Strisce di luce nascente percorrono il cielo. L’oscurità è vinta dal rosa, dal grigio e dal blu. Si stiracchia e saluta il mattino, ritrovandosi affamato e assetato. Ritorna al ruscello, ci si inginocchia vicino, si spruzza un po’ d’acqua sul volto, si sciacqua i denti e gli occhi, e, imbarazzato, toglie dalle cosce lo sperma secco e appiccicoso. Poi beve avidamente fino a quando la sete scompare. Cibo? Si china ancora di più, e, con una destrezza che lo stupisce, prende dal ruscello un pesce guizzante. Le sue scaglie levigate sono blu scuro, e in esse pulsano delicatamente filamenti rossi. Crudo? Be’, sì, che altro? Ma almeno non vivo. Prima gli fracasserà la testa su una roccia.
— No, per favore. Non farlo — dice una voce dolce.
È disposto a credere che il pesce stia pregando di avere salva la vita. Ma su di lui cade un’ombra purpurea; non è solo. Voltandosi, vede dietro di sé una figura magra ed esile. La fonte della voce. — Io sono Hanmer — dice il nuovo venuto. — Il pesce… per favore… ributtalo in acqua. Non è necessario. — Un sorriso gentile. Si tratta di un sorriso? È una bocca? Sente che è meglio ubbidire a Hanmer. Ributta il pesce nell’acqua. Con un colpo di coda di scherno, quello si allontana guizzando. Lui si volta di nuovo verso Hanmer e dice: — Non vorrei farlo. Ma ho molta fame, e mi sono perso.
— Dammi la tua fame — dice Hanmer.
Hanmer non è umano, ma la somiglianza è evidente. Ha le dimensioni di un bambino alto, e il suo corpo, anche se magro, non sembra fragile. La sua testa è grossa ma il collo è massiccio e le spalle sono larghe. Non c’è su di lui la minima traccia di peluria, La sua pelle è verde-oro e ha le qualità durevoli, resistenti di un’ottima plastica. I suoi occhi sono globi scarlatti dietro rapide palpebre trasparenti. Il suo naso non è che un promontorio; le sue narici sono fessure abbozzate; la bocca è una fenditura orizzontale e sottile che non si apre mai a sufficienza per rivelarne l’interno. Ha molte dita all’estremità degli arti superiori; non così ai piedi. Le braccia e le gambe hanno una giuntura al gomito e al ginocchio, ma le giunture sembrano praticamente universali, conferendogli un’immensa libertà di movimento. Il sesso di Hanmer è un vero enigma. Qualcosa nel suo aspetto sembra indiscutibilmente maschile, e non ha seni né altre caratteristiche femminili visibili. Ma dove dovrebbe esserci un membro maschile, ha solo una curiosa tasca verticale che si apre verso l’interno, vagamente simile alla fessura vaginale, senza però esserle realmente paragonabile. Sotto, invece di due testicoli ballonzolanti, c’è una sola piccola sacca rigida, probabilmente equivalente allo scroto: come se, restando il fine evoluzionistico quello di tenere le gonadi all’esterno del corpo, la natura avesse trovato un contenitore più efficiente. Non possono esserci dubbi sul fatto che gli antenati di Hanmer, in qualche epoca remota, fossero umani. Ma può essere definito anche lui un uomo? Figlio dell’uomo, forse. — Vieni qui — dice Hanmer. Allunga le braccia in avanti. Tra le dita ci sono membrane delicate. — Come ti chiami, straniero?
È necessario pensarci un momento. — Ero Clay — lui risponde a Hanmer. Il suono del suo nome cade al suolo e rimbalza. Clay. Clay. Io ero Clay. Io ero Clay quando ero Clay. Hanmer sembra soddisfatto. — Vieni, allora, Clay — dice gentilmente. — Prenderò la tua fame. — Esitante Clay dà la mano a Hanmer. Viene tirato più vicino. I loro corpi si toccano. Clay si sente degli spilli negli occhi e un fluido nero che gli scorre impetuoso nelle vene. Diventa nettamente consapevole del viluppo di vasi sanguigni presenti nella sua pancia. Riesce a sentire i deboli rumori prodotti dalle sue ghiandole. Dopo un momento Hanmer lo libera e lui si ritrova completamente affrancato dalla fame; gli riesce incomprensibile aver considerato la possibilità di divorare un pesce solo pochi momenti prima. Hanmer ride: — Va meglio adesso?
— Meglio. Molto.
Con l’alluce Hanmer traccia velocemente una linea sul terreno. Il suolo si apre senza difficoltà, e Hanmer ne estrae un tubero grigio, massiccio e pesante. Lo porta alle labbra e lo succhia per qualche momento. Poi lo porge a Clay, che lo fissa indeciso. Si tratta di una prova?
— Mangia — dice Hanmer. — È permesso. — Anche se la fame è scomparsa, Clay succhia il tubero. Alcune gocce di un sugo appiccicaticcio gli entrano in bocca. Fiamme improvvise gli scuotono il cranio, facendolo sobbalzare fin nelle sue fibre più intime. Hanmer gli si avvicina, afferrandolo appena prima che cada per terra, e lo abbraccia nuovamente; Clay sente gli effetti del succo decrescere istantaneamente. — Perdonami — dice Hanmer. — Non avevo capito. Devi essere terribilmente antico.
— Cosa?
— Uno dei più antichi, suppongo. Preso nel flusso del tempo come tutti gli altri. Noi vi amiamo. Vi consideriamo i benvenuti. Ti sembriamo paurosi, o strani? Ti senti solo? Hai nostalgia? Ci insegnerai qualcosa? Ti offrirai a noi? Ci delizierai?
— Che mondo è questo?
— Il mondo. Il nostro mondo.
— Il mio mondo?
— Lo era. Può esserlo.
— Che periodo è questo?
— Un buon periodo.
— Sono morto?
Hanmer ridacchia. — La morte è morta.
— Come sono arrivato qui?
— Preso nel flusso del tempo come gli altri.
— Trascinato nel mio futuro? Quanto nel futuro?
— Ha importanza? — chiede Hanmer, apparentemente seccato. — Vieni, Clay, dissolviti con me, e cominciamo i nostri viaggi. — Prende ancora una volta la mano di Clay. Clay si ritrae istintivamente.
— Aspetta — mormora. Adesso la mattina è molto luminosa. Il cielo è di nuovo di un blu doloroso; il sole è un disco abbagliante. Rabbrividisce. Avvicina il volto a quello di Hanmer e dice: — Ci sono altri come me, qui?
— No.
— Sei umano?
— Naturalmente.
— Ma modificato dal tempo?
— Oh, no — dice Hanmer. — Tu sei modificato dal tempo. Io vivo qui. Tu sei venuto a visitarci.
— Mi riferisco all’evoluzione.
Hanmer sbuffa. — Possiamo dissolverci, adesso? Abbiamo così tante cose da vedere…
Clay indica un ciuffo delle piantine seminate la notte precedente. — Sono venute tre creature, e hanno seminato queste…
— Sì.
— Che cos’erano? Visitatori di un altro pianeta?
— Umani — sospira Hanmer.
— Anche loro? Forme diverse?
— Più antichi di noi, ma posteriori a te. Presi nel flusso del tempo, tutti.
— Come è possibile che ci siamo evoluti in loro? Neanche in un miliardo di anni l’umanità avrebbe potuto trasformarsi a tal punto. E poi il cambiamento è retrocesso? Tu sei molto più simile a me di loro. Qual è lo schema? Qual è la traccia? Hanmer, non riesco a capire!
— Aspetta di vedere gli altri — dice Hanmer, dopo di che comincia a dissolversi. Una nuvola grigio pallido emana dalla sua pelle e lo avvolge, e in quel bozzolo diventa nebbioso, dissolvendosi tranquillamente nel nulla. Scintille arancioni luminose pervadono la nuvola. Hanmer, ancora visibile, sembra estasiato. Clay riesce a vedere un tubo rigido e carnoso uscire dalla tasca nell’inguine di Hanmer: sì, dopo tutto è maschio, e in questo momento di piacere mostra il sesso. — Hai detto che mi avresti portato! — grida Clay. Hanmer annuisce e sorride. La struttura interna del suo corpo è adesso perfettamente visibile, un fascio di nervi e vene, illuminati da un qualche fuoco interiore, da una luminosità rossa, verde e gialla. La nuvola si espande e improvvisamente anche Clay si trova al suo interno. Si sente un dolce sibilo: anche i suoi tessuti e le sue fibre iniziano a ribollire. Hanmer è scomparso. Clay gira, si estende, si attenua; percepisce i propri organi interni, una squisita miscela di strutture e tonalità, questo verde e oleoso, quello rosso e appiccicoso, qui una massa spugnosa grigia, là una bobina blu scura, tutto così netto, così preciso, negli ultimi momenti che precedono la dissoluzione. Un senso di avventura e di eccitazione si impadronisce di lui. Sta ondeggiando verso l’alto e verso l’esterno, fluttuando sulla superficie del terreno, assumendo dimensioni infinite e circondando tutte le masse; adesso copre interi acri, interi paesi, interi regni. Hanmer è accanto a lui. Si espandono insieme. La luce solare lo colpisce sulla vasta superficie superiore del suo nuovo corpo, innescando danze molecolari e saltellando con gaiezza spontanea, sbattendo e scoppiettando nel rimbalzare tutt’intorno. Clay è pienamente consapevole degli elettroni caricati che risalgono la scala energetica. Pip! Pop! Peep! Risplende. Vibra. Si visualizza come un grosso tappeto grigio che svolazza nell’aria. Invece di un occhio composito ha un centinaio di occhi, e nel centro di ognuno la dura massa punteggiata del cervello riluce e mormora e dirige tutta la situazione.
Vede scene della notte precedente: la valle, il prato, le colline, il ruscello. Poi il campo visuale cambia man mano che salgono più in alto, e visualizza una campagna sparsa e frastagliata piena di fiumi e alture, di guglie erose che scaturiscono dalla terra, di golfi, di laghi, di promontori. Sotto di lui si muovono delle figure. Ed ecco i tre esseri caproidi, che ondeggiano e mormorano sotto un albero enorme e gommoso. Ecco sei creature della specie di Hanmer, che si stanno accoppiando allegramente in cima a una collinetta dorata. E poi vede le creature notturne che sonnecchiano sotto terra, e una creature selvaggia con mostruose tenaglie al posto dei denti. Qui c’è qualcosa di sepolto a una notevole profondità nel sottosuolo, che irradia pensieri solenni e appassionati. Poi arriva un plotone di creature alate, uccelli o pipistrelli o forse anche rettili, che volano in formazione serrata, oscurando il cielo, impegnati in una picchiata, che scrutano il corpo di Clay dalla testa ai piedi attraversandolo come un milione di proiettili per svanire nel cielo privo di nuvole. Ora avverte intelligenze saturnine che si annidano nella melma di polle oscure. Qui ci sono blocchi sparsi di pietra, forse antiche rovine. Clay non vede nessun edificio intero. Non vede strade. Il mondo non reca alcun segno della durata dell’uomo. È ovunque primavera; le cose irradiano vita. Hanmer, ondeggiando come una nuvola temporalesca, ride e grida: — Sì! Tu lo accetti!
Clay lo accetta.
Prova il proprio corpo. Lo rende fluorescente, e vede onde violette danzare sotto di lui. Crea ossa d’acciaio e una spina dorsale d’avorio. Intesse un nuovo sistema nervoso con nuclei di vuoto. Inventa un organo sensibile ai colori che si trovano oltre l’ultravioletto, e allegramente lascia fuori l’estremità inferiore dello spettro. Diventa un enorme organo sessuale e violenta la stratosfera, lasciando strie di seme luminoso dietro di sé. E Hanmer, sempre accanto a lui, richiama: — Sì — e — Sì — e — Sì — ogni volta. Clay copre adesso diversi continenti. Accelera il ritmo, cercando le proprie terminazioni, e dopo qualche sforzo le scopre e le collega a se stesso, cosicché è ormai un serpente nebbioso che circonda il mondo. — Vedi? — grida Hanmer. — È il tuo mondo, vero? Il pianeta familiare? — Ma Clay non ne è sicuro. I continenti si sono spostati. Vede quelle che crede siano le Americhe, ma hanno subito vari cambiamenti, infatti la punta del Sudamerica è scomparsa così come l’istmo di Panama, e a ovest di quello che dovrebbe essere il Cile c’è un’enorme estensione cancerosa, probabilmente un’Antartide spostata. Gli oceani coprono entrambi i poli. Le linee costiere sono completamente diverse. Non riesce a trovare l’Europa. Un tremendo mare interno copre gran parte di quella che sospetta essere l’Asia; un raggio solare lo fa risplendere, trasformandolo in un gigantesco occhio ammiccante. Piangendo, lascia cadere torrenti di lava lungo l’equatore. Uno schermo a cupola avvolge serenamente la zona dove dovrebbe trovarsi l’Africa. Una catena di isole radiose risplende su migliaia di miglia di quell’oceano alterato. Adesso comincia ad avere paura. Pensa ad Atene, al Cairo, a Tangeri, a Melbourne, a Poughskeepsie,, a Istanbul, a Stoccolma. Nel suo rimpianto rabbrividisce, e, rabbrividendo, si trasforma in una miriade di particelle ghiacciate, inseguite istantaneamente da piccoli insetti ronzanti, che escono da stagni e paludi; cominciano a punzecchiarlo, ma Hanmer li scaccia con un urlo, facendoli cadere intontiti al suolo, e poi Clay si sente ripreso e ristorato. — Cos’è successo? — chiede Hanmer, e Clay risponde: — Ho ricordato.
— Non farlo — dice Hanmer. Ripartono nel loro volo. Girano e volano e irrompono nel regno dell’oscurità circondando il mondo, cosicché lo stesso pianeta non è più altro che una piccola impurità sferica nel soffice mantello fluttuante del suo corpo. Lo guarda girare. Così lento! Si sono allungati i giorni? Dopo tutto, è davvero il mio mondo? Hanmer lo nutre e i due si trasformano in fiumi di energia lunghi milioni di chilometri e si spostano ribollendo nello spazio. Si ritrova infiammato di tenerezza, amore, desiderio di fusione con il cosmo. — I nostri mondi vicini — dice Hanmer. — I nostri amici. Capisci? — Clay capisce. Adesso sa che non è stato trasportato su un pianeta di qualche altra stella. È chiaramente Venere, questa sfera nuvolosa quaggiù. E questa cosa rossastra è Marte, anche se è trasformato curiosamente dal grande mare verdastro che lambisce le pianure sabbiose. Non riesce a trovare Mercurio. Continua più volte a roteare in quell’orbita interna, alla ricerca del piccolo globo ruotante, ma non c’è. È forse caduto nel sole? Non ha il coraggio di chiederlo, per paura che Hanmer confermi i suoi timori. Clay non potrebbe sopportare l’idea di aver perso perfino un pianeta. — Vieni — dice Hanmer. — Fuori.
Gli asteroidi sono scomparsi. Una decisione saggia: a chi potevano servire tutti quei detriti? Ma Giove è ancora lì, meravigliosamente immutato, e immutata è la Grande Macchia Rossa. Clay esulta. Sono rimaste anche le strisce colorate, bande luminose di giallo, marrone e arancione vividi, separate da bande più scure. — Sì? — chiede Clay, e Hanmer risponde che è possibile farlo, così si tuffano verso il pianeta, fluttuando e vorticando nell’atmosfera di Giove. Cristalli nebbiosi li avvolgono da ogni parte. I loro corpi evanescenti si legano con molecole di ammoniaca e metano. Continuano a scendere, sempre più giù, verso guglie di ghiaccio che si innalzano su enormi e cupi mari oleosi, verso geyser turbolenti e laghi ribollenti. Clay si lascia appiattire contro un continente innevato e si riposa ansimando, godendo dell’impatto sensuale delle svariate tonnellate di pressione atmosferica sulla sua schiena. Poi diventa una sonda e scandaglia il grosso nucleo incandescente del pianeta, colpendolo allegramente, continuando a rimbalzare e vibrare e rimbalzare e vibrare, e ondate di suono si innalzano con una sinuosità lenta e pastosa. Dedica tutto se stesso all’estasi. Ma poi, subito dopo, avviene una perdita compensatrice: il luminoso Saturno è privo di anelli. — Un incidente — confessa Hanmer. — Un errore. È successo tanto tempo fa. — Clay non ne è certo consolato. Desidera frantumarsi di nuovo e giocare sulla superficie ghiacciata di Saturno in una nuvola di fiocchi di neve. Hanmer, comprensivo, rimane in orbita e continua a girare allegramente intorno al pianeta, attraversando tutte le tonalità dello spettro, lampeggiando ritmicamente e poi freneticamente, capovolgendosi a testa in giù, per poi assumere un’angolazione impossibile. — No — dice Clay. — Ti sono molto riconoscente, ma non funziona; non è la stessa cosa — dopo di che si dirigono verso Urano, verso Nettuno, verso il gelido Plutone. — Non è stato per colpa nostra — insiste Hanmer. — Ma non avremmo mai pensato che a qualcuno potesse importare tanto. — Plutone è una noia. Torreggiando, Clay osserva cinque cugini di Hanmer scivolare giocando su un’enorme distesa ghiacciata, provenienti dal nulla e diretti verso il nulla. Il suo sguardo si spinge interrogativo verso l’esterno. Procione? Rigel? Betelgeuse?
— Un’altra volta — mormora Hanmer.
Fanno ritorno alla Terra.
Come gioielli gemelli si tuffano nell’atmosfera sfavillando. Atterrano. Si ritrova di nuovo nel suo corpo mortale. Giace su un campo di piantine piccole e carnose verdazzurre, molto curate; su di lui torreggia un gigantesco monolito triangolare, biforcato alla sommità, e dalla biforcazione scende un fiume ribollente che si infrange centinaia o forse migliaia di metri più in basso sulla larga piattaforma d’onice che fa da base al monolito, circondandolo completamente. Sta tremando. Il viaggio l’ha lasciato privo di forze. Quando ci riesce, si mette a sedere, si preme i palmi delle mani sulle guance, respira molto profondamente, ammicca. I mondi roteano in cerchi frenetici nella sua testa. La sua felicità su Giove combatte con il rimpianto per gli anelli di Saturno. E Mercurio. E gli amati vecchi continenti, la geografia amica. Trasformata dal lavoro del tempo. L’aria è mite e trasparente, e riesce a sentire una musica lontana. Hanmer è in piedi ai bordi della piattaforma, e sta contemplando la cascata.
Ma si tratta di Hanmer? Quando si volta, Clay nota alcune differenze. Sul petto cereo e levigato sono spuntati due seni. Sono piccoli, come quelli di una ragazza alla fine dell’adolescenza, ma sono femminili al di là di ogni dubbio. Sono incoronati da minuscoli capezzoli rosei. Il bacino di Hanmer si è allargato. La tasca verticale alla base della pancia si è ristretta a una fessura, di cui è visibile solo l’estremità superiore. L’emisfero scrotale sottostante è scomparso. Non è Hanmer. È una donna della specie di Hanmer.
— Io sono Hanmer — dice a Clay.
— Hanmer era un maschio.
— Hanmer è un maschio. Io sono Hanmer. — Si dirige verso Clay. I suoi movimenti non sono quelli di Hanmer: al posto della sua andatura libera e dinoccolata c’è un movimento più controllato, altrettanto fluido, ma indubbiamente meno flessibile. Gli dice: — Il mio corpo è cambiato, ma sono Hanmer. Io ti amo. Possiamo celebrare il nostro viaggio insieme? È l’usanza.
— L’altro Hanmer è scomparso per sempre?
— Niente scompare per sempre. Tutto ritorna.
Mercurio. Gli anelli di Saturno. Istanbul. Roma.
Clay si irrigidisce. Rimane silenzioso per un milione di anni.
— Celebrerai con me?
— Come?
— Unendo i nostri corpi.
— Sesso — dice Clay. — Non è superato, allora?
Hanmer ride graziosamente. Si sdraia con un movimento rapido per terra. Le piante carnose sospirano, si piegano e si spostano. Nei loro fiori si aprono delle palpebre che liberano nell’aria chiazze di un fluido splendente. Si diffonde una fragranza balsamica. Un afrodisiaco: Clay è improvvisamente consapevole della rigidità del suo membro. Hanmer flette le ginocchia. Allarga le cosce, e lui studia l’apertura che lo attende, in mezzo a esse. — Sì — sussurra lei. Le mani di lui scivolano fino a stringere la schiena fredda, piatta e serica di lei. Hanmer si lascia andare; le sue palpebre trasparenti sono diventate lattee, cosicché il bagliore scarlatto dei suoi occhi resta attenuato; quando lui alza una mano e comincia ad accarezzarle il seno, sente i capezzoli indurirsi, e rimane stupefatto e meravigliato di fronte all’immutabilità di certe cose. L’umanità è in grado di attraversare il sistema solare in un attimo, gli uccelli parlano, le piante corroborano il piacere umano, i continenti sono completamente trasformati, l’universo è una tempesta di colori meravigliosi e di aromi inebrianti; eppure in mezzo a tutto il miracolo d’oro e cremisi e porpora di questo mondo alterato i cazzi continuano a cercare le fighe e le fighe a cercare i cazzi. Non sembra coerente. Pure, con un gridolino soffocato entra dentro di lei e comincia a mupversi, pistone rigido nella camera umida, e non gli sembra nemmeno troppo insolito il fatto che il senso di perdita che l’ha accompagnato fin dal suo risveglio adesso lo abbandoni. Gode con tale intensità da rimanerne sconcertato, ma lei si limita a cantare una serie esile di semitoni e lui riprende altrettanto rapidamente il controllo di se stesso, supera ogni forma di imbarazzo, e quindi possono continuare. Lei gli offre un orgasmo di controllata intensità. Le sue gambe dalle ginocchia lisce si stringono intorno a lui. Il suo bacino vibra ritmicamente. Ansima. Sussurra. Canta. Lui sceglie questo momento e libera l’orgasmo per la seconda volta, raggiungendo tutta una serie di intense sensazioni in lei, e allora la struttura della pelle di lei subisce una serie di cambiamenti e trasformazioni, diventando ruvida e rugosa poi subito dopo liscia e quasi liquida, poi ancora mossa, come attraversata da onde, per tornare infine alla condizione originale. Nel momento che segue all’estasi finale lui si ricorda della luna! La luna! Dov’era quando lui e Hanmer se n’erano andati in giro per il cosmo? Non c’è nessuna luna. La luna non c’è più. Come può aver dimenticato di cercare proprio la luna?
Si distaccano e si allontanano. Lui si sente esaltato, ma anche leggermente depresso. La bestia del passato ha inseminato una creatura del futuro con il suo fluido salato. Calibano che feconda Ariele. Quando uniscono i loro corpi, qui, accompagnano l’orgasmo con un tale torrente di fluido? Lui è un preistorico. Passano vari momenti prima che trovi il coraggio di guardare Hanmer. Ma lei gli sta sorridendo. Si alza, lo invita delicatamente a imitarla, e lo porta alla piattaforma sotto la cascata. Fanno il bagno. L’acqua è di un gelo tagliente. Le molteplici dita di Hanmer gli percorrono tutto il corpo; in questa fase è talmente femminile che Clay fa una fatica estrema a ricordare il maschio deciso e muscoloso con cui ha cominciato il suo viaggio. È civettuola, giocherellona, femminilmente possessiva.
Gli dice: — Ti sei accoppiato con grande entusiasmo.
Un’emanazione improvvisa di luminosità proviene dal sole, che è quasi direttamente sopra le loro teste. Una linea di colori insoliti marcia attraverso i picchi di un’alta montagna verso… occidente? Le si avvicina, e lei gli sfugge, e corre ridendo su un prato eburneo; le piante si piegano desiderose verso di lei, senza però riuscire a toccarla. Quando lui la segue, lo bloccano. Lui prosegue insanguinato e la trova in attesa nei pressi di un albero contorto e nodoso non più alto di lei. Le sue narici fremono impetuosamente; le palpebre lattiginose si spalancano e si chiudono ripetutamente; i suoi piccoli seni ondeggiano. Per un momento lui la vede come se avesse verdi capelli fluenti e una densa e folta peluria nera sul pube, ma quel momento passa subito e lei è di nuovo glabra, come sempre. Cinque creature lo chiamano acutamente dai rami dell’albero. Hanno bocche enormi, e colli lunghi e ali grassocce, e, per quello che riesce a vedere, sembrano non avere corpo. — Clay! Clay! Clay! Clay! Clay! — Hanmer le scaccia: esse si lasciano cadere al suolo e corrono via. Lei gli si avvicina e bacia tutti i graffi del suo corpo, e lui guarisce. Austeramente lei esamina ogni parte del suo corpo, palpando tutto quanto, interessata alla sua anatomia, come se un giorno o l’altro dovesse costruire una creatura identica a lui. L’intimità di questa ispezione lo disturba notevolmente. Finalmente lei sembra soddisfatta. Si piega e prende un tubero dal terreno, come quello che l’altro Hanmer aveva preso il giorno precedente. Fiduciosamente lui lo prende e ne succhia la polpa. Sulla sua pelle cresce una pelliccia blu. I suoi genitali diventano talmente mostruosi che lui cade al suolo sotto la portata del loro peso. I suoi piedi si uniscono. La luna, pensa lui amaramente. Hanmer si piega su di lui e si abbassa, impalandosi sul suo pene. La luna. La luna. Mercurio. La luna. Si accorge appena delle contrazioni dell’orgasmo.
L’effetto della polpa del tubero diminuisce. Giace a pancia in giù, con gli occhi chiusi. Scuotendo Hanmer, si accorge che gli è ricresciuta la sacca scrotale nel punto di incontro delle cosce. Hanmer è di nuovo un maschio. Clay guarda: sì, è proprio così. Petto piatto, spalle larghe, fianchi stretti. Tutto ritorna. Troppo spesso, a volte.
Arriva la notte. Cerca la luna.
— Avete città? — chiede. — Libri? Case? Poesia? Portate mai vestiti? Morite?
— Quando ne abbiamo bisogno — dice Hanmer.