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BRANO TRATTO DA: “Matematici e Mostri: Autobiografia di uno scienziato”, di Siegfried Buchbinder (Londra e New York, Anno 2145).


Io sono forse uno dei pochi che udirono Carlsen pronunciare per la prima volta la sua famósa definizione “Inversione del Tempo”.

Questo accadde nella primavera del 2117.

Il professor Hans Fallada, che insegnava da due anni all’Istituto Tecnologico del Massachusetts, veniva spesso da noi, in Franklin Street, sia perché era legato d’amicizia con mio padre, sia perché sua moglie Kirsten era amica intima di mia sorella.

Il professor Fallada aveva cinquant’anni più di sua moglie, ma il loro matrimonio era eccezionalmente felice.

Una tiepida sera d’aprile i signori Fallada erano stati invitati da noi a una cena in giardino. Verso le nove Kirsten Fallada chiamò mia madre per chiederle se poteva portare un altro ospite. Naturalmente mia madre rispose di sì. Mezz’ora dopo i Fallada arrivarono con un uomo che tutti riconoscemmo subito. Era il famoso Comandante Carlsen.

Proprio quel giorno un settimanale aveva pubblicato con grande rilievo la notizia che Carlsen aveva rifiutato oltre due milioni di dollari per il suo libro sui vampiri dello spazio.

Da più di due anni non si sentiva parlare del Comandante Carlsen. Una rivista aveva raccontato che Carlsen viveva in un monastero buddista nel Mare della Tranquillità, sulla Luna, ma, in effetti, la sua assenza dalla scena mondiale era circondata di mistero.

E adesso quella leggendaria figura a tutti nota era entrata nel nostro giardino e si era messa a parlare del modo migliore di arrostire bistecche di renna…

Carlsen aveva quasi ottant’anni nel 2117. Di aspetto ancora vigoroso, spalle dritte e portamento eretto, sembrava molto più giovane. Solo andandogli vicino si notavano rughe sottili intorno agli occhi e alla bocca. Mia sorella affermava che era l’uomo più attraente che avesse mai incontrato.

Inutile dire che passai tutta la serata ascoltandolo ammirato, in silenzio. Era il mio eroe. Come tanti altri ragazzi della mia età, volevo diventare esploratore spaziale. Anche la mia famiglia condivideva la mia ammirazione per Carlsen: era come avere Marco Polo o Lawrence d’Arabia a cena.

Per un paio d’ore la conversazione toccò argomenti generici. Tutti erano contenti e rilassati. Mi permisero persino di bere un bicchiere di birra fatta in casa. Verso mezzanotte mia madre cominciò a insistere perché andassi a letto. Quando me lo ripeté per la terza volta mi alzai da tavola e mi avviai di malavoglia, ma, arrivato davanti a Carlsen per dargli la buona notte, restai un momento lì impalato a guardarlo, poi osai chiedergli: — Posso farvi una domanda?

Mia madre disse: — No. Va’ a dormire. — Ma Carlsen gentilmente mi incoraggiava a parlare.

— State davvero in un monastero sulla Luna? — gli chiesi.

— Non stare a fare domande, Siggy — disse mio padre. — Ubbidisci alla mamma.

Carlsen però, nient’affatto seccato per la mia domanda, sorrise e mi rispose: — No. Non è vero. In questi due anni sono stato in un monastero a Kokungchak.

— Dov’è questo posto? — chiesi, senza badare alle occhiatacce di mio padre.

— Sulle montagne del Tibet.

Ecco dov’era stato. Ecco qual era il rifugio segreto che ogni giornalista avrebbe voluto conoscere, a qualunque prezzo… e la notizia era stata regalata a un ragazzino di dodici anni. Ma io volevo sapere di più.

— Perché non venite ad abitare qui a Cambridge? Nessuno vi disturberebbe.

Carlsen mi fece una carezza sui capelli e disse: — Chissà, forse più avanti… — Poi, rivolgendosi a mio padre: — Torno a Storavan, in Svezia.

Intanto mi ero rimesso a sedere, e nessuno mi disse più di andare a letto, dato che da quel momento Carlsen lasciò da parte ogni reticenza e rispose a tutte le domande. Mia sorella, che da bambina veniva chiamata “Kate Spietta” per la sua insaziabile curiosità, gli chiese perché fosse andato a finire nel Tibet. E Carlsen disse che c’era andato per sfuggire alla pubblicità da quando la rivista “Universe” aveva pubblicato la storia dei vampiri. (Si trattava dell’articolo: “I Killer dell’Universo: La Vera Storia della ‘Stranger’ e di quello che avvenne poi”, scritto da Richard Foster e Jennifer von Geijerstam e pubblicato il 26 gennaio 2112. Più tardi gli autori l’ampliarono, ricavandone un libro dallo stesso titolo).

Mio padre chiese a Carlsen se quel suo tentativo di sfuggire alla pubblicità non avesse prodotto l’effetto opposto.

Carlsen rispose che era stato vero, ma solo per qualche tempo. Quando i vampiri erano stati distrutti, nel 2080, lui aveva sentito il bisogno di restare solo per potere meditare in pace. E anche al professor Fallada erano necessarie solitudine e tranquillità per riscrivere il suo libro. Se l’intera storia delle loro vicende fosse stata pubblicata in quegli anni, non avrebbero più avuto un momento di pace.

Mentre Carlsen parlava, avevo acceso il mini-registratore, che tenevo sempre in tasca per ogni evenienza, ma poco dopo mi ero addormentato. Mio padre mi portò a letto.

La mattina dopo, quando mi svegliai, Carlsen se n’era andato, ma il registratore era ancora in funzione.

Conservo tuttora il nastro di quella conversazione. Parte di ciò che vi era registrato venne reso noto qualche tempo dopo, nel libro di Carlsen “L’incidente, della ‘Stranger’ ”. Il libro, però, termina con i particolari del recupero dell’astronave e del suo atterraggio sulla Luna.

Il nastro, invece, conteneva altre notizie, come brevi accenni sul soggiorno di Carlsen a Storavan e sugli studi sui vampiri da lui portati avanti insieme a Ernst von Geijerstam. Carlsen terminava il racconto con la narrazione della morte di von Geijerstam, avvenuta a centocinque anni di età, in seguito a un incidente di sci.

Carlsen si diceva inoltre convinto che von Geijerstam sarebbe morto comunque intorno a quell’età. Il suo “vampirismo benigno” gli aveva sì prolungato la vita, ma solo rallentandogli il metabolismo. Il problema di fondo, diceva Carlsen, non era quello di rallentare il metabolismo, ma quello di “invertirlo”.

Evidentemente, prima d’allora Carlsen non aveva mai parlato di questo problema con Fallada, poiché questi disse: — È fisicamente impossibile invertire il tempo!

— Il tempo in astratto o assoluto, sì — rispose Carlsen. — Ma non il tempo vissuto o relativo. Nel nostro universo, tempo è un’altra definizione del metabolismo, o processo metabolico. Nel nostro corpo questo processo ha luogo a scatti, avanza cioè come la lancetta corta di un orologio, consumando gradatamente la nostra vita. Ogni volta che ci concentriamo, noi ritardiamo, o meglio rallentiamo questo processo. Ecco perché scienziati e filosofi in generale vivono più a lungo dell’uomo medio. Il “vampirismo benigno” aumenta la lunghezza della vita umana perché aumenta il potere di concentrazione dell’uomo. I vampiri dello spazio avevano ottenuto una specie di immortalità concentrandosi per un intero millennio onde evitare di essere attirati e distrutti in un buco nero. Ma non si erano resi conto del significato della loro scoperta. Credevano di dover continuare ad assorbire energia vitale per mantenersi in vita. Invece sbagliavano. Era solo uno stimolante per loro, come per noi è il whisky.

Mio padre l’interruppe: — Ma se avessero compreso il vero significato della loro scoperta, questo li avrebbe resi immortali?

— No, perché non erano arrivati alla conclusione che la soluzione giusta si trova nell’inversione del tempo. Me ne sarei dovuto accorgere anch’io, quel giorno in Downing Street… (Qui, evidentemente, Carlsen si rivolgeva solo a Fallada). Tutta quell’energia che scorreva dal Nioth-Korghai… (Le parole si fecero inintelligibili a causa di rumori di fondo).

Fallada chiese: — Ma allora, perché i Nioth-Korghai erano mortali?

— Perché avevano seguito una linea evolutiva che comportava l’abbandono dei loro corpi, e questo li rendeva soggetti al tempo assoluto. Il nostro corpo, invece, ci protegge dal tempo assoluto. Il che significa che abbiamo meno libertà di movimento, ma maggior possibilità di controllo. Il nostro tempo fisico può essere invertito. Non permanentemente, è logico, ma per un attimo, come una diga ferma l’acqua di un ruscello, o come il vento trattiene la marea…

— Questa, allora, sostituisce la mia teoria del vampirismo? — chiese Fallada.

— Al contrario, la completa!

— Ma che prove ne abbiamo? — Questo era mio padre. — Come possiamo ottenere l’inversione del tempo?

E Carlsen rispose: — Io l’ho fatto.

A questo punto, mentre tutti probabilmente si aspetteranno che qualcuno dei presenti bombardasse Carlsen di domande, mia madre chiese: — Facciamo un altro caffè? — E mia sorella rispose: — Lo faccio io…

Poi la conversazione tornò sul vampirismo e la “vittimologia”, che era il titolo dell’ultimo libro di von Geijerstam, e il nastro finì.

Questa fu l’unica occasione in cui parlai a Carlsen. Dopo la decisione della Corte Mondiale di difendere la sua intimità dai giornalisti, Carlsen tornò a Storavan.

Cinque anni dopo gli scrissi, rammentandogli quella serata passata a casa nostra e chiedendogli se potevo andare a trovarlo.

Lui rispose, con gentilezza ma fermamente, che le sue ricerche erano arrivate a un punto cruciale e che per parecchio tempo non avrebbe potuto ricevere visite.

Lo rividi soltanto un’altra volta: nella sua bara.

Arrivai a Stoccolma il giorno dopo l’annuncio della sua morte e subito noleggiai un elicottero per raggiungere Storavan.

La terza moglie di Carlsen, Violetta, mi accolse con molta cortesia, ma mi disse che non poteva ospitarmi. Mi invitò però a cena, quella stessa sera (la famiglia di Carlsen mi parve numerosissima) e poi mi condusse nel mausoleo dietro la cappella, che in pratica era una stanza ottagonale contenente un certo numero di sarcofagi di pietra. A quanto mi venne detto si trattava delle tombe degli antenati di von Geijerstam. (Nota dell’Editore: l’autore qui non ricorda esattamente, poiché in realtà i sarcofagi erano quelli degli antenati della famiglia de la Gardie).

Il cadavere di von Geijerstam non era con gli altri. Come ultimo desiderio aveva chiesto di essere sepolto in mezzo al lago, in una bara di granito.

Al centro del locale c’erano quattro sarcofagi di rame. La signora Carlsen mi disse che uno di essi conteneva le ceneri del Conte Magnus, l’amante della Regina Cristina. Vicino, su un piedestallo di pietra, c’era il sarcofago di Olaf Carlsen. Il coperchio era scostato, in maniera che la faccia fosse visibile. Notai con meraviglia che non sembrava più vecchio di quando l’avevo visto. Anzi, sembrava più giovane. Gli posai la mano sulla fronte abbronzata. Era fredda e cedevole, ma la bocca sembrava normale, come se fosse solo addormentato. Mi feci coraggio e chiesi alla signora Carlsen se il medico gli aveva fatto un esame lambda. Lei disse di sì, e aggiunse che l’esame aveva dimostrato l’arresto totale del metabolismo.

La signora Carlsen, che era cattolica, s’inginocchiò per pregare. M’inginocchiai anch’io, per rispetto, ma sentendomi a disagio e, in un certo senso, ipocrita. La pietra era fredda, e dopo due o tre minuti cominciai anche a sentirmi fuori posto, come mi capitava da bambino nella nostra chiesa episcopale. La signora Carlsen sembrava così assorta che non osavo muovermi. Misi una mano sul piedestallo e mi protesi in avanti a guardare la faccia di Carlsen. E subito, mentre lo guardavo, mi sentii invadere da una strana calma. E insieme provai un assurdo senso di gioia, che mi fece venire le lacrime agli occhi. Non posso descrivere quella sensazione, posso soltanto annotarla. Avevo la certezza che quel posto avesse un che di soprannaturale, un influsso di bene. Il senso di pace era talmente profondo che il tempo sembrava avesse smesso di scorrere. Rimasi inginocchiato là per più di mezz’ora, eppure non mi sentii più né a disagio, né scomodo.

Quando la signora Carlsen chiuse la porta della cappella, dissi: — Non riesco a credere che sia morto.

Lei non disse niente, ma mi sembrò che mi guardasse in un modo strano.


FINE
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