Colin Wilson I vampiri dello spazio

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Gli strumenti di bordo registrarono il profilo massiccio molto prima che gli uomini l’avvistassero dagli oblò. Questo era naturale. Il Comandante Carlsen però era rimasto sconcertato dal fatto che, anche quando erano a solo mille e seicento chilometri di distanza e i razzi frenanti avevano ridotto la velocità a poco più di mille chilometri all’ora, quella forma misteriosa fosse invisibile.

Poi, Graigie, guardando dall’oblò principale, la vide stagliarsi nitida contro le stelle. Gli altri lasciarono i loro posti per andare a vedere. Dabrowsky, l’ingegnere capo, disse: — Un altro asteroide. Come lo chiameremo, questo?

Carlsen guardò fuori stringendo gli occhi contro la luce abbagliante delle stelle. Quando toccò il tasto dell’analizzatore, verdi linee simmetriche saettarono sullo schermo, distorte verso l’alto per effetto della velocità con cui stavano avvicinandosi alla forma grigiastra. — Non è un asteroide — disse. — È tutto di metallo.

Dabrowsky tornò a osservare il pannello. — Cos’altro può essere?

A quella velocità il ronzio dei motori atomici era appena più forte di quello di un orologio elettrico. Gli astronauti tornarono ai loro posti continuando a tenere d’occhio la forma smisurata che ora bloccava la vista delle stelle.

Nelle ultime quattro settimane avevano esaminato, e aggiunto alla nuova carta spaziale in preparazione, nove nuovi asteroidi.

Ora, con il loro istinto di esperti navigatori spaziali, erano certi che quello era qualcosa di diverso.

A tre chilometri, il profilo fu sufficientemente chiaro da non lasciare dubbi. — È una stupida astronave — disse Craigie.

— Cristo! Così grande?

Nello spazio sconfinato, senza normali punti di riferimento, le distanze ingannano l’occhio. Carlsen premette alcuni tasti sul computer. Dabrowsky, da dietro le spalle di Carlsen, esclamò incredulo:

— Ottanta chilometri?

— Impossibile — disse Graigie.

Dopo aver scambiato un’occhiata con Carlsen, Dabrowsky premette altri tasti e guardò il risultato.

— Quarantanove miglia e sessantaquattro. Quasi ottanta chilometri di lunghezza.

Adesso la forma grigio-nerastra bloccava tutta la vista dell’oblò principale, eppure non era possibile distinguere i particolari. Sembrava solo un’immensa muraglia. Il tenente Ives disse:

— La mia è soltanto un’idea, Comandante… Ma non sarebbe meglio, prima di avvicinarci maggiormente, mandare un messaggio alla base e aspettare la risposta?

— Ci vorranno almeno quaranta minuti — rispose Carlsen. — Preferisco avvicinarmi ancora un po’.

La base, sulla Luna, era lontana trecentoventi milioni di chilometri. Viaggiando alla velocità della luce la risposta sarebbe giunta in circa mezz’ora.

Adesso i motori erano silenziosi. Stavano navigando verso quella misteriosa astronave a ottanta chilometri all’ora. Il Comandante Carlsen fece spegnere tutte le luci della cabina.

A poco a poco, mentre la loro vista si adattava, cominciarono a vedere meglio la parete metallica grigio-scuro, che pareva assorbire la luce del sole. Quando arrivarono a poche centinaia di metri Carlsen fece fermare i motori della “Hermes”.

I sette astronauti si avvicinarono all’oblò. Attraverso lo spesso cristallo, trasparente come acqua limpida, potevano vedere la parete del misterioso vascello spaziale, torreggiante come una scogliera metallica che si stenda a perdita d’occhio.

Guardando verso il basso, vedevano la stessa ciclopica parete affondare come inghiottita dall’infinito dello spazio.

Erano tutti abituati all’assenza di gravità, ma guardare verso il basso causava ancora un senso di vertigine. Alcuni si ritrassero.

A quella distanza era evidente che la misteriosa astronave era un relitto alla deriva. La parete era a struttura granulare, e butterata. A un centinaio di metri sulla destra c’era uno squarcio largo circa tre metri. Alla luce del riflettore fu possibile notare lo spessore della parete metallica: quindici centimetri buoni. Spostarono lentamente il fascio di luce e videro altre profonde intaccature, e fori più piccoli provocati certo da meteore.

Steinberg, l’astronavigatore, disse: — Sembra che sia stata in battaglia.

— Può darsi. Ma è più probabile che sia incappata in una tempesta meteoritica.

Guardarono il Comandante Carlsen in silenzio.

— O una tempesta meteoritica, o è qui da un bel pezzo — disse lui.

Non c’era bisogno di chiedergli cosa volesse dire. Le possibilità che una astronave venga colpita da una meteora sono più o meno le stesse che una nave tradizionale ha, in pieno Atlantico, di urtare un relitto alla deriva.

Per essere ridotta così, quell’astronave doveva essere nello spazio da millenni.

Graigie, il marconista scozzese, disse: — Non mi va questa faccenda. C’è qualcosa di losco.

Anche gli altri si sentivano inquieti. Il Comandante Carlsen disse, con voce calma: — Potrebbe anche essere la più grande scoperta scientifica del ventunesimo secolo.

Nell’eccitazione e nella tensione di quell’ultima ora, nessuno ci aveva pensato. Ora, grazie all’intuizione quasi telepatica che si sviluppa fra gli uomini dello spazio, accomunandoli, tutti capirono quello che Carlsen pensava. Quella scoperta poteva renderli tutti più celebri del primo uomo che aveva messo piede sulla Luna. Avevano trovato un’astronave che evidentemente non era di provenienza terrestre. La scoperta dimostrava, al di là di ogni dubbio, che in altre galassie esistevano forme di vita intelligente.

Un ticchettio dalla radio li fece sussultare. Stava per arrivare la risposta dalla base lunare. Udirono la voce di Dan Zelensky, il sovrintendente capo. Dal tono era chiaro che il loro messaggio aveva già prodotto grande agitazione.

— Bene. Ma procedete con precauzione e fate tutti i controlli di radioattività e virus spaziali. Comunicateci i risultati appena possibile.

Nel più completo silenzio, tutti ascoltarono anche la risposta dettata a Craigie da Carlsen. La voce di Craigie era emozionata.

— Si tratta indubbiamente di un’astronave extraterrestre. Sarà lunga circa ottanta chilometri e alta quaranta. Sembra un incredibile castello galleggiante nello spazio. Riteniamo improbabile che ci sia vita a bordo. Si trova qui forse da vari secoli. Chiediamo il permesso di esplorare l’astronave. — Il messaggio venne ripetuto sei volte, a intervalli di un minuto, in modo che se ci fossero stati disturbi alla ricezione, alla fine sarebbe stato possibile comunque capirlo.

Attesero la risposta per un’ora, e intanto la “Hermes” ondeggiava accanto all’astronave misteriosa, a volte urtandola piano. Gli uomini mangiarono carne in scatola e spinaci, e coronarono il pasto con whisky scozzese. L’eccitazione della scoperta aveva messo a tutti una fame da lupo.

Poi udirono di nuovo la voce di Zelensky, greve di tensione. — Vi preghiamo di prendere ogni precauzione. Preparatevi a tornare immediatamente alla base lunare in caso di pericolo. Vi consigliamo una notte di riposo prima di rischiare l’esplorazione dell’astronave. Abbiamo consultato John Skeat dell’Osservatorio di Monte Palomar, e anche lui si dichiara sbalordito. Ha fatto notare che se questa astronave è davvero lunga ottanta chilometri la si sarebbe dovuta scoprire già alla fine del secolo diciassettesimo. Fotografie a lunga esposizione, tutte quelle che abbiamo potuto studiare, non mostrano niente in quella zona dello spazio. Vi raccomandiamo di completare tutti gli esami d’obbligo prima di salire a bordo.

Riascoltarono il messaggio diverse volte, con attenzione, anche se non diceva loro niente che non avessero potuto prevedere. La vita nello spazio è spesso monotona e la solitudine qualche volta pesa. Ora venivano a sentirsi improvvisamente al centro dell’attenzione universale. Sapevano che a quell’ora sulla Terra la notizia era stata diffusa dalla televisione di tutti i paesi. Da due ore erano entrati nella storia.

In quel momento a Londra erano le sette di sera. Sulla “Hermes” gli uomini regolavano i loro giorni con l’ora di Greenwich: era un modo per mantenersi in contatto col loro mondo. Ora li aspettava una serata scialba, dopo tutta l’emozione della giornata. Carlsen fece distribuire una razione supplementare di whisky, ma non tanto da ubriacare qualcuno. Non voleva salire a bordo dell’astronave sconosciuta con un equipaggio sofferente dei postumi di una sbronza.

Insieme con Giles Farmes, l’ufficiale medico, Carlsen manovrò la “Hermes” in modo che un portello di uscita venisse a trovarsi esattamente di fronte allo squarcio che si apriva nello scafo della gigantesca astronave, e un paio di robot teleguidati vi entrarono per prelevare dal relitto campioni di polvere cosmica. Le analisi, tese a rilevare la presenza di virus spaziali, risultarono negative. (Dopo il disastro della “Ganimede”, avvenuto nel 2013, gli astronauti erano diventati sensibilissimi ai pericoli che potevano portare sulla terra con la loro astronave). Trovarono leggere tracce di radioattività, ma non superiori a quelle riscontrabili in una polvere che fosse stata esposta a periodici scoppi di radiazioni dovute a eruzioni solari. Le fotografie scattate dai robot mostravano un ampio locale le cui dimensioni era difficile stabilire. Nell’ultimo bollettino emesso prima di andare a dormire, il Comandante Carlsen disse che secondo lui l’astronave doveva essere stata costruita da giganti. Una frase di cui si sarebbe pentito.

Nessuno riuscì ad addormentarsi facilmente, Carlsen restò sveglio a lungo, chiedendosi come sarebbe stata d’ora in avanti la sua vita. Quarantacinque anni, di origine norvegese, Olaf Carlsen era sposato con una bella ragazza bionda di Alesund alla quale non piaceva che lui compisse viaggi di sei mesi a esplorare lo spazio. Adesso c’era la probabilità che Carlsen tornasse sulla Terra definitivamente. Come capitano della spedizione avrebbe avuto il diritto di scrivere e vendere i primi articoli e il primo libro sulla sua scoperta. Sarebbe bastato questo a farlo diventare ricco. Gli sarebbe piaciuto comprarsi una fattoria in una delle Isole Ebridi che tanto amava, e passare un paio d’anni a esplorare i vulcani dell’Islanda… Questi allettanti progetti, invece di conciliargli il sonno, aumentarono la sua eccitazione. Alle tre del mattino si decise a prendere un leggero sonnifero. Si addormentò, ma per il resto della notte sognò giganti e castelli popolati da fantasmi.


Finirono di fare colazione prima delle dieci. Nel frattempo Carlsen aveva deciso chi sarebbe andato con lui a bordo del relitto. Scelse Craigie, Ives e Murchison, il secondo ingegnere. Murchison era grande e grosso, e Carlsen si sentiva in un certo senso tranquillizzato all’idea di averlo nel gruppo.

Dabrowsky caricò la minicamera con pellicola sufficiente a due ore di ripresa. Se ne servì per riprendere la scena dei compagni che si infilavano le tute spaziali, poi chiese a ognuno di loro di dire quello che provava in quel momento. Vedeva già il suo documentario trasmesso alla televisione.

Steinberg, un giovane ebreo di New York, aveva l’aria cupa e malinconica. Carlsen si chiese se fosse offeso per non essere stato incluso nel numero di quelli che sarebbero andati sull’astronave. — Come ti senti, Dave? — gli domandò. — Bene — rispose Dave. Ma quando vide che Carlsen inarcava un sopracciglio, aggiunse: — Ho una specie di presentimento… non so. Quell’astronave mi dà i brividi.

Carlsen provò una stretta allo stomaco. Si ricordava che Steinberg aveva avuto un presentimento simile tre anni prima, poco prima che la “Hermes” rischiasse di avere un incidente fatale sull’asteroide Hidalgo. Quella volta, una superficie che sembrava solida era sprofondata sotto di loro, danneggiando seriamente le apparecchiature per l’atterraggio, e provocando il ferimento del geologo Dixon. Dixon era morto due giorni dopo. Carlsen cercò di non lasciarsi vincere dall’apprensione.

— Siamo tutti un po’ agitati — disse. — Basta guardarla quella cosa… Sembra il castello di Frankenstein!

Dabrowsky disse: — Olaf, vuoi fare una breve dichiarazione?

Carlsen si strinse nelle spalle. Odiava l’aspetto pubblicitario delle esplorazioni, ma faceva parte del lavoro anche quello. Rassegnato, si sedette sullo sgabello di fronte alla minicamera.

Per incoraggiarlo Dabrowsky cominciò: — Come ci si sente all’idea di…

— Ecco, non sappiamo affatto che cosa troveremo là dentro. Non sappiamo niente di quell’astronave. Il professor Skeat dell’Osservatorio di Monte Palomar ritiene molto strano che quel relitto non sia stato notato prima date le sue dimensioni… una lunghezza di ottanta chilometri, più o meno. Gli astronomi sono riusciti a scoprire frammenti di asteroidi lunghi poco più di tre chilometri, servendosi della comparazione fotografica. Può darsi che questa gigantesca astronave sia risultata invisibile a causa del suo colore… è un grigio talmente opaco che non riflette la luce… Dunque, direi che… — S’interruppe. Aveva perso il filo.

Dabrowsky fu pronto a intervenire. — È un grande momento, dunque…

— Sì, certo, naturale… Siamo tutti eccitati… — Per quello che lo riguardava, non era vero. Carlsen era sempre calmo e controllato nei momenti decisivi. — Questo potrebbe essere il nostro primo vero contatto con forme di vita aliene, appartenenti ad altre galassie. D’altro canto, questa astronave potrebbe essere antica, molto antica, e i suoi…

— Antica quanto?

— Come diavolo faccio a saperlo? A giudicare dalle condizioni dello scafo potrebbe essere qui da un periodo che sta fra i diecimila anni e i dieci milioni di anni…

— Dieci milioni?

Carlsen perse la pazienza. — Oh, Cristo, ferma quella macchina! Credi di essere in uno studio cinematografico?

— Scusami, capo — gli diede una manata sulla spalla. — Non è colpa tua, Joe. Solo che io non sopporto tutte queste storie.

Si rivolse ai tre compagni che aspettavano, già pronti.

— Su, andiamo.

Entrò per primo nel compartimento stagno. Sarebbero passati uno per volta, per motivi di sicurezza. Le potenti calamite applicate alle suole delle scarpe simulavano l’esistenza della gravità. Quando si sporse a guardare nel baratro, Carlsen provò un senso di vertigine. Si spinse fuori con cautela, poi sbatté il portello alle sue spalle. Nel vuoto, il colpo non fece alcun rumore. Si diede una spinta con le mani, superò la distanza fra le due astronavi, poco meno di due metri, e passò dallo squarcio slabbrato. Aveva a tracolla la telecamera. La sua torcia elettrica non era più grande di una normale lampada, ma le batterie atomiche che la alimentavano permettevano di proiettare il raggio di luce per chilometri. Il pavimento metallico era a cinque o sei metri sotto di lui. Ma quando vi appoggiò i piedi, Carlsen rimbalzò in alto. Evidentemente era antimagnetico. Carlsen si lasciò posare, librandosi a testa in giù, leggero come un palloncino. Si sedette sul pavimento e rivolse il raggio della lampada verso lo squarcio da dove era entrato, per segnalare che tutto andava bene. Poi si guardò intorno.

Per un momento ebbe l’illusione di essere a Londra o a New York. Poi vide che le altissime strutture torreggianti che gli erano sembrate grattacieli erano in realtà colonne che andavano dal pavimento al soffitto lontano. Tutto aveva dimensioni incredibili. La colonna più vicina, quella a un centinaio di metri da lui, aveva le dimensioni dell’Empire State Building, e doveva essere alta più di trecento metri. Era cilindrica e scanalata. In cima si diramava come un albero. Fece scorrere la luce tutto intorno. Era come guardare lungo le navate di una gigantesca cattedrale, o fra i tronchi di una foresta incantata. Pavimento e colonne erano di colore perlaceo con sfumature verdi. La parete più vicina saliva diritta per oltre quattrocento metri, tutta coperta da strane figure e disegni colorati. Indietreggiò lentamente verso la colonna. Malgrado la sua assenza di peso un urto avrebbe potuto danneggiare la tuta spaziale. Poi si librò in alto. Allargò il raggio della lampada illuminando un’area di venti o trenta metri. Era così sbalordito che non gli era nemmeno venuto in mente di comunicare con gli altri. Gli arrivò la voce di Craigie. — Tutto bene, Comandante?

— Sì. È un posto da favola. Come un’immensa cattedrale con gigantesche colonne alte centinaia di metri. E c’è una parete tutta dipinta.

— Che genere di dipinti?

Già, che genere di dipinti? Come avrebbe potuto descriverli? Non era arte astratta. Rappresentavano qualcosa, ma che cosa? Si rivide bambino, sdraiato in un bosco, in mezzo a un fiorire di campanule azzurre che affondavano i lunghi steli biancastri nel terreno muschioso. Quei dipinti forse rappresentavano una foresta tropicale con una vegetazione bizzarra, o una foresta sul fondo del mare, fitta di cespugli di alghe e di corallo. I colori erano l’azzurro, il verde, il bianco e l’argento. I disegni avevano una complessità affascinante. Carlsen era convinto che si trattava di un lavoro di grande valore artistico.

Altri raggi di luce forarono il buio. Craigie, Ives e Murchison gli fluttuarono accanto con movimenti da nuotatori subacquei. Murchison, nel passare, lo risucchiò con sé per un paio di metri.

— Che ne pensi, capitano? Secondo te erano giganti?

Carlsen scosse la testa, poi si ricordò che Murchison non poteva vedere il gesto a causa del casco. — Per il momento non possiamo azzardare ipotesi — disse. E aggiunse: — Cerchiamo di stare vicini. Vorrei vedere cosa c’è da quella parte… — Mise in funzione la telecamera e si mosse.

A destra, fra le colonne, gli parve d’intravedere un’enorme scalinata. Continuò a filmare e intanto commentava al microfono quello che vedeva per far partecipare all’esplorazione i compagni rimasti sulla “Hermes”. Parlando, si rendeva conto che le sue parole non riuscivano a dare un’idea precisa della sconfinata costruzione.

Quattrocento metri più avanti incontrarono l’imbocco di un ampio corridoio che portava verso il centro dell’astronave. Il soffitto era a volta come in un edificio medioevale. Lì dentro tutto era alieno e insieme bizzarramente familiare. Rivolgendosi a Craigie, il Comandante disse: — Se fossimo stati noi terrestri a costruire questa astronave, le avremmo dato un aspetto meccanico: colonne quadrate e bulloni. Non so chi l’abbia costruita ma è certo che avevano il gusto del bello.

In alto, molto in alto, sulla parete di sinistra c’era una grata circolare che ricordava una finestra a mosaico. Carlsen fluttuò in quella direzione. Da vicino, vide che la grata aveva uno scopo pratico. Era alta trenta metri e aveva lo spessore di circa un metro e mezzo. I fori della grata erano larghi vari metri. Carlsen s’infilò in uno dei passaggi e diresse il raggio della torcia verso il basso. La telecamera intanto riprendeva tutto automaticamente. Carlsen guardò e rimase senza fiato. Sotto di sé vedeva un paesaggio di sogno. Infinite scalinate emergevano dall’oscurità per perdersi in altra oscurità nei meandri dell’astronave. C’erano passaggi aerei, e gallerie le cui volte facevano pensare ad ali di rondini. E oltre, ancora scalinate, e gallerie, e passaggi.

Quando udì la voce di Craigie chiedere: — Tutto bene? — Carlsen si rese conto che da parecchi minuti non parlava. Si sentiva sbalordito e travolto da quell’immensità che lo metteva a disagio. Gli sembrava di essere dentro a un incubo.

— Sì, tutto bene — rispose — ma non riesco a descrivere quello che vedo. Dovrete vedere coi vostri occhi. — Si diede una leggera spinta in avanti, con la massima cautela.

Ives chiese: — Ma quale scopo potevano avere?

— Non so se avevano uno scopo.

— Cosa?

— Intendo uno scopo pratico. Forse è come un quadro o una sinfonia: vuole solo suscitare emozioni. O forse è una specie di mappa.

— Che cosa? — La voce di Dabrowsky suonò incredula.

— Una mappa… della mente. Ma bisogna vedere per capire.

— Nessuna traccia della cabina di comando o della sala macchine?

— No, ma se l’astronave funzionava a reazione, dovrebbero essere in coda.

Adesso si stava librando sopra una scalinata, che da lontano poteva anche far pensare a una scala di sicurezza, ma da vicino Carlsen si accorse che il metallo aveva lo spessore d’un metro, che i gradini erano alti più di un metro, che erano larghissimi e dello stesso materiale color argento opaco del pavimento. Non c’erano ringhiere. Carlsen salì verso la sommità della scalinata fino a una galleria sostenuta da pilastri. Un passaggio aereo, anch’esso senza ringhiera, faceva da ponte su un baratro largo forse ottocento metri.

Dal basso Craigie chiese: — Riesci a vedere quella luce? — e indicò.

Carlsen disse: — Spegnete tutte le lampade. — Si trovarono subito immersi nel buio che li rinserrò come in una tomba. Poi, a mano a mano che la vista si adattava all’oscurità, Carlsen si rese conto che Craigie aveva ragione. C’era un chiarore in un punto, verso il centro dell’astronave, una specie di riflesso verdognolo. Guardò il suo contatore Geiger: segnava un tasso leggermente più altro del solito ma molto sotto il livello di pericolo. Disse a Dabrowsky: — Vedo un debole chiarore. Vado a vedere di cosa si tratta.

Era una tentazione prendere come punto d’appoggio la scalinata e da lì lanciarsi in avanti per superare il baratro in volo veloce. Ma dieci anni d’esperienza gli avevano insegnato a dominare gli impulsi. Seguendo il passaggio aereo come guida si lasciò calare lentamente verso il chiarore. Intanto teneva d’occhio il Geiger. Lo strumento segnò l’aumento di qualche grado mentre lui si avvicinava alla luce, ma sempre sotto il livello di pericolo, e poi la tuta spaziale l’avrebbe protetto.

Il bagliore era più lontano di quanto gli era sembrato. Gli altri l’avevano seguito, e adesso i quattro uomini passavano fluttuando davanti a gallerie che sembravano realizzate da un pazzo architetto del Rinascimento, e a rampe di scale che sembrava non avessero né principio né fine. C’erano altre enormi colonne, che lì terminavano a mezz’aria, come se il soffitto fosse crollato.

Quando Carlsen ne sfiorò una, notò che erano coperte di una polvere biancastra, simile a polvere di zolfo o di licopodio. Ne grattò un poco e la mise in un sacchetto per campioni.

Mezz’ora più tardi il bagliore era decisamente più luminoso. Carlsen guardò l’orologio, e con sorpresa si accorse che era quasi la una. Si rese conto allora di aver fame. Avevano spento le torce, e ora procedevano lasciandosi guidare dalla vaga luminosità verdognola. La luce adesso sembrava provenire direttamente dal basso.

La voce di Dabrowsky arrivò loro dalla “Hermes”. — Comandante, abbiamo ricevuto un messaggio dalla base lunare. Zelensky mi ha detto di riferiti che ha visto tua moglie Jelka e i bambini in televisione.

In qualsiasi altro momento la notizia gli avrebbe fatto piacere. Adesso tutto gli appariva stranamente remoto, non tanto nello spazio quanto… come se appartenesse a una esistenza precedente, ecco. Dabrowsky stava ancora parlando. — Zelensky dice che ci sono circa quattro miliardi di persone davanti ai teleschermi in attesa di notizie. Posso trasmettere un primo rapporto?

Carlsen rispose: — No. aspettiamo ancora. Stiamo per arrivare a quella luce. Vediamo prima di che si tratta.

Adesso vedeva chiaramente che la luce sgorgava da una specie di enorme pozzo che si apriva nel pavimento sottostante, e veniva su come il getto di una fontana. Quella luce dalla colorazione verdazzurra gli faceva pensare ai prati sotto la luna. Colto da un improvviso senso di euforia si diede una forte spinta verso il basso. Ives l’ammonì: — Ehi, capo, andateci piano! — Lui si sentiva come una rondine che plana verso terra. Gli orli del baratro erano a circa trecento metri sotto di lui. Riusciva ora a distinguere un buco rettangolare che visto dall’alto sembrava l’imbocco di una valle coperta di nuvole fra montagne a strapiombo. Il contatore Geiger superava ora il livello di pericolo, ma le loro tute li avrebbero protetti, ancora per un certo tempo.

Il pozzo in cui stavano calandosi era profondo circa un chilometro e mezzo e largo trecentocinquanta metri. Le pareti — poiché c’erano delle pareti — erano coperte di disegni uguali a quelli che decoravano il primo immenso compartimento. La luce veniva dal pavimento e da una enorme colonna situata al centro. Si udì la voce di Murchison chiedere: — Cosa diavolo è? Un monumento? — Poi Craigie disse: — È di vetro!

Carlsen allungò le braccia per attutire l’impatto col pavimento, si rotolò come un paracadutista e rimbalzò per un centinaio di metri. Quando riuscì a rimettersi in piedi si trovò alla base del piedestallo della colonna trasparente che a Murchison aveva dato l’idea di un monumento.

Anche quella colonna, come tutto sull’astronave, era molto più grande di quanto sembrava a prima vista. Carlsen calcolò che il diametro doveva essere di almeno cinquanta metri. Lo disse a voce alta, per il documentario. All’interno della colonna si vedevano sospese vaghe forme enormi. Nella luce fosforescente sembravano giganteschi polipi neri.

Carlsen si spinse in avanti e in su finché si trovò davanti a una di quelle forme. Vi diresse sopra il raggio della torcia. Nella luce fortissima, Carlsen si accorse che era arancione, non nera. Da vicino non sembrava più un polipo ma piuttosto un groviglio di rampicanti fungosi emergenti da un’unica radice.

Arrivato di fianco a lui Ives chiese: — Che cosa ne pensi, capitano?

Carlsen intuì quello che Ives stava pensando. — Non credo che siano state queste cose a costruire l’astronave — disse.

Murchison premette il vetro del casco contro la colonna per avvicinarsi il più possibile. — Che cosa saranno? Vegetali? O una specie di seppie?

— Probabilmente né l’uno né l’altro. Forse sono una forma di vita del tutto sconosciuta.

Murchison esclamò: — Dio mio!

Nell’esclamazione Carlsen avvertì un senso di paura che gli fece battere il cuore. Quando parlò, anche la sua voce uscì strozzata. — Cos’è quello?

Qualcosa di indistinto si muoveva dietro quelle seppie bizzarre. La voce di Craigie disse: — Sono io!

— Che razza di scherzo è questo? — La voce di Carlsen vibrava di collera.

— Sono dentro al tubo — disse Craigie. — È aperto in alto ed è cavo. Vedo qualcosa giù in fondo.

Con cautela, Carlsen si spinse verso l’alto premendo le mani guantate contro il vetro della colonna. Nonostante il condizionamento termico della tuta, sudava. Si librò fin sopra la sommità della colonna, compì una virata e riuscì a fermarsi. Allora vide che, come aveva detto Craigie, la colonna era cava. Nell’intercapedine fra i due enormi cilindri, larga circa tre metri, galleggiavano le curiose forme di octopodi. Guardando in giù nel cuore della colonna, Carlsen notò che la luce verdazzurra era più intensa verso il basso. Veniva dunque su dal fondo della colonna, o meglio da sotto il pavimento.

— Donald? Dove sei?

Craigie rispose: — Sono qui sotto. Per me questi sono gli alloggiamenti.

Carlsen allungò un braccio per afferrare Murchison che si era dato una spinta troppo energica e stava per finire chissà dove. Poi, senza parlare, i due uomini si calarono lentamente a testa in giù nell’interno della colonna scendendo, con disinvoltura dovuta all’abitudine, verso la luce verdazzurra. Dopo pochi istanti si trovarono immersi in una specie di infinito mare blu che ricordò a Carlsen la Grotta Azzurra di Capri. Guardando in su, il Comandante notò che il soffitto, ovvero il pavimento del locale da cui erano discesi, era semitrasparente, come di cristallo.

Il chiarore che avevano visto dall’alto era la luce che veniva su da lì, e che filtrava attraverso quel soffitto-pavimento. Contro la parete di destra, un’altra scalinata scendeva ancora più in basso. Le dimensioni, però, erano adesso più simili a quelle della “Hermes”. La luce, lì, veniva dalle pareti e dal pavimento. C’erano costruzioni al centro dell’area, quadrate e anch’esse semitrasparenti. E a circa trecento metri di distanza, a un’estremità del locale, sembrò a Carlsen di vedere delle stelle risplendere nell’oscurità. Parte della parete era stata lacerata: si vedeva la spessa lastra metallica spaccata e ripiegata all’indietro, come se qualcuno l’avesse sfondata con un martello da gigante. Carlsen puntò l’indice. — Probabilmente è questo che ha bloccato qui l’astronave.

Il fascino morboso che sempre emana da una tragedia li attirò sul posto. Dalla “Hermes” Dabrowsky stava chiedendo altri particolari.

Carlsen si fermò sull’orlo dello squarcio osservando la paratia contorta. — Qualcosa di molto grosso ha aperto un altro foro nello scafo, un buco largo circa trenta metri. Forse è stato prodotto da un corpo incandescente, perché in certi punti il metallo pare fuso. L’aria dev’essere fuoriuscita dall’astronave in pochi secondi, se questa zona non era isolata dal resto. E comunque, chi si trovava qui non è certo sopravvissuto.

Dabrowsky chiese: — E le costruzioni al centro del locale, cosa sono?

— Adesso andiamo a vedere.

Ives, che li aveva raggiunti, chiamò: — Capitano!

Carlsen guardò da quella parte, e vide Ives già vicino alle costruzioni. Faceva scorrere il raggio della lampada su quella specie di cubi. Le pareti erano trasparenti e il fascio luminoso le passava ora da parte a parte, allargandosi a ventaglio.

— Capitano… C’è gente qui dentro!

Carlsen dovette dominare l’impulso di slanciarsi e coprire in un balzo i trecento metri che lo separavano da Ives. Se l’avesse fatto, avrebbe superato le costruzioni e sarebbe finito con forza contro la parete di fondo. Sforzandosi a procedere lentamente, chiese a Ives: — Che genere di gente? Ed è viva?

— No, sono morti. Esseri umani. O per lo meno umanoidi!

Carlsen si fermò davanti alla prima di quelle costruzioni. Le pareti erano perfettamente trasparenti come il pannello d’osservazione della “Hermes”. Nessun dubbio che quelli fossero gli alloggiamenti. Dentro vide oggetti che gli parvero tavoli e sedie, di forma insolita dall’utilizzazione chiarissima. E dietro la parete di vetro, a sessanta centimetri da lui c’era disteso un uomo. Era calvo, con le guance incavate e giallastre, gli occhi fissi al soffitto. Il corpo era coperto da un lenzuolo di tela grezza, e sotto il lenzuolo ben teso si indovinava la sagoma delle cinghie che evidentemente servivano a tenere il corpo aderente al letto.

Murchison disse: — Capitano, qui c’è una donna. — Stava guardando nel cubo vicino.

Craigie, Ives e Carlsen lo raggiunsero. La figura assicurata al letto era indiscutibilmente femminile. Sarebbe stato evidente che si trattava di una donna anche senza il rigonfio del seno, sotto il lenzuolo. Il viso aveva lineamenti delicati. Le labbra erano rosee. Gli uomini non vedevano una donna da quasi un anno, e tutti provarono un acuto senso di nostalgia e una forte reazione fisica.

— È bionda, anche — disse Murchison.

Più che biondi, i capelli erano color champagne, quasi bianchi, e tagliati cortissimi.

Craigie disse: — Qui ce n’è un’altra. — Questa aveva i capelli scuri ed era più giovane della prima. Sarebbe stata anche carina se non fosse stato per il colorito cadaverico.

I cubi trasparenti erano separati fra loro di qualche metro, e a Carlsen vennero in mente le tombe degli egizi. Le contarono. Ce n’erano trenta. In ognuna c’era un individuo addormentato o in stato di animazione sospesa. Erano otto uomini e sei donne anziani, sei maschi giovani e dieci donne fra i diciotto e i venticinque anni.

— Ma come diavolo sono entrati in questi cubi di vetro?

Già. Murchison aveva ragione. Non c’erano porte in quei grossi cubi. Fecero il giro di due o tre cabine. Il vetro era solido e tutto d’un pezzo. Il soffitto, di vetro semitrasparente, sembrava fuso con il resto.

— Eppure non sono tombe — disse Carlsen — altrimenti perché ci sarebbero i mobili?

— Gli antichi egizi venivano sepolti in tombe arredate e decorate — disse Ives che era appassionato di archeologia.

Senza un motivo preciso, l’osservazione irritò Carlsen. — Gli egizi avevano la mania di portarsi i loro beni nell’aldilà. Questi esseri non sembrano tanto stupidi!

Craigie disse: — Chissà. Forse sperano di risuscitare.

Carlsen ebbe uno scatto di collera. — Non diciamo sciocchezze — disse. Poi, notando lo sguardo sorpreso di Craigie attraverso il vetro del casco, aggiunse: — Scusatemi. Dev’essere la fame che mi rende nervoso.


Sulla “Hermes”, Steinberg aveva cucinato i viveri destinati al pranzo di Natale. Erano solo a metà ottobre, e secondo i piani stabiliti dovevano iniziare il viaggio di ritorno sulla Terra nella seconda settimana di novembre, per arrivare a metà gennaio. (Alla velocità massima la “Hermes” percorreva circa sei milioni e mezzo di chilometri al giorno). Ma adesso tutti erano convinti che sarebbero partiti molto, molto prima. La loro scoperta era infinitamente più importante di altri dieci o dodici asteroidi insignificanti.

A bordo l’atmosfera era allegra e festiva. Bevvero champagne con l’oca arrosto, e brandy col tradizionale dolce di Natale.

Ives, Murchison e Craigie parlavano senza sosta. Gli altri erano contenti d’ascoltare. Carlsen si sentiva particolarmente stanco, come se non avesse dormito da chissà quanto tempo. Gli sembrava che tutto fosse vagamente irreale. Si chiese se poteva essere effetto della radioattività, poi respinse l’idea. Se fosse stato così, ne avrebbero risentito anche gli altri. Le loro tute spaziali erano adesso nella camera di decontaminazione e gli strumenti indicavano che l’assorbimento era stato insignificante.

Giles Farmer disse: — Tu, Olaf, non dici niente?

— Sono un po’ stanco — rispose Carlsen.

Dabrowsky gli chiese: — Hai una tua teoria? Secondo te per quale motivo hanno costruito quell’astronave?

Tutti aspettarono in silenzio la sua risposta, Carlsen si limitò a scuotere la testa.

— Allora vi dico la mia — disse Farmer. Stava fumando la pipa e se ne servì per gesticolare. — Da quello che avete detto sembrerebbe che le scalinate non hanno uno scopo pratico. Giusto? Quindi, come ha detto Olaf questa mattina, si tratta forse di un altro scopo… estetico o religioso.

— Va bene — disse Steinberg — ammettiamo che sia una specie di cattedrale galleggiante nello spazio. Vi pare logico?

— Lasciami continuare. Dobbiamo tenere conto del fatto che quegli esseri non appartengono al sistema solare. Perciò devono venire da un altro sistema, forse da un’altra galassia…

— Impossibile… dovrebbero aver viaggiato centinaia di milioni d’anni.

— D’accordo — disse il dottor Farmer, imperturbabile. — Allora diciamo che sono venuti da un altro sistema solare. Viaggiando a metà della velocità della luce, Alfa Centauri è solo a nove anni di distanza. — Fece un gesto perché non l’interrompessero. — Sappiamo che devono essere venuti da un altro sistema. La domanda è: quale? E se sono venuti da tanto lontano, le dimensioni dell’astronave sono giustificate. Quell’astronave è l’equivalente di un nostro transatlantico. Al confronto la nostra “Hermes” è soltanto un motoscafo. Ora… — e si rivolse a Ives — se una popolazione emigra, cosa porta con sé per primo?

— Il suo dio.

— Giusto. Gli israeliti viaggiavano portando con sé l’Arca dell’Alleanza. Queste creature si sono portate una cattedrale.

Steinberg disse: — Insisto che non è logico. Se noi emigrassimo su Marte non ci porteremmo la Cattedrale di Canterbury. Ne costruiremmo un’altra su Marte.

— Non dimentichiamo che la cattedrale è anche una casa. Ammettiamo che atterrino su Marte. Non è un pianeta ospitale. Potrebbero impiegare anni a costruire una città sotto una cupola di vetro. Così, si sono portati una cupola già fatta.

Gli altri ascoltavano attentamente. Dabrowsky chiese: — Ma le scalinate e i passaggi aerei?

— Strutture indispensabili in una nuova città. A mano a mano che la popolazione aumenta, è necessario espandersi, ed è possibile farlo in un’unica direzione: verso l’alto. Quindi hanno costruito lo scheletro di una città a più livelli.

Ives disse, eccitato: — E io dico un’altra cosa. Non erano soli. Forse c’erano altre due o tre astronavi come questa. E non credo che intendessero atterrare su un pianeta come Marte, perché su Marte è impossibile vivere. Direi che la loro intenzione era quella di atterrare sulla Terra.

Tutti lo guardarono. Anche Carlsen si sentì di colpo ben sveglio. Craigie disse sottovoce: — Ma certo…

Restarono tutti in silenzio per un po’. Poi Murchison prese a fischiettare sottovoce.

E poi Steinberg diede voce ai loro pensieri. — Dunque, questi esseri sarebbero i nostri antenati?

— No — disse Craigie. — I nostri antenati sono quelli che la Terra l’hanno raggiunta. Questi sono i loro fratelli…

Si misero a parlare tutti insieme. Poi la voce pacata di Farmer, col calmo accento del Northumberland, si levò sopra le altre. — Quindi, ecco finalmente risolto il problema fondamentale dell’evoluzione umana, e sappiamo perché l’uomo è tanto diverso dalla scimmia. Noi non siamo discesi dalle scimmie ma da quelle creature.

Carlsen chiese: — E allora, l’Uomo di Neanderthal e tutto il resto…

— Una linea d’evoluzione completamente diversa.

Vennero interrotti da un segnale proveniente dalla radio. Craigie sintonizzò l’apparecchio sull’ascolto e tutti si girarono, attenti. Attraverso lo spazio venne la voce di Zelensky, chiarissima: — Signori, una sorpresa per voi. Il Primo Ministro degli Stati Uniti d’Europa, George Magill, desidera parlarvi.

Si guardarono piacevolmente sorpresi. Se al mondo esisteva uno statista degno d’ammirazione, questi era Magill. Era stato lui a costruire l’Unità Mondiale. La sua voce, profonda e familiare, si diffuse nella stanza. — Signori, probabilmente ve ne sarete già resi conto, ma voglio dirvi che oggi siete gli uomini più famosi del nostro sistema solare. Ho appena visto il film che avete ripreso all’interno della nave spaziale. Nonostante i disturbi di ricezione, è il più sensazionale documento che io abbia mai visto. Devo congratularmi con voi per la vostra eccezionale avventura. Avrete… — A questo punto la voce venne soverchiata dai disturbi. Quando tornò chiara, Magill stava dicendo: — …è d’accordo con me che il primo e più importante passo da fare è riportare sulla Terra almeno uno di questi esseri, se possibile più di uno. Naturalmente lasciamo a voi il compito di giudicare se l’impresa è fattibile. Ci rendiamo conto che all’apertura delle cripte i corpi potrebbero polverizzarsi. Ma voi sarete certo in grado di stabilire se le cripte contengono aria o se ne sono prive. Se non c’è atmosfera, allora non dovrebbe esserci problema…

Carlsen borbottò: — Chi è l’idiota che ha tanta fretta? — Poi tacque per non rendere più difficile l’ascolto del messaggio di Magill e restò seduto là, accigliato, mentre il Primo Ministro illustrava l’importanza scientifica e politica della scoperta.

Alla fine risentirono la voce di Zelensky. — Allora, signori, questo è stato il messaggio del Primo Ministro degli Stati Uniti d’Europa. Sono perfettamente d’accordo con lui. Se è possibile, portate un paio di quegli esseri sulla Terra. Immagino che troverete il modo di entrare in quei cubi. Non dimenticate che forse non sono morti ma in stato di animazione sospesa. Se riuscite a recuperare i corpi, chiudeteli nella cella frigorifera della “Hermes” e lasciateveli fino all’arrivo alla base lunare.

Carlsen si alzò e uscì. Andò nella sua cabina, entrò in bagno, poi si distese sul letto. Si addormentò quasi immediatamente.

Quando si svegliò vide Steinberg vicino alla porta. Si rizzò a sedere. — Quanto ho dormito? — chiese.

— Sette ore. Avevi l’aria così stanca che abbiamo deciso di non svegliarti.

— È successo qualcosa nel frattempo?

— Quattro uomini sono appena rientrati. Sono riusciti ad aprire una di quelle tombe.

— Oh, Cristo, e perché? Non potevate aspettare che mi svegliassi?

— Ordine di Zelensky.

— Qui gli ordini li do io, fin che sono il Comandante.

Steinberg sembrò spiacente. — Abbiamo creduto che ti avrebbe fatto piacere. Hanno tagliato un’apertura in una di quelle tombe. Sono sotto vuoto. Il corpo non si è polverizzato, e non dovrebbe esserci problema a metterlo nella cella frigorifera.

Cinque minuti dopo, fregandosi gli occhi ancora assonnati, Carlsen scese nella cabina di comando. Dall’oblò poteva vedere il chiarore verdazzurro che ricordava benissimo. La “Hermes” era riuscita a spostarsi fino allo squarcio che si apriva nell’area dove c’erano i cubi di cristallo, e dall’oblò adesso si potevano vedere abbastanza chiaramente le tombe degli umanoidi.

Dabrowsky disse: — Dave Steinberg te l’ha detto che non è vetro?

— Che cos’è?

— Metallo. Un metallo trasparente. Abbiamo messo la lastra asportata nella camera di decontaminazione, e pare che non sia radioattiva. Niente radioattività neanche nella tomba. Dev’essere un materiale che serve da schermo contro le radiazioni.

— Come siete riusciti a tagliarlo?

— Col laser… un taglio perfetto.

Carlsen disse in tono irritato: — Un’altra volta aspettate i miei ordini! — Troncò ogni replica con un gesto. — Intendevo chiamare la base lunare e consigliare di lasciare le tombe intatte fino a una prossima spedizione. Supponiamo che quegli esseri siano in stato di animazione sospesa, supponiamo che li abbiate uccisi…

— Be’… ce ne sono altri ventinove… — disse Murchison.

— Non è questo il punto. Avete forse distrutto una vita solo perché quei pazzi sulla Terra ignorano il significato della parola pazienza. Sarebbero bastati pochi mesi per mandare qui una spedizione equipaggiata in modo idoneo. L’astronave avrebbe potuto essere rimorchiata fino alla Terra, messa in orbita, e poi studiata per anni. Invece…

Dabrowsky l’interruppe. — Scusa, Comandante, ma è un po’ colpa tua. Li hai resi tu tanto curiosi, parlando di giganti.

— Giganti? — Carlsen aveva dimenticato quello che aveva detto.

— Hai detto che l’astronave sembrava costruita da giganti, e ieri sera sulla Terra tutti l’hanno sentito alla televisione. Esploratori scoprono un’astronave costruita da giganti.

— Oh, Cristo!

— Quindi puoi immaginare la curiosità. Tutti ad aspettare notizie dei giganti. Un’astronave lunga ottanta chilometri costruita da uomini alti cento metri… Sono impazienti di sapere il seguito!

Carlsen guardava dall’oblò con aria cupa. Prese distrattamente una tazza di caffè, ne bevve un sorso, e disse: — Sarà meglio che vada a dare un’occhiata.

Dieci minuti dopo si trovava nella tomba già aperta. Era quella che conteneva l’uomo. Avevano tolto il lenzuolo di tela grezza, tagliandolo. L’uomo, nudo, era fissato al letto con cinghie metalliche. La carne era come ritirata e fredda. Quando la sfiorò appena con l’indice guantato, vibrò come gelatina. L’uomo aveva gli occhi spalancati, vitrei. Carlsen provò a chiudergliene uno, ma la palpebra riscattò indietro.

— Curioso — disse Carlsen.

Dalla “Hermes” Craigie chiese: — Cosa c’è?

— La pelle sembra ancora elastica. — Carlsen guardò le gambe nude, magre, i piedi, le vene azzurrognole in rilievo.

— Come si possono togliere queste cinghie?

— Tagliamole col laser — propose Murchison, che stava alle sue spalle.

— Bene. Proviamo.

Il raggio rosso cupo guizzò dal laser portatile, ma prima che Murchison potesse dirigerlo verso il letto, le cinghie metalliche scattarono e si ritrassero rientrando in fessure nell’orlo del letto.

— Cos’hai fatto? — chiese Carlsen.

— Niente! Non ho nemmeno avuto il tempo di toccarle.

Carlsen mise una mano guantata sotto le gambe dell’uomo e le sollevò. Restarono così, in posizione verticale, ad angolo col corpo, che adesso era sollevato a mezz’aria, la testa un po’ staccata dal rotolo di tela che serviva da cuscino.

Carlsen si volse a Steinberg e Ives che stavano aspettando vicino all’apertura. — Venite a prenderlo.

Misero il corpo in uno di quei grossi astucci di alluminio. Nell’inventario di bordo quei recipienti a forma di sigaro, con due maniglie, simili a una lunga e stretta sacca da viaggio, erano elencati sotto la definizione “contenitori per campioni”. Ma tutti sapevano che servivano da bara per chi moriva nello spazio. Il cadavere di Dixon, il geologo, era stato messo in uno di quei tubi, dopo l’incidente sull’asteroide Hidalgo.

Quando Ives e Steinberg se ne furono andati con il loro carico, Carlsen osservò attentamente tutta la superficie del letto. Era una semplice lastra metallica, senza traccia di pulsanti, leve, o molle. Anche sotto era perfettamente liscia.

Murchison disse: — Forse il meccanismo è azionato dal pensiero.

— Lo scopriremo provando con gli altri — disse Carlsen.

Passarono mezz’ora a osservare e fotografare la tomba ma non scoprirono niente di importante. Tutto sembrava puramente funzionale.

Carlsen osservò con interesse l’operazione del taglio di una parete del secondo cubo. L’analisi spettrografica rivelò che si trattava di una lega sconosciuta, ma il carattere molecolare era tipicamente metallico. Per tutto il resto sembrava vetro. La lastra aveva lo spessore di sette centimetri. Si era chiesto perché Murchison avesse tagliato un’apertura relativamente piccola nel primo cubo. Adesso capì perché. La lega metallica opponeva una notevole resistenza al raggio laser che normalmente poteva tagliare una spessa lastra d’acciaio come se fosse formaggio. Ci vollero più di venti minuti per tagliare una lastra larga sessanta centimetri e alta un metro e venti.

Quella tomba conteneva la ragazza bruna.

Carlsen fece fare le necessarie analisi per rilevare la presenza di virus spaziali e della radioattività, poi entrò. Si accostò al letto, con il suo tagliente coltello lacerò il lenzuolo nel punto in cui si fondeva col metallo del letto, e buttò indietro il telo.

La ragazza giaceva allungata come su una lastra d’obitorio, i piedi uniti. I seni, non schiacciati dalla gravità, erano eretti come se fossero sostenuti da un reggiseno.

— Incredibile — disse Murchison. — Sembra viva.

Era vero. Il corpo non aveva affatto le caratteristiche di un cadavere.

— Potrebbe essere effetto della pressione sanguigna. Se l’hanno messa qui subito dopo la morte, la pressione può essere stata sufficiente a gonfiare un po’ il corpo immerso nel vuoto.

— Comincio col laser o proviamo il comando mentale? — chiese Murchison. L’impazienza evidente nel suo tono fece sorridere Carlsen.

— Proviamo — disse senza staccare gli occhi dalla ragazza. E mentre parlava, le cinghie metalliche si ritrassero di scatto, lasciando lievi impronte sulla pelle nuda del ventre e delle cosce.

— Deve trattarsi di una forma di controllo mentale. Vediamo se è possibile farle richiudere.

Carlsen fissò il letto, concentrandosi, ma le cinghie non riscattarono fuori. Si voltò allora, e fece cenno a Steinberg e a Ives che erano tornati e aspettavano con un altro contenitore.

— Bene. Ora potete portarla in cella frigorifera.

Steinberg disse: — Se non c’è più posto può dormire nel mio letto finché non saremo sulla Terra.

Carlsen sorrise: — Temo che la troverai un po’ frigida — disse. Poi si rivolse a Murchison. — Rientriamo, adesso.

— Non prendiamo un altro corpo? Solo quei due? — chiese Murchison deluso.

— Due bastano, non ti sembra?

— Ma c’è ancora tanto posto nella cella frigorifera!

Carlsen rise. — Va bene. Ancora uno allora.

Murchison si diresse subito verso la tomba della ragazza bionda, come Carlsen si era aspettato. Il Comandante rimase a guardare il raggio del laser che incideva la spessa parete spargendo intorno scintille rossastre.

Tagliato l’ultimo angolo, la lastra oscillò, Murchison barcollò in avanti, e il laser, diretto contro il pavimento, vi scavò un buco.

— Ehi, attento! Ti sei fatto male? — disse Carlsen.

— No. Scusami capo. — Aveva la voce incerta. — Di colpo mi è piombata addosso la stanchezza.

Carlsen lo osservò attentamente attraverso il casco. Murchison aveva la faccia stanca e tirata.

— Torna sulla “Hermes” Bill, e manda qui Dave e Lloyds con un altro contenitore.

Si avvicinò al capezzale. Questa volta, invece di servirsi del coltello, volle tentare un esperimento. Concentrò lo sguardo sul lenzuolo e gli ordinò di ritirarsi. Per un attimo non accadde niente, poi le cinghie metalliche sotto il telo si ritrassero col solito scatto. Subito dopo il lenzuolo scivolò di lato e sparì in un’invisibile fessura dell’orlo.

Carlsen disse: — Certo è così.

— Cosa? — chiese Craigie che da bordo della “Hermes” aveva sentito.

— Ho fatto scattare le cinghie solo ordinando loro di farlo. Ti rendi conto di cosa significa?

— Tecnologia ad alto livello, eh?

— Non solo. Significa soprattutto che queste creature probabilmente sono ancora vive. Le cinghie sono state concepite in modo da rispondere al comando mentale nel momento in cui le creature si sveglieranno. Chissà se… — Fissò la lastra metallica ordinando mentalmente alle cinghie di riallacciarsi, ma non accadde niente. — Già, è logico — disse. — Dopo essersi svegliati non avrebbero più bisogno delle cinghie. Ma come potrebbero uscire, una volta liberi?

— Dall’astronave?

— No. Da questi cubi sigillati.

Appena espresso il pensiero fissò una parete ordinandole l’apertura di una porta. Fu tutta la parete a scorrere di lato.

Proprio in quel momento arrivarono, fluttuando nel vuoto, Ives e Steinberg, con un altro contenitore. — Non state a fare acrobazie per entrare dall’apertura — disse Carlsen. — Passate dalla parete.

— Come diavolo hai fatto?

— Così. — Fissò la parete ordinandole di richiudersi. La parete si chiuse.

— Guardate, adesso. — Dall’interno del cubo, ordinò nuovamente alla parete di aprirsi. La parete ubbidì e Carlsen uscì dal cubo.

— Visto? — disse. — Ubbidisce al pensiero. Ma solo dall’interno. — Riprovò a dare un ordine mentale dall’esterno, ma le pareti non si mossero d’un millimetro. — Ecco. I meccanismi funzionano solo se comandati dall’interno.

Gli uomini stavano già guardando la ragazza. Era più snella dell’altra e aveva qualche anno di più, ma la carne era solida e liscia.

— Andiamo. Torniamo sulla “Hermes”.

Mentre si toglievano le tute spaziali nella camera stagna, Carlsen notò che sia Ives Lloyd sia Dave Steinberg sembravano stravolti. Ives si passava le mani sugli occhi.

— Ho bisogno di un buon sonno — disse.

— Anch’io — disse Steinberg.

— Andate a riposarvi. Ve lo meritate. Lasciate la ragazza, però… — disse Carlsen.

In tono serio Steinberg rispose: — Credimi, sono così esausto che se anche fosse viva non saprei proprio cosa farne.

Mentre si avviavano verso la cabina di comando, Craigie disse: — Abbiamo ricevuto un nuovo ordine dalla base lunare. Bisogna filmare tutto l’interno dell’astronave, lavoro di un giorno, e poi partire subito per la Terra.


In Hyde Park fiorivano i narcisi. Carlsen stava riposando su una sedia a sdraio, gli occhi chiusi, godendosi la bella giornata d’aprile. Era tornato da tre mesi e continuava a trovare tutto talmente bello da dargli quasi dolore.

Trovava penoso sopportare la gravità terrestre, quindi spesso si trovava in uno stato di piacevole spossatezza, quasi fosse convalescente.

Vicino a lui una voce disse: — Scusate, ma non siete il capitano Carlsen?

Aprì gli occhi a malincuore. Ecco una delle seccature della celebrità: gli estranei che lo abbordavano per la strada.

Davanti a lui c’era un giovanotto robusto. Stava lì in controluce, mani in tasca. Carlsen lo guardò corrugando la fronte.

— Non vi ricordate di me? Sono Seth Adams.

Il nome gli ricordava qualcosa, ma lui non sapeva cosa. Disse, tanto per dire: — Ah, sì…

— Mia madre è una vostra amica… Violet Mapleson.

— Sì. Certo. — Adesso ricordava.

— Vi dispiace se parliamo un momento?

Il giovanotto indicò la sedia a sdraio accanto a quella di Carlsen.

— Prego. Accomodatevi — disse Carlsen, rassegnato.

Una voce femminile chiamò: — Seth, vieni o no? — Poi la ragazza si avvicinò. Era vestita di bianco, era carina, e aveva un pechinese al guinzaglio. Il giovanotto le diede un’occhiataccia. — Sì, fra un momento… — ma ormai la ragazza era davanti a Carlsen. A disagio, il giovanotto guardò il capitano. — Ti presento il capitano Olaf Carlsen, vecchio amico di mia madre — disse.

Carlsen si alzò e porse la mano alla ragazza. Lei spalancò gli occhi. — Oh, il Capitano Carlsen! Che bellezza! Avevo tanta voglia di conoscervi… Queenie, sta’ buona! — Il pechinese si era messo ad abbaiare furiosamente contro Carlsen. — Oh, Cristo! — imprecò Seth alzando gli occhi al cielo.

— Non importa — disse Carlsen chinandosi ad accarezzare il pechinese.

— State attento che morde! — disse la ragazza. Ma il cane smise di abbaiare e leccò la mano di Carlsen dopo averla debitamente annusata.

— Oh! Non ha mai fatto così con gli estranei! — esclamò la ragazza.

— Senti, Charlotte — disse Seth — ti spiace andare a casa da sola? Dovrei parlare un momento col Capitano. — Prese la ragazza per il gomito, e il pechinese si mise ad abbaiargli contro.

— Smettila, mostriciattolo! — gli gridò Seth, e il cane si rifugiò fra le caviglie della ragazza. Seth si rivolse a Carlsen con un sorriso ingraziante. — Ci scusate un momento? — disse trascinando con sé la ragazza. Carlsen accennò un mezzo inchino e si rimise a sedere osservando i due giovani con aria ironica. Quel Seth era tale e quale Violet, prepotente e tiranno quando voleva qualcosa.

Venticinque anni prima Carlsen era stato fidanzato con Violet Mapleson, figlia del Comandante Vic Mapleson, il primo uomo che aveva messo piede su Marte.

Quando Carlsen era tornato dal suo primo viaggio di tre mesi nello spazio, l’aveva trovata sposata con Dana Adams, attore della televisione. Il matrimonio era durato due anni, poi lei aveva lasciato Adams per sposare un armatore italiano. Adesso, dopo tre divorzi, Violet era ricchissima.

Carlsen udì la ragazza dire: — Che maniere! — Evidentemente lei avrebbe voluto restare e parlare con Carlsen. Ma Seth era fermamente deciso a mandarla via. Evidente che Seth aveva l’abitudine di fare i suoi comodi.

Pochi minuti dopo la ragazza se ne andò senza voltarsi. Seth tornò da Carlsen e si sedette sulla sdraio vicina. Sorrideva.

— Sarete stufo di tutte le donne che cadono in estasi davanti a voi!

Carlsen cercò di dominare la sua irritazione. — Non è un problema — disse. — Comunque mi è sembrata una ragazza simpatica.

Con magnanimità, Seth disse: — Sì, è simpatica. Ma io volevo parlare con voi, da solo. Mi sono infuriato quando mia madre mi ha detto che l’avevate portata a cena e lei… lei non aveva nemmeno pensato a presentarci.

— Già è vero. È stata una cena tranquilla…

Violet l’aveva cercato appena lui era tornato sulla Terra, e gli aveva proposto una cena a casa sua. Conoscendola bene, Carlsen sapeva che sarebbe stata una serata in grande stile, con lui come attrazione. Si era difeso dicendo che era troppo stanco, il che era vero, e le aveva chiesto di cenare invece loro due al “Savoy”. Violet aveva accettato con buona grazia, e così avevano passato una piacevole serata a parlare dei vecchi tempi. Da allora Carlsen aveva inventato scusa su scusa per evitare di andare a cena a casa di Violet.

Seth si protese in avanti. — Sentite, sarà meglio che metta le carte in tavola: lavoro per un giornale.

— Oh, capisco.

— Forse vi sorprenderà… Il fatto è che mio padre è al verde, e mia madre è tutt’altro che generosa con me… Lei si preoccupa unicamente dei suoi ricevimenti di fine settimana. Al giornale danno cento miseri dollari per una colonna di pettegolezzi sulla “Gazzette”.

Carlsen fece un sorriso di comprensione. Dieci anni prima avrebbe provato una violenta antipatia per quel giovanotto viziato, con tanti capelli ondulati e le labbra sensuali. Adesso l’ascoltava con distacco, chiedendosi come avrebbe potuto abbreviare l’incontro. Chiese: — Volete intervistarmi?

— Sarebbe fantastico… — Dal tono, Carlsen capì che il giovane aveva in mente qualcosa di più. Seth sbirciò Carlsen, e fidando nella sua comprensione disse: — Sarebbe possibile?

Carlsen sorrise. — Direi di sì. Ma c’è un problema. L’istituto ricerche ha indetto una conferenza stampa per le dieci di domani mattina. Io ci sarò. Credete che al vostro direttore possa interessare una seconda intervista?

— È proprio per questo che volevo intervistarvi prima della conferenza stampa.

— Credete che la preferenza potrebbe andare a un’intervista non ufficiale?

— Sono convinto di sì se nella mia si dicessero cose più interessanti che nell’altra.

— Capisco. Avete in mente qualcosa di particolare?

— Ecco, sarebbe davvero un grosso colpo giornalistico se… — Seth Adams stava usando il tono di un ragazzo che parla con il suo idolo di calcio. — Non mi importa se mi mandate al diavolo… io ve lo dico lo stesso… ecco, sarebbe magnifico se potessi entrare nel laboratorio a dare un’occhiata a quelle creature.

Carlsen rise. — Non si può dire che non avete ambizioni.

— Già… — L’espressione di Seth si incupì: l’aveva preso come un rimprovero. — Oscar Phipps del “Tribune” però li ha visti.

— Phipps è un vecchio amico del direttore del laboratorio.

— Lo so. Voi però, per parlare chiaro, siete un vecchio amico di mia madre.

Seth sorrise con aria carica di sottintesi, e Carlsen si rese conto che il giovanotto credeva che lui e sua madre fossero amanti. Forse credeva persino che lui, Carlsen, fosse il suo vero padre.

Per guadagnare tempo, disse: — Non mi sembra però che l’argomento sia adatto a una rubrica di pettegolezzi.

— Certo che no. Ma è proprio qui il punto. Per parlare chiaro, un cronista mondano non è nessuno. Ma se potessi avere un’intervista esclusiva con voi e vedere il laboratorio spaziale, diventerei subito un giornalista serio.

Carlsen si guardò in giro distrattamente, pensando che non gli piaceva la gente che usava come intercalare “per parlare chiaro”. D’altro canto si sentiva un po’ colpevole nei riguardi di Violet. Se avesse rilasciato un’intervista esclusiva a suo figlio si sarebbe disobbligato. Disse: — Dunque volete portare via il posto a un collega?

— Non è che lo voglia, ma se va così… — Gli occhi di Seth brillavano di speranza. Sentiva di aver vinto.

Carlsen sospirò. — D’accordo — disse. Guardò l’orologio. — Andiamo.

— Adesso subito? — Seth pareva non credere alla sua fortuna.

— Sarà meglio, se volete scrivere quell’articolo.

Camminando verso Marble Arch in cerca di un tassi, Seth chiese: — Sarà possibile fare un paio di foto, nel laboratorio?

— Assolutamente impossibile. Severamente proibito: niente macchine fotografiche. Dovreste saperlo.

— Sì, certo.

Nel traffico intenso del pomeriggio, il tassi ci impiegò parecchio da Park Lane a Whitehall. Arrivarono verso le cinque, quando già cominciava a imbrunire. Come aveva previsto, quasi tutto il personale se n’era andato. Il vecchio portiere salutò il capitano.

— Questo giovanotto è con voi? — gli chiese.

— Sì. Andiamo un momento al Club.

Il portiere avrebbe dovuto chiedere a Seth il tesserino, ma poiché conosceva Carlsen da vent’anni, li lasciò passare.

Carlsen si servì del suo tesserino perforato per chiamare la cabina dell’ascensore. Nell’edificio non c’erano scale, quindi nessuno che non fosse in possesso della speciale tessera poteva arrivare oltre l’atrio.

— Andiamo davvero al Club? — chiese Seth.

— Sì. Voglio bere qualcosa.

— Non possiamo vedere il laboratorio, prima?

— Perché no?

Mentre percorrevano il corridoio, Seth disse: — Non ho parole per esprimere la mia riconoscenza. — Alla riconoscenza di Seth, il capitano non credeva gran che. Aveva l’impressione che il giovane considerasse l’appagamento dei suoi desideri un diritto naturale.

A prima vista il laboratorio sembrò vuoto. Poi un giovane assistente in camice bianco uscì dalla stanza dei campioni.

— Buona sera, Comandante. Siete venuto a vedere il film?

— Quale film? — chiese Carlsen.

— La pellicola mandataci dalla “Vega”. È arrivata questa mattina.

La “Vega” era una delle astronavi mandate a fare una nuova esplorazione del misterioso relitto. Le due unità spaziali potevano raggiungere la velocità di sedici milioni di chilometri al giorno.

— Bene. Che novità ci sono?

— Hanno trovato un altro squarcio nella “Stranger”.

Era con quel nome che la stampa aveva battezzato l’astronave alla deriva.

— Grande?

— Parecchio. Dieci metri.

— Incredibile! — Potendo, Carlsen sarebbe corso subito di sopra a vedere. Ma c’era Seth. Il capitano fece le presentazioni. — Seth Adams… Gerald… ho dimenticato il vostro cognome…

— Pike, Comandante.

— Ecco… Pike. A che ora ve ne andate, Gerald?

— Fra una decina di minuti. Perché? Avete bisogno di me?

— No, non importa. Volevo che qualcuno mostrasse il laboratorio al signor Adams mentre io vado di sopra…

Seth disse: — Se avete fretta, forse potrei vedere solo gli alieni.

— Certo, andiamo. — Carlsen precedette i due giovani nella stanza dei campioni. Lungo la parete di fondo erano stati installati di recente lunghi cassetti scorrevoli simili alle lastre di un obitorio. — Sapete dove sono, Gerald? — chiese il capitano.

— Certo, signore. Ora ve li mostro.

Gerald fece uscire un cassetto dalla parete. Dentro c’era il corpo dell’uomo. Aveva ancora gli occhi spalancati e lo sguardo fisso.

Carlsen disse: — Che strano, sembra più vivo di quando l’ho visto l’ultima volta.

Gerald Pike disse: — Sfido, è vivo!

Seth chiese: — Ne siamo sicuri?

— Certo — disse Carlsen. — In caso contrario a quest’ora si sarebbe decomposto.

— Si può svegliarlo?

— Se è possibile, non sappiamo come. Il suo campo vitale è forte, e questo significa che è vivo. Il campo sparisce completamente dopo un certo tempo dalla morte. È in una specie di trance, ma non siamo ancora riusciti a capire come rianimarlo.

Gerald Pike aprì gli altri due cassetti. I due corpi nudi erano esattamente come Carlsen li ricordava, ma le facce non erano più cadaveriche. Le due donne sembravano addormentate. Seth le guardò, affascinato. — Sono belle! — disse con voce strozzata, e allungò una mano. — Posso…

Seth posò delicatamente la mano sul seno della ragazza dai capelli scuri, poi la fece scorrere sfiorando tutto il corpo.

— Incredibile — disse.

Gerald disse: — Sì, sono molto belle. — Da quando i tre corpi erano lì, lui li aveva visti tutti i giorni. — La faccia dell’uomo è estremamente interessante.

Seth chiese: — Che età avranno?

— Chi lo sa! — rispose Gerald. E aggiunse: — Potrebbero essere più antichi della razza umana.

— Quale metodo usate per tentare di farli tornare in vita?

— È alquanto complicato, e non siamo sicuri di niente. Si tratta di rinforzare e alzare il campo lambda con integrazione in diretta…

— Potreste spiegarvi con parole più semplici? — chiese Seth.

Carlsen disse: — Vi lascio soli per cinque minuti, se permettete.

Andò nel suo ufficio e si mise in contatto con la sala proiezione. La sala comparve sul teleschermo. Era affollata e c’era gente anche in piedi. Sullo schermo di proiezione vide la “Stranger” debolmente illuminata dal sole.

Vide lo scafo allontanarsi nello spazio, come se la cinepresa spaziale stesse indietreggiando per l’inquadratura finale, poi lo schermo si spense e la gente cominciò ad alzarsi.

Chiamò l’ufficio del direttore. Sicuramente Bukowsky aveva visto quella proiezione appena il film era arrivato dalla “Vega”. La voce aspra di Bukowsky chiese: — Chi parla?

— Sono Carlsen.

— Olaf! È tutta il pomeriggio che vi cerco!

— Mi spiace, direttore. Mi sono addormentato al sole, a Hyde Park.

— Meno male che adesso siete qui. Sapete già le ultime notizie?

— Per sommi capi, direttore.

— Allora sentite. Là “Vega” è arrivata in vista della “Stranger” alle dieci e mezzo di questa mattina. La prima cosa che hanno visto è stato un grande buco in alto. Una meteora aveva colpito lo scafo come se fosse stata una palla di cannone. Che ne pensate?

— Strabiliante. Una coincidenza incredibile.

— È quello che penso anch’io. Voi non vi siete imbattuti in alcuna tempesta di meteore, no?

— Nessuna, Direttore. Altrimenti l’avremmo messo nel rapporto. Le piogge di meteore sono sempre associate alle comete, e in quella zona non c’era una cometa in un raggio di sessanta milioni di chilometri.

— Sì… sì… — Bukowsky detestava che gli si spiegassero le cose. — Allora, come può essere successo?

— Sarà stata una meteora sporadica. Ma le probabilità sono di una a un milione.

Bukowsky fece sentire un brontolio. — Proprio come dicevo. Ma naturalmente avremo pressioni per agire subito, appena la notizia sarà diffusa. Questo lo sapete, vero? Ve la sentireste di andare in televisione questa sera e di spiegare che c’è una sola probabilità su un milione…

— Certo, se è necessario.

La porta alle spalle di Bukowsky si aprì e Carlsen vide entrare varie persone, che riconobbe come consulenti dell’Istituto. Bukowsky gli disse: — Sarà mèglio che veniate su subito. Quanto ci mettete ad arrivare?

— Sarò lì fra cinque minuti — rispose Carlsen.

— Facciamo due — disse Bukowsky, e chiuse la comunicazione. Carlsen guardò l’orologio. — Al diavolo — disse. Doveva rimandare l’intervista con Seth Adams.

Premette il tasto che lo metteva in comunicazione con il laboratorio. La sala era vuota. Si collegò allora con la stanza dei campioni. Lì non c’era teleschermo, ma esisteva un sistema visivo e un collegamento di altoparlanti.

Seth Adams era solo. Carlsen fece per parlargli ma qualcosa lo trattenne: Adams stava attraversando la stanza a passi furtivi, come un gatto che si avvicina a una preda. Carlsen si ricollegò col laboratorio, cercando Pike, ma l’assistente non c’era. Premette allora il tasto del custode.

— Avete visto uscire Gerald Pike, l’assistente di laboratorio?

— Sì, Comandante. È uscito un paio di minuti fa.

Dunque, Seth Adams era solo almeno da cinque minuti. Si ricollegò con la stanza dei campioni. Come sospettava, Adams aveva riaperto uno dei cassetti, quello con l’uomo, e tolta di tasca una specie di penna l’appoggiò all’occhio. Era una macchina fotografica! Una di quelle macchine miniaturizzate che nel ventesimo secolo venivano usate dalle spie. Carlsen avrebbe dovuto immaginare che un cronista inviato ne avesse una.

Era inquieto. Seth Adams non gli piaceva, ma aveva voluto fare uno sforzo per aiutarlo. Era arrivato persino a provare una specie di complice entusiasmo all’idea di quel servizio speciale di straforo. E adesso, addio intervista! Quello stupido si era rovinato da solo. Appena Bukowsky avesse saputo della cosa l’avrebbe fatto licenziare dal giornale. Altro che carriera!

Impietrito, osservò Seth che rispingeva a posto il cassetto e ne faceva uscire un altro. Fu tentato di schiarirsi la gola e con quel rumore, dall’altoparlante, farlo spaventare. O doveva forse far finta di niente e lasciare che se ne andasse con le fotografie? Sarebbe stato facile ottenere che il giornale non le usasse.

Adams fotografò la ragazza bionda, richiuse il cassetto, aprì il terzo cassetto, scattò una foto e rimise la penna nel taschino. Poi si raddrizzò e fece un sospiro di sollievo che arrivò fino a Carlsen, si guardò intorno, e andò in punta di piedi a sbirciare dalla porta. Quindi tornò al cassetto e guardò la ragazza. La base del cassetto era all’altezza delle ginocchia di Seth. Lui si chinò a toccare il seno della ragazza, le accarezzò la faccia e le sfiorò le labbra con la punta delle dita. Infine si inginocchiò. Carlsen sentì che era venuto il momento di intervenire.

Andò alla porta con l’intenzione di sbatterla, in modo che l’altoparlante trasmettesse il rumore. Aperta la porta si fermò. Vedeva Adams di spalle, chino sul cassetto, ma la posa aveva qualcosa di innaturale. Colto da un’intuizione improvvisa, tornò davanti al teleschermo. Adams aveva la testa dentro il cassetto e la sua faccia era premuta su quella della ragazza. Il resto del corpo si inarcava scosso da tremiti. Carlsen lo chiamò, e le spalle del giovane ebbero un sussulto più violento. Poi s’irrigidì. Restò così a lungo. Infine, lentamente, il corpo di Seth Adams si afflosciò e cadde all’indietro. Una mano apparve sull’orlo del cassetto. Dapprima incerta, come chi si sveglia da un sonno profondo, la ragazza si tirò su a sedere. Si guardò in giro, ignorando il corpo di Seth sul pavimento, e mise le gambe giù dall’orlo del cassetto, come se stesse alzandosi da un letto.

L’altro teleschermo diede un segnale. La voce di Bukowsky disse: — Carlsen, siete ancora lì?

Carlsen non rispose. Corse alla porta. La cabina dell’ascensore era aperta. Pochi secondi dopo correva nel corridoio del piano inferiore verso il laboratorio. Non pensava tanto al pericolo quanto a Violet Mapleson, e sperava che Seth fosse soltanto svenuto.

Il laboratorio era vuoto. Corse alla stanza dei campioni. La prima cosa che vide fu Seth Adams sul pavimento. Poi vide la ragazza distesa nel cassetto, come l’aveva vista l’ultima volta, gli occhi chiusi. Guardò la faccia di Seth, e indietreggiò. Non era più la stessa faccia, quello non era più il corpo di Seth. Cos’era successo? Le labbra si erano ritratte lasciando scoperti i denti che apparivano giallognoli, e le labbra stesse erano grigiastre e screpolate. Sembrava che tutta la faccia fosse coperta da una ragnatela grigia, invece era la pelle che si era raggrinzita e ritirata, tutta una ruga. Era la faccia di un uomo vecchissimo. E mentre Carlsen guardava, strabiliato, i capelli da neri diventarono grigi… E le mani che uscivano dalle maniche ora troppo ampie erano anch’esse rugose, e la pelle lucida, come se si fosse trasformata in una pellicola di celluloide grigiasta.

Carlsen colse un movimento nel cassetto. La ragazza aveva aperto gli occhi e lo stava guardando. Era viva, non c’era dubbio. Tutto il suo corpo sembrava radiare un chiarore morbido. Gli sorrise dolcemente, come un bambino che si stesse svegliando. Lui la guardò, provando un senso di meraviglia che sembrava diffondersi a ondate. Era qualcosa che non aveva mai immaginato di vedere, una memoria annidata lontano nell’infanzia e che non aveva lasciato traccia nel suo io cosciente. Qualcosa collegata, gli pareva, con alberi, e acqua che scorre, e una fata, spirito dell’acqua, che era anche sua madre. Accanto a quella donna, tutte le donne del mondo erano grezze, rozze, brutte copie semimascoline. Sentì la sua faccia tremare come per la voglia di piangere. Fece scorrere lo sguardo sul corpo della ragazza, ma non provò desiderio, solo meraviglia per la sua bellezza.

Lei gli sorrise e gli tese le braccia, come un bambino che chiede d’essere preso dal letto. Lui allungò le mani, e avvicinandosi d’un passo quasi inciampò nel corpo di Seth Adams. Abbassò lo sguardo e vide la faccia grigia e rugosa e i capelli diventati bianchi. Il vestito adesso sembrava di parecchie taglie troppo grande. E solo ora, di colpo, Carlsen si rese conto con chiarezza che Seth era morto, che quella donna, quella creatura aliena aveva succhiato la vita da un essere umano. Tornò a guardarla, ma senza provare orrore. Le chiese: — Perché l’hai fatto?

Lei non rispose, ma a Carlsen sembrò di udire la sua risposta nella mente. Non era molto chiara: pareva che lei si scusasse, dicendogli che era stato necessario. Gli tendeva ancora le braccia. Lui scosse la testa, e indietreggiò di qualche passo. La ragazza si mise seduta e con un movimento pieno di grazia scese dalla lastra. I suoi gesti erano sciolti, agili, come quelli di una ballerina. Gli si avvicinò e si fermò a guardarlo sorridendo.

Da vicino, anche una bella donna rivela qualche difetto. Quella ragazza non ne aveva: era perfetta anche vista da un metro. Si avvicinò ancora un passo e fece per mettere le braccia intorno al collo di Carlsen. A Carlsen parve di sentire nel cervello la voce della ragazza che diceva: “Abbracciami. Lo so che mi ami. Il mio corpo ti piace, prendilo”.

Era vero. Lui l’amava. Ma Carlsen indietreggiò scostando le mani della donna. La sua pelle era calda, più calda di quella umana. Carlsen la desiderava con un’intensità tale da non poter essere paragonata al desiderio provato per qualsiasi altra donna. Ma era sempre riuscito a controllarsi, e dava grande importanza al suo comportamento. E poi riteneva inammissibile fare l’amore lì in quella stanza.

Tornò a guardare il corpo di Seth e lo colpì di nuovo l’idea che lei aveva succhiato la vita di un uomo, il risultato di vent’anni di crescita e di sviluppo, così, in un attimo, come un bambino goloso succhia un frappé.

Le disse: — L’hai ucciso. Lo sai?

Lei gli prese la mano e lui sentì un brivido di gioia a quel contatto. Di colpo tutte le sue inibizioni scomparvero. Lei stava invitandolo mentalmente ad andare con lei, in qualche posto dove avrebbero potuto fare l’amore tranquilli, e lui voleva farlo. Ma guardando il corpo di Seth si rendeva conto che sarebbe stata probabilmente la morte anche per lui. Eppure non gli sembrava importante. Comprendeva qualcosa che non avrebbe potuto esprimere a parole. Il suo rigido addestramento sessuale però resisteva ancora.

Lei gli mise le braccia al collo e avvicinò la bocca alla sua. Lui la baciò, e sentì il calore del corpo nudo premuto contro il suo mentre le teneva le mani strette sui fianchi.

Adesso capiva più coscientemente ciò che aveva intuito vagamente quando lei aveva aperto gli occhi. Capiva che lei non avrebbe potuto prendergli la vita, a meno che lui non gliel’avesse offerta. Gli si offriva, ma finché lui avesse resistito lei non avrebbe avuto il potere di prenderlo. Ma sapeva anche che era solo questione di tempo, di quanto tempo sarebbe durata la sua resistenza e il suo autocontrollo.

Sentì la voce irritata di Bukowsky. — Carlsen, dove vi siete cacciato? — Veniva dal laboratorio. Carlsen si irrigidì e smise di baciarla. Lei lo lasciò andare, semplicemente, e guardò verso la porta.

La sentì dire, senza parole: “Devo andare. Come posso uscire?”. I pensieri di lui le dissero che aveva bisogno di abiti. Subito lei guardò il corpo di Seth. Carlsen le disse mentalmene: “No. Sono da uomo”.

Lei gli mise una mano nella tasca della giacca, gli prese il portafogli, ne tolse il tesserino elettronico. Carlsen non fece niente per impedirglielo. Poi la ragazza si voltò e uscì. Lui la seguì fino alla porta. Poteva vedere Bukowsky sul teleschermo del laboratorio. Il direttore stava parlando a qualcuno in piedi davanti alla sua scrivania. Diceva: — So che deve essere su quel piano. — Poi alzò gli occhi e vide Carlsen. — Oh, eccovi! — disse.

La ragazza era uscita. Di colpo Carlsen si rese conto del pericolo corso.

L’orrore lo colse all’improvviso, a scoppio ritardato. Aveva rischiato di essere distrutto da quella ragazza, col proprio consenso. Gli mancarono le forze. Sentì che gli si piegavano le ginocchia. Si aggrappò allo stipite della porta e si lasciò scivolare sul pavimento, ancora in sé, ma completamente esausto, svuotato, come se si fosse esaurito con un eccezionale sforzo fisico.

Bukowsky si stava chinando su di lui. Carlsen non ricordava di essere svenuto, aveva solo l’impressione di essersi assopito.

— Cos’è successo, Carlsen? — chiedeva la voce di Bukowsky.

— Sono vampiri… Succhiano la vita… — rispose con voce assonnata.

Era disteso sul divano nell’ufficio di Bukowsky. Harlow, responsabile della Sicurezza, seduto lì di fianco, si protese verso di lui, chiedendo: — Chi è il vecchio che c’è di là, sul pavimento?

Carlsen fece uno sforzo per mettersi a sedere. Aveva la sensazione di risvegliarsi da un sonno narcotico. — Non è un vecchio. Ha poco più di vent’anni — disse.

Harlow pensò certo che stesse delirando. — Dov’è andata la donna? — chiese.

— Si è svegliata. È tornata in vita. L’ho vista sul teleschermo del mio ufficio. — Gli riusciva difficile parlare, quasi che trovasse difficoltà a coordinare le idee.

Incespicando nelle parole, come avesse in bocca una patata, cominciò a raccontare.

Bukowsky l’aggredì urlando: — Avete portato qui un giornalista? Lo sapete che è contro i regolamenti!

Carlsen disse: — Ho deciso di fare così… tanto domani ci sarà la mia conferenza stampa, e lui era il figlio di una mia vecchia amica. Ho voluto fargli un favore.

— Gli avete fatto proprio un bel favore!

Harlow stava dando ordini al telefono. Carlsen lo sentì dire: — Se la vedete, non avvicinatevi. Sparate.

Le parole gli fecero male. Un male fisico che gli fece fare una smorfia. Si ricordò di colpo che la ragazza aveva il suo tesserino perforato. Poteva essere in qualsiasi parte dell’edificio, o forse era già uscita.

A poco a poco, sotto l’effetto del caffè nero cominciò a sentirsi meglio. Con sorpresa si accorse anche di aver fame, una fame da lupo, più di quand’era tornato sulla Terra tre mesi prima.

Disse: — Potrei mangiare qualcosa? Ho una gran fame.

Bukowsky disse: — Certo. Ma continuate. Cos’è successo dopo che ci siamo parlati?

— L’ho vista ucciderlo… sul teleschermo. Poi sono sceso.

— Lei era ancora là?

— Sì.

— Perché l’avete lasciata scappare?

— Non potevo fermarla.

Entrò il medico dell’Istituto. Fece togliere a Carlsen giacca e camicia, gli controllò le pulsazioni e la pressione. Poi disse: — Pare che tutto sia perfettamente normale. Forse soffrite i postumi dello shock.

— Avete un misuratore di onde lambda?

— Sì — rispose il medico in tono di sorpresa.

— Vi spiacerebbe controllare il mio campo lambda?

Il medico gli assicurò il galvanometro al polso sinistro e gli mise l’altro elettrodo sul torace all’altezza del cuore.

— È più alto di quello che dovrebbe essere. Molto più alto.

— Più alto? — Carlsen si raddrizzò. — Siete sicuro di averlo applicato giusto?

— Sicurissimo. Del resto il punto in cui lo si applica non ha molta importanza.

Più alto… Già. Lui sentiva una strana sensazione di calore dentro di sé, malgrado la spossatezza. Eppure era convinto che la ragazza gli avesse rubato energia. Si ricordò di come si era sentito esausto il giorno in cui avevano esplorato il relitto. Dave Steinberg e Ives Lloyd avevano poi dormito per dodici ore filate… In qualche modo quegli esseri avevano assorbito la loro energia vitale, ne era certo. Eppure il suo campo lambda era più alto. Dunque lei gli aveva dato energia oltre che togliergliene.

Portarono dei panini imbottiti. Dopo averne mangiati un paio e bevuto una birra, si sentì meglio.

Harlow apparve sul teleschermo. — Non è su questo piano… forse è già uscita. L’abbiamo cercata dappertutto.

— È impossibile. Non poteva entrare o uscire da nessuna parte senza un tesserino perforato.

— Aveva il mio — disse Carlsen.

— Bene! E lo dite adesso? — Bukowsky si rivolse allo schermo. — Cercate ancora. Può essere su qualsiasi piano. Ma non è certo uscita nuda — disse. Poi tornò a rivolgersi a Carlsen. — Come diavolo fa ad avere il vostro lasciapassare?

— Me l’ha preso.

— Come faceva a conoscerne l’esistenza?

— Me l’ha letto nel pensiero.

— Ne siete sicuro?

— Sicurissimo.

— Questo complica le cose. Credete che possa leggere anche nella mente delle guardie di sicurezza?

— È probabile.

Bukowsky andò al mobile bar e si versò un whisky, poi alzò la bottiglia in direzione di Carlsen che accettò con un cenno. Il direttore tornò con i due bicchieri. Carlsen bevve un lungo sorso e sentì con piacere il leggero bruciore che gli scaldava la gola.

Bukowsky si sedette. Disse: — Olaf, adesso vi farò una domanda precisa e vorrei una risposta altrettanto precisa. Quella ragazza è pericolosa?

Carlsen disse: — Certo che lo è. Ha ucciso un uomo.

— Non è esattamente quello che intendevo. Volevo sapere se come creatura è cattiva.

Carlsen si provò a rispondere, ma nel suo intimo si scatenò un conflitto. L’impulso era di rispondere no, ma la ragione gli diceva che così facendo avrebbe mentito.

Strano, ma non provava risentimento verso la ragazza, anche se lei aveva tentato di impossessarsi della sua forza vitale. Era cattiva? È cattiva una tigre che divora un uomo?

Mentre guardava fisso il pavimento pensando a una risposta, Bukowsky disse: — Avete capito cosa vi sto chiedendo. Quell’uomo aveva evidentemente intenzione di usarle violenza carnale. Lei lo ha distrutto. Potrebbe essere stata legittima difesa?

Carlsen sapeva già cosa rispondere. In tono stanco disse: — No. Non è stata legittima difesa. Aveva bisogno della sua vita e se l’è presa.

— Deliberatamene? — Poiché Carlsen esitava, Bukowsky aggiunse: — Lei era in stato di incoscienza. L’ho vista parecchie volte. Il suo campo lambda era di zero zero quattro. Basso quanto quello di un pesce congelato in un blocco di ghiaccio. Non può darsi che non avesse modo di controllare le proprie azioni per evitare ciò che è successo?

Carlsen rifletté un momento. Alla fine disse: — No. Poteva controllarsi. È stato un atto deliberato.

— Va bene. — Bukowsky si alzò e andò davanti al teleschermo. Disse: — Passatemi George Ash… George Ash… George, ascolta bene. Nella stanza dei campioni i due extraterrestri, l’uomo e la donna… voglio che vengano distrutti immediatamente. Questa sera. Subito. E poi manda un messaggio alla “Vega”. Non devono avvicinarsi alla “Stranger”. Devono starne lontani almeno duecento chilometri.

Ash era il capo della polizia dell’Istituto Ricerche Spaziali, e agiva alle dirette dipendenze di Harlow. Disse: — Li faccio mettere subito nell’inceneritore.

Bukowsky tornò accanto a Carlsen. — Adesso bisogna trovare la ragazza. Speriamo che non sia uscita, almeno. Dare un allarme generale provocherebbe panico. — Si prese la testa fra le mani. Doveva essere molto stanco. Disse: — Per fortuna è fuggita soltanto lei.

— È arrivato l’ispettore Caine, signor Bukowsky — annunciò la segretaria. Caine l’aveva scritto in faccia che era un poliziotto: massiccio, triste, capelli grigi.

Bukowsky gli presentò Carlsen. Caine disse: — Già, vi riconosco. Siete stato voi a scoprirli.

Carlsen si strinse nelle spalle. — Siamo stati noi a scoprirli, o sono stati loro a scoprire noi? La “Stranger” era davvero là da un milione di anni o è stata messa là apposta perché noi la trovassimo?

A Caine questi sofismi però non interessavano. Chiese con tono paziente: — Scusatemi, capitano, ma vorrei sentire da voi che cos’è successo qui questa sera.

Carlsen raccontò nuovamente tutto, e Caine registrò le sue parole. L’ispettore l’ascoltò senza interromperlo fino al momento in cui Carlsen disse di essere entrato di corsa nella stanza e di aver trovato il cadavere.

— Avete detto che la ragazza ha aperto gli occhi. Poi che cos’è successo?

— Si è messa seduta e mi ha teso le braccia, così… come un bambino che chiede di essere preso in braccio.

— E voi che cos’avete fatto?

Carlsen scosse la testa. Gli sembrava stupido rispondere: “Mi sono innamorato di lei”. Bukowsky lo stava osservando attentamente. Carlsen disse: — Niente. Sono rimasto là a guardarla.

— Deve essere stato un bel colpo per voi. Continuate.

— Lei si è alzata con movimenti agili, e ha cercato di mettermi le braccia al collo.

— Voleva “assorbire” anche voi?

— Forse. — Era incredibile come gli riusciva difficile rispondere a quelle domande. Una forte resistenza interiore stava alzando una barriera alta come un muro.

Dal teleschermo venne un segnale. Apparve Ash. Disse: — Quelle creature signor Bukowsky… sono già morte.

— Morte? Ne siete sicuro?

— Venite a vedere voi stesso.

Bukowsky uscì. Gli altri lo seguirono senza parlare. C’erano tre poliziotti nella stanza dei campioni. Uno stava prendendo le misure con un metro a nastro, un altro era intento a fare fotografie. Il corpo di Seth Adams non era stato toccato. Il medico legale era inginocchiato accanto al cadavere. I cassetti con i due extraterrestri erano aperti. Carlsen capì subito quello che aveva voluto dire Ash. Non si poteva sbagliare. Quelli erano i corpi di due morti. Quando andò più vicino sentì un leggero odore di decomposizione.

Poi Carlsen guardò il corpo di Seth Adams, e rabbrividì. Adesso sembrava una mummia, con la carne rinsecchita aderente alle ossa.

Caine disse, incredulo: — Avete detto che quest’uomo aveva poco più di vent’anni?

Carlsen fece segno di sì. Si sentiva soffocare. Chiese a Bukowsky: — La madre non è ancora stata informata, vero?

— No. Non sapevamo chi fosse.

— Sarà meglio che lo faccia io — disse Carlsen, e a Caine chiese: — Avete ancora bisogno di me?

— Non credo. Il vostro numero è sull’elenco?

— No — rispose e scrisse il numero per l’ispettore.

Bukowsky e il dottore stavano osservando i cadaveri dei due extraterrestri. Bukowsky disse: — Bene. Adesso basta trovare la ragazza.

Carlsen fece per parlare, poi cambiò idea.

Preferì non dire quello che pensava.


Il ronzio del teleschermo lo destò da un sonno profondo, comatoso. Udì la voce di Jelka che diceva: — Chi…? Oh, credo che stia dormendo.

Con voce impastata dal sonno Carlsen chiese: — Chi è?

— La polizia.

— Dammi. — Prese la cuffia che metteva in contatto audio. — Pronto — disse.

— Il signor Carlsen? Sono il sergente investigativo Tully, signore. L’ispettore Caine mi ha chiesto di chiamarvi. Vorrebbe che veniste qui appena possibile.

— È urgente?

— Sissignore.

— Dove devo venire?

— Se siete pronto fra cinque minuti, vi mandiamo una cavalletta.

Mentre Carlsen si vestiva, la moglie disse: — Devi proprio andarci? Non lo sanno che stai poco bene?

— Ha detto che è importante.

Jelka accese la luce fra i due letti. Lui infilò pantaloni e maglione sopra il pigiama, poi si chinò a scompigliare i capelli della moglie. — Dormi — le disse. — E non aprire a nessuno.

Uscito di casa accese la sua radiobussola e poco dopo vide la luce blu di una cavalletta. Pochi secondi dopo l’elicottero atterrò silenziosamente sulla strada. Ne smontò un poliziotto che aiutò Carlsen a salire a bordo. Dietro il pilota c’era seduto un uomo in abito da sera. Quando Carlsen si fu sistemato, l’uomo si presentò: — Sono Hans Fallada. Piacere di conoscervi.

Carlsen gli strinse la mano. Malgrado il nome tedesco, Fallada aveva una pronuncia tipicamente inglese aristocratico. La voce era bassa e profonda.

Carlsen disse: — Sono lieto di conoscervi personalmente.

Fallada disse: — Anch’io. Peccato che sia successo per motivi di lavoro.

Carlsen guardò il Tamigi allontanarsi sotto di loro. A oriente si stava allargando la linea grigia dell’alba; sotto si vedevano le luci dei sobborghi, gialle e arancione.

I due uomini cominciarono a parlare contemporaneamente. Poi Fallada rispose alla domanda di Carlsen.

— Sono rientrato in fretta e furia da Parigi. Che coincidenza, quando mi hanno chiamato, stavo tenendo una conferenza al banchetto annuale dei criminologi europei. Adesso pare che il mio viaggio sia stato inutile.

— Perché?

— Non ve l’hanno detto? Forse hanno trovato il cadavere della ragazza.

Carlsen era troppo stanco per avvertire appieno il colpo. Si udì chiedere: — Ne sono sicuri?

— No. Per questo vogliono che lei la identifichi.

Carlsen si appoggiò allo schienale e cercò di analizzare le proprie reazioni. Gli sembrava di avere il cervello annebbiato. Era certo di una cosa sola: istintivamente una parte di sé rifiutava di crederci.

In cinque minuti furono sopra il centro di Londra. Fallada stava dicendo: — Straordinarie queste cavallette. Seicento chilometri all’ora e atterraggio su un metro quadrato di spazio anche in mezzo al traffico dell’ora di punta.

Riconobbero le luci verdi dell’Istituto Ricerche Scientifiche vicino a Piccadily. L’elicottero scese verso la vasta macchia di Hyde Park. Le luci del velivolo illuminarono le acque calme della Serpentine.

La cavalletta si fermò a mezz’aria e poi si posò senza scosse. Fallada smontò per primo. L’ispettore Caine andò loro incontro, seguito da Bukowsky e da Geroge Ash. A una ventina di metri avevano eretto una specie di barriera con un telo.

Caine disse: — Ci dispiace di avervi disturbati, signori, ma è questione di pochi minuti.

— Che cosa vi fa pensare che sia quella ragazza?

— È lei, non c’è dubbio — disse Bukowsky. — Ma bisogna che voi la identifichiate. Siete stato l’ultimo a vederla.

Li accompagnarono dietro il telo. Il cadavere era coperto da un lenzuolo. Carlsen notò che il cadavere giaceva a gambe larghe e braccia tese all’infuori.

Caine tirò indietro il lenzuolo, e accese una torcia elettrica. Per un attimo Carlsen rimase in dubbio. L’occhio sinistro era nero. Le labbra gonfie e contuse. Poi osservò la forma del mento, i denti, gli zigomi alti. — Sì, è lei — disse.

— Nessun dubbio?

— Nessuno.

Fallada tolse completamente il lenzuolo. La ragazza indossava adesso sul corpo nudo un leggero grembiule verde da lavoro e un cappotto, entrambi aperti. Il corpo era macchiato di sangue dal collo alle ginocchia. Alla luce della torcia Carlsen vide segni di morsi sulla carne. Un capezzolo era stato staccato. A due passi dal cadavere c’erano un paio di scarpe di gomma. Fallada toccò la testa della ragazza, e la testa ricadde di lato.

Caine disse: — Sicuramente ha trovato i vestiti nell’armadio degli addetti alle pulizie.

Fallada chiese: — Da quanto tempo è morta?

— Da nove ore circa. Almeno così pare.

— In altre parole, è stata uccisa solo un’ora dopo essere fuggita dall’Istituto Ricerche Spaziali. Incredibile! Vi risulta che ci sia un maniaco sessuale in circolazione da queste parti?

— Non abbiamo segnalazioni del genere. L’ultimo omicidio di questa natura è avvenuto a Maidstone un anno fa.

Carlsen si rialzò. Le ginocchia dei pantaloni si erano bagnate di brina. Chiese a Fallada: — Secondo voi, perché l’ha morsa?

Fallada si strinse nelle spalle: — È una perversione sessuale abbastanza nota. Viene definita vampirismo.


Carlsen si svegliò nella stanza buia. Le lancette luminose dell’orologio segnavano le due e trenta. Di mattina o di pomeriggio? Premette il pulsante del sistema insonorizzante. Subito udì le risate dei bambini da un’altra stanza. Ecco la risposta: era pomeriggio. Azionò il meccanismo che comandava l’apertura delle finestre, e le tapparelle scivolarono permettendo al sole di inondare la camera. Rimase disteso per cinque minuti, preparandosi alla fatica di alzarsi. Jelka entrò con un vassoio.

— Ecco il caffè. Come ti senti?

Lui sbadigliò. — Te lo dirò quando sarò sveglio. — Si tirò su a sedere con un leggero sforzo, e aggiunse: — Ho dormito bene.

— Puoi ben dirlo.

Cogliendo il significato di quelle parole, riguardò l’orologio e notò la data: giovedì. — Ma quanto tempo ho dormito?

— Quasi trentatré ore.

— Perché non mi hai svegliato?

— Perché sembravi distrutto.

Entrarono di corsa le due bambine, e la più piccola, Janette, di quattro anni, si arrampicò sul letto e gli chiese di raccontargli una storia. Jelka disse: — Papà vuole bere il caffè — e con decisione le portò fuori.

Lui guardò dalla finestra e si chiese se veramente l’erba era più verde del solito o se erano i suoi occhi che la vedevano così. Sorseggiò il caffè che gli diede un piacere quasi sensuale.

Per la prima volta da quando era tornato sulla Terra non si sentiva stanco. Fuori, i giardini e le case del quartiere Twickenham Garden erano belli e tranquilli sotto il sole. Si sfregò gli occhi e si svegliò del tutto, e non ebbe più dubbi: si sentiva più vivo. Tutto gli sembrava più vivido e più eccitante. Non si sentiva così da quando era bambino.

Jelka rientrò mentre lui stava bevendo la seconda tazza di caffè. Le chiese: — Novità?

— Niente.

— Niente? Alla TV non hanno parlato di quello che è successo?

— Il notiziario ha detto soltanto che gli extraterrestri erano morti.

— Meglio così. Era inutile provocare panico. Nessuno ha telefonato?

— Niente di importante. Chi è Hans Fallada?

— Un criminologo. Ricordi? Interveniva a commentare quella serie di famosi casi di omicidio.

— Ah, sì. Be’, ti ha chiamato. Ha lasciato detto di telefonargli. Dice che è urgente.

— Hai il numero?

Appena vestito chiamò Fallada.

Rispose la segretaria. — È a Scotland Yard, capitano Carlsen. Mi ha detto di chiedervi di venire qui appena possibile.

— Cioè, dove?

— Siamo all’ultimo piano dell’Ismeer Building. Vi mandiamo una cavalletta. Fra quanto sarete pronto?

— Facciamo fra un quarto d’ora.

Fece colazione in giardino, all’ombra. Ma anche lì faceva molto caldo. Il cielo era terso, d’un azzurro purissimi, sembrava acqua. Veniva voglia di togliersi gli abiti e di tuffarvisi.

Stava bevendo succo d’arancio quando arrivò la cavalletta. C’era una donna poliziotto ai comandi. Mentre salutava Jelka e le bambine, la moglie gli disse: — Non andare vicino all’orlo!

Voleva dire l’orlo del tetto dell’Ismeer Building. Era il più alto grattacielo del mondo e sorgeva su un’area di mezzo chilometro quadrato nel centro di Londra. Era stato costruito nel periodo del sovraffollamento urbano da una società del Medio Oriente. Per risolvere il problema della scarsità di aree per uffici nella città di Londra, avevano deciso di costruire un grattacielo alto mille e cinquecento metri, con cinquencento piani. Il progetto era di costruirne uno simile in ogni capitale del mondo, ma il piano di decentramento aveva fatto abbandonare l’idea. L’Ismeer Building era rimasto l’unico.

La cavalletta stava salendo verticalmente nell’aria pulita, e la parete del grattacielo sfilava a pochi metri da loro. Carlsen ricordò improvvisamente la fiancata della “Stranger” quando l’avevano vista dalla loro astronave e sentì un tuffo al cuore.

Chiese alla donna poliziotto: — Dove stiamo andando esattamente?

— All’Istituto Psicosessuale. — Sembrò sorpresa che lui non lo sapesse.

— L’istituto dipende dalla Polizia?

— No, è indipendente. Ma collabora spesso con noi.

Mentre smontava dalla cavalletta fu sorpreso del cambiamento di temperatura. Lì faceva quasi freddo. Si avvicinò al parapetto sormontato da un’alta rete metallica. Da lì poteva vedere le curve del Tamigi attraverso Lambeth e Putney fino a Morlake e Richmond. Se Jelka avesse guardato al loro telescopio avrebbe potuto vederlo lì sul letto.

La donna poliziotto disse: — Ecco che arriva il dottor Fallada.

Un’altra cavalletta stava dirigendosi verso il tetto dell’Ismeer Building. Si librò sopra le loro teste e poco dopo si posava con leggerezza a due passi dall’altro elicottero. Fallada smontò e alzò una mano a salutare Carlsen.

— Siete stato gentile a venire subito. Come vi sentite?

— Bene, grazie. Mai stato meglio.

— Magnifico. Ho bisogno del vostro aiuto e con urgenza. Scendiamo.

Fece strada verso una rampa di scale. — Scusate un attimo, devo parlare col mio assistente. — Aprì una porta con la scritta Lab. C. Li investì un forte odore di prodotti chimici e disinfettanti. Su un tavolo a rotelle vicino alla porta Carlsen vide un uomo nudo, di mezz’età. Un giovane in camice bianco era chino su un microscopio.

Fallada disse: — Sono tornato. Fra una mezz’ora Scotland Yard ci manderà un altro cadavere. Lasciate perdere tutto il resto ed esaminate subito il corpo. E avvertitemi appena arriva.

— Bene — disse l’assistente.

Fallada chiuse la porta. — Di qua, capitano.

Andarono all’altra estremità del corridoio e Fallada aprì una porta su cui era scritto il suo nome seguito dalla dicitura: Direttore. Carlsen chiese: — Chi era quell’uomo?

— Il mio assistente, Norman Grey.

— No, volevo dire il cadavere.

— Oh, un idiota che si è impiccato. Forse lo stupratore di Bexley. Stiamo cercando di venirne a capo. — Aprì un armadietto. — Un whisky?

— Grazie, volentieri.

— Accomodatevi, prego.

Carlsen si sedette su una comoda poltrona vicino alla grande finestra. La poltrona lo avvolse morbidamente.

Da lassù il mondo, inondato di sole, sembrava sereno e semplice. Lo sguardo spaziava fino all’estuario del Tamigi e al Southend. Era difficile credere che esistessero violenza e malvagità.

Da uno scaffale di fronte la faccia di Fallada lo guardava dalla copertina di un libro intitolato “Testo di criminologia sessuale”. Le labbra spesse e le palpebre socchiuse gli davano un’aria un tantino sinistra.

Vista al naturale, invece, la faccia del criminologo aveva un non so che di ironico. Dietro le spesse lenti gli occhi pareva si godessero uno scherzo segreto.

— Alla vostra salute. — Il ghiaccio tintinnò nel bicchiere.

Fallada si sedette sull’orlo della scrivania. Disse: — Ho appena fatto un’autopsia.

— Ah, sì?

— Era il cadavere di una ragazza trovata sulla linea ferroviaria vicino a Putney Bridge. — Si mise una mano in tasca e ne tolse un foglio che porse a Carlsen.

Era scritto a macchina. Il capitano lesse l’intestazione: “Deposizione di Albert Smithers. Indirizzo: Foskett Place n. 12, Putney”. Il testo diceva: “Alle 3.30 circa mi sono accorto di aver dimenticato il thermos del tè, e allora ho chiesto al caposquadra di lasciarmi andare a casa a prenderlo. Ho fatto la scorciatoia che fiancheggia la ferrovia, un sentiero lungo cinquecento metri. Un quarto d’ora dopo, alle quattro meno dieci, mentre rifacevo lo stesso percorso, vicino al ponte ho visto qualcosa sui binari. Ero certo che prima non c’era niente. Quando sono stato più vicino ho visto che era il corpo di una giovane, con la faccia in giù. Aveva la testa sui binari. Stavo per correre a cercare aiuto quando ho sentito che stava arrivando il merci da Farnham. Allora ho preso il corpo per le caviglie e l’ho tirato via dai binari. L’ho fatto perché credevo che la ragazza fosse ancora viva, ma quando le ho sentito il polso, ho capito che era morta…”.

Carlsen alzò gli occhi e chiese: — Com’è stata uccisa?

— L’hanno strangolata.

Carlsen aspettò il resto.

Fallada disse: — Il suo campo lambda era di appena zero zero quattro.

— Sì… ma… cosa significa? Credevo che chiunque morisse di morte violenta…

— Sì, certo. Potrebbe essere una coincidenza. — Guardò l’orologio. — Fra un’ora sapremo qualcosa di più.

— In che modo?

— Grazie a un esame inventato da me.

— È un segreto?

— Sì, ma non per voi.

— Grazie.

— È proprio per questo che vi ho pregato di venire qui. Voglio parlarvi di qualcosa che vi interesserà. — Aprì un cassetto e ne tolse una scatoletta che aprì e mise sulla scrivania. — Indovinate che cosa sono?

Carlsen si chinò a guardare. Erano minuscole perline rosse, non più grandi di capocchie di spillo.

— Microspie elettroniche?

Fallada rise. — Centro al primo colpo. Non di un tipo conosciuto, però. — Richiuse la scatoletta e se la mise in tasca. — Volete venire con me?

Aprì una porta, e i due uomini entrarono in un locale adiacente. Fallada accese la luce. Era un piccolo laboratorio con lunghi tavoli contro le pareti e carichi di gabbie e acquari. Nelle gabbie c’erano conigli, cavie, topi bianchi. Negli acquari, pesci rossi, anguille e polipi.

Fallada disse: — Capitano Carlsen, quello che sto per dirvi non lo sa ancora nessuno, fuori di questo Istituto. So che posso fidarmi di voi. — Si fermò davanti a una gabbia in cui c’erano due conigli. — Un maschio e una femmina, che è questa. La femmina è in calore.

Allungò una mano a premere un pulsante. Una specie di teleschermo situato sopra la gabbia si accese di luce verde. Premette un altro pulsante, e una linea nera, oscillante, cominciò a percorrere lo schermo. Sembrava indicare il percorso di una palla di gomma che rimbalzasse leggermente.

— Questa è la misurazione del campo lambda del maschio.

Fallada premette un terzo pulsante. Un’altra linea cominciò a snodarsi lungo lo schermo.

Questa seconda linea era bianca e segnava punte più alte della precedente.

— E questa è la misurazione del campo lambda della femmina.

Carlsen disse: — Non riesco a capire. Che cosa state misurando esattamente?

— Il campo vitale dei due conigli. Quelle perline rosse che avete visto sono misuratori di campo lambda. Non solo misurano l’intensità del campo vitale, ma emettono anche un segnale radio che viene trasmesso amplificato su questo schermo. Che cosa notate in queste due linee?

Carlsen fissò lo schermo.

— Direi che il loro tracciato è quasi parallelo.

— Esatto. Noterete anche una specie di contrappunto, qui e qui… — Indicò. — Conoscete sicuramente quel modo di dire… due cuori che battono all’unisono. Questa misurazione dimostra che è qualcosa di più di un modo di dire.

Carlsen disse: — Vediamo se ho capito bene. Avete messo una perlina di quelle in ogni coniglio, e adesso stiamo osservando i loro battiti cardiaci…

— No, no. Non i battiti cardiaci. Il loro impulso di forza vitale. Possiamo dire che questi animali sono in perfetta armonia. Intuiscono l’umore, e potremmo dire lo stato d’animo, l’uno dell’altro.

— Telepatia?

— Sì, una specie di telepatia. Adesso guardate quest’altra femmina.

Andò davanti a una gabbia in cui c’era una coniglia intenta a rosicchiare una foglia di cavolo.

— Questa femmina è senza compagno, e probabilmente si annoia. Così il suo campo lambda è molto più basso.

— Volete dire che il livello lambda sale a seconda dell’intensità dello stimolo sessuale?

— Esattamente. Contrariamente a quello che si può pensare, i misuratori non vengono messi vicino al cuore, ma in prossimità degli organi genitali.

— Interessante.

Fallada sorrise. — Più di quanto credete. Non solo il campo vitale del coniglio è più intenso quando l’animale è sessualmente eccitato, ma i loro campi si influenzano a vicenda. E vi dirò un’altra cosa molto interessante: al momento, come avete visto, il campo del maschio è più debole di quello della femmina. Quello della femmina è più forte perché la femmina è in calore. Ma quando il maschio la monta, il suo campo vitale diventa più forte di quello della femmina. E allora sono le punte della linea della femmina a muoversi seguendo quelle del maschio e non viceversa. — Fallada mise una mano sul braccio del capitano. — Venite a vedere un’altra cosa — gli disse. Andarono all’altra estremità del laboratorio, davanti a un tavolo su cui erano allineati soltanto acquari.

Fallada batté col dito sul vetro di una vasca. Un piccolo polipo, non più largo di quaranta centimetri in posizione aperta, si staccò dal fondo e salì descrivendo evoluzioni leggere come spirali di fumo.

Fallada indicò. — Se osservate attentamente vedrete dove abbiamo fissato il misuratore.

Accese il monitor sopra l’acquario. La linea che apparve sullo schermo aveva un’ondulazione lenta, senza le punte acute che avevano caratterizzato il grafico dei due primi conigli.

Fallada passò all’acquario successivo. — Questa è una murena, una delle creature marine più antipatiche. Le murene considerano i polipi mediterranei una vera ghiottoneria.

Carlsen osservò attraverso il vetro il muso diabolico che spuntava fra i sassi del fondo. Le fauci spalancate mettevano in mostra file di denti appuntiti come aghi.

— Questa è affamata — disse Fallada. — Non ha mangiato da vari giorni.

Accese il monitor. Il grafico della murena era anch’esso lento e piatto ma avanzava a scatti indicando un potenziale di riserva. Fallada disse: — Adesso metterò questa murena nell’acquario del polipo.

Carlsen fece una smorfia. — È proprio necessario? — chiese. — Non potreste spiegarmi semplicemente che cosa succede in questi casi?

Fallada rise. — Potrei — disse. — Ma non renderei bene l’idea.

Tolse un gancio metallico che fissava il coperchio dell’acquario del polipo. — I polipi amano la libertà e sono specialisti nell’arte dell’evasione — spiegò. — Per questo dobbiamo usare acquari chiusi.

Da sotto il ripiano del tavolo prese un paio di lunghe pinze in materiale trasparente e le immerse con destrezza nell’acquario della murena. Le abbassò e poi di colpo le manovrò. L’acqua si agitò violentemente mentre la murena si dibatteva cercando di mordere l’estremità delle pinze invisibili che l’avevano afferrata.

Carlsen disse: — Sono contento che lì dentro non c’è la mia mano.

Con movimento rapido Fallada estrasse la murena dal suo acquario e la lasciò cadere in quello del polipo. La murena scese rapida verso il fondo forando l’acqua verde.

Fallada indicò il monitor. — Guardate bene adesso.

Si vedevano tutte e due le linee: quella del polipo era ancora relativamente piatta con ondulazioni dovute all’allarme; quella della murena con punte acute di rabbia. Poiché Carlsen guardava dentro l’acquario, Fallada gli disse: — Guardate il grafico.

Per cinque minuti non ci furono cambiamenti notevoli. Nell’acquario la murena si spostava a caso momentaneamente accecata dal fango e dai frammenti di alghe sollevati dalla sua discesa rapida. Il polipo sembrava scomparso. Carlsen l’aveva visto nascondersi fra i sassi del fondo.

La murena si snodò fino a raggiungere l’angolo opposto dell’acquario, apparentemente ignara della presenza del polipo.

— Vedete cosa sta succedendo?

Carlsen fissava i grafici. Adesso vedeva una certa similarità di movimento tra le due linee. Sarebbe stato difficile spiegarlo, ma c’era una specie di contrappunto, ritmato, quasi che i grafici fossero battute musicali. La linea del polipo non era più piatta: avanzava a scatti sussultando.

Lentamente la murena si snodò lungo l’acquario. Adesso non c’erano più dubbi: i due grafici cominciavano ad assomigliarsi, così com’era stato per le linee dei due conigli. D’un tratto la murena si lanciò su un lato, e si infilò fra due sassi. Una nuvola d’inchiostro nero scurì l’acqua. La murena sfiorò il vetro, e per un attimo i suoi occhi freddi fissarono Carlsen. Dalla bocca le penzolava un pezzo di tentacolo del polipo.

Carlsen tornò a guardare il monitor.

Il grafico della murena disegnava punte alte. Quello del polipo era cambiato nuovamente: si era rimesso a segnare lente ondulazioni.

Carlsen chiese: — Sta morendo?

— No. Ha perso solo l’estremità di un tentacolo.

— Come spiegate la sua linea?

— Non saprei. Forse ha accettato l’inevitabilità della morte. Sente che niente potrà salvarlo. Questo grafico comunque è caratteristico del piacere.

— Volete farmi credere che gli fa piacere essere divorato?

— Non lo so. Immagino che la murena stia esercitando una specie di potere ipnotico su di lui. La sua volontà domina quella del polipo. Ma posso anche sbagliarmi. Il mio assistente ritiene che questo sia un esempio di quello che lui definisce “il fascino della morte”. Una volta ho parlato con un indigeno che era stato azzannato da una tigre. Mi disse di essere stato invaso da una strana calma mentre giaceva sul terreno in attesa d’essere divorato. Poi qualcuno uccise, fortunatamente in tempo, la tigre, e solo allora lui si rese conto che la belva gli aveva troncato netto un braccio.

La murena era tornata all’attacco.

Questa volta afferrò il polipo cercando di strapparlo via dai sassi. Ma il polipo vi stava aggrappato con tutti i suoi tentacoli, compreso quello tronco. La murena descrisse una mezza giravolta poi si ributtò sulla preda mirando alla testa. Altro inchiostro annerì l’acqua.

Sul monitor il grafico del polipo ebbe un improvviso guizzo verso l’alto, sbiadì, e poi si spense.

Il grafico della murena segnò un’alta curva di trionfo.

Fallada disse: — Questo indica che la murena ha molta fame. Altrimenti avrebbe mangiato il polipo a poco a poco, un tentacolo alla volta, lasciandolo in vita magari per qualche giorno.

Voltò le spalle all’acquario e disse a Carlsen: — Ma non avete ancora visto la cosa più interessante.

— Non ditemi che c’è dell’altro!

Fallada indicò una scatola grigia fra due acquari.

— Questo è un semplice computer. Ha registrato le fluttuazioni dei campi vitali di entrambi gli animali. Adesso controlliamo la registrazione che riguarda la murena.

Premette vari tasti in rapida successione. Da una fessura del computer scivolò fuori una striscia di carta. Fallada disse: — Guardate, la media è quattro virgola otto cinque sette tre. — Staccò il nastro e lo diede a Carlsen. — E adesso vediamo il polipo. — Premette nuovi tasti, poi staccò un’altra striscia di carta. — È solo due virgola nove cinque sei. Poco più della metà della murena.

Fallada diede a Carlsen un foglio di carta, il secondo nastro, e una matita. — Vi dispiace fare la somma?

Carlsen eseguì e disse: — Sette virgola otto uno tre.

— Bene. Adesso vediamo cosa segna la murena negli ultimi minuti. — Premette nuovi tasti, quindi porse a Carlsen la striscia di carta senza neanche leggere. Carlsen lesse il numero a voce alta. — Sette, virgola otto uno tre. Incredibile! Ma allora… — Si sentì rizzare i capelli sulla nuca, mentre arrivava alla conclusione. — Significa che la murena ha in pratica assorbito il campo vitale del polipo! — Guardò Fallada che sorrideva soddisfatto.

Fallada disse: — Esatto. La murena è un vampiro.

Carlsen era talmente eccitato da non riuscire quasi a parlare. — Stupefacente! — disse. — Ma quanto tempo dura? Cioè, quanto tempo il campo vitale resta così alto? E come possiamo essere sicuri che si tratta veramente di assorbimento di un altro campo vitale… Voglio dire, forse è solo perché è eccitata, trionfante per avere divorato la sua preda. Forse è questo che aumenta tanto la sua vitalità.

— È quello che credevo anch’io all’inizio, Ma ho controllato ogni volta le cifre. Succede sempre la stessa cosa. Per un breve periodo la forza vitale dell’aggressore aumenta esattamente della forza vitale della vittima. — Fallada diede un’occhiata al suo bicchiere che ormai conteneva solo ghiaccio sciolto, e disse: — Ci meritiamo un altro whisky.

Tornarono nell’ufficio accanto.

Carlsen chiese: — Questo succede a tutte le creature viventi, o solo ai predatori, come le murene? Siamo tutti vampiri?

Fallada rise. — Ci vorrebbero ore per illustrare tutti i risultati delle mie ricerche. Guardate qui. — Aprì un armadietto metallico e ne tolse un dattiloscritto rilegato. “Anatomia e Patologia del Vampirismo” di Hans V. Fallada, diceva la dicitura in copertina. — Questo è il risultato di cinque anni di ricerche — disse. — E adesso, il nostro whisky.

Carlsen, accettò volentieri. Poi si sedette in poltrona a sfogliare il voluminoso dattiloscritto. — Questa è roba da Premio Nobel — disse dopo un po’.

Fallada si strinse nelle spalle. — Lo so. Lo sapevo fin da quando ho iniziato a studiare il fenomeno del vampirismo, sei o sette anni fa. Negarlo sarebbe falsa modestia, caro Carlsen. Questa è una delle scoperte più importanti nella storia della biologia. Mi mette a fianco di Newton e di Darwin. Alla nostra salute!

Carlsen alzò il bicchiere. — Alla vostra scoperta!

— Grazie, Adesso avete capito perché sono tanto interessato, affascinato, da quei vampiri dello spazio. Dalla mia teoria si può dedurre che esistono certe creature capaci di assorbire la linfa vitale di altre creature simili, o meglio, le loro forze vitali. Sono convinto che questo è il significato delle vecchie leggende sui vampiri, Dracula, eccetera. Anche voi, capitano, avrete notato come certe persone sembrano svuotare altri della loro vitalità. Di solito si tratta di persone piagnucolose, che passano il tempo a compiangersi. Anche queste sono vampiri.

— Ma la vostra teoria si applica a tutti gli esseri viventi? Siamo tutti vampiri?

— Questa è la domanda più affascinante di tutte. Avete visto i conigli, e come il loro campo vitale vibrava in armonia? È così perché fra loro esiste attrazione fisica. Quando questo succede, un campo vitale può in effetti rinforzare l’altro. Eppure le mie ricerche dimostrano senza ombra di dubbio che la relazione sessuale contiene anch’essa un forte elemento di vampirismo. Ne ho avuto i primi sospetti quando ho cominciato a studiare il caso di Joshua Pike. Lo ricordate? Il sadico di Bradford. Certi giornali l’hanno infatti chiamato il vampiro. E lo era. Beveva il sangue e mangiava brandelli di carne delle sue vittime. Sono andato a visitarlo in prigione, e durante le nostre lunghe conversazioni mi ha detto che quelle azioni cannibalesche gli procuravano un’estasi che durava varie ore. Gli ho misurato il campo lambda mentre mi raccontava questi particolari, e il livello aumentava del cinquanta per cento solo per effetto dei ricordi.

— Anche i cannibali… — L’attenzione di Carlsen era talmente concentrata sulle parole della scienziato, che il capitano rovesciò un po’ di whisky sul dattiloscritto. Asciugò i fogli con la manica, e riprese: — I cannibali hanno sempre sostenuto che mangiare la carne dei propri nemici consentiva loro di assorbirne le qualità, il coraggio, la forza e così via.

— Esatto — disse Fallada. — È un esempio di quello che io definisco vampirismo negativo. Il suo scopo è la totale distruzione della vittima. Ma nei casi che coinvolgono il sesso, c’è un vampirismo positivo. Quando un uomo desidera una donna, indirizza le sue forze psichiche verso di lei, come raggi, cercando di conquistarla, di ottenere la sua sottomissione. Certo, la stessa cosa fa una donna nei confronti di un uomo. — Rise. — Una delle mie assistenti di laboratorio, per esempio, è un soggetto ideale a sostegno di questa teoria. È un’autentica divoratrice d’uomini. Non è colpa sua. Fondamentalmente è una ragazza mite, generosa e servizievole. Una certa categoria di uomini la trova irresistibile. Le si appiccicano come mosche alla carta moschicida. — Fallada indicò il dattiloscritto che Carlsen, aveva posato sulla scrivania. — Ho registrato lì le misurazioni del suo campo lambda. Rivelano che questa ragazza è un vampiro. Ma questo tipo di vampirismo sessuale non è necessariamente di natura distruttiva. Ricordate le vecchie barzellette sui matrimoni ideali fra sadici e masochisti? Fondamentalmente dicono la verità.

Dal teleschermo venne un richiamo. Era l’assistente del dottor Fallada, Norman Grey. — Hanno mandato il cadavere — disse. — Comincio con le analisi o aspetto voi?

— Aspettate, vengo subito. — Fallada si rivolse a Carlsen. — Ora potrete vedere il mio metodo in pratica.

Nel corridoio, si fecero da parte per lasciar passare due inservienti che spingevano un carrello. Passando, i due uomini salutarono Fallada.

Nel laboratorio, Norman Grey stava osservando con una lente d’ingrandimento la faccia della ragazza uccisa.

Su uno sgabello stava seduto un tale di mezz’età, calvo, che al loro ingresso si alzò. Fallada lo presentò a Carlsen. — Il sergente investigativo Dixon, della Scientifica. Il capitano Carlsen… Come mai siete qui, sergente?

— Ho un messaggio per voi da parte dell’alto Commissario. Dice che non è il caso di darsi troppo da fare. Siamo quasi certi di sapere chi è stato — disse il sergente, e indicò il cadavere della ragazza.

— Come ci siete arrivati?

— Siamo riusciti a prendere le impronte digitali dal collo della vittima. — Carlsen si avvicinò di un passo alla ragazza e la osservò. La faccia era graffiata, e sul collo c’erano i segni della pressione di dita. Il lenzuolo tirato indietro scopriva una specie di grembiule azzurro.

Fallada chiese: — È un criminale abituale?

— No, signore. È quel Clapperton…

— Il corridore automobilistico?

Carlsen chiese: — Don Clapperton?

— Proprio lui, signore.

Fallada si rivolse a Carlsen: — Risulta scomparso nel centro di Londra la sera di martedì. — A Dixon chiese: — L’avete trovato?

— Non ancora, ma non ci metteremo molto.

Norman Grey chiese a Fallada: — Volete ancora continuare con l’analisi?

— Oh, direi di sì. Tanto per fare un controllo. — Si rivolse a Dixon: — Ditemi un po’, a che ora Don Clapperton è stato visto l’ultima volta?

— È uscito di casa alle sette di sera per andare a una festa di bambini a Wembley. Doveva distribuire alcuni premi. Ma non è mai arrivato. Due ragazzi dicono di averlo visto verso le sette e mezzo in Hyde Park in compagnia di una donna.

Fallada disse: — E questa ragazza sarebbe stata uccisa da lui a Putney, circa otto ore più tardi?

— Così sembra. Può darsi che Clapperton abbia avuto una crisi. Forse ha perso la memoria e ha girovagato per ore…

Fallada chiese a Carlsen: — A che ora è fuggito il vostro vampiro femmina dall’Istituto Ricerche?

— Verso le sette. Credete che…

Fallada alzò una mano per interromperlo. — Non crederò niente finché non avrò esaminato il cadavere — disse, e si rivolse a Grey. — Norman, vorrei mostrare al capitano Carlsen come facciamo la prova dell’energia vitale negativa. Volete preparare l’apparecchiatura sul cadavere dell’uomo?

Dixon disse: — Ora vi lascio, signori. L’Alto Commissario ha detto che sarà in ufficio fino alle sette.

— Grazie, sergente. Gli farò sapere i risultati.

Il corpo dell’uomo era ancora sul carrello vicino alla porta, ed era stato coperto con un lenzuolo.

Grey spinse il carrello verso l’altra estremità del laboratorio, dove c’era una porta che dava su un piccolo locale adiacente. Entrarono. Là dentro c’era solo una specie di banco. Dal soffitto pendeva un apparecchio che ricordò a Carlsen quello dei raggi X. Aiutato da Carlsen, Grey trasferì il corpo dell’uomo sul banco, poi tolse il lenzuolo e lo buttò sul carrello. La carne giallastra sembrava gomma. Il segno violaceo lasciato dalla corda era ben visibile sul collo. Un occhio era semiaperto. Grey lo chiuse con un gesto macchinale. Alla parete dietro il banco era appeso un grande misuratore di campo lambda, la cui scala era calibrata in milionesimi di ampere. Di fianco al misuratore c’era un monitor.

Grey applicò l’estremità di un filo al mento dell’uomo, e ne applicò un altro, a pinza, alla carne molle di una coscia. L’indicatore scattò in avanti. Grey disse: — Zero virgola quattro… Ed è morto da quasi quarantotto ore…

Fallada osservò il contatore lambda, anche quest’uomo è morto di morte violenta.

— Sì, ma di sua mano. Non è come venire aggrediti e strangolati.

— Può darsi. Adesso proviamo a infondergli un campo vitale artificiale con l’apparecchiatura Bentz. State attento. — Girò un interruttore. Dall’apparecchio sospeso sopra il corpo piovve un raggio di luce azzurra accompagnata da un suono in crescendo che in breve superò il campo dell’udibile. Dopo circa un minuto la lancetta cominciò a salire lentamente. Dopo sette minuti era arrivata a 10,3, una misurazione leggermente più bassa di quella che si sarebbe ottenuta su un corpo vivente. Sul 10,3 la lancetta vibrò, poi non si mosse più. Fallada disse: — Più di così non salirà. — Spense l’apparecchio e la luce svanì.

Fallada indicò l’ago che era rimasto sul dieci virgola tre: — Adesso il campo si indebolirà gradualmente — disse — ma ci vorranno almeno dodici ore prima che tutta la vitalità artificiale che gli abbiamo infuso si disperda, nonostante sia già iniziato il processo di decomposizione.

Grey staccò i fili dal cadavere. Trasferirono il morto nell’altro laboratorio e pochi minuti dopo tornarono con il corpo della ragazza trovata lungo la linea ferroviaria di Putney. La misero sotto l’apparecchio lambda e tolsero il lenzuolo che la copriva.

Sotto il grembiule azzurro la ragazza indossava una gonna di lana. Un paio di collant le pendeva da un piede.

Carlsen chiese: — Si sa chi era?

— Faceva la cameriera in un piccolo ristorante aperto tutta notte. Abitava a poche centinaia di metri dal posto di lavoro.

Senza esitazioni Grey sollevò la gonna. Sotto, la ragazza era nuda. Carlsen notò graffi e lividi sulle cosce. Grey applicò un elettrodo alla parte interna di una coscia, e un altro al labbro inferiore. Fallada si protese in avanti.

Di colpo, Carlsen si rese conto di trattenere il respiro. La lancetta del misuratore salì lentamente, e si fermò a 0,002. Grey disse: — È diminuita di duemila millampère in sette ore.

Fallada allungò una mano e girò l’interruttore. Dall’alto cadde la luce azzurra. Quando il brusio dell’apparecchio cessò, nella stanza il silenzio fu assoluto. Lentamente, come la lancetta dei secondi di un orologio, l’ago salì fino a 8,3. Dopo un altro minuto fu evidente che l’ago non sarebbe salito oltre. Fallada spense l’apparecchio. Quasi immediatamente l’ago del misuratore cominciò a scendere. Fallada e Grey si scambiarono un’occhiata. Carlsen notò che Grey stava sudando.

Fallada si rivolse a Carlsen. Gli disse a voce bassa: — Capite, ora?

— Non ne sono sicuro.

— Ecco: fra dieci minuti avrà perso tutto il campo lambda artificiale, la vitalità artificiale che le abbiamo infusa. Non riesce a trattenerla.

Osservando la lancetta, Grey commentò: — Ne ho visti tanti di campi con dispersioni, ma mai niente di simile.

— E che cosa significa? — chiese Carlsen.

Fallada si schiarì la voce. Rispose: — Significa che chiunque sia stato a ucciderla — rispose — le ha succhiato la vita in modo così violento da distruggere la sua capacità di trattenere per un po’ un campo vitale artificiale. Questo cadavere è paragonabile a un pneumatico con centinaia di fori: impossibile che tenga l’aria.

Carlsen si accorse che gli ci voleva un certo sforzo per fare la domanda successiva. Chiese: — Siete sicuro che non ci sia un’altra spiegazione?

Fallada rispose, cupo: — Non ne conosco altre.

Seguì un breve silenzio. Poi Grey chiese: — E adesso, cosa succederà?

Fallada disse: — Adesso credo che ricomincerà la caccia. — Mise una mano sul braccio di Carlsen. — Torniamo nel mio ufficio.

Grey gli chiese: — Io cosa devo fare?

— Continuate con le analisi. Sarebbe interessante sapere se la pressione sul collo è bastata a ucciderla.

Tornati nell’ufficio, Carlsen riprese il suo bicchiere mezzo vuoto. Fallada si lasciò cadere nella poltrona davanti alla scrivania, e premette il tasto del teleschermo. Una voce femminile disse: — Pronto.

— Chiamatemi Sir Percy Heseltine, a Scotland Yard.

Si rivolse a Carlsen:

— Era da prevedere. Devo ammettere che provo una specie di sinistra soddisfazione nel constatare che era proprio come avevo immaginato.

— Ne siete proprio sicuro? Io ho visto il cadavere del giovane Seth Adams. Lei lo ha assorbito, gli ha preso tutta la vita, non so come dire, e l’ha ridotto come un vecchio. Avete visto quel cadavere? — Fallada annuì. — Invece questa ragazza non è affatto ridotta in quel modo. A me sembra che sia rimasta vittima di una normale aggressione di carattere sessuale. Non potrebbe esserci davvero un’altra spiegazione per il curioso comportamento del suo campo vitale?

Fallada scosse la testa. — No. State a sentire. Prima di tutto, non è questione di curioso comportamento. Qui si tratta di porosità o rottura di quel certo non so che, che mantiene il campo vitale, che lo contiene. Non si sa esattamente cosa sia. Vi assicuro di conoscere fior di biologi convinti che l’uomo possiede un corpo immateriale, astratto, oltre al corpo fisico, e che il campo vitale è una funzione degli atomi di questo corpo, come il magnetismo è una funzione degli atomi di un magnete. Pensate alla polpa di un’arancia. Il succo è racchiuso in minuscole celle…

Suonò il telefono. La voce della segretaria disse: — Dottor Fallada, Sir Heseltine è fuori sede. Si trova a Wandsworth. Ma tornerà entro un’ora.

— Benissimo. Lasciate detto che sarò da lui fra un’ora. Dite che è importante. — Fallada tornò a rivolgersi a Carlsen: — Dunque, a che punto eravamo?

— All’arancia.

— Ah, sì. Stavo per dire che, se lasciamo seccare un’arancia e poi la mettiamo a macerare nell’acqua per un giorno, riprende la sua forma primitiva. Ma se la schiacciamo, se spremiamo l’arancia e ne togliamo il succo, niente può più farla tornare come prima. Rotte le celle che contengono il succo, non si può più far niente. Succede lo stesso con il corpo umano. Se uno muore di morte naturale, il campo vitale impiega vari giorni a disperdersi. Anche se si tratta di morte violenta, ci vuole ugualmente un po’ di tempo, perché la maggioranza delle celle sono rimaste intatte. In questi casi il cadavere è come un’arancia con una brutta ammaccatura, ma per la disidratazione ci vogliono parecchi giorni. Ora, la struttura cellulare di quella ragazza è stata distruttà come le celle di un’arancia dallo spremitore. Niente che rientri nella norma può avere provocato un fenomeno simile. Avrebbe dovuto morire bruciata, carbonizzata, o essersi buttata dall’ultimo piano di un grattacielo… — Si interruppe e andò a versare nei bicchieri altro whisky. — O essere stata fatta a pezzi dalle ruote di un treno.

— Un treno, stritolandola, avrebbe distrutto la struttura?

— No, la mia era una battuta. Ma sono convinto che in quel caso nessuno si sarebbe preso il disturbo di misurare il campo lambda. — Si avvicinò a Carlsen porgendogli il bicchiere. — Su, beviamo. Dobbiamo tirarci su di morale.

Carlsen prese il bicchiere senza fare obiezioni. Sebbene avesse già bevuto due whisky si sentiva assolutamente sobrio, senza nemmeno un inizio di euforia.

Fallada disse: — Ditemi una cosa. Credevate proprio che quella aliena fosse morta?

Carlsen scosse la testa. — No, non lo credevo. Se volete sapere la verità, mi rifiutavo di crederlo. — Sentì di arrossire mentre lo diceva. Di nuovo gli era costato uno sforzo dire quello che pensava.

Se Fallada rimase sorpreso, non lo dimostrò. — Era tanto affascinante?

Carlsen sperimentò di nuovo quel muro di resistenza che gli bloccava le parole. Restò in silenzio a lungo. Alla fine disse: — È difficile da spiegare.

— Direste, per esempio, che possedeva una specie di potere ipnotico?

Carlsen si irritò con se stesso nel sentirsi tanto a disagio. Disse, quasi balbettando: — Ecco… è difficile… Voglio dire che è… è strano trovare tanto difficile parlarne.

Fallada disse subito: — Ma è importante parlarne. C’è qualcosa che devo capire.

— Va bene. — Carlsen deglutì a vuoto. — Ricordate la poesia del Pifferaio Magico di Hamelin?

— Non ricordo la poesia, ma conosco la favola. E capita che mia madre sia nata proprio ad Hamelin.

— Dunque, nella poesia, il pifferaio suona il suo piffero magico, e tutti i bambini lo seguono fin dentro una montagna. Lo seguono tutti contenti. Soltanto uno resta indietro perché è zoppo, descrive quello che la musica sembrava promettere… non ricordo le parole esatte… un paese felice dove tutto era nuovo e strano. Un posto ideale, meraviglioso, dove le torte pendono dagli alberi e i fiumi sono fatti di panna montata… — Bevve un sorso di whisky sentendo il calore secco ardergli le guance e le orecchie. — Ecco, com’era.

— Potete descrivermi quello che lei sembrava promettere?

— Be’, niente. Niente in quel senso, voglio dire… Ma era la stessa sensazione… si aveva la visione di… della donna ideale, se così si può dire.

— Quello che Goethe definisce “Ewigweibliche”, l’eterno femminino? Il suo “Faust” termina dicendo: “L’eterno femminino ci trae verso l’altro”.

Carlsen annuì. Adesso sentiva una strana sensazione di sollievo. — Ecco, proprio così. Forse Goethe ha incontrato una donna come quella. È un sogno che da ragazzi si fa. Guardiamo le amiche delle nostre sorelle e pensiamo che siano dee… Ma quando siamo un po’ più grandi ci accorgiamo che non è così. La realtà distrugge l’illusione…

Fallada disse a voce bassa: — Il sogno però rimane…

— Sì, il sogno. È per questo che non posso crederci. I sogni non muoiono così.

— C’è però una cosa che dovete ricordare… — Aspettò che Carlsen alzasse lo sguardo dal bicchiere, poi aggiunse: — Quella creatura non era una donna.

Carlsen fece un gesto di protesta, e Fallada continuò in fretta: — Voglio dire che quegli esseri sono completamente diversi da tutto quello che noi consideriamo umano.

Quasi risentito, Carlsen disse: — Ma sono umanoidi!

Fallada ribatté: — No, nemmeno quello. Dimenticate che il corpo umano è una macchina ad alta precisione sviluppatasi per adattamento. Duecentocinquanta milioni di anni fa eravamo pesci. Abbiamo sviluppato braccia e gambe e polmoni per vivere sulla Terra. C’è una probabilità su un milione che esseri di un’altra galassia possano avere avuto un’evoluzione simile alla nostra.

— A meno che le condizioni del loro pianeta siano state simili a quelle della Terra — disse Carlsen.

— Non ci conterei troppo. Il rapporto patologico dei corpi dei tre esseri dimostra che il loro sistema digestivo è identico a quello degli esseri umani.

— Ma allora…

— Ecco, loro vivono assorbendo la vita di altre creature. Non hanno bisogno di cibo.

— Ammettiamo che sia così, ma… non so… Non ne sappiamo gran che, vero? Non sappiamo quasi niente su quegli esseri, niente di preciso.

Con tono paziente, come un professore che si rivolge a uno studente che non capisce, Fallada disse: — Qualche dato di fatto l’abbiamo. Per esempio, siamo quasi certi che la ragazza trovata morta lungo la ferrovia è stata uccisa da uno di loro, siano quel che siano. Sappiamo inoltre che le impronte digitali trovate sul suo collo appartengono a un uomo che si chiama Don Clapperton. — Carlsen non disse niente, e Fallada proseguì: — Abbiamo quindi due ipotesi possibili: o Clapperton ha agito obbedendo ai vampiri, o uno dei vampiri si era impossessato del suo corpo.

Era quello che Carlsen si era aspettato, e tuttavia si sentì correre un brivido per la schiena e i capelli gli si rizzarono sulla nuca. Fece per dire qualcosa, ma gli mancò la voce. Il cuore gli batteva forte.

Fallada disse in tono pacato: — Sappiamo entrambi che questo è possibile, nel qual caso è anche possibile che quegli esseri siano indistruttibili. Questo però non significa che non possano commettere errori. Per esempio…

Il richiamo del teleschermo l’interruppe. Premette il tasto di risposta. La voce della segretaria disse: — L’Alto Commissario Heseltine desidera parlavi, dottor Fallada.

— Passatemelo.

Carlsen era seduto dall’altra parte della scrivania e non poté vedere la faccia di Heseltine quando apparve sul teleschermo. La voce era secca, il tono militaresco.

— Hans, meno male che ti trovo. Ci sono novità. Abbiamo trovato l’indiziato.

— Il campione automobilistico?

— Sì. Sono appena andato a vederlo.

— È vivo?

— Sfortunatamente no. L’ho visto all’obitorio di Wandsworth. Il suo corpo è stato ripescato dal Tamigi qualche ora fa.

— Allora non hanno ancora fatto l’autopsia?

— Non ancora. Ma a me sembra un evidente caso di suicidio dopo il delitto. Dal nostro punto di vista, il caso è chiuso.

Fallada disse: — Percy, vorrei vedere il cadavere.

— Sì, certo. Hai… hai qualche motivo particolare?

— Sono pronto a scommettere che non è morto annegato.

— Perderesti. Ho visto pompargli l’acqua dai polmoni.

Fallada scosse la testa, incredulo. — Ne sei sicuro?

— Sicurissimo. Ma perché… Hans, non capisco.

— Vengo lì da te. Ci sarai ancora fra mezz’ora?

— Sì.

— Porto con me il capitano Carlsen.

Fallada chiuse la comunicazione. Si alzò, passandosi una mano sugli occhi e sospirando.

— Sapete una cosa? — disse. — Io sono ancora pronto a scommettere che era già morto prima di finire nel fiume. — Andò a guardare dalla finestra, le mani affondate nelle tasche della giacca. — Quando è arrivata la chiamata, stavo per dire che hanno sbagliato a scegliere Clapperton. Era troppo conosciuto, e quindi non poteva essere utile a loro. Hanno dovuto ucciderlo.

— Forse avete ragione — disse Carlsen.

— Può darsi — brontolò Fallada. — Andiamo, adesso. — Premette un pulsante e disse alla segretaria: — Fatemi trovare un tassi all’uscita fra cinque minuti, per favore. E dite a Norman che fra poco gli arriverà un altro cadavere da esaminare.

L’ascensore impiegò venticinque secondi ad arrivare al pianterreno, circa millecinquecento metri più in basso. Con quegli ascensori ad alta velocità non si aveva la sensazione del movimento, si provava solo un leggero senso di leggerezza.

Fallada rimase silenzioso, la testa bassa.

Quando uscirono dall’Istituto, l’aria dell’esterno li avvolse come acqua calda. Era primavera ma sembrava una giornata estiva. Gli uomini erano senza giacca, le donne sfoggiavano i nuovi vestiti alla moda: stoffa trasparente e biancheria variopinta. L’aria quasi festosa della gente rendeva difficile credere all’esistenza dei vampiri.

Il piccolo tassi a batterie era già in attesa. Altri andavano e venivano. Carlsen stava per chiudere lo sportello quando udì la voce del robot giornalaio gridare: — Novità sensazionali sulla “Stranger”! Ultime notizie! — Il cartello con la scritta al neon diceva: — Un astronauta descrive la “Mary Celeste” dello spazio!

Carlsen infilò una moneta nella macchina e prese una copia dell’“Evening Mail”.

Sulla prima pagina c’era la foto di Patricia Wolfson, la moglie del Comandante della “Vega”. La donna teneva due bambini per mano.

Nel tassi Fallada si protese in avanti cercando di leggere da sopra la spalliera. Carlsen disse: — Pare che Wolfson sia salito a bordo della “Stranger”.

Fallada tornò ad appoggiarsi allo schienale. — Leggete a voce alta, per favore.

Carlsen lesse: — Un’ora prima di ricevere l’ordine di sospendere l’esplorazione della “Stranger”, il Comandante Derek Wolfson è entrato con altri tre astronauti nella cabina di comando dell’astronave sconosciuta. Ce l’ha rivelato oggi in un’intervisa esclusiva Patricia Wolfson, moglie del Comandante. La signora Wolfson e i due bambini hanno passato cinque ore al centro comunicazioni della base lunare, e la moglie del Comandante ha potuto parlare con lui, che era a bordo della nave spaziale “Vega”, a oltre quattrocento milioni di chilometri di distanza. In un messaggio televisivo di otto minuti e mezzo, il capitano Wolfson ha descritto come la sua squadra era entrata nell’astronave misteriosa passando da un grande squarcio aperto nello scafo. Questo squarcio non esisteva ancora quando la “Stranger” è stata esplorata parzialmente per la prima volta lo scorso novembre dal capitano Carlsen, Comandante della “Hermes”, e dai suoi uomini. “Se quello squarcio fosse stato fatto qualche metro più in là”, ha dichiarato il Comandante Wolfson, “tutto il ponte di comando sarebbe stato distrutto”. Secondo il dottor Werner Hass, fisico della spedizione, gli strumenti della cabina di comando dimostrano che i costruttori della “Stranger” possedevano una tecnologia molto più avanzata di qualsiasi scienza tecnologica attualmente conosciuta sulla Terra. Il Comandante Wolfson ha detto inoltre che la cabina di comando non aveva riportato danni, ma che carte e mappe stellari erano sparse sul pavimento. “La cabina” ha detto il Comandante “sembrava che fosse stata abbandonata solo da mezz’ora.” Però non ha trovato tracce di esseri viventi. Wolfson ha detto a sua moglie che l’astronave abbandonata gli ricordava il mistero della “Mary Celeste”. I documenti trovati nella cabina sono stampati su fogli pesanti, simili a carta cerata. Questo di per sé potrebbe fornirci un indizio sulla galassia da cui l’astronave è partita. Wolfson e i suoi erano nella cabina di comando della “Stranger” già da un’ora, quando la “Vega” ha ricevuto dalla base lunare l’ordine di sospendere l’esplorazione del relitto a causa del pericolo di radiazioni. Il nostro corrispondente…

Carlsen piegò il giornale e lo passò sopra le spalle. — Tenete. Se volete continuare…

Fallada disse: — Mi chiedo chi gli abbia dato il permesso di iniziare l’esplorazione.

— Probabilmente nessuno. Wolfson non è tipo da aspettare permessi.

L’autista del tassi disse: — Meglio il mio, d’un lavoro…

Decisero che era meglio sospendere la conversazione. Restarono in silenzio, riflettendo. Carlsen ripensava agli splendidi dipinti sulle pareti della “Stranger” e alle immense colonne, e si chiedeva come avrebbe potuto descrivere quelle meraviglie a Fallada.

— La “Mary Celeste” dello spazio! — disse a un tratto Fallada. — Ci mancava quest’altra trovata giornalistica!

— Speriamo che non attacchi — commentò Carlsen.

Entrati a New Scotland Yard vennero riconosciuti dal sergente di servizio.

— Il Commissario vuole che andiate subito da lui — disse il poliziotto. — Conoscete la strada, vero?

Sir Percy Heseltine li stava aspettando. Indossava abiti civili, ma pareva che fosse in uniforme. Era alto, robusto e calvo.

— Percy, questo è il Comandante Carlsen — disse Fallada.

Il Commissario strinse con forza la mano di Carlsen. — Sono felice che siate venuto, Comandante. C’è un messaggio per voi. Ha chiamato Bukowsky, dell’Istituto Ricerche Spaziali, e vuole che vi mettiate subito in contatto con lui.

— Grazie. Da dove posso chiamarlo?

Heseltine gli indicò un teleschermo visibile da una porta aperta. — Usate quello della mia segreteria. Nell’ufficio non c’è nessuno.

Carlsen non si preoccupò di chiudere la porta. Intuiva che qualsiasi cosa Bukowsky gli avesse detto avrebbe riguardato tutti e tre.

Un minuto dopo arrivò la voce e l’immagine di Bukowsky. Sembrava preoccupato e irritato.

— Olaf, finalmente vi trovo. È un’ora che vi cerco.

— Ero con il dottor Fallada.

— Sì, l’ho saputo. Avete letto i giornali?

— Ho visto che il capitano Wolfson è stato sulla “Stranger”.

— Capitano! Potrà ritenersi fortunato se si ritroverà tenente! E quell’idiota di sua moglie… Non so come sia venuto in niente a Zelensky di farla entrare nella base lunare. E adesso, come se non bastasse, abbiamo un altro problema. Il Ministro dello Spazio mi ha appena detto che bisogna esplorare immediatamente la “Stranger” centimetro per centimetro.

— Ditegli di andare a farsi fottere.

— Ci penserò. Ma perché?

— Perché il dottor Fallada ritiene che i tre extraterrestri non siamo morti.

— Non sono morti? Cosa diavolo state dicendo? Li abbiamo visti, no?

In tono pacato Carlsen disse: — Io credo che il dottor Fallada abbia ragione.

Bukowsky rimase in silenzio con aria pensosa. Poi disse: — Che cosa ve lo fa pensare?

— Quello che ho visto oggi nel suo laboratorio. Se vedeste, sareste convinto anche voi.

— Ma se non sono morti, dove sono?

— Non lo so. Perché non lo chiedete al dottor Fallada? — Carlsen chiamò Fallada con un cenno. Lo scienziato si avvicinò e si mise in modo da venire inquadrato dalla telecamera.

— Salve, Bukowsky — disse. — Carlsen ha ragione. Possiamo parlare senza timore di essere ascoltati da altri?

— Nessun timore. Questo apparecchio ha una speciale schermatura. Dite dunque, come possono essere ancora vivi quegli extraterrestri? Intendete che possono esistere anche senza corpo?

— Per un certo periodo, sì.

Bukowsky chiese subito: — Come fate a saperlo?

— Deduzione.

— Volete spiegarvi meglio?

— Certo. Quando ho ascoltato la registrazione del rapporto fatto da Carlsen sul suo incontro con la ragazza, ho subito dubitato che fosse morta. Se era un soggetto dominante, come risulta dalle parole del capitano, avrebbe dato filo da torcere a qualsiasi maniaco sessuale. — Dal teleschermo Bukowsky fece un cenno d’assenso. Evidentemente aveva pensato la stessa cosa. — Mi sono chiesto allora se la ragazza non avesse attirato un uomo nel parco e non si fosse in qualche modo impossessata del suo corpo. Ho fatto quindi un paio di prove sul suo corpo per vedere se il campo vitale era ancora intatto. Non era così. Non mancava completamente, come nel caso di Seth Adams, ma era molto basso, basso in maniera anormale. Questo mi ha fatto avanzare l’ipotesi che la ragazza fosse ancora viva e nel corpo di un uomo. Ma c’era il problema di quello che era successo a Clapperton. Ne siete al corrente? — Bukowsky fece segno di sì. — Bene. Come sapete, Clapperton è scomparso circa mezz’ora dopo la fuga della ragazza dall’Istituto Spaziale, cioè più o meno nello stesso momento in cui all’Istituto si è scoperto che gli altri due alieni erano morti. Clapperton è stato visto l’ultima volta in Hyde Park, con una donna che dalla descrizione potrebbe essere stata l’extraterrestre. Ma tendo a escludere che il corpo di Clapperton interessasse lei direttamente, infatti la ragazza è stata vista in giro diverse ore più tardi. Secondo me, voleva il corpo di Clapperton per uno degli altri due.

— Dunque ritenete che ci sia stata una terza vittima? — chiese Bukowsky.

— Quasi di sicuro. Probabilmente una ragazza, se preferiscono mantenere il loro sesso originale. E adesso ce ne dovrebbe essere una quarta. Lo sapete, vero, che il cadavere di Don Clapperton è stato ripescato dal Tamigi?

— Non lo sapevo — disse Bukowsky, scarsamente interessato.

Carlsen aveva già notato altre volte che, quando Bukowsky si trovava ad affrontare gravi problemi, i suoi modi aggressivi e il suo nervosismo facevano posto a una gran calma, a una freddezza da calcolatore intento a esaminare migliaia di possibilità.

Dopo un attimo di silenzio, Bukowsky disse: — Naturalmente tutto questo dev’essere tenuto nella massima segretezza. Se questa storia trapela, si scatenerà il panico. Ne parlerò col Ministro dello Spazio, e vi richiamerò al più presto possibile. Per il momento, dottor Fallada, credete che sia possibile distruggere quelle cose?

— Ne dubito — rispose Fallada.

Bukowsky fece un sospiro. — Anch’io — disse, e chiuse la comunicazione.

Per un momento nessuno parlò. Poi Carlsen disse: — Temo di aver causato un mucchio di guai.

— Non è colpa vostra — disse Heseltine. — Voi avete fatto solo il vostro dovere. Per fortuna ne avete portati giù solo tre!

Carlsen disse: — Già, può essere una consolazione.

Fallada gli mise una mano su una spalla: — Non prendetevela troppo. Finora siamo stati abbastanza fortunati. Se l’aliena non si fosse tradita uccidendo Adams, a quest’ora starebbero portando sulla Terra tutti gli altri. E se io non avessi fatto la misurazione del campo lambda al cadavere di quella extraterrestre, adesso saremmo tutti convinti che quei tre sono morti. Le cose sarebbero potute andare molto, molto peggio.

— Ma il guaio è che voi credete che quegli esseri siano indistruttibili — disse Carlsen.

Sir Percy disse: — Andiamo nel mio ufficio. Ho ordinato tè e panini. Non so voi, ma io ho una gran fame.

Carlsen si rese conto di essere affamato anche lui. Forse la sua depressione era dovuta in parte al fatto di avere lo stomaco vuoto.

Fallada prese un sigaro dalla scatola che c’era sulla scrivania e disse: — Non ho affermato che sono indistruttibili. Non c’è modo di esserne certi, al momento. Ma abbiamo un certo vantaggio. Per esempio: sappiamo che ci sono in circolazione tre omicidi, e gli omicidi lasciano tracce e indizi dietro di sé, come abbiamo visto.

Bussarono alla porta ed entrò una ragazza spingendo un carrello con tè e panini appena preparati. Mentre mangiava, Carlsen sentì tornare il suo ottimismo. Disse: — Be’, il danno che quelli possono fare sarà pur sempre inferiore a quello degli incidenti stradali.

Heseltine disse: — Lo spero bene! Il numero di incidenti mortali raggiunge la media di quarantanove al giorno. — Poi premette un tasto del teleschermo. — Mary, chiamate il Coordinatore Urbano, per favore. Oggi dovrebbe essere Philpott.

Quando la comunicazione arrivò, lo sentirono dire: — Buona sera, ispettore. Vorrei che mi faceste un favore. Ricordate la ragazza trovata lungo la ferrovia vicino a Putney? Pare che si tratti di omicidio. Vorrei che raccoglieste tutti i rapporti su casi simili riscontrati in Inghilterra. Chiunque morto all’improvviso, senza una causa ben chiara. Date disposizioni a ogni ufficio di polizia del paese. Ma non voglio che si scateni il panico. Se la stampa ne venisse a conoscenza, rispondete che si tratta di una inchiesta per la raccolta di dati statistici. E desidero che il mio ufficio venga immediatamente informato di ogni caso del genere, a mano a mano che le notizie arrivano dalle varie province. D’accordo? C’è un pazzo in circolazione, e bisogna catturarlo al più presto. Inoltre… tenete conto che potrebbe avere una complice. Tutto chiaro? — e senza aspettare risposta chiuse la comunicazione. — E una cosa è fatta — disse, rivolto agli altri. — Ci saranno squadre speciali incaricate dell’indagine, il che naturalmente metterà la stampa sull’avviso.

— Non credo che sarebbe poi un gran male — disse Fallada. — Il capitano Carlsen dice che quelle creature non possono distruggere nessuno senza che la vittima sia consenziente. Se lo rendessimo noto, non ci dovrebbe essere motivo di panico. E il pubblico collaborerebbe alla caccia.

— Vero. Ma non credo che questa decisione tocchi a noi. Dovrebbe essere presa a livello ministeriale. — In quel momento suonò il videofono. Heseltine premette un pulsante. — Pronto.

— Pronto, Sir Percy. C’è Carlsen?

Era Bukowsky. Carlsen andò davanti all’apparecchio.

Heseltine gli,disse: — Volete andare a parlare nell’altro ufficio?

Bukowsky disse: — No, riguarda anche voi, Commissario. Il Primo Ministro ci vuole tutti a Downing Street appena possibile. Anche il dottor Fallada. Ci sono stati ulteriori sviluppi, a quanto pare.

— Fra quanto dobbiamo essere lì? — chiese Heseltine.

— Il Primo Ministro ha detto al più presto possibile — e Bukowsky chiuse la comunicazione.

Carlsen prese un altro panino. — Non prima che io abbia finito il mio tè — disse.


Whitehall era affollata di impiegati che rincasavano. La giornata finiva stancamente nella luce dorata e l’aria si era fatta pungente. Guardando i passanti Carlsen pensò che ognuno di loro poteva essere uno di quei tre extraterrestri, e la sua frustrazione si acuì per un momento dolorosamente.

Una Rolls Royce li superò all’angolo di Downing Street. Carlsen riconobbe, in uno degli uomini seduti dietro, il Ministro degli Interni, Philip Rawlinson. Quando Heseltine, Carlsen e Fallada arrivarono davanti al numero Dieci di Downing Street, il Ministro stava scendendo dalla Rolls Royce. Vedendo arrivare Heseltine, Rawlinson escalmò: — Oh, Sir Percy, sono felice di vedervi! Conosce già Alex M’Kay, il Ministro dello Spazio? — M’Kay porse la mano a Heseltine. Era piccolo e calvo, con folti baffi rossicci.

Dopo aver stretto la mano a Heseltine, guardò Carlsen da sotto le sopracciglia inarcate. — Il Comandante Carlsen, vero? — disse. — Siete voi la causa di tutti questi guai, se non sbaglio…

Carlsen sorrise, a disagio, e M’Kay gli diede una manata amichevole sulla spalla. — Non prendetevela. Sistemeremo tutto — disse.

Carlsen avrebbe voluto condividere la sua fiducia.

Dentro, una segretaria di mezz’età disse cortesemente: — Il Primo Ministro sarà con loro a momenti. È al telefono.

— No, sono qui. Fate salire. — La figura massiccia del Primo Ministro era comparsa in cima alle scale. — Useremo la sala del Consiglio.

Jamieson era più alto di Carlsen. Un giornalista aveva scritto una volta che aveva la faccia di Abramo Lincoln, la voce di Winston Churchill e l’astuzia di Lloyd George. Quando strinse la mano a Carlsen lo fece con grande energia.

— Sono lieto che siate potuti venire, signori. Prego, accomodatevi. — Posò una mano sulla spalla del dottor Fallada. — Se non mi sbaglio, voi siete il geniale dottor Fallada, l’uomo che viene chiamato lo Sherlock Holmes della patologia.

Fallada fece un breve cenno, senza sorridere, ma evidentemente compiaciuto.

C’era un vassoio con whisky e bicchieri sul tavolo del Consiglio. Senza aspettare che lo invitassero a farlo, M’Kay si servì.

Jamieson si sedette a capotavola, abbassò lo sguardo e per un momento parve immerso in una profonda meditazione.

Nessuno parlava, si udiva solo il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri e il sibilo del sifone del seltz. Poi entrò una segretaria che andò a posare un foglio davanti a ognuno dei presenti. Carlsen lo guardò, si accorse che era a rovescio e lo rigirò. Gli pareva una cartina geografica. Le linee erano vagamente familiari, ma la scrittura era di un genere mai visto prima, e incomprensibile.

— Bukowsky non c’è ancora? — Jamieson aveva appena fatto la domanda che la porta si aprì, e Bukowsky entrò seguito da un uomo grasso, con gli occhiali.

— Ah, bene, ci siamo tutti — disse il Primo Ministro. — Buona sera professor Schliermacher. Siete stato molto gentile a venire.

Schliermacher arrossì, fece un gorgoglio in gola, e disse nervosamente: — Per me è un onore, signor Primo Ministro.

Bukowsky si sedette e cominciò a pulirsi gli occhiali. Vide la mappa sul piano del tavolo, e disse: — Ah, le avete già avute.

— Le ho richieste alla base lunare. Volete passarne una copia al professor Schliermacher? Grazie.

Jamieson diede un’occhiata circolare ai presenti e tossì per richiamare l’attenzione di M’Kay che stava asciugandosi la fronte con il fazzoletto e guardava fuori della finestra.

— Signori — disse il Primo Ministro — credo che adesso ci siamo tutti. Possiamo cominciare. — Si rivolse a Carlsen. — Cominciamo da voi, Comandante Carlsen. Sapete che cosa rappresenta questa carta? — chiese, battendo un dito sul foglio che aveva davanti a sé.

Carlsen disse: — Sembrerebbe una carta della Grecia.

Jamieson si rivolse a Schliermacher. — E voi che cosa ne dite, professore?

Schliermacher parve sorpreso. — Sì, certo, è la Grecia.

— Sapete da dove viene, questa carta?

Carlsen scosse la testa. Jamieson scrutò le facce intorno al tavolo per vedere se qualcuno avesse pronta una risposta. A Carlsen fece pensare a un maestro che sta interrogando gli allievi. Quando il silenzio diventò imbarazzante, Jamieson disse: — È stata trovata nella cabina di comando della “Stranger”.

Dai presenti vennero esclamazioni di sorpresa. Jamieson sorrise, evidentemente soddisfatto dell’effetto che aveva ottenuto.

— I particolari non sono molto chiari — disse. — L’originale ci direbbe molto di più.

Rawlinson disse: — È incredibile!

— Ma vero, come può confermare Bukowsky.

Bukowsky fece segno di sì, senza sollevare lo sguardo dalla carta. Schliermacher stava osservando la sua copia con una lente d’ingrandimento, tutto assorto.

Jamieson chiese: — Sono certo che tutti ci rendiamo conto del significato di questa carta, vero?

Il Ministro degli Interni disse: — Già… che quelle creature conoscono la Terra piuttosto bene…

Jamieson dimostrò una lieve irritazione nel vedersi preceduto. Diede una manata sul tavolo. — Esattamente, signori. Significa che quegli alieni hanno visitato il nostro pianeta in un’altra occasione. — La voce di Jamieson si era fatta vibrante, churchilliana. Si guardò intorno per misurare l’effetto delle sue parole. — L’unica altra possibilità sarebbe che abbiano potuto studiare la Terra attraverso telescopi incredibilmente potenti. Ma posso immaginare anche una terza possibilità. E voi, signori?

Carlsen diede un’occhiata a Fallada che era seduto di fronte a lui. Anche Fallada sembrava confuso e incerto.

Il professor Schliermacher disse all’improvviso. — Ma è assolutamente incredibile!

— Che cosa, professore?

Schliermacher evidentemente era troppo eccitato per poter parlare. Batté il dito sulla carta. — Guardate… Questa è sì la Grecia, ma non la Grecia moderna.

Bukowsky disse seccamente: — Mi pare logico, no? — e ignorò l’occhiata lanciatagli dal Primo Ministro.

Quasi balbettando, Schliermacher riprese: — Non mi sono spiegato. C’è qualcosa di molto strano… Osservate… — Si protese verso Bukowsky. — Sapete che cos’è questa?

— Sembrerebbe un’isola — disse Bukowsky.

— Sì, è un’isola — riprese Schliermacher — ma ha la forma sbagliata… È l’isola di Thera, quella che oggi chiamano Santorino. Su una carta dei nostri giorni avrebbe la forma di una luna crescente. Ha preso questa forma nel millecinquecento a.C. quando è stata squarciata dall’eruzione di un vulcano. Qui l’isola ha la forma originaria. Questa carta, dunque, dev’essere stata fatta prima dell’eruzione vulcanica.

— Volete dire che risale a prima del millecinquecento avanti Cristo? — chiese Jamieson.

— Proprio così. — Il professor Schliermacher era talmente emozionato che non riusciva a stare seduto, gesticolava, e farfugliava quasi. — Ma c’è un’altra cosa, varie altre cose che non riesco a capire… Questa è Knosso, sull’isola di Creta. Questa è Atene. Nessun essere umano di quel periodo può aver fatto una carta come questa… voglio dire, prima del millecinquecento a.C.

Jamieson disse: — Esatto. Nessun essere umano. Ma a quanto pare queste creature hanno potuto, e l’hanno fatto. Direi che a questo punto ci meritiamo un buon brindisi.

Mentre Rawlinson spingeva il vassoio con la bottiglia lungo il tavolo Fallada chiese: — E che cosa dovremmo festeggiare?

Jamieson sorrise con benevolenza. — Signori, avrei dovuto spiegarvi che il dottor Fallada ritiene che quegli esseri siano pericolosi. Per quel che ne so potrebbe anche aver ragione. Ma io sono convinto che questa carta rappresenta una delle maggiori scoperte storiche del nostro tempo. Come forse sapete, io mi considero più uno storico che un politico. Quindi, credo che esista un’ottima ragione per fare un brindisi al Comandante Carlsen che ha scoperto la “Stranger”. — E il Primo Ministro cominciò a riempire i bicchieri.

M’Kay disse: — A me sembra un’ottima idea. Da parte mia ho già dato ordine che la “Stranger” venga esaminata da cima a fondo. — Si rivolse a Bukowsky. — Immagino che si sia provveduto.

Bukowsky arrossì e rispose: — No.

— E perché? — chiese M’Kay, secco.

— Perché sono convinto, come Fallada, che quegli esseri siano pericolosi.

M’kay cominciò: — Sentite un po’…

Fallada intervenne. — Quelle creature sono pericolose. Sono vampiri.

— Anche mia nonna lo era — disse M’Kay in tono di scherno.

Tutti si misero a parlare contemporaneamente. Il Primo Ministro cercò di ristabilire l’ordine.

— Signori, signori! — La sua voce ebbe un effetto calmante. — Non mi sembra che ci sia motivo di accapigliarsi. Siamo qui per discutere il problema e — si rivolse a Fallada — tutti abbiamo il diritto di esprimere il nostro punto di vista. Comunque, dimentichiamo per un momento le nostre divergenze e beviamo alla salute del Comandante Carlsen. — Fallada, sempre accigliato, prese il bicchiere. Jamieson alzò il suo. — Al Comandante Carlsen e alla scoperta che farà epoca!

Tutti bevvero. Carlsen sorrideva imbarazzato. Jamieson disse: — Dovrei aggiungere, Comandante, che questa non è l’unica carta trovata sulla “Stranger”. Quando arriveranno le altre vorrei che il professor Schliermacher esaminasse tutto il materiale.

Schliermacher, tutto rosso, disse con voce roca: — Ne sono molto onorato.

Jamieson rivolse un sorriso a Fallada. — Dottore, ricordate la storia delle carte di Piri Reis? — Fallada scosse la testa. Jamieson riprese: — Allora permettetemi di raccontarvela. Se non sbaglio, Piri Reis era un pirata turco nato intorno all’anno in cui Colombo scoprì l’America. Nel millecinquecentotredici e nel millecinquecentoventotto, Piri Reis disegnò due carte del mondo. La cosa sorprendente, prego tutti di prestare attenzione, è che quelle carte non solo mostravano l’America del nord, quella scoperta da Colombo, ma anche il Sud America, fino alla Patagonia e alla Terra del Fuoco. E quei paesi non erano ancora stati scoperti! Anche i Vikinghi, che arrivarono nell’America del Nord cinque secoli prima che Colombo la scoprisse, non andarono mai oltre l’America Settentrionale. E non è tutto. Le carte di Piri Reis portavano anche la Groenlandia. Niente di strano fin qui, anche i Vikinghi conoscevano la Groenlandia. Ma, in un punto, Piri Reis indicava due baie, due insenature, dove le carte moderne segnano terra. Il fatto incuriosì i geologi, e una spedizione di scienziati andò in Groenlandia a fare misurazioni sismografiche. Così si venne a scoprire che Piri Reis aveva ragione, e che le carte moderne erano sbagliate. Infatti quello che le nostre carte mostravano non era in realtà terra ma uno spesso strato di ghiaccio che ora copre le due baie. In altre parole, Piri Reis aveva indicato la Groenlandia com’era prima che venisse coperta dal ghiaccio, cioè com’era migliaia di anni fa.

Tutti stavano ascoltando attentamente, anche Fallada.

Jamieson continuò: — Noi crediamo che per compilare le sue carte, Piri Reis si sia basato su carte molto antiche, carte antiche forse come questa, anche di più. — Batté col dito sulla carta posata davanti a lui. — E carte come questa non possono essere state tracciate da esseri umani, a quel tempo. La nostra civiltà non era ancora in grado di produrre documenti di questo genere. — Si rivolse a Fallada, chiedendogli, con forza quasi ipnotica: — Non credete possibile che le antiche carte di cui Piri Reis si servì per compilare le sue fossero state fatte dagli stessi alieni che poco fa avete definito vampiri?

Fallada esitò un attimo, poi rispose: — Sì, è possibile.

— Allora è anche possibile che questi alieni abbiano visitato il nostro pianeta almeno una volta, e probabilmente più di una, senza fare danni?

Fallada, Carlsen e Bukowsky si misero a parlare tutti e tre insieme. Fu la voce di Bukowsky a prevalere. — È questo che non riesco a capire. Mi sembra ingiustificato correre tanti rischi. Anche se ci fosse solo una possibilità su un milione che quegli esseri siano pericolosi, non è il caso di rischiare. Sarebbe come portare sul nostro pianeta un germe sconosciuto, di cui si ignorano le caratteristiche.

Rawlinson disse: — Io sono d’accordo su questo.

Jamieson sorrise, imperturbato. — Lo siamo tutti. È per questo che ora stiamo discutendo.

Bukowsky disse: — Potremmo sentire quello che ha da dire il dottor Fallada?

— Certo! — Jamieson si rivolse a Fallada. — Vi prego, dottore.

Sentendosi puntati addosso gli sguardi di tutti, Fallada si tolse gli occhiali e per darsi un contegno si mise a pulire le lenti. Disse: — Ecco, in breve, credo di aver stabilito senza possibilità di dubbio che queste creature extraterrestri sono vampiri… vampiri di energia.

Jamieson lo interruppe. — Scusate se lo dico, ma non c’era bisogno di stabilirlo. Sappiamo tutti quello che è successo a quel giovane giornalista.

Fallada stava chiaramente perdendo la pazienza. Fece un evidente sforzo per dominarsi, e disse: — Non credo che abbiano capito bene quello che intendevo dire. Ho sviluppato un metodo per scoprire se qualcuno è stato ucciso da un vampiro piuttosto che da un omicida di altro genere. Per spiegarmi meglio, ho scoperto un sistema per indurre un campo di vita artificiale, o di artificiale energia vitale, nei corpi di persone morte da poco. Ora, quando un corpo è stato prosciugato da un vampiro, non riesce a mantenere il campo di energia artificiale. È come un pneumatico forato: l’energia entra ed esce subito, non può essere trattenuta. Ecco, vedete…

Esitò un attimo e Jamieson ne approfittò per chiedere: — Quando avete fatto questa scoperta?

— Oh… circa due anni fa.

— Due anni! — esclamò il Primo Ministro. — Stavate già lavorando sul vampirismo da due anni?

Fallada annuì. — Infatti. Ho scritto un trattato su questo argomento.

Fu la volta di M’Kay. — Come avete potuto scrivere sui vampiri, prima di questa storia? Come vi siete documentato? — chiese.

— Il vampirismo è un fenomeno molto più comune di quanto si immagina — disse Fallada. — Esso ha un ruolo basilare in natura, come nelle relazioni umane. Esistono molti predatori che assorbono il campo vitale della loro preda oltre che mangiarne la carne. Gli esseri umani questo lo sanno istintivamente. Non mangiamo forse le ostriche vive? Perché facciamo bollire vive le aragoste? Anche quando mangiamo verdure e frutta, non preferiamo una mela appena colta, una carota appena strappata, a verdura e frutta vecchia o congelata?

M’Kay disse: — Andiamo! Questa mi sembra una sciocchezza. Preferiamo cibi freschi perché hanno miglior sapore, non perché sono vivi.

Rawlinson disse: — Personalmente preferisco la selvaggina frollata.

Carlsen si accorse che Fallada stava davvero per perdere la pazienza, questa volta, e intervenne: — Se permettete, posso spiegare una cosa?

Con la massima cortesia, Jamieson disse: — Anzi, vi prego, Comandante.

— Oggi sono stato nel laboratorio del dottor Fallada — disse Carlsen — e ho visto il cadavere della ragazza trovata sulla linea ferroviaria. Dopo aver assistito a due esperimenti, uno sul suo corpo e uno su un altro cadavere, non mi è rimasto più alcun dubbio sul fatto che quella ragazza sia stata uccisa da un vampiro.

Jamieson scosse la testa, pensoso. Era evidentemente perplesso. — Da cosa vi viene questa certezza?

— Ve l’ho detto. Dall’esperimento del dottor Fallada. Il cadavere della ragazza non riusciva a trattenere il campo di energia vitale artificiale.

— Potete darmi qualche particolare sulla morte di questa ragazza? — chiese Jamieson al Commissario Heseltine.

Heseltine disse: — È stata strangolata, e il corpo è stato gettato sui binari da un ponte, il Ponte di Putney.

Jamieson si rivolse a Fallada. — E un atto di tale violenza non potrebbe avere l’effetto descritto, sul campo vitale della vittima?

— Sì, ma in grado minore. Molto minore.

— Quando è stata uccisa, la ragazza?

Heseltine precisò: — Poco prima delle tre di ieri mattina.

— Non capisco… A quell’ora i tre alieni non erano già morti?

Fallada disse: — Non credo che fossero morti. Io sono convinto che sono ancora in circolazione.

— Ma come…

Fallada riprese: — Io sono convinto che possono impossessarsi del corpo di altre persone. La extraterrestre che è fuggita dall’Istituto non è morta in Hyde Park. Ha attirato un uomo nel parco, si è impossessata del suo corpo, poi ha fatto in modo che sembrasse un omicidio di natura sessuale. Credo che anche gli altri due siano in giro, liberi. Hanno semplicemente lasciato i loro corpi nell’Istituto Spaziale, e si sono impossessati dei corpi di altri.

Seguì un lungo silenzio.

Il Ministro dell’Interno e il Ministro dello Spazio guardavano fisso il piano del tavolo, e si astennero da ogni commento. Jamieson disse: — Dovete ammettere, dottor Fallada, che le vostre affermazioni possono suonare assurde. Quali prove avete a sostegno di questa storia?

Fallada disse: — Non è questione di avere o non avere prove. È questione di logica. Quegli esseri, secondo tutte le apparenze, dovrebbero essere morti. Eppure troviamo cadaveri svuotati d’ogni energia vitale. Questo fa pensare che gli altri non siano affatto morti.

— Quanti cadaveri sono stati trovati?

— Due. La ragazza della ferrovia, e l’uomo che l’avrebbe uccisa, Clapperton.

— L’uomo che l’avrebbe uccisa? — disse il Primo Ministro guardando il Commissario come a chiedergli schiarimenti.

Heseltine spiegò: — La ragazza trovata sulla ferrovia pare che sia stata strangolata da Don Clapperton, il corridore automobilistico. Il dottor Fallada ritiene però che Clapperton fosse invasato da uno di quegli esseri…

— Capisco. Immagino che sia morto anche Clapperton.

— Infatti.

— E il suo cadavere… è anch’esso nelle condizioni di quello della ragazza?

— Non lo sappiamo ancora — rispose Fallada. — L’hanno mandato al mio laboratorio per le prove.

— Quando potremo avere il risultato dell’esame? — chiese Jamieson.

Heseltine disse: — L’ho mandato al laboratorio due ore fa. Forse la prova è già stata fatta.

Il Primo Ministro si rivolse a Fallada. — In tal caso, dottor Fallada, vorreste essere tanto gentile da chiedere quali sono i risultati? — Indicò uno schermo portatile che Rawlinson spinse verso Fallada.

Fallada disse: — Va bene. — Tutti trattennero il fiato mentre lui premeva i tasti dell’apparecchio. Poi si sentì la voce della segretaria, e lo scienziato le disse: — Mi passate Norman, per favore? — Una pausa di mezzo minuto, poi arrivò la voce di Norman Grey.

— Pronto, dottor Fallada?

— Norman, avete ricevuto quel cadavere da Wandsworth?

— Sì, dottor Fallada. Ho appena finito di esaminarlo.

— E il risultato?

— A quanto pare è un normale caso di annegamento.

— Ma la misurazione del campo lambda?

— Perfettamente normale.

— Nessuna differenza?

— Nessuna, dottor Fallada.

— Va bene. Grazie, Norman. — Fallada chiuse la comunicazione.

Il Primo Ministro disse subito: — Sono d’accordo che questo non dimostra niente. Potreste ancora avere ragione, in linea generale, pur avendo sbagliato nel caso particolare. Ma a quanto sembra la vostra teoria adesso si basa su un unico caso, quello della ragazza trovata lungo la ferrovia.

Prima che Fallada avesse il tempo di rispondere, M’Kay disse: — Non vorrei sembrarvi irrispettoso, dottore, ma non può darsi che abbiate concesso al vostro interesse per i vampiri di… di influenzare la vostra capacità di giudizio?

Fallada rispose seccamente: — Lo escludo.

Carlsen si sentì in dovere di spalleggiarlo. — Ammetto che questo risultato è alquanto sorprendente — disse. — Ma non credo che invalidi la teoria del dottor Fallada.

Il Primo Ministro si rivolse a Bukowsky. — Voi cosa ne dite?

Era chiaro che Bukowsky non era affatto sicuro di sé. Evitando di guardare Fallada disse: — Onestamente, non so cosa pensare. Non posso esprimere un giudizio prima di aver esaminato tutte le prove.

Jamieson chiese a Heseltine: — E lei, Sir Percy?

Il Commissario aggrottò la fronte. — Ho il massimo rispetto per il dottor Fallada, e la massima fiducia nella sua competenza.

— Certo, certo. Questo nessuno lo mette in dubbio — disse Jamieson. — Tutti sanno che il dottor Fallada è uno dei più stimati scienziati del nostro paese. Ma anche gli scienziati possono sbagliare. Permettetemi d’essere franco e di dirvi quale teoria mi sento di sostenere, pur senza dogmatismo s’intende. — Fece una pausa, come se aspettasse qualche obiezione. Era un vecchio trucco parlamentare. Adesso tutti erano impazienti di sentire il seguito. — Tutto tende a dimostrare che questi esseri provengono da un altro pianeta o da un altro sistema solare — riprese Jamieson — e che si interessano da tempo alla Terra. Forse sono scienziati che studiano lo sviluppo di altre civiltà. È evidente che la loro specie è molto più antica della razza umana, e di conseguenza la loro conoscenza dell’universo dev’essere molto più avanzata. — Fece un’altra pausa, scrutando i presenti. Carlsen si sorprese ad ascoltare come affascinato quella voce dalle infinite sfumature. Jamieson riprese in tono confidenziale, intimo: — Personalmente ritengo che sia difficilissimo immaginare che una specie arrivata a un alto grado di evoluzione voglia sfruttare, sacrificare, depredare altre creature. Io non pretendo di essere altamente evoluto, ma sono vegetariano perché l’idea di uccidere animali mi ripugna. Per questa ragione mi riesce oltremodo difficile credere che esseri come questi alieni possano essere, per usare le parole del dottor Bukowsky, paragonabili a germi micidiali.

Fallada l’interruppe in tono seccato: — Avreste dovuto vedere il corpo di quel giornalista, dopo che la donna se n’era servita — disse.

Rawlinson scosse la testa. M’Kay guardò il soffitto con l’aria di pensare che stessero discutendo con un idiota. Jamieson rimase imperturbato. In tono grave disse: — Ho visto una fotografia di quel poveretto. Mi rendo conto che l’aliena, a modo suo, l’ha distrutto, e che quindi, secondo le nostre leggi, deve essere considerata un’assassina. Ma ho anche sentito la descrizione del Comandante Carlsen di quello che ha visto succedere in quel locale del laboratorio. Da quanto ha detto, c’è motivo di credere che l’uomo intendesse compiere un atto di violenza carnale. Se è così, l’aliena può aver agito in stato di legittima difesa, legittima difesa quasi inconscia, dato che il giovane l’aveva già aggredita quando lei si è svegliata. Non è così, Comandante Carlsen?

Carlsen ritenne troppo complicato tentare una spiegazione più articolata. Si limitò a rispondere: — Fondamentalmente, sì.

Jamieson si rivolse a Fallada. Puntò un dito, con un gesto che parve di rimprovero. — Voi siete convinto che quelle creature abbiano l’intenzione di distruggere gli esseri umani. Non potrebbe darsi, invece, che abbiano intenzione di aiutarci?

Fallada si strinse nelle spalle, scosse la testa, e non rispose. Il Primo Ministro riprese, in tono persuasivo: — Consentitemi di spiegarmi meglio. Come storico, ho sempre riflettuto sulla rapidità con cui si sono verificati certi cambiamenti. Il destino dell’umanità ha compiuto diverse svolte improvvise, è stato letteralmente trasformato parecchie volte, con l’uso delle armi, con la scoperta del fuoco, dall’invenzione della ruota, dalla costruzione delle città. Non sarebbe dunque possibile che la risposta fosse qui? — Batté con l’indice sulla carta della Grecia. — Non può darsi che questi esseri siano da sempre i segreti mentori dell’umanità?

Questa volta il Primo Ministro fece una lunga pausa fissando Fallada come se chiedesse a lui una risposta.

Fallada si schiarì la voce. — Tutto è possibile — disse in tono ostinato. — Io sto solo cercando di basarmi sui fatti. E un fatto di cui sono certo è che queste creature sono pericolose.

Jamieson annuì. — Benissimo. Allora permettetemi un consiglio. Tutto sommato, il tempo è dalla nostra parte, quindi non c’è bisogno di prendere una decisione immediata. Direi di lasciare il relitto dov’è, è aspettare gli ulteriori sviluppi. Dopotutto, è improbabile che gli capiti qualche guaio, lì dove si trova.

M’Kay borbottò: — Tranne qualche altro bombardamento di meteoriti.

Jamieson replicò: — È un rischio che dobbiamo correre. Propongo che alla fine di questa seduta venga annunciato pubblicamente che l’Istituto di Ricerche Spaziali ha deciso di richiamare la “Vega” e la “Jupiter” per permetterci di studiare i documenti trovati dal capitano Wolfson a bordo della “Stranger”. Questo ci permetterà di rimandare ogni decisione di almeno due mesi.

Diede un’occhiata a Fallada. — Se avete ragione voi, e questi esseri sono ancora in circolazione, entro due mesi lo sapremo. Siete d’accordo?

Fallada, visibilmente sorpreso di essere interpellato per primo, disse: — Sì… sì, certo.

— Siamo tutti d’accòrdo?

In tono polemico, M’Kay disse: — Io no. Sarebbe un enorme spreco di tempo e di denaro richiamare la spedizione. Sono del parere che l’esplorazione dell’astronave debba essere fatta subito.

Jamieson disse, diplomaticamente: — Vorrei poter essere d’accordo con voi. Ma saremmo probabilmente in minoranza. Sono certo che gli altri optano per la massima prudenza, dobbiamo quindi cedere alla decisione della maggioranza.

Si guardò intorno, e tutti risposero con cenno d’assenso. Osservando Fallada, Carlsen capì che aveva la sua stessa sensazione: avevano vinto il tiro alla fune perché gli avversari avevano lasciato andare la corda.

In tono conciliante Jamieson disse. — Dopo tutto, questa spedizione ha già dato risultati eccezionali. Solo questa carta, secondo me, giustifica completamente la spesa sostenuta fino a questo momento. Accettiamo dunque il consiglio del dottor Fallada e procediamo con estrema prudenza. Sono convinto che non lo rimpiangeremo. — Si alzò. — E adesso, signori, vado a informare la Camera della nostra decisione. Dottor Bukowsky, vi sarei grato se vi tratteneste con me. Avrò bisogno di voi per rispondere alle domande che mi faranno. Con voi, Sir Percy, vorrei parlare uri momento delle misure da prendere per rintracciare quegli esseri. E ora, se permettete, signori…


Quando furono in strada, Fallada disse lentamente: — Non capirò mai i politicanti. Sono davvero quei buffoni senza cervello che hanno l’aria di essere?

Carlsen sorrise. — Non lo so. Comunque direi che è arrivato alla conclusione giusta.

— Però, prima o poi, quel relitto vuol farlo portare sulla Terra. Sarebbe un disastro.

— Già, ma ci sta dando tempo.

Fallada sorrise inaspettatamente. Quando sorrideva, la sua faccia subiva una trasformazione: da grave e severa, diventava arguta, canzonatrice. — Noto che avete detto “ci”… Devo ritenere che siete diventato un mio seguace? — chiese.

Carlsen si strinse nelle spalle. — Ho la netta impressione che, qualsiasi cosa succeda, ci troveremo sulla stessa barca.

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