PARTE SECONDA Fuori dal dominio del tempo

12. Un’altra estate

Il giardino, cintato da un muricciolo, aveva dimensioni modeste. La Confraternita era parsimoniosa con lo spazio. I confratelli vivevano in minuscole camere con corridoi dal soffitto basso, e anche il loro giardino pareva fin troppo angusto, ma pieno di fiori di ogni colore incredibilmente profumati.

Era una limpida giornata di mezza estate. Da un mese a questa parte faceva molto caldo e il sole, il nettare e il ronzare delle api mi portavano costantemente alla mente i ricordi dell’estate precedente, quando io e John vagavamo per brughiere, deserti, valli e montagne in cerca dell’uomo che viaggiava nel tempo.

Trovavo i ricordi piacevoli, ma cominciavo a stancarmi della luce violenta del mezzogiorno. Uscivo meno di frequente adesso, preferendo al paesaggio esterno il giardino e la sua cinta monastica. C’era un po’ di frescura lì. forse più immaginaria che reale, che metteva in risalto l’ordine e la serenità del luogo e il profumo dei fiori.

Eravamo giunti alla Confraternita non appena l’autunno aveva cominciato a rendere scomodi e difficoltosi i nostri spostamenti, nonché dolenti e stanchi i nostri piedi, e io avevo accolto con gioia questa opportunità di riposare. Da allora ero gradito ospite della Confraternita che ripagavo prestandomi per alcuni lavoretti. John si era unito ai confratelli dell’Uomo Futuro.

Quando questo avvenne, per me fu una grande sorpresa. Pensavo di conoscerlo meglio, ma forse non l’avevo mai capito veramente. Cominciavo a credere che col tempo ci fossimo allontanati sempre più, nonostante John mi fosse stato affidato sin da bambino. All’inizio non approvai la sua decisione. Pensavo che a lungo andare l’avrebbe reso infelice, ma il cambiamento di John dimostrò che mi sbagliavo completamente. Non trovò appagamento, ma piuttosto serenità e fiducia in se stesso. L’irruenza del carattere rimase ma si fece più recondita, meno evidente nel suo modo di parlare. La rabbia e la paura lo abbandonarono completamente e il suo perpetuo tormento esistenziale venne mitigato da una nuova determinazione.

All’inizio, di fronte a cambiamenti così radicali, temevo di averlo perso per sempre, dedito com’era alla Confraternita e alle sue idee. Ma questo non avvenne. Restavamo separati per lunghi periodi durante i quali John imparava ciò che l’umiltà e la filosofia della dottrina dell’Uomo Futuro avevano da insegnargli, ma ritornava sempre da me per qualcosa, non so cosa, che la Confraternita non poteva dargli.

I confratelli dell’Uomo Futuro avevano qualcosa da insegnare anche a me, o meglio, anch’io dovevo imparare delle cose. Non diventai mai un loro seguace, non accettai di impegnarmi per l’Uomo Futuro né tantomeno divenni un confratello consacrando la mia vita a preparargli la via. Ma ero convinto che sarebbe arrivato un Uomo Futuro e, naturalmente, apprezzavo il modo in cui la Confraternita si occupava dell’Umanità, ricercando pace e appagamento con ogni mezzo possibile.

Così, in quel giorno di mezza estate, ero ancora nei chiostri del monastero a contemplare il giardino e ad aspettare John. Ora era Fratello John, non solo mio fratello John che si faceva chiamare Lucciola.

Mi si avvicinò da dietro silenziosamente, e parlò solo quando mi fu accanto.

— È tardi — disse. — Mi dispiace.

Scossi la testa. — C’è tempo, è poco più di mezzogiorno.

— È l’ultimo giorno — disse. — L’ultimo giorno di tutto.

— Te ne vai proprio?

— Ce ne andiamo, Matthew! Devi venire con noi.

— Non mi è stato detto che posso venire — gli feci notare. — Non sono a servizio dell’Uomo Futuro né un membro della Confraternita. Questo pellegrinaggio è una cosa piuttosto importante per loro. Ha richiesto molto lavoro e molti preparativi.

Mi afferrò per un braccio. — Non c’è mai stato il minimo dubbio sul fatto che venissi anche tu, Matthew. Non sta a nessuno di noi dire se il viaggio è riservato solo a quelli che hanno accettato il vincolo o meno. Tu sei mio fratello, e anche Joaz e Xavier sono miei fratelli.

— Ma io non sono fratello di Joaz e Xavier. Non è solo il tuo pellegrinaggio, John.

— È mio come era mia la ricerca dell’uomo che viaggiava nel tempo. Sei venuto con me allora e devi venire con me adesso.

Fui invaso da un’improvvisa tristezza e da un po’ di paura. Amavo questo mondo, questo tempo, il vecchio monastero, i suoi giardini e i dintorni. Ero stato felice lì. Non volevo proprio imbarcarmi in una stravagante avventura verso un futuro ignoto.

— A cosa serve questo pellegrinaggio? — gli chiesi, e mi accorsi di quanto la mia voce esprimesse ansia. — Perché, John? Sei un uomo diverso rispetto a un anno fa, quando inseguivi i sogni del passato. Perché dobbiamo partire ancora per una nuova ricerca, per un’avventura ancora più straordinaria?

Mi tirò per il polso affinché lo guardassi negli occhi. — Non sono un uomo diverso — insistette. — La gente non cambia veramente nell’intimo, solo in superficie.

Nei suoi occhi riuscivo a vedere il John dei vecchi tempi, come se i riflessi del sole nelle sue pupille fossero lucciole lontane.

— Chi altro c’è? — chiesi.

— Solo Joaz e Xavier.

— Non Leon? E nemmeno il vecchio Alvaro?

— È un lungo viaggio. Potremmo aver bisogno di molto elisir. Quattro persone sono sufficienti. Inoltre Leon, Alvaro e tutti gli altri appartengono a questo luogo. La nostra ricerca ci porterà mollo lontano dalle responsabilità del presente. Io devo andare; e così Joaz e Xavier. E così anche tu, ma non altri. In un certo senso, scappiamo… andiamo a vedere i risultati del nostro lavoro invece di svolgere il lavoro. — Rise brevemente. — La Confraternita non può privarsi di troppa gente. Solo di quelli che devono andare. La maggior parte di noi appartiene a questo luogo.

“Io appartengo a questo luogo” dissi tra me. “Forse non sono di alcuna utilità. Forse la Confraternita è ben lieta di mandare me e non un prezioso membro dell’organizzazione. Ma ‘questo’ mondo è mio, vi appartengo.”

— Qual è lo scopo? — domandai ad alta voce. — Non riusciremo mai a far arrivare qui un messaggio dal futuro, a far sapere a Leon, ad Alvaro e a tutti gli altri che il lavoro ha dato i suoi frutti, che il progetto ha avuto successo, che il loro dovere è compiuto. Cosa ci si guadagna se nessuno tranne noi lo saprà mai?

John mi lasciò il braccio e parve vagamente esasperato. — Non hai mai capito, Matthew — disse con una certa asprezza. — Forse non capirai mai. È come le antiche leggende sulla ricerca del Santo Graal. Alcuni hanno semplicemente sentito parlare dell’Uomo Futuro, altri lavorano per esso, altri ancora si preparano alla sua venuta, ma solo a pochi è dato di vederlo e toccarlo.

“Il fatto che uno solo di noi veda è sufficiente per tutti, non lo capisci? Non riesci a capire che quando Joaz, Xavier, tu e io assumeremo la droga e viaggeremo nei secoli, porteremo con noi le speranze e la benedizione di centinaia di uomini… di altre migliaia del passato e del futuro. Se uno di noi riuscirà a vedere, se uno di noi riuscirà a comprendere la rivelazione e il trionfo dell’Uomo Futuro, questo sarà sufficiente.”

— Ma come faranno gli altri a capire cosa proviamo? Come potranno essere sicuri che ce l’abbiamo fatta? Per quello che ne sanno, potremmo aver intrapreso un viaggio verso il nulla, verso l’oblio definitivo.

— Oh, Matthew! — sospirò John. — Lo sanno. Ora lo sanno, lo sanno veramente, perché hanno fede.

— Non credo alla fede.

— Solo perché tu non ne hai, devi negarla anche agli altri? — rispose. Per un attimo rimasi di stucco. Un anno fa John non avrebbe mai detto una cosa simile.

Avrebbe abbracciato una verità o l’avrebbe negata. Ero io a predicare sempre di lasciare credere agli altri quello che desideravano. “Ero cambiato io in peggio”, mi domandai, “mentre lui diventava più saggio?”

— Ci sono state troppe chiacchiere — dissi. — Troppe chiacchiere e nessun fatto. Sto invecchiando, John. Non ho mai avuto sogni come i tuoi. Penso sia meglio che tu vada senza di me.

Lo dissi con riluttanza, ma dovevo dirlo in caso mi avesse voluto con sé solo perché ero suo fratello, lo dissi per dargli l’opportunità di dimenticarsi di me e di seguire il suo sogno, se era ciò che voleva veramente.

— Andremo insieme — affermò lui con ardore. — Dobbiamo farlo. Andremo alla fine del tempo. Tu e io vedremo l’Uomo Futuro. Lo so!

Ci fu un breve silenzio.

— Lo so! — ripeté in un sussurro.

13. L’ultimo giorno

Per la maggior parte dell’anno trascorso al monastero avevo lavorato nei laboratori dove Leon ricavava droghe e farmaci da ogni sorta di sostanze vegetali.

Fra Leon era un uomo forte e riflessivo, con una predisposizione al lavoro quasi insana. Di rado entravo nelle sue stanze senza trovarlo impegnato a badare a una delle centinaia di colture del laboratorio, o a far funzionare qualche apparecchio per l’estrazione di sostanze vegetali. Aveva mani insolitamente grandi, e nel vederle lavorare rimanevo sempre stupito dal fatto che non erano per nulla maldestre. Sebbene passasse ore e ore a maneggiare vetri fragili e preziosi, non lo vidi mai romperne uno.

Leon mi spiegò i procedimenti usati per produrre quelle strane sostanze chimiche.

— Moltissime piante producono in piccole quantità insoliti composti chimici che, per quanto ne so, non sono di alcuna utilità alla pianta. Veleni come il curaro, stimolanti come la digitale, allucinogeni come l’acido lisergico e alcaloidi come l’atropina. Per molti anni i medici hanno ricercato questi composti, selezionando piante produttrici di sostanze specifiche, e noi abbiamo continuato il loro lavoro. Abbiamo ereditato gran parte delle loro conoscenze e molte delle specie selezionate. In pratica, tutto il lavoro più importante, i test e la classificazione, è stato effettuato molto prima di noi. Abbiamo raffinato un poco la tecnica e scoperto un paio di sostanze ancora sconosciute qualche secolo fa, ma il nostro lavoro è stato rivolto principalmente all’impiego delle droghe, al loro utilizzo in relazione alla nostra filosofia e alla loro somministrazione. Possiamo uccidere e guarire, creare sogni ed emozioni, curare le malattie e alleviare il dolore, favorire il sonno ed eliminare la sofferenza. Possiamo alterare la percezione al punto da far muovere il tempo stesso intorno a noi.

“I nostri scopi sono semplici: preservare la razza umana, ma solo affinché possa generare l’Uomo Futuro. Ci preoccupiamo della qualità di vita dell’uomo, ma solo come questione secondaria. Ciò che conta è la Vita Futura. Siamo stati accusati di portare senilità nella razza umana, ma noi siamo convinti che si tratti più di maturità che di vecchiaia. Crediamo che l’epoca della lotta e dell’ambizione sia stata solo un’infanzia. Forse è piacevole ricordare storie e leggende di quell’epoca, ma ormai si è conclusa. Abbiamo accantonato le cose puerili. Guardiamo davanti, non all’esterno.

“Altri dicono che abbiamo modi crudeli, che vendere sogni in cambio di realtà è come commerciare con una moneta falsa, è ingannare gli uomini negando loro la vera felicità che potrebbero raggiungere se avessero l’opportunità di inseguirla. Forse è così, ma non posso pensare che sia crudele portare la pace. Non è crudele. Penso piuttosto che sarebbe stato un grave sbaglio se i nostri antenati avessero lasciato spegnere la razza dell’Uomo nella disperazione più cupa, permettendole di distruggersi a poco a poco per seguire quel suo frenetico desiderio di eccellere al di là delle proprie capacità. All’Uomo Futuro non si può negare la possibilità di vivere solo perché l’Uomo non può essere il signore dell’universo, sei d’accordo?”

Lo ero fino a un certo punto. Non mi sarei mai impegnato in favore di una convinzione così radicata che escludeva altre opinioni e modi di pensare più semplici, ma avevo sempre considerato Leon molto più convincente del loquace Alvaro con i suoi discorsi filosofici.

Leon si mostrò dispiaciuto quando gli dissi che partivo, ma per nulla sorpreso. La proposta del pellegrinaggio era nell’aria da molto tempo e penso che tutti avessero immaginato che alla fine sarei andato con mio fratello.

— Ti faccio i miei migliori auguri — disse Leon.

— Grazie — risposi, senza molto calore. Eravamo di fronte a una delle amate teche di vetro di Leon in cui cresceva la più preziosa delle cose a lui care. Aveva un aspetto piuttosto brutto, per nulla adeguato al grande ruolo che il suo distillato doveva svolgere. Era un fungo composto da un vasto reticolo di ife che punteggiava un grumo di humus, foglie morte, terriccio scuro e sostanza viscida, posto su un grande disco. I corpi fruttiferi, dai quali veniva estratta la droga del tempo, erano funghi con gambi corti e cappelle compatte e panciute. Le cappelle erano di colore grigio-marrone e la pelle esterna si staccava continuamente diventando rosso scura quando i tessuti morti si seccavano.

— È strano — disse Leon aprendo la teca, dopo aver indossato dei guanti, per staccare cinque o sei funghi. — Crescono molto in fretta ma otteniamo pochissimo elisir da tutta quella materia prima. Ci sono voluti anni per distillare la quantità di siero di cui disponiamo oggi, nonostante la velocità impressionante con cui i funghi si riproducono. Si nutrono di qualunque cosa purché sia in decomposizione.

— La droga è pericolosa? — domandai.

Leon separò accuratamente le cappelle dai gambi e cominciò a spappolarle in un recipiente di legno, facendo girare abilmente un pestello più simile a un bastone.

— Non si sa con certezza — rispose. — Lo sai, è stato difficile fare delle prove. Tutto quello che è stato scritto in proposito rischia di essere una semplice congettura. Se la si somministra a un uomo, questo sparisce, spiazzato nel tempo per settimane o per anni. Compilare un tabulato con i dati dell’esperimento è piuttosto complesso. Non sono nemmeno mai riusciti a trovare la giusta proporzione nel dosaggio. Varia molto da persona a persona.

“Ma non penso che tu debba preoccuparti. Quelli che sono tornati sembravano in salute. Ne abbiamo avuto qualcuno di passaggio in questi giorni, come il tuo amico che viaggiava nel tempo. Molti di loro proseguono, ed è probabile che passino oltre sorvolando questo tempo.”

— Sorvolano questo tempo… Vuoi dire che non si soffermano in quest’epoca?

— Probabilmente non la notano nemmeno. È tutta una questione di percezione, ricordatelo. L’occhio non vede e il corpo non si preoccupa. Be’, suppongo che debbano trovarsi qui, in qualche modo. Ma non riuscirei a individuarne neanche uno, a meno che non si fermasse a parlarmi.

— E quando si fermano, cosa succede?

— Compaiono e scompaiono. Da quello che so dalle esperienze di altra gente, non c’è schema, nel tempo che trascorrono. Appaiono perfettamente normali e non accusano disturbi alla percezione temporale. La droga sembra condizionare l’universo molto più di loro. Ma naturalmente questa è una deformazione della realtà. È solo il nostro punto di vista.

— Fino a che punto riusciremo ad arrivare, secondo te? — gli domandai.

— Fino alla fine, spero. Come ho detto non sappiamo molto sul dosaggio, ma ormai nelle beute dovrebbe esserci abbastanza droga per attraversare un miliardo di anni o più se è necessario. Ma non sono poi molti. La Terra è assai più vecchia. Dovendo esprimere un parere, però, penso che vi porterà dove vorrete, o dovrete, andare.

— Non so quanto sia lontano — confessai.

— Lo saprai presto.

— Mi chiedo come sarà — dissi. — Questa è una cosa che non ho mai domandato all’uomo che viaggiava nel tempo. Non ho mai pensato che un giorno avrei fatto la stessa cosa. Immagino che si passi semplicemente da un tempo all’altro come se si guardassero cose diverse, senza però soffermarsi a studiare con uguale attenzione tutto ciò che capita tra l’una e l’altra. Vediamo già così poco di quello che abbiamo davanti agli occhi!

Leon fece un ampio sorriso e continuò a spappolare la massa grigia nel mortaio, con movimenti del polso decisi e regolari. — Sarà proprio così — confermò.

Avendo fondato la mia analogia sui suoi ragionamenti, non mi sorprese il fatto che si trovasse d’accordo con me.

— È come attraversare la storia, la storia futura — continuò Leon. — È come dirigersi verso qualcosa di nuovo, fermarsi a osservare e passare davanti a ogni cosa senza il bisogno, né la capacità, di esaminare tutto. Dovrete sbrigarvi, non potrete fermarvi a contemplare le cose. Avete solo il tempo di una vita per arrivare fino alla fine del tempo. Ma immagino che tuo fratello non vi farà riposare. Non è il tipo da lasciare passare il tempo senza sfruttarlo.

— No — dissi. — Vorrà ripartire nell’istante in cui si fermerà. Niente riposo, nessuna possibilità di imparare e capire. È sempre stato così.

Leon appoggiò il mortaio con un colpo secco e si sfilò gli stretti guanti mentre con gli occhi già cercava l’apparecchiatura per la distillazione. Volevo ancora parlare, trascorrere quelle ultime ore nelle rassicuranti certezze delle mie conoscenze, ma Leon era occupato a distillare l’ultima goccia di droga, la goccia con cui probabilmente avremo avuto la visione dell’Uomo Futuro. Non voleva più essere disturbato.

John, Joaz e Xavier si preparavano in privato. Non sapevo dove trovare Alvaro e quelle erano le uniche persone che conoscevo abbastanza bene per poter parlare loro della partenza, del più importante dei miei giorni.

Così ritornai in giardino e vagai per i chiostri, assaporando l’aria fragrante, godendo della luce del sole come se fosse stata l’ultima volta.

Mi inginocchiai e tastai il terreno, strappai dell’erba e la toccai con la punta della lingua. Ascoltai il ronzio delle mosche e il verso delle cavallette. Solo poche ore prima quei suoni mi erano sembrati irritanti, mentre ora volevo ascoltarli fino a essere certo di ricordarli perfettamente.

Lasciai gli edifici del monastero e vagai per i sentieri della collina, immerso in un mondo che nei trentaquattro anni precedenti avevo considerato solo distrattamente.

L’ultima, lunga giornata.

Non avevo dubbi: mi stavo comportando come uno sciocco. Il domani avrebbe contenuto le stesse cose dell’oggi, sennonché non sarebbe stato il domani ma un insieme di centinaia di domani, separati da un lasso di tempo di cui non conoscevo l’estensione.

“A quale velocità si viaggia nel tempo?” mi chiesi.

“Si può correre o bighellonare?”

“Come ci ritroviamo se siamo separati?”

“Il movimento nello spazio è legato al movimento nel tempo o posso restarmene seduto a guardare il mondo che cambia intorno a me?”

Era tutto nuovo, troppo nuovo, e io ero così vecchio, radicato nelle mie abitudini e soddisfatto della mia esistenza.

Non come John, un ventenne ancora pieno di vita.

Non volevo andare. Ma dovevo farlo.

14. Pellegrinaggio

Fu un inizio di proporzioni cosmiche, grandioso e splendido. Ma ero stanco di questi continui inizi e del timore reverenziale per il cosmo. Ne avevo già avuto esperienza nei sogni indotti dalla droga che pervadeva il mio corpo e il mio sangue.

Allora ero sicuro che ciò che stavamo cercando fosse un’illusione. Volevamo delle risposte, cercavamo conclusioni, coronamenti. Ci aspettavamo che ogni cosa andasse a posto, come tessera di mosaico, per dare ordine e precisione a ciò che conoscevamo e credevamo.

Ma dopo quell’inizio, l’inizio del tempo stesso, ero certo che da questo caos non poteva scaturire alcuna chiarezza, né ordine o coerenza.

Sulle prime la successione delle immagini mi accecò. Mi ci volle del tempo per adeguarmi al Tempo, per far sì che i miei sensi fronteggiassero quel nuovo flusso che li aveva aggrediti. Lentamente mi resi conto che quanto stavo vedendo non era affatto il futuro ma piuttosto il passato. Milioni di anni passavano in un solo istante a una velocità incredibile, le pagine scorrevano e sfarfallavano.

La terra sotto i miei piedi fremeva, si muoveva e cambiava forma. Il giorno e la notte si susseguivano veloci e solo il debole tremolio delle immagini lasciava intendere che il giorno non era eterno. La traiettoria del sole era un arcobaleno lucente che andava da un orizzonte all’altro muovendosi rapidamente avanti e indietro nel cielo mentre le stagioni finivano ancor prima di cominciare. La sola sensazione fisica di cui avevo consapevolezza era un vento freddo e pungente che sembrava attraversarmi il corpo. Non era un vento reale, ma non so dire cosa fosse. Non vi era il minimo segno della presenza di John, Joaz o Xavier.

Le prime forme di vita cominciarono ad apparire, ma naturalmente non potei vederle. Mi rammaricavo del fatto che un tale avvenimento mi passasse accanto lasciandomi immaginare ciò che accadeva senza però poterlo osservare. Anche a quel ritmo febbrile il lavorio durò ben più dello spazio di un istante, ma tutto quello che riuscii a vedere in lontananza fu solo dell’acqua torbida. Intorno a me c’era una desolata distesa di roccia senza vita ma in movimento, perennemente tremante e instabile. Osservai le montagne prender forma per poi essere nuovamente erose dall’impeto dei secoli. Ma non potevo vedere le molecole formarsi e riformarsi, crescere e moltiplicarsi, minuscoli colloidi impalpabili che trovavano segreti dell’immortalità e della metamorfosi.

Aspettai da solo, o almeno così mi sembrò.

Vidi il mondo così come avrebbe potuto vederlo un dio, ma non ero dio perché ero impotente, e nessun dio può essere impotente se è destinato ad avere un significato al di là di se stesso.

Non avevo altra alternativa se non quella di imparare l’umiltà e rendermi conto che, anche se il Fato non era una forza attiva e vitale, costituiva uno stato mentale che concepiva accuratamente il modo in cui si presentava la realtà. In pochi secondi mi fu trasmessa una vasta gamma di esperienze, ma non rinunciai a quella transitorietà che poteva conferire un significato all’ambiente intorno a me. Ciò che vedevo significava qualcosa, anche se in pratica non vedevo quasi nulla.

Più tardi, non so quanto più tardi, riuscii finalmente a individuare degli esseri viventi. Mi imbattei nei fragili organismi trasparenti che vivevano nei ruscelli e negli stagni, e che talvolta mi scorrevano accanto o si formavano intorno a me. Spesso ebbi l’impressione di essere sull’acqua e non sulla terra, altre volte, quando il suolo si muoveva, avevo la sensazione di fluttuare a mezz’aria. Ma la mia posizione non mi sembrò mai precaria. Io restavo fermo e il tempo mi passava accanto.

Poi comparvero delle creature corazzate, alcune con duri gusci a spirale, altre con gusci appuntiti o spesse scaglie dentellate. Ma in un certo qual modo avevano ancora un aspetto fragile, come se le parti vitali si nascondessero in un bozzolo al minimo disturbo.

Non mi abituai mai completamente alla presenza della vita e di tutto ciò che essa implicava, ovvero un flusso continuo, un incessante cambiamento. Inizialmente vidi la vita come una corsa precipitosa, un inesauribile caos di competizione, speranza, estinzione. Ma ben presto percepii uno schema differente, un’immagine profonda e radicata che andava al di là della turbolenza superficiale.

Vedevo in quella vita qualcosa di calmo e pacato, qualcosa che sapeva dove stava andando e avanzava con circospezione, un conquistatore sereno che avanzava con una strategia sicura, trascinando nella propria scia svariate escrezioni. Un unico filo, però in qualche modo parte e funzione del tutto. La corrente primaria dell’evoluzione.

Ormai la terraferma era stata invasa e i mari completamente conquistati. Gli organismi primitivi uscivano tranquillamente e senza fretta da quel confortevole grembo per approdare al duro mondo dell’aria e della roccia. E là dove andavano le piante, seguivano gli animali. Appena un modo di vita era pronto per loro sulla terraferma, essi cominciavano a lasciare il mare.

Tuttavia per molto tempo la fucina della vita rimase il mare. La vita sulla terraferma era troppo ardua e troppo difficile perché le creature riuscissero ad adattarsi subito. Per un lungo periodo, che a me sembrò durare un minuto o poco più, ogni nuovo essere uscì dal mare. Il sistema di vita terrestre cominciò a muoversi in armonia e nella stessa direzione precisa solo dopo l’installazione di un migliaio di componenti di specie diverse. I nematodi uscirono dal mare, così come gli artropodi e infine i pesci. Gli osteolepidi privi di mandibola e muniti di esoscheletro salirono faticosamente sulla terraferma trasferendo la corrente primaria dell’evoluzione in questo nuovo habitat.

E così di seguito, procedendo con una precisione sempre evidente e visibile, mai confusa o nascosta.

Ormai mi ero completamente adeguato a questo nuovo modo di percepire il mondo. Penso che fossero passate solo quattro o cinque ore di tempo soggettivo. Ora non avevo più difficoltà a vedere cose, la cui durata media della vita poteva essere misurata solo in nanosecondi, costituirsi in un’immagine collettiva. Vedevo più con la mente che con gli occhi, ma entrambi registravano gli eventi e si predisponevano alla contemplazione.

Giunsi a comprendere intimamente il senso della vita, ma non tentai di divinizzarla o attribuirle qualità mistiche o magiche. Parlo di “senso della vita” perché si muoveva in una direzione ben precisa, aveva uno scopo, non si limitava a esistere. Costituiva un vero processo e non una proprietà. Lo scopo era l’ordine, la conquista dell’intero universo. L’intento era chiaramente quello di sovvertire il principio entropico e portare ordine nell’intera esistenza.

Grandi foreste di felci e di calamitacee consumavano il terreno spoglio, trasformando i raggi di sole in energia che generava nuova vita nell’aria e nell’acqua. Le lumache di terra e gli insetti erano ovunque ma, per quel che riguardava la linea principale, era il giorno dei rettili, che rifluirono subito in varie direzioni: alcuni tornarono al mare, come tartarughe e ittiosauri, altri salirono sugli alberi, come l’archeopterige, il primo rettile-uccello. In quanto a dimensioni, i dinosauri erano impressionanti, ma non facevano parte della linea principale. Quando raggiunsero il pieno sviluppo, già era sceso il crepuscolo dell’epoca dei rettili. Stavano arrivando i mammiferi. I rettili avevano inventato l’uovo protetto da un guscio solido, ma il ricordo a cui tenevo maggiormente era quello legato al brontosauro. Non si può immaginare la commozione nel vedere la disperata maestosità dell’animale, sconcertato dalla sua stessa stazza e dalla sua debolezza, durante la breve vita della sua specie destinata a estinguersi.

I mammiferi sembravano animali nocivi, mentre erano ancora in vita i loro parenti, ma i piccoli insettivori furono i mansueti che ereditarono la Terra. Ormai mancava solo un soffio alla venuta dell’uomo. Virtualmente la sequenza era completa. Appena me ne resi conto, provai un brivido di sollievo. Poiché ormai mancavano solo pochi secondi, tentai nuovamente di prevedere ciò che sarebbe avvenuto invece di esaminare ciò che era stato.

Mentre l’uintaterio e il megaterio mi passavano accanto con andatura impettita e maestosa, mi rilassai per la prima volta da quando avevo bevuto l’elisir. Giunsero i cavalli, e i lupi e gli ippopotami, ma mi chiedevo se non fosse tutto un sogno, se Leon e l’uomo che viaggiava nel tempo non si fossero sbagliati, se dopotutto si potesse veramente tornare nel passato.

Cominciai a cercare di nuovo la linea principale, l’Uomo e gli antenati dell’Uomo. Vidi il mastodonte, il rinoceronte lanoso e la tigre dai denti a sciabola.

Ma non vidi l’Uomo. Era insignificante, si nascondeva tra gli alberi. Se avessi davvero guardato con attenzione avrei potuto scorgerlo, ma c’erano troppe cose da vedere e la mia attenzione veniva continuamente sviata.

Mi balenò in testa che, se John fosse stato lì, lui sì che avrebbe visto l’Uomo. Lui non si sarebbe fatto distrarre.

Poi tutto finì. L’intera storia passò in una manciata di microsecondi. Penso di poter dire che la vidi, ma solo come immagine fuggevole, la più effimera delle illusioni.

John mi toccò la spalla.

— Credevo di sognare — dissi.

— No — intervenne Joaz. — Non era un sogno. Era una visione, una visione reale. Lo abbiamo visto davvero con i nostri occhi. — Joaz era alto e spettrale, aveva occhi scuri e una voce esile e acuta.

— Ma possiamo solo andare avanti nel tempo — insistetti.

— Non possiamo andare nel passato — disse John, e mi accorsi che c’era del rammarico nella sua voce per quell’Età dell’Oro che era scivolata via in un istante senza che avessimo la possibilità di conoscerla meglio. — Però lo abbiamo visto, e ora è dietro di noi, immobile e irraggiungibile. Ma c’è, è reale. Potevamo vederlo, e così è stato. Ma c’era troppo da vedere, e troppo poco tempo.

— Dove siamo? — si lamentò Xavier. Xavier era basso e tarchiato, e aveva costantemente un tremito nella voce, ma non per paura. Xavier era soprattutto un uomo buono: uno che piangeva per i problemi altrui e rimproverava se stesso per i propri.

Mi guardai attorno. Era buio ma c’erano le stelle, le sagge, immobili stelle. Eravamo sulla stessa collina, i nostri sandali calpestavano la stessa erba. Scrutai nell’oscurità alla ricerca del monastero.

— Guardale — disse Xavier indicando davanti a sé. — È ancora lì, non ci siamo mossi neanche un po’. La droga non ha fatto effetto.

— Non è lo stesso — disse John pacatamente. Era fiducioso e stava assumendo il comando della missione. Dopotutto era la sua ricerca, la sua missione. — È disabitato, Xavier. Forse è anche in rovina. Non ci sono luci, Fratello. Non ci sono luci.

— Ma non lo avrebbero mai abbandonato! — protestò Xavier.

— Neppure in cent’anni — disse Joaz, ambiguo.

Restammo in contemplazione. Avevamo viaggiato nel tempo. Il passato era trascorso, per sempre. Vi fu un lungo silenzio.

Poi John — non “poteva” che essere lui — scoppiò a ridere. — Siamo qui. Stiamo viaggiando nel tempo. Avanti Matthew, prendimi per mano. Prendiamoci tutti per mano e andiamo. Andiamo!

In tanti anni era la prima volta che lo vedevo così esultante, così pieno di gioia. Ci diede una gomitata e ci spinse tutti e tre. Lo seguimmo, non avendo più la forza di volontà per opporre resistenza.

Marciammo.

Continuammo a marciare e il tempo ci scorreva accanto sempre più veloce, sempre più veloce.

15. La danza

Sostammo ai piedi di una collina lunga e bassa. Eravamo molto stanchi. Avevamo camminato troppo pensando, insensatamente, che forse, poiché adesso controllavamo il passare del tempo, non avremmo più avuto bisogno di dormire o riposare. Il giorno e la notte si susseguivano a nostro piacimento, ma l’orologio interno del nostro metabolismo continuava a mantenere un orario perfetto.

L’erba era scura e ruvida quella sera, il tempo umido e nebbioso. Il paesaggio appariva cupo, quasi deprimente, come un acquerello dipinto con colori pallidi e indefiniti.

— Questo non è un posto dove passare la notte — ci fece notare Joaz. — Dovremo andare avanti almeno un altro po’.

— Non riesco più a fare un passo — disse Xavier, deciso. — Qui ci siamo fermati e qui intendo restare per almeno dieci minuti.

— Domani potrebbe andare molto meglio e non dev’essere lontano — intervenni.

— Sei proprio sicuro di raggiungere il domani? — domandò Xavier. — In quest’ultima ora ho cercato spesso di fermarmi ogniqualvolta vedevo qualcosa per cui valeva la pena farlo, ma la mia mente non è ancora così raffinata. Forse con la pratica riusciremo a scegliere i luoghi con esattezza. Ma adesso, in questo momento, ho bisogno di riposo.

John aveva ascoltato la conversazione in silenzio, con grande serietà; non disse niente, accontentandosi di aspettare.

— Siamo legati in qualche modo gli uni agli altri — disse Joaz. — Ecco perché abbiamo difficoltà a fermarci in un dato posto. Dobbiamo concentrarci tutti sullo stesso luogo.

— In che modo siamo legati gli uni agli altri? — domandai.

Joaz si strinse nelle spalle. — Non ne sono sicuro, ma suppongo attraverso uno stato mentale. Ci consideriamo come un gruppo e quindi restiamo insieme. In fin dei conti il viaggio nel tempo è solo una questione di percezione personale. Quello che pensiamo condiziona, se non ciò che vediamo, perlomeno il modo in cui vediamo.

Non avevo voglia di cercare di capire dove voleva arrivare con i suoi discorsi. Mi accontentai di non capire. Quel continuo dialogo metafisico mi stava logorando. Che importava perché stavamo insieme finché vi restavamo? Di certo quella era l’unica cosa che contava, fino a quando uno di noi non si fosse ritrovato da solo e in difficoltà, impossibilitato a ritornare dai compagni. Con un po’ di esitazione feci qualche passo, impaurito all’idea di poter scivolare nel tempo, sebbene sia Joaz sia John si muovessero con una certa libertà. Poi, preso coraggio, mi incamminai per la salita. — Niente in contrario se vado su e do un’occhiata intorno finché c’è luce? — domandai.

Mi ero rivolto a Joaz, che sembrava quello più a suo agio, ma fu John a rispondermi. — Qualche minuto — disse. — Non di più. E resta in vista. — Mi avviai verso la sommità della collina, affrettandomi per arrivare prima che la luce del tramonto svanisse.

Raggiunta la cima vidi, sull’altro versante, due figure che se ne stavano immobili mentre i loro vestiti fluttuavano nel vento. Esitai domandandomi se chiamare gli altri a dare un’occhiata, ma da un semplice sguardo mi resi conto che né Xavier né John sarebbero stati interessati, mentre Joaz mi dava le spalle. Mi voltai nuovamente a guardare trattenendo il respiro, ma non mi avvicinai.

Le due figure fissavano intensamente qualcosa che non riuscivo a vedere, non perché fosse nascosto, ma semplicemente perché non c’era. I due non parlavano… osservavano solamente. Erano rivolti quasi nella direzione opposta alla mia e ovviamente non potevano vedermi.

Dopo qualche istante dall’erba umida cominciò a salire, lenta e irregolare, una nebbiolina iridescente. Strisciava pian piano, come fumo vivo, incurante del vento. Si levò proprio dal punto dove i due guardavano, a riprova del fatto che lo stavano aspettando.

Gradatamente l’iridescenza formò un pergolato di vividi colori.

Non riuscivo nemmeno a immaginare che tipo di sostanza fosse. Sembrava trarre energia da qualche parte, ma non avrei saputo dire se dall’aria o dal suolo. Cominciò a espandersi in modo uniforme fino a circa due metri d’altezza. Poi smise di crescere e iniziò a ruotare sul suo asse verticale. Non si riusciva ancora a scorgere una forma ben definita, anche se la rotazione imponeva alle particelle, sempre ammesso che si trattasse di particelle, una distribuzione discoidale.

Senza smettere di vorticare, l’aria colorata cominciò a danzare. Volteggiando in modo ritmico e armonioso, dava l’impressione di seguire una melodia.

Una delle figure, alle quali finora avevo prestato ben poca attenzione, era una donna vestita di pizzo nero. Era immobile, fredda e irraggiungibile, e guardava con apparente indifferenza la nebbia colorata. Non riuscivo a vedere i suoi occhi, ma il petto era proteso fieramente in avanti e la testa leggermente inclinata all’indietro, come se la donna cercasse di guardare dall’alto quella luce danzante. Teneva le braccia abbandonate lungo il corpo. Aveva un certo atteggiamento aristocratico.

La seconda figura, appena dietro alla donna, era un uomo. Teneva le braccia incrociate sul petto. Era più basso di lei e vestito tutto di nero. Non riuscii a capire se fosse un suo compagno, un servo o una guardia.

Cominciai a spostarmi un poco, cercando un punto di vista migliore per osservare la coppia, ma ricordai l’ammonimento di John. Mi voltai a dare un’occhiata. Dietro a me Joaz stava salendo lentamente la collina. Riuscii a incrociare il suo sguardo e lo chiamai con un gesto. Joaz annuì ma non affrettò il passo.

Il disco iridescente cambiò sagoma allungandosi e arrotondandosi per poi ondeggiare e tremolare assumendo un aspetto più intricato. Lo osservai con attenzione, tentando di cogliere le complessità di quella nuova forma vagamente umanoide, ma il turbinio dei colori rendeva difficile individuare dei tratti precisi.

Joaz mi raggiunse, guardò la scena e si voltò verso di me. — Che cos’è? — domandò.

— È uscita dal terreno. La stavano aspettando. Non so perché.

Joaz ritornò a guardare la nube danzante che ora si muoveva più lentamente, mentre i suoi colori parevano protendersi e pizzicare qualcosa nella mia mente.

— Mi fa male — dissi, e mi accorsi che non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla cosa. Provai un improvviso brivido di paura e cominciai a pensare che quella cosa mi provocasse, che ci fosse un che di osceno nel modo in cui si muoveva. Sapevo che anche Joaz ne era affascinato. Più che vedere o sentire, percepivo la sua immobilità.

— Mi fa male — ripetei, felice di riuscire finalmente a parlare.

— Fa male anche a lei — disse Joaz, senza la minima emozione.

Era come se fosse iniziata una battaglia. La donna aveva stretto i pugni, continuava a serrarli. Il vento le premeva addosso il vestito e riuscii a vedere in risalto contro la stoffa sottile i muscoli della schiena irrigiditi.

Il buio stava calando in fretta e ora quella luce vivente era la sola fonte di illuminazione. Le stelle erano coperte da una spessa coltre di nubi. Sapevo che ormai John e Xavier dovevano essersi accorti della luce, ma non riuscivo a sentirli. Avrei voluto voltarmi per vedere se stavano salendo.

Il ritmo della danza accelerò nuovamente.

Sentii la bocca tirarsi in una smorfia, ma era come se fossero stati i colori a farlo, non i miei muscoli. Sentivo la pelle pizzicarmi come per il freddo, e avevo la sensazione che gli occhi fossero stati trasformati in due palle di ghiaccio.

Sembrava che i colori stessero sottraendo calore al mio corpo.

Sentii una mano sulla spalla, una mano che gentilmente, ma fermamente, mi voltò la testa. Non feci resistenza. La mia visuale passò dalla luce al viso di John.

La testa mi ronzava e tutte le sensazioni svanirono.

— Non guardarla più — disse John. Ma lui guardava da sopra la mia spalla. Ora era lui a fissare la luce. Cercai di mettergli la mano davanti agli occhi, ma John mi guardò dritto in viso e la scostò.

— Va tutto bene — disse. — Non mi farà niente.

— Che cos’è? — domandai.

— Uno sciame di mosche.

— Lucciole! — Risi in modo isterico, con un suono breve, stizzoso.

— Non lo so — rispose. — Non sono come quelle che conoscevo.

Mi chiesi come facesse a saperlo. — Riesci a distinguerle? — domandai. — Una per una intendo, non tutte insieme.

— Sì — rispose annuendo. Diedi un’occhiata furtiva a Joaz. Stava ancora guardando e sembrava pietrificato. Xavier era accanto a lui e con la mano si riparava gli occhi, sbirciando di tanto in tanto tra le dita. Tirai Joaz per la manica.

— Sta bene — mi assicurò John.

— Voglio guardare — dissi.

— D’accordo, ma riparati gli occhi — rispose.

Mi misi il palmo della mano sul viso e mi voltai. La figura infuocata si muoveva lentamente sulla brughiera e si avvicinava con decisione ai due in un modo che a me parve minaccioso. Sottili lingue di fuoco e lampi improvvisi guizzavano e tornavano nella massa che procedeva in modo irregolare. Ora che sapevo cos’era cominciai a scorgere le singole luci. Erano davvero solo lucciole.

La donna sollevò a mezz’aria le mani e schiuse i pugni per scacciare gli insetti. Ma lo sciame colorato ondeggiò e turbinò e la donna lo mancò. Poi fu avvolta dalla nube iridescente; e con lei, il suo compagno. Ma mentre lui rimase perfettamente immobile in un alone di colorì cangianti, lei si voltò e iniziò a correre.

Fu allora che vidi il suo viso terreo e spaventato. Gli occhi erano come scaglie di ghiaccio che scintillavano riflettendo la luce delle lucciole. La donna cadde al suolo inciampando nel lungo vestito.

I colori presero a fluttuare sulla sua sagoma prostrata, poi si dispersero lentamente, uno per uno, spegnendosi. Abbandonarono anche l’uomo. Quando ritornò il buio, l’uomo andò incontro alla donna per aiutarla. Nessuno dei due sembrava ferito. Li persi di vista nell’oscurità proprio mentre l’uomo si chinava per sollevare la compagna.

Allungai la mano intimorito per toccare John. La sua mano incontrò la mia e la strinse con forza.

— Cos’è accaduto? — domandai.

— Si sono sfamate, credo.

— Con cosa, col sangue?

— Non penso. — La sua voce era strana e distante. Riuscivo a malapena a vederlo.

— Subito mi ha fatto male guardarle — confessai.

— Non era dolore — disse. — Si stavano impossessando della tua mente, ecco tutto. Ne stavano solo prendendo possesso.

— Ma perché?

— Non lo so.

— Come fai a sapere così tanto senza sapere niente? — chiesi, irritato dalla sua calma.

— Non lo so — rispose di nuovo senza che la sua voce tradisse alcuna emozione.

— Joaz! — chiamai. — Cos’è accaduto? Siamo diventati tutti matti?

— No — disse. — Mantieni il controllo, Matthew. Penso che sia la droga.

— Vuoi dire che si tratta di allucinazioni?

— Oh, no. È reale. La droga sta affinando la nostra percezione e la sta estendendo lungo la linea del tempo. Tutti noi riusciamo a vedere di più, a capire di più. Disponiamo di una percezione più profonda, non solo più estesa. Forse abbiamo anche più forza.

— Ma perché voi riuscite a vedere e io no? — volli sapere.

— Ci stiamo adattando più velocemente. Ci vuole tempo, Matthew.

Scossi la testa. Il buio intorno a me cominciava di nuovo a spaventarmi. — Andiamocene — dissi. — Alla luce del giorno. Ovunque, ma lontano da qui.

— D’accordo — disse John, e continuò a tenermi la mano, mentre ci lasciavamo alle spalle l’oscurità e io incominciavo di nuovo a vedere.

Ma non volevo guardare, mi bastava sapere che potevo farlo. Ero molto stanco e volevo solo dormire. Mi sentivo la testa strana e pesante. Mi resi conto che mi appoggiavo a John e che mi sorreggeva con entrambe le braccia.

— Va tutto bene — disse. — È solo questione di tempo. Col tempo capirai. È una questione di adattamento. Presto dormiremo.

Non ricordo di essere andato a dormire. Non ricordo di aver fatto un’altra sosta, ma ricordo che, quando mi svegliai, ancora non sapevo cos’era successo all’uomo e alla donna, o a me, sulla collina.

Incominciavo solo a rendermi conto che il futuro era un luogo a noi estraneo. Un posto strano e orribile che avrebbe potuto dissolversi in un caos del tutto al di là della mia comprensione.

Ero consumato dalla paura. Ma c’era John accanto a me, John che era pronto e ansioso di conoscere tutto ciò che era nuovo, che voleva scoprire mondi alieni e nuovi concetti.

Avevo sempre avuto bisogno di John.

E, sapevo, ne avrei avuto bisogno sempre.

16. L’unicorno

La vegetazione si estendeva intorno a noi in un fitto intrico verde e marrone. Rami snelli e flessuosi ricadevano dai tronchi degli alberi sfiorando il terreno, si attorcigliavano formando archi aerei, intrecci e alveari di un verde cupo. L’erba cresceva ovunque non vi fossero i tronchi, raggiungeva i rami degli alberi e avvolgeva le foglie più basse.

Ci fermammo in una piccola radura ricoperta di muschio verde scuro e di felci simili a ventagli che spuntavano dal terreno come foglie gigantesche. Sotto il muschio vi erano pietre piatte e traballanti che spiegavano l’assenza di erba e di alberi. Tra le pietre spuntavano fitte famiglie di funghi e altri saprofiti erano abbarbicati ad alberi morti e moribondi.

Minuscole goccioline di umidità si trascinavano faticosamente lungo i viticci, mentre piccoli rivoli d’acqua scorrevano tra le fessure della corteccia verso il terreno fradicio. Tutta la foresta era stata recentemente inzuppata da una pioggia abbondante.

Non ci sedemmo, ma ci fermammo per guardarci attorno.

— Un tempo qui c’era una costruzione — commentò Xavier.

— Ne resta proprio poco — disse Joaz. — Probabilmente era già ricoperta di vegetazione anche nel nostro tempo.

— Quanto tempo fa? — domandai. — Dove pensate che siamo arrivati?

— Non lo so — rispose Joaz.

— Ha importanza? — domandò John.

— Mi sarebbe piaciuto saperlo — dissi, imbarazzato. Sembrava che loro si fossero adattati in fretta… persino il lento, pacioso Xavier. Vedevano più di me, avevano in mente uno schema già pronto nel quale collocavano ogni nuova esperienza. Non capivo cosa mi mancava, ma sapevo che loro tre erano in possesso di una qualche facoltà che finora non avevo scoperto. Niente li sorprendeva. Niente li spaventava. Non facevano domande, però avevano ben poche risposte. Pensavo che la visione del passato mi avesse insegnato molto, ma evidentemente non abbastanza.

Certo restava il fatto che loro tre avevano sentito il bisogno di intraprendere questa missione. Faceva parte di loro molto prima che la iniziassero. Ma io non ne sentivo il bisogno, non era la mia missione. Ero un passeggero. Forse non avevo il diritto di comprendere.

— Non ci sono insetti — dissi.

— È bagnato — mi fece notare Xavier. — Non ci si aspetta di vederne.

— Non ce ne sono nemmeno sui tronchi. L’aria è limpida, ma non vi è nulla che vola.

— Be’ — disse Xavier con una certa logica — dubito che gli insetti si siano estinti dall’ultima volta che ci siamo fermati.

Continuai la mia ispezione. John parlava con Joaz a bassa voce. Avrei potuto sentire quello che stavano dicendo, se avessi voluto, ma non me ne diedi la pena.

Nonostante l’umidità e la monotonia dei colori, il posto mi parve molto bello. Veli di nebbiolina salivano dal suolo verso l’aria calda offuscando la cortina di verde e mitigandone l’intensità del colore. A parte il debole rumore dell’acqua che gocciolava sull’erba c’era un gran silenzio. Non vi era vento a far frusciare i rami né animali a scuoterli.

Eppure qualcosa si muoveva.

Di sfuggita, con la coda dell’occhio, intravidi una sagoma, ma fu sufficiente a farmi cambiar strada per inseguirla. Non sapevo cosa potesse muoversi così silenziosamente nel folto della vegetazione, ma ero certo che fosse reale e non uno scherzo delle ombre.

Avvicinandomi maldestramente al luogo dove avevo visto il movimento, spaventai la creatura che, prima di fuggire, si fermò un istante a guardarmi.

Era un animale piccolo e snello, simile a un cavallo ma delle dimensioni di una lepre. Sul dorso la pelliccia era color bronzo, mentre sul ventre sfumava nel bianco dell’ermellino. L’animale aveva una lunga criniera argentata e luminosi occhi color rame. La coda ondeggiava come una fiamma d’argento, oscillando e sventolando, mentre l’animale si allontanava velocemente tra i rami intricati senza muovere nemmeno una foglia.

Lo vidi per un istante mentre saltava nell’impenetrabile vegetazione, ma di una cosa ero sicuro: tra le orecchie appuntite della creatura c’era un corno perlaceo, sottile e ritorto, che risplendeva riflettendo sulla sua superficie lucida e levigata la luce del sole.

L’animale era un unicorno. Ma se quello era l’unicorno delle leggende che avevo sentito in gioventù, allora i miti avevano travisato tutta la realtà tramandandone una pallida versione.

Mi allontanai con riluttanza, sapendo che non potevo inseguirlo, e ritornai dai miei compagni.

— Ho visto un unicorno — dissi, incerto. Non sapevo se aspettarmi canzonature o totale indifferenza.

— Dov’era? — domandò John.

— Nella foresta.

— Sei sicuro? — chiese da parte sua Joaz.

— Sono sicuro.

Scrutarono gli alberi intorno a noi. Non si udivano rumori, niente si muoveva. Mi rendevo conto che Joaz e Xavier avevano assunto una posizione neutra: non erano scettici ma allo stesso tempo non mi credevano. Solo John era convinto che avessi visto davvero l’unicorno. Mi conosceva abbastanza bene da saper interpretare la mia voce.

— Come può una leggenda del passato diventare una realtà del futuro? — domandai.

John mi scrutò attentamente. — Qui, tu sei diverso — disse. — Al monastero, tra le montagne, e anche molto prima di allora, non facevi mai domande. Conoscevi già tutte le risposte che ti interessavano. Qui ti guardi continuamente intorno alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre in cerca di spiegazioni.

Era vero. Mi piaceva sapere dov’ero e cosa stavo facendo. Mi ero sentito a mio agio nel mio tempo, avevo conosciuto il mondo e ciò che conteneva. Non avevo mai dovuto sorprendermi né cambiare idee. Non mi ero mai sentito come ora, fin da quando ero bambino.

— Non è una risposta — gli feci notare.

— Ci sono molteplici realtà, Matthew — disse Joaz. — Forse nel tempo tutti i sogni possono avverarsi.

— Ma non c’è stato il tempo! — dissi. — Negli ultimi giorni ci siamo appena mossi, rispetto a quello che abbiamo visto nelle prime ore, quando il passato ci scorreva accanto. E anche a quella velocità la vita si evolveva lentamente.

— La vita — disse Joaz — ma non l’Uomo. La vita dell’Uomo era invisibile. Matthew, non sappiamo se le ere che abbiamo visto in poche ore sono trascorse più velocemente dei minuti che adesso pensiamo stiano scorrendo a una velocità normale. Il tempo non procede in modo costante, non te ne sei accorto? Dell’“adesso” non possiamo dire a quale distanza sia rispetto a quando siamo partiti, né che l’inizio del tempo sia molto più oltre. Il tempo non è distanza, Matthew. Non è una dimensione, una misura, una quantità fissa. È una percezione del tutto nuova. Non riesci a usare gli occhi e vederlo?

— No — confessai. — Non ne sono capace. Non ci riesco affatto. Non vedo altro che confusione e sconcerto.

— Povero Matthew — intervenne John. — Osservare con tanto impegno e vedere così poco.

Sorrise ironicamente. A un tratto mi sentii un bambino e lui era l’adulto che mi sorrideva dall’alto della sua esperienza e della sua sicurezza. Era così che gli apparivo, quand’era più giovane?

— Vorrei non essere mai venuto — dissi.

Era un’affermazione sacrilega che rattristò subito John. Sapevo che si sentiva responsabile della mia presenza. Sapevo anche che mi voleva lì, al suo fianco, per assistere alla realizzazione del suo sogno. Se mai il suo sogno si fosse realizzato.

— Mi dispiace — dissi. — Non volevo dirlo, ma è tutto così strano. Siete cambiati moltissimo, e ora siete molto più avanti di me. Non riuscirò mai a capire. Sono fuori posto. Non sono nel mio tipo di mondo. Sono un peso per voi.

— No — disse John. — Non un peso, ma una fonte di forza. Abbiamo tutti bisogno di qualcuno a cui appoggiarci, Matthew. Quanto più abbiamo delle necessità tanto più abbiamo bisogno dell’appoggio di qualcuno. Questa ricerca non può avere successo senza di te. Forse, alla fine, avremo bisogno dei tuoi occhi per sapere che ci siamo riusciti, e non dei nostri. Vediamo cose diverse, ma questo significa solo che insieme vediamo di più.

Era sincero. Avrei voluto potergli credere, ma sapevo che da lui avevo sempre tratto la mia forza. Era possibile che due persone traessero ciò di cui avevano bisogno l’una dall’altra? Da dove veniva tutta questa forza?

Non sapevo rispondere, non era il tipo di problemi per me. Non ero un pensatore, non nel modo in cui lo erano Joaz o Alvaro. Ero un uomo normale e tranquillo che viveva la sua vita, invece di cercarla.

Un tempo era John a essere perso nel mio mondo. Ora ero io a essere perso nel suo.

17. Altre terre, altri Signori

Il sole era una sfera cremisi nel cielo d’occidente. Una scia di nubi rosa e viola se ne stava immobile sotto il sole come un cuscino sul quale riposare. Nella penombra dell’est altri ciuffi di nuvole sorgevano dalle montagne schiudendosi come fiori. In alto il cielo era più limpido, interrotto solo dalla faccia argentea e sfregiata della luna al suo zenit. Era una luna assai più grande del normale, e a occhio nudo mostrava molti più dettagli della sua superficie inalterata nei secoli. L’uomo che sorrideva e la vecchia signora con il suo fardello di fascine che ero solito vedervi da bambino non erano più visibili. Sebbene le fattezze del satellite fossero le stesse, ora la sua vicinanza creava l’illusione di sinuosi dragoni cinesi che combattevano contro oscure figure blu incappucciate come monaci.

— Non è affatto quello che mi aspettavo — si lamentò Fra Xavier asciugandosi il sudore che gli colava sulle guance. Il viaggio iniziava a pesargli parecchio. Xavier non era in piena salute e cominciava a sembrare spaventato e riluttante. Mentre peggiorava, io mi ero acclimatato un poco, e ora provavo pena per lui.

— Altre terre — disse Fra Joaz, come se quella fosse una spiegazione sufficiente. John non fece alcun commento. Entrambi soffrivano per il caldo, ma non così tanto come il grassoccio Xavier.

— Forse è un’illusione, o forse no — commentai. — Non durerà per sempre. Ci dev’essere qualcosa al di là, qualcosa al di fuori.

Xavier restava in silenzio, risparmiando il fiato per camminare. Non appariva per nulla rassicurato. Aveva sul viso una smorfia di sofferenza, ma non chiese di riposare. Ci eravamo già fermati una volta in quella terra desolata che sembrava estendersi all’infinito nel tempo e nello spazio.

Anche con la luce del sole e della luna la Terra era poco illuminata. Il sole era molto fioco e la luna, nonostante la vicinanza, sembrava meno nitida e più rossastra. Una terza fonte di luce proveniva da sud, come una delicata e farinosa bufera di neve, da un’aurora scintillante sospesa sull’orizzonte come un’acconciatura fissata da un nastro. Non vi erano nuvole intorno, ma il cielo era macchiato di rosso e marrone, come se nell’aria vi fosse un pulviscolo o una rifrazione negli strati più alti dell’atmosfera.

Il terreno su cui camminavamo era scuro e solcato da mucchi cristallini simili a cera, infidi da attraversare, che mi facevano dolere gli occhi se li guardavo troppo a lungo. Non sapevo dire se la causa fosse la luce riflessa o una proprietà di quelle strane pietre. Grandi montagne, che sembravano avere la stessa composizione, cingevano l’orizzonte con massicci irregolari e creste frastagliate. Anch’esse scintillavano come per la neve, ma a quella distanza la luce era facilmente sopportabile. Le montagne sembravano mozziconi conici di candele consumate, e avevano spigoli arrotondati, come se fossero state levigate da un forte calore. Rivoli di roccia fusa si erano solidificati mentre scorrevano lungo i pendii e la pianura nero-rossa.

Il resto del terreno piatto era coperto di lava nera, cosparso qua e là da bianche incrostazioni di ghiaccio. Quei tratti, lo sapevamo per averli attraversati, erano duri ma friabili, cedevano sotto i piedi e rendevano più difficile il cammino. Dalla consistenza quella roba bianca sembrava sale, ma mi convinsi che fosse una sorta di cenere.

L’aridità e la desolazione erano di gran lunga la cosa peggiore che avessimo incontrato fino ad allora, e detestammo ogni istante trascorso in quel luogo, sebbene occasionalmente rimanessi colpito da formazioni di particolare bellezza e persino da una strana nostalgia. In genere, però, il paesaggio era solo malinconico.

— Non riesco a capire cosa abbia causato tutto questo — disse a un certo punto Xavier. — Non ho visto niente. E voi?

— Assolutamente niente — risposi. — Siamo arrivati troppo in fretta.

Gli altri due parvero più riluttanti a confessare che la loro onniscienza e capacità di comprensione avevano dei limiti.

— Non so cosa sia successo — confessò Joaz — ma si trova tra noi e il nostro destino. Possiamo evitarlo nel tempo o attraversarlo nello spazio.

— Non può durare per sempre — aggiunse John.

Xavier si lasciò cadere a terra, pieno di gratitudine, quando John, dopo questo commento, fermò Joan per riposare un momento.

— Non fermatevi troppo per me — disse Xavier senza pensarlo veramente.

— No, certo — rispose John. — Siamo tutti stanchi e abbiamo bisogno di riposo.

— Vi sto facendo rallentare.

— No, non è vero. Usciremo presto da qui. Non dobbiamo farci prendere dal panico.

— Nemmeno a me piace — confessai. — Non so cosa sia. Mi fa paura.

— Lo so — disse John. — Siamo tutti spaventati, ma dobbiamo attraversare questo tratto e lo attraverseremo in un modo o nell’altro. Abbiate fede.

Borbottai qualcosa riguardo a quello che pensavo della fede, ma sapevo che per Joaz e per Xavier era una cosa importante, e non volevo che mi sentissero. Voltai loro le spalle perché non vedessero l’espressione di disapprovazione che mi attraversò il viso e mi misi a osservare il paesaggio.

Era come se si fosse ghiacciata una lacrima nella grande pupilla della Terra. Poco più in basso rispetto a dove ci trovavamo, a circa un chilometro e mezzo, c’era un grande vortice vitreo. Sembrava essersi bloccato di colpo, come se all’improvviso il tempo si fosse fermato lasciandolo in sospeso. Dal vortice si dipartiva un fiume di ghiaccio grigio che aveva arrestato il suo corso fissandolo in una cascatella ghiacciata, mentre le sue onde s’infrangevano in statici spruzzi bianchi. Il fiume scompariva nelle pieghe rocciose lungo la riva di un lago circolare. Proprio davanti a noi, un altro “fiume” scorreva lontano sull’epidermide silicea della pianura. Fin dove arrivavo con lo sguardo l’acqua grigia e ghiacciata del fiume era screziata d’oro e di blu. Più lontano, il fiume si divideva in centinaia di piccoli rivoli, ciascuno splendente come argento satinato e in argini color della ruggine e del nero della cenere di legna.

Tutto immobile. Una promessa di vita che niente lasciava pensare sarebbe stata mantenuta.

Ghiacciato e statico com’era, con quelle increspature imprigionate e trattenute, il fiume presentava una barriera invalicabile al nostro stanco cammino. Mantenere l’equilibrio su quella superficie, con le suole lisce dei nostri sandali, sarebbe stato assolutamente impossibile. Ma dovevamo attraversarlo. Sapevo che l’impresa non sarebbe stata spaventosa come pareva da lontano. Il ghiaccio si sarebbe rivelato resistente. Solo da quella distanza l’illusione che avremmo camminato sull’acqua poteva sembrare vera.

Tornai a guardare quel vortice solido inciso sulla superficie levigata di un ampio bacino che riceveva l’afflusso di una moltitudine di corsi d’acqua minori e trascinava le loro acque nella stasi vorticosa intorno al gorgo.

Striature rosse e arancioni, che scorrevano incerte nella fioca luce del sole e della luna, si univano a verdi rivoli cristallini per riversarsi al centro del lago. Scie vitree bianche e rosa ruotavano e si intersecavano formando nel centro del vortice spirali scintillanti. Bagliori di un blu acqueo risplendevano come vetri di bottiglia colorati nella mutevole luce o brillavano, con un colore turchese più tenue, all’interno di un blocco di ghiaccio scuro. E i gialli roteavano e abbagliavano… si mescolavano alle sfumature più chiare o ai contorni viola… poi prendevano a turbinare… finalmente in movimento…

Ma era solo illusione.

Mi strofinai gli occhi e asciugai il sudore dalla fronte e dalle tempie, stanco di seguire il vorticare di quelle strisce di luce colorata. Mi sedetti accanto a Xavier che respirava con grande affanno, a occhi chiusi, come se avesse rinunciato alla speranza di raggiungere un’altra parte della pianura e a continuare il tentativo di proseguire.

— Non è così terribile — gli dissi.

— No — rispose lui, lottando per trovare le forze. — È solo questo malessere. Fa vedere le cose molto peggiori di quello che sono. Sto tentando di andare avanti, di capire. Ma è tutto a posto. Ogni cosa passa. Ci sarà un nuovo giorno, lo so, solo è così difficile sentirlo.

— Il tempo si è davvero fermato? — domandai guardando in alto l’immobile sole.

— Uno squarcio nel tempo forse — propose Joaz. — Ma molto più probabilmente il problema è in noi. C’è qualcosa di sbagliato, ma lo troverò. Credetemi, lo troverò. Non resteremo bloccati qui per sempre.

— Ma a cosa serve continuare il cammino? — domandai. — Xavier non può più andare avanti.

— Dobbiamo farlo — disse John con determinazione. — Non possiamo fermarci. Anche se ci sembra di non andare da nessuna parte, di non combinare nulla, dobbiamo continuare. La droga dipende molto dal nostro stato mentale. Come dice Joaz, l’errore, se di errore si tratta, è in noi. Dobbiamo avere coraggio. E fede.

— Forse l’errore è solo in uno di noi — suggerii con l’amaro in bocca.

John scosse la testa.

— Siamo un tutt’uno, Matthew, per il nostro intento. Uno e uno solo. L’errore è in tutti noi. Siamo tutti l’uno nell’altro.

Chinai la testa per evitare il suo sguardo fisso su di me. Sapeva che non capivo ciò di cui stava parlando, ma per lui non aveva importanza. Forse, a modo suo, lui era tutti noi. Desiderai di avere un po’ di lui in me ad aiutarmi e a guidarmi.

Ora Joaz stava fissando lo stesso punto che fissavo io poco prima. Sembrava paralizzato, come del resto lo ero stato io.

Al centro di quel turbine di colori vi era una profonda depressione, di un nero intenso, che scintillava come ebano nella luce fioca. Il laghetto, nella sua confusa asimmetria, era disposto intorno a questo perno. Sebbene non riuscissi più a vedere la formazione di ghiaccio, continuavo ad avere nella mente immagini che si ravvivavano e svanivano seguendo il battito del mio cuore. Era come una ruota da preghiera le cui lodi erano colori. Era come uno specchio che rifletteva il mondo intero. Con uno sforzo di volontà cercai di liberarmi la mente. Le immagini vi si aggrapparono disperatamente, ma alla fine furono dissipate.

— Sembra — dissi — che guardare le cose richieda molte più energie di quanto dovrebbe, come se osservare significasse partecipare attivamente.

John mi sorrise, come se avessi detto qualcosa di grande importanza. — Hai ragione, Matthew. Hai ragione.

— Il sole non si muoverà più? — sussurrò Xavier.

Con due dita gli toccai la fronte. Era molto calda, troppo calda.

— Dobbiamo andare — disse John.

— No! — protestai. — Non puoi. Lo ucciderai.

— Moriremo tutti, se restiamo qui.

— È questione di poche ore, non può succedere niente.

— No! Può succedere eccome, e succederà. Dobbiamo andare. Quello che importa sono le nostre menti, non i nostri corpi. Coraggio, fede e speranza, è questo ciò che conta. Dobbiamo proseguire!

Ci ritrovammo di nuovo in marcia, sebbene non ricordo come fosse stata presa la decisione, ma non attraversammo il grande fiume, non ci dirigemmo neanche dove puntavamo prima di fermarci, cominciammo semplicemente a camminare.

Passammo vicino al lago.

Tutto intorno a quel gioiello grezzo, tranne dallo stretto sentiero che stavamo seguendo, si irradiavano i fili d’acqua che lo alimentavano e lo avevano creato e che un tempo ne avevano sostenuto la vitalità. Questi torrenti compivano il loro misterioso pellegrinaggio da ogni punto della superficie terrestre, per offrire ognuno il proprio dono di prosperità e lucentezza. L’essenza delle acque della Terra era concentrata lì per elargire ciò che avevano raggiunto, per creare una divinità, un dio dell’acqua generato in una valle lontana, eterno in un istante senza tempo.

E il nuovo mondo era presieduto dai contorni sfumati del sole e della luna e da una mobile fugacità. Dalla loro unione nasceva lo splendore che la loro presenza rischiarava. Lì noi eravamo stranieri, non avevamo nulla a che fare con quel mondo. Per noi in pratica non esisteva.

— Non è il nostro mondo, Joaz — disse Xavier. — Non abbiamo alcun diritto qui.

— Dobbiamo proseguire — disse il frate, testardo. All’improvviso mi accorsi che anche Joaz era molto, molto stanco.

— Joaz, credi veramente che ce ne andremo mai da qui? — domandò Xavier con rassegnazione.

John, la guida, si voltò senza smettere di camminare e disse: — Dobbiamo avere fede.

E forse fu proprio la fede a condurci fuori da quel territorio e in un’altra epoca. Non ne sono sicuro.

18. La città della notte perenne

Incontrammo Raon il Reietto in una città dove, come lui stesso disse, era sempre notte. Era un’antica città, ma ormai eravamo nel più antico dei mondi, dove tutto era segnato dalle carezze di migliaia di anni. Non solo ciò che era stato costruito dall’Uomo, ma anche quello che aveva creato la natura.

Vivendo in un presente in perenne movimento avevo individuato nel tempo la più importante di tutte le cause. Il flusso del tempo, credevo, determinava cambiamenti, invecchiava tutte le cose e le faceva evolvere. Adesso ero incline a considerare il tempo come l’ultimo di tutti gli effetti: una classificazione arbitraria imposta all’incessante e casuale flusso degli eventi dalla pochezza della comprensione umana e dalla mancanza di prospettiva.

C’era ben altro che il semplice ticchettio di un orologio, nei secoli vissuti dalla città dove la notte era eterna.

Raon ci raccontò la storia della città. Parlava in prima persona, ma anche come se raccontasse un mito… qualcosa di non reale e tanto meno parte del suo passato.

— La vedevo cavalcare giù per il pendio ogni mattina — ci raccontò — quando le stelle più luminose erano ancora visibili nel cielo d’occidente e solo le vette dei monti erano illuminate dal sole. Montava un cavallo bianchissimo seduta su una sella dorata di cuoio levigato, e anche le sue vesti erano gialle e splendenti.

“Mentre cavalcava, la seguivo dal cielo, con le ali semichiuse per sfruttare il sostegno dell’aria e mantenermi alla sua andatura. La seguivo ogni giorno, dal momento in cui compariva fino a quando lasciava la valle, molto oltre questa città.

“Guardava in alto un paio di volte e sorrideva alla mia veglia solitaria, salutandomi con gli occhi. Allora planavo sulla brezza e restavo sospeso accanto al suo cavallo, parlandole della città, della valle e del mio amore per lei. E all’improvviso, a est, il sole faceva capolino all’orizzonte, indugiando mentre noi attraversavamo il mondo.

“Non parlava mai, mi sorrideva solamente. Le sue labbra erano lisce e morbide, il viso pallido, gli occhi azzurri. Ogni suo sorriso m’induceva a parlare in fretta e le mie parole mi uscivano di bocca con tale velocità che non sapevo più che cosa dicessi.

“Le raccontai della mia vita, quella di Raon il Reietto che volava nel cielo silenzioso della valle sopra le case degli uomini e sotto i rifugi delle aquile, perché uomini e aquile erano miei nemici. Le confidai cosa pensavo e cosa provavo quando mi lasciavo andare nell’aria carica di pioggia o quando volteggiavo sotto le nuvole luminose nelle notti di plenilunio. Le dissi che non ero né uomo né uccello, ma qualcosa di diverso. Non nuovo, perché la mia specie era sulla Terra sin dalla comparsa dell’uomo e degli uccelli.

“E lei sorrideva, come se capisse.

“Così le dissi che l’amavo, che era la donna più bella del mondo, che era una dea. La mia dea dell’alba, così la chiamai, poiché quello era il momento in cui compariva cavalcando sulla collina.

“A volte, alla fine della giornata, quando mi nascondevo dalla temibile umanità e dalle grandi aquile di montagna, mi domandavo se anche lei fosse una reietta a causa della sua bellezza. Per quale altro motivo cavalcava solo quando il sole raggiungeva la sommità della collina?

“Poi arrivarono i soldati e fui costretto a essere sempre guardingo, a trovare nuovi rifugi e a nascondermi in modo più astuto quando dormivo. Vivevo più vicino alle aquile, perché quelle erano meno pericolose degli uomini. I soldati percorsero la valle in lungo e in largo, mentre il sole riluceva sulle loro armature e dai loro occhi sgorgava solo odio. Consumarono le ricchezze della città e posero delle sentinelle a guardia del loro sonno.

“Inevitabilmente scoprirono la mia dea e le sue cavalcate solitarie alle prime luci del mattino. Negli attimi in cui riuscivo furtivamente a volarle accanto cercai di metterla in guardia.

“Non parole d’amore, ma di avvertimento. Però alle mie parole lei rispondeva ugualmente solo con il suo bel sorriso.

“Un giorno i soldati si appostarono per aspettarla, acquattati in silenzio tra i cespugli sul ciglio della strada, appena fuori della città. Sapevo che l’avrebbero fatto. Tenevano gli occhi fissi sulla sommità della collina o si guardavano con sicumera. Non si accorsero di me che mi libravo nel cielo, incurante per una volta dei loro occhi e delle loro frecce, e aspettavo freneticamente il momento in cui il suo vestito d’oro, illuminato dal sole nascente, sarebbe apparso sulla cima della collina.

“Quando finalmente lo vidi comparire, mi lanciai a capofitto verso di lei sfrecciando davanti al suo cavallo bianco per cercare di farla tornare indietro. Le gridai parole piene di angoscia, supplicandola di andarsene da lì.

“Ma lei mi rivolse quel suo meraviglioso sorriso e continuò ad avanzare. Mi lanciai più volte in picchiata, sforzandomi di farle capire il mio messaggio, dicendole nel linguaggio della disperazione che c’era pericolo, che non doveva proseguire.

“E lei ricompensò con mille sorrisi i miei sforzi.

“Quando raggiunse il luogo in cui erano nascosti i soldati, questi saltarono fuori e la disarcionarono. Io li assalii, lanciandomi contro le loro armature e allontanando con le mani le loro spade. Piansi mentre i loro colpi mi laceravano le ali, ma continuai freneticamente quella battaglia senza speranza. E piansi ancora di più per quello che fui costretto a vedere.

“Cercai di avvicinarmi al punto in cui giaceva a terra, dove i soldati ci avevano abbandonato al dolore e all’orrore. I suoi occhi erano chiusi e la veste dorata era macchiata di sangue dov’era stata strappata. Mentre le guardavo il viso, mi resi conto che, quando lei era comparsa sulla collina, il primo raggio di sole si era fatto strada nel cielo, ma che adesso era buio come a mezzanotte.

“Lei aprì gli occhi e sorrìse.

“Capii che il sole non sarebbe mai più sorto.”

Era una storia, e solo una storia, che Roan ci raccontò nell’oscurità stellata della città deserta. Ma il tempo, lo sapevamo, spesso si prendeva gioco della realtà e rendeva bugiarda la verità.

Cominciavo, credo, ad avvicinarmi ai miei compagni. Non avevo più bisogno di porre tante domande. Avevo imparato a non cercare ragioni, perché le ragioni erano solo le illusioni del nostro vecchio modo di pensare. Le risposte c’erano e ci sarebbero state, ma non era più necessario fare domande.

Xavier soffriva di una malattia che a poco a poco gli prosciugava le forze.

— Siamo tutti malati — gli disse Joaz. — Non è nulla. Forse il residuo di qualche malattia che abbiamo portato con noi dal nostro mondo. O forse un effetto della droga.

Raccontata la sua storia, Raon ci aveva lasciati per piangere in disparte su cose passate da tempo ma mai accadute. Restammo da soli nella città della notte eterna, abbandonata dagli uomini e dalle aquile quando il sole aveva smesso di splendere.

— Mi brucia lo stomaco — disse Xavier. — Sento come delle bolle che risalgono dalle viscere, si espandono nello stomaco e mi fanno male. Sto morendo.

Lasciai i due frati e raggiunsi John, intento poco lontano a scrutare il buio di quella notte senza stelle.

— Potrebbe non vedere mai la fine di questa notte — dissi, con la speranza di sbagliarmi.

— Siamo per sempre in stallo — disse John, mostrando il primo accenno d’impazienza dopo molto tempo. — Giorni che non finiscono mai e notti che non hanno mai fine. Dove può essere la nostra meta?

— Tu hai le risposte — replicai con una certa asprezza. — Tu hai la fede! Tu sai che possiamo e dobbiamo riuscire. Ora cominci ad avere dei dubbi? Rimpianti, forse?

Si voltò a guardarmi e nei suoi occhi vividi e infossati colsi un bagliore. John sembrava trarre forza dalle mie stesse parole, sia che lo incoraggiassi sia che lo rimproverassi.

— Stai molto male? — chiese. A modo suo era come se avesse detto: “Abbiamo tutti dei dubbi. E abbiamo fede”.

— Ho dei dolori, ma non molto forti, e un po’ di febbre. Il peso del viaggio si fa sentire.

— Già — disse lui. — Siamo tutti nelle stesse condizioni, eccetto Xavier che soffre di più. Potrebbe davvero essere la droga.

— Non ti sei mai lamentato — dissi. — E nemmeno Joaz.

— È tipico di Xavier lagnarsi — rispose. — Si è sempre fatto carico di fardelli altrui. Un uomo generoso è crudele verso se stesso, Matthew.

— Non saprei — dissi.

— Eppure sembri soffrire più di me.

— Non ti capisco.

John scrollò le spalle. — Siamo un tutt’uno, Matthew. Sono anche spaventato, ma non fa differenza. Dobbiamo andare avanti, finché non troveremo quello che stiamo cercando.

— Ma non Xavier — dissi. — Non possiamo lasciarlo qui?

— Sai che non possiamo.

Si allontanò e anch’io mi misi a fissare quell’oscurità infinita. “Niente alba” aveva detto l’uomo alato. Non ci sarebbero state altre albe. Non dubitavo che fosse vero, anche se un tempo avrei rifiutato immediatamente l’idea, invece di accettarla senza capirla.

— Aiutatemi — ci supplicava Xavier. — Aiutatemi.

Quelle parole mi scossero riportandomi alla realtà. Al monastero la gente rideva di Xavier. Era sempre malinconico, ma non rendeva tristi gli altri. Sentiva davvero le cose in modo più profondo rispetto a noi. Forse si era fatto carico di tutti i nostri fardelli, un peso che, se fosse morto, sarebbe ritornato a gravare su di noi.

Le sue invocazioni d’aiuto erano autentiche.

Tornai sui miei passi e mi inginocchiai accanto a lui. Anche John gli era accanto e Joaz gli teneva il capo tra le mani.

— Cosa possiamo fare, Fratello? — chiesi.

— Mi fa male — si lamentò. — Mi fa davvero male. Veramente. — Pareva disperato nel tentativo di convincerci, come se pensasse che non credessimo alla sua agonia.

— Dormi, Fratello — disse John stranamente.

— Sì, dormi un po’ ora che è buio — aggiunse Joaz. Prima d’ora non avevano mai voluto che qualcuno dormisse.

— Zitti — disse Xavier improvvisamente. Mi afferrò il braccio.

— Che c’è? — chiese Joaz quasi teneramente.

— Sento avvicinarsi qualcuno.

Si udì un suono distante e ossessionante, come un flauto suonato in sordina, senza melodia, senza cambio di tonalità. La nota aumentava e diminuiva d’intensità in modo irregolare.

— È un uccello — decretò Joaz. — Un uccello notturno.

— Sta albeggiando — disse John serenamente.

— Un nuovo giorno! — esclamò Joaz felice. — Xavier… — Guardò verso di lui, ma Xavier non ascoltava.

— Sta morendo lentamente — disse John.

Era questo che voleva dire quando aveva invitato Xavier a dormire.

Aveva ragione. Mentre il sole sorgeva, vedemmo Xavier scivolare nella più completa immobilità.

Fu Joaz, l’amico di Xavier, ad alzarsi per primo dopo aver appoggiato gentilmente la testa del morto sul terreno.

La città era stata completamente cancellata dallo scorrere del tempo.

— Il Reietto aveva detto la verità — dissi. — Per la città, almeno, era sempre notte.

19. Sotto stelle invernali

Nel crepuscolo dominava il grigio. Le pietre sgretolate, le finestre incrinate, l’edera che avvolgeva come in un sudario l’edificio… tutto era grigio. Di giorno avrebbe potuto dare una sensazione di serenità: un edificio frusto che mostrava la sua età nella polvere che il vento aveva eroso dai muri e nelle pietre che le bufere avevano scalzato dai bastioni e fatto cadere nel fossato pieno di fango secco.

Ma quando le ombre della sera e il pallido bagliore della luna scendevano sulla costruzione, i muri ormai sgretolati e i torrioni un tempo austeri assumevano un aspetto feroce, svettando fieramente nel cielo in un’eco di antiche glorie. Le fenditure che l’età aveva scavato erano nascoste da nere ombre taglienti che restituivano ai muri la loro antica solennità.

Alla luce del giorno la cittadella era un cadavere, un fragile guscio, sperduta e dimenticata. Ma la notte del nostro arrivo era ammantata d’ombra e, mascherata, aspettava baldanzosa lo scorrere delle ore notturne.

Sembrava che la luce effimera, apparsa solo dopo la morte di Xavier, ci avesse accompagnato da una notte a un’altra notte. Giungemmo alla cittadella per invaderla, penetrarla e rivelarne il vuoto, per dimostrare la sua vacuità e negarne la pretenziosità.

Il portone d’ingresso pendeva dai cardini, il ponte levatoio era stato da lungo tempo sostituito da pietre accatastate nel fossato asciutto per formare una strada rialzata. Di notte il buio avvolgeva quella zona e nascondeva abilmente il suo stato d’abbandono. Ma quella notte attraversammo quel manto invisibile, superammo il ponte di pietre, ci aprimmo un varco tra la porta scardinata e il freddo muro di pietra.

Nella destra Joaz reggeva una torcia per illuminare la strada, nella sinistra un lungo bastone per tastare il terreno. L’aria, carica di polvere, brillava alla luce tremolante della torcia. Ci fermammo per assaporare quell’atmosfera. Mi ero aspettato una sensazione di infinita tristezza e di maestosità ormai tramontata, ma restai deluso. Provai invece un sentimento di estraneità e di asprezza e di remoti ricordi.

Percorremmo facilmente i corridoi orientandoci senza difficoltà, ma la torcia raramente riusciva a illuminare il soffitto oltre al pavimento e sentivo che la nostra presenza nel castello era insignificante, esattamente come quella delle formiche o dei ragni che si muovevano freneticamente nelle sue cavità.

Giungemmo nel salone principale, un grande ambiente il cui soffitto era di sicuro il tetto della cittadella. Le pareti erano traforate da balconate e finestre che lasciavano immaginare la presenza di una moltitudine di stanze e stanzini raggruppati come un favo intorno al salone centrale. La stanza aveva sette lati, presumibilmente perché il numero sette aveva un significato mistico per gli architetti del castello che lo avevano progettato adottando una forma così inusuale.

Nel salone un tempo vi erano tavoli di quercia, sedie e panche, ma qualcuno, ormai morto da molto tempo, li aveva rimossi lasciando nella polvere piccoli segni sbiaditi. Rimaneva solo l’altare. Era un altare dedicato a una dea, le cui sembianze, ormai dimenticate, erano confusamente preservate da alcune immagini intagliate, in tempi e da mani differenti, su pannelli di legno posti verticalmente intorno alla pietra consacrata per sorreggerla. L’aspetto della dea era spaventoso, l’espressione adirata, ma il suo nome era troppo conosciuto, o troppo terribile, per essere inciso insieme alle fattezze e così era andato perso. Io però sapevo che non sarebbe stato piacevole sentire pronunciare il suo nome e sapevo anche che le sue sembianze, al di là di quelle immagini grossolane, sarebbero state altrettanto spiacevoli. Era una dea onorata dagli uomini, ma dall’essenza non umana. Gli uomini tendono a venerare ciò che vedono di più prezioso in se stessi o ciò che è del tutto sconosciuto e alieno a loro.

Joaz si fermò davanti all’altare per illuminare le incisioni ormai in parte distrutte. La forma della pietra sacra era semplicemente quella di un piedistallo di sette lati, convesso nella parte superiore. Su ognuno dei sette lati vi era un’immagine che raffigurava un aspetto della dea o una scena di adorazione, ma le incisioni di pietra erano state danneggiate maggiormente rispetto a quelle di legno, e il loro significato era ormai incomprensibile.

Joaz diede qualche colpetto alla lastra cercando di staccare col bastone appuntito le incrostazioni di polvere, ma la superficie esterna della pietra era fragile e si sgretolò, consegnando così altre immagini all’oblio.

Poi Joaz sollevò la fiaccola ed esaminò le incisioni in legno, fissandole nella memoria come se volesse essere sicuro di riconoscere la dea se mai l’avesse incontrata. Era molto silenzioso, dopo la morte di Xavier, e io temevo che adesso potesse toccare a lui. Sembrava che il fardello collettivo che Xavier si era assunto gravasse ora solo sulle sue spalle, e la malattia era evidente nel modo in cui camminava e nel modo in cui il suo viso era solcato dalla tensione.

Attraversammo le arcate in stile monastico, che sorreggevano la più bassa delle tante balconate affacciate sul salone, e l’irregolare labirinto di stanze poste a caso le une sulle altre, come una serie di blocchi caduti da una pila senza una simmetria o una logica apparente. Il percorso si articolava tra queste stanze, intrecciandosi e serpeggiando attorno al perimetro del castello.

John non mostrò la sua abituale impazienza. Sembrava aver accettato il fatto che non potevamo forzare il passo al fluire del tempo, ma piuttosto il contrario.

Talvolta passavamo accanto al grigio muro di cinta su cui il tempo aveva scavato piccoli buchi attraverso i quali filtrava la luce della luna, ma più spesso ci ritrovavamo all’esterno, sopra un alto muraglione, a guardare quell’oscurità che sembrava senza fine. Il battito regolare del bastone di Joaz ci rassicurava sulla solidità e sulla sicurezza della strada prescelta. Il nostro percorso si snodava in modo circolare, salendo impercettibilmente: un dislivello qui, un frammento di scala là. I muri erano spogli, senza muffe né parassiti, ma coperti da una polvere soffocante depositata dal tempo. I nostri passi echeggiavano debolmente mentre sollevavamo il tappeto di silenzio e calpestavamo la gelida pietra. Ma l’eco era attutita, smorzata dalla quiete del tempo. A volte i passi risuonavano come una litania di voci lontane e io risi un paio di volte a questo pensiero. Ma la mia risata produceva un’eco più aspra, simile al pulsare di piedi in movimento e a voci cadenzate che si alzano in una preghiera dalla melodia a note staccate, e dovevo fermarmi per permettere al cuore di riprendere a battere regolarmente.

Talvolta, attraversando una balconata o una nicchia che dava sul salone centrale, con la coda dell’occhio coglievo il bagliore di un’immagine, come se una fiamma proiettasse sul muro delle ombre sinuose. Ma quando mi voltavo, e con lo sguardo spaziavo su tutta l’apertura, mi accorgevo di essermi sbagliato. E quando una volta avanzai scrutando nella semioscurità, non vidi nulla salvo l’altare, che torreggiava invisibile, e la polvere.

Salendo verso la cittadella, questa impressione si accentuò sempre più. La litania, che cresceva e scompariva coperta dalla nostra eco, divenne più precisa, più simile a un linguaggio fluido e sconosciuto. Quando John ci fece fermare ad ascoltare quel suono, il misterioso canto continuò. In quel momento mi resi conto che sentivamo tutti la stessa cosa e che non era solo una mia illusione. La prima sensazione di debolezza ci obbligò a proseguire coprendo con i nostri passi e con lo struscio irregolare del bastone di Joaz il ronzio delle voci.

Anche le ombre, in alto sulle pareti della colonna ettagonale, presero forma, simili a figure che volteggiavano e si contorcevano seguendo la melodia del canto, con lunghi capelli fluttuanti e braccia flessuose che si muovevano come onde sul mare.

Ma quando ci fermammo per osservare più da vicino, quando tendemmo le orecchie per cogliere quel ritmo appena percettibile, c’erano silenzio e oscurità. E così proseguimmo, salendo in tondo, finché nelle nostre menti risuonarono suoni lontani e si riflessero immagini sfuggenti. Persino io avevo trovato il coraggio di soffocare la paura, ma in nessun caso gli altri sarebbero tornati indietro e quindi non avevo altra scelta se non quella di seguirli. John non sarebbe mai ritornato a vagare attraverso corridoi deserti né sarebbe uscito dal castello per immergersi nuovamente nella notte fino a quando non avessimo completato la nostra esplorazione.

Ma il tremolio di suoni e d’immagini persisteva. Non era la nostra fiamma a proiettare quelle ombre fugaci né l’eco del nostro movimento a creare quella cantilena ritmica. Era un altro tipo di eco: il riflesso del passato, un residuo che nascondeva il volto del tempo.

In sé le ombre non erano pericolose, non erano nemmeno spaventose o aggressive. Era la loro caducità e il fatto che non riuscivo a individuarne l’origine che mi disturbavano perché mi facevano dubitare di me stesso.

Uscimmo all’esterno da una finestra, una misera fenditura verticale costruita più per servire da feritoia che per lasciare filtrare la luce. C’era silenzio, fuori… la calma sonnolenta di una normale notte… e solo il bagliore di stelle invernali e la luce di quella strana luna disturbavano la tranquillità. Era lo stesso paesaggio che avevamo lasciato e la cosa mi tranquillizzò senza che riuscissi a trovare un motivo preciso.

Fu lì, nella parte più remota del grande salone ettagonale, che udii quelle voci musicali vibrare nelle mie orecchie e seppi con certezza che finalmente erano giunte e sarebbero rimaste. Per vedere le ombre proiettate dal fuoco non c’era un passaggio diretto verso il salone, così cominciammo a ritornare sui nostri passi per cercarle.

Salimmo fino alla balconata più alta. Questa era coperta da un tetto formato da travi enormi e da lastre di pietra e ardesia intonacate malamente, le stesse del soffitto del castello, e si trovava esattamente di fronte all’altare decorato. Adesso il ritmo era ben definito, così come lo erano coloro che cantavano e coloro che proiettavano le ombre. Joaz abbassò la torcia e la spense nella polvere. Era diventata inutile.

Di fronte all’altare c’era un enorme fuoco che protendeva in alto le fiamme e il cui fumo annebbiava la stanza e le dava un tocco surreale che nemmeno la mia immaginazione sarebbe riuscita a conferirle.

Intorno al fuoco e all’altare, accovacciate in semicerchio, ondeggiavano al ritmo di una cantilena alcune figure minuscole, simili a nani, la cui pelle liscia e sudata rifletteva la luce del fuoco. Piccoli crani rasati con occhi scavati e vivaci sormontavano corpi nudi e rachitici che oscillavano da una parte all’altra in perfetta armonia e con un sincronismo degno di un pendolo.

Fuori del semicerchio c’era un eterogeneo raggruppamento di fedeli: in quella notte d’uguaglianza, il ricco e il povero si prostravano insieme davanti alla loro divinità.

Uomini e donne vestiti di velluto, pizzo, cuoio e vacchetta sedevano come incantati di fronte alle fiamme impazzite e alla esasperante grazia dei sacerdoti che continuavano a oscillare. Loro però stavano immobili e non seguivano il monotono pulsare della preghiera che ormai doveva essersi impadronita delle loro menti gettandole in un caos di fanatismo in cui il mondo non esisteva più e la dea era tutto. Gli aristocratici e i poveracci, gli invidiosi e i buoni, gli astiosi e i gioiosi avevano tutti un’identica espressione, pensavano tutti la stessa cosa poiché quello era il momento dell’identità. Quello era il momento in cui ciò che rende una donna cieca e zoppa uguale a una principessa era posto forzatamente dinanzi alle loro coscienze.

Entro il confine segnato dal semicerchio di sacerdoti, all’interno dell’area dominata dalla grande dea, danzavano tre figure le cui ombre volteggiavano sul muro. Erano tre donne che mostravano un portamento eretto, movimenti aggraziati e una bellezza che risultava loro solo in parte. Appartenevano alla dea, erano la dea, poiché stavano all’interno del semicerchio. Per questa ragione non avevano sul viso l’espressione di adorazione ebete dei devoti, né erano cadaveri animati come quei sacerdoti-burattini che cantavano ottusamente. Le danzatrici erano completamente e assolutamente vive, godevano di una vita aliena e innaturale poiché ognuna di loro possedeva un eccesso di umanità. I loro visi erano i molteplici visi della dea, celestiali e soffusi, con uno splendore e una bellezza profani. L’ira delle immagini scolpite non appariva minimamente su quei volti, forse perché era riferita a un aspetto differente della dea, forse era simbolica, o forse dominava solo l’immaginazione dei vari artisti che le avevano create. Qualunque fosse la ragione, nella realtà questo sentimento non si manifestava affatto. Non che la dea fosse benigna: la statura delle danzatrici rifletteva potenza e grandezza, ma le emozioni non erano emozioni umane.

All’improvviso, con una grazia e una tranquillità inquietanti, una delle danzatrici si gettò volteggiando tra le fiamme. Sul raso delle sue vesti e sui suoi lunghi capelli serici sbocciarono immediatamente le fiamme e il corpo cominciò ad ardere. La danza continuò. Non era la danza spasmodica e rivoltante dell’agonia, ma una fluida espressione di vita.

Solo quando le fiamme la consumarono, la danzatrice cadde a terra per abbracciare più intimamente il fuoco e solo allora sembrò spirare. La sua morte non impressionò le altre danzatrici, né il coro di sacerdoti né i fedeli dallo sguardo vitreo.

A turno ognuna delle danzatrici si gettò piroettando tra le fiamme, conservando la vita per istanti infiniti per poi cadere silenziosamente, ridotta a scheletro bruciato.

Poi comparve la dea. Incarnatasi della sostanza del loro sacrificio, dell’odore della brace e del miasma del loro trapasso, emerse dalle fiamme. Non si trattava di un semplice agglomerarsi di fumo, né di un’immagine tra le fiamme guizzanti. La sua era una presenza reale quanto le sette pareti della sala, reale quanto la gente che l’adorava. La dea era comparsa nel momento in cui i tre riflessi della sua bellezza si erano uniti nel fuoco.

Si contorse lentamente in una grottesca parodia della danza dei suoi surrogati, intrecciandosi alle fiamme e ai vortici di fumo. Era gigantesca. Per quando racchiusa nell’alone di fiamme, con la sua magnificenza e la sua forza riempiva il grande salone. Era bellissima. Nessuna donna era stata mai raffigurata a sua immagine: la razza dell’Uomo era semplicemente altra sostanza su cui lei posava il tallone, l’argilla sotto i suoi piedi. Era viva ed emanava un’energia incredibile e vibrante che colmava i suoi devoti sviando i loro pensieri più ardenti e materiali per incanalarli verso una ricerca interiore.

Si voltò e i capelli lucenti le fluttuarono sulle spalle. Per un istante i suoi pallidi occhi marmorei incontrarono quelli di Joaz, che si sporgeva dall’alto della balconata togliendo la visuale a me e a John. Forse sul suo bel viso si addolcì quell’aria di comando, forse per un secondo vi comparve un’emozione aliena. In quel momento gli occhi di Joaz divennero fissi come diamanti e i tratti del suo viso furono identici a quelli delle centinaia di facce sotto di lui. La sua coscienza e la sua sensibilità parevano scivolare via a poco a poco e Joaz divenne uno di loro, uno dei devoti, dei pagani, degli idolatri…

Poi fu giorno e Joaz ritornò in sé. Intorno a noi vi era una palude coperta di pellicola argentea costellata da isolotti con pini contorti ed erba secca. A sudest splendeva un pallido sole invernale.

— Matthew — disse Joaz in un sussurro roco, pressante. John, dietro a lui, si teneva tra le mani la testa, come ubriaco.

— Sì.

— Siamo alla deriva. Alla deriva nel caos. Non è il futuro. Non lo è. Non c’è più alcun futuro. Il tempo si è fermato del tutto e la nostra percezione non è più affidabile. Trova l’Uomo Futuro, Matthew. Trovalo e dal caos scaturirà di nuovo l’ordine. Ma devi trovarlo.

— Lo troveremo, Joaz — promisi. — Lo troveremo.

Prima di morire, Joaz guardò John un’ultima volta. — Bada a lui, Matthew — disse.

— Lo farò — promisi ancora.

20. Cantore di sogni

C’è musica nella mia anima e poesia nel mio cuore…

Il sole, simile a una lanterna, pendeva stancamente nel cielo lilla e scivolava a poco a poco verso ovest. La musica aleggiò nell’aria umida. Madido in viso, risalii la collina. John era appena dietro a me.

Ma la musica è una parodia, la poesia una falsa riflessione…

Le note sembravano giungere da molto lontano anche se chi cantava non era distante. L’emozione che risvegliavano nella mia mente mi era sconosciuta, ma in un certo qual modo la identificai come nostalgia.

Nessun uomo che le conosca si vanta della propria arte…

Di certo nessuno dei miei ricordi poteva infondere un sentimento di nostalgia in quelle misteriose note. La loro bellezza e la loro particolarità le rendevano differenti da qualsiasi altra musica avessi mai sentito trarre da un’arpa.

Poiché in nessun modo egli può onestamente divenire artefice del proprio amore…

Ora riuscivo a vedere colui che cantava: una figura piccola, ingobbita, in una lunga veste bianca che gli ricadeva sulle spalle e proiettava ombre sull’arpa. L’uomo era a testa china e la scosse con forza appena staccò la vecchia mano dalle corde ancora vibranti. Era difficile immaginare che la sua voce avesse pronunciato quelle parole ammaliatrici o che le sue mani grinzose avessero accarezzato le corde in modo così sapiente. Eppure le note dell’arpa erano risuonate, le labbra dell’uomo si erano mosse.

Il vecchio mi vide. I suoi occhi erano infossati, quasi invisibili nel cranio, e messi in ombra da folte sopracciglia. Mentre mi avvicinavo, seguito da John, schiuse le labbra screpolate in una parodia di sorriso. — Cercate me?

— No, non in particolare — risposi.

Il vecchio annuì e restò a testa bassa, — Sono il cantore di sogni — disse con voce lenta e ovattata.

— Mi chiamo Matthew. Lui è mio fratello John.

— Perché siete venuti? — domandò il vecchio. La sua voce era aspra, per nulla somigliante a quella che avevo udito salendo la collina. Eppure era la stessa persona.

— Veniamo da molto lontano — dissi — in cerca di un essere di cui non conosciamo le fattezze.

— Allora come lo potrete riconoscere, quando lo troverete?

— Non lo so — confessai.

— Quando lo troveremo, lo sapremo — disse John. Parlò con la certezza che gli derivava dalla fede, ma io non ero altrettanto fiducioso.

— La gente venne per vedermi — disse il vecchio. — Per vedere uno strano uomo che ha vissuto per molte generazioni, che ha visto troppo e che canta con voci che non gli appartengono. Venne per osservare o per ascoltare.

Rimasi in silenzio.

— Ci sono sempre delle storie — disse il cantore di sogni. — Credete alle storie?

— Quali storie? — domandai.

— Sono un uomo anziano — continuò lui, senza badare alla mia domanda — e sogno. Me ne sto seduto con la mia arpa e ho delle visioni. Da dove vengano i sogni, non so. Come potrei saperlo? Li vedo come se fossero miei, ma essi non mi appartengono. Vengono dal passato e da lontano. Non sono miei… mi echeggiano solo nella mente. Non so dire perché.

“Quante cose ho visto! Molte non le ho potute capire, e molte non le ho volute capire. Ho vissuto per molti secoli e ho sognato, ma non posso capire.

“Un tempo quel sole…” Alzò la mano e indicò il sole cremisi. “Ricordo quando il sole…”

Lasciò cadere la mano senza terminare la frase. Ero un po’ spaventato. Anch’io ricordavo il tempo in cui il sole era di un giallo accecante, non rosso smorto come ora.

— Cosa sogni? — chiese piano John.

— Vi canterò un sogno — disse lui. — Quale sogno? Ditemi, qual è la cosa al mondo che temete di più?

— La solitudine — risposi; la risposta mi uscì così velocemente dalla bocca che nemmeno io ero sicuro che fosse la verità.

— Molto bene — disse sommessamente. — Vi canterò un sogno di solitudine. Di chi sia il sogno, non ve lo so dire.

Le dita nodose pizzicarono le corde dell’arpa. Il vecchio aprì la bocca e cantò. Non era la voce con cui aveva cantato prima, né la sua viva voce. Era una voce nuova, lamentosa, con forti accenti disperati.

Non c’erano parole nella canzone, ma la musica catturò la mia mente e fece sorgere in me delle immagini. Non saprei dire se sia stata l’arpa o la voce a incantarmi così. Forse le due cose insieme.

Nuvole temporalesche si ammassavano minacciose sopra un mare plumbeo solcato da un’unica nave. Aveva un solo albero e scarsa velatura, eppure scivolava veloce nel vento scricchiolando per la tensione. Tre procellarie le passarono accanto svolazzando all’impazzata sopra le onde lente e pesanti. In lontananza c’era una scogliera frastagliata e dentellata, alta e minacciosa. La nave correva verso gli scogli, e io sentii l’ambiguità della situazione: quella terra poteva significare salvezza o distruzione.

L’unico uomo a bordo non sapeva se sperare o disperarsi perché la nave si precipitava all’impazzata contro la costa sconosciuta. Le nubi, alte nel cielo, ribollivano in fermento, riversando sulle ali del vento una pioggia torrenziale.

Mentre la nave acquistava sempre più velocità, l’uomo sussurrò un nome una, due volte. Non pregava, la sua voce non era rotta dalla paura. Pronunciò solo un nome che evocava un antico amore ormai perduto e sogni infranti dal tempo. Balenarono i lampi e i tuoni inghiottirono il nome senza che riuscissi a distinguerlo chiaramente. La parete della scogliera incombeva sempre più vicina e terribile, il mare si aprì in spuma davanti alla nave mostrando denti neri e aguzzi che si protendevano dall’acqua per distruggere il vascello. Il veliero si scagliò contro il nero sorriso degli scogli e si disintegrò al primo impatto.

L’uomo scomparve e il nome che aveva pronunciato fu consegnato per sempre alle profondità del mare.

Il suono svanì, le corde vibrarono e tacquero. Il cantore di sogni, curvo sull’arpa, sembrava pietrificato.

— Cosa successe?

Il cantore di sogni non sollevò lo sguardo. — Morì. Penso che fosse un brav’uomo. Mi chiedo quale nome abbia urlato alla tempesta. Questo è tutto ciò che so. Vedo il cielo, il mare, la scogliera frastagliata. Ma non vedo cosa c’è dietro. Non posso leggere i pensieri di quell’uomo. Non conosco i suoi sentimenti. Non conosco nemmeno il nome che ha sussurrato, perso nel fragore del mare.

— Non eri tu quell’uomo? — domandai.

— Sì — rispose — ero quell’uomo. Sono stato un milione di uomini e donne. Vivo migliaia di momenti che non mi appartengono. Tutti loro sono me, ma io non sono uno di loro. Sono il cantore di sogni, e questo è tutto.

Le sue dita sfiorarono le corde, quasi senza volerlo, e di nuovo la voce, un’altra voce, mi rapì coinvolgendomi in un altro sogno.

Una ragazza alata era distesa sul ramo ricurvo di un grande salice piangente che cresceva accanto a uno stagno. Le ali azzurrine le pendevano mollemente dalla schiena mentre il suo minuscolo piede smuoveva la superficie dell’acqua. Il suo sguardo scrutava il cielo cristallino da sotto la chioma ondeggiante dell’albero.

Una collana di fiori dorati le cingeva le spalle e rampicanti fioriti formavano un’ampia veste che l’avvolgeva come una tunica. Un nauseante profumo di nettare aleggiava intorno a lei.

Lentamente la ragazza smise di contemplare il cielo, guardò in basso e rotolò giù dal ramo. Prima di toccare l’acqua, con un gran frullare d’ali simile al suono di un tamburo impazzito, si librò nell’aria, sfiorando lo stagno solo con la punta dei piedi.

Danzò e piroettò in alto, sopra i rami del salice. Si innalzò fino a diventare un puntino in un mare sempre più blu e continuò a salire e salire finché scomparve. Sebbene non ci fosse vento, i rami del salice sembrarono muoversi, poi fremettero e iniziarono a scuotere l’aria cercando di afferrare sette petali color rosa che scendevano fluttuando dal cielo.

Poi la ragazza precipitò. Il suo viso esprimeva con terrificante chiarezza un grande dolore. Il petto ansimava come per mancanza d’aria. Le minuscole mani afferravano convulsamente l’aria e le gambe si dibattevano. Ma la ragazza continuò a cadere nel vuoto come risucchiata da un vortice. Solo all’ultimo istante, quando sembrava ormai inevitabile che lei si schiantasse al suolo, il battito delle ali cominciò a produrre un effetto. La caduta rallentò; singhiozzando, la ragazza afferrò i rami del salice e vi rimase appesa, mentre i capelli le ricadevano sugli occhi e le ghirlande pendevano, strappate.

Tornò a sdraiarsi sul basso ramo del salice piangente. Le ali azzurrine, percorse da un leggero fremito, si ripiegarono, fragili e inutili. Le sue lacrime incresparono la superficie dello stagno, rigandole le guance mentre scrutava il cielo cristallino fra l’amorosa chioma dell’albero.

— Era una driade — spiegò il cantore di sogni dopo che l’immagine scomparve. — Era legata all’albero, non poteva lasciarlo. Per questo le ali non le erano di nessuna utilità.

— Hai dei bellissimi sogni — gli dissi.

— Non sono io — rispose. — Sei tu che hai dei bei sogni. Tu e tuo fratello. Tutti e due. Sono tutti sogni vostri.

— Non ne hai nessuno tuo? — gli chiesi.

— Solo uno.

— Raccontamelo.

— Questo è mio. Però l’arpa deve suonare ugualmente. Ascoltate.

Le nuove note mi colpirono le orecchie e mi riempirono gli occhi di lacrime. Cantava con una nuova voce, una voce che era allo stesso tempo sconosciuta e familiare, tanto che mi toccai le labbra per vedere se fossi stato io a cantare e non lui. Mi calmai quando la musica s’impadronì di me, si concentrò sul mio essere, mi turbinò attorno. Per un istante mi chiesi se anch’io facessi parte del cantore di sogni, se anch’io fossi un personaggio delle sue storie. Poi ci fu solo la musica…

Ero in un giardino con fontane dorate sormontate da pennacchi di vapore e sottili spruzzi d’acqua. Ero venuto a cercare qualcosa che con gli anni avevo dimenticato. Ed ero venuto anche a cercare qualcosa di nuovo, qualcosa che esisteva solo in quel giardino e in quel momento. Ero venuto a cercare qualcosa che mi ero lasciato alle spalle molto tempo prima. Un viso, un ricordo, una persona. Ero venuto a seppellire i miei rimpianti, a ripensare a un amore che sarebbe potuto essere mio e a chiedermi perché, tanto tempo prima, lo avevo perso. Sapevo perché. L’ambizione, o qualcosa di simile, mi aveva portato tra braccia infide e condotto lontano per inseguire un fuoco fatuo, un sogno vano di cui nemmeno conoscevo la forma.

Non ero venuto a chiedere perdono, ma speranza. Che, tra le due cose, lo sapevo bene, era la più importante, poiché tornare nei ricordi è impossibile, mentre sapere che il futuro ha ancora in serbo qualcosa per te è fede. Mi chiedevo per quale ragione mi battesse il cuore, per quale ragione continuassi a brancolare nel buio cercando la luce del giorno.

Si dice che la speranza batta eternamente nel petto dell’uomo, ma io sapevo che non è così. Infatti non nutrivo più speranza: il mio cuore era prigioniero del rimorso e non avevo sogni da realizzare. Avevo cercato la piena affermazione di me stesso, ma ero giunto alla conclusione che la potevo trovare solo lì, nel giardino.

Chiesi di fendere con il suono e con la vista la nebbia che mi avvolgeva. Chiesi di essere liberato dalla mia prigionia. Chiesi a un ricordo di schiudere le labbra di lei, di lasciarmi udire le lacrime nei suoi occhi. Chiesi speranza.

Non udii altro che il sibilo indifferente della fontana. Ma poi avvenne qualcosa di nuovo, qualcosa di strano. Le maree del tempo cambiavano direzione. L’aria aveva ali di canto…

— Matthew — era la voce di John. — È solo un sogno. È finito.

Vedevo ancora il villaggio vicino ai tre picchi.

Sentivo ancora il suono magico dell’arpa.

Mi voltai verso il cantore di sogni, i cui occhi erano nascosti dalle folte sopracciglia bianche.

— Quel sogno era tuo o mio? — gli domandai.

— Mio, te l’ho già detto — rispose. — Ma forse anche tuo. Per quale motivo non possiamo trovare noi stessi nei sogni altrui?

Gli ultimi brandelli del sogno svanirono dalla mia mente. Le corde dell’arpa sospiravano nel vento, ma io sapevo che già da tempo avevano smesso di vibrare.

— Com’è finito? — gli chiesi. — Dove è finito? — Alla fine del sogno non ero più sicuro di quello che avevo visto, se fosse stato frutto della mia immaginazione o no.

Il cantore di sogni sollevò lo sguardo e vidi i suoi occhi. Erano viola scuro, il colore del cielo della sera. Erano umidi di lacrime e le pupille sembravano capocchie di spillo. Rimasi immobile, non provai a riprendermi da quello stato di intenso shock emotivo in cui mi aveva lasciato il sogno. In quel momento pensai di essere vicino alla morte.

— Lei era morta — disse semplicemente il cantore di sogni.

Nessuna ricompensa. Nessuna redenzione. Nessuna speranza. Nessun ritorno. Una sola direzione. USCITA dall’altra parte della porta.

— Era morta.

Quelle parole, pronunciate per la seconda volta, finalmente mi raggiunsero: barcollai in preda alle vertigini. I miei pensieri erano confusi, mescolati a strane emozioni e nuove implicazioni.

John mi abbracciò.

— Non l’hai visto? — gli chiesi.

— Ero lì.

— Era il mio sogno.

— Sì, lo so. Me lo ricordo.

— Era il mio sogno.

— Era anche il suo — disse John. — Non sei solo. Non c’è niente di nuovo.

— Non ci credo.

— No — disse — suppongo di no.

Il cantore di sogni rimase seduto, immobile come una statua di marmo, ancora un minuto. Poi il suo vecchio corpo parve semplicemente afflosciarsi. Le labbra tremarono, i fili bianchi della barba vibrarono come corde d’arpa. La schiena sussultò, mentre lunghi, dolorosi singhiozzi minacciavano di schiantare quelle vecchie ossa.

— Era morta — ripetei lentamente, e cominciai a capire.

21. Il mare di sangue

La torre si ergeva solitaria nell’oceano come un ago conficcato nella sonnolenta superficie di un mare color del vino. L’acqua, di un rosso cupo, rifletteva l’immagine di un cielo rossastro.

Le nuvole, simili a grandi chiazze marrone bruciato, si trascinavano stancamente per il cielo unendosi e staccandosi, e lasciavano nell’umida atmosfera una scia di perle rubiconde frutto della traspirazione aerea. Nella parte di cielo scoperta comparivano strisce e striature, macchie e chiazze di rosa tenue, di rosso acceso e di un bel rosso magenta. All’orizzonte la polvere sembrava un fastoso drappeggio che rifletteva la luce rossastra del cielo e delle nuvole.

Il mare pareva uno specchio di vetro fuso rosso ciliegia dai riflessi accesi, calmo e immobile come uno stagno. Non c’era vento a turbare la sua serenità, niente era visibile sotto la sua piatta distesa. Non galleggiavano alghe, né si vedevano guizzi di pesci argentati intorno alla base cilindrica della torre.

Rosso, rosso dappertutto; il cielo, le nuvole, la polvere. Persino la lucente torre d’acciaio risplendeva di rosso poiché non vi era altro colore da riflettere. Avevamo l’impressione di galleggiare in un liquido racchiuso in una boccia di cristallo rossa. Il mondo sembrava una ferita aperta che versava sangue arterioso.

Guardavamo increduli le pigre nuvole agitarsi nel cielo e urtarsi in una fuga frettolosa, come se un’improvvisa folata di vento le avesse sospinte e poi abbandonate all’improvviso. I vapori che si dileguavano dai contorni delle nuvole si dissolvevano come fumo, ma la massa delle nubi rimaneva inalterata.

Poi la superficie dell’oceano mostrò una certa turbolenza, e lentamente comparve un’increspatura, poi un’altra, e un’altra ancora… e il mare si risvegliò violentemente mentre il cielo riversava su di noi una pioggia di sangue. Le gocce offuscavano il paesaggio e lo trasformavano in uno scenario informe. A quella distanza ravvicinata riuscivamo a vedere attraverso la cortina di pioggia. Erano gocce d’acqua, non di sangue.

Mi voltai verso John, che stava accanto a me, mentre il cantore di sogni si era tenuto a una certa distanza lasciandoci soli a osservare.

— È reale? — domandai in generale, rivolgendomi poi al cantore di sogni. — O è un’altra delle tue illusioni?

— Tutte le mie illusioni sono reali — affermò il vecchio canuto.

— Ma siamo qui o tra qualche istante ci risveglieremo ritrovandoci sulla stessa collina?

— La collina è svanita — disse il cantore di sogni. — Siamo qui, in questo luogo.

— Allora anche tu puoi muoverti nel tempo?

— Non esiste più il tempo — mi rammentò John.

— Non lo so — confessai. — A volte una cosa sembra essere il tempo, altre volte sembra esserlo un’altra. Se il tempo non esiste, cosa cambia? Ma se il tempo esiste, perché non possiamo vedere i cambiamenti?

— È il caos, Matthew — rispose John. — Il tempo era solo “l’ordine” degli eventi, un’imposizione dell’uomo. Abbiamo sempre dovuto rendere artificiale il mondo per poterlo comprendere perché le nostre menti non sono in grado di accettare la realtà. Gli animali procedono per istinto, stimolo e reazione. Noi procediamo per il Tempo: la disposizione dei cambiamenti si adatta al nostro sistema artificiale chiamato logica, o ragione, o causa-effetto. La nostra percezione è mutata. Abbiamo visto troppo. Abbiamo visto cose che non possono adattarsi allo schema e la nostra mente lo ha abbandonato del tutto. Lo schema ha funzionato solo in modo parziale, all’interno di un campo assai ristretto. Gli altri viaggiatori nel tempo non si sono spinti abbastanza lontano, non hanno visto abbastanza. Che la tua vita sia di settanta o di duecentosettant’anni fa poca differenza. Abbiamo visto tutto, Matthew, dall’inizio alla fine, miliardi di anni. Siamo venuti per vedere, siamo venuti per cercare risposte, non per fuggire. Abbiamo perso il tempo. Per sempre.

Allora, mi domandai, come avremmo mai trovato quello che eravamo venuti a vedere? Se eravamo in balia del caos, come avremmo individuato un essere ben preciso? Prima di morire Joaz mi aveva dato una risposta: “Trova l’Uomo Futuro, lui porterà ordine nel caos. Alla fine del caos c’è un nuovo ordine, l’ordine di una percezione completamente nuova”.

Ma era vero? Come poteva saperlo Joaz?

John non lo sapeva. Era chiaro. Lui aveva sempre la sua fede, ma nulla di più. Il suo sogno si era dimostrato troppo grande per lui. Aveva lottato tanto per cercare di vedere e di capire, ma non vi era riuscito. Avrebbe rinunciato definitivamente se non fosse stato per la fede.

Come aveva detto John, eravamo venuti per cercare delle risposte, non per fuggire. Ma lo avevamo fatto? John aveva tentato di fuggire ma aveva fallito. Per molti anni anch’io avevo cercato una via di fuga interiore, non esteriore, dal sogno che il vecchio e la sua arpa mi avevano riportato alla mente e dalla sua tragica conclusione. Nessuno di noi due, credo, era venuto solo per trovare risposte.

Ma ormai erano rimaste solo risposte. E sogni. E fede.

— Non so perché il cielo è rosso — stava dicendo a John il cantore di sogni. — Non capisco. Eppure sono stato io a creare questo mondo. L’ho plasmato con la mia arpa.

— Allora è solo un altro sogno? — domandò John.

— Non lo so — confessò il vecchio. — A volte non sono sicuro di quello che creo.

John mi diede un’occhiata penetrante ed espressiva che però non riuscii a interpretare. Per evitare il suo sguardo mi voltai verso la finestra e osservai le enormi gocce cadere dalle nubi scure e velare con gli spruzzi la superficie dell’acqua. Cadevano sempre più veloci e sempre più fitte, come se il cielo cercasse di liberarsi in pochi minuti di un pesante fardello. E mentre guardavo, lentamente, cominciò a spiovere.

Il cielo e l’orizzonte ritornarono visibili ma non ben definiti, poiché il rosso non è un colore violento, ma ora li vedevo, non erano più confusi in tutto quello scompiglio. A qualche centinaio di metri dalla base della torre, una testa nera, tonda e lucente come quella di una foca, irruppe improvvisamente in quel mondo tutto rosso. Emerse dalle onde su un collo serico che, come quello di un serpente, sembrava non avere mai fine. Affiorò sempre di più finché finalmente la parte superiore del tronco affusolato del mostro marino si trovò fuor d’acqua. Il resto del corpo massiccio rimase nascosto sotto le onde rosse, mentre le piccole increspature sollevate dalle enormi pinne si diramavano tutto intorno.

— Ce n’è un altro — disse John, che intanto mi aveva raggiunto, quando l’apparire della creatura mi aveva lasciato senza fiato. Indicò un’altra testa nera che emergeva dal mare.

Le bestie sembravano sorridere in maniera stupida, avevano occhi minuscoli e piccole orecchie ai lati della testa. Nell’insieme assomigliavano alle foche e anche la loro pelliccia, liscia e lucente, era caratteristica di quella specie. Solo il lungo collo e la stazza imponente le rendevano diverse. Mi domandai se fossero i loro antenati. O forse i loro discendenti. O semplicemente il risultato di una coincidenza dovuta a un adattamento simile.

— Mi chiedo cosa siano — disse pensoso il cantore di sogni. A volte dava l’impressione di essere onnisciente, altre volte pareva un bambino stupito davanti a ogni cosa. Sembrava avere tante menti quante voci.

— I tuoi sudditi, creatore — rispose John. Non saprei dire perché avesse deciso di prendersi gioco del vecchio. Forse si erano detti altre cose mentre ero immerso nei miei pensieri.

Il cantore di sogni non gli badò e continuò tranquillamente a osservare gli animali.

John si studiò con attenzione il palmo della mano, forse pentito per ciò che aveva detto o forse per noia.

— La vita continuerà sempre a esistere nel mare — dissi guardando le bestie andarsi incontro nel mare rosso. — Anche se non ci sarà un Uomo Futuro, la discendenza non morirà. La razza umana diverrà semplicemente un ramo collaterale, un tentativo fallito. Dal mare uscirà qualcos’altro.

— Questo non dev’essere — affermò John.

— Perché no? La tua Confraternita predica l’umiltà e l’accettazione. La razza dell’Uomo non è l’inizio e la fine di tutto. Perché dovremmo rivendicare un posto nella linea principale? Non è vanità anche questa?

— Ma tutti quegli sforzi andati sprecati, quel potenziale inutilizzato!

— Niente è sprecato, John, perché il tempo è qualcosa di artificiale. Non è importante ai fini della strategia della vita — gli dissi con un atteggiamento vagamente trionfante per aver vinto quello scambio di battute.

Mi guardò di nuovo e i suoi occhi, sempre più infossati, sembravano accusarmi e insieme ammettere lo sbaglio. Per un attimo pensai di avere invaso il terreno della sua fede, ma non era questo che gli passava per la mente.

— Stai migliorando, Matthew — disse.

— Il malessere è scomparso dopo la cittadella della dea — dissi.

— Non è questo che intendo.

In effetti avevo immaginato che non si riferisse al mio stato di salute. Perché il ragazzo doveva sempre parlare per enigmi, come se la vita stessa non fosse già un dramma dai molteplici significati?

Il cantore di sogni osservava gli animali muoversi lentamente in ampi cerchi, come se si inseguissero a vicenda senza essere veramente intenzionati a raggiungersi. Muovevano le minuscole teste da una parte all’altra.

— Sai cosa stanno facendo? — domandò il vecchio all’improvviso.

Osservai la scia circolare per un istante. — No — risposi.

— Stanno facendo l’amore — disse, e ridacchiò sotto la barba. John sospirò.

Il cielo si era aperto rivelando l’occhio tondo e rosso del sole. Ma c’era ancora foschia e continuava a cadere una pioggerellina leggera. Un arcobaleno attraversava il cielo verso nord. Era un arcobaleno rosso, un arco gigantesco che faceva una promessa al Genere Umano morto da tempo. Sorrisi ironicamente a quell’ambasciatore del creatore di caos.

— Eccoci qui alla deriva nel sangue del mondo — disse il cantore di sogni pervaso da un nuova riflessione. — E per quel che ci importa, potrebbe anche essere acqua.

L’affermazione non mi sembrò molto divertente e non risi. C’era un legame che non potevo capire, tra il cantore di sogni e quel mondo. Forse lui e la sua arpa l’avevano davvero creato. Forse nel mondo non erano rimasti che lui e l’eco dei suoi sogni.

22. Il lago di luce

Dall’alta torre che si ergeva solitaria nel mare di sangue, John, il cantore di sogni e io giungemmo al lago di luce. Niente si frapponeva, eppure ebbi l’impressione di aver fatto molta strada, di aver scalato alte colline e attraversato folte foreste, e che il cantore di sogni avesse trasportato la sua arpa per molti chilometri. Cominciai a chiedermi se la memoria non mi giocasse brutti scherzi.

Avevo la sensazione di conoscere il cantore di sogni molto meglio di quello che la nostra breve conoscenza poteva far supporre. Riuscivo a richiamare alla mente immagini del suo vagare nel mondo (il nostro mondo, da cui eravamo partiti per questo folle pellegrinaggio) senza che nessuno osasse discutere il suo diritto di passarvi o mettesse in discussione la sua bizzarra comparsa. Riuscivo a vederlo camminare a grandi passi con l’arpa tra le braccia, arpa che però non gli pesava, anzi che pareva in qualche modo sostenerlo. Non soffriva mai la fame né la mancanza di un letto per la notte, ma non lo vidi mai maneggiare del denaro. Talvolta, in quelle sere che sembravano irreali, intonava melodie lente e gravi che parlavano di altri viaggiatori e di terre fantastiche. Ma c’era sempre un accenno di vissuto nelle sue parole, un’emozione così vera che avrebbe potuto essere la mia, un elemento di quotidiana banalità nel grottesco scenario dell’immaginazione. Quelle canzoni per me erano così reali che mi sforzavo di ricordare in quali tempi potevo averle già ascoltate.

Riflettei sulla possibilità che i miei ricordi fossero solo i sogni e che quei ricordi fantasma fossero reali… che non avessimo mai viaggiato nel tempo. Ma l’ipotesi non mi soddisfaceva. Mi pareva probabile che una parte del cantore di sogni filtrasse in me, che l’assorbimento di parti di altri uomini, di sogni di altri uomini fosse così grande che la personalità stessa e l’esistenza del vecchio fluivano lentamente in una sorta di scambio.

Mi domandai, soprattutto, se il cantore di sogni non potesse essere l’Uomo Futuro. Ma John non si espresse in proposito e io avevo paura ad azzardare una simile ipotesi. Una cosa era chiara: adesso era il cantore di sogni a guidarci. John, che era sempre stato la guida e lo stimolo, aveva assunto un ruolo secondario, lasciando che fosse l’altro a scegliere la via da seguire e a fornire la forza motrice.

Il cantore di sogni sembrava sapere dove stava andando, benché non avesse mai menzionato a nessuno dei due una destinazione precisa. Ritengo possibile che seguisse quella strada solo perché gli era stata assegnata e come noi non avesse idea di dove conducesse.

Quando giungemmo sulle rive del lago di luce, però, seppi con certezza che quella era la fine, che qualcosa nel bagliore perlaceo di quell’irreale mare di colore poteva fornirmi un indizio, una risposta. Come saremmo salpati per navigare su quella conca di luce non lo sapevo, ma sapevo che al momento giusto, passeggiando sulla spiaggia, avremmo trovato il modo per farlo. La mia sola spiegazione a queste sensazioni e a queste strane certezze era che si trattasse di informazioni che filtravano dal cantore di sogni o dalla sua arpa.

Camminammo per chilometri lungo la spiaggia dorata, volgendo continuamente lo sguardo ai bagliori del lago velato di foschia. Le nostre orme sulla sabbia erano profonde e solitarie, e si allungavano dietro a noi fino a essere inghiottite da una nebbia di luce colorata. Mentre camminavamo notai nelle acque vorticose del laghetto delle forme modellate da una sostanza simile all’argento vivo. Vidi dei visi che esprimevano emozioni, persone e non-persone che mimavano strani gesti avvolti da una luce misteriosa.

Sentii che c’era un’affinità tra il lago di luce e l’arpa: ciascuno era a proprio modo lo specchio e la memoria di una razza la cui esistenza scorreva nel vecchio, sotto forma di sogno. Mi chiesi se il lago avesse il proprio cantore di sogni, un vettore umano per il suo pozzo di conoscenza e di emozione.

Improvvisamente ci imbattemmo nella barca. Era una piccola imbarcazione a remi, ma senza remi, che pareva stranamente comune e ordinaria in quel mondo fantastico al di là del vasto dominio del Tempo. Silenziosamente, ma con un bagliore negli occhi violetti e seminascosti, il cantore di sogni si sedette a prua e si sistemò accuratamente l’arpa tra le gambe. Io e John ci sedemmo di fronte a lui sull’altro sedile senza sapere che cosa fare, aspettando di vedere cosa sarebbe successo.

Lentamente, senza la minima increspatura del fumoso mare di colore, la barca cominciò a scivolare sul lago di luce. All’improvviso ci ritrovammo in mezzo alla nebbia. Non riuscivo più a vedere la spiaggia da cui eravamo partiti né il luogo verso cui ci dirigevamo. Anche il cielo era caoticamente ingemmato dalla vivida aurora boreale.

Il silenzio mi opprimeva. Il cantore di sogni non cambiò mai posizione né disse una sola parola. Le corde dell’arpa erano immobili e io desiderai che il vecchio suonasse, che evocasse un sogno antico e familiare per bandire dalla mia mente quel luogo. Quasi senza volerlo allungai la mano e pizzicai le corde, un gesto che prima non avrei mai osato compiere. Il cantore di sogni mi fissò senza sorpresa né rabbia, ma sentii che le corde si erano irrigidite: non riuscii a farle vibrare.

Girai le spalle ai colori che baluginavano accanto alla barca. Vidi nuovamente dei visi nella nebbia, volti silenziosi che comunicavano tra loro ma non con me.

Poi, più per rompere quel silenzio opprimente che per convinzione, dissi: — Penso di avere visto una faccia che conosco.

— Li conoscevo tutti… un tempo — sussurrò il cantore di sogni. Mentre ci immergevamo sempre di più in quel caos di colori, la nebbia divenne così fitta che la sagoma del vecchio a prua andò sempre più confondendosi con un pulviscolo luminoso che si muoveva lentamente ora illuminandolo, ora facendolo sprofondare nell’oscurità più cupa, mantenendo però sempre quell’effetto cangiante e caleidoscopico che mi confondeva e mi spaventava più di tutti gli strani fenomeni legati al cantore di sogni.

— Quanta strada dobbiamo percorrere ancora? — chiesi infine.

— Non più del necessario — rispose il vecchio dall’oscurità. Di sicuro aveva colto la paura nelle mie parole poiché soggiunse: — Dimenticate che vi sia un uomo in queste ombre colorate. Non cercate di vedermi perché più ci provate più sarà facile che mi perdiate.

Ero felice della presenza di John accanto a me, potevo sentirlo e vederlo senza pericolo di perderlo nella nebbia; ma anche i suoi lineamenti cominciarono a tremolare e a cambiare, quando la luce iniziò a modificare in modo bizzarro quei tratti che sapevo essere reali e concreti: immaginai che fossero semplicemente illusioni.

Talvolta il cantore di sogni scompariva quasi del tutto, assumendo delle pseudo forme, come quella di una scimmia o di un grosso uccello. Una volta si trasformò in un’arpa, e io sentii quasi le corde vibrare, ma il silenzio prevalse e l’illusione scomparve in un istante. Mi chiesi quali strane forme plasmate dalla nebbia i suoi occhi vedessero in noi.

Alla fine fu la confusione ad avere la meglio. — Non riesco più a distinguere nulla — dissi.

— Nemmeno io — mi fece eco John. — Ma se vuoi, puoi chiudere gli occhi e affidarti agli altri sensi. Io sono qui, accanto a te.

— Hai gli occhi chiusi? — volli sapere.

— Sì.

Lo imitai. Potevo sentire il solido legno della barca sotto i piedi e le natiche. Potevo sentire i miei vestiti a contatto con quelli di John lungo tutto il lato sinistro. Mi sembrò di riuscire a sentire anche il suo respiro.

— È reale — dissi. — È reale.

— Nulla è reale, eccetto una sola cosa, e questa cosa è più di voi, di me o del lago di luce — disse il cantore di sogni.

Non gli badai.

— L’arpa è reale, vero? — domandò John.

— Una parte. L’intero universo ne è una parte.

— E cos’è questa cosa?

— Lo vedrai a tempo debito. La nostra traversata è quasi finita.

Entrambi ricaddero nel silenzio e io rivolsi l’attenzione alla luce che ci avvolgeva, pronto a richiudere gli occhi nel caso mi fossi sentito nuovamente confuso o spaventato. Il mio mondo sembrava una lastra di vetro crepata qua e là, argentata per formare specchi in miniatura e trasparente al punto che riuscivo a vedervi l’eternità. A volte la luce echeggiava, risuonava e fluttuava, come se in quello schema ci fosse una logica che mi sfuggiva. Sembrava che tutte le proprietà ascrivibili alla materia, allo spazio e al tempo intesi come entità ben distinte, fossero qui riunite in un’unica forma basilare.

Lentamente la nebbia cominciò a diradarsi. I contorni del cantore di sogni sfumarono nelle stesse forme abbozzate in precedenza, in un tormentoso chiaroscuro, poi infine nelle sue sembianze originarie.

Dall’aria scomparvero gradatamente mosaici di colori, e le facce svanirono in lontananza. Eravamo soli.

— Là — indicò il cantore di sogni.

Sembrava una città: minareti e pagode, guglie e spigoli vivi, tutti di una sostanza simile a una luce colloidale, come se il lago si fosse rappreso in una serie di dipinti tridimensionali.

Per un istante capii qualcosa dell’affinità tra il lago e l’arpa che il cantore di sogni portava sempre con sé. Nel lago c’era tutto quello che si poteva “vedere” nel mondo. Nell’arpa c’era tutto quello che si poteva “sentire”. Un diversivo dei sogni, ecco cos’era.

— Hai creato anche questo! — lo accusai.

— Sto cercando di farlo — disse lui. — Ma è molto difficile. Sto tentando di completare la mia opera ma ci sono talmente tante cose da fare. Un giorno però costruirò molto più di questa città. Costruirò l’intero universo. Creerò qualcosa di cui l’universo sarà solo una parte.

— Cos’è questo posto? — domandò John, che contemplava la schiera di torri e cupole.

— È mio — rispose semplicemente il vecchio cantore di sogni.

— Ma cosa dovrebbe essere? — insistette John, in tono pressante, come se fosse sul punto di scoprire qualcosa di importante. Non avevo certo bisogno di chiedere cosa fosse.

— È tutto me stesso. Il mio sapere, i miei ricordi, le mie emozioni, le mie molteplici forme. È ogni mio pensiero espresso in un’entità singola, ogni mio sogno realizzato. È il limite della mia creazione.

— Il limite? — domandò John amaramente. — Non potrà esserci altro? Sei vecchio, ma non stai per morire.

— Non ho più tempo.

— No — disse John con un accenno di rassegnazione.

Rimasi in silenzio, seguendo le infinite rotondità della città.

— Non sei l’Uomo Futuro, vero? — continuò John. Ora aveva un tono triste, non accusatorio. Aveva smesso di prendersela con il cantore di sogni per ciò che non era. — Sei solo un’altra tappa sul cammino. Sei più di noi ma non sei ancora abbastanza.

— Le cose non cambiano così in fretta, John — gli ricordai. — Ci vuole tempo.

— Non c’è tempo. Tutti i cambiamenti sono qui.

— Ma ci sono ancora delle tappe, dei livelli intermedi. L’Uomo Futuro deve svilupparsi, John.

— Ma è qui, da qualche parte.

Mi chiesi se lo fosse veramente.

Guardai il cantore di sogni che avvolgeva le sue dita contorte intorno all’arpa e la stringeva a sé. E se lui fosse davvero divenuto l’Uomo Futuro, cosa sarebbe accaduto adesso?

Proprio così, cosa sarebbe accaduto?

— Mi dispiace — disse il cantore di sogni risvegliando le corde dell’arpa e riempiendo con una melodia maestosa e trionfale quel silenzio opprimente. — Sono solo quello che sono.

23. L’ultimo uomo

L’uomo risalì la collina e ci venne incontro. Il cantore di sogni canterellava a bocca chiusa, seguendo la dolce melodia dell’arpa, ma senza mai distogliere lo sguardo dallo straniero. L’uomo alto, bruno, cadaverico aveva capelli corti e braccia anormalmente lunghe.

— Io ti conosco — disse al cantore di sogni.

Il vecchio fermò le corde dell’arpa. — Sono il cantore di sogni.

— E io sono l’ultimo uomo — sentenziò lo straniero con pretenziosità. Mi guardò come per sfidarmi a contraddirlo, e io non riuscii a sostenere il suo sguardo. John invece lo sostenne, ma non aprì bocca.

— Cosa vuoi da me? — gli domandò il cantore di sogni.

— Voglio viaggiare con te per un po’. Penso che tu mi possa portare là dove devo andare.

— Hai una meta? — chiese il vecchio appoggiandosi all’arpa. — Di quale meta può aver bisogno l’ultimo uomo? Dov’è questo posto in cui devi andare?

Gli occhi scuri dell’uomo si chiusero. — Allora non mi ci condurrai?

Il cantore di sogni rise sommessamente. — Ma certo.

— Ma certo — gli fece eco l’altro. — Non puoi dirmi di no, vero?

— Perché dovrei farlo? Sono vecchio, ho vissuto novecento anni e in me vivono e scorrono innumerevoli secoli precedenti. E ora tu sei l’ultimo uomo, a parte i viaggiatori nel tempo. Ti porterò ovunque tu voglia andare.

L’ultimo uomo scosse lentamente la testa. — Novecento anni — ripeté, ma non lo disse con reverenza, come aveva fatto il cantore di sogni, né con soggezione, come avrei potuto dirlo io, ma con tono neutro, come se la semplice menzione del tempo avesse perso significato. E forse era davvero così. Mi chiesi se sarebbe rimasto impressionato sapendo quanti anni avevamo visto scorrere io e John. Probabilmente no.

— Dove vuoi andare? — domandò ancora il cantore di sogni.

— Dove solo l’arpa può condurmi.

Il vecchio annuì. Senza altre parole prese l’arpa e cominciò a discendere la collina. In quel punto il mare era nascosto da un’altura, ma sapevo che eravamo a un centinaio di metri dalla spiaggia. John aveva seguito il vecchio, e sembrava ancora contento di seguirlo, anche se ormai aveva abbandonato l’idea che forse avevamo trovato l’Uomo Futuro.

L’ultimo uomo camminò accanto a me per alcuni minuti, poi raggiunse il cantore di sogni e si pose a fianco a lui.

Dinanzi a noi c’era il gigantesco occhio del sole: ma ogni volta che lo guardavamo sembrava emanare sempre meno luce. Adesso era rosso scuro. Alle nostre spalle c’erano montagne e foreste. Eravamo giunti in una terra che assomigliava a quella che avevano abbandonato, e qui non c’era nulla che non avessimo già visto nel nostro tempo. Il caos era composto di frammenti di ogni luogo e non tutto era stato riplasmato da creatori come il cantore di sogni.

In quel punto la costa era una lunga linea continua di scogli neri. Non vi erano spiagge ma solo piccole insenature dove si depositava la sabbia. Giungemmo a una cornice di roccia. In basso le fosche onde lambivano senza vita la parete butterata della scogliera. Il cantore di sogni posò l’arpa e si sedette, fissando tristemente l’acqua torbida e opaca. Mi disposi ad aspettare, facendo come sempre affidamento su John che di certo sapeva quel che faceva perché quello era il suo pellegrinaggio.

Lo spilungone non si dimostrò altrettanto paziente. — Cosa stiamo aspettando?

— La marea — rispose il vecchio. Teneva il mento appoggiato sulla mano segnata da cicatrici, e la sua voce parve soffocata dall’intricata massa della barba.

— Nonostante il potere dell’arpa dobbiamo sottostare alla marea? — domandò con disprezzo e con un pizzico di acredine l’ultimo uomo, ma alla fine accettò la situazione.

— Suona, mentre aspettiamo — disse John. Forse per questo seguiva ancora il vecchio. Pensava che il segreto potesse risiedere nei sogni che riecheggiavano dalla mente del cantore.

Il cantore di sogni sistemò l’arpa tra le ginocchia e allungò le dita sulle corde. Le sfiorò delicatamente e quelle sussultarono emettendo la loro melodia. Le molteplici voci del vecchio si unirono alla musica e il rumore del mare svanì completamente.

Ero appollaiato su un edificio di una città di vetro e d’argento. Torri enormi, guglie e minareti si innalzavano, collegati da lunghi filamenti d’argento che avvampavano e pulsavano nel sole di mezzogiorno. Era il vecchio sole: il sole giallo e luminoso. Nella piazza sottostante, ornata di statue di cristallo, c’era un laghetto limpido. Il terreno era simile alla fluida trasparenza del vetro azzurrino. Le cime degli alti grattacieli splendevano e luccicavano come gemme dalle numerose sfaccettature. E ovunque c’era luce, non esisteva il buio, né angoli d’ombra perché quella città emanava una luce propria.

Questo era un sogno di John, era ovvio. Il suo vecchio sogno, il sogno che ancora covava da qualche parte nella mente, l’Età dell’Oro, l’Epoca delle Conquiste dell’Uomo.

Su uno dei grattacieli vicini quattro persone affacciate al balcone guardavano il cielo blu e luminoso. Erano vestite in modo sfarzoso, con fluenti abiti bianchi e porpora, con braccialetti d’oro e colletti di trine. Calzavano sandali cristallini e portavano brache di seta iridescente. Avevano addosso numerosi ninnoli e gioielli. L’unica donna del gruppo portava enormi orecchini di brillanti e anelli con ametiste, rubini e zirconi. Sul capo portava una tiara scintillante tempestata di diamanti.

Anche gli uomini avevano anelli di lucide pietre preziose, ma portavano corone d’oro e d’argento intrecciati a spirale. Avevano al collo opalescenti catene luccicanti. Si sporgevano all’indietro per guardare in alto e con le loro mani, forti e sottili, stringevano la ringhiera del balcone. Avevano tutti lineamenti piacevoli, viso ben abbronzato, occhi splendenti come i loro gioielli, labbra carnose e rosse come rubini, sopracciglia scure e aggrottate, capelli neri come l’ebano… quelli degli uomini arrivavano fino alle spalle, quelli della donna ricadevano in trecce lucenti lungo la schiena. Ogni loro atteggiamento esprimeva freschezza e vitalità.

“Oh, John” pensai “perché il tuo sogno deve essere così impossibile? Non poteva esistere un’età trionfale senza questi ornamenti e questa esagerata perfezione? È troppo vuota, John, troppo lontana.”

Improvvisamente uno stormo di uccelli scuri attraversò velocemente il cielo e scomparve dietro gli edifici. Un minuscolo aeroplano di metallo scintillante entrò nel mio campo visivo mentale. Una forma piccola e scura stava scendendo lentamente. I miei occhi misero a fuoco una creatura dalle grandi ali che lentamente planava sulla città puntando verso il tetto del palazzo su cui eravamo noi. Al primo sguardo mi parve un grosso uccello, ma presto mi resi conto che aveva le sembianze di un uomo alato, come Raon il Reietto della città della notte. Per un istante pensai che potesse essere Raon, che John inserisse nuovi incontri in vecchi sogni, ma non era Raon, era molto più robusto.

Volava in posizione verticale, braccia conserte sul petto, e perdeva lentamente quota come una foglia d’autunno. Aveva scorto qualcosa nella città e parve guardare dritto verso di me. Mi chiesi se fossi visibile ai suoi occhi quanto lui lo era ai miei.

Nel cielo abbagliante, molto più in alto dell’uomo-uccello in planata, vidi un secondo puntino nero muoversi con decisione sopra le torri a pinnacolo.

In quello stesso momento i quattro spettatori si accorsero di me: evidentemente avevano seguito la direzione dello sguardo dell’uomo-uccello. Ero visibile: una piccola misera figura sul tetto di un palazzo di una città perfetta. Di sicuro ero parso loro incredibilmente strano nei miei vestiti sporchi per il viaggio. Ma era questo ciò che vedevano? Non ne potevo essere certo. Forse videro tutti noi quattro. Per un attimo parvero eccitati, poi tornarono a guardare il cielo e cominciarono a mostrare segni di agitazione.

Il puntino nero più in alto si abbassò permettendoci di vedere che si trattava di un altro uomo alato. Questo si mise a girare in tondo e poi, per un istante, indugiò nell’aria allineandosi alla mia posizione e a quella del primo uomo volante. Quest’ultimo si avvicinò a me sbattendo le ali con indifferenza, come per verificare più da vicino quella strana visione.

Vidi il suo corpo nudo, le gambe deboli e magre con tre dita per piede, le mani dalle dita sottili e affusolate e le braccia muscolose e potenti. Vidi le protuberanze delle scapole dove le grandi ali coperte di lucide penne si estendevano dal corpo, e i muscoli eccezionalmente sviluppati del torso e della zona lombare dell’uomo.

Il secondo uomo-uccello ripiegò le ali in modo che le alule si toccassero e le primarie s’inclinassero orizzontalmente rispetto al corpo, e scese a perpendicolo come un sasso.

L’uomo rimasto sospeso in cielo mi guardò con espressione confusa. Aveva occhi piccoli e scuri che scintillavano di curiosità e la fronte increspata da minuscole pieghe. Le ali, aperte e piegate, battevano piano, ritmicamente, per sostenerlo meglio.

I quattro al balcone osservavano affascinati, e i loro occhi sembravano brillare per l’emozione.

Volevo urlare un avvertimento ma non avevo voce.

Il secondo uomo alato sopraggiunse. Allargò di scatto le ali per frenare la picchiata poi, avvicinandosi all’altro uomo-uccello, cominciò a sbatterle freneticamente proprio sopra quest’ultimo. Con dita munite (lo notai all’improvviso) di artigli d’acciaio artificiali cominciò a graffiargli la schiena.

L’uomo colpito protese indietro e in alto la testa e contrasse i potenti muscoli. Il cacciatore risalì con movimenti circolari e vibrò gli artigli affilati, squarciando la gola indifesa della preda. Dal collo sgorgò a fiotti sangue arterioso, di un rosso brillante. Le membra del ferito furono percorse da uno spasmo e il suo corpo cominciò a precipitare. L’altro completò con una picchiata la manovra e afferrò abilmente per le ascelle la vittima; poi, battendo le ali anche più velocemente, inondato dal sangue che gli si riversava addosso, cominciò a planare verso i quattro falconieri in attesa.

E la scena terminò.

Seguì un lungo silenzio, mentre le onde lambivano la roccia sempre più in alto. Sporgendomi dallo spuntone di roccia riuscii a immergere le dita nell’acqua. Cercai di vedere cosa vi fosse sotto la superficie, ma la luce era scarsa e l’acqua densa e oleosa.

John si sedette accanto a me.

— All’inizio ho pensato che fosse un tuo sogno — dissi.

— Anch’io — rispose. Aveva le labbra raggrinzite, come per un gusto cattivo in bocca.

Il vecchio si stava risvegliando lentamente dalla trance. Mi inginocchiai accanto a lui e lo aiutai ad alzarsi. Si sorresse appoggiandosi all’arpa, poi la spostò fuori portata delle onde. Senza dire nulla, iniziò di nuovo a suonare. Suonava lentamente e pacatamente, con aumenti e riduzioni di tono, ma qui e là una sorta di crescendo, che veniva però coperto dall’insieme del ritmo e svaniva al suo culmine.

Era il mare, mi resi conto a un tratto. Il vecchio suonava al mare. E così parve, poiché le onde smisero di incresparsi nel vento e cominciarono a muoversi a tempo con la musica. Sapevo che la musica dell’arpa poteva piegare la natura, ma non mi era mai capitato di assistere a un tale prodigio così da vicino. E il mare… il mare era vasto, grigio, meditabondo. Il cantore di sogni, minuscolo e fragile.

Le acque si levarono alla sua chiamata, come se il vecchio subentrasse all’incessante forza d’attrazione della luna sulla marea. Mi resi conto che l’energia era già lì. Il vecchio si limitava a usarla.

L’acqua si sollevò sopra di noi in un grande cilindro ora nero nel chiaro di luna. E in quella grande torre nera comparve una porta, una cavità d’aria che conduceva all’interno del colosso trattenuto dal suono dell’arpa.

Il cantore di sogni ci fece cenno di entrare, ma il nostro nuovo compagno aveva paura e scosse la testa. John si alzò immediatamente e dal cornicione passò sulla soglia. Ansimai e cercai di tirarlo indietro, ma lui ormai era fuori portata, si era addentrato di qualche passo nelle fauci spalancate della galleria. John si fermò e fu come se si trovasse su una scala intagliata nella pietra, perché la colonna d’acqua lo sosteneva senza difficoltà.

Rassicurato, l’uomo bruno lo seguì e io mi precipitai dietro di lui, non perché volessi entrare, ma perché non volevo lasciare mio fratello. Ero completamente sopraffatto dal terrore, ma non accadde nulla. Il cantore di sogni lasciò l’arpa e mi seguì. Mi aspettavo che la torre crollasse e ci schiacciasse, ma l’arpa continuò a suonare.

Cominciammo a scendere nelle viscere dell’oceano, senza badare alle alte pareti della colonna.

Trovavamo senza difficoltà l’appoggio e non aveva importanza se posavamo i piedi sulla liscia parete d’acqua oppure nel vuoto, visto che a volte il tunnel era verticale. Eravamo sempre trattenuti, in perfetto equilibrio, dalla musica dell’arpa.

Il viaggio fu lungo. I miei piedi seguivano automaticamente il lungo percorso. Non c’era luce, ma sapevo che gli altri tre erano a pochi passi da me.

Poi il cantore di sogni disse: — Siamo arrivati.

All’improvviso ci fu luce, luce abbagliante, in tale profusione che mi piegai in due per la sofferenza causata dal calore. Risuonò un grido disperato, probabilmente del nostro compagno, poiché non era la voce di John.

C’erano anche altri suoni: bisbigli e sussurri ammaliatori simili al richiamo di una voce lontana. C’era una risata lieve, che sapevo appartenere al cantore di sogni, e il tintinnio di una campanella.

Mi sforzai di aprire gli occhi, così da vedere la provenienza delle voci, ma questi non mi ubbidirono. L’esplosione di luce li aveva sigillati per proteggere le mie retine delicate.

Poi ci fu un rumore simile a una raffica di vento durante la tempesta e fui afferrato e trascinato in alto come una foglia secca. In un primo tempo pensai che l’acqua avesse ceduto, ma poi udii la melodia della musica oceanica dell’arpa che ora aveva assunto un ritmo veloce, quasi frenetico.

Durante quell’ascesa violenta andai a sbattere contro un altro corpo. Il solo contatto con della pelle e dei vestiti mi rassicurò sul fatto che non ero solo.

Riuscii in qualche modo ad afferrare il lembo di un vestito e lo tenni stretto. Pensai che fosse di John, ma non potevo esserne sicuro.

L’ascesa rallentò e alla fine, scagliati fuori del tunnel, ci trovammo a rotolare su roccia nera e dura, ma quando ci fermammo ci rendemmo conto che nessuno di noi aveva riportato ferite.

Lasciai andare il lembo del mantello che avevo afferrato e vidi con sorpresa che non apparteneva né al cantore di sogni né a John, ma all’uomo bruno.

A pochi passi da me il cantore di sogni riportava alla quiete le corde dell’arpa mentre l’oceano riassumeva il suo aspetto normale. Il vecchio prese l’arpa e si avviò lungo il cornicione di roccia. Senza una parola, l’uomo bruno si diresse nella direzione opposta.

Mi mossi per seguire il vecchio, ma John mi trattenne. — Non ce n’è più bisogno — disse.

— Hai visto quel che volevi vedere? — gli domandai. — Il sogno che pensavi fosse tuo?

— Sì.

— E…

— Forse nessuno di noi è padrone dei propri sogni.

— E adesso?

— Il pellegrinaggio. Dobbiamo trovare quello che stiamo cercando. Non so se abbiamo ancora molto tempo a disposizione.

— Tempo?

— Sono malato, Matthew.

Lo guardai in silenzio. Era impossibile. Xavier era più vecchio di Joaz e Joaz era più vecchio di me. Ma John aveva tredici anni meno di me, non poteva morire. Era così giovane.

— Cos’è successo laggiù? — gli chiesi pensando che fosse stato ferito.

— L’ultimo uomo ha deciso che non voleva ancora morire.

— Perché mai avrebbe dovuto desiderarlo?

Gli occhi di John frugarono nei miei catturando il mio sguardo. — Suppongo perché era solo.

Scossi la testa.

— Dobbiamo muoverci — disse John. — Dobbiamo trovare quello che stiamo cercando.

— Non puoi morire — dissi. E intendevo dire che non poteva lasciarmi lì da solo.

Avevo bisogno di lui. Era tutto ciò che avevo. Non avevo bisogno della sicurezza del mio mondo, non avevo bisogno dell’appagamento che mi portavo dietro da quando il mio sogno era morto. Avevo solo bisogno di lui.

“Non lasciarmi qui!”

24. La fine del tempo

Vediamo caos nel caos.

Vediamo la furia dell’irrazionalità.

Vediamo Terra, Aria, Fuoco e Acqua che si combattono lasciandosi alle spalle un mondo distrutto.

Sotto di noi, e tutto intorno a noi, la superficie terrestre si divide mostrando per un attimo pareti di roccia e subito dopo si richiude di colpo. Zampilli di roccia fusa e fiamme schizzano nel cielo e si spengono come bengala in una folle cascata di scintille.

In alcuni punti è possibile vedere una massa verde di vegetazione, in altri ceneri scure ne testimoniano la scomparsa. Gli animali terrestri saranno stati i primi a morire mentre gli uccelli, probabilmente, gli ultimi. Riesco a vedere, alti nel cielo, minuscoli punti neri che potrebbero essere uccelli. Là forse sono temporaneamente al sicuro da tutto questo trambusto, finché il terrore o la fame o la stanchezza non consumano le loro energie conducendoli alla morte. Dietro quelle figure che vagano lentamente nel cielo, il sole guarda, distaccato e indifferente. E rosso, rosso mattone.

La pianura s’increspa sotto la forza deformante del terremoto come una bandiera nel vento. Immense voragini si aprono nel terreno ondulato, grandi blocchi di roccia scivolano con un tremito nelle fauci della Terra, nuove terre emergono sospinte dalla terrificante forza delle maree. Massi enormi cominciano a vibrare e a rotolare. Grandi nubi di polvere si sollevano da terra trasportando le spore, l’ultimo appiglio, l’ultima possibilità di vita su quella terra convulsa.

Frammenti di roccia e di terriccio franano come grandi fiumi di terra dalle pareti delle voragini e riempiono la bocca spalancata dei crepacci. Sotto la nostra solitaria postazione in cima a una tranquilla collina scoppia una bolla di roccia e fiamme e lava inondano la base dell’altura. Per un lungo istante quel fiume di distruzione scorre intorno a noi e gli artigli del suo calore ci raggiungono lacerandoci la pelle e privandoci momentaneamente di una chiara visuale. Poi il fumo scompare, il caldo viene spazzato via da un grande vento e noi possiamo di nuovo vedere la Terra che vomita la sua sconosciuta malattia nel cielo colorato.

Avanzando dall’estremità di un nuovo solco creatosi nel suolo, un’enorme ondata di terra e roccia, trascinata violentemente dalla lava fusa, va a colmare la nuova valle. Una seconda ondata si diparte dall’imboccatura più vicina della valle e avanza a una velocità spaventosa all’impatto che farà tremare il mondo. Mentre corrono verso la reciproca distruzione, le creste delle onde di lava scagliano in aria grandi massi. Le estremità scorrono più velocemente e i fronti d’onda s’incurvano. Le vaste pareti diventano sempre più ripide mentre la valle si spacca sotto la loro pressione.

Poi i due fronti si scontrano producendo uno stupefacente schizzo di fiamme colorate. All’orizzonte osserviamo l’esplosione di una catena montuosa che in segno di sfida scaglia tutta la sua rabbia verso un sole troppo lontano. Alla nostra sinistra si apre una fenditura nella valle e la lava comincia a riversarsi nelle sue invisibili profondità. I bordi della voragine si sgretolano e l’abisso si richiude.

Lampi accecanti sezionano un orizzonte sempre più scuro. Guglie e pinnacoli di granito vacillano e si schiantano a terra. In cielo vediamo il riflesso rabbioso di un grande incendio che continua ad avanzare velocemente verso di noi propagandosi su entrambi i lati. Vediamo le fiamme agitarsi sopra le ferite scoppiettanti della crosta terrestre. Vediamo le volute e i vortici di un fumo rosso e ciclonico levarsi dalle fiamme turrite.

E il potente vento, compagno dell’incendio, ci trascina via dalla nostra postazione privilegiata scagliandoci lontano dallo spettacolo dell’agonia della Terra, impedendoci così di assistere alla quiete che segue ogni tempesta, quando le spore nelle nuvole di polvere si poseranno sulla superficie terrestre per cominciare una nuova vita.

— È troppo tardi — dice John.

— Cosa vuoi dire?

— Non sono abbastanza in forze, Matthew.

— Ti porterò io.

— Non cambierebbe nulla.

— Deve cambiare.

— È finita, Matthew. Sto morendo.

— No.

— Come Xavier, come Joaz.

— No. — Sono in lacrime.

— Ora sei l’unico, Matthew.

— Non posso rimanere solo.

— Devi proseguire. Devi vedere quello per cui siamo venuti.

— Non mi lasciare, John.

— Sto morendo, Matthew.

— Non ancora. Ti prego, non ancora.

È disteso sul terreno incrostato di bava bianca e cremosa, gonfio come una vescica e bluastro come un livido. Provo un’irreprimibile senso di repulsione, mentre lo guardo dibattersi lentamente sul ventre molle e putrido.

Le braccia, simili a filamenti viscidi e gonfi, si irradiano dal corpo e penzolano come festoni ingarbugliati nell’acqua stagnante di una pozza a poca distanza. Sono coperte di verruche di un intenso color azzurro cielo e cosparse d’innumerevoli ventose violacee. Mi ricorda un poco le meduse o le comatule.

Pori lilla trasudano un liquido oleoso che gocciola sul terreno.

Sulla parte superiore dell’animale c’è un occhio. Riesco a malapena a distinguere il blu sbiadito e iridescente del cristallino semitrasparente posto in un’iride multicolore simile a un piatto. L’occhio ha due palpebre di colore nero-violetto e una sottile membrana nittitante che si apre e si chiude a intervalli regolari come un metronomo.

L’animale, se è un animale, giace a terra, rivolgendo il suo unico grande occhio a un cielo vuoto come il suo sguardo. Non ha bocca né altre appendici, a parte quei tentacoli gelatinosi che ho definito braccia.

Suppongo che non sia feroce né pericoloso, ma lo vedo come qualcosa di tembile e spaventoso. Mi chiedo se quella creatura sia davvero nata sulla Terra o se invece non sia un visitatore proveniente da qualche mondo lontano e disgustoso i cui figli hanno tutti quell’aspetto.

L’orrenda creatura non si accorda affatto con l’ambiente. Ci sono terra ed erba, sabbia e cielo, sole e nuvole, acqua e vento, fiori e mosche, alberi e argilla, uccelli e cespugli.

Immagino che sia morta, e che quel suo movimento lento e ritmico sia causato da qualche riflesso naturale. Ma si solleva, una volta, con un muto sospiro che ricorda il risucchio della fanghiglia, come una grossa sacca d’aria maleodorante.

E noi scappiamo via.

— Sto morendo, Matthew.

— Non morire, ragazzo. Ho bisogno di te. Non rimarrà più nessuno a portare avanti questa tua folle ricerca. Io non posso farcela. So che tu lo vorresti, ma non è una buona idea. Non sono un sognatore, non sono un credente. Lo sai che non ho fede. Se muori, John, hai fallito, non conta quello che posso fare. Non c’è nessun bisogno di morire. Non devi fallire. Ti porterò sempre sulle mie spalle. Puoi dormire. Ti darò del cibo. Niente ti disturberà. Tu hai questa missione. Tu hai l’anima. Tu sei la Lucciola che emana la propria luce. Se tu te ne vai, non ci sarà più luce nel mondo, John. L’ultimo uomo è morto. Ci sei solo tu, John. Io non sono nulla. Solo tu. Non morirai, John, non senza sapere, non è così?

— Io so già, Matthew. Ho fede.

Cenere ovunque. Siamo circondati da una massa di scaglie di cenere che forma un deserto nero fino ai piedi delle montagne incrostate di lava. La cenere fluttua nell’aria in migliaia di grandi frammenti di carta, in un milione di piccole schegge e particelle, in un miliardo di corpuscoli polverosi che il vento sospinge in una nube vorticosa. Si adagia lentamente, soffice e grigia, si solleva languidamente come se fosse fumo.

Rocce nere come la notte presentano ai nostri occhi superfici erose dall’acqua che dividono l’oscurità in ombre grottesche e spigolose. È buio pesto. Il freddo sguardo della luna piena si sofferma appena sulla Terra ritraendosi dalle superfici ruvide senza osare quasi sfiorarle.

Nella mezza luce le pietre assumono le sagome di nani deformi, di giganti acquattati, di chimere misteriose, di torri crollate e di alberi contorti.

È un mondo gelido, terso, bizzarro, eppure le stelle sono le stesse che ho sempre visto e conosciuto, o almeno credo sia così.

— Ora mettimi giù, Matthew.

— Non manca molto.

— Per dove?

Mi fermo. “Già, per dove?”

Il sole sorge sul mare. È rosso cupo, nell’aria densa di polvere.

L’oceano, torbido e opaco, bagna pigramente il litorale lisciando la grigia sabbia smossa. Non vi sono conchiglie sulla spiaggia, né alghe. È un mare spoglio, vasto, grigio screziato di marrone. E puzza.

Nell’entroterra la vegetazione è scarsa. Un’erba rada e bassa intervalla cespugli appassiti per un centinaio di metri tra la spiaggia e una distesa di frammenti di roccia e ghiaia dove crescono un paio d’alberi e dove alcuni fiori si abbarbicano a minuscole chiazze di terriccio.

Tra le rocce, proprio al centro dell’isola, c’è un bacino di cinque chilometri di diametro, un pozzo coperto di fitta vegetazione tropicale, una profusione di verde lussureggiante e di alti fusti.

Non c’è nessun essere vivente.

Distendo a terra John e lo riparo dal vento. Sabbia rossa mi soffia negli occhi, ma proteggo il suo viso nascondendolo tra le braccia.

— Non posso più andare avanti — dico. — Non io.

— Devi farlo.

— Sei tu che conosci tutte le risposte, non io. Io non capisco, non so cosa provare, cosa vedere. Non so il perché.

— Ma sono sempre stati i tuoi sogni, Matthew! Li ho solo presi in prestito. Ora li puoi riavere.

Ricordo il deserto, dove fuggivamo sotto le stelle, mentre i lupi ululavano e ci seguivano; e il vento mi sussurra parole di morte e disperazione. La sabbia geme contro la nuda roccia, inseguita da una tempesta senza nubi, e noi seguiamo la sua pista, anche noi inseguiti e sospinti. La notte è limpida e brutta e muove le sue goffe mani, il vento, in una maniera crudele e spietata, che ci fa soffrire e mi ricorda tutta la mia solitudine.

Il vento ci porta sempre il latrato dei lupi. A volte quelle belve sembrano singhiozzare, ma spesso ridono con gioia beffarda. Li potremmo vedere mentre danzano contro la luna se non si muovessero furtivamente nei burroni senza mai mostrarsi. Strisciano come vermi e scivolano nelle fenditure che tagliano a brandelli il deserto.

Non possiamo fermarci, ma dubito che siano il coraggio o la forza a farci andare avanti. Ma non sono neanche la paura o la disperazione. È la follia a sostenerci così come la notte sorregge il deserto, senza via di fuga e senza speranza.

Anche John potrebbe vedere, come me, la follia che fa scorrere il deserto accanto a noi e fa echeggiare gli ululati dei lupi nel nostro cranio. Potrebbe vedere le ombre scure ammantare la terra e seppellirci sotto un piacevole oblio. Non può vedere me, lo so. Non mi ha mai capito.

Molto più tardi qualcuno allunga la mano e mi tocca. È il cantore di sogni.

— Tu — dico. — Solo tu. Non c’è nessuno, tranne te.

— È morto? — domanda il vecchio. I suoi occhi violetti guardano di sbieco il corpo a terra.

— Certo che è morto. Ora rimane solo uno, e quell’uno sono io. Cosa posso fare?

— Cosa vuoi fare?

— John dice di andare avanti.

— E tu lo farai?

— A che scopo?

Ma conosco la risposta a questa domanda. Non c’è nessuno scopo. Non è rimasto nessuno a fornire motivazioni. Sono solo, solo con la mia non-fede, nonverità, non-esistenza. È la prima volta che mi ritrovo solo da quando, tanto tempo fa, ho perso i miei sogni in un giardino.

— Gli volevo bene — dico, come se il cantore di sogni avesse mai potuto dubitarne. — Era mio fratello — spiego.

Il cantore di sogni inizia a suonare. Immagino che sia un inno religioso o un canto funebre, ma non lo è. Il suo corpo si lacera e si decompone, come se una fiamma gelida lo consumi, come se tutto il tempo che fu lo disgreghi.

E John comincia a crescere.

25. I mondi al di là del mondo

Che sta succedendo?

Un rompicapo. Un gioco di pazienza con parole al posto di tessere.

Alvaro. Non possiamo sapere, poiché anche se vedessimo l’Uomo Futuro, non potremmo capirlo… per conquistarlo, vedi, devi far diventare tuo qualcosa… devi farlo diventare parte di te… qualcosa che puoi controllare e dominare… l’Uomo Futuro dev’essere un passo più avanti, dev’essere completamente svincolato dall’influenza dell’ambiente circostante. Sarà libero.

“Un sogno. Non sono John. Sono Matthew… sono Matthew, non John…”

L’uomo che viaggiava nel tempo. Un tempo eravamo rettili, i tuoi antenati e i miei… gli uomini comuni continueranno ad andare avanti, ma saranno le scimmie del futuro… semplici animali senza scopo né destino.

“Un sogno. Per favore, chiudete la porta. Vi preghiamo di notare che USCITA si trova all’interno. Non potete uscire da questa parte.”

John. Che uno solo di noi veda, basta per tutti gli altri… ci faremo portatori delle speranze e delle benedizioni di centinaia di uomini, migliaia di persone nel passato e nel futuro… Se uno di noi può vedere, se uno solo di noi può conoscere la nascita e il trionfo dell’Uomo Futuro, allora questo sarà sufficiente… Andremo insieme… alla fine del tempo… Tu e io vedremo l’Uomo Futuro… lo “so”.

“Un sogno. Un giardino con fontane dorate… ero venuto a cercare qualcosa che avevo dimenticato… a cercare anche qualcosa di nuovo… ero venuto a seppellire i miei rimpianti… chiesi speranza… lei era morta… lei era morta!”

Me stesso. Vedevo il mondo come poteva vederlo un dio, ma non ero un dio… quel che vedevo significava qualcosa, sebbene non riuscissi a vedere quasi niente. C’era qualcosa di calmo e pacato nella vita… un conquistatore imperturbabile che si muoveva con una strategia sicura… sono venuto per conoscere intimamente la filosofia della vita.

“John. Non sei solo… Non vi è nulla di nuovo… Ma sono sempre stati i tuoi sogni, Matthew… li ho solo presi in prestito… ora puoi riaverli.”


L’evoluzione lavora sul giovane, non sul vecchio, sul maturo, sul definito, ma sul malleabile e sul mutevole, su ciò che deve ancora svilupparsi. Un uomo è un uomo, ma la gastrula che diventa uomo potrebbe, con un impercettibile cambiamento, divenire qualcosa di completamente diverso. Un adulto è un essere finito, non ha più la capacità per ulteriori cambiamenti. Una gallina è solo uno dei modi in cui un uovo può creare un altro uovo. L’uovo può scegliere, la gallina no.

L’evoluzione lavora sulle larve, sui bruchi, sulle meduse, sulle ninfe e sui girini.

È questo il segreto.

La metamorfosi.


Il cantore di sogni. È tutto parte di me, del mio sapere, dei miei ricordi, delle mie emozioni, delle mie molteplici forme. Sono tutti i miei pensieri espressi in un’entità singola, tutti i miei sogni realizzati. È il limite della mia creazione…

Come potresti saperlo? Come potresti sapere che c’era ancora una creazione di là da venire? Un bruco sa che diverrà una farfalla? Una ninfa sa che, prima di morire, per un solo giorno, sarà una crisopa?

Tu sei davvero l’Uomo Futuro, ma nemmeno tu sai di esserlo.


C’è una voce nella mia mente.

“Immagina una pozza d’acqua. Sta piovendo. Ogni minuto si formano centinaia di increspature che si allontanano accavallandosi l’una all’altra senza però intralciarsi il cammino. Ogni increspatura segue il suo corso attraverso il lago, ma in ogni istante centinaia di altre increspature la sfiorano.

“Gli universi sono increspature, i loro cerchi nell’acqua sono il cambiamento. Mentre un’onda si espande tocca altre onde e così il tempo cresce in estensione, ma non in maniera lineare. Dove gli universi s’incontrano, non interrompono il proprio corso. Ma ogni intersezione è il fuoco di percezioni multiple.

“Non capisco”.

Può un rettile capire un uomo…?

Mi sento straziato dagli opprimenti bendaggi dell’oscurità, strappato via con violenza e disperso nella notte senza vento. L’oppressiva prigione del mio corpo è scartata, gli angoli nascosti della mia mente schizzano nel vuoto. E io cresco, mi espando come un urugano, come un’onda d’urto. Mi espando come sfera di fuoco in un orgasmo di energia che si autoconsuma. Il guscio vuoto del mio universo viene rotto e gettato via, i punti saldi del mio modo di vivere vengono completamente dimenticati. La mia vita di essere subunivcrsale viene distrutta e lasciata alle fameliche onde che mi trasportano fuori e dentro, crescendo e crescendo, finché la mia mente abbandona le minuscole sfere per abbracciare il mio nuovo macrocosmo.

L’oscurità è invasa da aloni di luce, moltitudini di universi saldati dall’evoluzione in sottili anelli di squisita fattura che ruotano su un asse inclinato. Le stelle di questi universi, simili a schizzi di luce, brillano nella notte scura trasformando gli anelli, e il loro movimento rotatorio in vere e proprie girandole. Essi convergono e si allontanano, si uniscono e si dividono, si scontrano e si intersecano simultaneamente e singolarmente vorticando allegramente nella loro luce sfavillante.

E io continuo a crescere.

Ora vedo un’ombra, un’ombra gettata sull’oscurità dall’oscurità. Sta a significare potere e austerità. In questa esistenza senza dimensioni la vedo in alto, sopra di me, sotto di me, intorno a me, oltre e dentro di me.

Improvvisamente quei cerchi vorticosi entrano in me e cominciano a fremere insieme alla mia espansione senza forma. Il mio cuore pulsa seguendo il ritmo di quei molteplici universi che diventano un tutt’uno con il battito della mia anima. Essi palpitano più in fretta e con più brio, le loro innumerevoli faville scoppiano in singoli istanti di splendore e di luce per poi svanire nello stesso istante, un milione di scintille effimere che luccicano e si spengono.

E ora sono tutt’uno con questa vasta esistenza, tutt’uno con ciascun universo e tutt’uno con l’Infinito. Sono l’assoluto e l’eterno. Il Tempo si spegne come una candela e gli universi divengono immateriali.

Il grande buio irrompe con violenza nella mia mente inumana. Come un vapore caldo accorro a colmare tutta la mia esistenza. La mia mente conosce tutto quello che ho visto e ricorda tutto quello che vedrò.

E sorgo come un sole nascente.

Come una lucciola.

Con fierezza grido al tempo che non c’è, all’oscurità e a tutto quanto: — Io sono!


Sto ancora cullando il corpo di John tra le mie braccia. C’è un deserto disabitato tutto intorno a me. Sto morendo. Devo morire, poiché non posso vivere da solo e non è rimasto più nulla. Ma ho visto il trionfo dell’Uomo Futuro. Ho visto ciò che John era venuto a vedere e che conosceva solo mediante la fede. Ma è sufficiente?

“E sono Matthew e non John?” Mentre sorreggo la sua testa tra le mani sto ancora cercando di chiedere perché.

“Vorrei avere un sogno che mi tenga compagnia.”

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