di Uon. Quanto vi hanno chiesto i mercanti?

Lui scrollò le spalle. — Si accontenteranno di ciò che potrò offrire.

— E la desiderate molto?

Morgon lo fissò. — Per averla venderei il mio nome, ma non il grano su cui i miei fattori si sono rotti la schiena con le falci, né i cavalli da tiro che hanno allevato e addestrato. Posso pagare soltanto con ciò che mi appartiene.

— Non avete bisogno di giustificarvi con me — disse gentilmente l’arpista. Morgon si umettò la crosta sul labbro ferito, annuendo.

— Mi spiace darvi quest’impressione. Dev’essere perché ho trascorso la mattina a cercare di giustificarmi con me stesso.

— Per quale motivo?

Gli occhi di lui si abbassarono sulle borchie di ferro che fissavano i tronchi del pontile. D’impulso, la calma con cui quello straniero così sensibile lo ascoltava lo indusse a chiedere: — Voi conoscevate i miei genitori. Sapete come sono morti?

— Sì.

— Mia madre aveva sempre desiderato visitare Caithnard. Quando studiavo là mio padre era venuto due o tre volte a trovarmi, alla Scuola dei Maestri degli Enigmi, a Caithnard. Questo sembra facile a dirsi… ma per riuscire a farlo gli occorse un grande coraggio: lasciare Hed, recarsi in una vasta e popolosa città straniera. I Principi di Hed sono radicati alla terra di quest’isola. Quando tornai a casa mia, un anno fa, dopo tre anni trascorsi a Caithnard, trovai mio padre pieno di storie e aneddoti su quel che aveva visto nel continente… i mercati e le fiere, la gente d’ogni razza e provenienza… e quando egli raccontò di un emporio dove vendevano pezze di stoffa e pellicce e vesti dei regni più lontani, mia madre non seppe più resistere al desiderio di andare. Adorava le stoffe fini, dai colori esotici, morbide al tatto. Così questa primavera, al termine degli scambi di stagione, si imbarcarono coi mercanti e partirono. Ma era destino che non rivedessero più Hed. La nave con cui tornarono… andò perduta. Non tornarono, da quel viaggio. — Abbassò una mano sulla testa di un grosso chiodo, tracciandovi intorno lenti circoli. — C’era una cosa che io volevo fare da molto tempo. La feci, allora. Mio fratello Eliard ne è venuto a conoscenza soltanto questa mattina. A quel tempo non gli dissi nulla perché sapevo che sarebbe andato fuori di sé. Trovai una scusa, raccontai a tutti che intendevo andare per qualche giorno nell’ovest di Hed, e segretamente mi imbarcai per An.

— Per An? Ma perché… — L’uomo s’interruppe. La sua voce si abbassò in un sussurro. — Morgon di Hed, voi avete vinto la corona di Peven?

Morgon alzò di scatto la testa. Dopo qualche istante disse: — Sì. Ma come fate a…? Sì.

— Non lo avete riferito al Re di An…

— Non l’ho detto a nessuno. È una cosa di cui preferisco non parlare.

— Auber di Aum, uno dei discendenti di Peven, è andato in quella torre per tentar di riconquistare la corona di Aum al nobile defunto, ed ha scoperto che la corona non c’era più, e che Peven supplicava d’esser libero di lasciare la torre. Invano Auber ha chiesto il nome dell’uomo che aveva preso la corona: Peven gli ha risposto soltanto che non intendeva più rispondere a nessun enigma. Auber ne ha riferito a Mathom. E Mathom, messo di fronte al fatto che qualcuno s’era aggirato non visto nella sua terra, riuscendo a vincere una gara di enigmi che per secoli era costata la vita a molti uomini, e che se n’era poi andato altrettanto furtivamente, mi ha convocato a Caithnar incaricandomi di rintracciare questa corona. Hed è l’ultimo dei posti dove mi aspettavo di trovarla.

— Finora se n’è stata sotto il mio letto — disse vagamente Morgon. — L’unico posto sicuro di Akren. Però non capisco. Forse che Mathom la rivuole? Io non ne ho bisogno. Non le ho neppure dato un’occhiata da quando l’ho portata a casa. Ma credo che Mathom, più di ogni altro, dovrebbe capire…

— La corona vi appartiene di diritto. Mathom sarebbe l’ultimo a contestarvelo. — Fece una pausa; nei suoi occhi c’era un’espressione che confuse Morgon. Poi aggiunse, gentilmente: — È vostra, se così volete, e anche la figlia di Mathom, Raederle.

Morgon deglutì. Si ritrovò in piedi, con gli occhi sbarrati sull’arpista. Ma subito poggiò un ginocchio al suolo perché d’improvviso, invece dell’uomo che aveva davanti, i suoi occhi rivedevano l’immagine di un volto pallido e fine colmo di espressioni inattese, e l’atto con cui quella testa scuoteva indietro una nuvola di luminosi capelli rossi.

Sussurrò: — Raederle. Io la conosco. Rood, il figlio di Mathom, era a scuola con me. Eravamo ottimi amici. Lei era solita fargli visita là. Ma… non capisco.

— Alla sua nascita il Re fece voto di darla soltanto all’uomo che sarebbe stato capace di riprendere a Peven la corona di Aum.

— Lui ha fatto un… Che razza di stupidaggine da parte sua, promettere Raederle a qualunque individuo con abbastanza cervello da superare Peven in sottigliezza. Avrebbe potuto essere chiunque… — Tacque, mentre il suo volto si faceva un po’ pallido. — Sono stato io.

— Sì.

— Ma io non posso… Lei non potrebbe sposare un contadino. Mathom non darebbe mai il suo consenso.

— Mathom dà ascolto ai propri istinti. Vi consiglio di parlare con lui.

Morgon lo fissò. — Volete dire che dovrei attraversare il mare fino ad Anuin, alla corte del Re, entrare a sangue freddo nel suo immenso salone e parlare con lui?

— Siete pur entrato nella torre di Peven.

— Quella era un’altra cosa. Non c’erano nobili di tutte e tre le regioni di An a tenermi gli occhi addosso, allora.

— Morgon, Mathom ha legato a quel voto la sua persona e il suo stesso nome. E i nobili di An, che hanno perduto antenati, fratelli, e perfino figli in quella torre, non potranno che tributarvi onore per il vostro coraggio e la vostra intelligenza. L’unica questione che adesso dovete considerare è questa: volete prendere in sposa Raederle?

Lui si alzò di nuovo, tormentato dall’incertezza. Si passò le dita fra i capelli, mentre il vento che si levava dal mare glieli gettava indietro. — Raederle! — E in quel gesto una fila di piccole stelle, alta su un sopracciglio, lampeggiò vivida sulla pelle della sua fronte. Rivide il volto di lei che da lontano si girava a guardarlo. — Raederle.

Vide la faccia dell’arpista farsi d’un tratto inespressiva, quasi che il vento gli avesse spazzato via dai lineamenti ogni emozione, ogni colore. L’incertezza scivolò via da lui come le ultime note di una canzone.

— Sì…

Загрузка...