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Il cielo aveva i colori del tramonto, quando l’aereo atterrò a Londra. Scendendo la scaletta Carlsen fu colpito gradevolmente dal tepore dell’aria che odorava di carburante.

Essere di nuovo lì gli dava una sensazione strana. Pareva incredibile che fosse passato solo un giorno da quando aveva lasciato Londra. Aveva più l’impressione di essere stato sei mesi nello spazio.

Fallada chiese: — Come ti senti?

— Contento di essere tornato, ma un po’ depresso.

— Per via di Selma?

— Sì.

— Non devi avere rimorsi. Non è stata colpa tua. Del resto non potevamo restare ancora.

Carlsen disse: — Non è questo.

— Cosa c’è, allora?

— Io volevo restare — rispose Carlsen. Fallada gli diede un’occhiata. — Oh, non che sia innamorato di lei — riprese Carlsen. Gli sembrava assurdo parlare di cose intime mentre andavano a prendere l’autobus, circondati da voli e rumori. Aggiunse: — Era la sua vitalità… — S’interruppe, incapace di continuare.

Fallada disse subito: — Non devi preoccuparti.

— Non mi preoccupo per me stesso.

— Lo so. Ma ricordati che è soltanto un impulso naturale, come l’istinto sessuale. Lo si può controllare altrettanto facilmente.

Mentre il pullmino correva silenzioso sul liscio asfalto dell’aeroporto, Fallada cercò di nascondere la propria inquietudine.

Capiva i timori di Carlsen per la moglie e i figli. Aveva visto la teleregistrazione automatica della morte di Seth Adams, e ne aveva avuto l’impressione di un’immediata risposta mortale a uno stimolo, simile al chiudersi di una dionea sull’insetto che la sfiora.

Arrivati all’interno dell’aeroporto andarono verso le cabine dei teleschermi. Carlsen chiamò Jelka, che apparve in accappatoio.

— Stavo lavandomi i capelli — disse lei. — Mandy e Tom hanno detto che saranno qui alle nove. Ci sarai per quell’ora?

— Non ne sono sicuro. Fallada sta chiamando Heseltine in questo momento… Ti richiamo dopo.

Nel frattempo Fallada aveva parlato con il sergente di servizio, il quale gli aveva detto che Heseltine aspettava una chiamata a casa, cosa che lui fece subito. Heseltine comparve sullo schermo, masticando. Fallada disse: — Mi scuso per averti disturbato durante la cena…

— Non importa… avevo quasi finito. Dove sei stato?

— Te lo dirò quando c’incontriamo. Identificate, le due targhe?

— Sì — disse Heseltine togliendo di tasca un foglietto. — Una era una macchina straniera, di una coppia danese in luna di miele. L’altra appartiene a un certo Pryce, che abita a Holmfirth.

— Dov’è Holmfirth?

— Nello Yorkshire.

— Bene. Sarà opportuno che ci si veda subito. Sei libero?

— Certo. Stavo per versarmi un brandy e fumare un sigaro. Vieni al più presto, così mi tieni compagnia. Carlsen è con te?

— Sì.

— Bene. Mia moglie non vede l’ora di conoscerlo. Vi aspetto.

Uscendo dall’aeroporto si fermarono all’edicola, e Fallada comperò una carta dell’Inghilterra. Nell’elitassì, la spiegò, la studiò per un paio di minuti, fece un’esclamazione soddisfatta, tese la carta a Carlsen, l’indice premuto sulla pagina, e disse: — Guarda.

Holmfirth era un piccolo centro a una decina di chilometri da Huddesfield. I colori della carta indicavano terreno collinoso, con sfumature gialle e marroni.

Holmfirth si trovava ai margini della zona marrone.

— Saranno circa quattrocento chilometri da Londra. Con una cavalletta possiamo arrivarci in meno di un’ora.

Carlsen disse: — Non questa sera però!

— Stanco?

— Sì — rispose, ma sapeva benissimo che non era vero. Aveva paura. Aveva paura di andare a casa, paura di affrontare gli alieni, paura di tutto. La logica però gli diceva che non aveva niente da perdere a continuare.

L’elitassì atterrò sulla piattaforma di Sloane Square. Da lì proseguirono a piedi fino a Eaton Place distante poche centinaia di metri.

— A proposito — disse Fallada — la moglie di Heseltine è ansiosa di conoscerti. È stata una delle più belle ragazze di Londra. — Posò una mano sulla spalla di Carlsen. — Ti prego quindi di tenere a bada il tuo fascino fatale.

Il tono era scherzoso, ma Carlsen ormai lo conosceva abbastanza da cogliere la serietà sottintesa. Sorrise, a disagio.

Si fermarono davanti all’ingresso di una casa a due piani, in mattoni rossi, con una cancellata dell’epoca vittoriana. La porta venne aperta da una bella donna in kimono verde. Fallada la baciò sulle guance.

— Peggy, ti presento Olaf Carlsen — le disse.

— Sono felice di conoscervi, Comandante.

Carlsen se l’era immaginata meno giovane. Disse: — Il piacere è mio, signora. — Le loro mani si strinsero. Senza averlo voluto, si trovò coinvolto coi pensieri e i sentimenti della donna. Per fortuna nel corridoio la luce era scarsa, poiché lui era certo di essere arrossito.

— Percy è nel suo studio. Dovete parlare di lavoro?

Diplomaticamente Fallada rispose: — Anche, ma basteranno pochi minuti.

— Lo spero — disse la signora Heseltine — ho appena fatto il caffè.

Li accompagnò in salotto. Era una stanza simpatica, accogliente, arredata con mobili antichi, stile inizio ventunesimo secolo.

— Adesso chiamo Percy. Non vi aspettava tanto presto.

Fallada disse: — E se salissi io? Olaf, tieni compagnia a Lady Heseltine mentre io salgo a chiamarlo.

Mentre Fallada usciva, Peggy chiese: — Con latte o senza?

— Latte, per favore.

— E brandy?

— Solo una goccia.

La osservò mentre preparava la tazza, e sentì dentro di sé un miscuglio di sensazioni. L’attimo passato nella sua mente gliel’aveva fatta conoscere più di quanto sarebbe stato possibile in settimane di intimità. Il potere di penetrare i pensieri più segreti di una bella donna gli dava grande soddisfazione e insieme lo turbava. Gli sembrava la prova che stava tramutandosi in un altro.

Peggy Heseltine posò caffè e brandy sul tavolino.

— Curioso — disse — ma ho la sensazione di conoscervi bene. Forse perché vi ho visto spesso alla televisione.

Le loro mani si sfiorarono mentre lei gli porgeva lo zucchero. Carlsen rimise la zuccheriera sul tavolino, e prese una mano della donna. Guardandola negli occhi le chiese: — Ditemi, riuscite a leggere i miei pensieri?

Lei lo guardò sorpresa, ma non tentò di liberare la mano.

Penetrando nella mente della donna lui seppe che Lady Heseltine stava per rispondere di no, poi lei si trattenne, e permise che la sua mente si facesse più ricettiva. Subito lui sentì un accenno di comunicazione. Peggy disse, esitando: — Credo… credo che potrei.

Lui le lasciò la mano, e subito i pensieri della donna diventarono remoti, imprecisi, come una cattiva comunicazione via-cavo. Lei disse: — Che cosa può significare?

— Vostro marito vi ha detto dei vampiri?

Lei annuì.

— Allora dovreste saperlo.

Come obbedendo a una suggestione, lei gli si sedette accanto, sul divano. Lui le riprese la mano, posando il pollice al centro del polso, le altre dita premute sul dorso. Sapeva istintivamente che questo contatto avrebbe favorito la ricezione. Lei abbassò lo sguardo, concentrandosi, Era ancora troppo confusa per riuscire a leggere i pensieri di lui con chiarezza, ma Carlsen era perfettamente conscio di una comunicazione a due sensi. Anche lei percepì le risposte-sensazioni. Il kimono si era aperto lasciando intravedere l’orlo di pizzo del reggiseno. Senza aver visto la direzione dello sguardo di Carlsen, la donna alzò una mano alla scollatura. Poi si accorse che lui sorrideva, e arrossì, rendendosi però conto dell’assurdità di quel pudore perché, in realtà, era come se fosse lì nuda.

Per dieci minuti rimasero seduti in assoluto silenzio. Più che comunicare fra loro, si osservavano. Lui era penetrato nella mente consapevole di lei, vedeva se stesso attraverso gli occhi della donna, ed era conscio del calore del corpo della donna. Un’ora prima lei aveva fatto il bagno e si era lavata i capelli. Lui sentiva la soddisfazione che provava lei nel sentirsi riposata e fresca, con addosso il profumo leggero dei sali da bagno. Carlsen non si era mai reso conto, prima, che la consapevolezza dell’essenza femminile fosse tanto dissimile da quella maschile. A un certo punto un gatto persiano saltò in grembo a Peggy e le strofinò il muso sul petto, facendo le fusa, e lui colse in un lampo le sensazioni del gatto, e si stupì di nuovo dell’enorme differenza rispetto alle sue. Per un momento rimase stordito al pensiero di milioni di individui, ognuno un universo a sé, ognuno unico, come un pianeta ancora da esplorare.

Un teleschermo suonò al piano di sopra, poi tacque. Lei ritrasse la mano, controvoglia. Disse a voce bassa: — Il caffè si sarà raffreddato.

— Non importa. — Bevve il brandy, gustandolo.

— Credete che questo sia motivo sufficiente per un divorzio? — chiese Peggy. Il tono scherzoso suonò falso.

Lui rispose con serietà: — In un certo senso, sì.

Lei alzò il bicchiere e lo fece tintinnare contro quello di Carlsen. — Avete mai fatto l’amore con una tale rapidità, prima d’ora? — chiese.

— Fatto l’amore? — disse lui.

— Ritengo che si sia trattato di questo. Non siete d’accordo?

Dava sollievo parlarsi normalmente, senza ricorrere ad alcun altro tipo di comunicazione. Lei disse: — Adesso non provo più curiosità sul vostro conto. Mi sembra di conoscervi come se fossimo amanti da anni. Mi sembra di essermi data a voi e di avervi rivelato tutti i miei segreti. Essere amanti non significa questo?

— Credo di sì. — Olaf si sentiva stanco ma rilassato.

Lei disse: — Avete ancora paura di trasformarvi in vampiro?

Solo allora lui si rese conto che non aveva desiderato di prendere energia vitale da lei.

— Dio mio! — disse.

— Che c’è?

— Comincio a capire. Potrebbe essere l’immortalità! Loro potrebbero semplicemente trasferirsi in nuovi corpi!

Si mise a ridere. Lei aspettava una spiegazione.

— Incredibile — riprese Carlsen. — Questa mattina von Geijerstam mi ha detto che non sto tramutandomi in vampiro, ma che sto solo prendendo coscienza del vampirismo che esiste in tutti noi. Non ho capito cosa volesse dire o, meglio, mi è sembrato che dicesse delle sciocchezze. Adesso capisco che aveva ragipne. Mi chiedo come faceva a saperlo.

— Forse possiede caratteristiche femminili che voi non avete.

— Cioè?

— Io l’ho sempre saputo, anche se non me ne sono mai resa conto tanto chiaramente come negli ultimi dieci minuti. Credo che molte donne lo intuiscano. Quando una donna s’innamora, è perché vuole conoscere un uomo, entrargli sotto la pelle, diventare parte di lui. Probabilmente il masochismo è una distorsione di questo desiderio d’essere assorbito, di darsi completamente e interamente. D’altro canto, in generale agli uomini interessa solo il possesso fisico di una donna, sentire che l’hanno conquistata. E non si rendono conto, quindi, del desiderio di assorbirla.

— È quello che afferma Fallada nel suo libro, quando parla di cannibalismo.

Lei rise. — È in gamba, il nostro Hans.

Olaf andò a guardare dalla finestra gli alberi illuminati dalle luci al neon di Eaton Square.

— Von Geijerstam ha detto un’altra cosa. Lui crede che l’umanità sia arrivata a una svolta della sua evoluzione. Mi chiedo…

Lei gli si accostò, e Carlsen sentì il desiderio di toccarla. Si spostò subito.

— Cosa c’è? — chiese lei.

— Io… c’è in me qualcosa che vuole assorbire la vostra energia.

Lei gli tese una mano. — Prendetela, se ne avete bisogno. — Vedendo che lui esitava, aggiunse: — Sono io che voglio concedervela. — Gli prese una mano e se l’appoggiò sulla gola nuda. Carlsen cercò di dominare la bramosia improvvisa che lo invase mentre faceva scorrere la mano sotto il kimono. Ed ecco che l’energia cominciò ad affluire in lui. Abbassò lo sguardo sulla faccia della donna. Le labbra erano esangui, ma l’espressione era calma. La sua stanchezza scompariva a mano a mano che lui riceveva la forza della donna. Che tentazione quella di chinarsi ad aspirare l’energia direttamente dalle sue labbra! Ma si trattenne. Mentre ritraeva la mano, lei si mosse con aria sognante, e si lasciò cadere sul divano, gli occhi chiusi.

Olaf le chiese premuroso: — State bene?

— Sì. — La voce di Peggy era un sussurro. — Stanca ma… felice. — Alzò gli occhi a guardarlo. Lui fu sorpreso dall’espressione della donna: gli ricordò Jelka, sua moglie, quando l’aveva guardato, esausta, dopo la nascita di Jeanette.

Peggy Heseltine disse: — Vi dispiace salire a vedere cosa stanno facendo Hans e Percy?

Evidentemente temeva che i due uomini scendessero e la vedessero in quelle condizioni.

— Ci vado subito.

— Primo piano, porta a destra.

Salì i gradini lentamente. La voce di Fallada gli arrivò attraverso la porta chiusa. Bussò ed entrò. — Lady Heseltine mi ha mandato a cercarvi.

Sir Percy sorrise.

Fallada disse: — Oh, sarà meglio scendere!

Olaf si affrettò ad aggiungere: — Non preoccupatevi vi scuserà.

Heseltine si alzò dalla scrivania per stringergli la mano.

— Vi trovo bene, Carlsen — disse Heseltine, alzandosi. — Fallada mi ha raccontato le vostre incredibili avventure svedesi. Accomodatevi. Whisky?

— No, grazie. Ho già preso un brandy.

— Allora un altro brandy. — Mentre glielo versava, Heseltine chiese: — Che valore date a questa faccenda del Primo Ministro?

Carlsen disse: — Non so cosa pensare. Non ne so molto più di voi. Ho solo sentito la mia voce sul nastro.

— E non vi ricordate di aver parlato?

— Non ricordo niente di quello che è successo mentre ero sotto ipnosi.

— Ecco… — Heseltine esitava, cercando le parole — …ho passato tutto il pomeriggio a Downing Street. Mi sembra assolutamente incredibile che…

Venne interrotto dal teleschermo. Premette un pulsante e disse: — Pronto!

— Sir Percy? C’è il Capo Duckett in linea.

Un momento dopo si sentì una voce con l’accento largo dello Yorkshire. — Salve, Percy, sono ancora io.

— Novità?

— Novità? Sì. Ho fatto fare indagini su quell’Arthur Pryce. Dirige una fabbrica di materiale elettronico a Penistone, subito fuori Holmfirth.

— E l’ospedale?

— Quello è un problema. Ce ne sono cinque nella zona di Huddersfield, incluso quello geriatrico. L’unico vicino a Holmfirth, però, è il “Thirlstone”.

— Thirlstone? Non è un manicomio?

— Sì, per pazzi criminali. È in collina, a due chilometri dalla città.

Heseltine rifletté un momento, poi disse: — Va bene, Ted, va bene. Ci siete stato molto utile. Ci vedremo domani, probabilmente.

— Ve ne occupate personalmente? — Duckett era sorpreso.

— Se sarà necessario. Arrivederci.

Mentre Heseltine spegneva il teleschermo, Carlsen disse: — È quello.

Heseltine lo guardò sorpreso. — Thirlstone? Come fate a dirlo?

— Non lo so. Ma se si tratta di un manicomio criminale, è proprio il posto che loro sceglierebbero.

Fallada disse, eccitato: — Ha ragione! Anche prima di andare da von Geijerstam mi era venuto in mente che… che probabilmente loro possono invasare certe persone senza bisogno di ucciderle. Quando poi ho visto com’era cambiata la calligrafia di Magnus, dopo che lui aveva fatto il Pellegrinaggio Nero, ho capito di colpo che era diventato due persone… nel suo stesso corpo.

Heseltine chiese: — Chi diavolo è questo Magnus?

— Vi spiegherò poi. Quello che voglio dire adesso è che un ospedale psichiatrico potrebbe essere il rifugio ideale per un vampiro. Se è ancora in quella zona, la aliena dovrebbe essere proprio lì.

— In questo caso — Heseltine diede un’occhiata all’orologio — mi chiedo se sia prudente aspettare fino a domani. — Guardò Carlsen, poi Fallada. — Cosa ne pensate?

Fallada si strinse nelle spalle. — Per me, sono pronto ad andare in qualsiasi posto anche subito. Ma Olaf, non so. Ha moglie e figli che l’aspettano.

Carlsen disse. — Sì, ma mi piglieranno quando arriverò.

— In questo caso… — Heseltine premette una serie di pulsanti, e aspettò. — Pronto, il sergente Parker per favore… oh, Parker, ho bisogno di una cavalletta. Devo andare nello Yorkshire. Potete portarci là?

— Sarò da voi fra un quarto d’ora, appena torna Culvershaw.

— Magnifico. Scendete in Belgrave Square, e chiamatemi appena arrivato.

Chiuse la comunicazione e si rivolse a Carlsen.

— Comandante, se volete chiamare vostra moglie… Poi vedrò di mettermi in contatto con il direttore del “Thirlstone” per informarlo della nostra visita.


Venti minuti più tardi, le luci al neon della città sparivano in lontananza, sotto di loro. Davanti, al limite del campo visivo, le costellazioni più lontane spiccavano come una gigantesca pista aerea. Volavano molto al di sotto della normale quota del traffico aereo, filando a circa cinquecento chilometri all’ora. In basso, sull’autostrada, passava un flusso ininterrotto di automobili.

Heseltine disse: — Lasciando Londra sto violando gli ordini.

— Perché?

— Sono tenuto a dipendere direttamente dal Ministero dell’Interno, dovrei quindi comunicare a quegli uffici ogni nuovo sviluppo dell’inchiesta. Il Primo Ministro voleva appunto vedermi per coordinare le ricerche degli alieni.

Carlsen chiese: — Lui ha espresso qualche idea su come procedere?

— No. In realtà si è limitato a insinuare, ma senza dirlo chiaramente, che voi e Fallada siete un po’ matti. Comunque è stato elaborato un complesso sistema di rapporti.

Fallada disse, disgustato: — E se non ci sarà niente da riferire, questo gli basterà per dimostrare che non c’è pericolo.

Tacquero per qualche minuto, assorto ognuno nei suoi pensieri. Poi Heseltine disse: — Esiste un modo per provare se un individuo è un vampiro?

Carlsen scosse la testa. Fallada lo guardò sorpreso. — Certo che esiste — disse. — L’abbiamo provato su di te questa mattina.

— E sarebbe? — chiese Heseltine.

— Radioestesia.

— Non mi sembra che abbia dimostrato gran che oltre al fatto che sono di sesso maschile — disse Carlsen.

— Ma tu ti sei perso la parte più interessante perché dormivi! — protestò Fallada.

Heseltine disse: — Ti dispiacerebbe spiegarti meglio?

— Ci si serve di un pendolo come fanno i rabdomanti — disse Fallada. — Il pendolo reagisce alle diverse sostanze e da distanze diverse, cioè sessanta centimetri per un maschio e oltre settanta per una femmina. Il conte ha detto che se n’era servito a suo tempo per scoprire se un suo paziente era posseduto da un vampiro. Tenuto sopra il paziente alle diverse altezze, il pendolo aveva reagito sia alla lunghezza d’onda maschile sia a quella femminile. Ecco perché abbiamo fatto quella prova su Olaf.

— E il risultato?

— Il pendolo ha dato entrambe le reazioni. Ma non è tutto. Von Geijerstam ha fatto notare che alla stessa distanza usata per rivelare una presenza femminile si ottiene anche l’indicazione di un pericolo. Allora è stata fatta su Olaf un’altra prova a distanza di oltre un metro, distanza che vale per il sonno e la morte. Oltre questa non si dovrebbero più avere reazioni dal pendolo, perché la morte segna il limite massimo. Mentre Olaf dormiva, la vecchia lettone ha provato dunque da un metro, e ha ottenuto una reazione fortissima. Poi a uno e settanta, un metro cioè oltre la distanza valida per la lunghezza d’onda femminile, e quell’aggeggio diabolico si è messo a descrivere cerchi amplissimi.

Heseltine chiese: — Questo che cosa significa?

— Il conte non ha dato una spiegazione esplicita, ha detto che il significato poteva essere questo: qualsiasi fosse la fonte della reazione, si trattava di cosa già morta.

Carlsen si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Con voce tesa disse: — Non ci credo. Quelle creature sono vive, eccome!

Fallada si strinse nelle spalle. — Ho ripetuto solo quello che ha detto von Geijerstam. Personalmente non credo nemmeno che quelle creature siano soprannaturali.

Heseltine disse: — Dipende da che cosa intendi per soprannaturale.

— Be’, le anime dei morti… i fantasmi, o come diavolo vuoi chiamarli.

— Carlsen risentì la sensazione, ormai familiare, che il mondo fosse diventato improvvisamente estraneo. Era abituato al vuoto dello spazio, ma anche ai confini del sistema solare non aveva mai perso il senso di appartenenza alla Terra, di far parte della razza umana. Adesso provava una spaventosa impressione di gelo interno, come se stesse avventurandosi dove nessun essere umano avrebbe potuto seguirlo. Guardando le luci del Gran Carro, e quelle sottostanti di una città, probabilmente Nottingham, venne sopraffatto da un senso di irrealtà simile a quello di una caduta senza fine. La disperazione si trasformò in panico e poi, d’un tratto, cessò. Ciò che era successo era stato troppo rapido per essere captato dalla sua capacità di percezione. Un lampo di conoscenza gli fece sembrare assurdo quel panico. Poi le luci in basso parvero diventare più brillanti. Un’ondata di appagamento, un senso di freschezza. Tutto passò rapidamente com’era venuto, lasciandolo smarrito e confuso. Sentì di avere gli occhi stanchi, e li chiuse.

Un attimo dopo udì Fallada dire: — Sveglia, Olaf, siamo arrivati.

Si accorse che la cavalletta stava per atterrare su una strada deserta, e che i fari potenti illuminavano le cime degli alberi. Chiese: — Dove siamo?

Il pilota rispose, voltandosi appena: — A qualche chilometro da Huddesfield. Holmfirth non deve essere lontano.

Olaf guardò l’orologio. Segnava le nove e un quarto. Aveva dormito per mezz’ora.

Una volta a terra, la cavalletta cessò di essere azionata dai jet. le brevi ali si ritrassero, entrarono in funzione le ruote, e la cavalletta si trasformò in una grande auto. Un po’ più avanti si fermarono a un incrocio. Un cartello stradale indicava in una direzione Barnsley, e nell’altra Holmfirth.

Heseltine disse: — È ancora presto. Direi che abbiamo tempo per fare un salto dal signor Pryce. Sergente, chiedete al Servizio Informazioni come possiamo trovare la Upperthing Road.

Il pilota premette alcuni pulsanti sulla guida stradale computerizzata. Sul pannello comparve la carta di Holmfirth, con una strada illuminata in rosso. Parker disse: — Siamo fortunati, ci siamo già.

Impiegarono cinque minuti a trovare la casa, un “bungalow” di lusso, in vetro e fibraflex, al centro di un prato. Un riflettore illuminava una vasca ornamentale e le aiuole fiorite.

Una signora anziana venne ad aprire. Si allarmò vedendo tre sconosciuti. Heseltine le mostrò il suo documento di identità. — È possibile parlare con vostro marito? — le chiese.

La donna chiese: — Siete quelli delle tasse?

Heseltine rispose: — No, no, non vi preoccupate. Ci serve solo un’informazione che forse vostro marito può darci.

— Aspettate, per favore — disse lei, e sparì all’interno.

Heseltine guardò Hans e Carlsen e strizzò l’occhio. — Evidentemente ha qualcosa sulla coscienza — disse.

Passarono alcuni minuti, poi la donna ricomparve. — Accomodatevi, prego — disse.

Li condusse in un salottino. A un tavolo c’era un uomo anziano, imponente, seduto su una sedia a rotelle, davanti a un piatto di cibi freddi.

— Il signor Arthur Pryce? — chiese Heseltine.

— Sì. — Non sembrava allarmato, solamente incuriosito.

— Può darsi che ci sia un errore signor Pryce, e se così fosse, chiedo scusa. Voi possedete una Crystal Flame, numero di targa QBX 5279L?

— Sì. È la mia macchina.

— L’avete usata, oggi?

La donna s’intromise. — No, mio marito non può guidare.

— Taci, Nell — disse il signor Pryce. Poi, rivolgendosi a Heseltine: — Perché, c’è stato un incidente?

— No, niente di simile. Vorremmo solo sapere chi stava guidando questa macchina.

La donna disse: — Sarà stato Ned.

— Vuoi stare zitta? — si spazientì Pryce.

Heseltine chiese: — Chi è Ned?

Pryce fulminò la moglie con un’occhiata. — Nostro figlio — rispose. — È lui che dirige la fabbrica, da quando ho avuto l’incidente.

— Capisco. Potete darmi il suo indirizzo?

L’uomo rifletté un attimo, poi disse: — Abita sull’altro lato della strada. Comunque, di che cosa si tratta?

— Niente di cui preoccuparsi, ve l’assicuro signor Pryce. Stiamo solo cercando di rintracciare una certa persona, e riteniamo che vostro figlio possa darci qualche informazione. A che numero è la casa?

L’uomo disse in tono cupo: — Centocinquantanove.

La donna, che adesso pareva rassicurata, li riaccompagnò alla porta, e indicò una casa a circa cinquanta metri da lì.

— Quella con le tende rosse, non potete sbagliare.

La casa con le tende rosse era molto meno lussuosa dell’altra. Il giardino era pieno di erbacce. La macchina che li interessava era davanti alla porta del garage. Heseltine suonò il campanello. Una voce femminile uscì dal piccolo altoparlante inserito nel muro. — Chi è? — chiese.

— Polizia. Possiamo parlare col signor Pryce?

Nessuna risposta, ma un attimo dopo la porta si aprì.

Una piccola donna bionda, con in braccio un bambino troppo pesante per lei, li sbirciò timidamente da dietro la testa del piccolo. Sarebbe stata carina se non avesse avuto quell’aria da cane bastonato.

— Cosa volete? — chiese a voce bassa.

— Possiamo parlare con vostro marito?

— È già andato a letto.

— Vi dispiace vedere se dorme già? È molto importante.

La donna li guardò, chiaramente intimidita dal tono cortese ma autoritario di Heseltine.

— Ecco… se volete aspettare un momento…

— Certo.

La guardarono salire faticosamente le scale, barcollando quasi, sotto il peso del bambino.

Passarono alcuni minuti. Heseltine sospirò e disse: — Mi fa ricordare il periodo in cui facevo il servizio di pattuglia. Non mi è mai piaciuto violare l’intimità della gente.

Restarono in attesa nell’atrio, guardandosi intorno. Una carrozzina da bambini, un triciclo, uno scatolone di giocattoli… Cinque minuti dopo un uomo comparve in cima alla scala. Carlsen notò che era rosso di capelli, aveva parecchi chili di troppo, e il colorito era malaticcio. Aveva l’aria preoccupata, leggermente circospetta.

Sembrò rassicurarsi quando Heseltine gli chiese, scusandosi per averlo disturbato, se poteva concedergli qualche minuto. L’uomo guardò su per la scala, poi li invitò a entrare in soggiorno. Nella stanza c’era acceso un televisore a colori da sessanta pollici, il cui schermo era l’unica fonte di illuminazione. Pryce abbassò il volume, accese la luce, e si lasciò cadere su una poltrona, passandosi una mano sugli occhi. Aveva mani grosse, coperte di peli rossicci.

Heseltine disse: — Signor Pryce, alle undici e venti circa di questa mattina, voi eravate a bordo della macchina che adesso è qui davanti a casa vostra. Eravate sulla collina.

L’uomo fece sentire una specie di mugolìo ma non disse niente. Aveva l’aria di chi si è appena svegliato da un sonno profondo. Carlsen ne sentiva la stanchezza e la tensione.

Heseltine disse: — Vorremmo informazioni sulla ragazza col vestito a strisce rosse e gialle.

L’uomo alzò subito gli occhi, poi li riabbassò.

— Non ho fatto niente contro la legge, no? — disse.

La voce di Heseltine si fece rassicurante. — Assolutamente niente, signor Pryce. Nessuno ha detto il contrario.

L’uomo chiese, in tono aggressivo: — E allora, perché siete qui?

Fu Carlsen a intuire il sistema giusto. Guardandosi intorno aveva visto varie fotografie. In quasi tutte Pryce era ritratto sorridente, in gruppo con altri uomini.

Il signor Pryce era evidentemente un estroverso al quale non piaceva che lo facessero sentire in colpa. Carlsen si sedette in modo da vedere bene l’uomo in faccia.

— Voglio essere franco con voi, signor Pryce — disse. — Abbiamo bisogno del vostro aiuto, e tutto quello che ci direte resterà fra noi. Vogliamo sapere che cos’è successo con quella ragazza.

Parlando, gli posò una mano sulla spalla. Immediatamente, fu come se si fosse inserito sullo schermo di qualcun altro. Era nella macchina di Pryce, e la scena era familiare, come un sogno già sognato. Pryce stava leggendo il giornale, e all’inizio non aveva notato la ragazza seduta sulla panchina poco lontano. Poi anche la ragazza fu lì, in macchina…

L’uomo chiese: — Che cos’ha fatto quella ragazza?

— Non ha fatto niente, ma dobbiamo rintracciarla. Dove siete andati, dopo che lei è salita in macchina?

Controvoglia l’uomo disse: — Verso la diga.

Carlsen ebbe una visione chiara della scena. I sedili abbassati, l’uomo che non riusciva a credere al suo colpo di fortuna mentre faceva scivolare la mano sulle cosce della ragazza… la sua sorpresa nello scoprire che lei non indossava biancheria intima…

— Dunque, avete fatto l’amore — disse Carlsen. — E poi?

Dal piano superiore venne un rumore di passi: Carlsen captò il sollievo di Pryce: la moglie non stava origliando alla porta.

— Siamo rimasti in macchina a chiacchierare. Poi lei ha proposto di andare in un albergo… E così siamo andati a Leeds.

— All’albergo “Europa” — disse Carlsen. — E a che ora ne siete uscito?

— Verso le sette.

— E a quell’ora la ragazza se ne era già andata?

L’uomo si strinse nelle spalle. — Sembra che voi sappiate già tutto. — La mano di Carlsen scivolò dalla spalla di Pryce, e il contatto si interruppe di colpo. Carlsen si alzò.

— Vi ringraziamo, signor Pryce. Ci siete stato molto utile.

Mentre si avviarono alla porta, Heseltine chiese: — Vi siete accordati per rivedervi?

L’uomo sospirò, poi annuì, senza parlare. Con uno sforzo si alzò per accompagnarli. Aprendo la porta guardò in faccia Carlsen. — Forse voi mi biasimate — disse. — Ma non capita spesso un colpo di fortuna come quello.

Sorridendo, Carlsen disse: — Se mi permettete, sembra che quella ragazza vi abbia svuotato.

L’uomo sorrise. Ebbe un attimo di genuino buon umore. — Ma ne valeva la pena — disse.

Mentre tornavano alla cavalletta, Heseltine chiese a Carlsen: — Voi cosa ne pensate?

— Di che cosa?

— Ne valeva la pena?

— Dal suo punto di vista, sì. Lei gli ha assorbito tutta l’energia, ma Pryce la recupererà in un paio di giorni. Non è peggio di una brutta sbornia.

— E non causa danni permanenti?

— Non saprei. La mia è soltanto una sensazione. Non so dirvi di più.

Heseltine lo guardò con espressione curiosa ma non disse niente. Sulla cavalletta, il pilota stava consultando una carta.

— Ho già parlato per radio con quelli dell’ospedale psichiatrico — disse. — Dovrebbe essere là, dove si vedono quelle luci, in cima alla collina… — Indicò.

Heseltine guardò l’orologio. — Dobbiamo sbrigarci. Si sta facendo tardi.

Quattro minuti dopo, i fari della cavalletta illuminarono il massiccio edificio grigio. Mentre si avvicinavano, le finestre cominciarono a spegnersi.

Fallada disse: — Le dieci. Ora di dormire, per i ricoverati.

Il prato davanti all’ospedale era illuminato da un riflettore. Si abbassarono dolcemente su un cuscino d’aria, ed Heseltine chiese: — Possiamo atterrare senza pericolo? Non faremo scattare l’allarme radar?

— È già stato disattivato, signore — disse il pilota. — Ho avvertito che saremmo arrivati verso le dieci.

Mentre toccavano terra, il portone dell’ospedale si aprì. Contro la luce del corridoio si stagliò una figura massiccia.

Heseltine disse: — Dev’essere il direttore. Quando gli ho parlato mi è sembrato un po’ strambo. — Poi si chinò a mormorare nell’orecchio di Fallada: — A proposito, sostiene di essere un tuo grande ammiratore.

— Spero che le due cose non siano collegate — disse Fallada.

L’uomo venne loro incontro.

— Quale onore Commissario, quale onore! Sono il dottor Armstrong…

Era enorme. Carlsen stimò che pesasse almeno centrotrenta chili. Indossava un vestito largo, grigio, di un taglio fuori moda ormai da vent’anni. La voce era ben modulata, una voce calda, da attore.

Heseltine gli strinse la mano. — Molto gentile da parte vostra riceverci a quest’ora. Vi presento il dottor Fallada, e il Comandante Carlsen.

Armstrong tese una mano grassa coperta di folti peli grigi. — Sono confuso! Tanti ospiti famosi tutti insieme!

Mentre parlava, Carlsen notò che aveva denti grossi, scuriti dalla nicotina.

Armstrong li precedette lungo un corridoio. L’odore della cera profumata alla violetta, non riusciva a coprire quello di sudore e di cucina. Armstrong parlava in continuazione, e la sua voce sonora e melliflua echeggiava nel corridoio disadorno.

— Mi dispiace che mia moglie non sia qui. Diventerà verde per l’invidia quando lo saprà. È andata a trovare dei parenti ad Aberdeen. Da questa parte, per favore. E il vostro pilota non entra?

— Resta a bordo per il momento. Guarderà il notiziario alla TV.

— Mi scuso per il terribile disordine — disse il direttore fermandosi davanti a una porta. Carlsen notò che il battente era rivestito di una lastra metallica. — Sto facendo tutto io e… oh, George, sei ancora qui?

Un bel giovanotto leggermente strabico e con l’espressione assente disse: — Quasi finito.

— Be’, lascia stare. Farai domani mattina. Dovresti essere già in camera tua. Prima d’andartene, però, portaci un po’ di ghiaccio. — Mentre il giovane usciva, Armstrong mormorò: — È uno dei nostri pazienti fidati. Un bravo ragazzo.

Carlsen chiese: — Perché è qui?

— Ha ucciso la sorella minore. Per gelosia. Prego, accomodatevi, signori. Accettate un whisky, vero?

— Grazie.

Fallada notò una rivista appoggiata su una poltrona. — Vedo che state leggendo il mio articolo sul vampirismo — disse.

— Oh, sì. Ho conservato tutti e quattro gli articoli apparsi sulla rivista di parapsicologia. Estremamente interessanti! Perché non scrivete un libro?

— L’ho già scritto.

— Davvero? Magnifico! Non vedo l’ora di leggerlo. — Porse a Fallada un bicchiere con una abbondante razione di whisky. — È tutto così vero quello che dite. Mia moglie, per esempio, mi prosciuga! — Sorrise per far capire che stava scherzando.

Il giovane mise sul tavolo una coppa piena di cubetti di ghiaccio. Armstrong lo congedò: — Bravo — disse. — Adesso vai a dormire. Buona notte.

Uscito il giovane, Fallada disse: — E se invece se la svignasse per la porta principale?

— Non andrebbe lontano. Siamo circondati da un sistema di allarme elettronico.

— E se facesse uscire qualcuno dei prigionieri pericolosi?

— Impossibile. Sono chiusi in celle separate — rispose il direttore del manicomio criminale. — Allora, signori, alla vostra salute! Quasi non riesco a credere che siate davvero qui! — L’entusiasmo genuino lo rendeva quasi accettabile nonostante i suoi modi untuosi. Armstrong aggiunse: — Spero che sarete miei ospiti per la notte.

Heseltine disse: — Grazie, ma abbiamo già fissato le camere al Continental di Huddersfield.

— Potete disdirle.

Fallada disse, pensoso: — Può essere un’idea, considerato che domani mattina dovremo tornare qui.

— Magnifico! — esclamò Armstrong. — Ci sono camere già pronte nell’ala degli inservienti. E ora, cosa posso fare per voi?

Heseltine si protese in avanti. — Stavate leggendo quell’articolo di Fallada sul vampirismo — disse. — Credete che esistano sul serio i vampiri?

Mentre Heseltine parlava, Carlsen provò una specie di mancamento, come se stesse cadendo all’indietro nel vuoto. Le voci si fecero lontane, e intorno a lui emerse il freddo abisso spaziale. Sentì che stava perdendo energia, come se qualcuno gli avesse aperto una vena lasciandone sgorgare il sangue. Riprovò l’angoscia e lo smarrimento che aveva provato sul relitto alla deriva, e sentì in risposta la sofferenza e la tensione dell’aliena che ora suggeva la sua energia. La stanza diventò sfuocata, irreale, come se davanti ai suoi occhi fosse calato un sottile schermo argenteo, una leggera cascata d’acqua. Lui fluttuava in giù, come una foglia caduta da un albero altissimo. Insieme provava uno stimolo erotico nei muscoli del basso ventre e dei lombi. Per un attimo si rilassò, godendo della sensazione, poi si sforzò di resistere. La fuga di energia cessò immediatamente. Ora si sentiva pesante e stanco. L’aliena stava ancora suggendo energia, ma in piccola quantità. Con sorpresa si rese conto che lei non era conscia della sua vicinanza fisica. Per loro la distanza non contava: un milione di chilometri o pochi passi era lo stesso.

Tornò a udire la voce di Armstrong, e si sentì raggelare alle incredibili cose che diceva. Poi si accorse che in realtà Armstrong quelle cose non stava dicendole… L’uomo stava parlando di uno dei pazienti, ma le inflessioni della voce rivelavano i suoi pensieri e le sue sensazioni più profonde. Parve a Carlsen che il direttore del manicomio criminale fosse una specie di enorme ameba che galleggiava nel flusso psichico del suo manicomio come una medusa o un polipo in un mare caldo. La sua era una natura plurisessuata, non attratta solo da uomini o donne, ma da tutte le creature pulsanti di vita. Ciò che allarmava era la profonda, insoddisfatta voracità della sua bramosia. L’uomo era attratto dai ricoverati del suo ospedale con grande curiosità lasciva. Nella sua immaginazione aveva commesso violazioni più gravi di tutti i loro crimini. Un giorno, se il suo senso della realtà si fosse indebolito, avrebbe commesso un delitto di sadismo. Ma per ora si muoveva con prudenza estrema, con la cautela istintiva di un animale braccato.

Armstrong stava dicendo: — Si chiama Ellen, non Helen. Ellen Donaldson. È a capo del personale femminile da due anni.

Heseltine chiese: — Non è pericoloso per le donne lavorare in questo posto?

— Non quanto pensate. E poi, le donne vanno molto bene per i pazienti maschi, hanno su di loro un’influenza calmante.

Carlsen chiese: — Potrei vederla? — E tutti lo guardarono sorpresi.

Armstrong disse: — Certo. Non credo che sia già a letto. Posso chiederle di venire qui.

— No. Vorrei vederla da solo — disse Carlsen.

Un silenzio, poi Fallada disse: — Ti pare prudente?

— Non c’è pericolo. L’ho già incontrata prima, e sono sopravvissuto.

— L’avete incontrata? — chiese Armstrong, stupito.

Heseltine spiegò: — Alludeva alla aliena.

— Oh, capisco — disse Armstrong. Carlsen gli lesse nella mente: il direttore pensava che erano tutti un po’ matti, o almeno con le idee confuse. Questa certezza gli dava un senso di superiorità. Completamente assorbito dai suoi desideri ed emozioni, restava incredulo di fronte a tutto ciò che esulava dalla sua limitata comprensione.

Fallada disse: — Perché vuoi vederla a quest’ora? Non puoi aspettare fino a domattina?

Carlsen scosse la testa. — Di notte sono più attivi — disse. — È meglio adesso.

Heseltine annuì. — Sì, forse avete ragione. Però prendete questo — disse, e porse a Carlsen una scatoletta di plastica di due o tre centimetri di lato. Premette il pulsante inserito al centro, e subito un richiamo acuto, intermittente, venne da una tasca di Heseltine. — Se avete bisogno di noi, premete qui. Saremo da voi in pochi secondi. — Sollevò il pollice dal pulsante e il richiamo tacque.

Carlsen chiese: — Dov’è Ellen?

Armstrong si alzò. — Vi accompagno io — disse.

Guidò Carlsen fuori dall’edificio lungo un sentiero che girando attorno a un laghetto con ninfee attraversava un giardino cintato, fino a un cancello chiuso. Tolse di tasca una chiave e aprì. Carlsen vide una costruzione lunga e bassa con diverse porte, ciascuna illuminata da una lampada. — È l’ala delle infermiere — disse Armstrong. — Ellen Donaldson è al numero uno, l’ultima porta.

— Grazie.

— Non sarebbe meglio che vi accompagnassi per presentarvi?

— Preferisco di no.

— Come volete. Dall’interno, il cancello può essere aperto senza chiave. Se non sarete tornato entro mezz’ora, verremo a cercarvi. — Il tono era scherzoso, ma sotto si sentiva che diceva sul serio.

Il cancello si chiuse alle sue spalle. Carlsen andò alla porta del primo appartamento e suonò il campanello. Una voce femminile rispose attraverso il citofono.

— Chi è?

Avvicinò la bocca alla grata. — Mi chiamo Carlsen. Vorrei parlarvi.

Si aspettava altre domande, ma il citofono restò muto. Un attimo dopo la porta si aprì con uno scatto. La donna lo guardò con curiosità, senza timore. — Che cosa volete? — chiese.

— Posso entrare?

— Come siete arrivato fin qui?

— Mi ha accompagnato il Dottor Armstrong.

— Accomodatevi. — Si fece da parte per lasciarlo entrare. Poi chiuse la porta e si avvicinò allo schermo per le comunicazioni interne.

Subito la voce di Armstrong disse: — Pronto?

— C’è qui un certo Carlsen. Ne siete al corrente?

— Sì, l’ho accompagnato io. È il Comandante Carlsen.

— Va bene. — Chiuse la comunicazione. Carlsen era rimasto vicino alla porta, a osservarla. Era deluso. Chissà perché, si era immaginato che fosse bella. Invece era un tipo estremamente comune, di circa trentacinque anni, con la pelle ruvida. Il corpo doveva essere stato ben modellato, ma adesso cominciava a sfasciarsi. Notò che l’orlo del vestito di lana verde era scucito in più punti.

— Per che cosa volevate vedermi? — La voce aveva un’intonazione meccanica, come quella di una telefonista. Carlsen si chiese se non si fosse sbagliato.

— Posso sedermi?

Lei si strinse nelle spalle e gli indicò una poltrona. Carlsen cercava una scusa per toccarla, ma la donna era troppo lontana. Disse: — Volevo parlavi dell’uomo con il quale avete passato il pomeriggio, il signor Pryce.

— Non capisco cosa dite.

— Credo invece che lo sappiate benissimo. Mostratemi la mano.

Lei lo guardò sorpresa. — Come avete detto?

— Mostratemi la mano.

Ellen era in piedi, appoggiata a un tavolino sistemato contro la parete. Un attimo ancora, poi di colpo si stabilì il contatto. Stavano giocando un gioco che entrambi conoscevano bene. Lei lo guardò, poi si avvicinò lentamente. Lui tese le mani e prese tra le sue quelle della donna. Il flusso di energia fu come una scarica elettrica. La donna barcollò, e Carlsen si alzò a sorreggerla. L’energia fluiva da Ellen a lui.

La guardò negli occhi: aveva lo sguardo vuoto. Sentì chiaramente, come se fosse stato fatto a voce alta, un commento solo pensato. Le strinse forte le braccia nude: — Come si chiama?

Lei gli stava appoggiata addosso. — Non lo so.

— Ditemelo! — Lei scosse la testa. — Attenta, vi farò male! — Strinse più forte. Lei scosse di nuovo la testa. Deliberatamente, come se stesse facendo una mossa su una scacchiera, Carlsen la staccò da sé e le diede uno schiaffo. Ancora lei scosse la testa.

Sentì bussare alla porta. Lui sussultò, ma Ellen parve non aver sentito. Carlsen chiese: — Chi è? — Bussarono di nuovo. Lui fece sedere Ellen in poltrona e andò ad aprire. Era Fallada.

— Tutto bene?

— Sì. Entra.

Fallada entrò e vide la donna. — Buona sera — disse. Poi guardò Carlsen. — Cos’ha? Sta male?

Carlsen sedette sul bracciolo della poltrona. La faccia di Ellen era ancora rossa per lo schiaffo, e le lacrime le scorrevano lungo le guance.

— No, non sta male — disse Carlsen. E intuendo la prossima domanda di Fallada aggiunse: — È innocua.

— Può sentirci?

— Probabilmente sì — rispose Carlsen — ma non le interessa. È come un bambino affamato.

— Cioè?

— Vuole che le faccia male.

— Dici sul serio?

— Certo. Quando è invasata dalla aliena, Ellen assorbe energia dalle sue vittime, ma poi la cede tutta. È come una donna che rubi per l’amante. Ora, se io prendo energia da lei… — le mise una mano sul braccio — lei risponde automaticamente. È condizionata a dare.

— Adesso stai prendendo energia?

— Un po’, solo per tenerla in stato di semi incoscienza. Se smetto si sveglia.

— Come la ragazza di ieri sera… Selma Bengtsson?

— Sì. Ma per Selma era solo un normale desiderio di resa. Questa è molto peggio. A questa piace venire completamente distrutta.

— Masochismo spinto all’estremo?

— Esatto.

— Non sarebbe meglio lasciarla in pace?

— Dopo che avrò scoperto chi è l’internato che assorbe la sua energia.

Fallada si chinò sulla donna e le sollevò una palpebra. Ellen lo guardò con indifferenza. A lei interessava soltanto Carlsen.

— Non puoi leggerglielo nella mente?

— Fa resistenza. Non vuole farmelo sapere.

— Perché?

— Te l’ho detto. Vuole che io la costringa a dirmelo.

Fallada si raddrizzò. — Preferisci che me ne vada?

— Non è necessario… se non ti secca aspettare. A me non darà nessun piacere, sai? — Si rivolse alla donna. — Alzati! — le disse.

Lei si alzò adagio, le labbra tirate da un sorriso appena accennato. Carlsen l’abbracciò. Lei fece una smorfia quando le mani di lui le premettero la schiena. Le chiese di nuovo: — Dimmi come si chiama. — Lei scosse la testa, sorridendo. Lui la strinse più forte. Ellen gemette e si contorse, ma scosse ancora la testa.

Fallada disse: — Come mai sente dolore?

— Non so… — Carlsen prese fra le dita il gancio della chiusura lampo e la fece scorrere fino alla vita. Il vestito si aprì. La schiena era tutta segnata da graffi.

Fallada guardò i graffi da vicino. — Sono ferite recenti — disse. — Forse il ricordo dell’amante di oggi.

Carlsen sentiva l’energia passare dalla schiena nuda di Ellen alla sua mano. Le fece scivolare il vestito dalle spalle.

— Cosa fai? — chiese Fallada.

— Se non vuoi vedere, vai nell’altra stanza.

— Non ci penso nemmeno. Sono un guardone per natura, non lo sapevi?

Il vestito si afflosciò sul pavimento. Le braccia della donna si strinsero intorno al collo di Carlsen. Lui sentiva il calore del corpo nudo attraverso i propri vestiti. Avrebbe voluto toglierseli per avere un contatto più diretto, ma la presenza di Fallada lo inibiva. Strinse a sé la donna con violenza, facendosela aderire addosso, una mano premuta sulla schiena ferita. Lei fece una smorfia.

Poi, quando Carlsen le posò le labbra sulla bocca, si abbandonò completamente. La vitalità di Ellen scorreva dalle sue labbra a quelle di Carlsen, si travasava in lui dalle punte dei seni, dal pube, da tutto il corpo.

Fallada si schiarì la gola. — È incredibile! — I segni sulla schiena stavano impallidendo…

La donna staccò le labbra per mormorare: — Adesso, adesso!

Fallada disse: — Sei sicuro di non volere che me ne vada?

Carlsen non rispose. Fece come la donna voleva, assorbendone brutalmente l’energia come se intendesse distruggerla. Sentiva l’ardore del suo corpo, e la stretta delle braccia quasi gli mozzava il respiro. Poi la stretta si allentò e le ginocchia si unirono di colpo, e subito la mente di lei si dischiuse.

Fallada aiutò Carlsen a sostenerla. Poi Carlsen prese Ellen in braccio e la portò in camera da letto. C’era una lampada rosata accesa, e le coperte erano già state scostate. La distese sul letto.

Fallada, dalla soglia, disse: — È la prima volta che sento di una donna che raggiunge l’orgasmo stando in piedi. Kinsey ne sarebbe stato affascinato.

Carlsen la coprì. La donna aveva i capelli appiccicati sulla fronte dal sudore. Una goccia di saliva le colava da un angolo della bocca. Lui spense la luce e uscì dalla stanza in silenzio.

Quando Carlsen e Fallada uscirono, cominciava a piovere. Una pioggia leggera soffiata dal vento che veniva dalla brughiera. L’aria era profumata di eriche e ginestre. Carlsen fu colpito dalla forte sensazione di piacere che gli scorreva nel corpo come una carica di elettricità. Poi, come spenta con un interruttore, cessò. Ne restò perplesso ma un attimo dopo se n’era già dimenticato.

Fallada disse: — E ancora non sei riuscito a scoprire quello che ti interessava.

— Ho scoperto abbastanza — rispose.

Il prato adesso era immerso nell’oscurità. Potevano vedere la sagoma della cavalletta grazie alla vernice fosforescente. Dalla fila di basse costruzioni, un uomo veniva verso di loro, attraverso il prato.

La voce di Armstrong chiese: — Tutto bene?

Carlsen rispose: — Benissimo, grazie.

— Il vostro pilota ha deciso di andare a dormire. Siete sistemati là in fondo, le ultime tre stanze. — Indicò la fila di edifici illuminati.

Insieme tornarono al padiglione principale. L’ingresso era in penombra, illuminato soltanto dalla luce azzurrata della lampada per la notte. Nello studio trovarono Heseltine che camminava su e giù.

— Finalmente — disse vedendoli. — Cominciavo a preoccuparmi. — Si rivolse ad Armstrong: — Ho sentito un gran trambusto, di sopra… Qualcuno che gridava…

Senza scomporsi Armstrong disse: — Molti ricoverati soffrono di incubi.

Carlsen disse: — Se vi descrivessi un ricoverato, sareste in grado di dirmi chi è?

— È probabile. Se non ci riuscissi io, potrà diverlo sicuramente il capo infermiere.

— È un uomo alto circa uno e ottantadue, con il naso pronunciato, a becco, capelli rossi con una chiazza di calvizie.

Armstrong l’interruppe. — È Reeves — disse. — Jeff Reeves.

— L’infanticida? — fece Fallada.

— Proprio lui.

Carlsen disse: — Potete dirmi qualcosa di questo Reeves?

Armstrong disse: — Ecco… è qui da circa cinque anni. Un tipo subnormale. Ha il quoziente d’intelligenza d’un bambino di dieci anni. Ha commesso quasi tutti i suoi crimini nei periodi di luna piena… quattro omicidi e circa venti violenze carnali. Ci vollero due anni per prenderlo. La madre lo proteggeva.

Fallada disse: — Se ricordo bene, ha dichiarato di essere posseduto dal demonio.

— O da qualche diavolo non specificato. — Armstrong si rivolse a Carlsen. — Scusate se ve lo chiedo, ma come avete avuto questa descrizione?

— Dall’infermiera… Ellen Donaldson.

— E non poteva dirvi il nome?

— Non gliel’ho chiesto.

Armstrong si strinse nelle spalle. Carlsen sentiva che il direttore li sospettava di nascondergli qualcosa.

Heseltine chiese: — Quest’uomo è con gli altri prigionieri?

— Non ancora. Quando c’è luna piena diventa violento. Domani sarà luna piena, quindi è stato messo in isolamento.

Heseltine chiese a Carlsen: — Volete vederlo questa sera? — Carlsen scosse la testa. — Sarà meglio aspettare domani. Di giorno sono meno attivi.

Armstrong disse: — Volete che chiami Lamson, il capo infermiere? Lui potrebbe dirvi se Reeves ha mostrato qualche segno di… vampirismo. — L’ironia era appena percettibile nel suo tono.

— Non è necessario — disse Carlsen. — E poi non può aver notato niente, tranne forse che Reeves è un po’ meno stupido del solito.

Armstrong disse: — Allora chiediamoglielo. Sono molto curioso.

Carlsen si strinse nelle spalle. Armstrong l’interpretò come un consenso e premette un pulsante sull’apparecchio interno.

— Lamson, vi dispiace venire da me un momento? — disse.

Dopo un istante di silenzio Heseltine disse: — Io non riesco ancora a capire perché questa aliena abbia scelto un criminale subnormale. Non poteva scegliere una persona normale?

Carlsen rispose: — Scegliere un criminale, particolarmente uno psicopatico, è come entrare in una casa vuota. Inoltre quest’uomo credeva già d’essere posseduto da un demone. Non avrebbe quindi trovato niente di strano nell’essere posseduto da un vampiro.

— E l’infermiera? Ellen Donaldson non è una criminale.

— Non è tanto una questione di criminalità, quanto di sdoppiamento di personalità.

Fallada annuì. — È un assioma della psicologia. Chiunque sia preda di potenti impulsi del subconscio ha l’impressione che dentro di lui ci siano due persone.

Armstrong disse: — Se intendete dire che Ellen Donaldson soffre di una grave dissociazione della personalità, posso rispondere di non averlo mai notato.

Mentre Fallada stava per ribattere, Carlsen disse: — Non occorre che si verifichi una dissociazione del genere. La signorina Donaldson è frustrata sessualmente. Ha forti stimoli sessuali e non è sposata. Inoltre sente di non essere più tanto attraente. Così, siccome questa creatura aliena soddisfa i suoi più intimi impulsi, non si pone problemi.

Bussarono alla porta, e Armstrong aprì! Entrò un uomo mastodontico, con la corporatura di un sollevatore di pesi. Gli occhi gli brillarono quando riconobbe Fallada e Carlsen.

Armstrong gli mise una mano sulla spalla, e disse in tono esageratamente cordiale: — Questo è il mio prezioso aiuto e capo infermiere Fred Lamson. Fred, questi signori sono interessati a Reeves. — Lamson annuì. Avrebbe preferito una presentazione secondo le regole, ma evidentemente Armstrong non voleva prolungare il colloquio più del necessario. Carlsen notò, divertito, che Armstrong aveva rovinato il suo tentativo di cordialità con la sua impazienza e il suo snobismo. — Ditemi, Fred, avete notato qualche cambiamento in Reeves nelle ultime settimane? — chiese il direttore.

Lamson scosse la testa. — No.

Armstrong sorrise. — Niente, allora. Va bene. Grazie, Fred.

Lamson però non voleva essere cacciato via così in fretta. — Intendevo dire non nelle ultime settimane — riprese. — Ma da un paio di giorni mi sembra diverso dal solito.

— Diverso in che modo? — chiese Armstrong con impazienza.

— Non saprei con precisione…

Carlsen chiese: — Vi è sembrato forse più vivace, più attento?

Lamson si passò una mano sui capelli a spazzola. — Ecco… mi pare di sì. Vi dirò una cosa. Gli altri hanno la tendenza a prenderlo in giro quando è tranquillo. Ma ho notato che negli ultimi due giorni gli sono stati alla larga.

— Sarà perché ci stiamo avvicinando al periodo di luna piena — disse Armstrong.

Lamson scosse la testa in maniera decisa. — No. Quando si avvicina la luna piena, Reeves diventa teso e nervoso. Questa volta è diverso. È come ha detto questo signore. Sembra più vivace, più attento.

Fallada chiese: — Non avevate notato niente di simile, prima?

— Direi proprio di no. In generale succede il contrario.

Armstrong chiese: — Adesso è in isolamento?

— Sì. Lo mettiamo sempre in isolamento quando si avvicina la luna piena. Ma, secondo me, questa volta non ce n’era bisogno. Non mi è sembrato che… che…

Mentre si sforzava di trovare le parole giuste, Armstrong l’interruppe d’autorità. — Grazie, Fred. È tutto quello che volevamo sapere. Potete andare.

Notando la malcelata irritazione dell’uomo, Carlsen disse: — Ci siete stato davvero molto utile. Vi ringraziamo.

— Non c’è di che, signore. — Lamson sorrise e uscì.

Carlsen disse: — Un particolare da annotarci. La aliena non vuole attirare l’attenzione, ma non si rende conto che la personalità di uno psicopatico muta nel periodo di luna piena. E così finisce per attirare proprio quell’attenzione che vuole evitare.

Fallada chiese ad Armstrong: — Allora, cominciate a credere ai vampiri, adesso?

Armstrong disse, evasivamente: — È curioso… molto curioso.

Carlsen sbadigliò. — Temo che per me sia ora di andare a letto — disse, alzandosi. In circostanze normali sarebbe stato intimidito dall’autorità di Armstrong, ma ora, riuscendo a percepire chiaramente la malignità dell’uomo, la sua vanità mista al desiderio di sentirsi ammirato, provava solo antipatia e disgusto.

— Non volete il bicchiere della staffa?

Heseltine seguì l’esempio di Carlsen. — Siamo troppo stanchi — disse. — È meglio andare subito a letto.

Carlsen chiese: — Questo Reeves… A che ora fa colazione?

— Di solito alle otto — rispose Armstrong.

— Sarebbe possibile mettergli un tranquillante nel cibo, un leggero sedativo?

— Credo di sì, se lo ritenete necessario.

— Grazie.

Armstrong li accompagnò alla porta. Nell’atrio incontrarono Lamson che scendeva dal piano di sopra. Armstrong gli chiese: — Dove siete andato?

— A controllare Reeves, direttore. Quello che mi avete detto mi ha fatto pensare…

— E lui vi ha visto? — domandò Carlsen.

— Certo. Era sveglio, sveglissimo.

Uscirono e attraversarono il prato buio. Fallada camminava avanti, con Lamson. Carlsen disse a Heseltine: — Peccato che sia andato su.

— Perché? — disse Heseltine. — Mi sembra normale dare un’ultima occhiata ai prigionieri prima di andare a dormire.

— Non so… comunque, è troppo tardi per preoccuparsi.

Le loro tre camere erano adiacenti. Il pilota della cavalletta aveva già portato le loro valigie nelle rispettive stanze. Carlsen era in pigiama quando Fallada bussò alla porta ed entrò con in mano una bottiglia.

— Cosa ne dici di un whisky prima di dormire?

— Buona idea. — Carlsen andò a prendere due bicchieri in bagno.

Fallada si era tolto la giacca e allentato la cravatta. Fecero tintinnare i bicchieri prima di bere. Poi Fallada disse: — Mi ha colpito la tua osservazione sullo sdoppiamento di personalità. Credi davvero che quelle creature non riuscirebbero a impossessarsi con la forza di una persona sana, normale?

Carlsen, seduto sul letto, scosse la testa. — Non ho detto questo. Probabilmente potrebbero invasare chiunque, con la forza o con l’astuzia. Ma una persona normale dovrebbero ucciderla. Probabilmente è per questo che hanno dovuto distruggere le loro prime vittime… come Clapperton.

— E il Primo Ministro? — disse Fallada.

— Proprio non lo so. È difficile da credere… eppure… c’è qualcosa in lui… — Corrugò la fronte guardando il bicchiere. — Ma forse i politicanti hanno tutti un qualcosa… quella loro capacità di esprimersi in maniera equivoca… Non possono permettersi d’essere onesti e sinceri come altri. Devono essere subdoli, evasivi…

— In una parola, diplomatici.

— Già. È una qualità che ho notato anche in molti personaggi del clero che a me sembrano bugiardi di professione. O per lo meno sono degli illusi. — D’improvviso si animò. — Ecco, è proprio questo che volevo dire. Sono gli illusi coloro che sono più facile preda dei vampiri. Quelli che con una parte della mente pensano in un modo, e con l’altra in un altro. Jamieson mi dà questa impressione. È il tipo d’individuo che non riesce nemmeno a sapere quando è sincero e quando no.

Restarono seduti in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Fallada finì il suo whisky, poi disse: - Che cosa faremo, se questi esseri risultano indistruttibili? Se non troviamo il modo di costringerli a lasciare il nostro pianeta? — Poiché Carlsen non rispondeva, Fallada aggiunse: — Dobbiamo tenere conto di questa possibilità. Il mondo è pieno di criminali psicopatici. Ogni volta che ne prendessimo uno, loro potrebbero trasferirsi a un altro. Non ti pare?

Ancora una volta Carlsen ebbe un barlume di conoscenza seguito immediatamente da un senso di confusione, come se stesse guardando nella nebbia. Disse: — Non so cosa pensare. Non lo so proprio.

Fallada si alzò. — Sei stanco. Ti lascio andare a letto. — Si fermò con la mano sulla maniglia. — Ma pensaci sopra. Non si potrebbe trovare il modo di stabilire una specie di intesa con queste creature? Adesso sappiamo che non è indispensabile che uccidano o distruggano per nutrirsi, per sopravvivere. Pensa a quel Pryce. Io ho avuto l’impressione che cedere energia gli desse piacere. E lo farà di nuovo, per poter tornare a letto con quella donna… Vale la pena di rifletterci.

Carlsen sorrise. — Va bene, prometto che ci penserò.

— Buona notte — disse Fallada. — Sono nella camera accanto, nel caso avessi bisogno.

Uscì senza dire altro. Carlsen andò alla porta e fece scattare la serratura. Udì Fallada entrare nella stanza vicina, e sentì anche il rumore dell’acqua che scorreva in bagno. Si mise a letto e spense la luce. Fallada aveva ragione: era molto stanco. Ma appena chiuse gli occhi provò una curiosa impressione di sdoppiamento. Una parte di lui era a letto, e pensava a quello che avrebbe fatto il giorno dopo, e l’altra parte, staccata dal resto, lo osservava come se fosse un estraneo. Era una sensazione bizzarra, estranea a lui. Lasciò che il suo corpo sprofondasse nel sonno, mentre la mente osservava con distacco. Un minuto dopo perse conoscenza.

Il ritorno alla coscienza fu come il risalire da buie acque profonde. Restò là disteso, semiaddormentato, avvolto in un calore simile a quello del grembo materno. Era un senso di sicurezza, di profondo, beato rilassamento, accompagnato da una impressione di inesistenza del tempo. Allora Carlsen si rese conto che la aliena era lì. La ragazza bionda, snella, che lui aveva visto per l’ultima volta nell’edificio delle Ricerche Spaziali, era distesa accanto a lui.

Indossava un indumento di stoffa leggera come velo. Adesso era sveglio a sufficienza per dirsi che era impossibile, che quel corpo era rimasto a Hyde Park. Lei scosse la testa sorridendo. Cosciente di avere gli occhi chiusi, Carlsen si rese conto che l’immagine era quella di un sogno. Eppure, a differenza di un sogno, la visione possedeva una certa consistenza reale.

La mano di lei s’infilò nell’apertura del pigiama, e le dita fresche gli sfiorarono il petto. Lui sentì, in risposta, uno stimolo di desiderio. Lei gli premette la bocca contro la sua cercando di fargli schiudere le labbra. Lui aveva le braccia allungate lungo i fianchi, ed era incapace di muoverle. Cercò nuovamente di capire se stava sognando, ma non ci riuscì.

Lei non parlava, ma gli comunicava direttamente i suoi sentimenti. Gli si offriva, gli diceva di prenderla, e le dita si muovevano sul suo corpo. Al contatto Carlsen si sentiva elettrizzato, come se i suoi centi nervosi si accendessero di riflessi simili a cristalli che riflettano la luce del sole. Non aveva mai provato un piacere fisico di tale intensità, provò di nuovo a muovere le braccia, ma il suo copro sembrava paralizzato, inerte.

La ragazza spostò la testa, e le sue labbra gli sfiorarono il collo e poi il petto. Il piacere raggiunse un’intensità quasi dolorosa.

Gli parve che lei stesse dicendo: “Il corpo non ha importanza. È solo con la mente che si può sperimentare la libertà”. Tutto in lui sembrò confermare.

Fu colpito dall’idea che la sua mente, come il corpo, avesse raggiunto uno stato di passività totale. Non aveva più forza di volontà. Esisteva soltanto la volontà della aliena e la sua capacità di plasmarlo. Ne provò un improvviso disagio, una specie di irrigidimento. Subito sentì l’irritazione di lei, come un lampo di collera imperiosa. L’atteggiamento della aliena cambiò. Invece di offrirglisi, trasformata in un’onda carezzevole, gli ordinava adesso di non ribellarsi. Questo gli fece ricordare un episodio dimenticato ormai da oltre trent’anni: una ragazzetta, sua cugina, che voleva costringerlo a scambiare un cane di stoffa con un orsacchiotto. Lui si era rifiutato, e lei, arrabbiata, l’aveva afferrato per le braccia, scuotendolo. Adesso, come allora, l’imposizione suscitava in lui un’improvvisa resistenza. E insieme sapeva che se lei fosse tornata ai metodi persuasivi, lui avrebbe ceduto. Era lei che aveva in mano le carte. Tutte meno una. Non riusciva a dominare la collera. Non sopportava che le si ribellassero. Carlsen intuì un abisso di frustrazione. Si divincolò per liberarsi, per respingerla. E allora lei si fece violenta. Basta carezze. Lo teneva con forza, la bocca fattasi di colpo vorace. Era come essere avvolto dai tentacoli di un polipo, che gli cercava la gola con la bocca.

Il terrore gli arse i nervi, e lui si dibatté con violenza. Lei lo tenne saldo ancora un momento per dimostrargli la sua forza, ma ormai la collera omicida si era placata.

Per quanto fosse adesso completamente sveglio, era ancora incapace di muoversi. La paura l’aveva svuotato, togliendogli la forza di lottare.

Poteva ancora sentire i pensieri e le sensazioni della aliena, e ora riusciva anche a capire che cosa le aveva impedito di ucciderlo: la paura di lui le aveva suscitato il ricordo di creature in lotta per la sopravvivenza, trascinate in un vortice di avidità. Poi si era ricordata: per il momento, nessuno doveva morire. Uccidendo qualcuno avrebbe rovinato i loro piani. Anche se si fosse impossessata del corpo di quell’uomo, le sarebbe stato impossibile continuare a lungo l’inganno. Fallada si sarebbe accorto della differenza. E se ne sarebbero accorti la moglie e i figli dell’uomo. Bisognava lasciarlo vivere.

Lui si accorse di un nuovo tipo di pressione. Adesso non c’era più qualcuno a letto con lui. Del resto era sufficientemente sveglio per sapere che non c’era mai stato nessuno. E la aliena non era più una donna. Era diventata una creatura asessuata, una cosa. E la cosa era al di fuori di lui, e tentava di entrare nel suo corpo.

Le difese mentali di Carlsen erano alzate, come mani levate a proteggere la faccia, ma la cosa stava cercando di scostare quelle mani, di frantumare la sua volontà, e d’introdursi a forza nella sua intima essenza. Era un’azione brutale come uno stupro. Lui avrebbe voluto gridare, ma sapeva che nel farlo avrebbe abbassato la guardia.

Sotto la pressione implacabile sentì allentarsi le difese. La cosa stava penetrandole. Si rese conto di colpo delle conseguenze. La creatura voleva introdursi nel suo sistema nervoso per scollarlo dalla sua volontà. L’avrebbe ridotto prigioniero del suo cervello, incapace di muoversi, come una mosca intrappolata in una ragnatela, la cosa doveva mantenere vitale la sua personalità, ma solo per poter sfruttare il suo sapere. Il pensiero di essere costretto a condividere la propria mente con la aliena gli diede una forza insospettata. Serrò i denti, e la spinse via da sé. Questa volta riuscì a rialzare le barriere della volontà, rinchiudendosi in sé come se fosse tornato in posizione fetale. La cosa gli restò avvinghiata, senza allentare la stretta, con la speranza di fiaccarlo. Adesso non c’erano più finzioni. Erano nemici, e niente avrebbe cambiato questa realtà.

Passarono dieci minuti o forse più. Le forze cominciarono a tornargli.

L’arma principale della aliena era la paura. Ma lui si accorse che nel suo intimo non aveva paura, inoltre aveva intuito la debolezza dell’avversario: il collerico desiderio di imporre la propria volontà, che la rendeva imprudente. E adesso era stata messa in posizione da non poter distruggere ciò che odiava. Mentre questo pensiero gli attraversava la mente, Carlsen sentì che la cosa stava infuriandosi di nuovo. Le sue capacità di percezione erano intollerabili per la aliena. Essa aumentò la pressione, accanendosi contro le sue difese. Lui resistette con la forza della disperazione. Pochi minuti, e si accorse che la cosa era di nuovo sconfitta. Una istintiva ripugnanza di natura biologica aveva centuplicato la sua capacità di resistenza. Carlsen si sentì inorgoglito. Quella creatura era per molti versi più forte di lui, il suo potere e la sua conoscenza rendevano lui simile a un bambino, eppure una specie di legge universale la rendeva incapace di invadere la debole personalità contro il suo volere.

Di colpo la pressione diminuì. Lui aprì gli occhi che aveva tenuto serrati, e notò che il chiarore dell’alba schiariva il cielo. E si ritrovò solo. Mosse le braccia e si accorse di essere in un bagno di sudore, come se avesse avuto la febbre. Il pigiama era madido. Si tirò il lenzuolo fin sotto il mento, voltò il cuscino, e chiuse gli occhi. La stanza gli parve stranamente tranquilla e vuota. Un minuto dopo dormiva profondamente.


Venne svegliato dal rumore della chiave che girava nella serratura. Era il capo infermiere, Lamson, con un vassoio.

— Buon giorno — salutò Lamson in tono allegro. — È una bella giornata. Vi ho portato il caffè.

Carlsen si tirò su a sedere. — Siete stato molto gentile. Che ore sono?

— Le otto e un quarto. Il dottor Armstrong vi fa dire che la colazione sarà servita fra mezz’ora.

Posò il vassoio sulle ginocchia di Carlsen che, indicando una rivista posata sul vassoio, chiese: — Che cos’è? — La copertina gli sembrava familiare.

— Ecco, se non vi dispiace… — Lamson gli porse una penna. — Mio nipote è un vostro grande ammiratore. Non gli fareste un autografo sulla vostra fotografia? — e aprì la rivista.

— Ma certamente.

— Torno fra poco. Devo ancora portare il caffè agli altri ospiti. Uno non è il dottor Fallada, quello del programma “Dottore in criminologia”?

— Infatti.

— E l’altro… Mi sembra di aver visto anche lui alla TV.

— È Sir Percy Heseltine, l’Alto Commissario di Polizia.

Lamson si lasciò sfuggire un fischio. — Non capitano spesso ospiti così di riguardo! Per la verità, non ne abbiamo mai di ospiti, a parte i parenti dei ricoverati.

Uscì, lasciando la porta socchiusa. Carlsen lo vide allontanarsi spingendo un carrello.

Bevendo il caffè, rilesse l’articolo. Era intitolato “L’uomo del secolo: Olaf Carlsen”.

Fece una smorfia, ripensando a tutta la pubblicità che avevano fatto tre mesi prima. L’aveva stancato e sfibrato più delle difficili missioni nello spazio. Quello era uno delle decine e decine di articoli apparsi sui giornali di tutto il mondo. Di tono caramelloso, era illustrato con una foto su due pagine di Carlsen con Jelka e le bambine.

Quando Lamson tornò, lui gli chiese: — Come si chiama vostro nipote?

— George Bishop.

Carlsen scrisse: “A George, con simpatia”, firmò, e restituì a Lamson rivista e penna.

— George farà salti di gioia — disse il capo infermiere. E aggiunse, guardando la foto: — Avete due belle bambine.

— Vi ringrazio — disse Carlsen.

— Siete un uomo fortunato. — Ripiegò la rivista e se la mise in una tasca del camice.

— Voi non avete figli? — domandò Carlsen.

— No. Mia moglie non ne ha voluti.

— Siete sposato?

— Sì, ma adesso è finita. Ci siamo separati.

Carlsen cambiò argomento. — Oggi avete già visto Reeves?

— Sì, gli ho portato la colazione alle sette. Ci abbiamo messo dentro un sedativo, come ha detto il dottore.

— E in che condizioni era?

— Ecco, io direi che il sedativo non era necessario.

— Perché?

— Era molto tranquillo. — Lamson fece l’imitazione di un idiota, con lo sguardo vitreo e vacuo, la bocca aperta, le braccia penzoloni.

— Il sedativo lo farà dormire?

— No. Lo farà sentire contento e rilassato. Se intendete ipnotizzarlo bisogna che sia cosciente.

Carlsen chiese, incuriosito: — Come fa a sapere che vogliamo ipnotizzarlo? Ve l’ha detto il dottor Armstrong?

Lamson sorrise. — Non c’è stato bisogno di dirmelo. Mi ha detto di preparare la soluzione nortropinamethidina per un’iniezione. È un composto che viene usato prima d’ipnotizzare o in caso di grave shock, e io so che Reeves non ha avuto uno shock.

— Avreste dovuto fare l’investigatore.

— Grazie — disse Lamson.

— Quali sono gli effetti di quel composto?

— Provoca una lieve paralisi del sistema nervoso, la mente si svuota, per così dire. E dopo, è facile ipnotizzare. Il dottor Lyell, l’ex-direttore, se ne serviva spesso. Il dottor Armstrong invece è contrario a questo sistema.

— Perché?

Lamson si strinse nelle spalle. — Secondo lui equivale a un lavaggio del cervello — disse. Diede un’occhiata scrutatrice a Carlsen, decise che poteva fidarsi di lui, e aggiunse: — Per me sono tutte storie. Il dottor Lyell non voleva lavare il cervello a nessuno. Voleva solo aiutare la gente.

Carlsen disse, in tono comprensivo: — So cosa volete dire. — Era già arrivato alla conclusione che Armstrong era il tipo che adduceva alti principi morali per motivare decisioni dovute solo a pigrizia.

Lamson sospirò. — Non sono sicuro che abbiate capito.

— No? Per quale motivo credete che siamo venuti qui?

Lamson lo guardò, sorpreso, e Carlsen si rese conto che Lamson aveva frainteso la domanda. Volete dire che…

Bussarono alla porta, e si sentì la voce di Fallada. — Vieni a colazione, Olaf?

Lamson disse: — Be’, io devo andare. Ci vediamo dopo. — Si fece da parte per lasciar entrare Fallada, poi se ne andò.

— Ancora a letto? Vuoi che torni più tardi?

— No, vieni avanti. — Fallada chiuse la porta. — Ho parlato un momento con Lamson.

— Sembra un brav’uomo.

— Troppo. — Carlsen prese i suoi vestiti e passò in bagno lasciando la porta socchiusa. — Ieri sera è andato su a vedere Reeves, e credo che in qualche modo ci abbia traditi.

— Cosa te lo fa pensare?

Carlsen era restio a parlare di quello che gli era successo durante la notte, gli sembrava troppo personale. — Mi ha detto che questa mattina Reeves è tornato normale — disse.

— Normale?

— In uno stato di semi-imbecillità, come al solito.

Seguì un silenzio. Carlsen infilò la camicia nei pantaloni. Fallada chiese: — Quindi pensi che il vampiro si sia trasferito in qualcun altro?

— Così sembra.

Carlsen cominciò a radersi con il rasoio elettrico, e finché non ebbe finito, nessuno parlò. Quando uscì dal bagno, picchiettandosi le guance con la lozione dopobarba, Fallada stava guardando dalla finestra, assorto, le mani in tasca. — Dunque, quella creatura ci ha fatto perdere le sue tracce un’altra volta?

— Temo di sì.

— Potrebbe essere tornata nella ragazza, l’infermiera.

— È probabile. E avrà scoperto che sappiamo anche di Ellen.

— Adesso potrebbe essere dappertutto, qui dentro o fuori di qui.

Era una constatazione, non una domanda, e Carlsen trovò inutile rispondere. Piegò il pigiama e lo mise nella valigia. Fallada lo guardò con espressione pensosa.

— Potrei provare a ipnotizzarti un’altra volta.

— No.

— Perché?

— Per cominciare, è troppo pericoloso. Potrebbe tentare di trasferirsi dentro di me mentre sono sotto ipnosi. In secondo luogo, sarebbe inutile. Ho perso il contatto con lei.

— Ne sei certo?

— Certissimo.

Carlsen fu contento che Fallada smettesse di fare domande.

Sul prato, al sole, il sergente Parker sdraiato sulla schiena stava controllando i razzi di decollo della cavalletta.

— Non venite a colazione? — gli domandò Carlsen.

— Ho già mangiato col personale medico, grazie, Comandante.

— Avete visto la capo infermiera, Ellen Donaldson?

— Sì — rispose il pilota. — Mi ha fatto un mucchio di domande sul vostro conto.

— Che genere di domande?

— Be’, se siete sposato e roba del genere — disse Parker e strizzò un occhio.

— Grazie — disse Carlsen. Mentre si allontanavano, disse a Fallada: — Questo risponde alla tua domanda.

— In che modo?

— Se la Donaldson fosse ancora invasata dal vampiro, non farebbe domande. Cercherebbe di non farsi notare in nessun modo.

Fallada disse con aria pensosa: — È vero. — Poi sorrise. — Stai diventando una specie di Sherlock Holmes! — disse.


La sala da pranzo di Armstrong era inondata di sole. Heseltine era già seduto a tavola. Armstrong si stropicciò le mani. — Buongiorno — salutò. — È una magnifica giornata. Dormito bene?

Tutti e due fecero un mormorio affermativo.

Armstrong disse: — Lamson ha dato un tranquillante a Reeves. Nel caffè. Gli ho anche detto di preparare una iniezione leggermente ipnotica. Probabilmente è il modo più semplice, se volete fargli domande.

Fallada disse, soprappensiero: — Ottimo. Voi pensate sempre a tutto.

— Sono contento di essere utile. Proprio contento. — Gridò verso la cucina: — George, altro caffè per favore. — Era in piedi, vicino alla porta, e li guardava soddisfatto. — Ma prego, accomodatevi. Non aspettate me, io ho già fatto colazione. Adesso vado a fare il solito giro d’ispezione. George vi darà tutto quello che vi occorre. — Uscì, chiudendo la porta senza far rumore. Il giovane strabico, che ora indossava un camice bianco, portò un vassoio con caffè e fette di pompelmo.

Quando rimasero soli, Fallada disse: — Temo che sarà solo una perdita di tempo.

Heseltine alzò gli occhi. — Perché? — chiese.

— È soltanto un sospetto — disse Carlsen. — Ho parlato con Lamson. Mi ha detto che Reeves è cambiato di nuovo. Non sembra più attento come i giorni scorsi…

Era ancora riluttante a parlare di quello che gli era successo durante la notte.

Heseltine scosse la testa. — Allora, cosa consigliate?

Carlsen disse: — Continuiamo come avevamo deciso. Non farà danno interrogare questo Reeves.

Fallada disse: — Potrebbe essere ancora in contatto mentale con la aliena, come lo eri tu. Potrebbe persino dirci dov’è adesso.

— Può darsi — disse Carlsen, ma sapeva che non era così.

Il giovane in camice bianco portò uova e pancetta. Continuarono la colazione in silenzio. Carlsen sentiva che i suoi due compagni erano depressi all’idea che il loro progetto potesse fallire. Quanto a lui, i suoi sentimenti erano stranamente passivi e assopiti, come se la tensione degli ultimi giorni l’avesse esaurito.

Armstrong tornò mentre stavano finendo di mangiare. Era seguito da Lamson e da un altro infermiere.

— Avete mangiato abbastanza? Bene — disse. — Io comincio sempre la giornata con una colazione abbondante. — Armstrong indossava un camice bianco. E Carlsen notò che era di ottimo umore. Il direttore aggiunse: — Sono convinto che è questo il guaio dei nostri ricoverati.

Heseltine lo guardò sorpreso. — La prima colazione? — disse.

— O la mancanza della prima colazione. Non hanno mai preso l’abitudine di farla. Risultato: tensione nervosa, cattivo umore, ulcere, stress emotivo. Dico sul serio. Se volete diminuire la criminalità in Inghilterra, dovreste convincere tutti a fare un’abbondante colazione al mattino. — Posò una mano sulla spalla di Carlsen: — Vero, Comandante?

Carlsen disse: — Sono d’accordo. — Ora si rendeva conto che in lui c’era qualcosa di diverso: non riusciva più a leggere nella mente degli altri. Se n’era accorto quando Armstrong l’aveva toccato sulla spalla: il contatto era stato del tutto anonimo, e non gli aveva dato alcuna percezione.

Armstrong si stropicciò le mani. — Dunque, signori, siamo pronti per cominciare?

Tutti guardarono Carlsen, come se fosse sottinteso che la decisione toccava a lui. — Sì, certo — disse.

— Allora suggerirei che Lamson e io si entri per primi. Così Reeves crederà che si tratti di una normale visita di controllo. — Si rivolse a Fallada. — Controllo il suo livello di adrenalina durante i periodi di luna piena. Se sale troppo, c’è pericolo di panico psicopatico, e in tal caso gli somministriamo dei tranquillanti. — Si volse poi a Carlsen e a Heseltine: — Sarà forse meglio se non vi fate vedere finché non gli avremo fatto l’iniezione.

Lo seguirono lungo il corridoio e su per due rampe di scale. Carlsen trovò che il posto era deprimente. L’ospedale era stato costruito all’inizio del secolo, quando la percentuale dei malati mentali era aumentata in maniera impressionante. L’architettura era puramente funzionale. I muri di plastica, che una volta davano l’impressione di luce e aria, adesso erano sporchi e graffiati. Su ogni pianerottolo le porte metalliche tinte di verde perdevano la vernice a pezzi.

— Qui ci sono i padiglioni principali — disse Armstrong. — I malati in isolamento sono al piano superiore. Le loro stanze hanno pareti insonorizzate, in modo che gli altri non siano disturbati. Norton, volete aprire, per favore? — L’infermiere inserì le chiavi nelle due serrature e le girò simultaneamente. La porta si aprì senza far rumore. Le pareti del corridoio oltre la porta erano coperte con un mosaico di plastica che rappresentava un paesaggio montano. Armstrong disse: — Reeves è nella stanza in fondo.

Carlsen notò che evitava di dire cella.

La porta in fondo al corridoio si aprì e ne uscì Ellen Donaldson che richiuse con cura. Ebbe un’espressione di sorpresa nel vedere il gruppo di persone che avanzavano, e quando il suo sguardo incrociò quello di Carlsen, la donna impallidì. Mentre Armstrong le passava accanto, l’infermiera lo afferrò per una manica. — Posso parlarvi un momento, dottore? — chiese.

— Non adesso, signorina Donaldson. Abbiamo da fare — disse lui, e passò oltre.

— Ma si tratta di Reeves…

Armstrong si voltò di scatto: — Non adesso, ho detto. — Aveva parlato a voce bassa, ma con un tono aspro di comando. I due infermieri si scambiarono un’occhiata sorpresa. Senza dire altro, l’infermiera si allontanò.

Carlsen si aspettava che lei lo guardasse ancora, ma la donna se ne andò senza alzare gli occhi. Il suo comportamento lo lasciò perplesso. Non era la reazione di una capo infermiera congedata in modo irritante. Ellen sembrava sottomessa e senza risentimento.

Norton aprila porta, e si fece da parte per lasciar entrare Armstrong. Senza voltarsi il direttore fece un gesto perentorio con la mano, per ordinare agli altri di non avvicinarsi. Lamson stava riempiendo una siringa col liquido contenuto in un flaconcino.

In quel momento Carlsen comprese. Di colpo, senza il minimo dubbio, si rese conto che l’aliena si era impossessata di Armstrong. E nello stesso momento, con lo stesso processo mentale, intuì che cosa bisognava fare. Tese una mano verso Lamson, sorridendo. Lamson lo guardò sorpreso, ma gli cedette la siringa. Con un solo passo, Carlsen superò Norton. In quell’attimo, Armstrong stava chinandosi su un uomo disteso sul letto.

— Buon giorno, Reeves… — disse il direttore.

Prima che dicesse altro, Carlsen gli aveva passato il braccio sinistro intorno alla gola, e lo tirava all’indietro. Norton gridò qualcosa. Carlsen agì con estrema calma. Con una forza che lo meravigliò, si tirò la testa di Armstrong contro il petto, e, fissando la siringa, gliene iniettò il contenuto attraverso il tessuto del camice. Sentì il sussulto di Armstrong sotto la puntura. Poi, senza fretta, Carlsen premette lo stantuffo della siringa. Lamson era andato a mettersi in modo da vedere Carlsen in faccia. Quando i loro sguardi si incontrarono, Carlsen sorrise, con un cenno d’intesa. Sentiva di controllare perfettamente la situazione. Contò fino a dieci, e sentì che Armstrong si rilassava. Lasciò scivolare il corpo sul pavimento. Ma d’un tratto Armstrong si mosse. Si girò a faccia in giù e afferrò Carlsen per le gambe. Carlsen aveva previsto questa possibilità, e subito si lasciò cadere in ginocchio sulle spalle di Armstrong, immobilizzandolo al suolo. Contemporaneamente Lamson si era chinato ad afferrare le gambe di Armstrong. Per qualche secondo, Armstrong continuò a dibattersi, poi i suoi sforzi si indebolirono e cessarono. Quando Carlsen lo rigirò sulla schiena, aveva gli occhi vitrei.

Heseltine, con voce inaspettatamente calma, chiese: — Perché tutto questo?

Carlsen sorrise a Lamson. — Grazie per l’aiuto.

Lamson disse: — Avreste dovuto dirmelo. Avevo sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in lui.

— Non volevo correre rischi — disse Carlsen, poi si rivolse a Fallada e a Heseltine. — Portiamolo in una stanza vuota. Voglio interrogarlo prima che l’effetto dell’iniezione svanisca. — E chiese a Lamson: — Dove possiamo portarlo?

— Giù nel gabinetto medico, direi. Un momento. Vado a prendere una sedia a rotelle. — Tornò dopo pochi secondi con una sedia pieghevole, di tela. — Dacci una mano, Ken — disse all’altro infermiere.

Per la prima volta Carlsen guardò l’uomo disteso sul letto. Pareva che tutta quella confusione non l’avesse affatto scosso.

Fissava il soffitto, la faccia apatica. Era alto e robusto, ma con la pelle floscia e giallognola. Nonostante le spalle larghe e le mani enormi non dava l’impressione di essere un individuo pericoloso.

— Lo porto giù con l’ascensore — disse Lamson alludendo ad Armstrong. — Vi aspetto a pianterreno, in fondo alle scale.

Appena cominciato a scendere, Fallada chiese: — Che cos’è successo?

— Mi sono reso conto che il vampiro si era trasferito in Armstrong.

Heseltine chiese: — Ne siete sicuro?

— Sicurissimo. Avrei dovuto immaginarlo prima. Non so perché non ci abbia pensato. Armstrong era la più logica come prossima vittima. Mutevole, vanitoso, pieno di complessi sessuali.

— E Lamson come faceva a saperlo?

Carlsen rise: — Lamson non lo sapeva. Ma questa mattina gli ho detto qualcosa che lui ha frainteso. Sbagliando, ha pensato che sospettavamo Armstrong e che eravamo qui per lui. Inoltre detesta Armstrong.

— Come fai a sapere se la aliena è ancora dentro Armstrong? — chiese Fallada. — Cosa può impedirle di passare in un altro individuo?

Carlsen scosse la testa. — Finché Armstrong resta in stato di incoscienza, la aliena è in trappola, perché è soggetta alle stesse condizioni in cui si trova il corpo di Armstrong.

— Ne sei sicuro?

— No, ma mi sembra logico. Non credo che possa entrare e uscire da un corpo istantaneamente. È una faccenda molto più complessa… come entrare in una tuta spaziale, direi. Ci vuole tempo.

L’ascensore arrivò, e Lamson uscì dalla cabina spingendo la sedia a rotelle con Armstrong afflosciato sopra, la testa poggiata contro Lamson. Gli occhi erano ancora aperti.

— Da questa parte, signori. — Lamson li guidò nel locale attiguo all’appartamento di Armstrong. Era un piccolo gabinetto medico, con i soliti schedari, testi di medicina e raccolta rilegata del “British Medical Journal”. Carlsen chiese ai due infermieri di distendere Armstrong sul lettino. Poi tirò le tende e orientò la lampada da tavolo in modo che la luce cadesse negli occhi vitrei del direttore.

— Potete portarmi un’altra dose della stessa iniezione? — disse Carlsen.

Lamson lo guardò incerto. — Sì, ma… di solito un’iniezione è sufficiente — disse.

— Potrebbe servire. Quanto dura l’effetto?

— Una dose come questa, almeno due ore.

— Allora è probabile che ce ne serva un’altra.

Mentre i due infermieri uscivano, Heseltine disse loro con calma: — Preferiremmo se non ne diceste niente agli altri.

— Non preoccupatevi — disse Lamson. — Abbiamo capito.

Heseltine chiuse la porta a chiave. Fallada disse: — Non credi che una seconda dose sia pericolosa? Quelle iniezioni affaticano il cuore.

— Lo so. Ma quelle cose sono più forti di quello che credi. Potrebbe sfuggirci.

Carlsen si chinò su Armstrong e gli chiuse gli occhi. Prese dalla scrivania il piccolo microfono del registratore e lo mise in posizione su un tavolino di fianco alla testa di Armstrong. Poi controllò il volume di registrazione e premette un tasto. Si sedette sull’orlo del lettino chinandosi in modo da trovarsi con la bocca vicino all’orecchio di Armstrong.

— Armstrong mi sentite?

Le palpebre vibrarono ma le labbra restarono immobili. Carlsen ripeté la domanda, aggiungendo: — Se mi sentite, dite sì.

Le labbra tremarono. Dopo una pausa Armstrong mormorò: — Sì.

— Sapete dove vi trovate?

Dovette ripetere la domanda.

Poi la faccia di Armstrong cominciò a imbronciarsi come quella di un bambino che sta per mettersi a piangere. Con voce stentata disse: — Non voglio stare qui. Voglio andare via. Hoyama. Lasciatemi andare… Lasciatemi andare.

La voce era appena udibile. Per alcuni secondi le labbra continuarono a muoversi, ma senza lasciar uscire alcun suono.

— Dove siete?

Passò più di un minuto senza che Armstrong rispondesse. Carlsen ripeté la domanda varie volte. Poi la voce di Amstrong disse: — Non mi permettono di parlare con voi.

— Chi non ve lo permette?

Nessuna risposta. Carlsen disse con impazienza: — Sentite Armstrong, se volete che vi aiutiamo a fuggire dovete dirci dove siete. Dove siete?

Agli angoli della bocca di Armstrong si formarono bolle di saliva. Il respiro diventò affannoso. Disse: — Sono qui… — poi le parole si confusero in un gorgoglio. Il corpo di Armstrong si contorse. Gridò. C’era un tale terrore in quelle grida che tutti ne rimasero sconvolti. I tre uomini cercarono di tenere fermo il corpo scosso da movimenti convulsi. Non fu semplice. Armstrong sembrava invasato da una forza selvaggia. Dopo un ultimo sussulto, giacque ansimante. Carlsen ed Heseltine lo tenevano per le braccia, e Fallada gli stava seduto sulle gambe.

— Armstrong, riuscite a vedere la cosa che vi tiene prigioniero? — domandò Carlsen.

— Sì. — Gli occhi, aperti adesso, erano dilatati e fissi come quelli di un cavallo imbizzarito.

— Dite a quella creatura che deve parlare con noi. Diteglielo!

Armstrong ebbe un violento sussulto e rotolò fin sull’orlo del lettino. Carlsen ed Heseltine lo respinsero indietro. Qualcuno bussò alla porta, interrompendoli.

— Chi è? — gridò Carlsen.

— Sono Lamson. Ho portato l’altra iniezione.

Fallada aprì la porta. — Grazie — disse.

— Sapete come si deve fare, vero? Bisogna aspettare che rinvenga, prima di iniettargliela.

— State tranquillo. Lo sappiamo — disse Fallada, e richiuse a chiave.

Armstrong era di nuovo immobile. Carlsen gli sbottonò la manica e la spinse in su a scoprire il grosso braccio peloso, ma la manica non andò oltre il gomito. Heseltine diede a Carlsen un paio di forbici chirurgiche prese dalla scrivania. Carlsen tagliò la manica dal polso alla spalla. Mentre prendeva la siringa, Armstrong si rizzò di colpo a sedere. Carlsen mise giù la siringa e lo riafferrò. Heseltine lo aiutò a rimetterlo sdraiato. Carlsen disse a Fallada: — Hans, fai tu l’iniezione.

Dalle labbra di Armstrong uscì una voce sconosciuta che li colpì per il calmo tono di autorità.

— Non ce n’è bisogno — disse la voce. — Se mi lasciate andare vi prometto di abbandonare la Terra.

Fallada esitò, tenendo la siringa in posizione.

Carlsen disse: — Avanti, fai l’iniezione. Sta mentendo. Se non iniettiamo il medicinale, fra pochi minuti si libererà.

Sentì i muscoli di Armstrong tendersi sotto le sue mani, e dovette ricorrere a tutta la sua forza per trattenere il corpo che si contorceva.

La voce parlò ancora. — Carlsen, mi deludete. Credevo che aveste capito — disse.

Carlsen resistette alla tentazione di farsi coinvolgere in un dialogo. Fece cenno a Fallada. — Avanti — gli disse.

Fallada affondò l’ago nella carne, poco sopra la goccia di sangue raggrumato dell’iniezione precedente, e premette lo stantuffo. Per più di un minuto rimasero a osservare la faccia di Armstrong. Poi il suo respiro si fece più profondo, gli occhi si offuscarono, e i muscoli si rilassarono.

Carlsen chiese: — Mi sentite?

Nessuna risposta. Heseltine disse: — Forse la dose è stata troppo forte.

Carlsen scosse la testa. Si avvicinò ancora di più all’orecchio di Armstrong. — Ascoltatemi. Se occorre, vi terremo in questo stato per giorni, per settimane. Avete capito? — disse.

— Sì. — Era la stessa voce di prima, ma più debole, ora, più bassa. La respirazione si fece irregolare e ansimante.

— Speriamo di non averlo ucciso — disse Fallada.

— Se è cosi, non possiamo farci niente. Anche il vampiro morirà. La sua morte vale bene la vita di Armstrong.

La aliena parlò con voce spessa: — Non potete distruggerci tutti.

Carlsen disse: — Possiamo provare. Possiamo mandare astronavi da guerra a distruggere il vostro veicolo spaziale. — Si chinò maggiormente. — E ci occuperemo in particolare di quei polipi gialli…

Sorpreso, Fallada guardò Carlsen ma non disse niente. Mentre osservavano Armstrong, questi chiuse gli occhi. La faccia perse consistenza, la carne parve afflosciarsi. Carlsen disse: — Abbiamo pronta un’altra iniezione. Rispondete alle mie domande, o iniettiamo di nuovo il medicinale?

La faccia restò immobile qualche secondo. Poi la voce disse: — Fate queste domande.

— Come vi chiamate?

— Non sapreste pronunciare il mio nome. Chiamatemi G’room.

— Siete maschio o femmina?

— Né l’uno né l’altra. Gli individui della nostra razza non sono divisi per sesso come da voi.

— Che razza è, la vostra? — chiese Heseltine.

— Voi ci chiamereste Nioth-Korghai. Le vostre corde vocali non possono pronunciare le nostre sillabe.

Fallada chiese: — Da dove venite?

— Da un pianeta della stella che voi chiamate Rigel. Non è visibile nemmeno ai vostri telescopi più potenti.

— Quanti anni avete?

— Secondo il vostro tempo terrestre, ho cinquantaduemila anni.

Heseltine e gli altri si guardarono sbalorditi. Carlsen chiese: — Tutti quelli della vostra razza vivono così a lungo?

— No. Soltanto noi, gli Ubbo-Sathia. Noi siamo quelli che voi chiamate vampiri.

Fallada stava prendendo appunti, nonostante il registratore. Chiese: — E gli altri Nioth-Korghai quanto vivono?

— Circa trecento dei vostri anni terrestri.

Heseltine chiese: — Come siete diventati vampiri?

— È una lunga storia, questa.

— Vorremmo lo stesso che ce la raccontaste. Continuate.

Il silenzio si protrasse per qualche minuto, tanto che Carlsen cominciò a dubitare che la creatura volesse rispondere. Finalmente la voce si fece sentire.

— Il nostro pianeta è completamente ricoperto d’acqua, e la nostra razza, come avete indovinato, ha la forma di quelle creature che voi chiamate polipi. Ma i vostri molluschi sono quasi privi di cervello. I Nioth-Korghai hanno un cervello sviluppatissimo e un sistema nervoso altrettanto ben sviluppato. Dato che i nostri corpi sono leggeri, possiamo sopportare pressioni enormi. Il nostro metabolismo dipende dai sali dell’elemento fluorina, che nei nostri mari esiste in abbondanza, come il cloruro di sodio abbonda nei vostri. Sul fondo dei nostri mari ci sono immense grotte naturali che sono diventate le nostre città. Sono molto più vaste delle caverne terrestri. Le più piccole raggiungono un’altezza di dieci chilometri.

“Quando il vostro pianeta era ancora nel periodo dei grandi rettili, la nostra civiltà era già altamente evoluta, ma per un aspetto molto importante la nostra civiltà era completamente diversa da quella terrestre. La mente umana si applica con piacere alla soluzione di difficili problemi tecnici. Il vostro ideale più nobile è la scienza. Invece, noi Nioth-Korghai, siamo interessati unicamente alle dottrine che voi definireste religione e filosofia. Ogni individuo, sul nostro pianeta, vuole comprendere l’universo, e alla fine diventarne parte, formare con esso un tutt’uno. Questo spiega perché la nostra razza non è divisa in sessi come qui sulla Terra. I vostri corpi trasmettono la scintilla vitale durante l’orgasmo che sì verifica al compimento dell’atto sessuale. Ma i Nioth-Korghai ricevono direttamente le energie dell’universo. Si innamorano dell’Universo, non l’uno dell’altro. E nei momenti di suprema contemplazione, concepiscono e vengono fecondati dall’energia vitale dell’universo.

“Mentre apprendevamo i segreti dell’universo, imparammo anche a proiettare le nostre menti su lontane galassie. Visitammo la vostra Terra quando i vostri mari cominciavano appena a raffreddarsi. Fummo noi a insegnare alle creature di Marte, simili a vegetali, come edificare la loro civiltà sotto i mari. Noi abbiamo aiutato gli abitanti del vostro pianeta Plutone a fuggire su un pianeta della stella binaria Sirio, quando il loro mondo perse la sua atmosfera. La nostra più grande impresa fu quella di aiutare l’evacuazione di oltre un migliaio di pianeti della Nebulosa del Cancro prima che questa esplodesse e si tramutasse in supernova.

“Voi terrestri non avete idea dei drammi dello spazio interstellare. La vostra visione è limitata. Ma i Nioth-Korghai hanno visto la nascita e la morte di intere galassie. Abbiamo visto isole celesti nascere dal niente. Questi universi sono creature viventi. Possiedono un loro tipo di vita cosmica, a un livello che gli organismi biologici non riescono a concepire. La religione dei Nioth-Korghai insegna che l’intero universo è un cervello immenso di cui i mondi conosciuti sono soltanto singole cellule.

“Cinquantamila anni fa, la vostra Terra stava avvicinandosi alla fine dell’era glaciale. E gli uomini di quel periodo erano poco più che scimmie… Voi li chiamate uomini di Neanderthal. I Nioth-Korghai decisero che quelle erano le condizioni favorevoli per un grande esperimento: tentare di produrre una forma di vita più intelligente. Questo avvenne durante l’esistenza di Kuben-Droth, uno dei nostri massimi scienziati di ingegneria biologica…”

Fallada interruppe. — Mi sembrava di aver capito che non vi dedicavate alla scienza — disse.

La creatura rimase a lungo in silenzio, e loro temettero che non volesse più parlare. Poi la voce riprese.

— Non abbiamo una tecnologia in senso terrestre. Non ne avevamo bisogno: il mare ci forniva tutto quello che serviva alle nostre necessità più elementari. Ma la scienza sgorga dall’anima e dalla volontà. Il nostro problema fu quello di convincere i vostri uomini dell’età della pietra a sviluppare l’intelligenza. Ma nessuna creature può essere costretta a evolvere contro la propria volontà. Noi dovemmo impiantare una volontà-di-intelligenza in quei vostri progenitori dell’età della pietra, e questo fu possibile unicamente entrando nei loro cervelli, e facendoli sognare. Non potete immaginare le difficoltà che incontrammo. Quegli uomini preistorici riuscivano a sentire intenso piacere ma dimenticavano tutto dopo pochi secondi. Era come cercare di insegnare algebra alle scimmie. Kuben-Droth dedicò metà della sua vita a questo compito, ma purtroppo morì prima d’aver ottenuto i risultati che sperava. Ci vollero settecento anni per produrre un uomo e una donna i cui figli diventarono i capostipiti di una nuova specie di uomini veri. Noi li chiamiamo Esdram e Solaveh. Nella vostra mitologia sono ricordati come Adamo ed Eva.

“Per settecento anni noi avevamo dovuto vivere dentro il cervello e nei corpi di esseri umani. Fu un’impresa pericolosissima. Sostenuti dalle loro energie vitali, godemmo del veleno della loro sensualità, anche se all’inizio ci aveva disgustati. Il vostro mondo era pericoloso e impregnato di violenza, ma era anche molto bello.

“Ma noi eravamo scienziati, e possedevamo abbastanza autocontrollo per sapere che era venuto per noi il momento di abbandonare la razza umana terrestre a se stessa. Lasciammo il vostro pianeta a gruppi di cento, per tornare nel nostro sistema stellare…”

Fallada disse: — Scusate se interrompo un’altra volta, ma Rigel dista dalla Terra centinaia di anni luce. Quanto tempo avete impiegato a fare quel viaggio?

Ancora un lungo silenzio, come se la creatura stesse preparando la risposta. Poi la voce disse: — Voi dimenticate che le energie dell’universo esistono a molti livelli. A livello fisico, l’energia non può raggiungere una velocità superiore a quella della luce. Sul nostro livello, può avere una velocità migliaia di volte maggiore. Il viaggio durò meno di un anno.

“Il nostro gruppo fu l’ultimo a lasciare la Terra. Fummo noi a voler restare il più a lungo possibile. Poi completammo la trasformazione raggiungendo il giusto livello di energia cosmica… potreste chiamarla quinta dimensione… e iniziammo il viaggio.

“Fu durante questo viaggio di ritorno che si verificò l’incidente. Le possibilità erano una su un milione. Non sarebbe dunque dovuto succedere. Eravamo già a metà strada quando passammo a poche centinaia di chilometri da una stella al suo stadio finale: un buco nero. Sono fenomeni fra i più rari nell’universo. Nessuno di noi ne aveva mai incontrati prima. Quelle stelle finiscono fuori dal vostro universo, in un iperspazio privo di dimensioni. Noi decidemmo allora di andare in esplorazione, e questo fu un errore. Alcuni di noi vennero risucchiati in un vortice. Altri, rendendosi conto di quello che stava succedendo ci avvertirono di stare lontani prima di finire nel vortice. Ma era troppo tardi per fuggire. La forza era troppo potente. Tutto quello che potemmo fu ritardare la nostra distruzione. Lo tentammo inserendoci in un’orbita intorno al buco nero. E così continuammo a girargli attorno attirati inesorabilmente dalla sua gravità. Alcuni di noi persero forza e speranza e si arresero. I superstiti continuarono a lottare, decisi a resistere e a mantenere la propria esistenza il più a lungo possibile.

“Poi, dopo più di mille anni, il buco nero sparì. Cadde fuori dallo spazio, e noi ci trovammo liberi. Ma ormai eravamo così esausti da non avere sufficiente forza per trasferirci sul giusto livello d’energia. Eravamo liberi, sì, ma alla deriva nello spazio, a quattrocento anni luce dal nostro sistema stellare. Fu allora che cominciammo a sognare i giorni felici passati sul pianeta Terra, e il flusso di energia che ci arrivava dai corpi viventi. Cominciammo a tornare lentamente verso il nostro sistema, in cerca di altri pianeti abitati simili alla vostra Terra. Ce ne sono milioni, nell’universo, e se non fossimo stati così esausti ne avremmo trovati senza difficoltà. Stanchi compravamo, invece, cercammo per oltre un anno, prima di trovarne uno. Era abitato da una razza di animali primitivi, non molto dissimili dai dinosauri, ma molto più grossi. La loro grezza energia ci disgustava, ma ne avevamo bisogno per vivere. Ne assorbimmo fino a ubriacarcene, uccidendo centinaia e centinaia di quelle bestie. E, dopo, ci sentimmo meno disperati. Ma la trasformazione energetica era ancora impossibile. La loro forma di energia, molto scadente, rendeva l’impresa ancora più complicata. Allora decidemmo di continuare il viaggio alla ricerca di un pianeta con una forma di vita più evoluta.

“Eravamo diventati distruttori di vita. Ma non avevamo alternative. Come soldati perduti nel deserto, dovevamo prendere quello che trovavamo. E trovammo molti sistemi planetari abitati. In alcuni vivevano creature con il tipo di energia vitale che ci serviva, ma queste creature ci opponevano resistenza, e noi fummo costretti a prendere con la forza ciò che volevamo, distruggendo coloro che erano troppo deboli per resistere. Su un pianeta del sistema Alnair, trovammo corpi simili a quelli che avevamo lasciato sul nostro pianeta d’origine, e li prendemmo per noi. A poco a poco ci adattammo alla nostra condizione di vagabondi senza patria. Ora che avevamo di nuovo un corpo, il desiderio di tornare a casa cominciava a svanire. Inoltre ci eravamo resi conto che, a quanto sembrava, eravamo immortali. All’inizio credemmo che si trattasse di una curiosa conseguenza della nostra permanenza nell’orbita del buco nero. Provammo a nutrirci con viveri naturali, per vedere cosa sarebbe successo. Il risultato fu che cominciammo a invecchiare a ritmo normale. E così fu chiaro che se volevamo restare in vita, non avevamo scelta: dovevamo continuare ad assorbire energia vitale da altre creature. Imparammo a farlo senza provocarne la morte, come gli esseri umani hanno imparato a mungere latte dalle mucche. Non solo era un sistema meno crudele, ma evitava la distruzione delle nostre fonti di sostentamento. Alcuni ritenevano disgustosa anche questa alternativa, e preferivano lasciarsi morire di vecchiaia. Ma i più si adattarono al nostro nuovo stato di vampiri, o di parassiti della mente. In fondo è una legge di natura: tutte le creature ne mangiano altre.

“Su un pianeta del sistema di Alpha Centauri, cominciammo la costruzione di una nave spaziale. La costruimmo immensa perché volevamo che ci ricordasse le grotte sottomarine del nostro mondo. Più di ventimila anni fa tornammo a visitare il vostro sistema solare. Speravamo di trovare esseri provenienti dal nostro pianeta, poiché sapevamo che i nostri intendevano tornare periodicamente per controllare i vostri progressi.

“Restammo delusi nella nostra speranza, ma rimanemmo. L’uomo terrestre abitava ancora nelle caverne e viveva di caccia. Gli insegnammo l’agricoltura, gli mostrammo come costruire le palafitte. E quando non ci fu altro per noi da fare, tornammo nel sistema di Alpha Centauri e riprendemmo le esplorazioni.”

Carlsen si alzò silenziosamente e andò alla porta. Gli altri erano così assorti nell’ascolto del racconto che non si accorsero quando lui uscì.

In corridoio incontrò l’infermiere Ken Norton. Gli chiese: — Dov’è Fred Lamson?

— A quest’ora è nel padiglione due. Se aspettate un attimo vado a chiamarlo.

Lamson scese dalle scale pochi minuti dopo. — Ho bisogno di un’altra dose di quel composto — gli disse Carlsen.

Lamson lo guardò sorpreso. — Ancora? Ma ne conoscete la potenza?

— Sì, ma vi prego di portarmene una terza dose.

— Va bene. Ve la porto subito.

Carlsen aspettò in corridoio. Da dietro la porta del gabinetto medico continuava ad arrivare la voce aliena. A quella distanza sembrava una voce manipolata dai circuiti di un calcolatore. Lo colpì inoltre il fatto che era diventata più forte.

Lamson tornò e gli diede una scatoletta di cartone. — Dentro c’è un’altra siringa pronta. Ma fate attenzione. Un’altra dose potrebbe ucciderlo.

— Non preoccupatevi — disse Carlsen.

— Che cosa ha combinato?

Carlsen gli diede un colpetto sulla spalla: — Se ve lo dicessi non mi credereste — disse. — Poi vi metteremo al corrente di tutto. Per il momento grazie.

Carlsen riaprì la porta dello studio. All’interno nessuno stava parlando. Heseltine si voltò un attimo a guardarlo. Evidentemente qualcuno aveva appena fatto una domanda. La voce, stranamente piatta, pareva stesse leggendo da un libro.

— Si rese necessario adottare forma umana per entrare in contatto con la vostra razza. Se esaminerete accuratamente quei corpi scoprirete che contengono silicone invece di carbonio.

Heseltine chiese: — Allora perché non vi siete messi in contatto con noi invece di sparire come avete fatto?

La risposta arrivò più in fretta di quanto aveva pensato Carlsen. — Il perché lo sapete. Io sono stato preso alla sprovvista e ho ucciso prima di poterlo evitare.

Vedendo Carlsen accanto al lettino con la siringa vicina al braccio nudo di Armstrong, Fallada chiese: — Cosa stai facendo?

La creatura s’interruppe, sorpresa dalla domanda. Carlsen iniettò il liquido. Quando tolse l’ago, una goccia di sangue affiorò sulla pelle.

Dopo un breve silenzio la voce disse: — Non capisco… — poi tacque.

Fallada disse: — Nemmeno io. — E rivolgendosi a Carlsen chiese: — Perché l’hai fatto?

Carlsen non rispose subito: stava controllando la respirazione di Armstrong. Poi disse: — Perché dobbiamo tornare subito a Londra.

Heseltine chiese: — Era necessario? Non vi fidate?

— No — rispose Carlsen in tono secco.

— Perché no? — chiese Fallada.

— Perché ci ha detto solo mezza verità. Vi spiegherò durante il viaggio. Spicciamoci. Aiutatemi a sollevarlo.

— Cosa avete intenzione di fare? — chiese Heseltine.

— Portarlo a Londra con noi.

Carlsen fermò il registratore, tolse la bobina incisa, e se la mise in tasca.

Il sergente Parker stava sonnecchiando sul prato, la camicia aperta fino alla cintura. Si mise a sedere e guardò sorpreso il corpo privo di conoscenza afflosciato nella sedia a rotelle. — Aiutateci a caricarlo — disse Heseltine. — Dobbiamo tornare a Londra al più presto. Quanto ci metteremo?

— Mezz’ora, se andiamo a piena velocità.

Ci vollero cinque minuti per sistemare il corpo inerte di Armstrong sui sedili posteriori della cavalletta. Trenta secondi dopo erano in aria. Lamson, uscito sulla scalinata d’ingresso, agitò una mano in un cenno di saluto mentre il velivolo saliva verticalmente sopra il prato.

Heseltine, ancora ansimante, disse: — Io non ho notato contraddizioni nella storia che ci ha raccontato.

— Era piena di contraddizioni. E ne avete notata una anche voi. Se hanno adottato forma umana per mettersi in contatto con noi, perché poi non l’hanno fatto?

— Mi sembra che l’abbia spiegato. Ha ucciso il giovane Adams senza premeditazione, perché è stata presa dal panico.

— Creature come quelle non conoscono il panico. Calcolano sempre ogni mossa. Ha spiegato forse perché erano in stato di animazione sospesa, quando li abbiamo trovati?

— Per far passare il tempo più in fretta. Noi forse non dormiamo durante i lunghi viaggi in aereo?

— In tal caso, perché è stato tanto difficile svegliarli?

— Non abbiamo avuto il tempo di chiederglielo.

Carlsen disse: — Non c’è bisogno di chiederlo. Il motivo è chiaro: volevano che noi li portassimo tutti sulla Terra. E una volta qui, sarebbero morti, uno a uno… e noi non avremmo mai sospettato di aver portato sulla Terra dei vampiri. Avremmo notato soltanto un improvviso aumento della criminalità, con omicidi di natura sadica eccetera.

Heseltine scosse la testa. — Non so se sono io eccezionalmente ingenuo, o voi insolitamente sospettoso. — Nel tono era implicito un rimprovero.

— Ripensiamo un po’ a questa storia. Prima di tutto, ci dice come la sua razza ha aiutato la nostra a evolversi. Questo può essere vero, anche se dobbiamo fidarci delle sue parole. Poi ci descrive l’incidente. Anche questo può essere vero. È nel seguito che ho notato le contraddizioni. Diventano parassiti di altre creature. Rubano su un pianeta i corpi di certe creature simili a polipi, poi tentano l’esperimento di nutrirsi con cibi normali, per vedere cosa succede. Accortisi che questo li fa invecchiare, tornano a nutrirsi di altre creature intelligenti.

— Senza distruggerle, però — disse Fallada. — Non ricordi? Come mungere le mucche, ha detto.

— Dimentichi che noi le mucche non solo le mungiamo, ma le mangiamo, anche — disse Carlsen. — Voleva cercare di convincerci che trattano le altre creature come loro simili. Ma io non ci credo. Secondo voi, perché si spostano da un pianeta all’altro? Perché sono predatori naturali e non possono resistere al bisogno di distruggere le loro vittime. Quando hanno distrutto tutta la vita di un pianeta, passano a un altro.

— Non ne abbiamo le prove — disse Fallada. — Potrebbe anche essere così, ma non ne sappiamo niente.

— La mia è una specie di intuizione. Tutto nel loro modo di comportarsi non mi ispira fiducia. Le altre creature di questa specie sono rimaste nello spazio a morire di fame, lentamente. Perché dovrebbero morire di fame se hanno imparato l’arte di “mungere” l’energia vitale? Se fosse così, perché non si sono portati sufficienti provviste, sufficiente energia, come facciamo noi quando partiamo per un viaggio di nove mesi nello spazio? La risposta è che non hanno potuto portare provviste perché avevano già svuotato la dispensa. E la Terra doveva essere la loro prossima dispensa!

Fallada ed Heseltine restarono colpiti da questo ragionamento che però non li convinse del tutto. Si voltarono a guardare il corpo inerte di Armstrong, come per chiedere a lui una risposta.

— Io sono sempre dell’idea che noi dobbiamo loro qualche cosa — disse Fallada. — Dopo tutto, se è vero quello che dicono, hanno avuto quell’incidente per aver cercato di aiutare la nostra razza a evolversi. Stando a quello che ha detto, ci hanno insegnato l’agricoltura. O pensi che anche questa sia una bugia?

— Non necessariamente. Non stento a credere che volessero la nostra evoluzione. Quando sono tornati sulla Terra ventimila anni fa, probabilmente qui c’erano soltanto, al massimo, un milione di terrestri. E anche questi a un livello di poco superiore a quello di animali. Ci hanno lasciati crescere e moltiplicare, in modo che saremmo stati tanti, tanti di più, quando loro sarebbero tornati. Adesso hanno sulla Terra una dispensa che può bastare per diecimila anni. E vi dirò un’altra cosa. Ha raccontato che sono tornati sulla Terra nella speranza di trovare qualcuno della loro specie…

— Cosa ci trovi di strano?

— Cosa? Quelli della loro specie non avrebbero potuto fare niente per loro. Non avrebbero potuto aiutarli a tornare su Orione, perché la loro razza non si serve di navi spaziali. Si tramutano in una più sofisticata forma di energia che può viaggiare più veloce della luce. E queste creature hanno perso il loro potere dopo essere diventati vampiri.

— Come fai a saperlo?

— È ovvio. Se non l’avessero perso, tornerebbero sul loro mondo. Invece adesso hanno bisogno di un’astronave.

— Individui della loro specie potrebbero aiutarli — disse Fallada.

— Lo ritieni probabile? Si sono trasformati in criminali galattici, e con tutta probabilità hanno lasciato la Terra proprio per sfuggire a quelli della loro specie. Sono diventati come lebbrosi.

In tono divertito, Fallada disse: — Un’ipotesi interessante. Una specie di Caduta…

Il pilota indicò in basso. — Ecco Bedford. Arriveremo fra dieci minuti — disse. — Puntiamo su Scotland Yard direttamente?

Heseltine guardò Carlsen.

— Sarebbe meglio andare al laboratorio di Fallada — disse Carlsen — e lasciare lì Armstrong. Bisogna tenerlo in stato di incoscienza. Che ne dici? — chiese a Fallada.

— Va benissimo. Il mio assistente Grey si occuperà di lui — rispose Fallada.

— E poi cosa facciamo? — chiese Heseltine.

— Se non sbaglio, vi aspetta un messaggio del Primo Ministro — disse Carlsen. — Vorrà sapere che cos’avete fatto in questi due giorni.

— Infatti c’è un messaggio. Questa mattina ho chiamato mia moglie. Il Primo Ministro vuol vederci tutti e tre appena possibile.

— Bene. Allora andremo da lui.

In tono dubbioso, Heseltine disse: — Jamieson sarà più difficile da trattare di Armstrong. Cosa farete?

— Non so — rispose Carlsen. — Ma sono convinto di una cosa: dobbiamo affrontarlo faccia a faccia. Non c’è altro modo.


Il poliziotto di servizio davanti al numero 10 di Downing Street salutò rispettosamente Heseltine. Un momento dopo la porta venne aperta da una bella ragazza bruna.

— Il Primo Ministro ci sta aspettando — disse Heseltine.

— Sì, signore. Sarà libero fra un minuto. Volete aspettare qui, intanto?

Heseltine disse: — Mi sbaglio, o non vi ho mai visto?

— Sono Merriol — disse la ragazza, e sorrise mettendo in mostra i piccoli denti bianchissimi. Aveva un leggero accento gallese, e sembrava poco più che una bambina.

Mentre la ragazza usciva, Heseltine disse: — Curioso…

— Cosa? — disse Carlsen.

— Oh, così… — Abbassò la voce. — Si dice che a Jamieson piacciano le ragazze molto giovani. In realtà è qualcosa di più che una voce. Pare che la sua ultima fiamma sia una studentessa di Anglesey.

— Ma non le porterebbe certo a Downing Street! Sarebbe troppo compromettente — disse Fallada.

— Lo penso anch’io. Voi cosa ne dite, Carlsen?

Carlsen stava guardando dalla finestra, con aria assorta. Alla domanda, alzò lo sguardo, sorpreso. — Scusate, non ho sentito — disse.

— Dicevamo che sarebbe strano se… — S’interruppe all’aprirsi della porta.

La ragazza disse: — Volete seguirmi, per favore? — e sorrise significativamente a Carlsen.

Salì svelta le scale davanti a loro. Dietro, Carlsen tenne gli occhi fissi sulle gambe snelle e nude sotto la gonna corta. Erano belle, e lui le apprezzava.

La ragazza li accompagnò nell’ufficio attiguo alla sala del Consiglio. Il Primo Ministro Jamieson era seduto alla scrivania. Con lui c’era un uomo sulla sessantina, con gli occhiali, intento a smistare la posta.

Jamieson disse: — Per il momento basta così, Morton. — Sorrise a Heseltine da sopra gli occhiali. — Dunque i nostri vagabondi sono tornati! Accomodatevi, signori. — C’erano già tre poltrone sistemate davanti alla scrivania. — Sigaretta? Oh, buttate quelle carte sul pavimento. Non dovrebbero essere qui. — Spinse verso di loro un portasigarette da tavolo. — Sono contento di rivedervi. Cominciavo a preoccuparmi. Qualche novità interessante?

Fallada disse: — Il Comandante Carlsen e io siamo andati in Svezia a consultare un esperto di vampiri.

— Davvero? Molto… molto interessante. — Il sorriso del Primo Ministro esprimeva insieme divertimento e noia. Jamieson guardò Heseltine e chiese: — Altre novità?

Heseltine diede un’occhiata a Carlsen. — Sì, signor Ministro — disse. — Sono lieto di potervi informare che abbiamo catturato uno degli alieni.

— Ah! Dite davvero?

L’educata espressione di sbalordimento parve così genuina che Carlsen ebbe un attimo di dubbio. Il Comandante si mise una mano in tasca e ne tolse la bobina con la registrazione.

— Posso? — disse. Si protese in avanti, infilò la bobina nel registratore posato sulla scrivania, e premette il pulsante d’ascolto. La voce della creatura aliena, fredda, controllata, disse: — Il nostro pianeta è completamente ricoperto d’acqua. E…

Tutti e tre osservavano Jamieson. Il Primo Ministro ascoltava con grande attenzione, il mento appoggiato alla mano destra il cui indice passava e ripassava lungo la linea della mascella. Dopo cinque minuti, Jamieson allungò la mano e spense il registratore.

— Davvero molto… come dire… molto notevole. Come avete localizzato questo… questo vampiro?

— L’esperto svedese ci ha insegnato come fare — disse Carlsen. — Gli abbiamo promesso di non rivelare il sistema.

— Capisco. E gli altri due alieni?

— Ne abbiamo rintracciato uno a New York, L’altro è qui a Londra.

— Come intendete trovarlo?

— Come primo passo bisognerebbe far trasmettere su tutte le reti questa registrazione perché il pubblico sia messo al corrente della loro esistenza. Ho fissato un’intervista alla televisione per questa sera alle dieci — disse Carlsen.

— Cosa? — Le folte sopracciglia di Jamieson si inarcarono in un’espressione di sorpresa. — Ma questa è una contravvenzione ai nostri accordi!

— Quando abbiamo fatto quell’accordo, voi credevate che gli alieni fossero morti — disse Carlsen. — Ora la situazione è diversa.

Jamieson batté la mano sulla scrivania. — Mi dispiace, signori, ma devo categoricamente proibire un’iniziativa simile!

Carlsen disse, calmo: — Vi prego di scusarmi, ma non potete impedire niente. Siete il Primo Ministro di questo paese, non il dittatore.

Jamieson sospirò. — Comandante, mi state facendo perdere tempo. — Così dicendo premette un pulsante rosso sul registratore. — Ora la bobina è cancellata.

— Non serve a niente — disse Carlsen. — Prima di venire qui, ne abbiamo fatte diverse copie.

— Voglio anche quelle.

— Una è già alla stazione televisiva — aggiunse Carlsen.

— Allora dovete farvela ridare.

Carlsen lo guardò senza parlare. Vide un’ombra di incertezza negli occhi che tentavano di fargli abbassare lo sguardo, poi Jamieson disse in tono discorsivo: — O siete molto coraggioso o siete molto stupido. O forse l’uno e l’altro. — Mentre il Primo Ministro parlava, la sua faccia cambiò. Non fu un mutamento fisico, e la sua espressione rimase impassibile; ma gli occhi rivelarono l’esistenza di una diversa personalità. Lo sguardo si fece d’un tratto duro e remoto. Per i tre uomini fu come trovarsi in presenza di un despota con poteri illimitati. Quando Jamieson parlò, anche la voce suonò diversa. Persa l’ampollosità bonaria e cortese, era adesso spersonalizzata, con un timbro metallico. Il tono freddo, distaccato, diede i brividi a Carlsen.

— Dottor Fallada, chiamate il laboratorio e dite al vostro assistente di mandare qui il dottor Armstrong — disse Jamieson.

— Dunque sapevate già — disse Fallada.

Jamieson lo ignorò. Premette un pulsante, e subito comparve la ragazza gallese.

— Vraal, chiama il laboratorio del dottor Fallada sulla linea privata. Il dottore vuole parlare col suo assistente, Grey.

Fallada fece per alzarsi, poi sulla faccia gli passò un’espressione di sorpresa, e lui ricadde sulla poltrona. Carlsen provò un improvviso senso di languore, come se gli avessero iniettato un anestetico. Tentò di alzarsi, ma non gli fu possibile: il sedile si era trasformato in una calamita che lo tratteneva con forza. Chiuse gli occhi, con la sensazione che il suo corpo fosse diventato un masso inamovibile.

La ragazza premette un tasto collegato a un elenco elettronico, e compose un numero. Quando una voce femminile rispose, Vraal disse: — Il dottor Fallada desidera parlare col dottor Grey.

Carlsen notò lo stesso curioso timbro metallico nella voce della ragazza gallese.

Jamieson e la ragazza guardavano Fallada. Lo scienziato ebbe un sussulto, poi si irrigidì, i muscoli della faccia ebbero un movimento convulso. Mentre i due continuavano a fissarlo, Fallada si alzò e si avvicinò con mosse rigide allo schermo.

— Non lo fare, Hans! — disse Heseltine.

Ma Fallada non l’ascoltò. Si mise davanti al teleschermo. — Salve, Norman — disse con voce roca. — Mandatemi Armstrong al dieci di Downing Street. Potete farlo subito?

— Sì, dottor Fallada. E l’iniezione ipnotica? Devo fargliene un’altra?

— No, portatelo così com’è. Voglio che l’effetto della dose precedente gli passi.

In tono preoccupato Grey chiese: — Vi sentite bene?

Fallada sorrise. — Sì, benissimo. Sono solo un po’ stanco. Prendete la cavalletta dell’Istituto.

— D’accordo.

La ragazza allungò la mano e chiuse la comunicazione. Fallada barcollò e dovette appoggiarsi alla scrivania. Sembrava invecchiato di colpo.

Con uno sforzo doloroso, Heseltine si rivolse a Carlsen. — Cosa ci stanno facendo? — chiese con voce impastata.

— Si servono di pressione-volontà. Non preoccupatevi. Non possono continuare a lungo. È una cosa snervante.

Con la sua nuova voce atona, Jamieson disse: — Continueremo fin che sarà necessario.

Fallada ricadde sulla sua poltrona. Aveva la faccia lucida di sudore. Carlsen provò un forte rimorso per averlo esposto a quella estrema umiliazione: l’uso del proprio corpo e della propria voce al servizio della volontà di un altro. Gli disse: — Hans, non cedere al sonno. Finché lotti e ti opponi, non possono piegare la tua resistenza. L’altro ha tentato con me questa notte, ma non c’è riuscito.

Jamieson lo guardò con curiosità. — Sono molte le cose che ancora non sappiamo sul vostro conto, Carlsen. Per esempio, come fate a sapere della pressione-volontà. — Guardò Fallada ed Heseltine. — Non fatevi fuorviare da quella che è stata la sua esperienza. Lui ha avuto tempo di esercitarsi a opporre resistenza. Voi, no. Inoltre, non avete scelta. Vi faremo una proposta.

Tacque. Heseltine disse: — Sentiamola.

La voce disse: — Abbiamo bisogno della vostra collaborazione, e le alternative sono due. O voi fate quello che vi diciamo, o noi vi uccidiamo per entrare nei vostri corpi.

Carlsen disse: — In ogni caso significa prendere possesso dei nostri corpi.

— Nel caso crediate che sia spiacevole, posso rassicurarvi — disse Jamieson. Si rivolse alla ragazza: — Vraal, dai una dimostrazione all’Alto Commissario Heseltine.

Vraal andò dietro la poltrona di Heseltine, e gli piegò leggermente all’indietro la testa mettendogli una mano sulla fronte. Poi gli appoggiò l’altra mano sulla gola. Osservando la faccia di Heseltine, Carlsen si accorse del tentativo di resistenza. Ma subito il Commissario crollò. Fece un nuovo tentativo di opporsi, poi si arrese. Gli occhi di Heseltine si chiusero, il suo respiro si fece profondo.

Jamieson disse: — Basta così, Vraal. — La ragazza staccò le mani con una certa riluttanza, ma la destra rimase posata leggermente sulla spalla di Heseltine. — Basta, ho detto! — scattò Jamieson.

La mano ricadde, Heseltine aprì gli occhi lentamente e guardò Carlsen senza vederlo.

La ragazza si voltò verso Olaf. Aveva le labbra umide. Jamieson le disse: — No. Non c’è bisogno di dimostrazioni per il Comandante Carlsen. Ne ha già avute.

Il vento fece svolazzare le tende della finestra. Jamieson si sistemò meglio sulla poltrona, fissando i tre uomini. La sua faccia sembrava di pietra. Nella stanza stagnava un silenzio innaturale. Il rumore del traffico sembrava lontano. Carlsen raccolse tutte le sue energie per non cedere alla sonnolenza, mentre Heseltine e Fallada erano già sul punto di addormentarsi. L’atmosfera non era di panico, ma di languore quasi sessuale. Il tempo sembrava aver perso importanza. Nella mente di Carlsen passarono ricordi lontani, favole dell’infanzia: i campi di papaveri di “Il mago di Oz”, la casetta di pandizucchero di “Hansel e Gretel”… Si sentiva completamente rilassato, con la sensazione che tutto andava bene. Quando cercò di dirsi che era in pericolo, non gliene venne alcun senso d’allarme. Una specie di magica nebbia dorata gli offuscava la mente confondendogli i perir sieri.

Si udì il suono di un campanello, e Carlsen si rese conto di essersi addormentato. Jamieson disse: — Questo dev’essere il nostro amico.

Uscì. Quando tornò dopo qualche minuto, Carlsen raccolse energia sufficiente per girarsi a guardare. Con Jamieson c’era Armstrong. Aveva la faccia cerea e camminava lentamente, con movimenti goffi. Jamieson lo accompagnò a una poltrona. Armstrong guardò Carlsen, poi Fallada ed Heseltine, senza dimostrare interesse. Aveva il respiro pesante e gli occhi arrossati.

Jamieson gli disse: — Guardatemi! — Armstrong alzò faticosamente la testa.

Jamieson l’afferrò per i capelli, facendogli fare una smorfia, poi gli spinse indietro la testa e lo guardò negli occhi.

Armstrong tossì. Per qualche secondo nessuno dei due si mosse. Poi la faccia di Armstrong cambiò. La pelle floscia sembrò riprendere tono, la linea della bocca si indurì, lo sguardo diventò vivo e penetrante.

Si scosse di dosso la mano di Jamieson.

— Va meglio, grazie — disse. — Mi hanno dato tre dosi di quella maledetta roba. — Guardò Carlsen con collera fredda. E Carlsen sentì l’urto della sua volontà come se fosse stato uno schiaffo.

— Se deve essere ucciso, lo farò io — disse Armstrong.

La ragazza disse: — L’ha già promesso a me.

— Sarà lui a scegliere — disse Jamieson. E si rivolse a Carlsen. — Che cosa preferite — gli chiese — essere invasato da lei, o distrutto da lui? Decidete alla svelta.

Carlsen fece un altro tentativo per muoversi, ma le loro tre volontà lo tenevano inchiodato alla poltrona con la durezza di corde metalliche. Si sentì debole, indifeso: un bambino nelle mani di adulti. Parlare gli costò uno sforzo.

— Sarebbe stupido uccidermi — disse. — Potreste usare il mio corpo, ma non ingannereste nessuno che mi conosca.

— Non sarà necessario. Vi chiediamo solo di fare l’intervista televisiva di questa sera. Ma dichiarerete che la “Stranger” venga portata immediatamente sulla Terra. Direte che sarebbe un errore aspettare ancora permettendo così che altri paesi se ne impossessino. Poi, io annuncerò di avervi affidato il comando della spedizione che porterà l’astronave sulla Terra, e che voi partirete domattina presto per la base lunare. Non vi chiediamo altro.

Carlsen rimase a fissarlo, combattendo la spossatezza e il profondo senso di sconfitta. La voce disse: — Decidete subito.

La ragazza disse: — Devo tentare di convincerlo? — E senza aspettare risposta, si sedette sulle ginocchia di Carlsen e gli spinse indietro la testa. Lo fece con freddezza come un’infermiera che prepara un paziente per un’operazione.

Non appena le mani di lei, fredde, lo toccarono, Carlsen si accorse che la sua energia vitale fluiva nella ragazza. Tenendogli le mani sulle orecchie, lei si chinò a premere la bocca sulla sua. Di nuovo lui provò l’incanto stupefatto, il desiderio di arrendersi, di lasciarle prendere possesso della sua volontà.

E quando la ragazza sentì che si era rilassato, gli mise le braccia intorno al collo, e le sue labbra si fecero avide.

Carlsen sentiva fiotti vitali d’energia sgorgare da lui come sangue da vene tagliate: la vita stava trasferendosi dal suo corpo a quello della ragazza. Quando tentò di muoversi, con un ultimo guizzo di ribellione, Carlsen sentì che le forze unite degli altri lo inchiodavano sulla poltrona. Poi, quando smise di resistere, il senso di impotenza si dissolse in un ardore di risposta.

Gli sembrò che fosse a causa dei movimenti della ragazza, che simulavano il ritmo dell’accoppiamento. Sentiva il calore del suo seno contro il petto, e avrebbe voluto alzare le mani e strapparle la camicetta dalle spalle. Il desiderio acquistò violenza, e Carlsen si accorse della sorpresa di lei nell’accorgersi che non era più passivo. In un lampo si rese conto che poteva servirsi della propria volontà per combatterla, serrandola, premendole la bocca con una forza che gli veniva dal proprio cervello. Senza muoversi, la teneva come un uccello tiene stretto un verme. E prese ad assorbire energia da lei, il corpo vibrante dal desiderio.

La voce di Armstrong disse: — Cosa stai facendo, Vraal? Non ucciderlo.

Carlsen rafforzò la stretta, abbandonandosi completamente al piacere di bere l’essenza dell’altro essere. L’intensità del contatto gli bruciava la carne.

Vide Jamieson afferrare Vraal per le spalle. Lui allentò la presa non appena la ragazza fu strappata via. Jamieson ci aveva messo una tale forza che lei finì contro la scrivania e cadde. Jamieson fece per parlare, poi vide la bocca tumefatta della ragazza e la sua espressione sconvolta ed esausta. Reagì istantaneamente. Si voltò verso Carlsen e la sua forza di volontà fu come un’esplosione. Avrebbe potuto annientare Carlsen lì sulla poltrona, mettendo fine alla sua resistenza con l’effetto di un proiettile nello stomaco. Ma la reazione di Carlsen fu ancora più veloce. Parò il colpo, evitandolo come avrebbe fatto un pugile sul ring, schivandolo di lato. Poi, prima che Jamieson potesse rimettersi dalla sorpresa, Carlsen rispose con la propria volontà, colpendo Jamieson nelle costole e scagliandolo contro la parete. Un movimento alla sua destra gli ricordò la presenza di Armstrong; e questa volta, prima di poter alzare le difese, ricevette il colpo che gli si abbatté su un lato della testa con la violenza di una mazzata. Infuriato per il dolore, rispose con più forza di quanta avrebbe voluto. La sua collera si abbatté su una spalla di Armstrong e gli spezzò l’osso come avrebbe fatto la zampata di un orso. Armstrong, buttato all’indietro, finì con la testa contro la parete, fece mezzo giro su se stesso e cadde sulle ginocchia, lo sguardo vacuo.

Intanto Jamieson si era rialzato. Sostenendosi alla scrivania, fissava Carlsen. L’occhio sinistro era semichiuso, e il sangue gli colava sulla faccia. Eppure, a dimostrazione della sua forza, la faccia non esprimeva né paura né sconfitta. In tono calmo, chiese: — Chi sei?

Carlsen stava per rispondere, ma si rese conto che era inutile: la domanda non era rivolta a lui. Una voce gli uscì dalle labbra, e in una lingua straniera, che lui però capiva, disse: — Vengo da Karthis.

Quella era la lingua dei Nioth-Korghai.

Jamieson mise una mano in tasca, ne tolse un fazzoletto bianco e si asciugò il sangue. Con voce calma e piatta, chiese: — Che cosa vuoi?

— Dovresti saperlo — risposero le labbra di Carlsen.

Mentre parlava, Carlsen si accorse che il vampiro, che aveva invasato la ragazza, stava staccandosi dal suo corpo. Anche se lui stava guardando da un’altra parte, un sesto senso lo rese conscio del fatto che il vampiro si spostava verso la finestra.

Disse: — Non puoi sfuggire, Vraal. Abbiamo impiegato mille anni per trovarti. Non ti permetteremo di andartene ancora. — L’afferrò e la costrinse a tornare in mezzo alla stanza. Heseltine e Fallada fissarono sbalorditi la trasparente forma violacea visibile ora sullo sfondo della parete. Brillava leggermente nella luce e l’energia di cui era composta vibrava con un effetto di volute di fumo.

Carlsen si rivolse a Fallada. — Mi scuso per aver parlato in una lingua straniera — disse. — Nella nostra forma naturale noi comunichiamo solo col pensiero, ma possiamo ancora servirci dell’antica lingua dei Nioth-Korghai.

Fallada disse: — Non capisco… Sei…

Carlsen capì la domanda inespressa.

— Sono un abitante di Karthis, un pianeta del sole che voi chiamate Rigel. Sto servendomi del corpo del vostro amico Carlsen, il quale è pienamente conscio di quello che sta succedendo. Si può dire che l’ho preso in prestito.

Guardò Armstrong, che stava puntellandosi per mettersi seduto. Poi guardò Jamieson. — Andiamo — disse. — È ora di partire.

Fallada ed Heseltine osservarono esterrefatti una nuova forma, leggera, trasparente, color porpora, staccarsi dal corpo di Carlsen.

Aveva più consistenza di quella dell’altro alieno: sembrava un insieme di punti luminosi.

Carlsen provò una sensazione improvvisa di debolezza, come se avesse perso sangue in abbondanza.

La luce color porpora aleggiava al centro della stanza, con una intensità dolorosa per gli occhi. Poi, mentre Carlsen guardava, sagome ondeggianti si staccarono dai corpi di Armstrong e di Jamieson, appena visibili, nel riflesso luminoso del loro catturatore. Armstrong si afflosciò su un fianco; la bocca aperta. Jamieson cadde pesantemente sulla poltrona dietro la scrivania, fissando la ragazza con espressione perplessa, come se la sua presenza lì gli fosse incomprensibile.

Guardando le luminose forme purpuree, visibili come onde di calore, Carlsen provò un’emozione più profonda di qualsiasi mai provata. Una specie di rispetto misto a una infinita pietà. Per la prima volta comprese chiaramente il tormento e la disperazione che avevano spinto quelle creature a compiere incursioni fra le galassie in cerca di energia vitale. Ora poteva sentire tutta la solitudine degli esseri tormentati dal terrore della totale estinzione. Davanti a questa realtà, la sua vita gli parve improvvisamente un cumulo di volgari banalità. Gli parve che ogni momento della sua vita, fin dalla nascita, fosse stato vissuto in una specie di insipido sogno a occhi aperti. Questa percezione gli diede il coraggio che nasce dalla collera. Si alzò e avanzando verso la luce più forte gridò: — Non ucciderli. Lasciali liberi.

Mentre gridava queste parole, gli parve assurdo come cercare di comunicare con una montagna. Ma un attimo dopo udì chiaramente una voce che diceva: — Lo sai che cosa chiedi? — Ma le parole non erano state dette: lui aveva captato un messaggio mentale.

Disse: — Che cos’hanno fatto di male? Volevano soltanto vivere. Perché punirli?

Fece un altro passo avanti verso il profilo luminoso. E di colpo ebbe di nuovo la capacità di leggere nella mente di chi gli stava attorno.

Questa volta la voce parlò attraverso la sua bocca. — Non si tratta di punizione — disse. — Ma siccome è importante che venga fatta giustizia, voi sarete i giudici.

Servendosi del corpo di Carlsen, l’alieno si chinò a prendere la ragazza fra le braccia, e la depose sulla sedia della scrivania. Lei aprì gli occhi, e guardò Carlsen, sorpresa e allarmata.

Lui si chinò su Armstrong, e lo toccò sulle spalle. La forza risanatrice che emanava dalle sue dita fecero saldare l’osso spezzato. Poi Carlsen si avvicinò a Jamieson, che si ritrasse. Ma Carlsen arrivò a toccargli lo zigomo gonfio e tumefatto, e il gonfiore e la tumefazione scomparvero.

L’alieno tornò alla poltrona di Carlsen e guardò a uno a uno i presenti. — Siete pronti a pronunciare il verdetto contro le creature che volevano distruggervi?

Per qualche minuto, nessuno parlò. Carlsen poteva leggere i pensieri e i sentimenti di tutti. In Armstrong e in Jamieson, rimorso e paura stavano trasformandosi in odio, in un desiderio istintivo di unirsi ai cacciatori.

La ragazza era sbalordita e perplessa. Solo Fallada ed Heseltine stavano cercando di essere imparziali. Fallada chiese: — Come possiamo giudicarli?

— Ascoltate e poi deciderete — disse la voce. — Da più di due secoli, io sono sulla Terra. Aspettavo il ritorno degli Ubbo-Sathla. E per più di un millennio la nostra gente li ha cercati ovunque fra le galassie. Il nostro compito era molto più difficile di quello di cercare un singolo granello di sabbia in tutti i deserti del mondo.

Le parole erano meno importanti delle immagini che le accompagnavano. L’alieno stava proiettando i suoi pensieri nelle loro menti, e gli uomini potevano finalmente afferrare qualcosa dell’immensità dello spazio e dell’infinità dei suoi mondi.

— Fu solo poco più di duemila anni fa che una delle nostre spedizioni scoprì i resti del pianeta B. 76, nel sistema di Vega. Quel mondo era esploso. Sapevamo che su B. 76 era esistita una razza di esseri altamente evoluta, gli Yeracsin che a voi sarebbero sembrati palloni fatti di luce. Quelle creature erano pigre, ma innocue e pacifiche. Cercammo quindi di scoprire quale catastrofe avesse distrutto il loro mondo. Come prima ipotesi pensammo che si fosse trattato di una catastrofe naturale. Ma poi, esaminando i frammenti, scoprimmo tracce di un’esplosione atomica. Fu allora che cominciammo a sospettare che il pianeta fosse stato distrutto per nascondere qualche crimine spaventoso, così come gli esseri umani talvolta danno fuoco a una casa per nascondere un delitto. Ulteriori indagini ci portarono alla conclusione che sul pianeta era stato commesso un genocidio. — I suoi occhi fissarono freddamente le forme luminose stagliate contro la parete. A Carlsen sembrò che stessero sbiadendo. — Allora cominciò la caccia. Compimmo una ricerca minuziosa in tutti i sistemi planetari locali per trovare una traccia che servisse a identificare i criminali. Scoprimmo la prova che cercavamo nel vostro sistema solare, dove un altro pianeta era stato ridotto in frammenti.

Fallada chiese, sorpreso. — Gli asteroidi?

— Nella nostra lingua lo chiamavamo Yllednis, il pianeta azzurro. L’ultima volta che avevamo visitato il vostro sistema solare, Yllednis ospitava la più grande e più antica civiltà di creature simili a noi: molluschi intelligenti. E anche Marte, a quel tempo, era abitato: da una razza di giganti umanoidi che stavano imparando allora a costruire città. Marte, però, era diventato un deserto privo d’acqua, e Yllednis era esploso in migliaia di frammenti rocciosi. Eppure la Terra, con la sua sviluppata civiltà mediterranea era rimasta indenne. C’era solo una spiegazione: i criminali se ne servivano come base. Fu allora che cominciammo a sospettare che i criminali fossero i perduti. Avevamo chiamato così un gruppo di scienziati che cinquantamila anni prima erano scomparsi durante il viaggio di ritorno alla nostra galassia. Dapprima ci sembrò impossibile, perché i Nioth-Korghai sono mortali, come gli uomini. Ma dopo aver studiato le vostre memorie razziali, non ci furono più dubbi. Quei criminali erano creature come noi, individui della razza Nioth, ma nei quali l’impulso di protezione verso le razze più deboli si era pervertito in una specie di sadismo…

Carlsen sentiva l’ondata di collera che emanava dalle tre forme ondeggiati sullo sfondo della parete.

La voce dell’alieno riprese. — La vostra demonologia è ricca di accenni agli Ubbo-Sathla, i vampiri dello spazio. E siccome loro avevano risparmiato il vostro pianeta, era ovvio che volessero ritornarci, un giorno o l’altro. Noi continuammo comunque la caccia attraverso le galassie, nella speranza di prevenire altri crimini. Ma la vostra galassia da sola ha più di cento milioni di stelle, e così i nostri sforzi non ebbero risultato… fino a oggi.

La voce tacque. Di nuovo Carlsen sentì le ondate di collera e di frustrazione che emanavano dagli alieni. Il silenzio si prolungò. Infine la voce disse. — E allora? Qualcuno ritiene ancora che debbano essere lasciati liberi?

Tutti guardarono Jamieson, il quale arrossì. — Certamente no — disse. — Sarebbe stupidità criminale.

Fallada disse: — Vorrei fare una domanda. — Era teso, e teneva gli occhi fissi sul tappeto. — Avete detto che il loro innato impulso di pietà per i deboli si è trasformato in una specie di sadismo. Non si può rendere il processo reversibile?

In tono irritato, Jamieson disse: — Queste sono sciocchezze.

Cocciuto, Fallada riprese: — Io voglio sapere se queste creature sono interamente criminali. — Guardò Jamieson da sotto le folte sopracciglia. — In quasi tutti c’è qualcosa di buono — aggiunse.

L’alieno disse: — Soltanto loro possono rispondere alla domanda. — E rivolgendosi alle forme trasparenti dei vampiri chiese: — Dunque?

— Possono parlare? — chiese Fallada.

— Sì, ma hanno bisogno di un corpo. Qui ne hanno sei tra cui scegliere.

Di colpo Carlsen si sentì di nuovo debole. Ci mise qualche secondo per capire che l’alieno era uscito dal suo corpo e gli stava fluttuando sopra la testa. Ebbe una stretta allo stomaco, vedendo che una delle forme tremolanti ondeggiava verso di lui. Poi una calma rassicurate gli invase la mente. Si rilassò, lasciando che la forma calasse dentro di lui. Per un momento provò una specie di nausea, come se avesse ingerito un liquido disgustoso. Poi la sensazione passò lasciando il posto a un’esultanza selvaggia. Una vitalità prorompente gli gonfiò i muscoli. Era l’alieno che in precedenza aveva invasato Jamieson: il capo. La voce che parlò tramite Carlsen vibrava di emozione.

— Parlerò, per quanto sappia che sarà inutile. Nessuno qui si preoccupa della giustizia. Ma voglio far notare un semplice fatto: i Nioth-Korghai, come i Terrestri, sono mortali. Noi Ubbo-Sathla abbiamo raggiunto una specie di immortalità. Non è niente avere scoperto il segreto della vita eterna? Voi direte che l’abbiamo ottenuta distruggendo altre vite. È vero. Ma non è questa una legge di natura? Tutte le creature viventi uccidono. Gli esseri umani non si fanno nessuno scrupolo a uccidere gli animali per cibarsene. Mangiano persino la carne degli agnelli appena nati. E pecore e buoi mangiano erba, che è anch’essa una creatura vivente. Il dottor Fallada ha studiato il vampirismo. Lui può spiegarvi che è il principio basilare della natura. E se è così, di che cosa siamo colpevoli, noi?

— Volete negare che distruggete per piacere? — chiese Fallada.

— No. — La voce era calma e pacata. — Ma dato che dobbiamo uccidere per sopravvivere, perché non provare piacere nel farlo?

Adesso Carlsen era interessato meno alle parole che al potere che le accompagnava: una specie di corrente elettrica che lo percorreva generando visioni che gli davano un godimento spietato. Gli esseri umani erano volgari, irrimediabilmente volgari e banali. Erano meschini, egoisti, pigri, stupidi, disonesti. Erano una razza di smidollati dal cervello debole, poco più che imbecilli. Se l’estinzione dei deboli e la sopravvivenza dei forti era legge di natura, allora gli esseri umani meritavano di essere distrutti. La loro essenza era quella di vittime predestinate.

Heseltine si schiarì la voce. — Ma… la crudeltà nasce dalla debolezza non dalla forza — disse. Aveva parlato esitando, senza convinzione.

Il vampiro rispose: — Nessuno che non abbia conosciuto la disperazione totale ha il diritto di parlare di debolezza o di forza. Riuscite a immaginare cosa significhi dover lottare per mille anni contro la possibilità di estinzione? E dopo questi mille anni noi non vedemmo più alcun motivo per accettare la morte mentre esisteva per noi ancora una speranza di vita. Volete condannarci per questo?

La voce si era rivolta a Heseltine e Fallada, ma fu Jamieson a rispondere.

— Vi siete condannati da soli — disse. — Avete dichiarato che uccidere è una legge di natura. Voi intendevate ucciderci. Esiste forse qualche motivo perché noi invece non dovremmo uccidervi?

— Non mi aspetterei altro da voi, se aveste il potere di ucciderci. — Nessun sarcasmo nella voce. — Ma i Nioth-Korghai non credono che l’omicidio risponda a una legge di natura. Loro credono in leggi superiori. — Ripiegò un poco la testa all’indietro, senza però guardare direttamente alla sfera di luce. — Ecco perché voglio sapere che cosa intendete voi fare di noi.

E di nuovo l’altra voce comunicò senza parole. — Questo verrà deciso su Karthis — disse.

— Non possiamo tornare su Karthis, a meno che ci diate energia di trasformazione.

— Vi sarà data.

— Quando?

— Adesso se volete.

Carlsen sentì una esplosione di incredulità e di gioia, che cessò un attimo dopo, quando l’alieno lasciò il suo corpo. Cercò di guardare la luce, ma lo splendore gli feriva gli occhi. Notò l’espressione di dolore sul viso di Heseltine, poi si coprì la faccia con le mani. Non servì a niente: pareva che la luce fosse dentro di lui e lo riempisse di gioia e di terrore. Si rendeva conto che l’energia si sprigionava sì dalla creatura ferma al centro della stanza, ma veniva anche da un’altra fonte universale.

Questo lo colpì come una rivelazione. I normali confini della sua mente si erano dissolti. Capì improvvisamente che tutta la scienza umana è di seconda mano e senza contenuti reali. Adesso poteva vedere sprazzi di realtà vera, e l’estasi che gliene derivava era quasi insopportabile. La sua paura era mitigata dalla consapevolezza di essere solo uno spettatore: quella forza era destinata ai tre alieni. Aprì gli occhi e guardò i vampiri. Stavano assorbendo energia, la ingoiavano, se ne avvolgevano. E l’energia affluiva in loro, la loro forma si consolidava, il colore si faceva più intenso, il profilo si precisava, e alla fine somigliarono a corpi materiali, impregnati di fumo in movimento. Mentre li guardava, loro cessarono di assorbire energia, e cominciarono invece a irradiarne come l’essere al centro della stanza. Durò un attimo, e chiazze di oscurità si formarono nella luce. Poi Carlsen capì. Voleva gridare un avvertimento, voleva consigliargli di tornare indietro, di ricominciare tutto da capo. E poi, con una rapidità che lo lasciò impietrito, svanirono. Fu come se tre lampadine elettriche si fossero bruciate simultaneamente.

La stanza diventò quasi buia e stranamente silenziosa. La voce di Fallada disse: — Che cos’è successo?

Carlsen fu sorpreso che lo scienziato potesse parlare.

Jamieson gridò: — Aspettate. Non andatevene ancora! — Carlsen alzò lo sguardo, e capì perché la stanza diventava sempre più buia. Anche se restava sospeso nello stesso punto, il Nioth-Korghai dava l’impressione di retrocedere.

Carlsen ebbe la sensazione di una grande perdita. Era la realtà che sbiadiva in distanza e il suo pensiero cercò di trattenerla. Ma capì che era impossibile: la missione terrestre della creatura era compiuta. Mentre gli uomini lo guardavano, lui si ridusse a un punto lucente, sbiadì come una minuscola stella nel cielo dell’alga, poi svanì.

Subito la stanza fu fredda e triste, come in un crepuscolo nevoso. L’irrealtà simile a un sogno, che lui aveva sempre considerata normale consapevolezza, era tornata.

Jamieson fece un lungo sospiro di sollievo e toccò un pulsante sulla scrivania. Le finestre si aprirono automaticamente. Il rumore del traffico di Whitehall riempì la stanza portato dall’aria calda che odorava d’estate. Per qualche minuto nessuno osò parlare. Heseltine si era abbandonato contro la spalliera della poltrona, a occhi chiusi. Fallada era curvo in avanti, il mento che gli toccava il petto, ma teneva gli occhi aperti. La ragazza si era accasciata su una sedia in un angolo, e respirava affannosamente.

Carlsen chiuse gli occhi e smise di resistere alla stanchezza. E subito percepì una eccitazione sessuale unita alla visione di gambe nude.

Aprì gli occhi e vide Armstrong intento a guardare la ragazza, semisdraiata con le ginocchia leggermente staccate, e la gonna sollevata sulle cosce.

Carlsen richiuse gli occhi. Non c’era dubbio: era collegato mentalmente all’eccitazione di Armstrong, ne intuiva i pensieri. Spostò la sua attenzione sulla ragazza e seppe che dormiva. La sua mente afferrò le immagini confuse di un sogno.

Spostò la mente sul Primo Ministro. Era meno esausto di quanto pretendeva di essere. Jamieson possedeva notevoli forze di riserva, e la dura, irragionevole testardaggine di chi ama il potere. Stava guardando Carlsen e Fallada, chiedendosi come poteva convincerli a mantenere il silenzio.

L’apparecchio di comunicazione interna suonò. Jamieson rispose, e nella sua voce si sentì una nota di isterismo. La voce del segretario disse: — Il Ministro dei Lavori Pubblici, signor Jamieson.

Il Primo Ministro rispose: — Non adesso, per l’amor del cielo. — Fece uno sforzo per controllarsi. — Inventate qualche scusa, Morton. Dite che ho un caso di emergenza.

— Va bene, signore.

Jamieson si raddrizzò sulla poltrona, guardò gli altri, si schiarì la voce, e disse: — Non so voi, ma io ho bisogno di un whisky. — Aveva la faccia di chi ha appena finito di star male. Carlsen lo osservava attentamente: sapeva che stava recitando. Per Jamieson, era normale nascondere i suoi pensieri.

— Merriol — disse alla ragazza — portateci del whisky, per favore.

Carlsen sentì anche la delusione di Armstrong quando la ragazza si riscosse e tirò giù la gonna.

Armstrong rise nervosamente. — Non ne ho mai avuto tanto bisogno in vita mia.

Jamieson fece un cenno d’approvazione. — Vi siete comportato in modo ammirevole, caro amico.

Armstrong accettò il complimento con modestia. — Grazie, signor Primo Ministro — disse.

Carlsen incontrò lo sguardo di Fallada. Tutti e due sapevano quello che stava accadendo. La situazione anomala richiedeva reazioni che esulavano dalla normalità quotidiana. Jamieson e Armstrong stavano “normalizzandola”.

La ragazza posò sulla scrivania il vassoio con bottiglia e bicchieri. Jamieson versò il whisky in sei bicchieri, senza vergognarsi del tremolio delle mani. Poi alzò il suo, lo vuotò d’un sorso, e lo rimise sul vassoio respirando forte.

Carlsen prese un bicchiere, e lo portò alle labbra. Qualche goccia gli cadde sui pantaloni. Il whisky aveva un sapore aspro, insolito, gli parve petrolio. Pensò di non avere ancora perso interamente il senso di una realtà diversa e più profonda.

Era come sdoppiato, e la tensione fra i suoi due “io” gli dava il potere di combattere contro il sogno.

Jamieson bevette un secondo bicchiere, più lentamente, questo. Poi disse: — Miei cari signori, abbiamo superato tutti una eccezionale prova del fuoco. Grazie a Dio è finita.

Heseltine disse: — Ma che ne è stato dei vampiri?

Carlsen percepì un sussulto d’allarme in Jamieson. Poi il Primo Ministro disse: — Se ne sono andati. A noi non interessa altro!

Fallada chiese a Carlsen: — Tu sai cos’è successo?

— Credo di sì.

Armstrong disse: — Ormai, che cosa importa? — seguiva l’imbeccata di Jamieson.

Fallada lo ignorò. — Perché sono svaniti tutti? — chiese.

Carlsen cercò di trovare le parole giuste. Riusciva a capire perfettamente ma gli era difficile esprimersi. — Si potrebbe dire che è stato una specie di suicidio. Avevano dimenticato…

Jamieson intervenne. — Dimenticato cosa? — La sua curiosità era più forte della paura di perdere il controllo della situazione.

— Che noi prendiamo energia dalla stessa fonte — concluse Carlsen. — Sarebbe come rubare mele dalla dispensa, quando c’è a disposizione tutto il frutteto.

Fallada insistette: — Ma che cosa ne è stato di loro?

— L’altro alieno ha dato loro tutta l’energia di cui avevano bisogno per tornare nel loro sistema solare — disse Carlsen. — Non ha mentito quando ha detto che non sarebbero stati puniti. La loro legge non conosce punizioni. Ma li ha avvertiti che sarebbero stati giudicati. Voleva che sapessero cosa li aspettava. E mentre l’energia scorreva dentro di loro, cessarono di essere vampiri. Tornarono a essere degli dei… perché è questo che erano in origine. E quindi sono stati in grado di giudicare da soli se era stato giusto diventare vampiri. E da soli hanno emesso la sentenza e si sono condannati all’estinzione.

— Volete dire che avrebbero potuto vivere e tornare sul loro pianeta? — chiese Jamieson.

— Sì. Spettava unicamente a loro decidere.

Jamieson disse: — Dovevamo essere pazzi!

— No, solo totalmente onesti, incapaci di autoingannarsi. Come vampiri, erano esperti in quest’arte, ma messi faccia a faccia con la verità sapevano riconoscerla.

Si rendeva conto che le sue parole stavano mettendo a disagio Jamieson, gli istillavano un dubbio che poteva facilmente tramutarsi in panico. Il Primo Ministro disse: — Secondo la religione cristiana nessun peccato è perdonabile.

— Ma non capite? I vampiri avrebbero potuto dirsi che non erano realmente da biasimare, o che avrebbero controbilanciato il male fatto con future buone azioni. Ma erano diventati troppo consapevoli per abbandonarsi a qualsiasi tipo di illusione. E hanno capito di colpo quello che avevano fatto e quello che dovevano fare.

— E così hanno dovuto morire?

— No, non vi erano costretti. È stata una loro scelta. Una volta avete detto che il corpo di una persona uccisa da un vampiro è paragonabile a un pneumatico con cento fori. Loro erano così. È per questo che sono svaniti.

Heseltine chiese: — E gli altri? Quelli che sono rimasti sulla “Stranger”?

— Anche loro dovranno scegliere.

— E qualcuno di loro sceglierà di continuare a vivere? — chiese Jamieson.

Tenne lo sguardo fisso negli occhi di Carlsen, e Carlsen fu sorpreso da come l’ansia di Jamieson gli si comunicava. Sentì svanire il disgusto, e subentrare la compassione. Disse: — Non posso saperlo, naturalmente. Ma è possibile.

— Non… non avete modo di scoprirlo?

— No.

Jamieson distolse lo sguardo. Carlsen sentì distintamente il suo sollievo. L’orologio del Big Ben cominciò a suonare le ore. Contarono i rintocchi: mezzogiorno. Mentre l’ultima eco svaniva, Jamieson si alzò. Sembrava aver ritrovato nuovo vigore.

— Allora, signori, se mi scusate… credo che abbiamo tutti bisogno di un po’ di tempo per riposare e riprenderci da tutte quelle emozioni — disse. E mentre Carlsen si alzava, aggiunse in fretta: — Ma prima di lasciarci, posso avere la certezza che siamo tutti d’accordo sulla necessità di mantenere il silenzio, almeno per il momento?

Fallada disse, incerto: — Credo di sì.

— Non lo chiedo per me personalmente — disse Jamieson. — O nell’interesse del dottor Armstrong o in quello della signorina Jones. Questa è una faccenda che ci riguarda tutti alla stessa maniera. — Carlsen percepì che Jamieson stava riprendendo fiducia. Jamieson si curvò in avanti, appoggiandosi alla scrivania con la punta delle mani. — Se raccontassimo questa storia, nessuno ci crederebbe — aggiunse Jamieson. — Sono convinto che ci prenderebbero per pazzi, e ci rinchiuderebbero nel più vicino manicomio. E, francamente, sarebbe colpa nostra. Perché mai la gente dovrebbe credere a una storia simile?

— E perché non dovrebbero crederci? — chiese Fallada.

— Ma così sarebbe, mio caro dottore! L’opposizione per prima spargerebbe la voce che siamo diventati matti, o che ci siamo inventato tutto per sordidi motivi personali. Io mi sentirei costretto a dare le dimissioni, e non perché mi vergogni della parte che ho avuto, dato che non ne ho alcuna responsabilità, ma perché nuocerei al mio partito. Anche l’Alto Commissario dovrebbe dimettersi. Perché, signori miei, è ovvio che ci tireremmo addosso fango e scandalo. Ne saremmo tutti danneggiati.

Carlsen stava osservando i processi mentali di Jamieson con interesse divertito. Quando aveva cominciato a parlare, la maggiore preoccupazione del Primo Ministro era stata quella di assicurarsi il loro silenzio. Dopo un paio di frasi si era convinto che i suoi motivi erano completamente disinteressati. Carlsen pensò che la pietà provata poco prima era stata sprecata.

— Ma è giusto mettere i nostri interessi più o meno privati davanti a tutto, e nascondere questa storia al mondo? — disse. — La gente non ha diritto di essere informata?

— Comandante, questa è una domanda astratta — disse Jamieson. — Come uomo politico, io sono pragmatico. Ho detto semplicemente che ci renderemmo la vita intollerabile. Senza contare il lato morale. Io sono il Primo Ministro di questo paese. Come tale, devo agire nell’interesse della Gran Bretagna. Questa faccenda potrebbe diventare uno scandalo che ci danneggerebbe agli occhi del mondo. Abbiamo il diritto di correre questo rischio?

Heseltine stava per replicare, ma Jamieson lo fermò alzando una mano, e continuò: — Voglio dirvi in tutta sincerità che quello che è successo mi ha lasciato un profondo senso di inutilità. Con tutta franchezza vi dico che passerò il resto della mia vita a ponderarne il significato. Pensando al pericolo scampato mi vengono le vertigini, come se fossi sull’orlo di un abisso. Abbiamo affrontato quel pericolo insieme, e, grazie a Dio, abbiamo trionfato. Sento che questo è un legame fra noi. Aggiungo che mi farò parte diligente perché riceviate tutti il giusto riconoscimento per l’opera prestata. Sono certo che il nostro paese non si dimostrerà ingrato. — Jamieson si versò un altro whisky e sorrise a Heseltine. — Allora, posso contare sulla vostra approvazione?

Heseltine disse: — Come volete signor Primo Ministro.

— Comandante Carlsen?

Carlsen disse: — Se la mettete su questo piano, come posso non approvare?

Jamieson credette di sentire un tono di scherno nelle parole del Comandante, ma la sua espressione seria lo rassicurò. Si rivolse a Fallada. — Voi, dottore?

— E il mio libro? — disse Fallada. — Dovrei rinunciare a scriverlo? — Si capì che aveva fatto uno sforzo per parlare in tono calmo.

— Il vostro libro? — chiese Jamieson, sorpreso.

— Sì, sull’anatomia e la psicologia dei vampiri.

— Santo cielo, no! Che razza di idea! Il libro darà un importante contributo alla scienza. Vi farò anzi avere tutto l’appoggio dell’Associazione Medica. No, no, dottor Fallada, il libro deve essere pubblicato. E vi frutterà la nomina a cavaliere.

— Non mi sembra il caso — disse Fallada, seccato, e si alzò. Jamieson fece finta di non aver notato la sua irritazione.

— E la “Stranger”? — chiese Heseltine.

— Già, la “Stranger” — disse Jamieson, e scosse la testa con aria pensosa. — Ritengo che più presto ce la dimenticheremo, meglio sarà.

Fallada uscì, sbattendo la porta. Carlsen si mosse per seguirlo, e Jamieson gli fece un sorriso da cospiratore. — Parlategli voi, Comandante — gli disse. — È comprensibile che sia sconvolto, ma sono certo che si possa convincerlo a condividere il nostro punto di vista.

— Farò del mio meglio — rispose Carlsen.


Raggiunse Fallada sui gradini esterni. Lo scienziato si stava guardando in giro con espressione irritata, ma vedendo Carlsen si rilassò.

— Non farti ridurre in questo stato da lui — disse Carlsen.

— Non è questo… È che mi disgusta! Quello non è un uomo, è un rettile. Come fa a sapere che il mio libro è importante se non l’ha nemmeno letto?

— Quel libro è importante, che lui l’abbia letto o no. Quindi perché prendersela?

Fallada sorrise, dominando l’irritazione. — Non capisco come tu riesca sempre a restare così calmo — disse.

Carlsen gli mise una mano sulla spalla. — Non è difficile — disse. — Noi due abbiamo cose molto più importanti a cui pensare.

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