PARTE PRIMA Sotto l’incantesimo del tempo

1. Il lupo rosso

Una luce uggiosa filtrava attraverso la spessa coltre di nuvole in movimento. La pioggerella cadeva a sprazzi, ma noi, già bagnati fradici, non ci facevamo caso. La nostra giumenta procedeva a fatica, con andatura sofferente, come se trascinasse il mondo intero e non un vecchio carro con due uomini a cassetta.

L’uomo seduto accanto a me era John, mio fratello, poco più di un ragazzo. Indossava un ampio giaccone di pelliccia abbottonato fino al mento, che gli rendeva massicce e poco credibili le magre spalle, e calzoni di pelle, intrisi d’acqua, che ormai gli si erano incollati alle gambe e l’avrebbero graffiato a ogni movimento. Ma lui non si muoveva. Pareva una statua. Era a capo scoperto: rivoletti di pioggia gli colavano sul viso e dal mento appuntito gli gocciolavano sulle ginocchia.

Stringeva con forza tra le dita sottili il fusto di una bella e potente balestra, le cui dimensioni facevano pensare che occorressero braccia ben più robuste delle sue per riportare, mediante il rozzo martinetto, la corda al dispositivo d’aggancio. Aveva a tracolla una faretra piena di dardi. Per quanto ne sapevo, non si era mai trovato nella necessità di usare la balestra e, a giudicare dai risultati dei suoi allenamenti, forse era un bene. Però non se ne staccava quasi mai, come se ritenesse che sulla propria vita pendesse in continuazione un’imprecisata e misteriosa minaccia. Non era un vigliacco, né un pazzo, ma aveva uno strano modo di pensare.

Gli occhi di John erano incollati a quella mal delimitata striscia di terra che fungeva da strada. Questa un tempo era lastricata, ma ora sulla sua superficie irregolare si era formato uno spesso strato di fango e di terriccio, duro come una crosta. L’erba cresceva ovunque poteva e chiazze di quel soffice sfagno che ricopriva le colline circostanti stavano incominciando a guadagnare terreno su entrambi i lati. In quei giorni, carri e carrozzoni passavano di lì raramente e la strada era certamente destinata a divenire poco più di un sentiero segnato solo da impronte di zoccoli e di scarpe.

In lontananza scorsi una luce gialla che speravo significasse un riparo e la possibilità di asciugarci. John non l’aveva ancora vista e io non mi preoccupai di fargliela notare. Quand’era di quell’umore non ascoltava nemmeno chi gli parlava: la sua mente era occupata da parole e idee. Rifletteva continuamente su certe storie che aveva sentito raccontare riguardo a un uomo che asseriva di poter viaggiare nel tempo, e noi stavamo seguendo proprio quelle che pensavamo le sue tracce. Ciò non significava che anch’io fossi in qualche modo interessato a quell’uomo o alle sue visioni, ma non avevamo una famiglia, salvo quello che rappresentavamo l’uno per l’altro, né degli amici. Ovunque fosse andato John, l’avrei seguito, ovunque avesse voluto andare, lo avrei accompagnato. Badavo a lui da quando era bambino e, sebbene adesso fosse cresciuto, pensavo avesse ancora bisogno di qualcuno che lo seguisse da vicino.

La luce gialla si fece sempre più vicina, e quando Darling, la giumenta nera, la notò, allungò il passo mettendoci un po’ più d’entusiasmo.

La locanda si chiamava Il Lupo rosso. Era vecchia, ma aveva un aspetto solido che faceva già assaporare il calore e le comodità all’interno. Smontammo e lasciai che John conducesse Darling nel retro in cerca di una stalla, mentre io mi informavo circa la possibilità di passare la notte alla locanda.

L’enorme porta cigolò rumorosamente e scivolai dentro senza spalancarla troppo per evitare che il vento freddo entrasse nella stanza.

Era meravigliosamente caldo all’interno. Il fumo delle pipe saliva in sinuose spirali nell’aria vorticosa creando forme in diverse sfumature di blu e grigio. Nella stanza c’erano quattro lunghi tavoli, dei quali uno traballava vistosamente a causa di una gamba rotta sostenuta da un ceppo di legno troppo basso. Attorno ai tavoli erano sistemati gruppi eterogenei di vecchi e di uomini di mezza età, tutti contadini a giudicare dal loro aspetto, e una donna dal viso grifagno che, essendo di passaggio, senza dubbio non era la moglie di un contadino. Alcuni di loro si voltarono a guardarmi, ma la maggior parte continuò a chiacchierare fitto tra un sorso e l’altro di birra scura senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

Dalla parte opposta della grande stanza, di fronte a un fuoco che scoppiettava e crepitava, sedeva una donna dal viso tondo e i capelli unti, di quei tipi che non invecchiano ma danno semplicemente l’impressione di antico. Mi fissava squadrandomi dalla testa ai piedi per cercare di capire che tipo fossi e valutare il contenuto del mio portafoglio.

Percorsi lo stretto passaggio tra i tavoli senza disturbare nessuno degli uomini seduti e mi rivolsi alla donna.

— È vostra questa locanda?

— Sono la padrona, sì. Mi chiamo Queen, e voi?

— Il mio nome è Matthew. Ho un fratello, John, che sta cercando un riparo per il nostro carro e per il cavallo.

— C’è una stalla — disse la donna — ma niente biada.

— Troverà qualcosa sul carro — la rassicurai.

— E dove siete diretti?

— A sud. — Feci un gesto vago con un braccio la cui manica stava già fumando vapore. — Non abbiamo una destinazione vera e propria. Viaggiamo. — Con questa affermazione probabilmente la donna ci scambiò per zingari, cosa che, se non altro, l’avrebbe persuasa che non valeva la pena di rubare il nostro carro. In effetti, non ne valeva davvero la pena.

John entrò facendo meno attenzione di me alla corrente d’aria e quelli più vicini alla porta borbottarono qualcosa. Lui li ignorò con quella sua caratteristica mancanza di tatto e mi raggiunse.

— Mio fratello John — dissi facendo le presentazioni.

— Ora mi chiamo Lucciola — aggiunse lui. Quella era una delle sue tante noiose affettazioni.

— Perché? — chiese la donna, come del resto facevano tutti.

— Perché rifiuto questo mondo apatico ed emano una mia luce. Vogliamo una camera per la notte. Il nostro cavallo è nella stalla, l’ho già sfamato con le nostre provviste.

La donna aveva cominciato a ridere, ma ridivenne seria quando la seconda parte del discorso di John si rivelò più prosaica.

— Quattro monete per due camere. Due per una — disse sollecitamente la padrona. Le diedi due monete.

— E una per il cavallo — aggiunse, sebbene fossi stato ben attento a non farle capire che in tasca avevo più di due monete. Gliene porsi un’altra.

— Vorrei scambiare qualche parola con voi, signora — disse John.

La donna lo guardò sorpresa. Scrollai le spalle e mi spostai di lato verso il fuoco per godere di quell’intenso calore che mi faceva dolere il viso e le mani. Passò qualche secondo prima che mi portassi a una distanza più ragionevole e più gradevole.

Le parole di John, sebbene pronunciate a bassa voce, arrivarono fino a me. — Ho sentito dire che siete una veggente — affermò John.

Questa era una novità per me. Di certo non eravamo mai passati per quella strada prima d’ora, ma John parlava sempre con un sacco di gente. Forse qualcuno gli aveva fatto il nome di Queen e del Lupo rosso.

— E allora? — domandò sospettosa. Mi voltai e la vidi lanciare occhiate fulminee all’avventore più vicino. Ma l’uomo o non aveva udito o se ne fregava. Continuò a parlare del tempo con chi gli stava a fianco.

— Mi hanno riferito di certe storie che raccontate — continuò John.

— Che cosa vuoi? — domandò la donna. — Ti costerà parecchio se vuoi che ti predica il futuro.

— Non mi interessano le predizioni — rispose, sprezzante. — Solo le strane storie. Potrebbero somigliare ad altre che ho sentito raccontare. Credo che le abbiate ascoltate da un uomo che conosco e vorrei sapere dov’è adesso.

La donna rifletté.

— Non dovresti rivolgerti così a una che ha il dono della profezia — disse con uno sguardo gelido. John non ne fu per nulla impressionato. Quando era sicuro del fatto suo diveniva praticamente imperturbabile. — Le cose che non capisci — continuò la donna — non sono tutte bugie.

— Non mi interessano nemmeno le bugie — rispose John con un tono diplomatico che non era da lui. Pensai che forse finalmente aveva imparato la buona educazione. — Vi sarei grato se mi diceste semplicemente dov’è andato — disse pazientemente.

— Via — rispose la donna in maniera evasiva. — Se rifiutare questo mondo significa che vuoi il suo, allora sei matto com’era lui. Si guardava costantemente alle spalle, era sempre impaurito. Ma parlava, certo. In continuazione. Sì, uso le sue storie per spaventarli — e indicò i clienti. — E perché no? Se io non ho visto quello che racconto, conosco chi l’ha fatto. E forse non gli ho già dato abbastanza per questo? — Si fermò all’improvviso. — Chi è quell’uomo? Rispondi alla mia domanda e ti dirò che strada ha preso.

— Era un uomo che proveniva da un altro mondo — disse John. Muoveva gli occhi da tutte le parti. — Molto lontano da qui. Non vi ha raccontato che poteva viaggiare nel tempo? Non si è vantato di poterlo fare? Sono sicuro di sì perché da quel che so di lui non era certo il tipo da lasciarsi sfuggire un’occasione per vantarsi. Anche voi vedete che questo mondo ormai è morto, è vecchio e in rovina, ma lui può percorrere altre strade, può ritornare ai giorni in cui le nostre città ricoprivano il mondo, può andare ovunque vuole… in tempi dove c’erano scopi nella vita e ricchezze da cercare. Voglio trovarlo, voglio che lui mi porti là.

— E cosa faresti se ti dicessi che è ritornato da dove è venuto? — disse aspramente, — Che è ritornato nel passato, dove non puoi raggiungerlo?

— L’ha fatto davvero? — domandò John, C’era un accenno di terrore nella sua voce. Quella era una cosa che temeva davvero.

— No, ma l’avrebbe fatto se ci fosse stata anche una sola parola di verità in tutte le sciocchezze che raccontava. Perché sarebbe dovuto restare qui se il luogo da cui proviene è così bello? È andato a ovest, nelle terre sterili. Più morte del resto del mondo, se vuoi il mio parere. Perché avrebbe dovuto farlo, eh? Con tutte quelle belle città dove andare? Stai correndo dietro a un sogno, ragazzo. A una favola.

“Diceva di cercare il futuro, ma non voleva andargli incontro. Gli ho chiesto di restare e dividere il futuro con me, l’ho implorato, ma lui mi ha ignorato. Si ferma per un po’ e poi riparte, è così che fa. — La donna inarcò leggermente le labbra, come se avesse avuto un gusto amaro in bocca. — Mi ha lasciato per le terre disabitate dell’ovest. Mi ha lasciato con tutti i suoi folli deliri e le sue pazze storie. Mi ha lasciato a recitare la parte della veggente con le sue parole, ma mi ha lasciato anche degli incubi.”

Decisi che parlava troppo. Chissà che bella coppia avevano fatto!

— Anche a me ha lasciato qualcosa: dei sogni — disse John, e mi raggiunse vicino al fuoco.

— A ovest — mi disse semplicemente.

— La conoscevi? — gli chiesi.

— Ne avevo sentito parlare.

Risi sottovoce.

— Che c’è?

— Perché lo fai? — gli chiesi. — Cosa deve pensare di te quella donna quando fai quei discorsi ridicoli e dici di rifiutare il mondo e di aver ricevuto in consegna dei grandi sogni da uomini che possono viaggiare nel tempo? Non vedi che per lei quell’uomo è solo il re dei bugiardi? Se l’è portata a letto con le sue storie fantastiche e poi è passato a qualcun’altra. L’hai fatta parlare troppo e si odierà per questo, e odierà anche te. Perché, John? Non sei tenuto a raccontare loro tutta questa folle storia. A quale scopo?

Mi guardò con un’espressione che da alcuni anni si era fatta sempre più evidente. Commiserazione deliberata. Uno sguardo che pareva dire: “Non posso aiutarti se tu non vuoi lasciarti aiutare”.

— Sei morto — disse in tono accusatorio. — Fai parte di questo gran marciume. Dovrei vergognarmi delle mie idee? Non hai una ragione per vivere?

— Nemmeno una — risposi — e prima ti renderai conto che le tue sono illusioni, prima ti adatterai a vivere una vita normale.

John non aggiunse altro. Si sedette semplicemente a guardare il fuoco dimenandosi nei vestiti bagnati.

— Faremmo meglio ad andare a dormire — dissi. — Lasciamo che i vestiti si asciughino da soli.

Scrollò le spalle di malumore e io andai a chiedere a Queen di mostrarci la nostra stanza.

2. Il sole

Così ci dirigemmo a ovest. In principio attraversammo colline più o meno verdeggianti, poi terre brulle, sterili e desolate a causa dell’accanito sfruttamento e del cattivo impiego del terreno avvenuto nei secoli precedenti. Passammo per un gran numero di paesini che si stringevano attorno alla strada dissestata aggrappandosi avidamente a qualunque pezzo di terra ancora coltivabile. Erano sempre ingombri di spazzatura e infestati da miriadi di mosche che ci infastidivano con il loro perenne ronzio quando ci fermavamo per mangiare o per fare domande. Non volevamo restare a dormire in quei posti, a meno che il tempo non fosse particolarmente brutto, cosa che accadeva raramente. La tempesta scoppiata la notte da noi trascorsa nella locanda del Lupo rosso fu infatti l’ultima pioggia che vedemmo per un lungo periodo.

Ovunque domandassimo dell’uomo che interessava tanto John, ricevevamo più o meno la stessa risposta: “Ah… chiedete di lui ad Anna. L’ha messa incinta e un mattino se n’è andato via prima che facesse giorno. Quando se n’è accorta, la poverina si è messa a piangere per strada, in ginocchio, in mezzo alla polvere. Sì, dritto verso ovest. Dove porta la strada? Be’, c’è solo deserto da quella parte, anche se…”.

E così raggiungemmo il deserto. Non era un deserto caldo e sabbioso come quelli che si dice esistano nel lontano sud, ma un territorio selvaggio di rocce e terra grigia e ruggine. Erano i resti di una città un tempo estesa per più di duecento chilometri.

Non eravamo mai molto colpiti dalla desolazione del paesaggio eccetto quando il sole di mezzogiorno risplendeva in un cielo terso. Fu nel primo pomeriggio di uno di quei giorni che vedemmo il secondo sole.

Darling avanzava lentamente evitando le fenditure di un terreno friabile e riarso dal sole. La strada era assai brutta in quel punto nonostante fosse poco battuta, o forse proprio per questo motivo. Il calore produceva una foschia che rifletteva le strìature color ruggine del suolo e mi faceva girare la testa. All’orizzonte comparve una luce intensa ma non vi prestai grande attenzione. John non disse niente, ma sono certo che la vide nello stesso istante in cui la vidi io.

Fu soltanto quando ci avvicinammo e potemmo osservare la forma della cosa che cominciammo a sentirci interessati.

Senza alcun supporto visibile, sospesa tra due strutture metalliche simili a piloni, vi era una sfera infuocata di circa un metro di diametro. L’aria tra le sommità delle torri, gonfie e panciute, emanava un bagliore simile a quello di un alone prodotto dal calore, sennonché il campo d’azione era orizzontale e la direzione imprecisata.

— Che diavolo sarà? — domandai a John.

— Un faro?

— Di sicuro non in mezzo al deserto. Che cosa mantiene accesa la luce? Perché quella palla infuocata sta appesa lassù senza supporto e senza cavi?

— Come faccio a saperlo? — rispose, stizzito.

— Sembra una reliquia del tuo leggendario passato — commentai con una certa ironia. — Di sicuro oggi non esiste un solo uomo sulla Terra capace di costruire una cosa come questa. Però nessuno, in qualsiasi epoca, metterebbe un faro in pieno deserto.

Intanto ci avvicinammo. Ora potevamo vedere che le torri poggiavano su un’ampia base cilindrica di pietra. Accanto alla piattaforma c’era un edificio quadrato non molto alto, con inferriate alle finestre e una massiccia porta di metallo.

— Comunque è stato costruito per durare — dissi. — Forse tutto intorno la città è andata distrutta.

Ora John mostrava una vera curiosità. Quello strano edificio era indubbiamente uno dei resti del suo passato perduto, ma quale fosse o fosse stata la sua utilità potevo solo provare a immaginarlo.

Dall’edificio basso uscì un uomo che si piazzò a braccia conserte in mezzo alla strada in attesa del nostro passaggio.

Quando gli fummo accanto lo salutai con un cenno del capo e dissi: — Salve.

Lui rispose con un altro cenno e un lieve sorriso. Era di bassa statura e pareva pendere da una parte, come se avesse avuto una gamba un po’ più corta dell’altra, anche se non m’ero accorto che zoppicasse, quand’era uscito dall’edificio.

John guardava in alto, riparandosi gli occhi dal riverbero accecante e dalle ventate di calore che emanava il globo di fuoco.

— Che cos’è? — domandai all’uomo.

— Il Sole — rispose, e aggiunse: — Io sono il Sole.

John rivolse nuovamente la propria attenzione all’uomo che pendeva da una parte.

— È vostro? — chiese.

L’uomo si fece raggiante. — Tutto mio — ci assicurò. — È un frammento del Sole che ho catturato e unito a me. — Indicò il cielo a sud-ovest in modo che fosse chiaro di quale Sole parlasse. — Il padre me lo donò perché potessi conoscere la mia identità.

Sollevai le sopracciglia con una vaga sensazione di smarrimento. Era evidente che il calore del piccolo sole produceva degli strani effetti sull’uomo.

Ma John lo ascoltava con grande serietà.

— Chi l’ha costruito? Che cosa lo tiene lassù, tra le torri?

L’ometto ci guardò con diffidenza. — Chi siete? — domandò.

— Siamo fratelli — rispose John. — Lui è Matthew, e il mio nome di battesimo è John, ma mi faccio chiamare Lucciola perché rifiuto questo mondo ed emano una mia luce.

Il Sole, così si era presentato l’uomo, rise. Era una risata calma, normale, senza accenni di isteria o di pazzia.

— Lucciola, sta’ attento a non farti bruciare le ali da questo marchingegno — lo schernì. — La tua debole luce, rispetto alla mia, è come un’ombra rispetto alla notte! Cerca di scolpire nel tuo cervello da insetto il ricordo di questo incontro! Guarda la mia luce senza ripararti gli occhi! Anche attraverso le palpebre chiuse riesci ancora a vederne il bagliore. Se la fissi, coprirà di vesciche le tue pupille e ti renderà cieco per sempre. E tu osi dire di emanare una tua luce.

John, colto di sorpresa, si fermò a pensare su quanto era stato appena detto. Notai che la serratura della porta in ferro era rotta, e sia sulla porta, sia sui piloni c’erano delle scritte ormai rovinate dal tempo e rese incomprensibili.

— Da quanto vivete qui? — gli chiesi.

— Da sempre — disse lui, come se fosse stato perfettamente ovvio. — Da quando il padre mi portò qui.

Era la seconda volta che diceva “il padre” anziché “mio padre”, ma da quelle parti i dialetti erano molto diversi, e lo considerai un modo di dire.

John stava tentando di guardare la sfera incandescente senza proteggersi gli occhi. Lo scossi. — Non essere sciocco. Ha ragione lui… quell’affare ti renderà cieco.

— Non c’è niente lì in mezzo — disse con stupore. — Solo fuoco, fuoco puro.

— E qualcosa che viene aspirato dal terreno e scaricato attraverso le torri — dissi. — Qualunque cosa stia bruciando, si trova al di sotto di questa base di cemento.

— Ma è sospesa nell’aria — protestò John.

Il Sole, ovvero l’ometto, ci guardò sorridendo, apparentemente lusingato dall’attenzione che rivolgevamo al suo alter ego.

Darling stava cominciando a sudare abbondantemente per l’intenso calore, e io stesso ero piuttosto sconcertato.

— Dobbiamo salutarvi — dissi all’uomo che prontamente si spostò dalla nostra strada annuendo educatamente.

La giumenta nera si mise in marcia piena di riconoscenza e io mi voltai per vedere l’uomo rientrare in casa.

John, profondamente immerso nei suoi pensieri, guardava la strada davanti a sé.

— Hai notato? — disse.

— Notato cosa?

— Uno dei piloni, quello vicino.alla casa, era rotto alla base.

— No — risposi — non l’ho notato.

— Un giorno — disse John — la torre crollerà.

— Ne dubito — dissi. — Non doveva sopportare molto peso, e poi mi sembrava abbastanza robusto.

— Nonostante questo — profetizzò — cadrà.

— Sei solo invidioso — dissi. Mi resi conto che l’allusione del Sole riguardo all’inadeguatezza delle parole scelte da John per spiegare le ragioni del suo secondo nome lo aveva veramente ferito.

— La mia luce potrà essere pallida — borbottò come se si stesse rivolgendo a una terza persona — ma non brucia con un ardore tale da consumarmi e farmi temere per la mia vita.

Lo guardai con un’espressione beffarda.

— Chissà — dissi.

3. Ombre

Col passare delle settimane uscimmo dal deserto, attraversammo la grande e fitta foresta di Holmchapel per entrare, sempre diretti verso ovest, nella più remota delle terre occidentali: le Valli di Stardene. Al di là di queste vi era solo il Mare Cantore. Non sapevo nulla delle terre del nord, ma le montagne del sud, che la gente del posto chiamava Montagne del Cordoglio Brumoso, sebbene altrove avessero altri nomi, erano sempre chiaramente visibili, tranne nei giorni più uggiosi, quando le nubi e la nebbia le avvolgevano completamente. Il sole, allo zenit, sovrastava un enorme dirupo conosciuto come Picco dei Dolori.

Non avemmo difficoltà a scoprire dove si fosse diretto l’uomo che viaggiava nel tempo. Era uno che rimaneva impresso nella memoria della gente. In quasi tutte le osterie o le locande dove avevamo passato la notte, c’era qualcuno che ne aveva sentito parlare o che lo aveva visto.

Procedevamo lentamente attraverso le Valli. Per paura di rimanere senza soldi, fummo costretti a metterci a lavorare. Di solito raccoglievamo frutta, ma ci capitò anche di affilare coltelli, di riparare tetti e persino di mettere il giogo alla povera, vecchia Darling.

Ogni ritardo irritava John al punto che passavamo lunghe ore a litigare e a tenerci il broncio come due bambini. Per John ogni minuto perso aumentava i rischi di veder sparire nel futuro o nel passato, come qualcosa di inafferrabile, l’uomo che viaggiava nel tempo, o di perderne irrimediabilmente le tracce sulla Terra.

Ora era diretto a sud, di questo eravamo certi. Per pura curiosità avrei voluto seguire una via più breve per arrivare sulle coste del Mare Cantore, ma il solo fatto di esprimere questo proposito avrebbe fatto infuriare John. Per questo gli permisi sempre di scegliere la strada, tranne quando giudicavo necessario fermarci per cercare un lavoro. In verità il mio portafoglio era sempre ben lontano dall’essere vuoto a parte quando amvammo a Stardene, ma non osavo sentirmi tranquillo. Ben presto, ne ero certo, ci saremmo ritrovati tra le montagne, dove non avremmo più avuto modo di rifarci delle opportunità lavorative perse.

Nonostante i nostri ritardi, l’uomo non guadagnò terreno su di noi. Avevamo una missione, sapevamo dove andare mentre lui, apparentemente, non lo sapeva, e se lo sapeva non traspariva dai racconti che lasciava dietro di sé. Si fermava quando ne aveva voglia e ripartiva senza una chiara meta. Ero convinto che l’avremmo raggiunto prima della fine dell’estate, e i giorni “persi” a lavorare per guadagnare denaro non avrebbero influito, sempre che ci fosse data la possibilità di raggiungerlo. Tutto quello che doveva fare per sfuggirci era chiudere la bocca, ma perché avrebbe dovuto farlo?

Quando cominciammo a scalare le colline pedemontane, ancora molto distanti dalle austere vette di montagna, i giorni assunsero la tipica scansione di mezza estate: notti brevi si alternavano a lunghe ore di afa e di luce intensa. All’inizio salutammo il sole con entusiasmo, ma la sua incessante presenza cominciò a venirci a noia con sorprendente rapidità. Il sole prosciugava il nostro sudore e con esso anche la nostra energia. Darling procedeva più lenta che mai, perennemente stanca e svogliata, ma non avevo il coraggio di spronarla dal momento che sapevo esattamente come doveva sentirsi. John, naturalmente, era più impaziente e irritabile che mai, ma faceva troppo caldo per litigare.

Avanzavamo faticosamente lungo un ripido sentiero pietroso quando in lontananza vedemmo una sagoma minuscola. All’inizio non riuscii a distinguerla chiaramente e, sebbene fossimo ben visibili, forse l’unico oggetto in movimento nel raggio di chilometri, l’uomo pareva non averci ancora notato. Ci avvicinammo lentamente e, alla fine, lui udì il cigolio delle ruote del carro sopra le pietre. L’uomo, che aveva un aspetto particolarmente stanco, si fermò immediatamente e ci osservò avanzare e affiancarlo. Frenai il carro e scrutai attentamente lo sconosciuto.

Era un membro della Confraternita dell’Uomo Futuro, piccolo, occhialuto, col viso avvizzito, innaturalmente accaldato e grondante di sudore. Aveva le guance e la fronte così arrossate che pareva appena uscito dal forno. Nonostante ciò sorrise con allegria, come se quella fosse stata sempre l’espressione del suo viso.

— Abbiamo posto, se volete salire sul carro — dissi.

— Mi piacerebbe — confessò lui — ma il vostro cavallo mi sta scongiurando di rifiutare l’offerta. — La giumenta stava davvero osservando l’ometto con uno sguardo sorprendentemente simile all’avversione. Riflettei che la strada davanti a noi era prevalentemente in salita.

— Molto bene — dissi. — Alleggeriremo il carico. Non voglio certo farla consumare di fatica. Il giovane John è un peso piuma e nemmeno voi siete molto grosso. È solo il mio peso che le crea problemi, perciò ci daremo il cambio a camminare mentre John guiderà il carro.

John si mostrò completamente indifferente nei confronti di questo scambio di posti. L’omino esitò appena: ovviamente, la sua era una situazione troppo scomoda per perdere tempo a rifiutare educatamente un’offerta d’aiuto. Si arrampicò goffamente sulla ruota anteriore e gli tesi la mano per farlo sedere accanto a me. Poi lo scavalcai e saltai a terra agilmente. L’uomo si voltò a guardare John, che si stava sedendo a cassetta per prendere le redini, fece un sorriso ancora più ampio del precedente, annuì al ragazzo e rivolse nuovamente l’attenzione verso di me.

— Sono Fra Alvaro — disse. — O Padre Alvaro se preferite. — Gli porsi la mano e lui la strinse.

— Matthew — dissi. — Non sono padre di nessuno ma sono suo fratello. Lui è John, la Lucciola

— Come mai questo nome? — gli domandò Alvaro.

— Perché vado per la mia strada — rispose John un tantino svogliato — e non ho bisogno di essere guidato dalla luce di nessun altro.

— Solo di farti trasportare dal cavallo di qualcun altro — borbottai sottovoce. — Essere una lucciola in una giornata come questa mi sembra un’attività particolarmente inutile — dissi a voce alta mentre i loro sguardi mi interrogavano sul contenuto del mio precedente commento. Non volevo che John cominciasse uno dei suoi lunghi monologhi riguardo l’inutilità della mia esistenza in particolare o della moderna esistenza in generale, ma difficilmente potevo sperare di riuscire a fermarlo.

Andai avanti per accarezzare la grossa testa nera d. Darling e lei mi guardò con un’aria supplichevole.

— La stiamo trattando troppo duramente — gridai a John. — Dobbiamo fermarci appena troviamo dell’ombra. — Sembrava davvero un po’ disperata e io ero seriamente preoccupato. Talvolta l’impazienza di John mi faceva dimenticare che anche Darling doveva essere presa in considerazione. Dopotutto, a parte il fatto che un cavallo malato ci avrebbe fatto rallentare molto di più di una sosta ogni ora, volevo bene alla vecchia Darling.

— Emano la luce della ragione — mormorò John rivolgendosi più a se stesso che al suo nuovo compagno. Poteva essere un gesto di ribellione nei confronti di quanto avevo silenziosamente desiderato poco prima, o forse aveva intuito il contenuto della mia precedente affermazione.

Fra Alvaro mantenne opportunamente un atteggiamento solenne.

— Stiamo seguendo un uomo che può viaggiare nel tempo — disse John con un tono più vivace mentre avanzavamo in cerca dell’ombra. — Ne sapete qualcosa?

La sorpresa di Alvaro era evidente, ma le sue parole non fecero trapelare nulla. — Uno strano modo di passare i giorni — disse, evitando la domanda.

— Avete sentito parlare di quest’uomo? — insistette John. Gli avevo insegnato quali fossero le regole della buona educazione, ma lui non vi aveva mai prestato la benché minima attenzione.

— Credo di sì, ma non so dove potreste trovarlo.

John scivolò nuovamente nel silenzio.

— Che cosa cerchi? — gli domandò Alvaro. — Un’avventura nel tempo? La conoscenza? Una fuga? — Pensai che stava prendendo queste tre opportunità fin troppo seriamente. Mi voltai e lo guardai sconcertato. Stava ancora sorridendo compiaciuto.

— Voglio la felicità — disse John.

— E cos’è la felicità? — domandò il prete.

— Non lo so — rispose John senza il minimo umorismo. — Non l’ho ancora trovata. Essere soddisfatto della mia vita, suppongo, così come il mio caro fratello Matthew è soddisfatto della sua. Aver raggiunto una meta o superato un limite. Sentirmi a mio agio. Non essere costantemente in disaccordo con il mondo. Sapere che ciò che esiste è solo ciò di cui ho bisogno per sfamarmi. Il guaio di questo tempo e di questo mondo è che non è adeguato a me. C’è sempre una divergenza tra me e la vita. C’è costantemente attrito.

— E tu credi che viaggiare nel tempo risolverà tutti i tuoi problemi, farà scomparire tutte le tue ansietà? — disse l’omino come se sapesse che non era la soluzione giusta.

— L’Età dell’Oro — rispose John assumendo un atteggiamento incisivo in previsione di un’eventuale discussione. — L’età in cui l’uomo era potente, prima che il genere umano cominciasse a morire. Voglio ritornare ai giorni in cui eravamo padroni delle stelle, quando al posto dei deserti di ruggine di oggi c’erano delle grandi città. Quello è il mio tempo. Ecco cosa voglio.

Alvaro scosse la testa e si asciugò la fronte. Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con cura. Apparentemente il caldo aveva smorzato tutto il suo entusiasmo per il dibattito e John, per il momento, non avrebbe aggiunto altro finché la sua affermazione non fosse stata contestata.

Scrutai l’orizzonte in cerca di un gruppo di alberi o di una guglia di roccia che potessero offrirci un po’ d’ombra per riposare e riprendere le forze.

Non molto lontano notai qualcosa che si muoveva. Lo intravidi una sola volta, poi scomparve quando la strada cominciò a scendere. Raggiunta la salita successiva, cercai di individuare la cosa in movimento, ma mi ci vollero parecchi minuti prima di riuscire a mettere a fuoco la sagoma di un ragazzo che saltellava qua e là sul ciglio della strada sopra un cumulo di lastre di pietra riarse dal sole. Sembrava impazzito: volteggiava, saltava su e giù, raccoglieva dei sassolini e li lanciava in alto. Ma il suo sguardo rimaneva costantemente fisso sulla roccia sotto ai suoi piedi.

Subito pensai che stesse cercando di uccidere un serpente che aveva tentato di morderlo, poi considerai la possibilità che fosse in preda a qualche convulsione. Mi voltai verso Alvaro e John che come me osservavano i movimenti scomposti del ragazzo.

— Cosa pensate che stia facendo? — chiesi.

— Non saprei proprio — rispose il piccolo prete. — Perché non glielo chiediamo?

— Non vogliamo perdere tempo — disse John all’improvviso con quel suo modo di fare unico e irritante. — Non mi pare una buona idea farsi coinvolgere nelle vicende di un pazzo.

Il giovane continuò a saltellare, a contorcersi e a pestare i piedi come se non si fosse accorto della nostra presenza.

Nella discesa che portava all’affioramento roccioso la strada diventava più dissestata e Darling dovette scegliere il percorso con grande cura, evitando fessure e buche. John sedeva a cassetta ma lasciò a me il compito di guidare per la briglia la giumenta. Con apprensione osservammo il giovane saltare giù dalla roccia, correre verso di me per dieci passi, inciampare e cadere in avanti.

Gli andai incontro per aiutarlo, ma prima che lo raggiungessi lui si era già rialzato. Si era procurato un taglio che andava dal centro della fronte all’orecchio destro. Asciugò il sangue con una manica sudicia e ci guardò in silenzio. Mi feci nuovamente avanti ma lui si ritrasse come se improvvisamente si vergognasse della propria goffaggine. Quel movimento sembrò ricordargli l’esistenza di un’altra ferita, perché si fermò, restò su una gamba sola e si massaggiò il ginocchio sinistro. Aveva un’aria sofferente e un po’ imbarazzata.

— Be’ — disse — che c’è?

Scossi la testa e allargai le braccia per indicare che non volevo offenderlo né fargli del male e dissi: — Volevo solo aiutarti.

Lui posò con circospezione la gamba sinistra e si pizzicò il labbro. Aveva le unghie lunghe. — Chi siete? — domandò sgarbatamente.

— Stiamo andando verso ovest — dissi. — Il mio nome è Matthew. Ci chiedevamo… — Mi fermai non sapendo come scegliere le parole.

Il ragazzo, comunque, non ascoltava la domanda che lentamente cercavo di formulare. — Fai ombra dietro di te! — disse in tono accusatorio.

— Anche tu — gli feci notare alquanto sorpreso. — Qual è il problema?

— Ti piace? — mi chiese. Indugiai un attimo prima di rispondere per studiarlo più attentamente. Aveva più o meno l’età di John e la sua stessa corporatura esile, ma a differenza di John, che era un ragazzo di bell’aspetto, questo era decisamente brutto. Aveva una bocca larga e sporgente, la pelle butterata, la forma degli occhi pronunciata, simile a quella di una lucertola.

— Non ci bado — risposi alla fine. — Non posso farci molto — dissi sorridendo. — Si potrebbe quasi dire che le sono molto attaccato.

— Amo la mia ombra — disse il giovane.

Stavolta ero completamente sbigottito. Intimamente ero divertito per la mia sciocca battuta, ma la solennità del ragazzo mi tolse ogni voglia di ridere. — Davvero? — dissi con serietà.

— Ho sentito di gente che aveva paura della propria ombra — continuò il giovane. — Ce n’è un sacco. Gente assassinata in circostanze misteriose. Nessuna evidente causa di morte. Un mio amico dice che sono morti di malocchio. Chi pensate che potrebbe fare una cosa del genere? Attento!

Con la mano indicò il terreno ai miei piedi. Feci un balzo, come un coniglio impaurito. Quando ritornai con i piedi a terra ero furioso con me stesso per essermi fatto cogliere di sorpresa.

— Cercava di afferrarti — disse il giovane. — Devi stare attento. Non darle nemmeno mezza possibilità.

— La mia ombra… — cominciai a dire stizzito, ma non potei continuare.

— A me non succederà — disse il ragazzo, a voce molto alta, interrompendomi. — Io e la mia ombra andiamo proprio d’accordo. Amo la mia ombra, davvero. Dovresti fare pace con la tua, ti ha quasi preso, poco fa. Sei fortunato che ti abbia avvertito. Chissà che sarebbe successo se non fossi stato qui, eh?

Dietro di me sentivo le risate di Alvaro e John, divertiti dalla mia perplessità e dalla mia irritazione. Persino Darling nitrì con un tono chiaramente sarcastico.

— Devi fare attenzione — continuò l’irrefrenabile giovane. — È con te ovunque vai, ti osserva sempre con i suoi occhi invisibili. Di notte ti tormenterà e non puoi vederla. Puoi solo startene seduto, tremando di paura, e di giorno chiamerà in aiuto i suoi amici per prendersi gioco di te. Forse in questo stesso momento, in questo esatto istante, studia come ucciderti. Lei riesce a sentirmi, e adesso teme che tu possa stare in guardia. La cosa non le piace. Aspetterà che ti rilassi e al momento buono verrà di soppiatto a strangolarti. Non andare a dormire stanotte, non senza aver fatto la pace con la tua ombra.

— Sei pazzo — dissi senza speranza. — Sei completamente pazzo.

Mi ignorò. — Amo la mia ombra — ripeté orgoglioso. — Non devo averne paura. Noi ci aiutiamo a vicenda, ci parliamo, balliamo insieme.

— Era questo che stavi facendo allora… — ricominciai a dire.

— Andiamo insieme ovunque — continuò lui, senza degnarsi di riconoscere che avevo cercato di interromperlo. — Staremo sempre insieme, per sempre.

Lasciai perdere, gli girai le spalle e tornai da Darling, convinto che non vi fosse più motivo di stare lì. Ripartimmo in cerca dell’ombra.

— Quello era un uomo del tutto a suo agio in questo mondo — disse Alvaro a John. — Un uomo veramente felice.

— Sì — ammise John, e aggiunse: — Finché splende il sole.

4. Conquiste

— L’uomo ha conquistato le stelle — affermò John.

— Davvero? — disse Alvaro. — Non credo.

Ormai era un argomento abusato, ma Alvaro sembrava felice di parlare, parlare e parlare. E John era tanto sciocco da continuare i tentativi di convincerlo, o forse convincere se stesso. Io non mi univo alle discussioni, non più, mi limitavo a guidare il carro.

Fortunatamente la calura ormai era finita, e noi salivamo lentamente, ma inequivocabilmente, verso le colline. Eravamo passati dai campi coltivati del fondovalle alla zona boschiva, dove gli insediamenti umani erano molto meno frequenti. Le strade si presentavano lunghe e tortuose, e spesso terribilmente ripide. Sovente avevo l’impressione di percorrere miglia e miglia e non arrivare da nessuna parte: per ogni salita c’era una discesa, per ogni svolta a sinistra una svolta a destra.

— È vero — insistette John, tracciando col braccio un ampio arco sopra la testa, una linea nel cielo della sera. — Un tempo ogni stella, ogni singola stella ci apparteneva, apparteneva alla nostra razza… a questo pianeta, finché non vi rinunciammo e ritornammo a casa a marcire.

Alvaro rise sommessamente e John rivolse a quell’ometto, che continuava a non farsi impressionare, uno sguardo torvo.

— Ne abbiamo raggiunte così poche — disse pacatamente. — Davvero poche. Siamo andati, abbiamo piantato le nostre bandiere e pronunciato delle belle parole. Ci siamo guardati intorno e tutto quello che vedevamo ci sembrava a portata di mano. Dopotutto le stelle sono così minuscole lassù nel cielo. E nessuno potrà mai “vedere” i loro minuscoli mondi satelliti. Ma non siamo mai riusciti ad afferrarle perché esse non sono solo delle minuscole luci nel nostro cielo. Esse esistono. Hanno una loro identità e non possiamo obbligarle ad assumere l’identità che noi vorremmo solo per i nostri scopi.

“Non ci sono mai appartenute né mai potrebbero appartenerci. Era tutto un sogno, amico mio, proprio come i tuoi sogni scaturiti dall’orgoglio e da una visione ingannevole della realtà. Ti sarai reso conto che l’uomo non è il principio e la fine dell’esistenza. È solo parte di un continuum, l’anello di una catena, non sappiamo quanto lunga, che porta all’ultimo stadio dell’evoluzione. Forse non ci sarà un ultimo stadio dell’evoluzione e la catena andrà avanti per sempre, ma in entrambi i casi l’uomo rappresenta solo una fase transitoria. La Confraternita dell’Uomo Futuro si è prefissa anche di educare gli uomini ad apprezzare il loro ruolo nello schema delle cose. La Confraternita non insegna la gloria ma l’umiltà e la comprensione. Non abbiamo dei, siano essi idoli o sogni di vanità, abbiamo solo il nostro piccolo ruolo, la nostra esistenza. Non insegnamo il futile trionfo dell’Uomo, ma l’avvento finale dell’Uomo Futuro. La nostra razza deve morire, ma ci sarà vita dopo la morte. Non sarà la nostra vita, anche se sarà quella dei nostri discendenti. Sarà un nuovo modo di vivere… quello dell’Uomo Futuro.

“Sai come sono arrivati fino alle stelle gli uomini? Hanno preso un minuscolo pezzo di questo mondo, l’aria, la materia, gli elementi della nostra Terra, e li hanno rinchiusi in una bara d’acciaio. L’hanno spinta fino alla stella più vicina per poi risospingerla indietro dicendo che avevano conquistato le stelle. Senza quel piccolo frammento terrestre chiuso insieme a loro nella scatola metallica, tutti quegli uomini sarebbero morti. Non potevano vivere nello spazio, né nei mondi delle stelle, ma solo sulla Terra.

“Vedi, per conquistare devi fare tuo qualcosa, devi renderlo parte di te, trasformarlo in qualcosa che puoi controllare e dirigere. Non vi saremmo mai riusciti: solo la Terra ci apparteneva, nient’altro. Ne abbiamo troppo bisogno, come le prime forme di vita avevano bisogno del mare. Persino quando la vita emerse dall’oceano manifestandosi sulla terraferma la terra non fu conquistata. Il dipnoo non conquistò la terra, né lo fecero gli anfibi. Furono i rettili i veri conquistatori, perché per primi svilupparono un uovo con guscio isolante che li liberò dalla dipendenza dall’oceano, la loro dimora ancestrale. C’è una grande differenza, John, tra andare da qualche parte e appartenervi. L’uomo non può conquistare le stelle perché non riuscirà mai a staccarsi dal pianeta in cui è nato. Quando un uomo va nei mondi delle stelle, deve portare con sé la Terra. Tutte le grandi conquiste, John, saranno prerogativa di qualcosa diverso da noi. La sola causa che il Genere Umano può servire è quella di dare vita all’Uomo Futuro.”

Da tempo ormai John si era immusonito. Lo faceva spesso quando nessuno condivideva il suo punto di vista o ammetteva la sensatezza dei suoi argomenti. Non poteva mettersi a discutere con un uomo così intelligente e loquace come Padre Alvaro. Nonostante la sua ostentazione di maturità e di fiducia, John sapeva così poco, mentre Alvaro conosceva così tanto, e aveva avuto vent’anni o più per preparare le sue argomentazioni. Non si poteva dire che Alvaro fosse saggio, ma era un uomo determinato che aveva ben chiaro ciò in cui credeva, ciò che voleva fare della sua vita e perché.

Per riempire quell’imbarazzante silenzio e per mascherare il broncio di John, chiesi ad Alvaro: — Come pensi si sentissero gli uomini che lanciarono scatole di ferro verso le stelle? Cosa credi che pensarono di se stessi, quando atterrarono su mondi nuovi di nuovi soli?

— Be’ — rispose Alvaro come se fosse ovvio — si sentirono dei conquistatori, che altro?

“E questo non è sufficiente?” mi domandai. “Non è tutto quello che in realtà vuole il ragazzo? E noi, vecchi ed esperti delle cose del mondo, abbiamo davvero il diritto di mettere in discussione i suoi sogni?” Ma non parlai. Dirlo avrebbe solo fatto soffrire maggiormente John, e poi non stava a me criticare Alvaro.

— Allora, Lucciola — dissi tentando di scuotere John dal suo malumore — dobbiamo fermarci qui per la notte? Il sole è tramontato e la vista di Darling non è più quella di un tempo. Non abbiamo bisogno di un riparo in una notte come questa.

— Il sole è solo dietro la montagna — mi rispose. — Proseguendo lungo la strada avremo ancora qualche minuto di luce con il crepuscolo. Ancora un chilometro o due, Matthew, è tutto quello che ti chiedo.

Alzai le spalle. Un giorno o l’altro, pensai, su una strada come questa, la povera vecchia Darling si rifiuterà di proseguire e dirà: “Non un passo di più”. Mi sentivo perennemente colpevole d’anteporre i capricci di mio fratello al benessere del cavallo, solo perché mio fratello si lamentava a voce più alta.

— Sono la Lucciola — si disse John, ma parlò abbastanza forte perché anche Alvaro lo udisse. Era il suo credo. — Sono la Lucciola — continuò — perché la luce solare dà la vita a ogni cosa sulla Terra, ma io ho più vita di quella posseduta da ogni altro essere, per questo emano una mia luce. Non ho bisogno del ciclo quotidiano del sole. Rifiuto la sua inutile luce e vado per la mia strada. Questo mondo è morto, ma altri uomini sono contenti di vivere e respirare come le cellule di un cadavere. Io no. Voglio tornare al tempo in cui la vita era come la mia vita, quando aveva un senso. Sto seguendo un uomo che conosce il segreto di questa vita. Il Genere Umano si è giocato il suo futuro, ma c’è vita nel suo passato e quell’uomo mi ci può condurre o può indicarmi la strada. Non morirò. Sono la Lucciola.

— La tua è una vanteria — commentò Alvaro. — Spero che non lo rimpiangerai. Un nome, specialmente un nome che ci si è scelti, deve essere portato per sempre. Anche quando ci sarà un tempo in cui non vorrai più essere la Lucciola, non dimenticherai mai quel nome. Sta’ attento, John.

— Posso tener fede al mio nome, Padre — disse John — se voi potete tener fede al vostro.

— Siamo tutti padri dell’Uomo Futuro — replicò Alvaro — poiché la vita nasce solo dalla vita. Come i tuoi antenati erano scimmie, e prima ancora insetti, rettili, anfibi e pesci, sino a risalire alla forma di vita primordiale, così da noi nascerà l’Uomo Futuro. E da lui, chi può saperlo? Noi non possiamo saperlo perché, anche se vedessimo l’Uomo Futuro, non riusciremmo a capirlo.

— Non mi interessa il vostro Uomo Futuro — rispose John. — Se non c’è futuro per il Genere Umano, non c’è nemmeno per me. Io andrò nel passato.

— Il passato — ripeté l’uomo. — Il glorioso passato che ti ossessiona tanto. Vacci allora, se riesci a trovare il modo, ma ricordati questo: se impegni tutto il tuo essere nella lotta, nell’ambizione e nel potere, allora neghi a te stesso l’appagamento che è qui, ora, in questo mondo. Forse non è proprio il tipo di felicità che cerchi, ma per molti, moltissimi uomini si avvicina notevolmente al loro modello di felicità. La razza umana non ci si è mai avvicinata tanto. Non farti abbagliare da città e stelle, John, sono solo simboli. Sono sempre stati falsi, anche se la gente che li ha creati non ammetterà mai la propria stoltezza. Ora siamo un popolo migliore, più avanzato, più maturo. Più vicino alla morte naturalmente, ma è questa la via che il tempo percorre. Oggi l’uomo ha imparato a convivere con se stesso, e questo è un aspetto che non troverai nel passato.

“Dici di essere un ribelle, di avvertire un disagio che nessun altro sembra sentire, e qual è la tua soluzione? Fuggire dove tutti sentono quello stesso disagio. E questo può dare loro sollievo? Può renderli più sopportabili? Mi fai pena, amico mio, perché, a differenza di quello che pensi, non sei mosso da una grande ambizione, ma afflitto da una malattia.”

Alvaro era un uomo crudele, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Il flusso continuo, monotono e sferzante delle parole di Alvaro avevano cullato John verso un sentimento di rabbia sorda che si manifestò quando finalmente il monologo dell’omino fu terminato.

— Voi! Voi mi fate la predica sul peccato dell’orgoglio, sulla malattia dell’ambizione. Ma cos’è la vostra Confraternita, Padre Alvaro, se non un’istituzione che si è prefissa di determinare il destino dell’Umanità? Dite di non ammettere alcuna illusione di vanità… alcun dio, però volete ergervi a Dio voi stesso. Preparate la strada all’Uomo Futuro, insegnate il trionfo dell’Uomo Futuro. Chi vi dà il diritto di determinare il futuro?

— Non abbiamo alcun diritto — ammise Alvaro. — In un certo senso hai ragione Ci facciamo carico di un sacco di cose, ci diamo da fare quando forse dovremmo solo aspettare, ma non lo facciamo per orgoglio. Non diciamo di essere gli Eletti che guideranno l’Umanità verso il suo destino. Non vediamo degli dei in noi stessi, non ci ergiamo al ruolo di Dio. Svolgiamo solo quello che pensiamo sia il ruolo dell’uomo. La tua accusa ha del vero, ne siamo coscienti e ne proviamo vergogna. Agiamo in nome delle nostre convinzioni, ed è impossibile credere che non vi sia vanità in tali azioni. Dopo tutto la vanità è un peccato così facile e subdolo. Facciamo quello che pensiamo sia meglio, John, ma non neghiamo che potrebbe risultare sbagliato. Perlomeno abbiamo l’umiltà di ammetterlo.

Ci fu di nuovo silenzio.

Nonostante la fiduciosa affermazione di John, non vedemmo più il sole e alla fine mi fermai senza preoccuparmi di consultare mio fratello una seconda volta. Saltai giù dal carro e mi diedi da fare per togliere la bardatura a Darling prima che John avesse anche solo pensato di poter protestare, cosa che infatti non avvenne.

Mentre ci preparavamo per la notte, dissi ad Alvaro riprendendo un discorso cominciato molto tempo prima: — Ho sempre pensato che il dipnoo potesse conquistare la terra. Respirava aria, non acqua.

Alvaro scosse la testa con un’aria che esprimeva un misto di condiscendenza e sopportazione. — No, Matthew. Un pesce che respira aria è ancora un pesce, così come una scimmia senza peli è solo una scimmia che pensa di essere più bella. I dipnoi uscirono dall’acqua per respirare aria, trovarono il modo di camminare sulla terraferma e di cacciare. Riuscivano a sopravvivere a lunghe estati di siccità, ma avevano ancora bisogno dell’acqua per riprodursi. Non costituirono il vero passaggio tra il mare e la terra, ma ne posero le basi. I loro figli, e i figli dei loro figli, progredirono grazie al caso e alla selezione naturale e vennero diversificati e riclassificali. E finalmente, al termine di un lungo percorso con vicoli ciechi, arrivarono i rettili. Vedete, esiste un’unica linea di discendenza che va dalla base dell’albero al punto più alto, ma nessuno sa quale sia il percorso perché non è diretto. Quella linea porta all’uomo, ma passa attraverso l’uomo. Che ora l’uomo sia il ramo più alto non implica che quello sia il limite delle aspirazioni dell’albero. L’albero continua a crescere, continua a mutare. Ci saranno nuovi rami più alti ancora. Non possiamo dire quanto crescerà l’albero, né se si fermerà.

— E quale sarà l’aspetto del vostro Uomo Futuro?

— Non lo so! Non lo vedrò. Sapete, il tempo sembra volare, ma in realtà scorre molto lentamente. Temo che un giorno o l’altro si fermerà. Quel giorno, probabilmente, sarà il giorno dell’Uomo Futuro. Io morirò molto prima di quel tempo.

John si era allontanato. Lo raggiunsi per dargli la buonanotte ma si era già addormentato. Sicuramente sognava di un nuovo giorno, di un incontro e di un viaggio. Era tutto raggomitolato nelle coperte come un feto.

— Dorme come un bambino — dissi ad Alvaro.

L’omino scosse la testa, come per dissentire, ma non si diede la pena di dare spiegazioni.

5. Vecchia luna

Come se la strada che percorrevamo tra le montagne non fosse già sufficientemente tortuosa, l’uomo che viaggiava nel tempo cominciò a cambiare direzione ogni volta che chiedevamo di lui. I villaggi di montagna erano rari e sparsi disordinatamente lungo i pendii, collegati da sentieri accidentati che di rado avevano visto mezzi di trasporto. L’uomo sembrava deciso a toccare ogni paese. Ovviamente non aveva fretta, ma le strade sulle quali dovevamo viaggiare per inseguirlo erano così difficili e faticose che quasi disperammo di riuscire mai a raggiungerlo.

Ormai doveva essersi accorto che lo stavamo seguendo. Il suo percorso era così irregolare, e le informazioni viaggiavano così velocemente tra i paesi che la notizia della nostra ricerca poteva facilmente aver raggiunto prima di lui una delle sue mete.

Gradatamente ci avvicinammo ai solitari picchi dell’ovest. Avendo lasciato la strada principale per i sinuosi sentieri di montagna e i tratturi di formazione più recente, la distanza tra i centri abitati era così difficile da coprire che spesso riuscivamo a trovare un riparo solo a notte fonda. Non volevamo dormire all’aperto a quell’altitudine perché il vento gelido, che spesso soffiava dalle montagne, poteva trasformare il nostro sonno in sofferenza. In quei giorni cominciammo ad apprezzare la presenza del Padre: la gente lo conosceva, o almeno conosceva i suoi compagni, ed era contenta di offrirci cibo e riparo per pochi soldi o gratuitamente. John lasciò intendere che sarebbe stato interessante sapere quale servizio poteva rendere loro la Confraternita in cambio di questa sollecitudine, ma il ragazzo era spesso irrispettoso nei confronti delle azioni e dei pensieri di Padre Alvaro, e venne saggiamente ignorato.

Un giorno viaggiammo per quasi quattordici ore rese estenuanti dal fatto che le ruote si ostinavano a rimanere bloccate nelle fenditure del terreno e per liberarle dovevamo continuamente scaricare e caricare il carro. Faceva già buio da un’ora, e una luna piena, incredibilmente grande e luminosa, sovrastava la cima del Picco dei Dolori, quando udimmo delle voci portate dal vento notturno.

Le voci sembravano intonare una cantilena, cosa che non preoccupò né me né mio fratello, ma che sembrò agitare Alvaro.

— Fai attenzione Matthew — mi avvertì. Lo disse con evidente trepidazione, e per un uomo abitualmente tanto calmo e fiducioso era indizio di qualcosa di strano e sinistro.

— Che succede? — domandai fermando il carro.

— Potrebbe trattarsi di qualcosa con cui non vorremmo avere a che fare — rispose vagamente Alvaro.

— Ma cosa?

Alla fine ammise: — Non lo so. Non conosco questo territorio. Ci troviamo molto più a ovest, di dove sia mai arrivato. Temo che il piacere della vostra compagnia mi abbia portato un po’ fuori strada, ma non è importante. Questi villaggi così isolati spesso hanno delle consuetudini bizzarre. Non giudicate ogni villaggio da quello che avete visto in uno solo. Gli abitanti delle montagne sono gelosi della propria gente e delle proprie abitudini.

— Ma stanno solo cantando — protestai.

Darling riprese la marcia senza che gliene avessi dato l’ordine. Di sicuro si era stufata delle nostre discussioni di quegli ultimi giorni: ne aveva ascoltate a sufficienza per una vita intera.

Ci fermammo nuovamente e, mimetizzati nell’ombra di un grande albero, guardammo verso il villaggio. Vedemmo una settantina di persone radunate su una montagnola in un grande spazio circolare situato lontano dalla strada e al di fuori del perimetro delle abitazioni. Il canto conteneva molte parole arcaiche e sconosciute e aveva un ritmo ingannevole. Spesso riuscivo a cogliere tre o quattro parole di seguito, ma perdevo sempre il filo prima di poter afferrare il senso della nenia.

Dopo alcuni minuti capii che i cantori sbeffeggiavano o insultavano qualcosa o qualcuno.

— Cosa facciamo? — domandai.

— Sono stanco — disse John. — Proseguiamo, sono innocui.

— Sembra di sì — convenne Alvaro. — Ma sta’ attento se parli con uno di loro.

John sollevò da terra la sua massiccia balestra e la stese sopra la coscia. Mise un dardo nella scanalatura del meccanismo ma non tese la corda.

Avanzammo tra insistenti scricchiolii.

Non tutti cantavano. C’erano sei o sette capi e una ventina di fedeli seguaci che si limitavano a guardare e a ridacchiare di tanto in tanto per qualche insulto particolare espresso dallo strano coro a cui talvolta si univano cantando.

Ci fermammo sulla strada a osservare, tenendoci a una ventina di metri di distanza. Mi alzai per guardare meglio e anche John e Alvaro allungarono il collo. Non vedemmo né sentimmo l’uomo che si avvicinò alle nostre spalle finché questi non si schiarì la gola educatamente.

— Salve — disse.

Per lo spavento balzai quasi giù dal carro.

Fu John a rispondere. — Ah — disse, come se stessimo aspettando qualcuno. — Stiamo cercando una sistemazione per la notte, se è possibile.

— Be’ — rispose l’altro restando nell’ombra che la luna proiettava delle nostre figure senza che quindi riuscissimo a distinguerlo chiaramente. — Non so se posso aiutarvi, è luna piena. Vedete, arrivate in un brutto momento, con il giorno della spedizione e tutto il resto. Forse più tardi qualcuno potrà trovarvi una sistemazione.

— Mi sembra di capire — disse John toccando proprio un argomento che Alvaro ci aveva raccomandato di non affrontare — che è questo il giorno della spedizione. — E col braccio magro indicò il rituale sulla collinetta.

— Sì.

— Che cosa cantano? — domandò John con il suo solito approccio diretto agli argomenti.

— La vecchia luna, naturalmente.

— Perché, che cos’ha fatto la luna?

Cercai di scrutare l’espressione dell’uomo, ma era troppo buio. Mi sedetti, in modo che la luna gli illuminasse il viso, ma lui si ritrasse. Era un tipo indefinibile, altezza media, tratti volgari, voce comune. Però, quando rispose, usò un tono abbastanza calmo da placare le mie ansie. Sembrava che nessuno volesse farci del male.

— La vecchia luna porta il buio, amico mio. Stiamo cercando di distruggerla e mettere per sempre fine alla notte.

— No, no — lo corresse Alvaro prima che riuscisse a frenarsi rammentando il suo stesso consiglio. — È il tramonto del sole che porta il buio. — Percepii il suo imbarazzo per aver chiesto poco prima a noi di tenere a freno la lingua.

— Dite delle sciocchezze, signore — rispose garbatamente l’abitante del villaggio. — Il vecchio sole non può essere la causa dell’oscurità dal momento che non è mai presente durante la notte. È la vecchia luna che accompagna la notte, e quindi ne è la causa. Di certo, per uno istruito come voi è una cosa ovvia.

Alvaro, sempre fiero delle sue conoscenze, era riluttante all’idea di lasciare senza risposta tali assurdità, ma dubitava che fosse saggio continuare e perciò esitò.

John, invece, si sentiva attratto dal discorso e per nulla riluttante. — Ma la luna non appare spesso anche durante il giorno? E nei giorni in cui la luna sorge prima del sole e si attarda nel cielo dopo l’alba, e in quelli in cui appare prima del tramonto?

— Ah, il vecchio sole è astuto! Mentre la vecchia luna domina la notte, esso raduna le forze e spesso la sopraffà attaccandola di sorpresa. Ahimè! è pur vero però che il più delle volte al termine della giornata la vecchia luna riesce a vincere facilmente.

John era ovviamente perplesso di fronte a questi continui riferimenti ad attacchi e vittorie. — Ma il sole e la luna non combattono per il possesso del cielo — disse. — Non sono altro che corpi celesti passivi, rivelati e nascosti dalla rotazione della Terra sul suo asse.

Alvaro, accanto a me, trattenne il respiro, come se John avesse appena detto un’eresia.

— Non essere sciocco — disse il montanaro. — Se fosse così, i giorni e le notti avrebbero tutti la stessa lunghezza e sarebbero tutti uguali.

John si zittì. Non aveva previsto questa obiezione. Sapeva che c’era un errore in quel ragionamento, però al momento non riusciva a capire esattamente quale.

Ma era ostinato. — Ci sono notti in cui la luna non splende affatto — provò a dire.

— Ah! — esclamò l’altro come se avessimo nuovamente toccato il nocciolo del problema. — È questo che facciamo: quando la vecchia luna è al culmine della sua grandezza e del suo potere e minaccia di instaurare la notte perenne, mandiamo un guerriero ad aiutare il vecchio sole, e la notte successiva la vecchia luna non è più così grande e potente. Il nostro guerriero delle Montagne Mockingbird, forte e coraggioso, la respinge e vince la battaglia. Per cinque giorni continua a obbligare la vecchia luna a nascondersi sempre più, finché alla fine la luna si rifugia da qualche altra parte. A quel punto preghiamo, oh, quanto preghiamo, perché sappiamo che il ritorno a casa del vecchio sole potrebbe essere definitivo. Ma il nostro guerriero non riesce mai a sferrare il colpo finale. Non so dove vada la vecchia luna o cosa faccia, ma di certo deve trattarsi di un’odiosa astuzia. Piano piano, furtivamente, ritorna sempre. Naturalmente è debole per aver ucciso un uomo di montagna che, come immaginate, ha molta forza. Ma il vecchio sole non riesce mai a vincere definitivamente. La vecchia luna ritrova la sua forza e noi dobbiamo ricominciare tutto da capo.

“Ma un giorno, amici, ascoltate bene quello che sto per dirvi, un giorno verrà un uomo dal cuore ‘straordinario’, un uomo che ha vissuto così a lungo da avere un’anima di granito, e in modo così intenso da avere lo spirito di un eroe. Quel giorno vedremo fuggire la vecchia luna. Prima o poi sarà sconfitta, e finalmente vi sarà il giorno eterno, e voi vi ricorderete di queste mie parole.”

John, che non si era ancora dato per vinto, sebbene meno motivato a continuare la discussione, si limitò a porre domande. — E come viene mandato questo guerriero a compiere la sua missione? — volle sapere.

L’uomo indicò l’estremità della collina dov’era tenuta in bilico una grande ruota di pietra, e per la prima volta notai la rampa in leggera pendenza fino a un burrone che pareva sagomato apposta per farvi correre la ruota.

— Lo mettiamo disteso nel solco e l’intero villaggio si raduna per sollevare la pietra sul ciglio della collinetta. La pietra riduce in poltiglia il guerriero e il suo spirito viene liberato dal corpo. Si innalza fluttuando nel cielo e combatte per noi e per il mondo. — Al termine della spiegazione l’uomo indicò la luna in modo teatrale.

Una volta tanto John non aveva più argomenti. Contrassi le labbra e riuscii quasi a sentire Alvaro ripetere a se stesso che eravamo stati avvertiti: immagino temesse che uno di noi potesse finire nel solco.

Ma questo non era possibile: non si sarebbero fidati a mandarci a combattere per loro. Nessuno si prende certe libertà quando si tratta di lottare per il futuro del mondo. Trascorsero solo pochi minuti prima che comparisse la vittima sacrificale. L’uomo, affiancato da una guardia sacra, uscì dal villaggio. Non ci fu bisogno di trascinarlo: era vecchio e fragile. Certo, aveva l’aria di aver vissuto a lungo, ma non in “modo intenso”. Il passo era titubante, gli occhi sgranati, e in quel misero corpo non c’erano tracce di un’antica baldanza. Il vecchio si muoveva meccanicamente, stretto nella morsa della paura.

Passò a tre o quattro metri dal carro e ci guardò. Aveva uno sguardo implorante, e penso che volesse gridare per chiedere aiuto. Ma non gridò: o perché non osava, o perché si vergognava di quel desiderio.

— Muoviamoci — dissi a John che teneva le redini lente. Sedeva a cassetta come impietrito e fissava la grande ruota. Gli allungai un calcio alla caviglia, afferrai le redini e diedi a Darling un bel colpetto sull’orecchio. La cavalla nitrì e si mise in movimento. Mi rifiutai di guardare ogni altra cosa che non fosse la strada davanti a me.

John si sollevò dal sedile e mormorò qualcosa di incomprensibile. Mi sedetti di colpo e costrinsi John a imitarmi tirandolo per la collottola, ma non riuscii a impedirgli di allungare il collo per guardare.

Si sentì un gran tonfo alle nostre spalle e il suono di settanta voci che pronunciavano un accorato addio a un amico.

La vecchia luna parve sorridere.

6. La statua di Dio

— Avremmo potuto aiutarlo — disse John.

— Non c’era niente che potessimo fare — risposi freddamente.

Era il mattino dopo. Avevamo passato la notte all’addiaccio e il vento freddo non ci aveva risparmiato. La logica della mia affermazione era incontestabile, tuttavia sentivo una certa avversione per quella conclusione. Niente, assolutamente niente. Ma chi è colpevole non sempre è responsabile.

— E voi! — John si rivolse al Padre con un tono di rimprovero. — Voi, un Confratello dell’Uomo Futuro, come avete potuto rimanere seduto in silenzio a vedere compiere una cosa simile con tanta noncuranza? O era “soltanto” un uomo e quindi senza importanza?

— Non ha guardato — dissi in tono accusatorio. — Solo tu l’hai fatto.

— No, non ha guardato. Si è voltato dall’altra parte, come te. Ma che differenza fa se i vostri occhi erano rivolti là o no? — C’era amarezza e rabbia nelle sue parole. — D’accordo, io l’ho visto con i miei occhi, mentre voi due vorreste fingere di non aver potuto vedere. Siete degli ipocriti. Voi eravate lì. È accaduto davvero!

— Non c’era niente che potessimo fare — insistetti ostinatamente.

— Non ti preoccupare — disse John. — Tu sei sempre stato un codardo. Ma voi, Padre, siete voi quello che ha le risposte. Siete l’uomo che vive nel migliore dei mondi possibili e pensa che siamo tutti soddisfatti, tutti felici, che la lotta e la sofferenza siano servite a qualcosa e adesso siano finite. E allora?

— A volte — rispose il prete con un tono altrettanto amaro, sebbene la sua fosse un’amarezza diversa — si deve tacere. Questo non significa che approvi quanto ho visto, né che avessi paura di intervenire. Tuo fratello non è un codardo. Ha fatto quello che ha fatto per un motivo, perché non si poteva fare nulla. Ho fatto ciò che ho fatto perché sono stato obbligato. Non mi piace temere le conseguenze delle mie azioni. Mi piace agire, anche andando contro la logica, se devo. Anche quando non c’è nulla da guadagnare mi piace dimostrare di essere nel giusto quando lo sono. Aver agito lascia sempre un ricordo migliore che essere rimasti a guardare. Ma gli uomini non devono essere soggetti alle leggi e alla morale dell’uno o dell’altro. L’editto della Confraternita, al quale mi attengo, dice chiaramente che lo stile di vita adottato dagli uomini è affare loro e non deve essere messo in discussione. Possono essere aiutati se lo chiedono, ma non devono essere obbligati ad adattarsi al modello di vita di un altro uomo. Non devono essere cambiati perché un altro uomo crede che abbiano contravvenuto a qualche legge immaginaria o a qualche principio della natura umana.

“La Confraternita dell’Uomo Futuro predica sopra ogni altra cosa la tolleranza, e dobbiamo tollerare non solo i poveri e i deboli, chi è odiato e chi è rifiutato, ma anche i ricchi e i potenti, chi odia e chi rifiuta. Ciò che abbiamo visto non mi sembra una cosa giusta, ma se pare giusto a loro, se quello è il loro modo di vivere, allora non possono essere accusati di alcun crimine.”

— Perché? — protestò John. — Ditemi perché?

— Perché il mio compito, il compito della Confraternita, è legato all’Uomo Futuro, non solo all’uomo. La nostra legge consiste nel far progredire l’Uomo Futuro e guidare o usare gli uomini solo per servire questo fine. Per quel che riguarda tutto il resto, siamo tenuti a non interferire nelle loro vite, a meno che non siano loro a chiederlo. Non potevamo offrire a quel pover’uomo il tipo d’aiuto che ci stava chiedendo silenziosamente.

“Il nostro tempo è finito John, ricordatelo. Non abbiamo il diritto di trasformare gli altri in quello che vorremmo che fossero. L intera razza umana ha già dimostrato di non essere all’altezza delle proprie mire. Predicare un nuovo stile di vita non porterebbe a nulla di buono. Riaccenderebbe solo dei conflitti causati in passato da un tale atteggiamento. Il “mio” sforzo è volto a preparare la via per una nuova razza. Dall’uomo, forse proprio da uomini come questa gente di montagna, verrà l’Uomo Futuro, libero dalle nostre credenze e generato dalla nostra tolleranza. Non appena diventiamo intolleranti e cominciamo a obbligare altri uomini a seguire il nostro stile di vita, o qualunque altro stile di vita, allora diamo inizio allo scontro, e dallo scontro non può che derivare morte. All’uomo non deve essere permesso di distruggersi, John. Ci è andato vicino in più di un’occasione. Annientando se stesso annienterebbe l’Uomo Futuro. Il genere umano deve tramontare lentamente, ma prima di scomparire del tutto deve dare alla luce l’Uomo Futuro.”

— Non vi capisco — protestò John. — Non penso nemmeno che voi stesso capiate tutto quello che dite. Quando vi si rivolgono delle accuse, o delle domande, non fate altro che parlare, parlare e parlare. Conoscete a memoria frasi d’effetto, ma quando le mettete assieme non sono altro che sciocchezze. Non danno nessuna risposta, vi lasciate solo prendere la mano dalla vostra eloquenza. So che avete torto, filosofia o non filosofia, perché quello che avete fatto è sbagliato.

— Non so — disse l’omino pulendosi gli occhiali nella manica. — Non sono in grado di dirlo. Esiste davvero, così come tu dici o sembri far intendere, un “diritto” col quale dobbiamo confrontarci? Penso di no. Non esiste una regola cosmica, un ordine divino. Esiste solo la libera scelta: io ho scelto e rispetto la mia scelta. Non esiste nient’altro.

— Non farò mai una scelta come quella — dichiarò John. “Nemmeno io” avrei voluto aggiungere, ma temevo di averla già fatta.

Era quasi mezzogiorno quando vedemmo la statua. La curiosità e una certa stanchezza dovuta alla notte precedente mi spinsero a fermarmi e a scendere dal carro per studiare quello strano ornamento della solitaria strada di montagna. Anche Alvaro scese per sgranchirsi le gambe, mentre John rimase sul carro ostentando un totale disinteresse.

La statua era modellata con creta grigia e marrone. All’inizio pensai che i colori seguissero un qualche schema, o quantomeno che fossero stati usati in quel modo per ottenere un particolare effetto visivo, ma osservando più da vicino si capiva che erano stati accostati con assoluta casualità. Era come se lo scultore non si fosse curato di esaminare la natura dell’argilla che aveva impiegato, ma avesse semplicemente raccolto tutto il materiale disponibile e l’avesse modellato come veniva.

La statua sembrava la grottesca parodia di una figura umana. Era leggermente più bassa di me, aveva gli occhi deformi e una testa troppo grossa che le dava le sembianze di un bambino gigantesco. Al posto delle pupille c’erano solo due buchi ai lati del setto nasale. Le cavità oculari erano sfregiate, come se fossero state raschiate da un’unghia, forse per abbozzare le sopracciglia. Decisi che gli occhi della statua erano chiusi, sebbene la figura fosse in piedi e non si potesse certo supporre che dormisse.

Era calva, con un cranio arrotondato che non mostrava tracce di saldature ossee. La bocca era storta e le orecchie una massa informe di argilla applicata male, come aggiunta per ripensamento. La statua era nuda e la pelle intorno all’inguine appariva perfettamente liscia. Non vi era traccia di peli pubici né di organi genitali o escretori.

La giudicai una scultura piuttosto misera, anche se possedeva qualche qualità che mi intrigava. — Che ne pensate? — domandai ad Alvaro.

— Qualcuno si è divertito a modellarla — rispose — altrimenti non avrebbe scelto di metterla in mostra sul ciglio della strada.

Guardai le colline circostanti. — Non vedo nessun villaggio — osservai.

— Il territorio è così accidentato e tortuoso che il primo villaggio potrebbe essere a un chilometro di distanza o forse meno — mi fece notare. — Non riusciamo a spaziare molto con lo sguardo.

C’era del vero nella sua affermazione: le regioni montuose potevano confondere viaggiatori non avvezzi alle loro particolarità. Era estremamente facile perdere i punti di riferimento. Noi stessi ci saremmo smarriti di continuo, se non ci fosse stata la strada che, presumibilmente, rappresentava il percorso più breve per giungere a destinazione.

— Penso che ce ne siano altre più su — disse John indicando davanti a sé. C’erano davvero altre sagome grigie e marroni, ma sembravano distese, non in posizione verticale come quella accanto a noi.

Risalimmo sul carro e ripartimmo. A circa un centinaio di metri dalla prima, trovammo i resti di una seconda statua che qualcuno aveva abbattuto e fatto a pezzi. Da quel che potevamo vedere, sembrava che questa fosse in tutto e per tutto simile alla prima.

Nei cinquecento metri successivi passammo accanto ad altre sette statue, due delle quali intere, mentre le altre presentavano danni più o meno gravi. Differivano nell’altezza e nelle posizioni: alcune erano in piedi, altre inginocchiate, altre correvano. Anche le braccia avevano pose diverse: erano stese, sollevate o conserte. Ma a tutte mancavano gli occhi e il sesso. Sembravano essere la rappresentazione di qualcosa di disumano e vagamente terrificante. Una era stata un enigma, ma nove lasciavano intendere che qualcuno ne era ossessionato.

Giungemmo infine a una capanna di legno circondata da pini. Era piccola ma ben costruita. Davanti alla porta sedeva un uomo enorme che plasmava una statua d’argilla simile a quelle che avevamo visto lungo la strada. Lavorava in silenzio, muovendo lentamente le mani, ma la figura che stava creando era ben delineata e già definita.

Per un istante restammo a guardarlo seduti sul carro uno accanto all’altro, senza sapere cosa fare o cosa dire. Il gigante, che doveva essere alto due metri e mezzo o poco meno, era pallido e magro in proporzione alla sua altezza. Forse non si era accorto della nostra presenza o forse gli era talmente indifferente da essere disposto a ignorarci senza nemmeno rivolgerci uno sguardo.

Alla fine prevalse la curiosità e smontai. Questa volta John mi seguì, aiutando prima Alvaro a scendere. Ci avvicinammo tutti e tre all’uomo seduto.

— Buongiorno — mi arrischiai a dire.

Il gigante non sollevò gli occhi. — Mostro — disse.

— Mostro? È il tuo nome o ti riferivi a me?

Il gigante continuò a lisciare la testa della sua opera per darle, con una ragionevole approssimazione, una forma ovale.

— Sei stato tu a mettere le statue lungo la strada? — chiesi anche se la domanda era piuttosto sciocca.

— Statue. — Il gigante sputò per terra. — Uomini.

— Sì, ho visto che sono uomini — dissi. — Alcuni sono caduti. Forseè stato il vento. — L’uomo restò impassibile. — Sono rotti — aggiunsi.

— Morti — commentò lui con una leggera scrollata di spalle, come per indicare che così andava il mondo e che non valeva la pena piangerci sopra.

— È un peccato — dissi tentando di portare avanti la conversazione.

— Gli uomini muoiono — rispose il gigante che era palesemente un fatalista e un uomo di poche parole.

— Ah, non sprechi fiato — osservai. — Non vorrai dirmi che un tempo quelle statue erano vive?

Finalmente il gigante sollevò lo sguardo. Aveva un viso da bambino e una schietta espressione di sorpresa.

— Gli uomini vivono — affermò.

— Le statue no — replicai.

Lui sbuffò. — Gli uomini sì — ripeté, come se questo chiudesse la questione, e ritornò al lavoro.

Confuso, mi voltai verso John e Alvaro. John pensava chiaramente che avessi scovato un altro pazzo e si stava godendo il nostro dialogo. Alvaro restava in disparte a guardare come se anche lui stesse aspettando. Deciso a non fare di nuovo la figura dello sciocco com’era accaduto con la faccenda dell’ombra, mi rivolsi ancora all’uomo. — Perché te ne stai seduto lì a fare uomini? — gli chiesi educatamente.

— Dio — rispose il gigante.

— Sei Dio? Chi te l’ha detto?

Il gigante mostrò un dito. — Anello.

Al medio della sinistra portava un anello con una grossa pietra di colore scialbo.

— State attento — mi avvertì Alvaro, mentre John si sporgeva incuriosito per osservare la gemma più da vicino. Diedi uno sguardo all’omino poi mi voltai verso John giusto in tempo per afferrarlo prima che cadesse a terra.

— Non guardare la pietra — disse Alvaro, venendo avanti per coprire con la mano l’enorme pugno del gigante. L’uomo sottrasse la mano, guardò l’anello senza subirne alcun effetto e ritornò a modellare il naso della statua.

John si accasciò tra le mie braccia. Lo feci scivolare a terra accovacciandomi accanto a lui perché potesse appoggiare meglio la testa e il tronco.

— Che gli è successo? — domandai ad Alvaro.

— Ipnotizzato — rispose lui brevemente. Aspettai che mi spiegasse come guardare un anello potesse mandare qualcuno in trance, ma lui non aggiunse nient’altro. John si mosse e bofonchiò qualcosa.

— C’è una luce… — cominciò a dire afferrandomi una spalla, come se quello che stava cercando di esprimere fosse estremamente importante. — …Una luce nella pietra… che gira… Ho visto tutto il mondo… un lampo… mi ha catturato… tutto il mondo. Sono stato per il mondo… nel mondo… in tutto… il mondo era puro… giovane… mio… il cielo era azzurro… un blu… intenso, intenso… intenso… cadevo in quell’azzurro… per molto tempo… precipitavo… la vita di tutto il mondo… la mia vita… nemmeno un uomo… e c’era… i campi erano verdi… tutti verdi… e le montagne intatte… e il mare pulito e trasparente… e il vento fresco… e il sole continuava a brillare… non c’era la notte… e gli arcobaleni danzavano… le gocce di pioggia erano trasparenti, come gemme… niente strade… niente villaggi… niente chiese… niente locande… niente case… niente guglie… niente luci… niente uomini… e si muoveva come volevo che si muovesse… tutto era in movimento… e c’era una voce… una vocina… una voce dal basso… da sotto… e diceva… creami… creami… ti servirò… sono nato per servire… creami… sei Dio… crea… crea…

— Sta uscendo dalla trance — disse Alvaro mentre John cominciava a muoversi di nuovo, a dimenarsi come durante un sonno agitato. La voce debole e impersonale con cui John aveva parlato scomparve.

— Non ci credo — disse John, deciso. Lo stato d’animo di poco prima era svanito quasi istantaneamente. John era di nuovo se stesso.

— Ecco perché le statue hanno quegli strani occhi — mormorai. John tossì, ancora stordito dal violento ritorno alla realtà.

Tornammo lentamente alla strada dove Darling aspettava con serafica pazienza.

All’improvviso il gigante si alzò, apparentemente per guardarci andar via. Era completamente nudo, e inarcai le sopracciglia per lo stupore. L’inguine del gigante era liscio e piatto. Esitai, e John dovette quasi sollevarmi di peso sopra la ruota per rimettermi alla guida.

— Ma guardalo — protestai.

— E allora?

Non riuscivo ancora a crederci. Istintivamente scossi le redini e Darling cominciò a trainare il carro prima ancora che fossi pronto a mettermi in marcia.

— Che genere di creatura era? — domandai per cercare di capire.

— Un uomo — rispose Alvaro. — Solo un uomo.

— Un dio, finché porta quell’anello — lo corresse John. — Un creatore di uomini.

— Solo nella sua mente — dissi.

Non ci fu risposta. Dopo una breve pausa John disse, a se stesso, credo: — E Dio creò l’uomo a Sua immagine e somiglianza.

— Così pare — replicai, mentre passavamo accanto a un’altra di quelle statue cieche che se ne stava tranquillamente sul ciglio della strada, con il braccio destro sollevato in un ironico gesto di saluto. — Ma credevo che non ci fossero più dei, o almeno così dice la Confraternita. — Inclinai leggermente la testa verso Padre Alvaro.

— La nostra Confraternita non si occupa dell’esistenza di divinità — rispose. — Tali cose non hanno nessuna importanza. Noi non neghiamo nulla, ci occupiamo solo dell’Uomo Futuro.

— Ditemi, cos’è un Uomo Futuro? — gli domandai, deciso per la prima volta a dargli credito. — Forse un essere cieco, asessuato, plasmato dall’argilla? O un costruttore di statue con un anello che gli dà la certezza di essere Dio?

— Matthew — disse — non fate altro che prendervi gioco di me. So che ve ne siete rimasto in silenzio ad ascoltare le discussioni fra me e vostro fratello e so che non riuscite a capire nessuno dei due, né il fatto che ci diamo tanta pena a discutere. Siete un uomo soddisfatto, senza ambizioni e nessun bisogno di cambiare. È per questo che non potrete mai conoscere la verità.

— No davvero — ammisi allegramente pur rimpiangendo di essermi fatto tentare a parlare per primo. — La verità non mi preoccuperà mai, e nemmeno la falsità.

— L’Uomo Futuro è una verità concreta, Matthew.

— E quindi cos’è? — domandai. — Cos’è che scaturisce dalla nostra progenie e ci rende obsoleti?

— Un essere razionale — rispose Alvaro. — Un essere nato senza preconcetti in modo che la sua persona possa reagire con spontaneità di fronte alla realtà. Vedete, voi e io siamo istintivamente soggetti a pregiudizi perché abbiamo appreso tutto dai nostri genitori. Gli animali sono anche più limitati di noi dal momento che imparano molto poco e quasi tutto prima ancora di nascere.

“Penso che l’evoluzione dia i suoi frutti solo sui giovani. L’uomo nasce e ha vent’anni per svilupparsi, vent’anni per adeguarsi e accettare nuove realtà, per servirsi di nuove intuizioni. Il suo cervello si torma con l’esperienza e le due cose sono unite coerentemente in un unico elemento: la mente. L’Uomo Futuro sarà la tappa successiva di questa sequenza, o almeno credo. Naturalmente ricordatevi che non ci è dato sapere.

“L’Uomo Futuro non verrà condizionato dai geni. L’uomo è un gradino più in alto rispetto agli animali perché può controllare parzialmente l’ambiente che lo forma. L’Uomo Futuro sarà un gradino più su poiché non verrà minimamente influenzato dell’ambiente: sarà libero.”

— È un bel sogno — ammise John. Aveva avuto l’opportunità di diventare un dio, anche se per pochi istanti, e ne sentiva ancora l’effetto. Forse, per un momento aveva sperimentato cosa significasse essere libero. L’analogia tra ciò che aveva detto John durante la trance e la descrizione di Alvaro riguardo all’essere liberi dall’influenza del proprio ambiente non mi era sfuggita.

— Però è un sogno fatto di idee e di parole — gli ricordai. — E voi dite che non vedrete, che non potrete conoscere.

— Voi non avete dei sogni vostri — mi corresse Alvaro. — Ma la vostra saggezza terrena come giudica un uomo deforme e asessuato che crea statue?

— Può farlo — ammisi — ma non capisco dove volete arrivare. Quello che è… è. Quello che non è resta una supposizione, e per me non è importante.

— Dice a me che sono pazzo perché non sono felice, perché ho delle convinzioni e delle ambizioni, perché ho delle necessità — osservò John rivolgendosi ad Alvaro, e mi chiesi se non mi fossi reso troppo ridicolo, se non portassi quei due a trovarsi, almeno per una volta, d’accordo. — Non potrà mai convincersi di nessuna verità. È morto in tutto, anche se respira.

— Sono felice — aggiunsi.

John mi guardò di storto, ma Alvaro rise.

7. Il sogno

Alvaro ci lasciò la mattina seguente, dopo essersi profuso in mille scuse per aver fatto troppo a lungo affidamento sulla nostra carità. Mi dispiacque vederlo partire. Mi era simpatico, quell’ometto, nonostante tutte le discussioni in cui ci aveva coinvolto. Perfino John non fu molto contento d’essersi liberato di quella particolare seccatura… e lui di solito preferiva evitare il più possibile ogni fastidio.

Mentre ci salutava da lontano, Alvaro gridò qualcosa che aveva a che fare con l’augurio di rivederci un giorno o l’altro. Ormai eravamo in mezzo alle montagne, sopra la linea che delimitava la zona boschiva, circondati da un paesaggio di nuda roccia e da un vento gelido e sibilante. La strada proseguiva ed era più visibile, non perché fosse frequentata, ma perché vi erano meno piante selvatiche a invaderla e ricoprirla.

Non mi piaceva quel paesaggio monotono e lugubre, tutto creste, pareti rocciose e pietraie. Ma per John era indifferente, lo considerava semplicemente parte di un mondo pieno di desolazione.

Sapevamo di aver quasi raggiunto l’uomo che stavamo seguendo. Si muoveva ancora lentamente, e ormai eravamo così lontani da qualsiasi altro paese civile che la sua destinazione divenne certa. A est del gigantesco Picco dei Dolori c’erano tre dirupi posti a forma di triangolo equilatero: il Picco dell’Ira, il Picco delle Tempeste e il Picco Tonante. Sulle pendici di quest’ultimo sorgeva il villaggio di Hawkeyrie, al quale il nostro uomo era ritornato non più di tre giorni prima del nostro passaggio. Le speranze di John erano grandi, e anch’io pregustavo quest’attesa che anticipava la fine della nostra ricerca.

C’era solo un altro villaggio tra noi e Hawkeyrie, un unico posto dove riposare ancora una notte. Poi Hawkeyrie e la meta finale.

Al crepuscolo ci ritrovammo a percorrere con un certo fragore la discesa sassosa che conduceva al villaggio, il cui nome non avemmo mai modo di scoprire. Dalla strada principale si poteva facilmente scorgere il più vicino dei picchi, il Picco delle Tempeste, mentre il Picco Tonante era visibile spostandosi poco oltre il lato sinistro della strada.

Non riuscimmo invece a vedere la valle tra i tre picchi che avremmo percorso l’indomani. Avevamo sentito dire che era perennemente avvolta dalla nebbia e che gli abitanti delle montagne, quando desideravano andare a Hawkeyrie, sceglievano la via più ardua: le vette. Naturalmente Darling avrebbe dovuto procedere lungo la strada, e quindi non potevamo seguire esattamente il percorso dell’uomo che viaggiava nel tempo. Ma né io né John avevamo paura di una valle ammantata di nebbia, sebbene la superstiziosa gente di montagna ne parlasse con riluttanza.

C’erano delle luci che risplendevano lungo la strada principale e le tre strade laterali, e io associai subito quelle più in alto alla presenza di una locanda e di un letto per la notte. Mi fermai davanti a un edificio a più piani con numerose finestre. Non aveva insegne, cosa piuttosto strana dal momento che le locande erano anche quasi sempre taverne, e solitamente le taverne avevano dei nomi, ma al momento non feci questa riflessione e smontai per bussare alla porta. John legò Darling a un palo sulla strada e mi raggiunse proprio mentre scoprivo con sorpresa che la porta non si apriva.

Eravamo entrambi molto stanchi e poco lucidi.

Anche John provò a spingere la porta, poi scrollò le spalle e bussò con forza. Per alcuni secondi ci guardammo, incerti su cosa fare: quella non era una taverna né una locanda per viaggiatori. Poi una faccia smunta emerse dall’oscurità e ci scrutò con occhi assonnati.

— Accidenti a me — disse l’uomo. — Stranieri, perdio. Ebbene? — La sua voce era roca e sibilante per la mancanza di alcuni denti.

— Scusateci — cominciai a dire. — Volevamo una stanza per la notte e abbiamo scambiato casa vostra per una locanda.

— Eh? — disse l’altro in tono interrogativo. Non riuscivo a capire se non aveva sentito o se era soltanto stupido.

— Una stanza per la notte — disse John. — Ce l’avete?

Le palpebre si abbassarono ulteriormente e la porta cominciò a chiudersi. Poi il vecchio, come se avesse cambiato idea, la riaprì. — Nome? — s’informò.

— John, la Lucciola.

— Eh?

— La Lucciola. Lui è Matthew, mio fratello.

— Oh!

Seguì una lunga pausa, durante la quale cercammo di capire che cosa potesse ancora richiedere il vecchio.

— Ah! — esclamò costui alla fine, come se avesse preso una decisione. — Volete evasione?

John rispose di sì, forse perché la interpretò come una domanda riguardo al suo desiderio di fuga dal mondo.

— Tipo prudente — commentò il vecchio. — Non ti ho mai visto prima. Non so chi vi ha mandati. Dentro!

Spalancò la porta. Ero sicuro che ormai il nostro dialogo generasse solo equivoci; ma John era già entrato in casa e allora lo imitai.

La porta sbatté alle mie spalle ed entrambi i chiavistelli si chiusero minacciosamente. Per un attimo mi domandai chi o che cosa intendessero tenere fuori… o dentro.

Si accese una lampada e quel vecchiaccio ci guardò sfoderando un bel ghigno che mostrò tre molari marci e gengive consumate. Ebbi un sussulto e desiderai che non fossimo mai entrati.

— Accomodatevi — ci disse come se fossimo suoi amici di vecchia data. — Abbiamo già cominciato. Proprio quello che fa per voi. — Si fermò improvvisamente. — Potete pagare, vero?

— Per la stanza? — domandò John.

L’altro sorrise nuovamente. — Tutto compreso — disse.

— Tutto cosa?

— Tutto? Tutto? — borbottò il vecchio in maniera quasi incomprensibile. — Cristo, amico. Vuoi evasione o no?

John si illuminò sentendo parlare per la seconda volta di evasione, e la sua mente ritornò alla solita idea fissa. — Potete portarmi indietro nel tempo?

— Indietro nel tempo, avanti nel tempo, dall’altra parte del tempo. Qui, là o dovunque vogliate. Avete i soldi?

— Potete provare quello che dite? — chiese John. Eravamo entrambi sconcertati. Ovviamente non era l’uomo che viaggiava nel tempo, però sembrava offrirci una fuga nel tempo. Alla richiesta di una prova, il nanerottolo parve confuso. John si voltò verso di me e sollevò una mano per indicare la porta sprangata. Di colpo l’altro si agitò.

— Pagherete più tardi — disse. — Non andatevene.

— Più tardi? — ripeté John incredulo. — Volete dire dopo?

— Usciamo di qui — dissi.

Ma il nano coprì le mie parole. — D’accordo, va bene. Dopo, più tardi, quando avete finito.

John era perplesso, ma profondamente incuriosito.

— Potrò andare ovunque vorrò? — chiese.

— “Ovunque” — sottolineò il nano. — Ci puoi portare anche il tuo maledetto cavallo, per quel che me ne importa.

— Fateci strada — disse John.

— No! — protestai.

— Oh, via — disse John. — Sei il doppio di lui. Cosa potrà farci?

Per quel che ne sapevo poteva avere cinquanta fratelli al piano di sopra. Mi ricordai della luce alle finestre. Stava accadendo “qualcosa”, ma la curiosità non mi avrebbe spinto in trappola.

— No — dissi.

John mi afferrò per un braccio e mi tirò, ma io feci resistenza.

— Senti — disse. — Cosa può succedere? Non vuoi saperlo?

— No.

— E va bene. Andrò da solo.

Il nano, con la lampada in mano, si era incamminato lungo il corridoio e, saliti i primi tre gradini di una scala, si era voltato per aspettarci. John gli andò dietro e io lo seguii pieno di paura per quel che poteva accadere.

Rimpiansi che John non avesse con sé la balestra, per quanto quell’aggeggio poco maneggevole difficilmente ci sarebbe stato utile lì dentro. Le chiazze di umidità sul soffitto gocciolavano, scarafaggi e millepiedi, spaventati dalla luce, tornavano a nascondersi strisciando nelle fessure. Passammo davanti a parecchie stanze dalle cui porte filtrava una pallida luce. Fui felice di notare che le porte non avevano né serrature né chiavistelli esterni.

Finalmente, dopo circa tre piani, il nano aprì una porta e ci introdusse in una stanza quadrata e, a parte due letti, senza mobilio. Tirai un respiro di sollievo. Dopotutto era possibile che la strana creatura ci stesse semplicemente offrendo un letto per la notte? Alla luce fioca della lanterna mi accorsi che John era vagamente deluso.

Il nano posò la lampada sul pavimento e uscì dalla stanza. Chiusi la porta.

— Bene — dissi. — Che ne pensi?

— Non ti stanchi mai di fare sempre la stessa domanda? — rispose John, seccato. — Sai esattamente quello che so io!

— Ma eri tu che parlavi con lui — protestai. — Devi esserti fatto un’opinione a proposito di quello che intendeva fare. Diavolo, è stata una tua decisione!

John alzò le spalle. — Non ne ho la minima idea — ammise. — Ma non c’è niente di sbagliato a volerlo scoprire.

— Oh, no! — dissi. — Proprio niente. Ci accolgono così ovunque andiamo. Dove altro potremmo mai trovare dei letti per la notte?

— Ah, ah — rispose per nulla divertito.

— E cos’era tutto quel parlare di fuga?

— Non lo so. Sei sicuro che abbia detto “fuga”?

— Se sono sicuro? Sei tu quello che voleva…

— Oh, sta’ zitto! — disse, e si lasciò cadere su uno dei letti. Lo tastò con sospetto. — Be’ — annunciò — forse non sarà pulito, ma non c’è niente che striscia. Sembra che la gente di montagna usi il sapone. Sono stanco.

Rinunciai a discutere, mi sedetti sull’altro letto e lo guardai. John finse di non badare a me e fece di tutto per farmi credere che si stava preparando per dormire. Imprecai silenziosamente e mi sdraiai osservando il soffitto dipinto, tentando ancora di capire cos’era successo.

— Spengo la lampada? — mi chiese John.

— No! — risposi con una sorta di grugnito rammentandomi delle luci che risplendevano in tutte le altre stanze. Mi misi nuovamente a sedere.

Il nano rientrò nella stanza, con la sua andatura dinoccolata, tenendo in mano qualcosa. Non riuscii a vedere cosa fosse perché si mise davanti alla luce restando in ombra.

— Sta’ fermo — disse, e mi trafisse.

Impiegai un tempo irragionevolmente lungo a capire che cos’era accaduto: il nano mi aveva conficcato nel braccio qualcosa di appuntito. Ma l’atteggiamento dell’uomo era insolito per un assassino. Il nano si comportava come se avesse fatto una cosa normalissima. Si voltò e si diresse verso l’altro letto. Passarono cinque o sei secondi prima che reagissi.

— Ehi! — urlai. Poi, rivolgendomi a John: — Sta’ attento!

— Tutto a posto — diceva intanto il nano, scostando la mano di John. — Fermo, per l’amor di Dio!

— Che stai facendo? — ringhiai con tono minaccioso, e mentre tentavo di alzarmi mi accorsi di avere la voce orribilmente impastata. — Lascialo stare!

All’improvviso avvertii un dolore acuto e un gran caldo. Confusamente vidi John colpire il nano con un calcio in faccia e strappargli di mano lo stiletto. Poi…

Scese una fitta nebbia di corpuscoli scintillanti d’oro e d’argento, e ogni suono scomparve. In quel pulviscolo fluttuavano minuscole moltitudini di fili invisibili che mi aderivano al cranio e mi penetravano nelle pulsanti circonvoluzioni del cervello. Riuscivo a udire il cuore che come un tamburo batteva all’impazzata coprendo col rumore i miei pensieri convulsi. Poi il battito si affievolì, e una sensazione di pace invase i miei timpani eccitati cancellando la rabbia e quel dolore acuto e penetrante al braccio.

Sentii la testa scendere sempre più giù, come se andasse scomparendo attraverso la gola e le viscere. Nei miei occhi esplosero dei colori che scintillavano in un vortice di arcobaleni, ondeggiavano e oscillavano.

Mi trovavo su una collinetta erbosa e intorno a me si estendeva una grande città articolata in modo bizzarro. Luccicava e risplendeva nella luce avvolgente del sole alla stessa stregua dei colori. Un milione di finestre ornate di tendine riflettevano la luce come tante facce di un diamante opaco.

Era tutto così bello, così meraviglioso.

Lo sgomento s’impadronì della mia mente impedendo il fluire dei pensieri. Ero completamente in balia di un impulso emozionale travolgente e mai sperimentato prima. Il mio debole cuore era dolorante per lo sforzo e cominciai a piangere.

Le pareti, miliardi di lucide pareli metalliche, vibravano al suono di una segreta melodia producendo un movimento che mai avrei immaginato potesse esistere. Tutta la gente del mondo radunata in una sola piazza a ballare e a muoversi freneticamente non avrebbe prodotto nemmeno la metà del movimento che animava la città.

Sulla città si libravano scintille luccicanti simili a fuochi d’artificio o a un enorme stormo di colibrì. La testa mi girava per l’immensità delle costruzioni e della vita e della gente. Un uomo venne in mio aiuto.

— Scusate — dissi — potete dirmi che anno è questo? — Sapevo che la data non avrebbe significato nulla per me, ma desideravo assaporarne il suono nelle orecchie. L’uomo ignorò la mia domanda. Non riuscivo a vedergli la faccia.

— Ricorda — mi sussurrò una voce fredda e vicina — che le cose che non capisci non sono necessariamente bugie.

Mi voltai di scatto. — Queen della locanda del Lupo rosso! — La donna rise fragorosamente con gioia isterica e rimpicciolì, come portata via da un paio d’ali.

— Questa città aveva tutto. Un giorno apparterrà ai gatti, ai topi e ai pipistrelli. Sarà allora che io e la mia specie raggiungeremo l’infinito.

Mi voltai verso un uomo incredibilmente vecchio che si stava trasformando in gigante. Dissi con voce stridula rivolgendomi a me stesso: — Sei Dio? Chi te l’ha detto?

— Il mio fuoco è piccolo, ma non ti consuma con il suo calore — disse dal cielo il padre Sole, poi scomparve, consegnando il mondo alla notte.

— Non aver paura, Lucciola — disse una nuova voce. — Ci penserà il nostro guerriero.

— Ma non sono la Lucciola — protestai. — Sono Matthew.

— Ti voglio bene — disse la mia ombra.

— Volete fuggire? Volete fuggire? — Era la voce del nano.

— A volte bisogna tacere.

— Alvaro!

— Vedi, per conquistare devi fare in modo che quella cosa diventi parte di te. Non possiamo dire quanto crescerà l’albero o se mai si fermerà. Il nostro tempo è finito, John.

— Non sono John, sono Matthew.

— Non fate altro che prendervi gioco di me. Non potrete mai conoscere la verità.

— Alvaro, ti prego, aiutami!

Nessuna risposta.

— Chi sei, candela?

Una debole voce. Nessuno nelle vicinanze.

— Dove stai andando?

— Chi sei?

— Tutto il mondo è felice.

— Sono la Lucciola perché la luce del sole dona vita a ogni cosa sulla Terra e io ho più vitalità di ogni altro essere, per questo emano una mia luce. Vado per la mia strada. Sono la Lucciola.

— John! John, sei qui? Mi puoi aiutare?

— Matthew! — Voce molto, molto lontana. Non riuscivo a vedere. — Svegliati! Non puoi. Non puoi. — Voce frignante.

— Sei felice? — Un urlo nel mio orecchio. La mia voce.

— Felice?

— Felice?

Gridai in preda all’angoscia. Improvvisamente l’aria divenne immobile e vuota. Tutte quelle voci immateriali erano state spazzate via. C’era un silenzio profondo, cimiteriale. Guardai in alto. Non vi era niente laggiù (dove?), perciò mi alzai. Nessuno in vista. Guardai la grande porta spalancata lì vicino.

C’era scritto a caratteri marcati USCITA.

Affascinato, rimasi a fissare l’apertura buia. Mi avvicinai e guardai nell’oscurità oltre la porta, ben attento a non oltrepassare la soglia.

Con esitazione allungai un piede.

Una voce severa disse: — Non potete passare di lì, signore. È a senso unico.

— Voglio uscire.

— Spiacente, signore. Non vedete che sulla porta c’è scritto chiaramente USCITA?

— Ma è quello che voglio fare. Ci fu silenzio.

— Signore? — disse educatamente la porta.

— Sì? — risposi speranzoso.

— Chiudete gentilmente la porta. Vi prego di notare che USCITA è dalla parte interna. Non potete uscire da qui.

— Ma voglio tornare indietro.

— Non c’è luce là.

— Emano la mia.

— Mi spiace, signore. È impossibile.

— Voglio fuggire.

— Non ci proverei se fossi in voi, signore.

— E così tu non ci proveresti. Che me ne importa?

— Niente, signore, è questo il problema. Fuggire non serve a niente, signore.

— Sono Matthew, non John.

— Non importa quale sia o non sia il vostro nome, signore. — Ancora silenzio. Provai a spingere la porta ma era chiusa. Questo non era giusto.

Cercai di ricordare se avevo visto che si apriva, ma non vi riuscii, né riuscii a ricordare se si era chiusa.

Mi sedetti e piansi silenziosamente. La parola USCITA risplendeva muta. Mentre le lacrime mi velavano la vista, gli occhi mi si aprirono e una luce di lanterna squarciò l’oscurità.

— Matthew — disse John con apprensione. — Stai bene?

— Bene, bene — borbottò in sottofondo il nano, con la voce roca. — Com’è stato? Soddisfatto, eh? Ci scommetto. Ti è piaciuto?

— Mi hai ingannato! Non era vero, non c’era niente di vero. È stata tutta una frode. Ti ucciderò! — Mi resi conto che la voce era la mia.

John si sedette accanto a me e mi afferrò per le spalle. — Matthew, è tutto a posto. Era una droga. Non è stato fatto del male a nessuno. Ho visto gli altri, una cinquantina di persone. Tutte sognavano cose piacevoli. Non c’è niente di cui preoccuparsi.

Sul mio braccio intorpidito, là clave era entrato l’ago, c’era il segno di una puntura.

— È stato bello? — farfugliò il nano. — Non fa male. È solo una droga. È innocua. Piace a tutti. È stato bello? Rende la gente felice. È stato bello? — Le parole gli scaturivano dalla bocca come un torrente gorgogliante.

— Sta’ zitto o ti taglio la gola! — disse John in un sibilo.

— Una fuga — mormorai. — E che fuga!

— Va’ a dormire ora. Io terrò d’occhio questo qui. Se gli hai fatto del male — lo sentii dire al nano — ti uccido.

— No — piagnucolò impaurita la creatura. — Li salvo, non faccio loro del male. Da loro stessi, capisci? Dalla loro debolezza e dalla loro inutilità. Gliene do un po’ per farli contenti. Perché non vuoi essere felice? Perché non ne vuoi?

— Perché è tutto falso. È tutto irreale.

— Cosa non lo è? — udii dire il nano.

John mi stese sul letto e dormii.

Senza sogni, immagino.

8. Il crocevia del mondo

Quando mi svegliai era di nuovo giorno, ma la lampada in mezzo alla stanza era ancora accesa. Alla luce del sole la camera sembrava anche più squallida rispetto alla sera precedente. Le pareti erano macchiate e gli angoli incrostati di sporcizia e ragnatele. Il vecchio battiscopa era incrinato e curvo e si staccava dalle pareti. I letti, incavati al centro, avevano coperte vecchie e sporche.

John era sdraiato sul letto a fianco a me, la testa accanto ai miei piedi, mentre i suoi penzolavano a qualche centimetro dal pavimento. Stava dormendo. Mi misi a sedere lentamente e John si svegliò all’improvviso con un sobbalzo e si guardò intorno.

— Mi dispiace — disse. — Non volevo addormentarmi.

— Poco male — risposi. Mi tastai il braccio. Sentivo ancora una vaga sensazione di dolore e mi arrotolai la manica per esaminare la ferita. Vidi un livido arrossato e un leggero gonfiore, ma avevo temuto di peggio.

— Spero solo che l’ago fosse pulito — borbottai.

— Vuoi restare qui un po’ per accertarti di stare bene? — domandò John.

— Qui? — dissi guardandomi attorno con teatrale disgusto.

— Nel paese — si corresse John.

Lo guardai attentamente. Era sincero. Oggi, o al più tardi domani, saremmo giunti a Hawkeyrie, eppure John voleva aspettare un altro giorno.

— No — risposi. — Sto bene.

— Sicuro?

— Sicuro. E ora andiamocene da qui.

Mi alzai con cautela, ma non risentivo di postumi della droga. Avevo mente lucida e movimenti normali.

Anche John si alzò e mi aprì la porta: uscii dalla stanza sul pianerottolo. Anche lì le lampade erano ancora accese, ma erano necessarie, perché il corridoio non aveva finestre.

Scendemmo cercando di non far rumore. Gli scalini scricchiolarono e gemettero sotto il nostro peso, e quando arrivammo ai piedi della scala trovammo ad aspettarci il nano. Anche lui aveva un aspetto peggiore alla luce del giorno: era meno spaventoso, ma nauseante. Aveva la faccia storta e teneva la testa inclinata in modo singolare. Le labbra erano grosse e unte, gli occhi ravvicinati e sempre in movimento.

— Pagate, sì? — sussurrò, col tono di chi non ci conta troppo. Gli passai accanto e aprii i chiavistelli della porta.

Mi voltai giusto in tempo per vedere John sputare per terra.

— Eccoti pagato! — esclamò. Aveva gli occhi infocati e sembrava essere sul punto di commettere un omicidio.

— Andiamo — dissi con calma.

John diede al nano un’ultima occhiata di disprezzo, poi varcammo insieme la porta.

Darling ci guardò con rimprovero, come per ricordarci che l’avevamo costretta a rimanere attaccata al carro tutta la notte.

— Mi occupo io di lei — disse John. — Tu dà un’occhiata in giro, se vuoi.

Il sole era sorto da poco e il paese non si era ancora risvegliato. In realtà sembrava quasi disabitato. Tutte le case cadevano in rovina, le finestre erano a pezzi, murate o chiuse con assi. La vernice si staccava dalle porte e praticamente a ogni tetto mancava qualche pezzo della copertura. Mi chiesi di cosa mai vivessero. Di sicuro non dei raccolti. Senza dubbio c’erano capre e pecore sui pascoli, e legna un po’ più in basso, sempre che si prendessero la briga di trasportarla fin lì dalla zona boschiva. Ma a parte questo, cos’altro? E perché?

Mi allontanai dal paese e mi avviai lungo una salita da dove speravo di scorgere, al di là del Picco delle Tempeste, la valle triangolare attraversata dalla strada. Non riuscii a vedere nient’altro se non la nebbia di cui mi avevano già parlato.

Deluso, mi sedetti sulla cresta e cominciai a lanciare pietre giù per il pendio mirando ai tetti ai piedi della discesa. Le prime quattro mancarono il bersaglio e rimbalzarono sul fianco della montagna, mentre la quinta colpì un tetto e ruppe tre assicelle. Invaso da un gran senso di colpa, smisi immediatamente.

Riuscivo a vedere John che ritornava con Darling dall’abbeveratoio. Lo guardai prepararle il cibo e sedersi dietro di lei ad aspettare che mangiasse, con una pazienza insolita per lui.

Sospirai e cominciai a ridiscendere.

Partimmo in tarda mattinata, ma nessuno badò a noi mentre avanzavamo rumorosamente lungo la strada. La gente ora era visibile e il silenzio aveva lasciato il posto a un insieme discontinuo di rumori familiari, ma neppure adesso si poteva dire che il villaggio si fosse risvegliato. In verità, suppongo che non fosse molto diverso da un qualunque altro villaggio, ma la malinconia e l’indolenza vi avevano assunto una connotazione così negativa da renderlo unico rispetto a qualsiasi altro posto al mondo. Era un luogo ripugnante.

Mi sentii veramente felice quando superammo il valico tra il Picco delle Tempeste e il Picco Tonante e il villaggio non fu più visibile.

La nebbia ci avvolse quasi immediatamente. Avevamo visibilità solo per pochi metri da ambo i lati. La strada era invisibile e fui costretto ad andare avanti per guidare la vecchia giumenta perché non mi sentivo sicuro del percorso che avrebbe scelto.

Dopo circa venti minuti di assoluta monotonia giungemmo a un ponte a schiena d’asino. Fermai il cavallo e andai a verificarne la solidità nel caso fosse stato troppo vecchio per sopportare il peso del carro.

Scrutai da sopra la spalletta di pietra, ma non riuscii a scorgere niente di quello che c’era sotto. Raccolsi una pietra e la lanciai al di là del parapetto aspettandomi di sentire un rumore di acqua. Si sentì invece distintamente il rumore di una superficie solida.

— È strano — dissi abbastanza forte perché sentisse anche John.

— Che cosa?

— Non c’è acqua laggiù. Il ponte non passa sopra un corso d’acqua.

— Il torrente può essersi prosciugato.

— No, era roccia. La pietra ha colpito qualcosa di duro. Non l’hai sentito? — John lanciò una pietra che raccolse accanto al carro. Quando anche questa toccò una superficie solida anziché acqua, mi raggiunse.

— Ha importanza? — chiese.

— Non è molto alto. Voglio dare un’occhiata.

— Non saltare — disse.

Naturalmente non avevo nessuna intenzione di saltare. Girai intorno al bordo del ponte e scesi in equilibrio precario lungo il ripido pendio. Quando arrivai in fondo guardai in alto. Riuscivo appena a scorgere la sagoma scura della testa e delle spalle di John che si sporgeva dal parapetto del ponte.

— Allora?

— È un’altra strada — spiegai.

— Ah — disse lui, come se fossimo stati degli stupidi a non pensarci. — È tutto a posto allora.

— Forse — dissi. — Ma perché qui c’è un’altra strada? Ci sono solo Hawkeyrie e il nord, e noi stiamo percorrendo la strada principale. Questa via non porta da nessuna parte, e nasce anche dal nulla, se è per questo.

— Quindi è una vecchia strada — disse John con un pizzico di irritazione. — E allora? Proseguiamo.

Mi arrampicai per la scarpata e raggiunsi il ponte.

Facemmo attraversare il ponte a Darling senza causare il benché minimo problema alla struttura, e continuammo per la nostra strada, tenendoci uno a destra e uno a sinistra della giumenta.

Dopo mezzo chilometro domandai a John: — Riesci a vedere il ciglio della strada?

— No — rispose lui senza fermarsi.

— Nemmeno io.

— E allora?

— Cinque minuti fa vedevo entrambi i lati.

— Vuol dire che la strada sta diventando più larga — replicò con una logica perfetta. Scossi la testa senza nemmeno sapere perché.

Dopo altri tre chilometri insistei per fare sosta.

— Perché? — volle sapere John.

— Perché non vedo i margini della strada da molto tempo. Dubito persino che siamo ancora su una strada.

— Be’, non allontanarti. Non vorrei che ti perdessi. E comunque non abbiamo lasciato la strada.

John aveva ragione. A circa quindici metri alla mia destra c’era una linea irregolare che segnava il confine tra l’erba folta e la strada pietrosa.

— C’è una luce più avanti — gridò John, mentre osservavo il bordo chiedendomi di cosa mi stessi preoccupando.

Scrutai nella nebbia, ma non riuscii a scorgere niente. Udii solo il cigolio delle ruote che si rimettevano in movimento.

— Ehi! — urlai. — Aspettami.

Quando raggiunsi il carro, riuscii anch’io a vedere la luce che poi sbucò, come per magia, dalla grigia cortina di nebbia e si rivelò una lampada sorretta da un uomo alto e magro. Il suo vestito poteva essere considerato di grande eleganza sartoriale da queste parti. Lo sconosciuto si fermò e ci osservò, facendo oscillare oziosamente la lampada appesa al dito.

— Chi siete? — domandò. Aveva voce calda e piacevole. Sembrava contento di vederci.

— Siamo viaggiatori diretti a Hawkeyrie.

— Oh! — parve deluso. — Hawkeyrie.

— Non sapevamo che quaggiù vivesse qualcuno — dissi tanto per fare conversazione. — Mi chiamo Matthew, e questo è mio fratello John.

— Sono Conrad. La guida.

— La guida? Allora non vivete quaggiù?

— Sì, ci vivo.

— E allora chi guidate? — domandai.

— Chiunque voglia essere guidato.

Guardai la nebbia intorno a me. — Non dev’essere molto piacevole vivere qui — dissi. — Non avete mai voglia di vedere il sole?

— A volte. In quel caso vado a Hawkeyrie. Ma venite, non restiamo qui a parlare. Casa mia è vicina e senza dubbio avrete voglia di qualcosa di caldo.

Ne avevo veramente voglia, e John non saltò su a protestare, come forse avrebbe fatto in altre occasioni.

— Stiamo cercando un uomo capace di viaggiare nel tempo — disse John.

— Ah, “lui”. Sì, l’ho visto qualche tempo fa. È salito sul vecchio Tuono, però non sono certo che si sia diretto a Hawkeyrie. Ha parlato di un certo casino di caccia vicino alla vetta.

— Non ci dev’essere molto da cacciare lassù — commentai.

— Sul vecchio Tuono gli alberi crescono più alti che in qualsiasi altro posto qui intorno. Ci sono boschi su tutti i pendii e il paesaggio è bellissimo.

Mi ricordai che l’uomo non ci aveva ancora spiegato perché viveva lì, sebbene non mi avesse dato l’impressione di voler evitare la domanda.

— Di preciso che cosa fate qui? — domandai.

— Sono una guida — rispose con una calma esasperante. Non stava cercando di fare il difficile, lo vedevo. Credeva in quello che diceva.

— Eccoci arrivati — disse, mentre un’ombra alta si profilava nella nebbia. Ebbi appena il tempo di notarla e subito venimmo invitati a entrare.

La sua casa era linda come i suoi vestiti e tutto era in perfetto ordine. Era davvero la casa più accogliente che avessi mai visto in tanti anni di vagabondaggi.

Ci sedemmo sopra poltrone di epoca indefinibile, morbide e molleggiate, e sorseggiammo un buon tè da tazze che dovevano avere almeno cent’anni.

— Una cosa meravigliosa — dissi. — Ma perché quaggiù?

L’uomo rise. — E dove, altrimenti?

— In alto, sulle montagne. Se il Tuono è così bello come dite, perché non là?

— Perché questo è il crocevia del mondo. Io sono la guida e me ne prendo cura.

Ebbi un’intuizione improvvisa. — Quante strade si dipartono da qui?

— Sei.

— E quante altre attraversano la valle?

— Trenta.

— Trenta? Ma perché?

Conrad non sembrava avere nessuna risposta a questa domanda e la vacuità della sua espressione pareva dire semplicemente: “Perché no?”.

— Ma non portano in nessun luogo — dissi. — Si devono interrompere tutte ai margini della valle, sulle creste tra i picchi.

Parve un po’ sconcertato, come se avessi detto qualcosa di sconveniente che non poteva essere affrontato in una conversazione educata. — “Ora” non più — ammise. — Ma questo è sempre il crocevia del mondo.

— E voi dirigete il traffico?

— Esatto. Posso dirvi in quale direzione si trova qualsiasi città del mondo e quanto dista.

— Langley — dissi. Era la piccola cittadina dov’ero nato.

— Da quella parte. — Indicò con la mano la direzione. — Duecentosessantadue chilometri.

La distanza era del giusto ordine di grandezza e poteva essere precisa. Anche la direzione andava bene. Gli credetti.

— Parigi — dissi.

— Di là — annunciò sicuro di sé. — Seicentosessantun chilometri.

— Ma a che serve se le strade non vi arrivano più? — domandò John.

Conrad parve sofferente, come se gli avessero pestato la punta dei piedi. — È il mio lavoro — disse.

Non tanto un lavoro, decisi, quanto uno scopo di vita. Forse uno scopo preso a prestito, certamente futile, ma sufficiente per “sostenere” un uomo. Come un Dio che plasmava statue. Come un uomo che si definiva “il Sole”. Come il confratello dell’Uomo Futuro. Come un uomo con un fratello più giovane. Ma non come la Lucciola, che aveva solo un sogno.

— Da che parte è Hawkeyrie? — chiese John.

— Da quella parte — rispose l’uomo, felice di poter esserci utile. — Undici chilometri, non di più. E la strada ci arriva davvero — aggiunse con orgoglio. Senza dubbio, indirizzare sulla strada giusta due viandanti rendeva perfetta la sua giornata.

9. Il Picco Tonante

Raggiungemmo Hawkeyrie prima di notte, ma scoprimmo, con grande dispiacere di John, che Conrad aveva ragione: l’uomo che viaggiava nel tempo aveva proseguito inerpicandosi in direzione del Picco Tonante verso un rifugio di pietra in prossimità della vetta.

Così fummo costretti a passare un’altra notte insonne. Avendo dormito poco la notte precedente, John era già piuttosto irritabile, e poiché l’imminenza del confronto con il viaggiatore nel tempo minacciava di privarlo di un’altra notte di sonno, la sua irrequietezza divenne pressoché insopportabile. Dormimmo a sprazzi su due minuscole brande di una pensioncina. Hawkeyrie era un paese tranquillo, ma non aveva quell’aria lugubre della locanda dove avevamo trascorso la notte precedente.

Fui comunque felice quando ci lasciammo alle spalle il villaggio e ci ritrovammo nuovamente in marcia verso quella che ormai doveva essere l’ultima tappa del nostro viaggio.

La strada era ripida ma non eccessivamente difficile. Su entrambi i versanti il bosco e la vegetazione erano talmente fitti da sembrare innaturali, ma poi pensai che quel fianco del Picco Tonante era l’unico dei tre monti a essere esposto a sud.

La giornata era calda e l’aria piacevolmente carica dei profumi di fine estate.

Stavo già cominciando ad accantonare i ricordi del recente passato per godere nuovamente a pieno della vita, quando una freccia sbucò dal nulla e si conficcò nel cranio di Darling.

La vecchia giumenta si accasciò senza emettere alcun suono. Rimasi atterrito alla vista di quel cadavere immobile sorretto dalle stanghe del carro, e le redini mi scivolarono dalle mani.

Con un gesto rapido, senza nemmeno alzare la testa, John aveva sollevato la balestra caricandola con un movimento fluido, ma ci voleva talmente tanto tempo per tendere la corda di quel dannato arnese che comunque non avrebbe mai avuto modo di usarlo.

— Getta via la balestra — ordinò una voce che proveniva dall’intricato sottobosco ai margini della strada. Mi voltai cercando di scrutare tra le fronde per individuare la persona che aveva parlato, ma non riuscii a vedere nulla. John non ubbidì all’ordine ma abbassò l’arma.

Qualcosa si mosse e la richiesta venne ripetuta.

— Perché avete colpito il mio cavallo? — gridai. — Non c’era alcuna ragione per farlo. — Silenzio.

— Non abbiamo nulla di valore — aggiunsi.

L’arciere sbucò da un folto cespuglio. Era una donna vestita con abiti logori e un pastrano che sembrava ottenuto unendo le pelli di sei animali differenti.

— Il cavallo è cibo — tagliò corto. — E se non getti via quella balestra mangeremo anche te.

— Cibo! — esclamò John incredulo. — Ma c’è selvaggina in abbondanza in questi boschi. Il cibo non manca a Hawkeyrie!

Appena la donna sollevò la balestra per prendere la mira, John smise di parlare per gettare la sua fuori dal carro.

— Non c’è nessun bisogno di andare in giro ad ammazzare i viaggiatori e i loro cavalli — aggiunse.

— Non sono una cacciatrice — rispose duramente la donna. — Ho un bambino a cui pensare. Non ho tempo di procurarmi la carne in altro modo. Se si tratta del cavallo di un viandante, peggio per lui. E comunque il mio è figlio di un viandante.

— Niente marito? — domandò John.

La donna gli diede un’occhiata severa. — Mai avuto. Un paio d’anni fa è passato di qui uno straniero. Ha sempre detto che sarebbe tornato. E l’ha anche fatto tre giorni fa. Ma non gli interessano i bambini. Ha altre cose per la testa.

— Quest’uomo ha mai parlato di viaggi nel tempo?

— Non ha mai smesso di ripeterlo — disse la donna con disgusto. — Era pazzo, e lo è ancora.

— Dov’è?

— Perché? Siete suoi amici? — Ora la freccia era puntata verso la mia pancia. Ebbi un sussulto.

— No — mi affrettai a dire.

— Ma lo stiamo cercando — aggiunse John.

— È alla capanna, sulla cima — disse come se sperasse di non vederlo mai più ridiscendere. — Ma non ci starà per molto. Un giorno o due e poi se ne andrà di nuovo. Non ha tempo per noi.

— Puntate altrove la freccia — le chiesi. — Non vi faremo alcun male.

— No, voi no. Potete scalare la montagna. — Si fermò rivolgendomi uno sguardo di sfida. Poi abbassò l’arma. — Mi spiace per il cavallo — disse — ma ho terribilmente bisogno di carne.

— Non vi aiuterebbero a Hawkeyrie?

— Non amano gli stranieri.

— Ma di certo… — cominciai a dire.

— Non ho intenzione di chiedere l’elemosina — mi interruppe lei brusca.

— Invece rubate e uccidete — replicò John aspramente.

— Non ho ucciso nessuno.

— Non ancora, e non per molto.

Era nuovamente in collera ma non ritornò a minacciarci con l’arco. Ebbi l’impressione che fosse sul punto di piangere. — Andate pure — disse quasi urlando. — Andate su per le montagne in cerca del vostro caro amico e ditegli che gli auguro di marcire.

Scesi lentamente dal carro. John smontò dall’altra parte e si avvicinò alla balestra.

— Lasciala stare — gli ordinò la donna.

— Andiamo via — dissi. — Quella non ci serve.

— E il carro? — domandò John.

— Se vuoi trainarlo, prego — dissi. — Altrimenti lasciamo pure che questa gentile signora rubi tutto ciò che vuole, al ritorno preleveremo quello che ci serve e che riusciamo a trasportare.

— Se mai saremo di ritorno — disse John a voce bassa.

Lanciammo alla donna occhiate cariche di accusa e risentimento e cominciammo la lunga marcia. Passando accanto a Darling le rivolsi un ultimo sguardo. — Vecchia amica — dissi sottovoce — ci hai portato qui, ce l’hai fatta. Mi dispiace.

La strada per la vetta era lunga e difficile. Hawkeyrie non distava molto dal picco in linea d’aria, ma la strada era tutta in salita e per giunta molto ripida. Eravamo entrambi in salute e in forze, ma ci stancammo ugualmente in poco tempo.

La strada di terra battuta divenne prima una pista, poi si ridusse gradatamente a un sentiero che, invece di salire, cominciò a girare intorno alla montagna senza avvicinarsi alla vetta della rupe.

Esausti per il sole, al punto che anche John non ce la faceva più ad andare avanti, finalmente ci fermammo per riposare. Ci sedemmo uno accanto all’altro, seri e silenziosi, e contemplammo il panorama che si estendeva per diversi chilometri: a nord e a est c’erano i brulli Picchi dell’Ira, delle Tempeste e dei Dolori, mentre a sud la veduta consisteva in un oceano di brughiere verdi e ondulate, di fiumi e foreste. Non si vedevano strade, ma occasionali volute di fumo confermavano la presenza di villaggi annidati nelle valli.

La punta di un bastone da passeggio si conficcò nel soffice terreno tra di noi. — È un mondo bellissimo — disse l’uomo che viaggiava nel tempo — ma il sole fa dolere gli occhi se si guarda troppo a lungo.

Sollevammo lo sguardo verso di lui ma nessuno dei due riuscì a trovare qualcosa da dire. La prima impressione fu di sorpresa nel constatare che l’uomo aveva un aspetto assolutamente comune. Le caratteristiche fisiche rientravano tutte nella media: altezza, corporatura, carnagione, colore dei capelli… persino gli occhi erano di un marrone scuro e inespressivo. L’uomo fissava John. — Tu sei la Lucciola — disse. — Colui che emana luce.

— Allora mi conoscete? — rispose John.

— La gente si ricorda di te.

— Anche voi.

— Ma non per la stessa ragione. — L’uomo che viaggiava nel tempo sorrise paternamente.

— Perché non ci avete aspettati se sapevate che vi stavamo seguendo? — domandò John.

Mi alzai e mi avvicinai al ciglio della china all’estremità del sentiero. Quello era il loro momento e mi sentivo un intruso.

— Perché dovevo scomodarmi? Avevo una missione, proprio come voi. Speravo che avreste abbandonato le ricerche. Sono stato sul punto di lasciarvi dei messaggi a Hawkeyrie e in un paio di altri posti, ma immaginavo che sareste venuti comunque. Così me ne sono andato per la mia strada e ho lasciato che mi raggiungeste con comodo. — E aggiunse: — Sai che non posso farlo.

— Non potete fare cosa?

Riuscivo a percepire la paura nella voce di John. Avevamo fatto tanta strada solo per sentirci dare proprio la risposta che da sempre temevo di dover ascoltare.

— Portarti indietro nel tempo, o insegnarti come farlo. Un viaggio indietro nel tempo è impossibile. Vedi, in realtà non sono io a viaggiare: è il Tempo stesso. E il Tempo va per la sua strada, nessuno può riportarlo indietro per un secondo tentativo.

— State dicendo che tutte le vostre belle storie non erano nient’altro che un mucchio di bugie? — “Povero ragazzo” pensai “doveva avere il cuore spezzato.” Ma John continuò, senza rabbia, senza rimorso… rivolgendogli solo domande e poi ancora domande, sempre alla ricerca di qualcosa.

— No, non erano bugie — disse l’altro. — Ci sono stato in quei posti meravigliosi dove tu vorresti andare. È da là che provengo, ma li ho lasciati e non ho nessun rimpianto. Sono venuto via, e ora non c’è una strada per ritornare. Non sta a me dirti cosa sia o non sia giusto per te, ma forse è meglio così: non ti sarebbe piaciuto. A nessuno può piacere. Troppi disagi. Non puoi avere la guerra e la pace contemporaneamente.

— Non voglio la pace. Voglio la vita.

— Non desideri veramente quello che dici di volere.

— So quello che non voglio — disse John mentre ormai tutta la sua amarezza stava traboccando e cominciava a riversarsi all’esterno. — Non voglio “questo” mondo. Non voglio questo tempo. Questo mondo è morto. Non conosco il perché, ma penso che abbia a che fare con il tempo. Il Tempo non sembra più accadere. Tutto scorre senza che vi sia un domani, senza nemmeno un oggi, solo un milione di ieri e una generale sensazione di appagamento. Non c’è più futuro, non c’è più nulla a cui la gente possa aspirare.

“Vuoi scalare la collina successiva? Perché? È quasi uguale a qui. Ti chiedi cosa siano le stelle? Sono dei mondi. E allora? Vuoi sapere per quale motivo quell’uomo fa quella data cosa? Perché? Non te ne viene niente. Se anche tu vuoi farlo, fallo, non importa a nessuno. Perché? Perché? Perché? Non sembra esserci alcuna forza nel mondo. La gente non vuole costruire, non vuole nemmeno distruggere. C’è una donna con un bambino, ai piedi della montagna. Pensa di dover prendersi cura di lui, il che è già qualcosa. Ma sapete cos’ha fatto? Se n’è rimasta lungo la strada e ha ucciso il nostro cavallo. Potrebbe andare fino a Hawkeyrie e trovare cibo, latte per il bambino, ma non le importa abbastanza per farlo. Sta dove sta, e lì rimane. Che vita ‘è’ questa?

“Questo è il mondo in cui sono nato ma non è il mio mondo, forse quello di Matthew. Mio fratello maggiore potrebbe vivere in una fogna e non accorgersi del fetore, ma io no. Quando ho sentito parlare di voi, pensavo di aver trovato il modo per andarmene da qui, per tornare al tempo in cui il genere umano viveva, in cui essere un uomo significava qualcosa di più che essere un vegetale.

“E che cosa scopro? Che voi non potete portarmici, che potete solo andare in un futuro che non potrà mai esistere. Tutta la razza umana è un cadavere che respira, e io devo guardarlo putrefarsi e morire con esso pur essendo l’unico sciocco a provarne dolore. Potrò trovare una vita qui? No, non tra gente che vive solo per delle illusioni. Che felicità è quella che deriva solamente dalla follia e dall’inganno? Da anelli e droghe e nulla di reale? Non fa per me. Io sono “reale” e voglio cose reali.

“Oh, sì, potrei predicare ciò in cui credo. Potrei provare a istruire la gente. Ma anche questa è, o sarebbe, illusione: un fanatico vagabondo che minaccia la dannazione per tutti quelli che non credono. Ma davvero pensate che qualcuno lo starebbe a sentire? E poi io non voglio cambiare nessuno. Perché dovrebbero cambiare loro quando il problema è in me? Loro sono felici! Sono io a non esserlo. Io! Loro hanno raggiunto ciò che volevano, mentre io non posso nemmeno cominciare a cercarlo. La loro felicità li sta uccidendo. E io morirò per la mancanza di una mia felicità.”

— In un certo senso hai ragione — disse l’uomo che viaggiava nel tempo. — Tu non puoi avere tutto quello che gli altri hanno ottenuto. Non è giusto. Ma a quale giustizia puoi appellarti? Così stanno le cose e non c’è via d’uscita. Non si può tornare indietro!

USCITA. Dall’altra parte della porta. A senso unico. “Povera Lucciola” pensai. “Povera piccola Lucciola.” “Non importa quale sia o non sia il vostro nome, signore. È impossibile.”

— Non si può tornare indietro — ammise John senza tradire la minima emozione.

“Piangi, sciocco, piangi!” avrei voluto gridare, ma non era da lui sfogarsi. John sarebbe morto senza una lacrima.

— C’è una cosa — disse l’uomo che viaggiava nel tempo.

— Cosa?

Non osai nemmeno sperare.

— Il Genere Umano si sta spegnendo perché la razza ha esaurito il suo potenziale. Non è rimasto più nulla, il tempo ha fatto il suo corso. Ma mentre l’umanità muore, si va formando qualcosa di “nuovo”, un nuovo essere. Non un nuovo uomo, non un Homo superior, come abbiamo vanamente immaginato, ma qualcosa di alieno. Qualcosa di tanto lontano dall’uomo quanto l’uomo è lontano dal dipnoo.

— L’Uomo Futuro — disse John.

— L’Uomo Futuro. Non puoi essere uno di loro, ma puoi aiutarli. Puoi preparare loro la strada. Puoi prolungare la morte dell’uomo, così che dalla sua morte nasca una nuova vita. Non più tempo per noi… solo esistenza. Ma all’Uomo Futuro tutto il tempo del mondo potrebbe essere solo appena sufficiente. Dobbiamo mantenere in vita la razza umana, dobbiamo dare all’Uomo Futuro il tempo di nascere e maturare. Possiamo essere “d’aiuto”, Lucciola, possiamo fare qualcosa.

“Quando sono venuto qui dal passato, mi aspettavo di trovare la razza umana assorta a quella che credevo la sua vera grandezza. Ma sono stato accecato dal mio orgoglio. Non esiste una simile grandezza: sono andato sempre più avanti nel tempo e l’ho trovata sempre meno. Ma adesso non andrò oltre, Lucciola. Da oggi alla mia morte, i giorni e le notti possono passarmi accanto seguendo il loro ritmo, perché ho trovato il luogo dove riposare.”

— Con la Confraternita dell’Uomo Futuro — disse John con disprezzo. — Con le loro mire. Con le loro aspirazioni. Quelli sono tutto ciò che questo mondo contiene. Tutto ciò che potrebbe significare qualcosa per me e per voi. — Rimase in silenzio per un istante. — Non sono sufficienti — concluse.

— Sono l’unica cosa disponibile.

— Io sono la Lucciola — disse. — Emano la mia luce.

— In questo caso — decretò con rammarico l’uomo che viaggiava nel tempo — non c’è altro da dire.

— No — ammise John.

Si alzò e si avviò lentamente per la discesa lasciandosi alle spalle i sogni infranti. Non lo seguii: non voleva il genere di maldestra consolazione che il saggio fratello Matthew avrebbe potuto offrirgli.

Guardai l’uomo dritto negli occhi.

— Ritornerà — disse l’uomo che viaggiava nel tempo. — Laggiù sono soltanto persone felici, ma lui non potrà mai essere uno di loro.

10. Il viaggiatore nel tempo

Ritornai insieme all’uomo che viaggiava nel tempo alla sua piccola capanna e aspettai con lui fino a notte fonda. L’uomo mi ignorò per la maggior parte del tempo. Si cucinò un pasto sulla vecchia stufa e non si offrì di dividerlo con me. Desideravo andarmene, cosa che ovviamente si augurava anche lui, ma non volevo trovare John troppo presto, e avevo molta più considerazione per i sentimenti di John che non per quelli dell’uomo che lo aveva tranquillamente torturato con sagge parole e nessuna speranza.

Alla fine però l’uomo divenne più ospitale e bevemmo insieme del vino. Ormai aveva terminato di cenare e gli restava ben poco da fare se non sedersi davanti al fuoco. Non mi diedi la pena di chiedergli cosa ci facesse lassù, ma intuii che era semplicemente una tappa intermedia dei suoi spostamenti.

Ora che non aveva più nulla con cui occupare le mani e la mente, la mia presenza non gli sembrava più una seccatura. Ero qualcuno con cui parlare.

— Non ritornerà mai più da voi, sapete — dissi.

L’uomo alzò le spalle. — Non importa, non lo voglio. In ogni caso la mia è una faccenda personale, lui non potrebbe capire. Può fuggire via di nuovo, meglio così. L’Uomo Futuro non ha bisogno di lui. Ma non esiste posto dove fuggirlo. È finita l’epoca dell’uomo sulla Terra, e lui scoprirà che non si può sfuggire all’obsolescenza. Lo può fare l’Uomo Futuro, ma non noi. Siamo legati alla nostra miserabile esistenza, siamo solo animali e non possediamo ciò che serve per essere liberi.

— Non capisco.

— Nemmeno io, non completamente. Un rettile riuscirebbe a comprendere un uomo? Ma eravamo rettili un tempo… i vostri progenitori e i miei. E così i primi mammiferi, i primi primati. Gli uomini continueranno a progredire ma saranno sempre le scimmie del futuro, i rami sterili, i ritardatari, semplici animali senza scopi e senza destino. Gli uomini “speciali”, i miei uomini, continueranno a evolversi e a dare vita a nuove creature, a nuovi mondi. Io morirò, ma i semi che pianto cresceranno. I loro figli e le loro figlie tra diecimila, dieci milioni di anni non assomiglieranno più all’uomo, non penseranno come l’uomo. Di certo non saranno uomini.

— Voi non avete nulla a che fare con quello che vuole John, non è così? È stata tutta un’impresa inutile.

— Forse. Se non riuscirà a dimenticare i suoi sogni infantili e le sue ambizioni per vivere nel mondo reale allora sì, è stata un’impresa inutile.

— Lo giudicate infantile?

— Voi no?

— A volte — ammisi. — Ma ci sono momenti in cui sembra essere molto più adulto di noi. Ha uno “scopo” nella sua vita. Si fa chiamare Lucciola, ed è un bel nome. È il suo nome. Penso che mi disprezzi perché sono soddisfatto. Sono un uomo semplice, non desidero nulla di più, tutto quello che viene lo accetto. Con l’età ho perso le mie abitudini infantili. Ma sono più vecchio, più saggio o semplicemente meno vivo? Non sono veramente felice, ma quando sono infelice cerco di resistere e aspetto di ritornare a uno stato di neutralità emotiva. John non lo sopporterebbe. Per lui l’infelicità è una vera sofferenza e la felicità un vero sogno. Uno stato di neutralità emotiva non ha nessun significato per lui, non può esistere. Forse è un bambino, ma un bambino meraviglioso.

— Quello che vuole non è reale, è l’immagine di un passato illusorio, distorto dal tempo e dalla sua mente. L’Età dell’Oro, di cui parla tanto, non era un paradiso. Era un mondo duro e sgradevole, pieno di tensioni e contrasti. Questo spirito d’iniziativa che tanto ammira consumava gli uomini, li mutilava e li uccideva. E anche a quel tempo alla maggior parte degli uomini non importava di nulla. Ci saranno sempre milioni di persone come voi, Matthew, adesso come allora.

— John non può sapere queste cose — dissi.

— Io sì, sono nato lì. — Accese la pipa e aspirò con forza per far prendere fuoco al tabacco. — Ha inventato storie su se stesso e sugli altri in epoche e luoghi puramente immaginari. Ma creare storie ispirandosi alla realtà rischia di rovinare le storie stesse, non riesce a capirlo? Le storie sono chiare e coerenti, hanno un inizio, una fine e una morale. Sono distillate nei loro elementi base. Ma tutto ciò non è la vera vita. La vita è molto più varia, così varia che riusciamo a malapena a viverne un minuscolo frammento. È questo il nostro problema: non siamo capaci di “vedere”. Siamo dei vermi ciechi che strisciano nella terra, Matthew. Ovunque andrà John non riuscirà a trovare ciò che cerca, nemmeno se potesse tornare indietro nel tempo.

— Non trovare ciò che cerca non lo fermerà.

Ci fu un attimo di silenzio.

— Non gli potreste rivelare il vostro segreto? — gli domandai. — È vero, John non può tornare indietro nel tempo, ma qui non c’è speranza per lui, né in nessun altro luogo del mondo. Concedetegli almeno di visitare dei posti nuovi. In mancanza di meglio potrà conoscere il vostro Uomo Futuro e apprezzare la vostra verità per quello che è. Non gli dobbiamo almeno questo?

— Io non gli devo nulla.

— Nessun aiuto? Non gli dovete proprio nulla? Gli neghereste persino quello che potreste offrirgli?

Si alzò e girò intorno alla poltrona afferrando lo schienale e sporgendosi in avanti come se fosse turbato.

— Non posso dargli proprio niente — disse. — Ho mentito quando mi sono definito “l’uomo che può viaggiare nel tempo”. L’ho fatto una volta, ma ora non più. Non potrei andare nel futuro anche se lo volessi, e per questo dico a me stesso che non voglio andarvi. Qui sono un naufrago senza più risorse. Un tempo ero come lui: cercavo una risposta. Ho cercato e cercato, ho passato al setaccio l’Età dell’Oro, quella che John pensa possa avere una risposta, ma non ho trovato nulla. Ipocrisia, apparenza, falsa ragione e falsa speranza, ecco ciò su cui era fondata la sua Età dell’Oro. Tutto quello che aveva da offrire era tormento e miseria. Per questo ho continuato il mio viaggio nel tempo pensando che sarebbero giunti tempi migliori. Nonostante l’inadeguatezza del nostro modo di essere, quello che avevamo era così importante, così meraviglioso, e io sentivo dentro di me che l’intero universo sarebbe stato nostro, che un giorno o l’altro avremmo scoperto i segreti della vita. Ma mi sbagliavo. Anno dopo anno, secolo dopo secolo era sempre lo stesso. Il nostro modo di “essere” non mutava e quello che avevamo lo perdemmo perché non poteva darci ciò che volevamo. Se aveste visto quello che ho visto io… se solo poteste immaginare, allora capireste che è tutto inutile. Non esiste una risposta, e l’Uomo in sé non è una risposta esauriente. Quando rivedrete vostro fratello, ditegli che rincresce anche a me, che mi dispiace per quello che prova, per quello che pensa, per quello che crede di volere. Mi dispiace di non potergli offrire niente, né una risposta né un modo per viaggiare nel tempo.

— Potreste lasciargli continuare la ricerca — insistetti. — Potreste dirgli come andare avanti.

— Potrei dirglielo, ma non potrebbe farlo. Vedete, non è così semplice come sembra. Non ho attraversato “materialmente” il tempo, è il “tempo” che mi ha attraversato “quantitativamente”. Soggettivamente il risultato è lo stesso. Oggettivamente è molto differente. Il tempo non è una dimensione lungo la quale ci si può muovere. È una qualità della mente. L’orologio che registra i minuti e le ore è solo un interprete che crea un’illusione di esteriorità per un’esperienza che ha luogo solo “dentro” di noi. Il flusso del tempo non è sempre uguale. Siamo tutti sincronizzati l’uno con l’altro, ma quello che accade veramente in ognuno di noi è molto diverso. Si diceva che l’uomo sarebbe vissuto solo settant’anni durante la sua vita terrena, ma non era vero. Gli uomini hanno vissuto per secoli, per millenni. Sono stati loro stessi a limitarsi a una sola unità di tempo, a un quantum se preferisci. Il tempo dell’universo non è un passaggio misurato dal ticchettio di un orologio. È un’entità singola e composita della mente umana. Il limite, il solo limite, è la percezione dell’uomo.

“Ho assunto una droga che ha ampliato la mia percezione e la mia prospettiva, ma solo in un senso: come diciamo noi, in ‘avanti’. Non mi ha dato l’immortalità, non mi ha dato potere. Il mio essere è debole e limitato come il vostro. Si è semplicemente dilatato coprendo un periodo di tempo maggiore. Ma adesso è tutto finito. La mia percezione si è riassorbita, forse perché l’effetto della droga era solo temporaneo. Non so dire se ho perso le mie facoltà percettive perché non riuscivo più a vedere o perché non ‘volevo’ più farlo, ma per quel che mi riguarda è lo stesso.

“La droga ha fatto effetto su di me, ma potrebbe non farlo su vostro fratello. Potrebbe influenzare la sua mente in modo diverso, potrebbe ucciderlo. Ma se vuole provare, deve procurarsela. Non so da dove venga né come produrla. Non so nemmeno dove potreste trovare qualcuno che sappia dirvi qualcosa di più.”

L’uomo ricadde nel silenzio. E così il futuro poteva essere raggiunto attraverso una droga! Forse, dopo tutto, la fuga offertaci dal nano nel paese senza nome prima di Hawkeyrie era quella che cercava John. Ma cosa mi aveva rivelato la porta? “Senso unico. Non potete uscire da questa parte. Fuggire non serve a nulla.”

Si trattava comunque sempre di droghe e di altri espedienti per acuire la percezione. Il dio che plasmava statue senza sesso portava un anello. Qualcuno glielo aveva fornito, e qualcuno aveva fornito la droga al nano.

E c’era solo una fonte possibile…

11. Tempo di morire

Come avevo previsto, John non ritornò. Me ne andai verso mezzanotte. La luna risplendeva e l’aria di montagna era limpida e fredda. Immaginai che John fosse tornato al carro, nonostante la donna che ora aveva con sé la sua preziosa balestra.

Avevo ragione. A dire il vero, lo trovai in casa della donna, una piccola capanna nascosta tra gli alberi vicino alla strada dov’era abbandonato il nostro carro. Sembrava che l’odio della donna per i viandanti si fosse placato, tanto da offrire un riparo al ragazzo. La mente di John era occupata da sentimenti ben più seri del rancore per un cavallo morto o per una balestra rubata. E così la povera Darling fu ben presto dimenticata.

La donna e il bambino dormivano placidamente e, apparentemente, senza paura, con la balestra accanto.

Io e John sedemmo davanti al fuoco e osservammo le fiamme. John era perso nella profondità dei suoi pensieri e io aspettai pazientemente che ritornasse in sé.

Solo dopo qualche tempo mi accorsi che nella capanna c’era una quinta persona, svegliatasi con il mio arrivo. Probabilmente era stata la sua presenza che aveva convinto la donna ad ammettere John al suo focolare, e certamente era sempre in virtù della sua presenza che questa dormiva senza temere vendette da parte della sua recente vittima.

Era Alvaro.

— Vi siete ulteriormente allontanato dal vostro percorso — dissi con un tono piuttosto freddo. Perché si trovava lì?

— Forse no — rispose. — Una certa idea mi ha fatto cambiare strada e vi ho seguito.

— Perché?

— Avevo previsto la delusione di vostro fratello.

— E allora?

Mi accovacciai accanto al fuoco per scaldarmi le mani e guardai Alvaro. Lui si avvicinò lentamente e si sedette accanto a me rivolgendo lo sguardo verso John, il quale si spostò silenziosamente per lasciarci spazio senza però interrompere la sua profonda meditazione.

— Immagino che sapevate già da molto tempo a quale delusione sarebbe andato incontro mio fratello — dissi lentamente.

La luce del fuoco riflessa sugli occhiali di Alvaro non mi permetteva di vedergli gli occhi e interpretarne l’espressione.

— Sì — disse. — Forse lo sapevo. Forse avrei dovuto saperlo.

— Non avete detto nulla. Avete discusso con lui, ma non gli avete detto che era impossibile.

— Lo so. Ho sbagliato?

— Come posso saperlo?

— Come posso saperlo io? — L’ometto allargò le dita tozze in un gesto di impotenza. — Non è facile avere a che fare con i sogni altrui. Avevo il diritto di intromettermi nelle sue illusioni? Avevo il dovere di infrangerle? Non lo so, e nemmeno voi lo sapete. Neppure lui può dire se avrei dovuto informarlo o no. Non l’ho fatto perché non volevo che soffrisse. Non sono coraggioso, Matthew, non come lui. Mi piace vostro fratello, Matthew. Mi piaceva vederlo pensare, conoscere i suoi sogni, mi piaceva la sua ricerca. È una ricerca rara, sapete, e non volevo distruggere niente di così raro. Ma adesso, se posso esservi di aiuto, non mi tiro indietro. Mi dispiace.

Sospirai. — E che genere di aiuto potreste offrire? — domandai.

— Non lo so.

— Potete fornirgli la droga che cerca?

— Non so nemmeno questo.

— Oggigiorno non ci sono molti viandanti — dissi.

— Pochissimi — ammise. Sapeva dove volevo arrivare.

— Non ci sono più molte persone a conoscenza delle cose o che raccolgono le informazioni — continuai. — E ce ne sono ancora meno che coltivano propositi per i quali tali informazioni siano utilizzabili. Eppure qualcuno ha dato un anello a uno storpio. Qualcuno si è interessato a lui. Qualcuno rifornisce di droghe solitari paesi di montagna. Ci sono uomini con il loro sole personale e uomini che vivono al crocevia del mondo. Non tutto è perduto, vero, Padre? Lo sappiamo bene, è un mondo soddisfatto di sé, la felicità e l’euforia sono dappertutto; ma è necessario un intervento esterno, non è così, Padre? Si deve mantenere la tranquillità. Qualcuno deve far girare le ruote in modo che il resto del mondo possa dormire tra due guanciali. Nessuno è inappagato o insoddisfatto. Siamo un popolo di bambini che possiede giocattoli meravigliosi. Chi fabbrica questi giocattoli, Padre Alvaro? Chi si occupa dei bambini?

— Come ben sapete siamo noi — disse pacatamente.

— Voi — ripetei con un tono di voce piatto, neutrale.

— La Confraternita dell’Uomo Futuro — rispose Alvaro, con lo stesso tono distaccato. — Prepariamo la via. L’unico scopo rimasto all’uomo sulla Terra è di preparare la via a quelli che verranno dopo di lui. Abbiamo un progetto e un destino. Facciamo quello che è necessario.

— Avete la droga che permetterebbe a John di viaggiare nel tempo?

— Abbiamo droghe che ampliano la percezione.

— Nel tempo?

— Sì.

— E cosa dobbiamo fare per procurarcela?

Alvaro scrollò le spalle. — Non spetta a me dirlo. Provate a venire alla Confraternita. Imparate da noi, imparate con noi. Comprendeteci, lasciate che vi comprendiamo.

— Non parlo di me, ma di John.

— Non penso che tra voi e John vi sia una gran differenza.

— Non entrerà nella vostra Confraternita, lo sapete. Non crede in voi.

— Non conoscete vostro fratello, Matthew. Lui crede. Non necessariamente in noi, ma crede. È già un inizio. Abbiamo bisogno di John, così come lui ha bisogno di noi. In quest’epoca noi siamo gli unici a essere impegnati in qualcosa, e lui ha terribilmente bisogno di impegnarsi in qualche progetto. Penso che in mancanza di meglio abbraccerà la nostra missione.

— E io? Voi non avete bisogno di me.

— John ha bisogno di voi.

— Per cosa? Non posso più fare nulla per lui, voi sì. Se c’è qualcuno di cui ha bisogno siete voi, non io.

Alvaro non rispose. Scrutai il viso di mio fratello attraverso la caligine che avvolgeva pigramente il fuoco. Non sembrava stesse ascoltando. Sapevo che, se voleva, riusciva a isolarsi completamente dal mondo, ma in qualche modo sentivo che quell’aria assente era una posa, che aveva udito ogni parola e stava riflettendo nonostante lo sguardo continuasse a rimanere fisso.

— Allora che devo fare? — chiesi ad Alvaro.

L’uomo scosse la testa. — Non sta a me dire cosa dovete fare.

— Poco fa me lo stavate dicendo.

Sorrise. — Era un punto di vista. Vi offro un modo di pensare, non un consiglio. Siete voi che dovete decidere, voi e John.

— È John che decide — dissi.

— Davvero. — Il tono dell’ometto era ironico.

— Io non ho bisogno di illusioni, non ho bisogno di missioni.

— Forse no.

— Lui sceglie la strada e io lo seguo. Qualcuno deve badare a lui, anche adesso.

Smettemmo di parlare e quella pausa si trasformò in minuti. Alvaro aveva detto quello che pensava e ora sembrava felice di non dover più continuare la conversazione. Forse era stanco del mio atteggiamento perennemente negativo. Dopo tutto era a John che si rivolgeva, non a me. Era John che voleva.

La Lucciola fissava ancora la danza delle fiamme. C’erano lacrime sulle sue guance, ma non credo che stesse piangendo. Era solo il fumo che gli irritava gli occhi.

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